Associazione Italiana dei Professori di Storia della Chiesa

Dizionario Storico Tematico La Chiesa in Italia
Dalle origini all'Unità Nazionale
Roma 2015
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Santuari - vol. I


Autore: Giovanni Liccardo 1

Definizione. Condizione essenziale perché un luogo della memoria sia definito santuario è che sia (o sia stato) meta di pellegrinaggi periodici e istituzionalizzati; questo concetto è ora fissato dal can. 1230 del CJC del 1983, mentre il Direttorio su pietà popolare e liturgia (nn. 261-287) ha distinto i vari santuari e ha delineato la conformità del culto praticato mostrando l’orientamento per armonizzare la pietà popolare con la liturgia.

Secondo una definizione flessibile, un santuario è ogni luogo segnato da “apparizioni” e “miracoli”, oggetto per questo di devozione e di pellegrinaggio; in ogni caso, l’origine e la permanenza del santuario non è determinata dall’autorità, ma dalla pietà popolare e dalla devozione dei fedeli.

Non ogni luogo di culto è un santuario, solo quei luoghi che rispondono alla nozione di “segno memoriale”, dove cioè l’intervento divino si è manifestato personalmente (epifania), o in forma impersonale (ierofania), e sono meta di pellegrinaggi perché in quei luoghi Dio, provvidenzialmente, mediante la Vergine Maria o i santi, interviene operando miracoli a favore dei suoi fedeli. Dunque, non tutte le chiese possono dirsi santuari, soprattutto se non presentano la tomba o le reliquie di un santo e presso di esse non si verifica il pellegrinaggio annuale che costituisce il criterio indispensabile perché si possa definire santuario. Viceversa, possono esserlo i monumenti sacri o le cappelle rurali che – per esempio – conservano all’interno un’immagine creduta miracolosa o vari cicli pittorici cristologici o mariani o relativi alla vita e ai miracoli del santo che vi si venera.

In questi anni le indagini sui santuari si sono intensificate, arricchendosi di notevoli risultanze, espresse soprattutto attraverso ricerche di singoli o di gruppi coagulate intorno a progetti, seminari convegni o workshop svoltisi prevalentemente in Italia, ma anche all’estero. Considerando che la storia di ogni luogo sacro si pone all’intersezione tra la sua specifica identità e il problema generale del rapporto uomo-spazio, l’attuale orientamento degli studi si muove su vari filoni; nel giugno del 1996 l’École française de Rome ha approntato un progetto di ricerca per il censimento dei santuari italiani, con l’adesione e la collaborazione di un grande numero di studiosi e ricercatori delle università italiane sparsi su tutto il territorio nazionale (risultati disponibili sul sito: www.santuaricristiani.iccd.beniculturali.it). Attesa la fecondità di questo nuovo campo d’indagine, ha avuto inizio un dibattito storiografico su complesse questioni collegate al concetto-santuario (identità, funzioni religiose, culturali e sociali).2

Eppure, è ancora difficile arrivare a una tipologia condivisa che coniughi le specificità territoriali con l’analisi storiografica nel rispetto delle dinamiche istituzionali proprie ad ogni singolo caso; se ne può proporre una schematica classificazione: santuari martiriali (che includono santuari sulla tomba; santuari-memoria e/o con reliquie); santuari epifanici/ierofanici (che comprendono complessi cultuali sorti sui luoghi dove si è verificato un evento storico collegato con la vita del santo e santuari eremitici); santuari teofanici (che contano santuari micaelici e santuari mariani); santuari legati a eventi miracolosi tramite elementi naturali e santuari legati alla presenza di reliquie del santo e/o all’inventio miracolosa di oggetti. Un tipo distinto è quello cosiddetto ad instar, ovvero una ricostruzione su modello del prototipo (o anche contenente una semplice replica dell’immagine lì venerata; o una reliquia prelevata da un corpo santo e persino un privilegio di indulgenza simile a quella che si lucra nel santuario prototipo). Nella cristianità occidentale la prassi di costruire santuari ad instar fu inaugurata con un transfert della sacralità dal Santo Sepolcro a Roma: Santa Croce in Gerusalemme costituisce il primo esempio (poi le imitazioni del sepolcro eretto sulla tomba di Gesù Cristo si diffusero ovunque), ancorché il transfert sia legato non alla ricostruzione su modello – l’Anastasis non era stata ancora progettata – ma al trasferimento di terra del Calvario e di reliquie della passione.

Infine, il desiderio di dare ai propri figli morti prematuramente la salvezza dell’anima è all’origine dei santuari del «ritorno alla vita», che gli studiosi francesi hanno chiamato à répit e altri della «doppia morte» o della «morte sospesa». In questi loca sancta compassionevoli cortei portavano i piccoli che non avevano visto la luce, o avevano chiuso gli occhi nei primi istanti di vita senza aver potuto ricevere il battesimo; frequentemente localizzati in luoghi appartati, su alture, in vallette, nei boschi, ma anche in zone collinari, sono rari in Italia (sulle Alpi occidentali la maggiore concentrazione) e di solito dedicati alla Madonna e ad alcuni santi.3

L’età tardoantica e medioevale. L’origine dei santuari risale ai primi secoli del cristianesimo, intrinsecamente connessa al culto dei martiri, per il quale alcuni autori hanno trovato aspetti comuni con gli eroi greci; si riteneva che il santo, ormai in cielo, fosse rimasto “presente” in terra, presso la sua tomba, in questo modo quei monumenti funebri divennero dei santuari, meta di pellegrinaggi e l’autorità ecclesiastica si interessò presto della loro gestione. Allo stesso modo, se la tomba e il santuario edificato su di essa radicavano la memoria del santo in un luogo determinato, la moltiplicazione delle reliquie consentì un’accrescersi virtualmente infinito di luoghi santi non più vincolati all’inamovibilità del sepolcro; concetto sintetizzato nei celebri versi del Carme XIX di Paolino di Nola, composto nel 405 (vv. 342-352). Così, il fenomeno delle reliquie dei santi – ricercate, inseguite, contese, strappate o comperate – assunse, specie nel Medioevo, proporzioni considerevoli (e anche in questo non sono mancate relazioni con i casi di reliquie di eroi greci traslate e custodite gelosamente in luoghi sacri, come la spalla d’avorio di Pelope, venerata ad Olimpia).

Eppure fino a quando proseguirono le persecuzioni i sepolcri dei martiri dovettero avere di solito le caratteristiche di una semplice memoria, un segno, un piccolo monumento, talvolta distinti da una sobria lapide. Esemplificativi, in propo­sito, sono i cosiddetti “trofei” eretti sulle tombe degli apostoli Pietro e Paolo e i sepolcri dei papi sistemati nella catacomba di S. Callisto sulla via Appia. Con la pace della Chiesa la venerazione per i martiri si diffuse ampiamente e il culto si avviò velocemente verso manifestazioni veramente colossali, soprattutto se si pensa alle basiliche volute da Costantino; alle soglie del V secolo si concentrarono a Roma i santuari più importanti e frequentati. La città accolse progressivamente nel suo tessuto urbano ed extraurbano in via di radicale trasformazione i segni monumentali del cristianesimo; ai peregrini, romani o stranieri, che fino alle soglie del medioevo si affollarono nelle strade verso i luoghi di devozione, l’area intorno alle Mura Aureliane si presentò come un’intricata rete di santuari, subdiali o sotterranei, di disuguale impatto visivo. Tra i santuari più visitati furono quelli di S. Pietro in Vati­cano, S. Paolo, S. Pancrazio, S. Lorenzo, S. Agnese, S. Ales­sandro, S. Ermete.

Fuori dal Lazio, invece, si distinse innanzitutto il complesso basilicale di Cimitile (Nola), il cui nucleo si sviluppò per iniziativa di Paolino di Nola intorno alla tomba di San Felice. Notevole fu anche la diffusione, dalla fine del V secolo, del culto dell’arcangelo Michele, che fu venerato particolarmente nei santuari del monte Gargano (il più celebre e antico santuario dell’occidente latino dedicato all’Arcangelo), del Mons Aureus presso Olevano sul Tusciano, presso Larino e a Potenza; in questo caso, l’assestamento politico del Mezzogiorno, tra VI e VII secolo, sotto i bizantini e i longobardi di Benevento, rese più sicuro il transito e favorì varie forme di pellegrinaggio lungo le vie del Meridione d’Italia.

Molto presto il santuario pugliese rappresentò il modello ideale anche per tutti i santuari angelici del settentrione d’Italia, che furono appunto eretti ad instar di quello garganico. Così, per esempio, la Sacra di San Michele della Chiusa, nacque e si sviluppò con la sua storia e le sue strutture attorno al culto di San Michele che approdò in Val di Susa nei secoli V o VI. La sua ubicazione in altura e in uno scenario altamente suggestivo, richiama immediatamente l’insediamento micaelico del Gargano. Fondata tra il 983 e il 987 sullo sperone roccioso del monte Pirchiriano si trova al centro di una via di pellegrinaggio di oltre duemila chilometri che unisce quasi tutta l’Europa occidentale da Mont-Saint-Michel a Monte Sant’Angelo.4

Invece, relativamente ai luoghi di culto dedicati a san Benedetto e al suo Ordine, dei dodici monasteri voluti dal santo nella valle sublacense, l’unico sopravvissuto ai terremoti e alle distruzioni saracene fu quello di Santa Scolastica, che, sino alla fine del XII secolo, fu il solo monastero di Subiaco; suggestivo è anche quello della Madonna della Mentorella presso Capranica Prenestina, amministrato dai benedettini dal IX al XIV secolo. Tra i santuari benedettini settentrionali, invece, ebbe un ruolo importante quello di Santa Maria in Sylvis, nei pressi di Pordenone, costruito tra il 730 e il 735; nondimeno, del nobile e potente monastero benedettino sopravvive oggi solo una parte, incentrata intorno alla basilica, nella cui cripta si conserva la cosiddetta urna di S. Anastasia. Infine, della presenza benedettina in Sardegna è testimone, tra gli altri, il santuario di San Pietro di Sorres, in provincia di Cagliari, costruito su un colle nell’XI secolo e completato fra il 1170 e il 1190.

Fonti e Bibl. essenziale

F. Bisconti – D. Mazzoleni, Alle origini del culto dei martiri. Testimonianze nell’archeologia cristiana, Aracne Editrice, Roma 2005; L. Canetti, Frammenti di eternità. Corpi e reliquie tra Antichità e Medioevo, Viella, Roma 2002; Del visibile credere. Pellegrinaggi, santuari, miracoli, reliquie, a cura di D. Scotto, Olschki, Firenze 2011; A. Dupront, Il Sacro. Crociate e pellegrinaggi. Linguaggi e immagini, Bollati Boringhieri, Torino 1993; M. Fumagalli Beonio Brocchieri – G. Guidorizzi, Corpi gloriosi. Eroi greci e santi cristiani, Editori Laterza, Roma-Bari 2012; Le vie della devozione: gli archivi dei santuari in Emilia Romagna, a cura di E. Angiolini, Mucchi Editore, Modena 2000; Luoghi sacri e spazi della santità, a cura di S. Boesch Gajano – L. Scaraffia, Rosenberg e Sellier, Torino 1990; F. Mattioli Carcano, Santuari à répit. Il rito del “ritorno alla vita” o “doppia morte” nei santuari alpini, Priuli & Verlucca editori, Scarmagno (TO) 2009; R. Oursel, Pellegrini del Medioevo. Gli uomini, le strade, i santuari, Jaca Book, Milano 2001; Pellegrini e luoghi santi dall’Antichità al Medioevo, a cura di M. Mengozzi, Società editrice il Ponte Vecchio, Cesena 2000; Pontificio consiglio della pastorale per i migranti e gli itineranti, Il santuario. Memoria, presenza e profezia del Dio vivente, LEV, Città del Vaticano 1999; Santuari cristiani d’Italia. Committenze e fruizione tra medioevo e età moderna, a cura di M. Tosti, Collection de l’École française de Rome. 317, Roma 2003; Santuari locali e religiosità popolare, Atti del XXVI Convegno «Ravennatensia» del Centro studi e ricerche sull’antica provincia ecclesiastica ravennate (Sarsina, 6-8 settembre 2001), a cura di M. Tagliaferri, University Press, Bologna 2003. Infine, nella collana “Santuari d’Italia” (edita a Roma, De Luca Editori d’Arte): Santuari d’Italia. Lazio, a cura di S. Boesch Gajano, M.T. Caciorgna, V. Fiocchi Nicolai, F. Scorza Barcellona (2010); Santuari d’Italia. Puglia, a cura di I. Aulisa – G. Otranto (2012); Santuari d’Italia. Trentino – Alto Adige/Süd Tirol, a cura di E. Curzel – G. M. Varanini (2012); Santuari d’Italia. Umbria, a cura di C. Coletti – M. Tosti (2012); Santuari d’Italia. Roma, a cura di T. Caliò, S. Boesch Gajano, F. Scorza Barcellona, L. Spera (2012); Santuari d’Italia. Romagna, a cura di M. Caroli – A.M.Orselli-R. Savigni (2013); Santuari d’Italia. Umbria, a cura di C. Coletti – M. Tosti (2013).

Immagini:

1) Aosta, resti della basilica paleocristiana; 2) Roma, Santuario della Madonna delle Grazie (1523); 3) Foggia, Grotta del santuario di Monte Sant’Angelo; 4) Matera, Santuario Madonna del Monte.

Sitografia:

http://www.vaticano.com/santuari.asp (sito con l’elenco di santuari di tutta Italia suddivisi per regione); http://www.santuaricristiani.iccd.beniculturali.it/ (sito dedicato al censimento dei santuari cristiani in Italia); http://www.siticattolici.it/Luoghi_cattolici/Santuari_Mariani/ (sito dedicato alla ricerca dei santuari mariani); http://www.vaticanoweb.com/monasteri/initalia.asp (sito dove sono raccolte notizie su monasteri, abbazie e conventi italiani).


LEMMARIO




Satira - vol. I


Autore: Paolo Poli

La satira è un genere letterario che, servendosi del paradosso e della giustapposizione umoristica, tende a criticare, mettendo in ridicolo, un gruppo sociale (o una singola persona) sulla base dell’incoerenza tra la sua condotta effettiva e l’ideale che si propone di perseguire. Da un punto di vista etimologico il termine deriva dal latino satura lanx, piatto ricolmo (satur) di cibo di vario genere che nell’antichità veniva dato in offerta a Cerere e Bacco: proprio per la particolare eterogeneità dei suoi contenuti il termine si rivela appropriato per gli autori che vanno man mano delineando questo genere letterario. La satira si delinea sempre più a partire da autori classici latini quali Varrone, Orazio, Persio, Giovenale, Marziale, Seneca e Petronio [Fig. 1]. La satira può avere varie forme di rappresentazione: dal poema vero e proprio al breve componimento, dall’aforisma alla riproduzione grafica. Inoltre, elementi satirici possono essere presenti in racconti, romanzi, opere teatrali e immagini che non presentano caratteristiche esclusivamente satiriche.

Fig. 1 – T. COUTURE, I romani durante la decadenza dell’impero, 1847, Museo d’Orsay, Parigi. L’illustrazione mette in evidenza i vizi degli antichi romani, riassunti nella decadenza generale dei costumi: questa, secondo l’accusa già lanciata dagli scrittori satirici, fu la causa della caduta dell’impero.

Nel campo specifico della storia della chiesa si possono ritrovare due livelli di satira: il primo, indubbiamente minoritario, che ha come autori uomini di chiesa che vogliono difendere i principi e i diritti della propria istituzione denigrando gli avversari anche attraverso questo mezzo; il secondo, quello più diffuso, che, al contrario, fa degli uomini di chiesa e dei loro comportamenti l’oggetto del proprio scherno.

Dal Tardo-Antico all’Alto Medioevo

La cristianizzazione dell’Europa, e quindi anche dell’Italia, fu un processo graduale e diversificato a seconda delle situazioni: vi furono, pertanto, sacche di resistenza al cristianesimo che persistettero per secoli in seno alla cristianità. Questo fatto si realizzava specialmente nel caso delle conversioni di massa; è il caso, piuttosto frequente, di nuovi popoli che si affacciavano sulla scena europea e aderivano alla nuova religione in seguito all’attività evangelizzatrice di un missionario (o di un gruppo di missionari) che puntava alla conversione del capo per ottenere quella di tutto il clan.

Pertanto, l’adesione di larghe porzioni della popolazione al cristianesimo era sancita, in questi casi, dal battesimo e da un’istruzione dottrinale più o meno sommaria. Questo fenomeno determinava la permanenza di tradizioni e usanze pagane quando non, addirittura, di vere e proprie contestazioni alla nuova religione attraverso attacchi fisici e verbali al clero e ai fedeli laici. Soprattutto nelle campagne, ampie fasce della popolazione restavano legate al culto della terra o a quello di determinati alberi e fonti [FIG. 2]. Da un punto di vista letterario, queste forme di contrasto al cristianesimo non arrivavano mai ad una forma espressiva esplicita; in questo caso si ha notizia di ciò in maniera indiretta, quasi in controluce, attraverso le stesse agiografie dei santi o i racconti delle loro gesta o del culto tributato ad essi. Queste testimonianze, infatti, riportano sovente episodi in cui, assieme alle gesta del santo evangelizzatore, ai suoi miracoli, alle sue reliquie e alle celebrazioni a lui connesse, emergono in chiaroscuro personaggi che rifiutano di credere alle reliquie, di rinunciare al proprio lavoro nel giorno della festa del santo, di prestar fede all’autenticità dei suoi miracoli e lo irridono, schernendolo in maniera più o meno velata; oggetto di irrisione è, inoltre, la creduloneria della gente verso tali fenomeni. Pur non ritrovandosi, in questo periodo, un genere letterario specifico o vicino alla satira, tuttavia è utile tenere presente questo milieu paganeggiante o sincretista che accompagna in maniera alternativa il processo dell’instaurazione del cristianesimo in Europa.FIG. 2 – GIOVANNI D’ALEMAGNA, Sant’Apollonia distrugge un idolo pagano, 1442-1445 circa, National Gallery of Art, Washington. L’immagine vuole rappresentare la fase dell’antichità e della tardo – antichità in cui il cristianesimo si impose al mondo pagano anche attraverso atti di forza. L’episodio raffigurato in quest’opera riguarda una martire del III secolo; tuttavia, è noto che anche in Europa i missionari (tra cui ricordiamo in particolare San Martino di Tours) non esitarono ad utilizzare metodi radicali nell’estinzione del paganesimo: ciò comportò nondimeno la prosecuzione di una certa resistenza al cristianesimo. Questa arrivò a manifestazioni di dissenso: talune nascoste (riti pagani), talaltre meno (organizzazione di sette o gruppi para-ecclesiali, perseguiti poi dalla chiesa come eretici).

Tra Basso Medioevo e Umanesimo

Prima di scendere nel concreto occorre precisare, alla luce dell’universalismo medievale, che fino all’epoca moderna è difficile parlare di un pensiero o di una cultura nazionale (come nel caso dell’Italia): conviene, pertanto, inquadrare il contesto europeo per cogliere nello specifico la sensibilità italiana. Dall’XI secolo la chiesa si strutturò sempre più gerarchicamente e indipendentemente rispetto all’impero grazie a  quei  passaggi  storici  generalmente  noti  come “riforma gregoriana” e “lotta per le investiture”. In Europa, con l’assestamento e la conversione degli ultimi popoli provenienti da nord-est quali i normanni e gli ungari, si instaurò sempre più un regime di christianitas che segnò in maniera decisiva tutti gli aspetti della vita sociale del tempo. In questo clima di rinnovamento e di fervore nacquero, a partire dall’XI secolo e a non molti decenni di distanza tra loro, grandi movimenti spirituali, filosofici, teologici e artistici: i nuovi ordini monastici (tra i più potenti ricordiamo i certosini e cistercensi, nonché il già attivo ordine cluniacense in seno alla grande famiglia benedettina), i grandi ordini mendicanti, le universitates studiorum, il sistema di pensiero della Scolastica, gli originali stili architettonici quali il romanico e il gotico. Non mancarono in questo frangente storico le contestazioni, anche radicali, a tutto ciò: si trattava di eretici, catari, albigesi e valdesi.

Tuttavia, anche in seno alla società cristiana sorsero movimenti di contestazione che, pur rimanendo nell’alveo della piena ecclesialità, si fecero interpreti di un sentimento diffuso, ovvero lo sdegno verso un clero corrotto e avvertito come inadeguato alla propria missione: trovandosi in una posizione socialmente e culturalmente egemonica, il clero visse spesso la tentazione di una condotta di vita rilassata, tendente più alla conservazione dei propri privilegi che non alla realizzazione della propria missione ecclesiale. In genere, come già accennato, per tutto il Medioevo la satira fu un genere letterario assai diffuso e presente in maniera più o meno esplicita dal nord al sud dell’Europa; per quanto riguarda l’Italia, che di seguito esamineremo approfonditamente, occorre tenere presente come questo genere fosse ben presente in maniera più o meno esplicita negli autori che rappresentano il vertice della cultura medievale italiana e che al tempo stesso anticipano già le novità del Rinascimento, quali Dante e Petrarca: nei loro scritti il genere letterario satirico è sempre molto diffuso. Per quanto riguarda nello specifico il Basso Medioevo, è possibile riscontrare una suddivisione del genere letterario satirico in due strati. Il primo è quello che vede la contrapposizione tra le diverse famiglie religiose che rivendicano, l’una a dispetto dell’altra, l’autenticità della propria opera di riforma. Il secondo strato di satira è quello che si registra tra quegli scrittori (quasi sempre laici) che irridono le contraddizioni tra la predicazione e lo stile di vita degli uomini di chiesa, talvolta al fine di sollecitarne la correzione, talvolta per irriderli. Alcuni esempi del primo filone, quello della tensione fra ordini religiosi (e tra questi e il clero secolare) possono essere riscontrati nella predicazione e negli scritti, talora a tratti veementi, di San Pier Damiani (che scrisse il Liber Gomorrhianus) e San Bernardo di Chiaravalle nonché nelle omelie di Sant’Antonio di Padova, che stigmatizza con forza l’attaccamento del clero ai beni mondani. Un altro francescano, Gilberto di Tournay, compose la Collectio de scandalis ecclesiae, proposta al Concilio di Lione del 1274: essa passa in rassegna una serie di problematiche connesse alla decadenza morale e disciplinare della vita religiosa del suo tempo. Se oltralpe durante il Basso Medioevo si sviluppa un vero e proprio genere letterario satirico esplicito e dai toni sferzanti o grotteschi contro le incoerenze del clero in genere – basti citare poemi o scritti quali l’Ynsegrimus, la Metamorphosis Goliae, il Discipulis Goliae de grisis Monachis, sino al De nugis curialium di Walter Map e al Roman de Renart sino ai Carmina Burana [FIG. 3] – in Italia tale genere sarà relativamente moderato e spesso localizzato nella predicazione dei religiosi, che avevano come scopo quello di voler scuotere l’uditorio. Tale genere di critica certamente è riscontrabile nei già citati Pier Damiani e Antonio di Padova ed arriva fino a San Bernardino da Siena. È bene precisare che in questi autori ecclesiastici non si può parlare di satira vera e propria in quanto nei loro sermoni e nelle loro opere mancava, di fatto, l’intento di suscitare il riso nei propri uditori. Tuttavia, è bene che siano ricordati in questa sede poiché i toni dei loro discorsi erano forti, ovvero ricchi di pathos e di verve, e l’intento di condannare ogni tipo di abuso da parte del clero era risoluto.

FIG. 3 Renart la volpe, prima metà del XV secolo, Rettoria della Chiesa della Santa Croce, Byfield, Northamptonshire. Tipico esempio di satira bassomedievale del Nord Europa, il Roman de Renart, cui fa riferimento quest’opera, racconta un mondo alla rovescia dove i protagonisti sono animali che, rivestendo diversi ruoli umani, irridono le varie classi della società del tempo.

Il secondo filone satirico, oltre ai testi di satira già accennati per il nord Europa, ha bisogno di essere contestualizzato all’interno del mutamento di orizzonte socio-religioso verificatosi nella penisola nel corso del XIV secolo. Tale processo ha i propri albori nella riscoperta dell’umanità di Cristo (dovuta ai pellegrinaggi e alle crociate in Terra Santa), nella ripresa della predicazione e della pratica religiosa ad opera di francescani e domenicani (per svilupparsi ulteriormente con la devotio moderna proveniente da oltralpe). Questo relativo antropocentrismo, sempre e comunque religioso almeno ai suoi inizi, innescò, unitamente alla scoperta degli autori classici dell’antichità, lo sviluppo di quel movimento culturale che sfocerà nell’Umanesimo. Ciò comportò un cambiamento anche per la letteratura satirica: si passa, come già accennato, da una critica “costruttiva” che, per quanto forte, era sempre finalizzata ad emendare le incoerenze della classe clericale, ad un’altra più ilare, disincantata e atta a suscitare il riso del lettore. Questa tendenza venne intrapresa e sviluppata in Italia da un vero e proprio campione della satira: Giovanni Boccaccio. Questi, con il suo Decameron, porta alla ribalta un originale genere letterario: quello della novellistica [Fig. 4]. Egli opera una vera svolta nella storia della satira: da un punto di vista letterario, le novelle sono semplici storie inventate ma che, al tempo stesso, mantengono sempre un fondo di verosimiglianza con la realtà del tempo; da un punto di vista contenutistico vengono stigmatizzati con sagacia e ironia (non senza arrivare a sfiorare il tono grottesco) i principali difetti del clero e dei fedeli dell’epoca (specie l’avarizia, la lussuria e la creduloneria). Infine, l’obiettivo delle novelle è quello di ridicolizzare quella credenza religiosa che è vicina alla superstizione; egli personalmente non ha niente contro la dottrina e la gerarchia cattolica. L’autore toscano intende farsi portatore di un nuovo modello di vita, fondamentalmente razionale e borghese, che si lascia alle spalle la creduloneria medievale.

FIG. 4 – L. SABATELLI (1772-1850), La peste di Firenze nel 1348, incisione nell’edizione del Decameron da lui data alle stampe. Per Boccaccio la morte e la desolazione, rappresentate come conseguenze della peste, erano in realtà mali profondi della società del suo tempo, diffusi a tutti i livelli: la decadenza esteriore è quasi manifestazione della decadenza morale, interiore.

Sulla stessa linea del Boccaccio si collocano Franco Sacchetti (Trecentonovelle), Giovanni Sercambi (Novelle), Gentile Sermini (Novelle) e Masuccio Salernitano (Novellino). Durante il XV secolo, nel pieno sviluppo dell’Umanesimo, si trovano scritti critici e pungenti non più solamente contro l’ipocrisia del clero (come ad esempio il Contra Hypocritas di Poggio Bracciolini), ma anche, quale critica ben più appropriata al nuovo contesto rinascimentale, contro l’ignoranza e la pressappocaggine dei contenuti nella predicazione del clero: in quest’ambito troviamo Coluccio Salutati (De seculo et religione) e Andrea Alciati (Contra vitam monasticam ad Bernardum Mattium epistola).

I fermenti del XVI secolo, la Riforma e la Controriforma

Con il XVI secolo cambia radicalmente il contesto spirituale ed ecclesiale in Europa: si passa dall’unità della christianitas alla frammentazione confessionale ed, infine, alle guerre di religione. In ambito culturale-letterario avviene un decisivo mutamento da una letteratura critica contro le inadempienze del clero (ma al tempo stesso animata da una morale almeno idealmente autentica e ancora fiduciosa in un possibile cambiamento) ad una letteratura che lascia trasparire tutto il disincanto e l’amarezza per una riforma mancata della chiesa. Già i germi di questa svolta sono rintracciabili in Italia con i pungenti scritti di Lorenzo Valla, soprattutto nella critica verso i religiosi (che sarà un vero cavallo di battaglia della Riforma) del De professione religiosorum. Oltralpe ci penserà Erasmo a denunciare in maniera originale i rischi in cui potevano cadere i religiosi del tempo nel celebre Encomium moriae.

Con il consumarsi dello scisma luterano in Italia la letteratura satirica si sviluppò in una duplice direzione. Da una parte si trova quella del mondo protestante (oltralpe) e della cultura popolare (soprattutto a Roma) che insiste sulla condanna dei vizi degli ecclesiastici e della creduloneria del popolo [Figg. 5 e 6]; in questo contesto fa la sua apparizione nell’Urbe l’originale stile delle Pasquinate: queste rappresentavano una modalità di espressione libera e pubblica ed erano indirizzate particolarmente contro la gerarchia ecclesiastica e il papato. Dall’altra parte si sviluppò sempre più un movimento di difesa della dottrina cattolica tradizionale anche attraverso scritti e raffigurazioni dai toni decisamente anti-luterani [Fig. 7].

FIG. 5 – LUCAS CRANACH IL GIOVANE, La vera religione di Cristo e la falsa dottrina dell’Anticristo, 1546. Dittico molto eloquente che raffigura, nella metà di sinistra, la dottrina protestante che si basa sui due soli sacramenti del battesimo e dell’eucaristia mentre, nella metà di destra, la dottrina cattolica con un grande disordine dove, tra le altre cose, le indulgenze vengono vendute a caro prezzo e il frate che predica è consigliato dal diavolo.

FIG. 6 – LUCAS CRANACH IL VECCHIO, Il papa asino a Roma, acquaforte, Wittenberg, 1523. L’illustrazione riprende una figura mostruosa già nota in Roma alla fine del ‘400 che rappresenta il papa in sembianze animalesche; sullo sfondo vi sono due simboli dell’oppressione papale: la fortezza di Castel Sant’Angelo e le carceri di Tor di Nona.

FIG. 7 Lutero compie il patto con il demonio, acquaforte.  La Riforma è rappresentata satiricamente come il patto che Lutero stringe con il demonio sulla stessa Bibbia.

Riguardo al primo filone sono da segnalare alcuni autori principali, tra cui Anton Francesco Grazzini, detto il Lasca: questi adottò lo stile e fece propri gli argomenti di Boccaccio, soprattutto nella collezione di novelle Le Cene del 1549. Altro autore attivo a tutto tondo in Italia nella prima metà del XVI secolo fu Pietro Aretino: il suo stile satirico, così mordace e pungente, lo ha fatto ritenere addirittura l’inventore delle Pasquinate. Egli, piuttosto, trovò questo movimento già avviato, lo adottò e lo portò a sviluppi notevoli, specie nel suo testo Pasquinate del Conclave. Il secolo XVI secolo fu caratterizzato in Italia da un fervore letterario certamente stimolato dai grandi sconvolgimenti religiosi, ecclesiali e politici di cui la penisola fu teatro: in questo contesto si stagliano le maggiori figure letterarie dell’epoca quali Cesare Caporali e Francesco Berni, oltre al già citato Aretino. Questi rispecchiarono nei loro componimenti l’inquietudine di quel tempo e, anche se non ebbero direttamente a che fare con la satira anti-ecclesiastica, sicuramente alimentarono quel clima di insofferenza, di sfida e di critica aperta verso ogni autorità costituita.

Dal XVII secolo all’Unità Nazionale

Tra Sei e Settecento in ambito italiano il tenore della satira andò di pari passo con il mutare del contesto socio-politico: esso era caratterizzato da divisione e continue lotte intestine nella penisola tra piccoli staterelli che spesso avevano alle spalle le potenze europee. La faziosità, la cortigianeria, il carrierismo e la corruzione era la regola della classe dirigente di allora. In questa situazione la satira ampliò il raggio della propria attenzione dall’ambito religioso, squisito appannaggio di una società dominata dalle gerarchie ecclesiastiche, a quello civile, politico e delle arti. Pertanto, ad essere presa di mira non fu soltanto la doppia morale dei religiosi incoerenti ma anche la vanità dei nobili, l’incapacità dei governanti, la spregiudicatezza dei mercanti, la falsità dei cortigiani, i capricci delle dame e la superbia degli artisti. Questi grandi temi si trovano, infatti, ove più ove meno, negli autori di satire del tempo, tra cui vanno ricordati senz’altro Salvatore Rosa, Benedetto Menzini e Lodovico Adimari con le rispettive Satire. Nel corso del XVIII secolo tale genere letterario si sviluppò sempre più e si specificò come “Satira del costume”: Il giorno di Giuseppe Parini e le potenti Satire di Vittorio Alfieri fecero scuola in tal senso.

Nel contesto europeo, dopo le grandi guerre di religione e a partire dal nuovo movimento illuminista, soprattutto in Francia, gli autori satirici (tra tutti basti ricordare Moliere e Voltaire) passarono dal contestare la chiesa in virtù della sua mancata coerenza con i propri ideali al mettere in dubbio la stessa natura della chiesa e, di conseguenza, il suo ruolo nella società: in un contesto razionalista la chiesa veniva vista sempre più come una forza conservatrice contraria alle istanze della modernità [FIG. 8].

FIG. 8 – Un’illustrazione satirica ottocentesca raffigura un chierico che vuole fermare il treno con le sue forze; il titolo è eloquente: il “progresso” è rappresentato dal treno guidato da una figura femminile, mentre il “regresso” è personificato dal prete stesso.

Infine, nel corso del XIX secolo in Italia andava sempre più crescendo, soprattutto tra le classi colte e istruite, un sentimento nazionalista unitario: in esso, accanto alla corrente romantica, ve n’era un’altra anti-clericale o, se non altro, anti-papale [FIG. 9]. In quest’ambito vanno ricordati i popolari Sonetti romaneschi di Giuseppe Gioachino Belli nella Roma del papa re, l’aspro componimento Il papato di Prete Pero di Giuseppe Giusti e i Giambi ed Epodi di Giosuè Carducci.

FIG. 9 – Tale illustrazione raffigura polemicamente la presa di Roma da parte del Regno d’Italia: i chierici rappresenterebbero le nuove “oche” che fuggono dal Campidoglio.

Fonti e Bibl. essenziale

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LEMMARIO




Satire: temi, espressioni, condanne - vol. I


Autore: Lentini Giuseppe«Castigat ridendo mores». Così il letterato francese Jean de Santeuil (1630-1697) si racconta che apostrofò un busto di Arlecchino destinato a decorare il palcoscenico della Comedie Italienne di Parigi. Queste parole compendiano ciò che in epoca moderna si intende per satira: correggere i costumi attraverso lo scherzo.

Varie sono le sfaccettature della satira; essa ha aspetti comuni con la comicità, l’ironia, il sarcasmo, la parodia e l’umorismo, ma si può affermare che differisce da queste, giacché lo scopo non è l’ilarità, bensì la correzione dei costumi.

Per alcuni autori la satira è espressione multiforme di uno stato, di un atteggiamento e di un’attività dello spirito, che può variare a seconda dei tempi, degli individui, delle condizioni storiche, sociali, politiche e morali. L’espressione della satira va dall’invettiva violenta allo scherno amaro, dall’ironia al sarcasmo, dal lamento all’allegra caricatura. Essa nasce da un sentimento psicologico che infiamma l’uomo di fronte a un atteggiamento moralmente sbagliato, a un’offesa, e insieme ad esso all’istinto che porta all’uomo a ridire, a commentare e a deridere i vizi e le debolezze di altri uomini (V. Cian)

Per altri autori la satira è l’esame di coscienza di un’intera società, un sale che impedisce la corruzione e, a volte, è la sola libera espressione che si possa opporre al vizio che trionfa (C. Cattaneo).

Talvolta la satira viene confusa con la comicità, poiché ambedue spesso suscitano il riso, anche se non sempre la satira è legata ad esso (ad es. in Jacopone da Todi). Nel comico il riso è fine a se stesso, mentre nella satira vi è sempre un fine più serio: riprendere un costume vizioso.

Possiamo distinguere la satira per la materia di cui tratta (morale, politica, religiosa, femminista, nazionale, ecc.) o per la forma in cui viene espressa (lirica, dialogica, narrativa, poetica, prosastica, drammaturgica, ecc.).

Il genere satirico e la letteratura che ne scaturisce sono stati molto spesso trascurati, soprattutto circa la lettura della storia politica (E. Ruth), ma anche di quella religiosa (Pasquinate, situazione morale del clero e della Chiesa, ecc.).

  1. Origini e sviluppo

La satira greca non fu paragonabile a quella latina. Gli inizi della satira presso i romani furono con Ennio, il quale usò per la prima volta la parola “Satira”, mutuata dal fenicio e forse dal greco σάτυρος. La fortuna di questo genere letterario fu fatta da Lucilio, il quale diede uno spirito nuovo alla satira, intesa come forma d’arte, seguito poi da Orazio, Persio e Giovenale.

Satira e letteratura cristiana. Gli autori cristiani dei primi secoli, sebbene non utilizzino il genere satirico, così come era nato, nelle loro opere utilizzarono delle espressioni satiriche per canzonare i propri rivali (Agostino nel Carme contro i donatisti del 393, Commodiano contro i marcioniti nel 394, Prudenzio contro il paganesimo persistente nel 402; Paolino da Nola nel V sec. in uno dei suoi poemi si avvale della satira contro i monaci vaganti: «Qualia vagari per mare et terras solent / avara mendicabula, / qui dejerando, monachos se vel naufragos, / nomen casumque venditant», oppure il poliedrico Girolamo che, qua e là nelle sue opere, non disdegna di apostrofare chierici e delatori con accenti tra il satirico e il ridicolo, ad esempio usa l’appellativo Grunnius per riferirsi a Rufino, ormai suo nemico, In Rufinum 1, 17, oppure, additando i chierici vanitosi, scrive: «Pudet dicere reliqua, ne videar potius invehi, quam monere. Sunt alii, de mei ordinis hominibus loquor, qui ideo Presbyteratum et Diaconatum ambiunt, ut mulieres licentius videant. Omnis his cura de vestibus, si bene oleant, si pes, laxa pelle, non folleat. Crines calamistri vestigio rotantur; digiti de annulis radiant: et ne plantas humidior via aspergat, vix imprimunt summa vestigia. Tales cum videris, sponsos magis aestimato quam Clericos. Quidam in hoc omne studium vitamque posuerunt, ut matronarum nomina, domos, moresque cognoscant», Ep. 22). Anche i pagani, però, in questo frangente continuarono a produrre delle opere con spirito satirico nei confronti dei cristiani (ad es. Claudio Rutilio Namaziano nel suo Itinerarium ci ha lasciato uno dei più antichi esempi di satira antimonastica).

Medioevo. I satirici latini nel medioevo ebbero molta fortuna, ne sono testimonianza l’infinità dei manoscritti trascritti dai chierici e dai monaci nei conventi, i commenti fatti a queste opere e le loro citazioni negli scritti degli autori medievali (Giovanni di Salisbury conosceva il Satiricon di Petronio). A ciò e agli avvenimenti e scontri di questo periodo si deve la copiosità delle opere satiriche latine medievali. Molti di questi scritti, dato il loro carattere soventemente polemico, sono anonimi, mentre gran parte della letteratura popolare è andata perduta. I divulgatori di queste opere satiriche erano i giullari e i clerici vagantes.

Il medioevo predilesse la satira allegorica fatta di storie di animali, talvolta anche figurate; la satira morale, soprattutto nei confronti del clero; la satira politica e religiosa con Guittone d’Arezzo, Jacopone da Todi, Boccaccio, Petrarca e Dante Alighieri. Nella letteratura medievale la satira morale seguì spesso i modelli classici di Orazio, Persio e Giovenale.

Dal seno stesso della cristianità, nel medioevo, iniziarono a levarsi delle voci di rimprovero e di scherno contro la decadenza di Roma, l’avarizia del papato e il traffico di reliquie, ad es. l’ignoto autore, probabilmente napoletano, dei Versus Romae del IX sec. Così anche il contemporaneo Giovanni Imonide nella Cena Cypriani (876-877), verso la fine del poema, abbandona l’ilarità per sferzare tre personaggi contemporanei, tra i quali papa Formoso. Tra il IX e il X sec. troviamo Eugenio Vulgario che si scaglia contro le guerre e le armi, Liutprando, vescovo di Cremona (+972) nella sua opera Antapodosis ci consegna un importante esempio di satira menippea medievale, scagliandosi contro Marozia.

In questo periodo, date le vicissitudini e gli scontri di carattere politico e religioso, abbondano i componimenti satirici contro sovrani, imperatori, chierici e pontefici, così molte questioni religiose finivano per diventare politiche (ad es. tra l’844 e l’855 tra la chiesa di Venezia e quella di Aquileia vi fu una contestazione di diritti circa l’isola di Grado, così un chierico veneziano, usando un ampia gamma di ingiurie medievali, scrisse il Carmen de Aquilegia nunquam restauranda, con il quale scagliava un’invettiva contro il vescovo di Aquileia).

  1. Temi ed espressioni della satira

Dalla metà dell’XI sec. la produzione letteraria satirica andò man mano accrescendosi, così che «i ruscelli che ne sgorgarono dapprima, divennero torrenti» (V. Cian), anche se in Italia, rispetto alla Francia, troviamo opere di questa letteratura in numero inferiore e legate a temi transitori o d’occasione.

a) Correnti satiriche d’occasione

Satira e riforma ecclesiastica. In Italia Pier Damiani (1006-1072) scrisse molte opere in prosa e in versi intessute di satire e scherni contro la simonia, i vizi, la corruzione, il concubinato e la sodomia degli ecclesiastici. Goffredo Malaterra nella sua Historia Sicula si scagliò contro la città di Roma, definendola sede di ogni malizia, lusso e avarizia, poiché aveva abbandonato la guida di Gregorio VII per seguire l’antipapa Clemente II (1084). Nel 1099 un ignoto poeta francese nella Altercatio inter Urbanum et Clementem e il canonico di Toledo nel Tractatus Garsiae Tholetani canonici de Albino et Rufino dipingono la curia romana come un «gazophilacium sanctae cupiditatis».

Nel XII sec. Pietro Diacono (1107-1159), discusso monaco cassinate, nel Rhytmus de novissimis temporibus dipinge i sacerdoti simoniaci e gozzovigliatori come nemici dei poveri e devoti dei potenti, anche se quest’autore va interpretato con cautela.

Satira e lotta delle investiture. Un’altra occasione per la stesura di opere dal linguaggio satirico fu data dalla lotta delle investiture. Così Guido, vescovo di Ferrara, nel De schismate (1086) lanciava accuse contro Enrico IV in una vera e propria requisitoria. Con l’imperatore le invettive erano indirizzate anche verso i suoi fautori, sorte che toccò all’arcivescovo di Ravenna Guiberto da parte di Donizone nella sua Vita Mathildis Perditionis filius, homullus antichristi, membrum Sathanae, non dominum, sed demonium») e del vescovo di Lucca Rangerio nel poema De anulo et baculo Perfidae dux, ecclesiae vastator apertus»). Successivamente (1111) un chierico romano scrisse un ritmo sulla prigionia di papa Pasquale II contro Enrico V e il popolo germanico (il primo rappresentato come uno scorpione, i secondi apostrofati come sacrileghi e uomini diabolici).

Dall’altra parte i fautori dell’imperatore rispondevano alle accuse a suon di opere intessute di immagini satiriche. Uno di questi fu Benzone, vescovo di Alba che scrisse un panegirico (1085-1086), in prosa e in versi, per Enrico IV, sbeffeggiando papa Alessandro (Asinander, asinus hereticus), Ildebrando di Soana (Prandellus, Folleprand manicheus, diabolus cucullatus) e i coniugi Matilde e Goffredo, marchesi di Toscana, (Cornefredus, pestilens Grugnefredus), mentre per incitare i popoli germanici ad una spedizione contro Roma mette sulla loro bocca una irriverente litania (Ab omni bono, libera nos Domine; ab arce imperii, libera nos Domine; ab Apulia et Calabria, libera nos Domine; a Benevento et Capua, libera nos Domine; a Salerno et Maltha, libera nos Domine; a Neapoli et Gerenthia, libera nos Domine; a felice Sicilia, libera nos Domine; a Corsica et Sardinia, libera nos Domine).

Altro fautore dell’imperatore, Pietro Crasso, scrisse la Defensio Henrici IV regis, la quale più che una difesa risuonava come una requisitoria invettiva contro Gregorio VII e Matilde di Canossa.

b) Correnti satiriche perenni

Le correnti satiriche, che si sono susseguite lungo il corso dei secoli e che sono rimaste immutate, sono quelle che trattano dei temi più generali, sociali, politici o religiosi. Per questo genere di satira sono una fonte preziosa i sermoni degli oratori sacri, tanto che V. Cian scrive: «Non credo di esagerare affermando che spesso, per la parola che il predicatore medievale lanciava dal pergamo alla folla devota, il tempio sembra diventare agli occhi nostri non un’asilo di fede, di preghiera, di raccoglimento pietoso, di alta e umana eloquenza, si invece una palestra tumultuosa di satira acerba e di malignità, non sempre rivolte a combattere i vizi e gli abusi dei fedeli e della grande milizia chiesastica, a cooperare all’impresa della riforma dei costumi». I predicatori non risparmiavano alcuno, anche se i peggiori richiami erano rivolti nei confronti del clero (ad es. i Sermones ad status di Alano di Lille e Jacopo da Vitry). Così anche illustri personaggi, come il futuro Innocenzo III nella città di Parigi, rimproveravano l’abuso di rappresentare nelle chiese spettacoli profani, oppure il cardinale Oddone di Chateauroux ammoniva che la Chiesa era divenuta un mercato di Cristo ed invocava la riforma pontificia.

Satira sociale. Assume un’importanza singolare la satira sociale nella Divina Commedia. Origine di questa satira si può riscontrare nelle scritture in prosa e in versi di carattere ascetico morale. Solitamente sono chiamate nei codici De contemptu mundi. In uno di questi componimenti un anonimo poeta medievale annuncia la fine del mondo a causa del decadimento morale e addita i pontefici e i pastori come spettatori silenziosi che, non rimproverando, diventano complici di tali delitti, poi prosegue con le varie categorie: i mercanti, gli avari, i falsi profeti e i monaci degeneri, i quali «Daemonum facti sunt socii», concludendo con una preghiera finale riconducente allo scopo ascetico.

Satira antiecclesiastica e anticuriale. La corrente satirica più prolifica e più ricca, sviluppatasi soprattutto in Germania, è quella che prende di mira la chiesa di Roma e i chierici, ma mentre in ambito francese la satira contro gli ecclesiastici e i frati fu prospera e rigogliosa, in Spagna fu molto più scarsa, limitandosi al generico biasimo anche se di carattere personale.

In un primo periodo la satira antiecclesistica difficilmente ebbe un carattere personale (ad es. i famosi epigrammi contro papa Lucio III, una sorta di pasquinata ante litteram), poiché solitamente si limitava a condannare le istituzioni religiose e i loro vizi. Così si additava il clero traviato, la chiesa e la curia romana di peccati di simonia, avarizia, nepotismo, licenziosità, gola e ignoranza. La fantasia medievale, spinta dalla fede, ci ha lasciato epigrammi satirici, parodie e ritmi che tra i tanti rimproveri non disdegnano di rappresentare Cristo stesso armato di satira per flagellare gli indegni (Ritmo Quid ultra tibi facere, vinea mea, potui?), o la vergine Maria che assiste la Chiesa mentre rimprovera i monaci (Matia Flacius Illyricus, Carmina Vetusta, Wittemberg 1548).

La satira anticuriale trova posto anche nella poesia goliardica (Giovanni di Hauteville, Archithrenius; Bernardo de Morlas, De contemptu mundi), mentre la derisione satirica dei mali della Chiesa e della simonia degli ecclesiastici erano talmente diffuse da generare in ogni dove proverbi, carmi, cantilene volte a deridere il clero in tutta la Gallia e l’Italia, rendendo l’ufficio sacerdotale materia di istrioni (Victor IV antip., Bulla Scismaticorum sectas). Questi componimenti satirici, sferzando i vizi e la simonia dei chierici, avevano principalmente uno scopo morale. Altri componimenti, pur non essendo spinti da motivazione religiose, ma spesso politiche, schernisco e deridono i papi, la curia romana, i prelati, i monaci e il basso clero.

La raccolta più conosciuta oggi di questi carmi satirici, grazie all’adattamento musicale del 1937 di Carl Orff (1895- 1982), è i Carmina Burana, che cantano contro la curia romana («Roma noruti curia non est nisi forum; / ibi sunt venalia jura senatorum, / et solvit contraria copia nummorum» Carm. Bur. I, XIX), i sacerdoti («Fures non pastores» Carm. Bur. I, LXIV), i frati («Fratribus perversis» Carm. Bur. II, 175), anche se queste categorie non sono le sole prese in considerazione nella letteratura satirica e goliardica (corti, sovrani, filosofi, politici, nobili, ricchi, donne, abbadesse, ecc.).

Altra espressione satirica rilevante è la parodia sacra, il cui genere è ben rappresentato dalla Apocalypsis Goliae e dalla Confessio Goliae (The latin poems, 1-20; 71-75), grotteschi poemi satirici che «ostentano con vanità puerile tutti i propri ricordi della storia e delle letterature antiche» (V. Cian).

Tra gli autori satirici che prendono di mira gli ecclesiastici e la curia romana abbiamo anche esponenti dello stesso clero e dei religiosi. Esempio rilevante è l’opera di fra Salimbene de Adam (1221-1290), frate minore, seguace di Gioacchino da Fiore. La Chronica di fra Salimbene usa uno spirito satirico attraverso giudizi pungenti, similitudini vivaci, «aneddoti che sono veri bozzetti satirici, ora in certi ritratti che sono gustose caricature di stampo italiano» (V. Cian). In questa cronaca vengono presi di mira gli abusi del clero, la ciarlataneria di alcuni predicatori, la simonia, il nepotismo e l’avarizia di alcuni pontefici, i vescovi, il traffico delle reliquie, il degenerare degli ordini mendicanti, di cui anche lui faceva parte, la corruzione del clero, riportando anche passi della satirica Disputatio membrorum di Filippo di Greve e la famosa Epistula Luciferi ad prelatos.

La satira antiecclesiastica si ritrova anche in opere satiriche politiche, scritte in occasione delle lotte tra Guelfi e Ghibellini (ad es. Alberto di Beham, Dante Alighieri e anonimi autori). Il documento più cospicuo può essere considerato il ritmo Vehementi nimium commotus dolore, attribuito a Pier della Vigna (1190-1249), un sermone-parodia tenuto dall’autore per non risparmiare con la sua satira alcuno, anche se ad una lettura approfondita nelle strofe antiecclesiastiche e antifratesche si nota come sospetta quest’imparzialità.

La satira antiecclesiastica si riscontra anche nel XV secolo nell’enorme produzione satirica nei confronti di papa Alessandro VI, della quale Antonio Cammelli, detto il Pistoia (1436-1502), è l’espressione più viva e schernitrice, non perdendo occasione per dileggiarlo e denunziare gli scandali della sua corte, definendolo «famelico verme iniquo e tristo, / che divora la croce a Jesu Cristo».

Satira profetica. Le profezie, prosperate durante tutto il medioevo (Gioacchino da Fiore, Malachia, ecc.), crearono un terreno propizio in Italia durante il XII-XIII sec. per opere satiriche ispirate ad esse. Questi componimenti, talvolta pseudoepigrafi, furono composti per schierarsi nelle lotte Guelfe e Ghibelline a favore dell’impero o della Chiesa di Roma. Si ebbe una produzione in gran parte caotica, dalla qual Dante Alighieri (1265-1321) seppe trarre la luce della sua profezia, insuperabilmente satirica. Questa produzione andò ampliandosi via via grazie agli avvenimenti storici del XIV sec., perdendo di novità e di forza.

La satira del Savonarola (1452-1498) può essere accomunata al genere profetico, giacché egli nel De ruina Ecclesiae raffigura la curia come una meretrice superba, mentre in altre sue opere e sermoni si abbandona a lamenti amari e pungenti, invettive e requisitorie circa il decadimento dei costumi e soprattutto della Chiesa e del papato.

Satira politica. Nel periodo in cui le lotte tra Guelfi e Ghibellini impazzavano a Firenze, le satire ebbero toni politici coloriti, traghettando così dalla poesia del dolce stil novo (G. Cavalcanti) a una satira a volte personale e pungente (G. Orlandi). Non mancarono però in questo periodo opere anonime contro Bonifacio VIII, scritte probabilmente da qualche vittima risentita dalla politica pontificia. Esempio di questi componimenti è il sonetto-epitaffio contro il pontefice, che pone sulla bocca del papa defunto la confessione dei suoi misfatti contro la Francia, Firenze, i Siciliani, ecc. Quest’opera ebbe una grande diffusione, tanto che fu rimaneggiata e arricchita da molti.  Ricordiamo anche la poesia popolare medievale, le ballate politico-satiriche, e i poemetti trecenteschi di Franco Sacchetti (1332-1400) contro Gregorio XI e il clero simoniaco (Dar, per pecunia d’ariento o d’ori, / i benefici ch’ànno tra le mani, / simoneggiando e commettendo errori)

c) Letteratura e satira

Poesia popolare e giullaresca. La poesia popolare del duecento è ricca di detti satirici (ad es. fra Salimbene nella sua opera riporta alcuni detti popolari, come quello contro frate Elia e i minori in genere «Or attorna, frate Elia, / che pres’ a’ la mala via»).

La poesia didattica e popolare riporta tante espressioni dal carattere satirico soprattutto contro le donne, i chierici e i frati. Esempio di questa letteratura sono il Floridus aspectus di Pietro Riga (1140-1209), che inserì una disputa tra Innocenzo II e Ulgerio di Angers, le opere anonime Proverbia quae dicuntur super natura feminarum, contro le donne e le monache, e Della caducità della vita umana, che nella scena dei funerali di Messer Giovanni sbeffeggia i parenti che vogliono un funerale affrettato, mentre il prete si dilunga con la messa, celebrandola solennemente cantata, come se desse cento anni d’indulgenza e si divertisse a dire messa, quasi che con le sue preghiere avesse il potere di risuscitare il morto. Anche le poesie moraleggianti dell’anonimo genovese riportano delle invettive satiriche contro un sacerdote pervicace, contro preti corrotti e indegni che predicavano l’astinenza e nel frattempo si saziavano dei migliori bocconi.

Della poesia popolare e giullaresca medievale ci rimangono pochi e frammentari documenti che attestano lo spirito satirico del popolo italiano, ad es. la storia di frate Sbereta, trasmessaci da un frammento bergamasco, nella quale lo spirito satirico dell’ignoto autore vien espresso nella forma della ballata, tipica del fableau giullaresco contro frati e chierici, oppure una canzonetta di scherno nei confronti di Niccolò III, al quale rimproveravano più di ventidue figli riconosciuti ufficialmente, tanto che con esagerazione popolare si diceva: «Di qua e di là dal Po / tutti figli di Niccolò», oppure su Martino V, il quale, mentre si trovava a Firenze (1420), nella notte sentì sotto le sue finestre una canzonetta satirica (Papa Martino, / signor di Piombino, / conte de Urbino, / non vale un quattrino. / Ah! Ah! Ah! Ah!) cantata da giovani, donne e bambini accompagnati da una chitarra, cosa che suscitò in lui un «capitale odium» verso i fiorentini.

Nello stesso XV secolo vi furono anche dei canti e delle ballate satiriche nei confronti del Savonarola e dei piagnoni, molte andate perdute, ce ne rimane notizia da alcune cronache del tempo che raccontano come a Ferrara venne punito il compositore di una di queste.

Poesia d’arte. La poesia d’arte medievale, soprattutto quella siciliana, è dominata dai temi d’amore, pertanto raramente possono trovarsi accenti di satira. Questi li troviamo in maggior numero contro l’imperatore, un nemico, una donna, gli angioini, ecc. (ad es. Percivalle Doria, Caloga Panzano, Provenzano e Rugieri di Siena).

Guittone d’Arezzo (1235-1294), altro esponente della poesia d’arte, non si sottrasse ad usare la satira contro i vizi ed i viziosi, i chierici lussuriosi e simoniaci (Son. CXXIII-CXXIV).

Jacopone da Todi (1236-1306) colpì principalmente nei suoi componimenti la decadenza degli ordini monastici e mendicanti, a cominciare dal francescanesimo, e le condizioni penose della Chiesa durante i pontificati di Celestino V e Bonifacio VIII. I suoi componimenti non mirano a suscitare il riso, ma a correggere i cattivi costumi, pertanto possono essere annoverati fra i componimenti satirici, giacché in Jacopone la satira è subordinata all’idea etica religiosa. Altri temi satirici di quest’autore sono quelli contro le donne, i falsi religiosi, che predicavano bene e agivano male, e la Chiesa stessa.

Le satire di Folgore da San Gimignano (1270-1332) erano rivolte per lo più contro i costumi e gli ideali cavallereschi, anche se vengono accennati temi contro la Chiesa e i frati («Prete non v’abbia mai, ne monastero. /Lasciate predicare i frati pazzi; / Ch’ hanno troppe bugie e poco vero», Marzo, in Parnaso italiano, Venezia 1819, 196).

Cecco Angiolieri (1260c.-1313), ricordato più per la satira personale contro i familiari e contro Dante Alighieri, non tralascia nelle sue opere l’accenno a preti e frati («ché non mi piace il prestar ad usura / a mo’ de’ preti e de’ ghiotton frati», Son. LXXV, vv 13-14), sottolineando dei primi la fame di denaro, dei secondi la vita beata e spensierata («o veder far misera vit’ a frieri», Son. XC, v 4).

Dante Alighieri. Egli raccoglie tutta la tradizione satirica medievale e la fonde in unità artistica, concedendo al sentimento satirico italiano un’espressione altissima e divenendo interprete dei suoi tempi. La sua satira iniziò già nel periodo giovanile con lo scontro a suon di sonetti satirici con Forese Donati. Aspro e veemente il tono di questo scontro che V. Cian conclude «il leoncello che, ancor giovinetto, aveva mostrato la granfia minacciosa, diventerà il poeta satirico, maturo e potente della Commedia». Se nella Vita Nova e nel De Vulgari Eloquentia la satira dantesca si scaglia contro letterati e politici, nella Monarchia attacca i nemici dell’idea imperiale, i cattivi giuristi, i falsi religiosi, avidi soltanto delle decime dei poveri, i Guelfi che si consideravano figli della Chiesa, ma che erano figli del demonio. Nelle lettere il tema satirico politico si mescola con quello antiecclesiastico del clero perverso dalla cupidigia. Nel Convivio, il cui scopo filosofico-dottrinale mira a difendersi dalle accuse dei concittadini che lo avevano mandato in esilio, non risparmia il suo spirito satirico contro gli avversari del volgare, dell’impero e gli ecclesiastici indegni — la maggior parte secondo lui — che cercavano solo onori e denaro. Ma è nella Divina Commedia, la più «grande profezia satirica in forma di visione», che Dante, con spirito satirico spesso vendicativo, specie nell’Inferno, apostrofa e inserisce i suoi nemici e delatori, compresi ecclesiastici e papi, passando dall’accento satirico, laconico ed epigrafico, quasi impercettibile, all’invettiva e alla maledizione esplicita e tagliente.

Petrarca (1304-1374). Se Petrarca è ricordato maggiormente per l’amore verso Laura, non deve passare in secondo piano il suo spirito satirico, disseminato nelle sue opere polemiche, ma anche in quelle latine. È riscontrabile soprattutto la sua satira antiecclesiastica nel De vita solitaria, dove ritrae con minuzia di particolari la vita del contadino, semplice e serena, del cittadino e del curiale di Avignone, dissipata e vergognosa. Le accuse verso i prelati e i chierici di una vita sregolata e indegna del loro stato diventano occasione di additare il loro modo di vivere come causa della decadenza della fede cattolica, così da consigliare al vescovo di Cavaillon: «Quorum te ante alios testem voco, non dissimulans inter multa, quibus valde me volentem cogis ut te diligam, illud esse non ultimum, quod amore solitudinis et huic coniuncto libertatis studio vicinam tibi nunc et prope contiguam romanam quam vocant curiam fugis, ubi non mediocrem forte hodie sortireris gradum, si quantum solitudo tibi semper angelica, tantum tumultus ille tartareus placuisset». Così anche nel Bucolicorum Carmen (egloghe VI, VII e XII), nelle Epistule sine titulo e nei tre sonetti antiavignonesi non perde occasione di sfoderare il sarcasmo e l’ironia contro la Chiesa e soprattutto la curia romana, a quel tempo stabilitasi ad Avignone.

Boccaccio (1313-1375). La satira boccaccesca, ricordata da molti per il più famoso Decameron, è quella più colorita e sarcastica del medioevo. Nella meno conosciuta opera De genealogia deorum, opera senile di Giovanni Boccaccio, sono contenuti dei ritratti canzonatori di molti personaggi, nemici e detrattori del poeta, tra cui teologi e frati ipocriti. Anche nel suo Commento alla Commedia di Dante Alighieri si lascia andare in commenti, digressioni e chiose satiriche sulle scene e i personaggi descritti. Circa il Decameron le opinioni degli studiosi sono contrastanti, se si tratti di spirito satirico (G. Carducci) o di riso fine a se stesso (F. De Sanctis), sta di fatto però che, sferzando i preti e i frati, in questa sua magnifica opera, altro non fa Boccaccio, facendo riflettere chi legge, che perseguire lo scopo della satira, «castigat ridendo mores», tanto che secoli dopo fu uno dei libri messi all’Indice dal Sant’Uffizio, non tanto per l’immoralità, bensì per la paura della sua condanna satirica (V. Cian).

Umanisti. Tra gli umanisti degni di nota per la satira verso i chierici e i frati vi è Poggio Bracciolini (1380-1459). Egli in varie opere (De avaritia, In hypocritas, Facetiae) rimprovera frati e funzionari della curia con quello spirito pungente e penetrante, tipico della sua satira narrativa, e, riportando episodi e aneddoti della vita reale, ci offre uno dei più coloriti e mordaci scorci della società del suo tempo.

Altro umanista satirico di spicco fu Leon Battista Alberti (1404-1472). Nel suo Pontifex immagina un dialogo tra un vescovo ed un giovane pastore sui doveri di un alto prelato, questo dà occasione all’autore di toccare i tasti nevralgici della critica ai chierici (nepotismo, avidità, ipocrisia, fasti e lascivia). Lo stesso spirito satirico pervade le altre sue opere (Intercoenales, Religio, Nummus, Defunctus, Momus), alternando pagine colme di satirica vivacità a pagine nelle quali l’interesse del lettore si sminuisce per la presenza dell’allegoria e della mitologia.

Giovanni Pontano (1429-1503) invece esprime la sua satira antiecclesiastica e antifratesca nel Charon, dove afferma che la causa principale dei tanti mali che attanagliano il mondo è l’avarizia dei preti e continua inveendo contro i cattivi sacerdoti che diffondono la superstizione, tanto da far affermare ad un saggio toscano: «Deum ubi perspexissem, sacerdotum mendaciis aures occludebam». Questo suo spirito satirico, pittoresco e pieno d’astio, si esprime con aneddoti ricchi di particolari, tanto da sembrare esser mutuati dalla vita reale. Anche nelle altre sue opere il Pontano trova sempre l’occasione per colpire il clero venale, che ha il privilegio di «vendere il cielo e largire l’inferno».

Ariosto (1474-1533). Nell’opera più conosciuta di Ludovico Ariosto, l’Orlando furioso, la satira anticuriale prende le mosse dalla rivisitata allegoria dantesca della lupa, simbolo della cupidigia, di cui la «romana corte» è stata vittima, e come in una caccia tutti le corrono dietro, anche il leone che sul dorso porta la scritta «decimo», chiara allusione al papa Leone X. Scagliandosi invece contro i frati, dipinge la vita spirituale dei conventi e dei monasteri come blanda, a causa di frati oziosi e crapuloni,  che hanno reso quei luoghi pieni di discordia. Ma è nelle Satire che l’Ariosto, con una variegata serie di toni e di temi, esprime il suo pensiero satirico — visione di un uomo vissuto nelle corti di Ferrara e di Roma, tra la fastosa curia e le corti cardinalizie —, delineando i profili di uomini ed episodi realmente accaduti. Così ad esempio la Sat. VI, 65-66, nella quale descrive la delusione provata dopo le grandi speranze riposte nella elezione di Leone X, adombrandola dietro l’allegoria della zucca. Bersagli della sua satira con violenti accenti sono i chierici, dal papa ai semplici preti e frati, ma anche cortigiani, umanisti, camerieri e frequentatori delle anticamere cardinalizie.

Pasquino. Genio della satira antipapale e antiecclesiastica sono gli spesso anonimi componimenti affissi al torso della statua detta Pasquino. Questi motteggi hanno inizio nel 1501, bensì si possono riscontrare pasquinate ante litteram già nell’antica Roma, quando alla statua di Priapo e di altri dei venivano affissi epigrammi satirici, oppure nel medioevo, come già ricordato, quando i detti e i motti che si diffondevano tra il popolo avevano una grande diffusione, tanto da essere inseriti da alcuni cronisti nei propri racconti (ad esempio l’epigramma latino composto contro Lucio III: «Lucius est piscis et rex tyrannus aquarum, / a quo discordat Lucius iste parum», o il motto diffuso alla morte di Bonifacio VIII ed usato per vari pontefici, soprattutto per quelli che scelsero il nome Leone: «Intravit ut vulpes, vixit ut leo, mortuus est ut canis»). Poi nel rinascimento gli epigrammi più violenti, talvolta anche illustrati, furono scagliati contro Sisto IV, questi vennero trovati «in campo flore Romae», oppure affissi sul ponte di Castel Sant’Angelo. In seguito la più grande produzione di pasquinate fu scagliata contro Alessandro VI e poi, ad uno ad uno, contro i suoi successori, fino ad arrivare quasi ai nostri giorni.

Questi componimenti, talvolta in latino, talaltra in volgare, sono chiari esempi di satira occasionale di carattere antiecclesiastico, che condanna, ora con l’aulico poetare umanistico, ora col motteggio canzonatore popolare, i costumi di un papato in decadenza, dei chierici lascivi e di una Chiesa poco o punto edificante, più dedita al lusso e al denaro che alla salvezza delle anime. La voce di Pasquino è, secondo alcuni studiosi, interna al potere stesso, espressione di una minoranza — e non a torto —, poiché il popolo ne era evidentemente escluso, dato il tasso di analfabetizzazione, dunque non poteva certo scrivere componimenti spesso in rima e in latino.

La libertà di parola e di espressione, rilevata da più autori, nella Roma del rinascimento è dimostrata dalla parresia dei compositori delle pasquinate (ad es. l’Aretino) e di coloro che apertamente si scagliavano contro il papa (ad es. Floriano Dolfi nei confronti di Alessandro VI). Così Pasquino e il suo compare Marforio, altra statua posta nelle vicinanze, si esprimevano, canzonando e sbeffeggiando i pontefici di turno, in dialoghi espressivamente satirici, poesie, motteggi, frottole e sonetti, raccolti in manoscritti che ancora si conservano, ogni tanto ripresi e raccolti da qualche studioso in edizioni a stampa.

Nel ’600 i componimenti satirici affissi alla statua di Pasquino saranno innumerevoli, soprattutto in concomitanza con i conclavi e sui quei cardinali e uomini di Chiesa di maggiore spicco e in particolar modo contro gli appartenenti alla Compagnia di Gesù, mal visti dalla società del tempo e parimenti dai motteggi pasquineschi (Se fosse papa il buon Pallavicino / finirebbero per i preti i carnevali, / che tutti i gesuiti cardinali / faria dal generale a fra’ Ruffino / […] Sarebbe una perfetta monarchia / essendo incorporata senza svario / la Santa Sede nella Compagnia. / Spinola, Centurion, Doria, Riario: / bei nomi! in Roma Genova saria, / e tutta l’Italia nostro seminario). Questo genere di componimenti contro Papi, cardinali e gesuiti continueranno maggiormente nei due secoli successivi, con l’avanzare del secolo dei lumi e dei moti rivoluzionari.

XVI sec. Da ricordare anche, nel corso del 1500, grandi personaggi che ci hanno lasciato esempi di satira nei confronti dei chierici, dei prelati, dei frati e dei pontefici. Questi sono il politico e filosofo Nicolò Machiavelli, Anton Lelio, Pietro Aretino, Luigi Alamanni, Giovanni Guidiccioni, Michelangelo Buonarroti, Guido Postumo Silvestri, Jacopo Sannazaro, discepolo del Pontano, Angelo Manzolli della Stellata, con lo pseudonimo di Marcello Palingenio Stellato, Lelio Capilupi, i frati domenicani Giordano Bruno e Tommaso Campanella, i poeti satirico-burleschi Pietro Nelli di Siena, celatosi sotto il nome di Andrea da Bergamo, e Luigi Tansillo di Napoli, e infine l’espressione di poesia da piazza di Olimpo da Sassoferrato e di Nicolò Franco, il quale nei suoi sonetti per il Bembo prende di mira il papa, i cardinali ed il «Ser Concilio Trentino». Nel XVI secolo, dinanzi all’avanzare della produzione satirica, si scagliarono contro di essa la censura ecclesiastica, attraverso l’Index librorum prohibitorum del 1559 sotto papa Paolo IV, e la censura politica dei vari regni.

XVII sec. Sul finire del XVI secolo iniziò la trasformazione della tradizione satirica, dovuta al cambiamento dei tempi e alla censura incontro alla quale andavano gli autori di essa. Si ha una produzione satirica, a detta di alcuni studiosi, vuota di pensiero e di sentimento (F. De Sanctis), fino ad affermare che al seicento manca la satira (A. Momigliano). D’altro canto, invece, altri sostengono la presenza di una modesta produzione letteraria non indegna di attenzione. Espressione di questa satira barocca è Salvatore Rosa (1615-1673), che ci ha lasciato un esempio di acre satira nei confronti di mons. Favoriti ne L’invidia, oppure Giovanni Battista Ricciardi (1623-1686), che ci ha lasciato delle rime di chiaro intento satirico contro l’ipocrisia del sentimento religioso e la simulazione della devozione, tipica del XVII secolo, vissuta in parte anche dal clero (Così caro signor, oggi prevale / l’ipocrisia alla bontà sincera, / è la veggiamo in lucco e ’n piviale). Ma son anche da ricordare Michelangelo Buonarroti il giovane (1568-1646); Benedetto Menzini (1646-1704), che, oltre a scagliarsi contro i bacchettoni, richiama i preti e i frati con quella satira tipica di Pasquino, di cui era grande ammiratore, alla sobrietà, dato che erano dediti al gioco d’azzardo e alla ricerca del vile danaro (O che gente, che razza maledetta! / la bussola passava tutto il die; / d’ogni età, d’ogni lingua e d’ogni setta: / frati con unghie di rapaci arpie, / beghini pregni di celesti ardori, / i crocchi, buffoni, mozzorecchie e spie, / questi del Santo Padre eran gli amori); Gabriello Chiabrera (1552-1638) non risparmia la sua penna per condannare ipocriti e avari e quella Roma, che «appar non men che Circe, incantatrice»; Alessandro Tassoni (1565-1635), che pone sulla bocca del legato pontificio ne La Secchia rapita una battuta contro papa Paolo V, oppure, sempre nella stessa opera, adombrato nel concilio degli dei, offre una allegorica visione dei concistori dei cardinali; Francesco Moneti (1635-1712), che con la sua satira antigesuitica nella Cortona nuovamente convertita ci offre ritratti di padri gesuiti, infarciti di gravi accuse, tra le quali quella di servirsi per i loro loschi scopi del sacramento dell’Eucaristia, e il padre Sebastiano Chiesa (1602-1666) che scrisse il Capitolo generale dei frati, inedito scritto che denunzia i disordini e la corruzione dei vari ordini, in particolare dei gesuiti.

XVIII sec. La satira rivolta contro i membri di quest’ordine avrà lunga eco tra il XVII e XVIII secolo, prendendo di mira la loro oppressione tirannica, gli abusi commessi dai membri e la loro ipocrisia, dilagante anche nella società. Esponenti di questa corrente saranno: il priore Vincenzo Comandi, Pier Salvetti, Luca Terenzi e Girolamo Gigli (1660-1722), il più prolifico in questo campo (O voi, che mezzi frati e mezzi preti / vi dimostrate a’ popoli minchioni, /astrologi, filosofi e poeti, / voi siete un branco d’asini e castroni. / Voi disprezzate i Canoni e i Decreti / con le vostre politiche ragioni; / per espiar de’ Principi i segreti / rivelate tra voi le confessioni. / Colui che di Gesù chiamò voi Padri, / a rimirarvi ben da capo ai piedi / dovea con più ragion chiamarvi ladri, / poiché con finti paternostri e credi, / infinocchiando le ammalate madri, / rubate la sostanza a’ figli eredi).

Il bresciano Bartolomeo Dotti (1651-1713), invece, nei suoi versi in lingua dialettale si scaglia contro i gesuiti, i finti religiosi e la corruzione dei monasteri femminili, mentre il siciliano Paolo Maura (1638-1711) apostrofa i finti religiosi come coddi torti (colli piegati, così ancora oggi si continuano a chiamare in Sicilia coloro che sembrano seguire la religione, ma si dimostrano cattivi), mentre Ludovico Sergardi (1660-1726), conosciuto con lo pseudonimo di Quintus Sectanus, nel suo Dialogo tra Pasquino e Marforio analizza i mali della Roma del tempo, fondendo lo stile satirico pasquinesco con quello classico. Infine Benedetto Micheli (1699-1784), nei suoi sonetti e nel suo poema in dialetto romanesco La libertà romana acquistata, usa la mitologia classica come schermo, alludendo con essa a personaggi a lui contemporanei.

XIX sec. Tra i principali esponenti della satira anticlericale prima dell’unità nazionale possiamo ricordare Giuseppe Giusti (1809-1850), esponente della satira popolare di gusto ‘paesano’, fatto di caricature, amarezza e talvolta di odio. Nei suoi due componimenti a Pio IX esprime lo sdegno per i religiosi, i gesuiti, che con la loro corruzione hanno insozzato la Chiesa, e le tasse che hanno esasperato il popolo (Tirate via, Beatissimo Padre, / tirate via. Tagliate con la scure / e monture e tonsure e prelature, / Svizzeri e birri e frati e l’altre squadre. / Nettate il grembo a nostra Santa Madre / di gesuiti e simili lordure; / scemate i dazi, appianate l’usure / e con Vienna e con Roma e tutte ladre. / Rassettate la barca del Signore / e, così come siete, ignudo e bruco, / armatela e mandatela a vapore. / E tutto questo lo pretende un ciuco, / che, messo lì per vostro successore, / non leverebbe un ragnolo da un buco).

Un altro esponente ragguardevole è Giuseppe Gioacchino Belli (1791-1863), compositore di una infinita serie di sonetti in italiano e in romanesco, che trattano dei più svariati temi. La satira del Belli si prende gioco del vissuto cristiano (La pantomìna cristiana, La riliggione der tempo nostro, La santa Messa), di frati e preti ghiotti e ipocriti (La porteria der Convento, In vino veribus), delle spie del Papa (La porta dereto), dei prelati e monsignori amici di donne di malaffare (La puttana protetta), i conclavi e i concistori (La sscerta der Papa, Li Cardinali ar Concistoro, L’upertura der concrave), la vita dei chierici e del Papa (Le cappelle papale, La vita der Papa, Le risate der Papa, Le visite der Cardinale,  Li Prelati e li Cardinali) e di tanti altri argomenti che, rivolti a tutti gli strati sociali, arrivano a Dio stesso e ai santi (Er miracolo de San Gennaro), «una sorta di gioco al massacro, che non lascia nulla di integro» (C. Costa)

d) Arte e satira

Ciò che avvenne nel corso dei secoli nel campo della poesia e delle opere satiriche, trova il suo riscontro anche nelle arti figurative.

Danza macabra e trionfo della morte. Il tema delle danze macabre e del trionfo della morte nasce dall’ascetismo e dal pessimismo del medioevo, che voleva spingere gli uomini al disprezzo delle cose mondane, alla condanna e alla derisione satirica di chi ammassava ricchezze, di chi era potente e di chi non aveva nulla, accomunati alla fine dalla stessa sorte. Questo particolare tema, principalmente figurativo (alcuni esemplari oltre a essere raffigurati erano anche accompagnati anche da didascalie), fu molto diffuso in Francia, Germania e Inghilterra, ma se ne riscontrano alcuni tratti particolarmente eloquenti anche in Italia, grazie soltanto agli elementi satirici che vi erano penetrati. Il trionfo della morte raffigura uno scheletro su di un cavallo o di un carro di trionfo, che schiaccia uomini di ogni classe sociale (fig. 1), mentre l’analogo tema della danza macabra raffigura scheletri o corpi decomposti che accompagnano uomini di ogni ceto, che si distinguono dal vestiario, in una sorta di danza con altri scheletri, talvolta anche loro vestiti, come a ricordare lo status a cui appartenevano (fig. 2). Particolare è l’unione dei due temi nell’affresco (fig. 3) di Giacomo Borlone de Buschis sull’esterno dell’Oratorio dei Disciplini a Clusone (1485).

Giudizi universali. Un tema che dava occasione di rivalsa contro il potere politico, o contro gli avversari in genere, era il Giudizio universale o dell’oltretomba. Probabilmente affonda le sue radici nel poema dantesco e nelle dispute medievali del giudizio particolare (visione beatifica o pena dell’inferno), dogma definito da papa Benedetto XII nella Benedictus Deus, dottrina compatibile con quella del giudizio finale. Partendo da ciò questo tema satirico si sviluppò con facilità, tanto che lo stesso domenicano Giovanni da Fiesole, meglio conosciuto come Beato Angelico (1395-1455), raffigurò tre opere del Giudizio universale, mettendo tra i beati i frati domenicani e fra i dannati i rivali francescani (fig. 4).

Miniatura. Molto spesso anche nelle miniature a bordo pagina o in calce al testo i miniatori, talvolta anonimi, ci hanno lasciato rappresentazioni satirico-allegoriche: volpi, cinghiali o cani vestiti da vescovi (fig.5) o cardinali, scimmie vestite da pontefici, predicatori dalla cui bocca escono rane per indicare i falsi profeti (fig. 6), uomini in arme che combattono contro lumache, o conigli armati che fanno guerra con altre bestie. Temi satirici, ad esempio quello del lombardo e della lumaca, o del mondo alla rovescia, che prendono le mosse da quelli già contenuti nelle danze macabre e nei trionfi della morte.

Scultura. Esempi satirici antifrateschi e antiecclesiastici raffigurati attraverso l’arte della scultura possono trovarsi, al contrario di quanto si possa pensare, nella penombra delle cattedrali. A Parma, ad esempio, i capitelli sono stati scolpiti nel XII secolo con raffigurazioni antifratesche (fig. 7), probabilmente tratte dal Roman de Renart. Così anche nella cattedrale di Ferrara si trovano simili raffigurazioni, forse segno che la Chiesa usasse anche queste raffigurazioni per schernire e ammonire il malcostume dei chierici e dei laici (V. Cian).

Pittura. La satira manifestata attraverso la pittura era pericolosa tanto quanto quella letteraria, ne è esempio ciò che successe al giovane pittore romano che osò ritrarre sopra un panorama di Cave, assediata dai soldati di Sisto IV, un francescano che corteggia una donna: fu perseguito dal pontefice ed espulso da Roma. O anche il già ricordato Beato Angelico, oppure Giotto o il famoso Michelangelo Buonarroti (1474-1564) che, nel dipingere il giudizio universale nella cappella Sistina, raffigurò nell’infernale Minosse avvinghiato da un serpente il cerimoniere di papa Paolo III, Biagio da Cesena, il quale aveva criticato il dipinto in corso d’opera (fig.8)

e) Condanne della satira

Lungo il corso dei secoli la satira e il riso in genere furono condannati da autori ecclesiastici e dai pontefici romani. Così Giovanni Crisostomo e Basilio di Cesarea affermano che per il credente non è mai tempo di ridere, giacché Cristo non cedette mai al riso, seguiti poi da un’infinità di autori (Salviano di Marsiglia, Ferreolo, Benedetto di Aniane, Ludolfo di Sassonia, Pietro Cantore, ecc.), i quali, sebbene possano usare degli elementi satirici e canzonatori nelle loro opere, affermano che il riso non si confà ai cristiani (Tertulliano, Ambrogio, Agostino, Clemente Alessandrino, ecc.).

I concili provinciali e i capitolari carolingi condannarono la presenza dei cristiani agli spettacoli nei giorni di festa (concilio di Cartagine del 398), le feste dei folli (concilio di Tours del 567 e di Toledo del 633), le satire popolari (concilio di Chàlon-sur-Saône del 650), le leggende e i canti satirici (Capitolare di Carlo Magno del 764).

Poi anche i Papi iniziarono a condannare pratiche parodistiche diffuse un po’ in tutto l’orbe ecclesiale, ad es. la pratica medievale di eleggere un vescovello nella festa dei santi Innocenti, più volte condannata e sopravvissuta fino agli anni trenta del secolo scorso, oppure le condanne lanciate dall’antipapa Vittore IV contro i chierici corrotti che rendevano, a causa del loro comportamento, l’ufficio sacerdotale materia di istrioni (Acta Pontificum Romanorum inedita, ed. J. v. Pflugk-Harttung, II, Stuttgart 1884, n. 432). Il concilio di Trento condannava invece chi si serviva di episodi ed espressioni delle scritture per le buffonate e le vanità (Sess. IV, Decr. II), condanna poi ripresa dai vari concili provinciali celebrati dopo Trento, probabile allusione alla riprovevole pratica germanica del risus paschalis, che aveva poco di satirico e molto di osceno.

Nel ’500 e nei secoli successivi la condanna delle parodie e della satira, generatrice del riso smodato, venne rinnovata dai pontefici Pio V e Sisto V e da vari autori ecclesiastici, tra i quali il Bellarmino, Ignazio di Loyola, Leonardo da Porto Maurizio ed altri. Queste condanne non soppressero però lo spirito satirico, anzi lo alimentarono, fino al punto che la sterminata serie di autori che si avvicendano tra il ’600 e l’800 non disdegnano di prendersi gioco nelle loro opere satiriche di chierici, frati, prelati e pontefici, senza riguardo per alcuno e senza edulcorazioni di alcun genere.

Fonti e Bibl. essenziale

  1. Fonti

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  1. Monografie, articoli e miscellanee

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Didascalia immagini

fig. 1 Palermo, Galleria regionale di Palazzo Abatellis, Trionfo della morte, (1446), affresco staccato.
fig. 2 Pinzolo, chiesa di San Vigilio, Simone Baschenis, Danza Macabra, (1539), affresco.
fig. 3 Clusone, Oratorio dei Disciplini, Giacomo Borlone de Buschis, Trionfo della morte e Danza macabra, (1485), affresco.
fig. 4 Firenze, Museo nazionale di San Marco, Beato Angelico, Giudizio universale, (1481), tempera su tavola.
fig. 5 Il vescovo cinghiale (particolare), Morgan Library & Museum, Libro d’ore, (1440-1450), miniatura, MS M.358, fol. 13r.
fig. 6 I falsi profeti (particolare), British Library, (sec. XIV), miniatura, Royal 19 B XV,  f. 30v.
fig. 7 Parma, Duomo, Capitello raffigurante un asino e un lupo vestiti da monaci, (XIII sec.), scultura.
fig. 8 Roma, Cappella sistina, Michelangelo Buonarroti, Giudizio universale (particolare di Minosse), (1535-1541), affresco.

LEMMARIO




Scienza - vol. I


Autore: Roberta GrossiImmagine nuova

Antichità. La nascita del Cristianesimo costituisce l’evento che ha maggiormente influenzato la cultura del mondo tardo antico (II-VII secolo). La ricerca sulla realtà fisica in cui sono impegnati i filosofi della natura cristiani e pagani, si svolge secondo criteri analitici e linguistici. L’uomo di scienza era fondamentalmente un letterato e la sua autorità scientifica si fondava su una riconosciuta solidità nell’esegesi letteraria delle opere e delle teorie scientifiche. Lo spazio crescente acquisito dalla religione cristiana, in tutte le sue espressioni, ha il suo apice nell’editto di Giustiniano del 529 con il quale viene sancita la chiusura dell’Accademia di Atene e proibito ai pagani l’insegnamento. Tali scelte avrebbero portato ad una minore conoscenza del greco e la conseguente difficoltà di accesso al patrimonio scientifico della tradizione ellenistica. Fino al VI secolo, l’interesse dei teologi cristiani e dei Padri della Chiesa verso le scienze della Natura resterà marginale. L’atteggiamento prevalente verso questo campo del sapere sarà improntato al monito di Tertulliano (155 ca.-230 ca.) nel De Praescriptione Haereticorum, secondo cui il cristiano esprime nella fede il senso integrale della propria vicenda terrena. La dissoluzione dell’Impero romano d’Occidente si accompagnò ad una profonda crisi istituzionale che travolse ogni forma di espressione culturale. Si interruppe ogni legame con la filosofia e la scienza greca. Sul papato di Roma, unico punto di stabilità culturale, cadde la responsabilità di restaurare la civiltà in Europa. Nel IV secolo, al progressivo disfacimento della trama di rapporti tra mondo greco e Occidente latino, si sviluppa l’azione degli enciclopedisti che attraverso un’intensa opera di codificazione avrebbero reso disponibili gran parte delle nozioni scientifiche allora conosciute. E’ noto l’atteggiamento di sospetto, se non di vera e propria avversione, dei primi Padri latini verso il sapere profano. Talché in Agostino d’Ippona (354-430) esso è riferibile a un’erudizione superficiale raggiungibile attraverso il ciclo delle artes liberales, cosiddette non solo perché considerate degne dell’uomo libero, ma altresì perché contribuiscono a renderlo libero.

Un’azione di riequilibro del peso delle discipline letterarie nel percorso formativo viene intrapresa da Anicio Manlio Torquato Severino Boezio (480 ca.-526 ca.) e ha il suo cardine nella traduzione di opere attinte al patrimonio greco quali i testi di logica di Aristotele (384/383-322). Probabilmente, lo scopo è quello di rendere disponibile un manuale di base relativo a ognuna delle quattro discipline matematiche, il quadrivium, appunto, come Boezio medesimo lo definisce nell’Institutio arithmetica ad indicare l’insieme di aritmetica, geometria, astronomia e musica come quadruplice itinerario verso la sapienza. Negli stessi anni le discipline liberali vengono definitivamente integrate da Flavio Magno Aurelio Cassiodoro (490 ca.-580 ca.) all’interno del sapere cristiano. Nelle Institutiones divinarum et humanarum litterarum egli traccia un panorama delle scienze sacre e illustra gli elementi necessari alla formazione profana, distinta nelle sette arti, indispensabili per prepararsi allo studio della Bibbia. Il carattere di novità delle Institutiones rispetto all’enciclopedismo tardo-antico sta nel rilevo assegnato alla bibliografia, per cui un elenco di autori e testi affianca ogni disciplina, pur essendo lo studio delle arti finalizzato alla pratica esegetica; e nel porsi un problema concreto, l’alfabetizzazione dei monaci, da realizzare in un ambito istituzionale definito, il monastero. In tale concezione il legame tra scuola e biblioteca e quindi tra attività didattica e disponibilità di testi si presenta cruciale in relazione alle modalità di trasmissione del sapere. L’insegnamento delle discipline liberali, obbligatorio nelle scuole monastiche per laici, viene esteso, a partire dal XII secolo, anche alle università integrandosi nel canone della cultura medievale cristiana.

I monasteri, divenuti durante l’Alto Medioevo i nuovi centri di cultura affiancano all’insegnamento e alla pratica laica della medicina, documentabili fin dal VI secolo nell’Italia gota e bizantina, un proprio marcato impegno ispirato a una visione cristomimetica che appartiene sia all’ideologia politica che alla teologia tardo-antica e medievale, secondo cui è nell’amore verso i propri simili che l’uomo trasfigura in Cristo. Tale visione, influenzata dalla spiritualità monastica bizantina, fu espressa, in particolare, dal monachesimo benedettino. Il servizio, diviso fra lo scriptorium e l’infermeria delineava uno spazio che era fisico e morale nel quale l’agire cristiano esauriva tutte le possibilità. In un arco cronologico compreso tra la fine del X e il tardo XVIII secolo i testi fondamentali della tradizione scientifica greca e araba furono resi accessibili alla cultura latina, mediante l’attività di traduzione scientifica dall’arabo, contribuendo attraverso questa azione di mediazione culturale alla nascita della scienza europea. I centri in cui, in Italia, fu più intensa tale opera, furono Pisa e Lucca. La fitta trama di relazioni esistente tra gli studiosi rivela gli interessi che orientavano le scelte di traduzione: la matematica, le tecniche dell’aritmetica indo-araba, della geometria euclidea e dell’astrolabio, del calcolo degli oroscopi e dell’interpretazione delle tavole astronomiche che non aveva, quest’ultima, solo una valenza filosofica bensì essenziale per il computo ecclesiastico, cioè il calcolo calendaristico delle feste mobili. Tale patrimonio di conoscenze fu reso disponibile alla nascente università. Gli autori tradotti arricchirono le raccolte enciclopediche del tardo medioevo consolidandone la molteplice funzione di strumenti per conservare, organizzare e diffondere le conoscenze. Salerno (Principato) e il monastero di Montecassino, ma successivamente anche Bologna (città imperiale, sotto l’autorità dei conti e papale) e Padova (comune indipendente), furono i centri più importanti relativi allo studio della medicina. Accanto all’opera di traduzione, furono elaborate nuove forme di insegnamento della disciplina, di esegesi dei testi e di estensione del vocabolario dei termini in latino. Nelle fasi iniziali della diffusione della nuova cultura medica svolse un ruolo di particolare rilievo l’attività di traduzione ed elaborazione teorica di Costantino l’Africano (1015 ca.-1087 ca.), monaco a Montecassino. Risultato dell’importanza crescente che nel tardo XI secolo venivano attribuite alla logica e alla razionalità, estendendole a ogni ramo del sapere, fu la teologia sistematica. Tale esito innescò un moto di rinnovamento che ebbe il suo apice nelle Sententiae di Pietro Lombardo (fine XI sec.-1160), composte tra il 1155 e il 1158. L’opera, che sostituì rapidamente tutti i testi in uso fino ad allora, divenne per i cinque secoli successivi il libro principale, accanto alla Bibbia, nelle scuole di teologia. Il rilievo delle Sententiae, per la storia della scienza, risiede nei numerosi punti di contatto tra la teologia medievale e la filosofia della Natura, principalmente quella di Aristotele. Il vasto impegno intellettuale costituito dai commenti all’opera di Pietro ebbe tra i protagonisti Bonaventura da Bagnoregio (1217 ca.-1274), Tommaso D’Aquino (1225/1226-1274), Egidio Romano (1234 ca.-1316) e Gregòrio da Rimini (m. 1358) e mostra il livello raggiunto dai filosofi medievali nel ricorso alla filosofia della Natura per spiegare e razionalizzare i problemi teologici. Tali commenti non conseguirono risultati di rilievo per le scienze della Natura, nondimeno fu la qualità dei problemi teologici affrontati a consentire, secondo Grant, uno sviluppo della filosofia della Natura che essa non avrebbe mai raggiunto in un contesto strettamente secolare.

Rinascimento. Tra la seconda metà del Trecento fino alla fine del Cinquecento entra in crisi l’immagine del mondo elaborata dalla civiltà classica e ripresa in varie forme dalla civiltà cristiana medievale. Maturava un atteggiamento nuovo fondato sulla fiducia in un rinnovamento generale della vita e della storia umana, sulla rivendicazione della centralità cosmica dell’uomo e l’esaltazione della sua libertà, della sua dignità (Vasoli). L’affermazione del rigore filologico degli studi permea ogni campo del sapere determinando le condizioni da cui emerse la mentalità scientifica moderna. Un aspetto di rilievo per la storia della scienza rinascimentale è dato dal ruolo svolto da personaggi come Bessarione (1403 ca.-1472), la cui importanza si colloca su una linea di confine tra la filologia e le scienze, e dediti alla raccolta di opere della tradizione filosofica e scientifica classica. Notevole in tal senso l’impegno nel promuovere la ricerca di manoscritti antichi di Tomaso Parentucelli da Sarzana, futuro Niccolò V (1447-1455), soprattutto di ambito scientifico; tra i quali il codice A di Archimede, una delle pietre miliari della costruzione galileiana. Nel lavoro rigoroso di revisione dei testi della tradizione classica va segnalata l’opera dell’umanista veneto Ermolao Barbaro (1453-1493), Patriarca di Aquileia, compiuta sulla Naturalis Historia di Plinio. Luca Pacioli (1445 ca.-1517) nel De Divina Proportionae (1509) sosteneva essere la pittura una disciplina matematica tal quale la musica, recependo in tal senso l’accresciuta articolazione della partizione medievale delle artes liberales. La conseguenza di questo processo avrebbe portato innovazioni rivoluzionarie nel campo della creazione artistica, figurativa e architettonica.

In Italia venne istituita al Collegio Romano, principale università gesuita, la cattedra di Mathesis cum Geometria et Astronomia (1556). I più stretti collaboratori di Ignazio di Loyola (1491/1492-1556) erano insigni matematici e ciò ebbe un peso notevole nel determinare la situazione di monopolio nell’insegnamento delle arti liberali da parte della Compagnia. In quegli stessi anni si sviluppa un dibattito sulla scientificità e sui metodi della matematica suscitato dalla pubblicazione dell’opera di Alessandro Piccolomini (1508-1578), Commentarium de Certitudine mathematicarum disciplinarum (1547). Dibattito a cui prese parte Giuseppe Biancani (1566-1624), professore di matematica e astronomo gesuita formatosi a Padova, dove incontrò Galilei. Tali discussioni di carattere metodologico, accompagnate da una mai esausta azione di promozione degli antichi testi greci, produssero risultati fondamentali determinando una tendenza stabile per cui l’ascesa della matematica europea procedeva parallela al declino di quella araba. Bernardino Baldi (1536-1617), formatosi con Guidobaldo dal Monte (1545-1607) alla Scuola di Urbino, oltre alla traduzione delle opere di Erone e Pappo compose 202 Vite di matematici, opera considerata la prima grande storia europea della matematica. Egnazio Danti (1536-1586), astronomo, cartografo, costruttore di strumenti scientifici, realizzò due gnomoni nella chiesa di Santa Maria Novella a Firenze. Trasferitosi a Roma alla corte papale ebbe da Gregorio XIII l’incarico di realizzare le carte geografiche dell’Italia nella Galleria delle Carte geografiche.

Rivoluzione scientifica. La nozione di rivoluzione scientifica, comunemente riferita alle vicende intellettuali dei secoli XVI e XVII, non indica solo l’insieme di novità e scoperte nei diversi settori della conoscenza della natura ma anche quei cambiamenti profondi attraverso i quali si costituì una specifica forma del sapere (P. Rossi) che avrebbe condotto alla identificazione dell’attività di ricerca scientifica con una professione. Questo processo investì sia discipline tradizionali, come l’astronomia, con una vicenda millenaria radicata nell’antichità classica ellenistica, sia discipline, precipuamente dal carattere sperimentale, che nascono con la modernità, e introdusse mutamenti di metodo e contenuto, ridisegnò gli ambiti di saperi consolidati, modificandone il dominio, il campo d’indagine. Con il De revolutionibus orbium coelestium Nicolò Copernico (1473-1543), all’interno di un apparato matematico sostanzialmente identico all’Almagesto di Claudio Tolomeo (100 ca.-170 ca.), introduce la novità rivoluzionaria relativa ai moti planetari. Nel campo delle scienze sperimentali emersero vere e proprie discipline, come la chimica, la geologia, la fisica sperimentale, le scienze naturali, anche se il processo attraverso il quale maturarono i loro metodi e contenuti specifici fu lento, faticoso e raggiunse un assetto stabile solo nel Settecento. Nel Seicento, per alcune di queste nuove scienze non esiste ancora un lessico adeguato a designarne il nome e le tecniche sperimentali. L’attenzione per l’astrazione matematica come per lo sperimentalismo più minuto, il fatto che per molto di questo sperimentalismo il ricorso all’astrazione matematica non offriva alcuna risorsa per indagare il tipo di problemi a cui guardava, delinea, seppur sommariamente, la natura composita della rivoluzione scientifica e le origini complesse, intricate, della nascita della scienza moderna. Un dato pare comunque acquisito: solo dalla modernità emerge quel tipo di sapere che tutt’oggi indichiamo col termine scienza.

Per la prima volta, in Occidente, diversamente dal passato e da altri contesti geografici, quel sapere lega insieme teoria ed esperimento, elabora forme istituzionali proprie; linguaggi specifici; orienta le proprie scelte in un arco di valori concernenti “la irrilevanza dell’appello alle autorità e il rispetto dei fatti; l’autonomia delle convinzioni scientifiche rispetto a quelle religiose o politiche” (P. Rossi). Questo percorso non fu lineare e non procedette con la stessa intensità in ogni settore della scienza. La spinta alla matematizzazione della natura, l’estensione del meccanicismo alle scienze della vita, la costruzione di nuovi strumenti come il cannocchiale e il microscopio, avviarono una fase di espansione dell’attività scientifica accompagnata da un processo di trasformazione delle scienze tutt’ora in atto. Le mutazioni di carattere intellettuale prodotte dalla teoria copernicana e che attraverso l’opera di Galilei e la successiva sintesi newtoniana portarono alla formazione di un legame tra la filosofia naturale, la matematica e la storia della natura, erano connesse a una trasformazione istituzionale altrettanto importante: la nascita di accademie e riviste scientifiche come sedi di discussione dei risultati delle ricerche sulla Natura. Tali innovazioni davano risposta a un’esigenza tutt’altro che agevole, nel Seicento, quella di far circolare le proprie idee. E che, rafforzandosi lungo il secolo, farà emergere una nuova istituzione, l’Accademia, una comunità indipendente dalle università e dalla Chiesa, resa omogenea dal campo di indagine, la Natura, e che qui trovava un’identità e una dimora. Tale fu l’ispirazione di Federico Cesi (1585-1630), fondatore e animatore della prima accademia scientifica italiana ed europea, l’Accademia dei Lincei istituita a Roma nel 1603. Egli affronta la questione dell’atteggiamento del potere nei confronti della scienza e dell’educazione e denuncia il carattere di inadeguatezza del modello dell’accademia di corte dove la dignità dello studioso è lesa dal legame di patronato con l’autorità. I Lincei chiedono alla Chiesa e al potere politico il rispetto della libertas philosophandi in naturalibus e si impegnano a non invadere il campo proprio della politica e della teologia, pur consapevoli della dimensione ‘politica’ dell’attività scientifica per l’influenza che esercita sulla intera vita civile, e senza astenersi dal contribuire a sciogliere il rapporto di subalternità esistente tra ricerca scientifica e magistero della fede. Nello schierarsi a difesa di Galilei essi non intesero offendere il sentimento religioso bensì riaffermare la distinzione di piani. Nella visione lincea, infatti, la coerenza con i principi del cristianesimo nell’interpretazione delle Sacre Scritture non era lesiva della dignità della ragione umana e si accordava con equilibrio all’evidenza dell’osservazione sperimentale.

La pubblicazione, nel 1543 a Norimberga, del De revolutionibus di Nicolò Copernico segna la fine del Medioevo e la data di inizio della modernità. La teoria eliocentrica dell’astronomo polacco determinava, secondo Koyré “il crollo di un mondo creato intorno all’uomo e per l’uomo […] il crollo della gerarchia”. Una visione del mondo, comune a cattolici e protestanti, veniva cancellata; e con essa, il sistema cosmologico aristotelico-tolemaico. La sua portata dirompente sul piano metafisico e in ambito scientifico si sarebbe sviluppata solo qualche decennio più tardi, in particolare negli scritti di Giordano Bruno e nell’opera scientifica di Galilei. Ragioni di natura scritturistica avevano comunque suscitato critiche da parte di Filippo Melantone (1497-1560), anche se l’avviso al lettore, inserito come premessa nel De revolutionibus dal pastore luterano di Norimberga Andreas Osiander aveva, secondo alcuni studiosi, proprio lo scopo di prevenire le reazioni dei filosofi aristotelici ma soprattutto le critiche dei teologi riformati. Da parte cattolica le critiche al De revolutionibus non furono ostili, registrando, in qualche caso, un’accoglienza addirittura favorevole da personalità eminenti che ne sostennero la pubblicazione, quali il canonico Tiedemann Giese divenuto, poi, vescovo di Chelmo. Il silenzio della Chiesa su Copernico, durato fino al 1616, fu determinato anche da fattori contingenti: Bartolomeo Spina (1475-1526), il Maestro del Sacro Palazzo incaricato da Paolo III di esaminare l’opera, era orientato a condannare il De revolutionibus ma la sopravvenuta morte lo avrebbe impedito. Il suo successore nell’incarico trascurò la questione; il pontefice stesso e la Chiesa tutta erano immersi nella temperie politico-religiosa determinata dallo svolgimento del Concilio di Trento (1545-1563) e dalle guerre europee in atto. La figura di maggior rilievo tra i sostenitori della teoria copernicana fu Giordano Bruno (1548-1600). La sua adesione alla teoria eliocentrica e la critica della concezione aristotelico-tolemaica, rappresentarono la base di una speculazione di natura filosofica che ha nella pluralità dei mondi e possibili abitanti, e nell’universo infinito (De l’infinito, universo e mondo, 1584) gli approdi dalle implicazioni teologiche profonde. Suddette concezioni investirono il problema della salvezza, l’estensione spaziale del sacrificio di Cristo e il carattere della redenzione. Tali argomenti costituiranno il nucleo delle accuse durante il processo cui fu sottoposto e conclusosi con la condanna, eseguita il 17 febbraio 1600. La vicenda di Bruno influirà senza dubbio nelle questioni relative alla controversia copernicana al tempo di Galilei.

Nel 1610 a Venezia, Galileo Galilei (1564-1642) presentava le prime scoperte astronomiche nel Sidereus Nuncius, con le osservazioni sulle traiettorie dei satelliti di Giove, confermando le ipotesi copernicane. Il viaggio a Roma del 1611 segna l’apice del successo di Galilei: allaccia rapporti con i matematici della Compagnia di Gesù al Collegio romano, ottiene l’udienza dal papa Paolo V (1605-1621) e viene ammesso all’Accademia dei Lincei. Non mancarono critiche dall’ambiente aristotelico, ma di natura ideologica, estranee ad una valutazione scientifica dei risultati galileiani. La questione della coerenza con le Sacre Scritture, sollevata in ambito filosofico, avrebbe allargato la polemica alla sfera teologica. Il tema della compatibilità del nuovo sistema cosmologico fu affrontata direttamente da Galilei in due lettere: nel 1613, al monaco benedettino Benedetto Castelli (1578-1643), suo allievo, e nel 1615 a Cristina di Lorena, allo scopo di chiarire la relazione tra verità scientifica e verità creduta per fede. Nei due scritti, lo scienziato precisa la visione del rapporto tra Sacra Scrittura e Natura ed enuncia quel principio di autonomia dello studio della Natura che sarebbe diventato uno dei cardini della ricerca scientifica moderna. Il domenicano Niccolò Lorini (1544-1617 ca.), punto di riferimento dei circoli antigalileiani fiorentini, inviò una copia della lettera a Castelli alla Congregazione dell’Indice che trasferì le carte al Sant’Uffizio, ove si decise di avviare una pratica istruttoria. Nel 1615 il domenicano fiorentino Tommaso Caccini, depose al Sant’Uffizio contro le tesi eliocentriche di Galilei, perché contrarie alle Sacre Scritture. Di parere favorevole alle nuove scoperte era il teologo carmelitano Paolo Antonio Foscarini (1565-1616), che nel 1615 pubblicava un trattato: Sopra l’opinione dei pitagorici e del Copernico in cui sosteneva, invece, la compatibilità scritturistica con il sistema copernicano. Il 19 febbraio 1616 si concluse quello che impropriamente viene definito il primo processo a Galilei. In realtà venivano condannate all’unanimità le due proposizioni sul sistema copernicano, ossia: che il Sole sia il centro del mondo et per conseguenza imobile di moto locale; che la Terra non è centro del mondo, né imobile, ma si muove secondo sé tutta, etiam di moto diurno. Il cardinale Bellarmino (1542-1621) fu incaricato di ammonirlo a non seguire più le nuove teorie. Tale monito, benché atto privato, ebbe un ruolo rilevante nel processo del 1633, istruito in seguito alla pubblicazione del Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo (1632), allorché vi si riconobbe l’esposizione del copernicanesimo e la chiara violazione dell’ammonimento del gesuita. Il divieto dell’eliocentrismo sarebbe durato fino al 1820. É necessario precisare che l’azione censoria della Congregazione dell’Indice fu meno aggressiva di come è stata rappresentata, pur restando il carattere di negatività. Tra il 1542 e la fine del XVIII secolo in totale furono proibite le opere di 130 autori di scienza. Ad un’analisi approfondita emerge che “nessuna proibizione di contenuti scientifici venne dalle regole dell’Indice, ma tutte dall’obbligo di congruità fissato dalla Apostolici Regiminis (1513)” (Baldini).

Le tensioni presenti nell’ambito della ricerca astronomica sono del tutto assenti negli altri campi della fisica, dove la produzione, fino alla fine del Seicento, pur di livello non elevato, sarà cospicua e impegnerà nei settori più matematizzati i laici, mentre l’ottica fisica, l’acustica, l’elettrologia, la magnetologia, saranno presidiati da religiosi. Nel campo della botanica il lavoro di alcuni monaci benché collegato ad ambienti universitari restava circoscritto alla tradizione dell’erborismo di ambito monastico. Il movimento di riscoperta e reinterpretazione dei testi originali della matematica e della geometria greca che ebbe luogo nel XVI secolo costituirà la base di profonde rivoluzioni concettuali nel secolo successivo. Il 1575 segna l’inizio di quel processo nel quale occupano un posto di assoluto rilievo l’opera di Bonaventura Cavalieri (1598-1647) e del gesuita Luca Valerio (1553-1618). Nel De centrum gravitatis solidorum (1604), Valerio affrontava e risolveva il problema di determinare il centro di gravità di tutti i solidi allora conosciuti. Un risultato che gli valse la stima di Galilei. La sua lezione metodologica sarà raccolta da Cavalieri, dell’Ordine dei Gesuati, nella Geometria indivisibilibus continuorum nova quadam ratione promota (1635). Con la loro opera, i due matematici contribuirono a creare il contesto concettuale da cui sarebbe nata la matematica moderna. Frutto del clima avverso alla libera speculazione cosmologica ma che incoraggiava quella ricerca scientifica che non metteva in discussione la visione geocentrica fu l’Almagestum novum (1651) del gesuita bolognese Giovanni Battista Riccioli (1598-1671), in cui lo studioso riportava con equilibrio gli argomenti a favore e contro l’eliocentrismo. Interessato alla dimensione sperimentale del lavoro di Galilei, elaborò un programma di ricerca sulle leggi che riguardavano la caduta dei gravi e le traiettorie paraboliche. Va invece collocata nell’ambito della ricca produzione di lavori sperimentali sulla natura della luce e delle sue proprietà fisiche l’opera del gesuita Francesco Maria Grimaldi (1618-1663). Allievo di Riccioli, in un trattato pubblicato postumo, Physico-mathesis de lumine, coloribus et iride (1665), descrisse una nuova proprietà della luce: la diffrazione.

Un capitolo a parte costituisce la vicenda della ricezione in Italia del calcolo leibniziano, ‘il calcolo sublime’, che vide in posizione di assoluto rilievo scientifico personalità quali l’olivetano Ramiro Rampinelli (1697-1759), allievo di Magini, docente nei collegi religiosi di Roma, Pavia, Bologna, Brescia e Milano. Guido Grandi (1671-1742), camaldolese, tra gli esponenti più significativi dell’intera cultura italiana del primo Settecento, insegna a Pisa il calcolo differenziale e integrale; a lui si deve il primo scritto italiano di analisi, il De quadratura circuli et hyperbolae (1730). A Bologna, al Collegio di Santa Lucia, insegna il gesuita Vincenzo Riccati (1707-1775), che pubblicherà con l’allievo Gerolamo Saladini le Institutiones Analyticae (1765-1767), in due volumi; summa delle conoscenze di analisi dell’epoca. In fisica vi fu, ad esempio tra i gesuiti, una accettazione quasi immediata della meccanica galileiana-torricelliana, applicata e sviluppata per casi particolari da Confalonieri, Zucchi, Bettini, Grassi, Riccioli, Casati P., Boldigiani, Ceva, Borgondio, Boscovich. In tutt’altro ambito è significativa la figura del cardinale Michelangelo Ricci (1619-1682), attraverso la quale è possibile seguire quella che dovette essere la ricezione di temi e metodi della scienza galileiana da parte delle personalità più aperte dell’ambiente della curia romana. Attraverso i contatti con la comunità dei frati minimi francesi esistente a Trinità dei Monti, presso cui soggiornarono matematici quali Mersenne e Nicéron, fu da questi introdotto agli sviluppi recenti dell’algebra e della geometria analitica, svolgendo a sua volta il ruolo di trait-d’union tra la ricerca italiana più avanzata e i circoli scientifici parigini.

Illuminismo. Il Diciottesimo secolo, l’età dei Lumi, si caratterizza principalmente come l’epoca in cui si afferma in modo stabile e definitivo la nuova mentalità scientifica, cioè la fiducia nell’utilità pratica della scienza. Esso vide, altresì, il dislocarsi permanente del centro della produzione del sapere e dell’innovazione, della conoscenza della Natura, dall’Italia ai paesi dell’Europa del Nord, e quindi da un ambito culturale in prevalenza cattolico a uno prevalentemente protestante. Sul piano metodologico, le indagini privilegiano l’approccio sperimentale su quello dell’osservazione. Su un versante più specifico la grande sintesi newtoniana dei Principia (1687) e dell’Opticks (1704), aprirà agli studiosi settecenteschi di filosofia naturale nuovi problemi fisici e metodologici. Le accademie, le società di studiosi, acquistarono il carattere di sedi stabili di discussione e valutazione dei risultati delle ricerche presentate dagli associati o svolte in altre sedi. Le scuole superiori e le Università diventano il luogo in cui si concentra progressivamente l’elaborazione e lo sviluppo delle conoscenze. Opera simbolo di questa stagione culturale fu l’Encyclopédie, diretta da Jean Baptiste Le Rond d’Alembert (1717-1783) e finalizzata a svolgere una funzione di sintesi e divulgazione. Le polemiche e gli attacchi suscitati dall’iniziativa editoriale ebbero in comune il medesimo obiettivo: lo spirito antidogmatico e la polemica, degli enciclopedisti, contro le religioni rivelate. Un atteggiamento che avrà il suo esito nella condanna di Clemente XIII (1758-1769).

In Italia, il clima di riforme innescato dal movimento dei Lumi avrà nel papato di Benedetto XIV (1740-1758) un interlocutore colto e sensibile alle istanze dei circoli più avanzati della cultura italiana ed europea. Frutto di questa nuova sensibilità sarà la riedizione delle opere di Galileo a Padova. Sempre in Italia, la Compagnia di Gesù si segnala per l’impegno e il livello tra i più avanzati della ricerca fisico-astronomica condotta al Collegio romano, in quello di Brera, a Milano e a Bologna; più in generale, l’atteggiamento degli scienziati gesuiti, i quali non aderiranno alle letture materialistiche dei risultati della scienza dell’epoca, ma si opporranno, altresì, all’identificazione che un certo cattolicesimo porrà tra quelle posizioni ideologiche e attività scientifica in quanto tale, contribuì, secondo Baldini, a impedire che l’opposizione a taluni sviluppi filosofici inducesse la Chiesa a isolarsi rispetto alle acquisizioni della scienza. Il risultato di questa espressione fu che alla metà del Settecento tale modo di fare ricerca si presentava con caratteri indistinguibili da quello dei “moderni”. Boscovich, Calandrelli, Lecchi, Cetti, Ximenes operano secondo standard del tutto adeguati all’epoca; è l’approdo di un percorso in cui gli scienziati della Compagnia avevano agito da traino più che da freno. In tale ambito si colloca la figura e l’opera del gesuita Lazzaro Spallanzani (1729-1799), le cui ricerche naturalistiche nel campo della generazione spontanea furono raccolte nel Saggio di Osservazioni Microscopiche sul Sistema della Generazione de’ Signori di Needham e Buffon (1765). Di carattere pioneristico anche i suoi esperimenti sulla fecondazione artificiale esposti nelle Dissertazioni di fisica animale e vegetale (1780). Un ruolo non secondario nello sviluppo della scienza sei-settecentesca fu quello svolto dalle accademie scientifiche animate da vescovi, ma soprattutto abati, come Celestino Galiani (1681-1753) a Napoli e l’abate Girolamo Sampieri a Bologna. L’intensa attività di promozione e dibattito su temi scientifici darà frutti di grande portata tra cui la nascita dell’Istituto delle Scienze (1711) apice organizzativo della scienza italiana del primo Settecento; alla cui realizzazione diede un contributo decisivo Prospero Lambertini, prima come arcivescovo di Bologna poi come papa.

Ottocento. Nell’epoca segnata dal passaggio dall’età romantica alla società industriale, il campo della conoscenza, cioè di quel complesso di linguaggi utilizzati per descrivere i fenomeni, si presenta con caratteristiche che non consentono “se non al prezzo di forzature, di tracciare confini netti tra argomenti filosofici e argomenti scientifici” (E. Bellone). Un dato, questo, rilevabile in molte pagine di filosofi in cui l’argomentazione filosofica rinvia a conoscenze sullo stato reale di discipline scientifiche. E’ il caso di personaggi quali Ernst Mach, Pierre Maurice-Marie Duhem o Henry-Louis Bergson, in cui la speculazione teorica è radicata in saperi concernenti la meccanica analitica, la termodinamica e la biologia. Scoperte fondamentali sulla struttura della materia suscitano dispute circa la plausibilità di concezioni materialistiche della Natura e gran parte dell’elaborazione darwiniana rinvia alla “possibilità di ricondurre il mondo dei valori alla biologia” (E. Bellone). Le concezioni meccanicistiche della Natura che già Newton indicava come ostacoli per la conoscenza dell’Universo, vengono erose da teorie che emergono durante l’Ottocento. Viene incrinata alle fondamenta la descrizione del mondo come di un meccanismo ad orologeria. La dimensione storica, in termini di evoluzione viene introdotta in astronomia grazie a filosofi come Kant, fisici matematici come Pierre-Simon de Laplace e astronomi come William Herschel. Un processo analogo, ad opera di Jean-Baptiste Lamarck e Jean-Baptiste Fourier, attraversa il regno del vivente e la termodinamica in cui vengono integrate la dimensione storica e l’elemento trasformistico osservabili sia nei processi termici che in ambito biologico. Emerge, con Ludwig Boltzmann, la nozione di quantum sia nell’ambito della teoria cinetica dei gas che negli studi sui sistemi irreversibili. Da tale matrice scientifica e filosofica, su cui si fonda l’interpretazione del mondo ottocentesca, nascerà senza significative cesure metodologiche e di continuità, la cultura del Novecento.

La scienza italiana, fatta eccezione per alcuni contributi di rilievo nel campo della matematica e più limitatamente nell’astronomia, resterà estranea a tali cambiamenti. L’assenza di uno stato nazionale e la fragilità politica e culturale delle sue èlites perpetueranno a lungo tale condizione di marginalità che avrà riflessi severi in ogni campo della vita culturale civile. Pur con tutte le debolezze e ritardi va comunque distinto il caso delle culture lombarda e piemontese e, in qualche misura, toscana che seppero, attraverso un rapporto diretto fra lo sviluppo sociale e politico, ricerca scientifica e diffusione del sapere tecnico, mantenersi al passo con il progresso culturale e civile della società europea del XIX secolo. Emblematica, in tal senso, è l’opera e la figura di Francesco Maria Denza (1834-1894), barnabita, allievo di Secchi al Collegio romano, operò presso il Real Collegio Carlo Alberto di Moncalieri, in Piemonte; fondatore della meteorologia italiana moderna. Un segno di tale peculiare vivacità furono le Riunioni degli Scienziati Italiani che tennero, a Pisa, su iniziativa di Carlo Bonaparte, principe di Canino, la prima di queste assise, nel 1839; e, poi, con cadenza annuale, fino al 1847. Tali consessi, sull’esempio di analoghe iniziative svoltesi in Inghilterra, in Francia e in Germania, esprimevano un’esigenza connaturata alla scienza moderna: la libera circolazione delle idee e lo scambio di opinioni tra studiosi delle medesime discipline. Ciò mancò negli Stati pontifici dove, agli scienziati, fu vietata la partecipazione a tali riunioni e, quindi, la condivisione di un altro importante processo costituito dallo scambio di esperienze e informazioni, e da imprese comuni con la realtà scientifica e tecnologica transalpina.

Tale stato di cose fu accompagnato da un tentativo della Chiesa di dar luogo a un aggiornamento culturale caratterizzato da scelte di apertura alla scienza, ma sotto il controllo delle gerarchie ecclesiastiche e in una precisa funzione apologetica. Gli obiettivi dichiarati di tale programma culturale erano il contrasto del materialismo illuminista e l’innesto della teologia cattolica nella cultura della nascente società industriale, che aveva nella scienza positiva uno dei cardini fondamentali. Combattere la scienza con la scienza, affermava l’abate rosminiano Antonio Stoppani (1824-1891), geologo e paleontologo, cioè le conseguenze filosofiche della scienza, considerate inaccettabili, con un’assunzione priva di remore dei risultati e dei metodi della scienza del tempo. Il più tenace esecutore di tale programma fu il cardinale Luigi Lambruschini (1776-1854), Segretario di Stato, proveniente da una congregazione, quella dei barnabiti, pur ricca di tradizioni scientifiche. Ma è all’istituzione della cattedra di fisica sacra e astronomia alla “Sapienza”, nel 1816, affidata da Pio VII (1800-1823) all’abate Feliciano Scarpellini (1762-1840), che va collocata l’origine di tale programma apologetico e culturale nei confronti del pensiero scientifico moderno. Con questo atto, unitamente alla rinascita dell’Accademia dei Lincei (1801), aperta ai professori della Gregoriana e della “Sapienza”, la Chiesa conferiva uno statuto istituzionale alla ricerca scientifica. Tali tentativi di conciliare le Scritture con le nuove ipotesi scientifiche, etichettato come ‘concordismo’, sarebbero naufragati di fronte al darwinismo e alla sua incompatibilità con la rivelazione. L’atto, comunque, più rilevante nell’ambito del processo di adeguamento della Chiesa cattolica alla cultura moderna fu l’esclusione (1825) dall’Indice delle opere di Galilei da parte di Leone XII (1823-1829), che seguiva la determinazione del Sant’Uffizio di non negare più la licenza di pubblicazione a opere di ispirazione copernicana. Insieme a Stoppani è da segnalare la figura e l’opera del padre gesuita Angelo Secchi (1818-1878), che per l’originalità dei suoi lavori fu uno dei più importanti astronomi e astrofisici d’Europa. La sua opera si colloca nella migliore tradizione astronomica della Compagnia di Gesù al Collegio romano; e la sensibilità e apertura verso gli aspetti filosofici e metodologici circa la natura della conoscenza scientifica fanno di Secchi una figura peculiare all’interno della stessa comunità astronomica italiana. Egli fu, senza dubbio, tra i rappresentanti più significativi di una corrente di pensiero che vide in Europa “un’interpretazione spiritualistica allearsi audacemente alla metodologia induttiva del contemporaneo pensiero positivista” (Redondi).

La vicenda biografica e scientifica di Secchi e Stoppani, strettamente intrecciata con la temperie politica e ideologica dell’Italia di quel tempo, rende icasticamente la complessità e disomogeneità del ruolo della Chiesa cattolica e dei religiosi scienziati, delle Congregazioni di appartenenza e delle loro proprie modalità di azione e proiezione esterna, dei processi di resistenza o adattamento alle mutate condizioni politiche, istituzionali e sociali dell’Europa cattolica, nell’arco temporale segnato dalla Rivoluzione scientifica alla definitiva integrazione delle sue acquisizioni nel pensiero cattolico moderno. Si è detto ampiamente della parte svolta dalla Compagnia di Gesù e del profilo decisamente frastagliato, che le ricerche più aggiornate presentano in ordine a una lettura tradizionale solo coercitivo-repressiva che i suoi religiosi avrebbero svolto lungo il corso della modernità; si evidenzia un contesto poliparadigmatico testimoniato anche dalla partecipazione degli scienziati religiosi ai nuovi costumi della comunità intellettuale. Le infrastrutture scientifiche di cui sono dotati i collegi e gli studia degli ordini, furono aperti ad accogliere anche laici. Fu il caso del galileiano Giovanni Alfonso Borelli (1608-1679), in difficoltà economiche, accolto dai padri scolopi nella loro casa generalizia, presso la chiesa di S. Pantaleo a Roma, dove insediò un’accademia di matematica in aggiunta ai corsi regolari in cui già si insegnavano la geometria euclidea e la meccanica galileiana; e donò ai padri la sua biblioteca personale e i propri strumenti scientifici. Tra tutte le congregazioni religiose insegnanti, solo gli scolopi di S. Giuseppe Calasanzio (1557-1648) prevedevano uno spazio riservato alla didattica della matematica nelle cosiddette scuolette per i poveri; e la creazione della scuola matematica scolopica, sorta a Firenze nel 1638 e diretta dal padre Clemente Settimi (1612-?), maestro di Vincenzo Viviani (1622-1703), pur mancando risultati degni di rilievo segnò tuttavia l’identità della congregazione, radicandovi una sensibilità per la ‘nuova’ scienza che nel lungo periodo finì per incidere anche a livello normativo preparando il terreno per quella saldatura durevole tra erudizione e scienza che, tra Sei e Settecento, caratterizzerà le congregazioni regolari più attente. Domenico Chelucci (1681-1754) e Odoardo Corsini (1702-1765), entrambi procuratori generali dell’ordine, si segnalano, il primo per l’introduzione dell’analisi nei manuali per le scuole (Institutiones arithmeticae, 1733); Corsini per l’antidogmatismo e l’eclettismo nella filosofia naturale caratterizzante l’insegnamento nelle scuole scolopie (Institutiones philosophicae ac mathematicae ad usum Scholarum Piarum, (6 voll. 1731-1734).

Nel caso dei barnabiti, i chierici regolari di S. Paolo Decollato, la figura di assoluta eminenza è quella di Paolo Frisi (1728-1784), fisico, matematico, astronomo e idraulico. Benché la sua vicenda intellettuale si svolga in una fase della vita della congregazione segnata dall’orientamento antinewtoniano e, in generale, avverso alle idee illuministe, di Giacinto Sigismondo Gerdil (1718-1802), egli fu l’esponente più lucido dell’illuminismo scientifico lombardo. Fortemente eccentrico rispetto al suo ordine e con una decisa propensione mondana, esercitò un’influenza profonda sia come didatta, orientando la filosofia insegnata dai barnabiti alle Arcimbolde (dal 1753) da un eclettismo aristotelico-cartesiano verso una fisica matematica e sperimentale, sia come consulente del governo asburgico per la riforma dell’istruzione e delle professioni scientifiche nelle cui scuole si formò quel nucleo di scienziati barnabiti che opererà nell’Italia del nord. La vastità e il livello della sua opera lo porranno in relazione, durante un viaggio in Francia e Inghilterra, con d’Alembert, D. Diderot, C.A. Helvétius, G.-L. Leclerc de Buffon a Parigi, e D. Hume, e B. Franklin a Londra. La sua opera maggiore è la Cosmographia physica et mathematica (I-II, Milano 1774-75).

Gli scienziati presentati costituiscono solo le tracce di una trama ben più fitta e estesa che ha segnato con caratteri chiaramente progressivi gli sviluppi di alcune discipline scientifiche. In alcuni, quali la meteorologia e l’astronomia, tale ruolo ha portato alla creazione di infrastrutture tecnico-scientifiche, ancor oggi operanti, che hanno collocato l’Italia in posizioni di preminenza nel contesto europeo, dando una manifestazione concreta del grado elevato che la presenza religiosa ha saputo esprimere.

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Immagine: Antonio Zanchi, Abramo insegna l’astrologia agli egizi.


LEMMARIO




Scultura - vol. I


 

Autore: Giovanni Liccardo1

Dalle origini al gotico. La scultura cristiana, rispetto alla pittura, si sviluppò più lentamente prendendo a prestito i suoi primi temi dal simbolismo funerario pagano. In effetti, sono state recuperate poche copie di sculture cristiane; il Buon Pastore fu uno dei soggetti più ripetuti, come prova la statuetta conservata a Roma e risalente al III secolo. Di controversa esegesi è la statua che raffigura S. Ippolito (III secolo); scoperta a Roma nel 1551 fra le rovine dell’area soprastante la catacomba omonima, non aveva la testa, il petto e le mani (poi aggiunte nel restauro), ora è sistemata ai piedi dello scalone d’ingresso della Biblioteca Vaticana: ai lati della cattedra, dove è seduto il personaggio, si leggono due lunghe iscrizioni in greco, una contenente il ciclo pasquale e l’altra l’elenco dei suoi scritti.

Nondimeno, la maggior parte della scultura cristiana antica ha carattere funerario e nasce nel III secolo; alla fine dell’età tetrarchica (inizio del IV secolo) compare la figura dello stesso Cristo, dapprima barbato come un filosofo cinico, in seguito con aspetto giovanile, quindi si moltiplicarono le scene dei miracoli sui sarcofagi (solitamente di marmo in tutte le sue varietà e tonalità). Di questo periodo esistono bellissimi modelli, alcuni a due registri, come il sarcofago di Adelfia di Siracusa, quello detto dogmatico o teologico dei Musei Lateranensi e quello detto dei due fratelli, il cui stile sempre più classico porterà al più tardo (359) sarcofago del console Giunio Basso (Roma, Grotte Vaticane) dove sono introdotte scene della Passione di Gesù. Quest’ultimo pezzo è considerato la più alta realizzazione della corrente postcostantiniana; la divisione delle scene è ottenuta mediante colonne, particolare caratteristico degli ultimi anni del regno di Costantino e dell’epoca di Teodosio.

Per quanto riguarda i centri di produzione, dopo la scomparsa delle fabbriche di Roma, dovute al sacco della città da parte di Alarico nel 410, Ravenna divenne un polo assai originale, come testimoniano i sarcofagi del V e VI secolo conservati nelle sue note basiliche; tra le altre influenti officine si distinse anche Milano, dove sul finire del IV secolo furono prodotti numerosi esemplari (come quello della basilica di S. Ambrogio).2

Ovviamente, l’arte dello scolpire fu utilizzata anche per realizzare i capitelli delle colonne, le transenne, i plutei, le balaustre e altre decorazioni liturgiche e cultuali. Tra gli oggetti di arte minore, realizzati in metallo prezioso, in avorio, in bronzo, in terracotta, in legno ecc., molto diffusi furono i dittici. In avorio con ornati e figure furono realizzate anche coperture di codici, come quelle del Museo del Duomo e del Museo Archeo­logico di Milano, e cofanetti-reliquiari, come la lipsanoteca del Museo Cristiano di Brescia, forse del IV secolo. Molto nota è la cosiddetta Cattedra di Massimiano, prezioso esemplare di suppellet­tile liturgica, interamente rivestita di placche in avorio istoriate. Tra le decorazioni lignee, infine, di grande valore è la porta intarsiata della basilica di S. Sabina a Roma, risalente forse alla metà del V secolo, o poco più tardi.

Nell’alto medioevo la scultura manifestò un marcato disinteresse verso l’arte classica, ripudiandone le tecniche artistiche e le forme. Frequenti furono i bassorilievi e tutte le opere di piccole dimensioni; nel campo della metallurgia da ricordare i rilievi dell’altare della basilica di S. Ambrogio di Milano, eseguiti nella prima metà del IX secolo da Vuolvino. La scultura intesa come ripresa dei valori plastici e volumetrici, persi a seguito della diffusione del gusto bizantino, ebbe nuovo vigore solamente agli inizi del XII secolo, in corrispondenza col pieno fiorire della civiltà romanica ed elaborò forme di solida plasticità e grande senso figurativo. Peraltro, gli scultori, più che preoccuparsi della perfezione tecnica, curarono anzitutto la finalità educativa; dal momento che bisognava suscitare nelle anime impressioni forti, sentimenti che potessero incitare a fuggire il vizio, il male e a praticare le virtù e il bene, il tema ricorrente (specie nei portali) fu la rappresentazione di Cristo come giudice universale, circondato dai personaggi dell’Apocalisse. Con questa raffigurazione si voleva rimarcare che Cristo è la porta che conduce al cielo; i fedeli, varcando la soglia dell’edificio sacro, entravano in un tempo e in uno spazio differenti da quelli della vita ordinaria. Oltre il portale della chiesa, i credenti in Cristo, sovrano, giusto e misericordioso, nell’intenzione degli artisti potevano gustare un anticipo della beatitudine eterna nella celebrazione della liturgia e negli atti di pietà svolti all’interno dell’edificio sacro.

Tra le personalità artistiche distintamente riconoscibili furono Wiligelmo (autore per il Duomo di Modena tra 1099 e 1106 delle Storie della Genesi), Benedetto Antelami (che eseguì le decorazioni del Battistero di Parma, tra 1196 e 1270), ancora Bonanno Pisano (che lavorò per la Cattedrale di Pisa). In Guglielmo, infine, che realizzò tra il 1159 e il 1165 il pulpito per il Duomo di Pisa (poi trasferito a Cagliari sostituito da un nuovo manufatto di Giovanni Pisano), gli studiosi riconoscono l’iniziatore di una vera e propria scuola, influenzata dai modi e dalle forme dei sarcofagi; tra gli emuli fu Biduino che nel 1180 scolpì l’architrave del portale della pieve di San Casciano a Settimo.3

Il fiorire del gotico (almeno fino al XV) segnò il ritorno alla scultura a tutto tondo e alla statuaria; molte sculture furono ancora strettamente legate all’architettura ecclesiastica, altre godettero di maggiore autonomia e raffigurarono re e signori del tempo. In Italia le figure furono simili a quelle romane e ci fu una diffusione delle forme allungate; i materiali più usati furono il marmo, il bronzo, i metalli preziosi, la pietra e il legno. Gli scultori più importanti di quest’epoca furono Nicola Pisano, Giovanni Pisano e Arnolfo Di Cambio.

La scultura gotica fece delle cattedrali una “Bibbia di pietra”, rappresentando gli episodi del vangelo e illustrando i contenuti dell’anno liturgico, dalla Natività alla Glorificazione del Signore, mentre il Christus patiens divenne un’immagine atta a ispirare pietà e pentimento per i peccati. Con i suoi volti pieni di bellezza, di dolcezza, di intelligenza, la scultura gotica rivelò una pietà felice e serena; frequenti furono anche le manifestazioni “laiche” dell’esistenza, come le rappresentazioni del lavoro dei campi, delle scienze e delle arti. Tutto era orientato e offerto a Dio nel luogo in cui si celebrava la liturgia.

L’età moderna e contemporanea. Anche la scultura cristiana tra ‘400 e ‘500 risente del rinnovato spirito umanistico che oppone all’universalismo e al senso del trascendente medievale la piena coscienza delle capacità razionali dell’uomo e della sua individualità, secondo una concezione che trova riscontro nel pensiero della civiltà antica che riconosceva all’uomo la sua autonomia e faceva della terra il suo regno; Lorenzo Ghiberti con la realizzazione della Porta del Paradiso a Firenze rappresenta indubbiamente il primo trapasso dalla tradizione gotica alla nuova civiltà rinascimentale. La scultura si affranca dall’architettura e le statue assumono toni sempre più realistici per via del continuo studio dell’anatomia umana. Esemplificativa è una scultura di Andrea del Verrocchio, L’increduiltà di S. Tommaso, nella Chiesa di Orsanmichele, a Firenze. Il centro dell’azione è l’incontro di quelle mani che non si sfio­rano, è il dialogo di quegli sguardi che non si incontrano; il vero significato di quel gruppo è l’incontro fra il divino e l’umano, è l’umana difficoltà a cre­dere «quia absurdum est».

In questo movimento emerge il nome di Michelangelo Buonarroti; nella sua opera si fondono appieno le due dimensioni spirituali e simboliche del tempo. Nella Pietà incompiuta del Duomo di Firenze, ad esempio, dalle braccia dell’uomo incappucciato scivola a terra l’inanimato corpo di Cri­sto che la Madre non regge, ma al qua­le si stringe quasi a confondersi con esso. È un gruppo che sta per sciogliere i nessi che stringono ancora umano e divino, così come dai larghi piani inerti dove l’ombra quasi inizia la decomposizione, all’angolo secco della gamba, anticipo del­la verità scheletrica, il corpo del Cristo denuncia la morte e bellezza ed energia non hanno più luogo. Solo l’amore della Madre è l’e­mozione viva insieme alla pietà con cui l’uomo religiosamente assolve l’opera di misericordia. Momento intensamente tragico e rassegnato insieme, momento in cui an­che Cristo è divenuto, come gli uomini di cui aveva assunto la forma, materia che sta per perdere perfino la sua organica nobile struttura. A tanto si e assoggettato il Salvatore.4

In seguito gli scultori manieristi si limitarono ad imitare gli artisti rinascimentali, perfezionando le loro opere. Le statue sono più virtuosistiche e vogliono spingere il fedele a guardarle con più attenzione. Le forme barocche, invece, rimasero dominanti per tutto il XVII secolo; le sculture ebbero configurazioni fortemente dinamiche e rispecchiarono il ruolo della Chiesa nell’età controriformistica. Grande protagonista di questo movimento culturale fu Gian Lorenzo Bernini, che offrì un apporto originalissimo a questo linguaggio, con il movimento di forme immerse nello spazio. Modello esemplare è l’Estasi di Santa Teresa in S. Maria della Vittoria, a Roma. Illuminata dall’alto con una luce vera che scende sulla scia dei raggi d’oro fino a lei, la bianca figura della santa cede all’intensità dell’amore di Dio venendo meno su quel­le stesse nuvole che l’avevano avvicinata al calore divino. L’angelo, quasi un Eros cristiano, lieve e ridente, porta la freccia che puntualizza l’acutezza del dolore d’a­more. Dall’opacità delle nuvole, all’affan­nato chiaroscuro della bianca pesante ve­ste monacale, al guizzo pittorico dell’an­gelo, tutto è colore; solo il volto e la mano della santa, le parti più inerti, sono vero pallore. Alla contem­plazione delle sacre scene immobilizzate nel loro valore di presentazione atempo­rale, si sostituisce ora una partecipazione emotiva che viene sollecitata nel fedele dal dramma in atto.

Verso la fine del XVIII secolo si svilupparono le forme neoclassiche, caratterizzate ancora da una riscoperta dell’arte classica, che si tradusse nella semplicità e nella regolarità delle forme così come nell’assenza di elementi superflui. Nondimeno, inserita in un complesso architettonico o nella forma di opera plastica isolata, dall’antichità a tutto l’Ottocento la scultura ha coltivato una vocazione primariamente monumentale e celebrativa; da questo punto di vista la sua storia fa risaltare una effettiva continuità fino agli inizi del Novecento, quando essa viene investita da una robusta innovazione che elegge l’antimonumentalità e l’antiretorica a sue caratteristiche vitali e si dispiega nell’elaborazione di nuovi linguaggi, la sperimentazione di materiali non tradizionali, la ridefinizione dei rapporto dell’opera con lo spazio circostante e con l’osservatore.

In Italia il Novecento inizia con la ri­velazione sacra e la tenerezza del contatto materno riscoperto attraverso la scultura gotica senese e la solennità espressiva del primo Rinascimento. Figurazione e astrazione vengono sempre più avvertite come tecniche stili­stiche antitetiche o linguaggi contrappo­sti, piuttosto che come metodologie poetiche autonome in parte confinanti, se non confluenti. Tra gli artisti e le opere spiccano Luciano Minguzzi, autore della quinta porta del Duomo di Milano, rea­lizzata negli anni Cinquanta, e della Porta del Bene e del Male terminata nel 1977 per la basilica di San Pietro. Giaco­mo Manzù, invece, lavorò per la stessa basilica dagli anni Cin­quanta – per precisa volontà di Giovan­ni XXIII – alla Porta della Morte, che ebbe realizzazione definitiva nel 1964 e rappresenta l’epicentro di una poetica che nel dialogare con la tradizione ne rifiuta gli aspetti più strettamente accademici. Sia sul fronte larvatamente figurativo che su un piano più o meno astratto, emergono le personalità arti­stiche, tra gli altri, di Marino Marini, di Agenore Fabbri, di Pietro Consagra, di Nino Franchina, di Pericle Fazzini; le loro opere sembrano oggi ancora capaci di atti­rare senza inganni gli sguardi degli spettatori.

Fonti e Bibl. essenziale

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Immagini:

1) Wiligelmo, Storie della genesi, Duomo di Modena (1106 ca.); 2) Jacopo della Quercia, Madonna dell’umiltà, National Gallery of Art, Londra (1400 ca.); 3) Michelangelo Buonarroti, La Madonna Medici, Sagrestia Nuova, Firenze (1521-1534); 4) Giuseppe Sanmartino, Cristo velato, Cappella Sansevero, Napoli (1753).

Sitografia:

http://mv.vatican.va/2_IT/pages/MV_Home.html (sito dei Musei Vaticani); http://www.thais.it/scultura/default.htm (sito dedicato alla scultura italiana, dalle origini a oggi, con ricca documentazione iconografica); http://pintura.aut.org (sito dove le opere possono essere reperite per autore, per musei, per periodi); http://www.calga.it/ (portale italiano dedicato alla scultura moderna); http://www.scultura-italiana.com/ (sito per studiosi e appassionati di storia della scultura italiana dal mille ad oggi).


LEMMARIO




Scuola - vol. I


Autore: Raffaele Savigni

Sin dai primi secoli all’interno delle comunità cristiane coesistettero atteggiamenti diversi nei confronti della cultura: alcuni movimenti privilegiarono nettamente la dimensione dell’oralità e l’annuncio del Vangelo «sine glossa», mentre altri cercarono di reinterpretare in chiave cristiana la cultura classica, e pur promuovendo specifiche scuole teologiche (come la celebre scuola alessandrina di Clemente ed Origene) utilizzarono il sistema scolastico dell’antichità, incentrato sull’insegnamento della grammatica e della retorica.  Agostino è un testimone autorevole della paideia classica: nelle Confessioni egli ricorda il proprio percorso di studi, dalla scuola che diremmo elementare, finalizzata all’apprendimento delle litterae e dei numeri, alla scuola di grammatica, e quindi agli studi di di retorica ed eloquenza, distinguendo i primi magistri dai grammatici e dagli insegnanti di retorica e precisando di avere poi insegnato lui stesso le disciplinas liberales.

Antonio, il padre del monachesimo, viene presentato dal suo biografo Atanasio come inlitteratus ma dotato di una memoria che teneva il posto dei libri, nel quadro di una contrapposizione tra la semplicità della fede e le litterae ed i sillogismi. Sulpicio Severo ricorda che nella comunità monastica di Martino di Tours, anch’egli homo inlitteratus ma dotato di scientia ed ingenium, «nessun’arte era esercitata, eccettuato il lavoro dei copisti», ribadendo peraltro che il Regno di Dio non si fonda sull’eloquenza ma sulla fede, e che la salvezza non fu predicata al mondo da oratori, bensì da pescatori. Questa istanza antiintellettualistica è stata ribadita più volte da esponenti di una cultura monastica che intendevano difendere la simplicitas della fede rispetto alla cultura mondana: Gregorio Magno dichiara che il discorso dell’uomo di Chiesa (così come lo stesso messaggio evangelico) non può essere sottoposto alle regole del grammatico Donato; e Pier Damiani afferma che Dio non ha bisogno della nostra grammatica per attirare a sé gli uomini, dal momento che per spargere i semi della nuova fede non inviò filosofi ed oratori ma sem,plici pescatori.

Nonostante queste riserve, il sistema delle arti liberali, delineato tra IV e V secolo da Marziano Capella nel suo De nuptiis Philologiae et Mercurii  ed articolato in trivio (grammatica, retorica, dialettica) e quadrivio (aritmetica, geometria, astronomia, musica), costituì  il fondamento dell’organizzazione medievale del sapere: adottato da Cassiodoro, esso fu trasmesso alle scuole medievali attraverso le opere enciclopediche di Isidoro di Siviglia (Etymologiae I 2, 1-3) e Rabano Mauro (De clericorum institutione, III 18-25) ed i commenti di Scoto Eriugena e Remigio di Auxerre. Il sistema educativo antico entrò in crisi con la caduta dell’Impero romano d’Occidente: poiché la cultura delle popolazioni germaniche che occuparono la penisola era caratterizzata da una netta prevalenza dell’oralità sulla scrittura, dopo la chiusura delle scuole pagane i monasteri e le Chiese si trovarono di fatto ad esercitare un monopolio quasi totale sulla trasmissione della cultura, anche se in età carolingia non manca qualche laico colto, come il marchese Eberardo del Friuli, di cui è nota, attraverso il suo testamento, la ricca biblioteca, che comprendeva testi biblici, liturgici e teologici ma anche opere storiche. Il termine laicus fu a lungo considerato sinonimo di illitteratus, espressione chiamata ad indicare una persona priva di un regolare curriculum di studi letterari, mentre chi conosceva le lettere latine era tendenzialmente assimilato ad un clericus.

Una spia dell’emergere delle scuole episcopali è costituita dal concilio di Toledo del 531, il quale stabilisce che presso la casa del vescovo siano istruiti coloro che sono destinati alla carriera ecclesiastica, ma non esclude che da questa scuola possano uscire laici istruiti, poiché precisa che all’età di diciotto anni gli allievi potranno anche rinunciare all’ordinazione se non si sentiranno pronti a vivere castamente. La breve esperienza monastica avviata a Vivarium (presso Squillace) da Cassiodoro, e fondata sul connubio tra ascesi e ricerca intellettuale, non ebbe seguito, in quanto si collocava ad un livello troppo alto rispetto alle concrete possibilità dell’epoca.

La Regola benedettina, pur presupponendo la presenza nel monastero di alcuni novizi incapaci di scrivere, dispone che i monaci si dedichino alla lectio all’inizio della giornata e dopo il pranzo, e che durante i pasti un monaco legga testi spirituali scelti secondo un ordine preciso; durante la Quaresima ciascun monaco dovrà leggere per intero un codice tratto dalla biblioteca del monastero (Regula Benedicti 48, 15). Nella Vita di Colombano Giona di Bobbio ricorda che il santo studiò le arti liberali (in particolare grammatica, retorica, geometria). Perlomeno sino alla riforma di Benedetto di Aniane, che col decreto sinodale di Aquisgrana (10 luglio 817) riservò agli oblati la scuola monastica, i monasteri trasmisero non solo ai novizi ma anche ad allievi esterni le conoscenze linguistiche necessarie per la lettura e la comprensione della Bibbia: a tal fine vennero copiate anche le opere di autori classici, utilizzate come strumento propedeutico per l’apprendimento della grammatica. Il divieto dell’817 fu ben presto eluso mediante l’istituzione di due scuole distinte, l’«interna» e l’«esterna»: la pianta del monastero di San Gallo, costruito nella prima metà del secolo IX, mostra gli ambienti destinati ai due tipi di scuole già ben distinti.

La rete di monasteri fondata sul continente dai monaci irlandesi ed anglosassoni favorì la salvaguardia della cultura antica e preparò il terreno alla riforma carolingia, che penetrò anche in Italia. Con l’Admonitio generalis del 789 Carlo Magno stabilì norme precise per i ministri dell’altare: «riuniscano e tengano presso di sé non solo i bambini di condizione servile ma anche i figli dei liberi. Organizzino scuole di lettura per i ragazzi in ogni monastero o vescovado, dove si possano apprendere i salmi, le note, il canto, il computo, la grammatica». Con un capitolare emanato a Corteolona (presso Pavia) nel maggio 825 Lotario I istituì nel regno italico una rete di scuole: «a Pavia, presso il maestro Dungalo, converranno gli studenti di Milano, Brescia, Lodi, Bergamo, Novara, Vercelli, Tortona, Acqui, Genova, Asti, Como. Ad Ivrea il vescovo provvederà egli stesso alle scuole. A Torino converranno gli studenti di Ventimiglia, Albenga, Vado, Alba. A Cremona andranno a scuola quelli di Reggio, Piacenza, Parma, Modena. Firenze raccoglierà quelli della Tuscia».

Nell’829 i vescovi franchi chiesero a Ludovico il Pio di promuovere in tre città dell’Impero scuole pubbliche che proseguissero il lavoro di promozione culturale già avviato da Carlo Magno. Da queste scuole centralizzate appaiono distinte le scuole promosse dai vescovi nelle singole diocesi ed indirizzate in primo luogo alla formazione dei chierici, come previsto dal concilio di Attigny (822), il quale disponeva che ogni uomo formato per svolgere un ministero nella Chiesa avesse una scuola ed un maestro adatto, e dal concilio romano del novembre 826:  «In tutti i vescovadi, nelle parrocchie dipendenti e negli altri luoghi, nei quali si presenti la necessità, si stabiliscano quindi, con ogni cura e diligenza, maestri e dottori che, istruiti nelle lettere e nelle arti liberali e nei sacri dogmi, assiduamente li insegnino, perché in questi soprattutto sono manifestati ed esposti i divini mandati […] Bisogna badare dunque che non accedano al ministero senza istruzione e senza conoscenza delle lettere, cosa quanto mai sconveniente». Riprendendo quest’ultimo canone, anche il concilio romano dell’853 (c. 34) prevedeva la presenza, nelle scuole episcopali e plebane, di magistri delle arti liberali (o perlomeno delle scienze bibliche), pur sottolineando la difficoltà di reperire «liberalium artium preceptores in plebibus», per cui appariva inevitabile richiedere perlomeno che vi fossero «divine Scripturae magistri et institutores ecclesiastici officii» che rendessero conto annualmente al vescovo della loro attività formativa nei confronti dei candidati al sacerdozio.

Richiamando una disposizione dell’813, che aveva previsto scuole per predicatori nelle quali si insegnassero le lettere e le Scritture, il concilio parigino dell’829 auspicava un maggiore impegno dei vescovi nella formazione dei milites Christi tramite le scuole diocesane: «Ordiniamo pertanto che, lasciata d’ora in poi da parte l’inerzia e la trascuratezza, si ponga da parte di tutti più attenta e vigilante cura nell’educare e nell’istruire i soldati di Cristo. Inoltre ogni vescovo, recandosi al concilio provinciale, porti con sé i maestri della propria scuola in modo che a tutti sia manifesta la sua vigile preoccupazione per il culto divino».  Come a Reims tra IX e X secolo (ove Incmaro invitava i preti ad insegnare le lettere ai loro discepoli ma a non accogliere tra di loro le fanciulle), anche in Italia dovettero esistere scuole articolate a diversi livelli, capaci di rispondere alle esigenze dei canonici della cattedrale e dei chierici rurali: ma la documentazione è sensibilmente più sporadica sin verso la fine del X secolo, anche se non manca qualche disposizione vescovile, come in Attone di Vercelli.

Accanto alle scuole destinate alla formazione del clero compaiono scuole per una prima alfabetizzazione delle popolazioni rurali, alle quali peraltro era indirizzata una catechesi che si serviva prevalentemente delle immagini. Come ha osservato Carla Frova, il canone I del Concilio di Vaison (5 novembre 529) segna una data fondamentale nella storia della scuola medievale, in quanto affidando ai preti rurali il compito di fornire un’istruzione elementare dei ragazzi destinati al sacerdozio, dà origine a una nuova organizzazione scolastica, che presto accoglierà non solo i futuri chierici, ma laici che vogliono imparare a leggere e scrivere: «Tutti i preti che svolgono il loro ministero nelle parrocchie, seguendo l’uso che a quanto ci consta vige molto opportunamente in tutta Italia, accolgano nella propria casa i lettori più giovani, che siano ancora celibi; educandoli spiritualmente come buoni padri si sforzino di insegnar loro i salmi, di farli applicare allo studio dei testi sacri e di istruirli nella legge del Signore. Si prepareranno così successori degni e otterranno il premio eterno da Dio». Per molti secoli queste scuole, subentrate alle ormai scomparse scuole municipali romane, costituirono, insieme con quelle monastiche, la struttura scolastica di base. Anche due documenti modenesi del 796 e del 908 richiamano il dovere dei pievani di «radunare i chierici, di tener scuola, di istruire i fanciulli». A tali scuole fa riferimento nei primi anni del secolo IX Teodulfo d’Orléans, in un capitulum episcopale ripreso alla lettera, nel secolo X, dal vescovo Attone di Vercelli, che invita i preti ad istituire scuole rurali nelle quali possano essere accolti ed istruiti ad discendas litteras anche i figli dei loro parrocchiani, ribadendo altresì il principio della gratuità dell’insegnamento, pur non vietando offerte spontanee al parroco-maestro.

Nel sec. XI il cronista Rodolfo il Glabro (Hist. II 12, 23) evidenzia i pericoli insiti in un attaccamento eccessivo alla cultura classica, che nel caso del ravennate Vilgardo si traduce in esiti eterodossi: gli Italici appaiono caratterizzati da una predilezione unilaterale per l’ars gramatica (che può tradursi, come in questo caso, in una smodata passione per i poeti pagani ed i loro miti) rispetto alle altre artes. Da parte sua Richero (Hist. III 44) osserva che nella seconda metà del X secolo, quando si venne formando Gerberto di Aurillac (il futuro pontefice Silvestro II, sospettato dopo la sua morte, a causa delle sue vaste curiosità intellettuali, di aver praticato arti magiche), «musica et astronomia in Italia tunc penitus ignorabantur». Peraltro Gerberto, pur prediligendo la matematica, l’astronomia e la logica (Richero ricorda la pubblica disputa con Otrico tenuta nel dicembre 980 a Ravenna alla presenza di Ottone II), non temeva la lettura degli antichi poeti, ma la considerava uno strumento indispensabile per acquisire una padronanza dell’arte oratoria.

Presso le cattedrali cittadine e le comunità canonicali (che educano i loro allievi adolescenti «ad legendum, cantandum et psallendum» e nelle dottrine ecclesiastiche, come previsto dall’institutio canonicorum di Aquisgrana dell’816)  è documentata l’esistenza di scholae cantorum (menzionate anche in un concilio di Chieti dell’840, ove compare un magister della schola cantorum et scribarum), ma non conosciamo con precisione l’itinerario formativo di chi ne faceva parte: possiamo presumere che esso comprendesse nozioni di musica e liturgia, ma anche rudimenti di grammatica, come suggerisce il riferimento dell’ep. 40 di Pier Damiani al prete fiorentino Rozo «qui dicitur magister cantorum, Florentinae aecclesiae presbiter, vir adprime litteralibus studiis eruditus». Il codice Angelica 123, presumibilmente di origine bolognese, ha sollecitato qualche studioso ad ipotizzare qualche rapporto (non documentabile in modo preciso) tra cultura ecclesiastica cittadina e nascita dello Studio.

Pier Damiani, che dichiara di avere seguito un percorso di studi incentrato sulle arti liberali a Faenza e quindi a Parma, fa riferimento alle varie tappe dell’apprendimento scolastico (ep. 117: «In litterario quippe ludo, ubi pueri prima articulatae vocis elementa suscipiunt, alii quidem abecedarii, alii sillabarii, quidam vero nominarii, nonnulli iam etiam calculatores appellantur, et haec nomina cum audimus, ex ipsis continuo quis sit in pueris profectus agnoscimus»), ma contrappone la cultura monastica a quella scolastica (alla quale appare legato, nel proprio itinerario formativo, il clero secolare, che «ad hoc grammaticorum scolas ingreditur, ut cum fuerit in arte perfectus abscedat», ep. 152), in quanto quest’ultima rischia di distogliere i cristiani dal rigore ascetico e dalla ricerca di Dio (cf. l’allusione polemica dell’ep. 117 agli interessi astronomici dell’ambizioso chierico di Parma Ugo, che «tantae fuit ambicionis in artium studiis, ut astrolabium sibi de clarissimo provideret argento», e dell’ep. 119 alle «puerorum scolas, qui sepe rigorem sanctitatis enervant ac dissipant»).  Proprio il secolo XI è caratterizzato dall’emergere di un nuovo metodo e di nuove curiosità intellettuali, che si traducono, presso la scuola di Laon, nell’elaborazione della Glossa ordinaria. Andrea da Strumi osserva, nella sua Passio Arialdi, che il santo patarino «in diversis terris scholasticis se studiis tam diu tradidit, donec optime tam liberalium quam divinarum litterarum haberet scientiam», ed anche il vescovo lucchese Anselmo II, secondo il suo anonimo agiografo, «in arte grammatica et dialectica extitit peritus».  Guiberto di Nogent rileva, intorno al 1115, un notevole incremento di scuole rispetto ai decenni precedenti, e ricorda la severità del suo precettore, mentre i biografi di sant’Anselmo d’Aosta sottolineano la sensibilità pedagogica del santo, che utilizzava un metodo caratterizzato dalla lenitas e da un graduale passaggio da insegnamenti più semplici a altri più complessi (viene richiamata in tal senso la diffusa metafora del latte e del cibo solido, cf. Eb 5,13-14).

Il rapporto dei “moderni” con le auctoritates viene prospettato da Bernardo di Chartres mediante il ricorso all’immagine dei «nani sulle spalle dei giganti», che legittima talune innovazioni rendendole compatibili con l’ossequio dovuto ai classici. Con Abelardo si afferma la figura moderna dell’intellettuale, che organizza l’insegnamento in modo più critico rispetto alla tradizione, sviluppando il metodo della quaestio: l’insegnamento diventa una professione retribuita, con uno stacco rispetto al principio (ribadito dal concilio lateranense del 1139, c. 9 e poi da Alessandro III) secondo il quale la scienza, in quanto dono di Dio, non può essere venduta. Il suo grande antagonista, Bernardo di Chiaravalle, distingue varie modalità di conoscenza, legittimando solo quelle finalizzate all’edificazione del prossimo o di se stessi, e liquidando le altre come espressione di curiositas e vanitas o di una turpe ricerca del guadagno.

Nel XII secolo entrò in crisi il sistema altomedievale, incentrato sul monopolio ecclesiastico della cultura  e riscontrabile (con l’eccezione di qualche scuola notarile) anche in Italia: va infatti  sfumata la contrapposizione, prospettata nel secolo XI da Wipone (Tetralogi, v. 165), tra i Tedeschi, che riservavano l’insegnamento delle lettere ai futuri chierici, e la situazione della penisola italica, ove i giovani nobili avrebbero frequentato abitualmente le scuole (modello che Wipone vorrebbe esportare in Germania). La scuola medica salernitana, consolidata alla fine del secolo XI, svolse un ruolo significativo ma non riuscì a trasformarsi in una vera e propria università, mentre una facoltà di medicina sorse a Montpellier verso la fine del XII secolo.

Per quanto i concili lateranensi del 1179 e del 1215 ribadissero la necessità che presso le cattedrali ed altre chiese dotate di forze sufficienti vi fosse un maestro che istruisse gratuitamente i chierici e gli studenti privi di mezzi, emersero gradualmente scuole a pagamento gestite da laici, mentre nei confronti dei monaci venne richiamato il detto (riconducibile a Girolamo, Contra Vigilantium 15) «Monachus non doctoris, sed plangentis habet offitium», veicolato da Graziano (Decretum II 16, 1, 4). Le scuole laiche, che rispondevano alle nuove esigenze degli uomini d’affari e di coloro che praticavano le artes mechanicae (ora rivalutate), si svilupparono soprattutto nelle città dell’Italia centro-settentrionale, ove il tasso di alfabetizzazione delle popolazioni subì un incremento notevole. Si trattava di scuole gestite da maestri laici, con una combinazione variabile di intervento pubblico (a Venezia pressoché inesistente sino al pieno Quattrocento) ed iniziativa privata: gli insegnanti venivano retribuiti dalle famiglie degli alunni o stipendiati almeno in parte dal Comune, che impose talora una sorta di monopolio sull’insegnamento elementare. La didattica rimase per lo più quella tradizionale, incentrata su testi tradizionali quali i Disticha Catonis (una raccolta di sentenze moraleggianti), il Theodolus, il Liber Aesopi, talora volgarizzati. Esaminando il processo di alfabetizzazione nelle campagne toscane (ove, nelle piccole comunità, lo stesso maestro insegnava ad un pubblico differenziato ora i primi rudimenti, ora il latino), il Balestracci osserva che «i preti, in genere, sono il primo punto di riferimento per chi vuole imparare a leggere e a scrivere» e che «il passaggio dalla scuola tenuta da ecclesiastici a quella gestita dai laici non è affatto lineare», tant’è vero che «i maestri che insegnano nelle scuole laiche sono ampiamente debitori ad una formazione culturale ecclesiastica». Se alcuni Statuti quattrocenteschi prescrivono che l’insegnante sia un laico, all’inizio del ‘500 il pievano di Barga insegna ancora ai ragazzi della sua comunità.In alcune aree le scuole sono gestite direttamente dai laici, mentre in altre (ad esempio a Venezia) sopravvive più a lungo un ruolo determinante dell’iniziativa privata; ed a Milano svolsero un ruolo significativo alcune confraternite. Il livello di alfabetizzazione appare differenziato sul piano geografico, ed in genere più elevato nelle città toscane del tardo Medioevo, come suggerisce l’eccezionale presenza di memorie familiari redatte nel ʼ400 da un contadino.

Alla fine del Duecento il milanese Bonvesin de la Ripa (Le meraviglie di Milano, III 33-36) menziona la presenza in città di otto professori di grammatica, quattordici insegnanti esperti nel canto ambrosiano e più di settanta maestri di istruzione elementare, nonché almeno quaranta copisti di libri; e nel Quattrocento anche alcune confraternite milanesi promossero l’istituzione di scuole per il popolo. A Firenze il livello di scolarizzazione appare più elevato: Giovanni Villani (Nuova cronica, XII 94) distingue tre diversi livelli scolastici, dalla scuola elementare (che accoglieva 8-10 mila fanciulli su una popolazione complessiva di circa novantamila abitanti) alle scuole tecniche (destinate ai ceti mercantili) ed a quelle di grammatica.  In questo contesto cittadino si inserirono nel ‘200 i nuovi Ordini Mendicanti: più decisamente i Domenicani, ma, dopo qualche tensione interna, anche i frati minori. Se Francesco d’Assisi aveva manifestato qualche timore nei confronti dei possibili esiti negativi della nuova cultura (che poteva tradursi in una forma di superbia intellettuale, allontanando le élites dal popolo), autorizzando solo Antonio da Padova ad insegnare ai frati la teologia, «purché nel tempo dedicato al suo studio non si spenga lo spirito di preghiera e di devozione», alla fine del secolo Salimbene di Parma ricorda il proprio percorso di studi, dal calcolo alla gramatica e infine alla teologia, sottolineando in termini positivi il passaggio dai primi tempi  dell’Ordine, caratterizzati dalla preminenza dei frati laici, all’epoca attuale, segnata dalla presenza qualificata di chierici litterati. Le scuole degli Ordini mendicanti formarono progressivamente una rete gerarchizzata di Studia, al vertice della quale si collocavano gli Studia generalia, destinati a competere con le Università, nelle quali i frati si inserirono progressivamente, acquisendo il controllo della maggior parte delle cattedre di teologia.

Gli umanisti italiani prepararono il terreno ai moderni collegi, istituendo pensionati a pagamento e redigendo trattati pedagogici come il De ingenuis moribus et liberalibus studiis adulescentiae di Pier Paolo Vergerio (1402). Guarino Guarini (1374-1470), che introdusse lo studio del greco, e Vittorino da Feltre (1378-1446) si sforzarono di superare il tecnicismo delle scuole tradizionali, valorizzando la formazione morale e gli esercizi fisici. La “Ca’ gioiosa” avviata presso Mantova, col sostegno dei Gonzaga, da Vittorino integrava la preparazione culturale con la pratica religiosa, gli esercizi ginnici e le escursioni; e preparava gli allievi tanto agli studi universitari quanto all’assunzione di pubblici uffici. Vittorino, che non volle sposarsi per potersi dedicare completamente ai suoi ragazzi, accettò anche fanciulli poveri e abolì quasi completamente le punizioni corporali, riservandole ai casi di bestemmia e turpiloquio. Nel ʼ400 si diffuse comunque, tra le famiglie dell’élite aristocratica, la figura dell’istitutore privato.

Se Lutero promosse una intensa scolarizzazione, nel clima di riforma cattolica che precedette ed accompagnò il Concilio di Trento iniziò un processo di riclericalizzazione dell’insegnamento: nel 1587 a Venezia sono registrati 258 maestri, di cui solo 97 laici, mentre nel ʼ400 i maestri di condizione ecclesiastica menzionati nelle fonti erano una minoranza. Con la bolla In sacrosancta beati Petri (1564) Pio IV obbligò tutti gli insegnanti a prestare una professione di fede; l’autorità ecclesiastica esercitò un controllo anche attraverso la concessione della licentia docendi, e l’attenzione fu rivolta alla moralità dei comportamenti prima ancora che alla qualità dell’insegnamento. All’insegnante venne affidata una funzione di educatore morale e civile: negli Statuti cinquecenteschi di Camaiore (in Lucchesia) si chiede che gli scolari siano timorati di Dio, frequentino i Sacramenti e la dottrina cristiana, pregando per la repubblica di Lucca e la comunità di Camaiore, ed obbediscano ai genitori ed ai superiori. Il card. Silvio Antoniano (1540-1603) scrisse, su suggerimento di san Carlo Borromeo, il trattato in tre libri De l’educazione cristiana de’ figliuoli (1584), che abbandonava l’ottimismo rinascimentale e considerava necessario infondere nel fanciullo i principi morali mediante un continuo sforzo di correzione degli impulsi; mentre Cesare Crispolti (1563-1608) cercò di delineare nell’opuscolo Idea dello scolare che versa negli studi, affine di prendere il grado del dottorato, ispirato ai medesimi principi pedagogici, il modello perfetto di studente universitario.

Il sacerdote Castellino da Castello avviò a Milano, a partire dal 1536, le Scuole della dottrina cristiana, allo scopo di «riformare il mondo a vera vita christiana» mediante l’organizzazione delle scuole parrocchiali di catechismo, considerate uno strumento utile anche per formare il buon cittadino. Da questo nucleo iniziale fiorirono progressivamente le piccole scuole che insegnavano al popolo a leggere, scrivere e far di conto, impiegando come insegnanti sia sacerdoti che laici. Il binomio catechismo-grammatica costituisce la matrice dell’acculturazione religiosa e dell’alfabetizzazione dei ceti più umili. Sorsero inoltre nuove congregazioni religiose che fecero dell’insegnamento la loro missione principale. I Gesuiti rivolsero la loro attenzione soprattutto alla formazione delle classi dirigenti mediante l’istituzione di appositi collegi fondati su una precisa Ratio studiorum (1599), che si fondava sul principio dell’unità del sapere e sulla centralità della figura del docente, privilegiando lo studio del latino, dei classici e della filosofia; ma delinearono anche un percorso di studi preuniversitario, ponendo le premesse per l’istituzione del ginnasio-liceo classico. Ad un pubblico più ampio si rivolgevano le Scuole pie degli Scolopi, create da san Giuseppe Calasanzio (1557-1648), che rappresentarono uno strumento efficace di promozione dell’alfabetizzazione popolare, sostuituendo le scuole private dirette da maestri laici. Attive a Bologna dal 1616, esse assorbirono di fatto quegli insegnamenti (come l’aritmetica e la calligrafia) ormai marginali all’interno dello Studio: nel 1796 gli scolari erano ben 1362, con una netta prevalenza delle classi di aritmetica rispetto a quelle di grammatica.  Se G.Domenico Peri (Il negotiante, Genova 1638) aveva raccomandato anche al mercante un curriculum di studi umanistici, gli Ordini aritmetici di Giacomo Venturoli (1663) illustrano le finalità prevalenti delle scuole pie: formare un massaro, un contabile, un artigiano.

Esistevano inoltre, nelle principali città, anche scuole parrocchiali; ed i Seminari per chierici accoglievano spesso anche convittori laici. Giovanni Battista de La Salle (Reims 1651-1719) cercò di assicurare un’educazione cristiana al giovani dei ceti popolari ed alle popolazioni rurali, aprendo in Francia diverse scuole di carità per ragazzi poveri, i cui maestri costituirono l’embrione della congregazione dei «Fratelli delle Scuole Cristiane», riconosciuta ufficialmente da Benedetto XIII (1725). Egli, distinguendosi dalla prassi del tempo, diede priorità alla madrelingua rispetto al latino nell’avviamento alla lettura; fondò Scuole normali per formare i maestri rurali (denominate “seminari per i maestri di campagna”) e scuole serali e domenicali per i giovani lavoratori, e ideò una scuola ad indirizzo tecnico-professionale, esponendo i suoi principi educativi in diverse opere che ebbero notevole fortuna (Guida delle Scuole Cristiane; Regole di buona creanza e di cortesia cristiana); e soprattutto nella prima metà dell’Ottocento la sua congregazione,  si diffuse anche in Italia. Va sottolineato il ritardo notevole dell’alfabetizzazione femminile, che fece passi significativi solo nell’’800, grazie a personalità come Luisa Amalia Paladini (1810-1872), soprintendente degli asili infantili a Lucca e quindi direttrice di istituti femminili di vario grado a Firenze e Lecce. Dalla pia Opera di Santa Dorotea, fondata nel 1815 a Calcinate (Bergamo) da Luca e Marco Passi, sorsero varie congregazioni femminili denominate “Dorotee” e impegnate nell’educazione cristiana delle giovani.

L’attenzione alla condizione di abbandono dei bambini delle classi popolari indusse don Ferrante Aporti (1791-1858) a fondare nel 1828 a Cremona la prima scuola infantile d’Italia. Nella sua prospettiva l’asilo doveva formare i figli dei lavoratori sul piano intellettuale, religioso, morale, dedicando ampio spazio al gioco, all’educazione fisica, alla preghiera, al canto, mentre la storia sacra si insegnava per mezzo di tabelloni illustrati, e l’apprendimento di lettura, scrittura e nozioni di aritmetica era riservato all’ultimo anno. Egli promosse anche scuole per sordomuti, ciechi e orfani, nonché corsi per maestri, scuole festive di disegno e architettura, e presentò un progetto di riforma per creare gli istituti tecnici. L’istituzione dell’asilo suscitò dibattiti anche vivaci: le scuole aportiane, diffuse in diverse regioni italiane, furono proibite nello Stato Pontificio a causa di taluni pregiudizi, dovuti anche al suo impegno per costruire l’identità nazionale. A Venezia i due fratelli Antonio (1772-1858) e Marco Cavanis (1774-1853) aprirono nel 1804 la prima scuola di carità, e  nel 1808  diedero  vita  anche  ad un convitto  femminile: le loro scuole erano destinate soprattutto ai ragazzi poveri, ai quali venivano insegnati l’italiano parlato e scritto ed i fondamenti dell’aritmetica e del latino. Essi aprirono anche una tipografia per dare lavoro agli allievi che non avevano intenzione di proseguire gli studi. Per garantire la continuità dell’opera diedero vita ad una comunità religiosa, approvata  nel 1835 da Gregorio XVI e denominata “Congregazione delle scuole di carità” (o Istituto Cavanis). Da parte sua don Giovanni Bosco (1815-1888), pur non sviluppando una sistematica riflessione pedagogica, rivolse l’attenzione all’educazione dei giovani dei ceti popolari ed anche ai marginali, elaborando, in alternativa alla repressione dei comportamenti devianti, un “sistema preventivo” incentrato sullo forzo di “guadagnare il cuore dei giovani” curando, mediante oratori, scuole professionali e collegi, la loro formazione umana e cristiana per preparare ad un tempo “utili cittadini e buoni cristiani”.

Queste scuole cattoliche, gestite per lo più da Ordini religiosi, svolsero un ruolo determinante nel periodo della Restaurazione, ma sopravvissero in genere anche dopo la politica di laicizzazione dell’insegnamento intrapresa dal governo sabaudo. Il modello scolastico esercitò una forte influenza anche sull’organizzazione del catechismo parrocchiale, strettamente intrecciato con l’istruzione popolare.

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LEMMARIO




Seminari - vol. I


Autore: Maurilio Guasco

Il 5 luglio 1563 il Concilio di Trento avrebbe approvato un documento, noto come Cum adolescentium aetas dal suo incipit, con il quale invitava le varie diocesi ad aprire una casa in cui radunare i giovani che intendevano avviarsi al sacerdozio per fornire loro una formazione di carattere spirituale e culturale adatta ai tempi. Precisava che in presenza di difficoltà di carattere economico, o per delle diocesi particolarmente piccole, si poteva pensare a strutture interdiocesane. Tali case venivano indicate, utilizzando un termine già presente in alcuni paesi europei, come seminari.

Si pensava così di unificare dei modelli formativi diversi, in uso in varie diocesi, per preparare i futuri preti. Vi erano le scuole cattedrali, in certi casi dette anche canonicali, in quanto gestite dai canonici. In altri luoghi i corsi erano dettati da qualche maestro, la cui scuola avrebbe preso il nome di Studium Generale, premessa delle future università. In alcuni luoghi, grazie anche agli Ordini religiosi, tali Studi Generali avevano avuto uno sviluppo particolarmente significativo e quindi attiravano alunni da vari paesi. Si può pensare, ad esempio, a Parigi e Bologna.

In altri luoghi, dove già erano nate le università, diventava prassi seguire i corsi in tali istituzioni. Una prassi abituale per esempio in Germania, ma in molti casi anche a Roma, dove erano aperti alcuni collegi, quali il Capranica e il Nardini, in cui vivevano giovani che seguivano le lezioni nelle Università dove quasi sempre era presente la facoltà di teologia. Collegi analoghi per la vita comune dei futuri preti erano aperti in Spagna e in Francia. Qui i giovani seguivano le lezioni alla Sorbona, e nel corso del secolo XVII avrebbero avuto come esempio significativo la parrocchia di Saint-Sulpice, dove vivevano alcuni giovani sotto la responsabilità del parroco, seguendo i corsi nella vicina università. Era anzi questo un altro dei modelli formativi: la vita in comune con un parroco, che poi presentava il giovane al vescovo per l’ordinazione. In altri casi poi, era la stessa casa del vescovo ad accogliere i giovani che si preparavano al sacerdozio.

La prima vera modifica avviene a Roma con la fondazione da parte di Ignazio di Loyola del Collegio Romano (1551), che attirerà subito molti studenti e diventerà in seguito l’Università Gregoriana, e quindi del Collegio Germanico (1552), destinato soprattutto alla formazione “romana” di futuri preti tedeschi, che rischiavano nel loro paese d’origine di essere orientati in altro modo dal clima della Riforma. Possiamo aggiungere che l’esempio della Germania fu seguito da altri paesi, che aprirono a Roma dei Collegi nazionali per formarvi alcuni dei loro futuri pastori.

Il modello seguito dal Concilio di Trento, sia per gli studi che per i vari regolamenti, veniva dall’Inghilterra, dove il Cardinale Pole in occasione del Sinodo del 1555 aveva invitato le diocesi ad aprire delle scuole da dove, “tamquam ex seminario”, si potessero scegliere i candidati al sacerdozio.

I Padri conciliari avrebbero poi indicato le condizioni per l’ammissione nei seminari: giovani di almeno 12 anni, figli legittimi, capaci di leggere e scrivere e con un indole che lasciasse presagire la scelta dello stato sacerdotale. Nelle diocesi in cui non erano presenti facoltà teologiche all’interno delle università, il seminario era destinato a diventare una istituzione globale, dove cioè il giovane veniva formato con scarsi contatti esterni, dal momento che tutto veniva organizzato all’interno della struttura stessa, compresa la scuola. Per questa lo stesso Concilio indicava degli orientamenti culturali, insieme con quelli di natura spirituale e disciplinare. Si può anzi dire che il Concilio offriva un modello che prevedeva per la formazione al sacerdozio tre veri e propri pilastri, che sarebbero rimasti come elemento di riferimento fino al secolo XX: la pietà, lo studio e la disciplina, e per ognuno di tali pilastri offriva delle indicazioni pratiche.

Bisogna subito aggiungere che in diversi paesi europei non avvennero grandi cambiamenti, o per mancanza di docenti, o per ragioni economiche, o perché rimanevano in vigore i vecchi modelli formativi, in particolare quello che vedeva la separazione tra il luogo di vita, il Collegio, e il luogo di studio, l’Università. Inoltre, sarebbe rimasto a lungo in vigore un altro modello, quello del chiericato esterno: vi erano cioè giovani che restavano nelle loro case e si preparavano privatamente al sacerdozio oppure frequentavano, appunto da esterni, le scuole del seminario o delle Università.

In Italia, e anche in Spagna, molti vescovi applicarono il decreto, e poi ci fu l’opera indefessa di san Carlo Borromeo, che non solo si occupò di istituire il seminari nella sua diocesi milanese (1564), ma collaborò alla fondazione anche in altre diocesi, scrivendo poi quel regolamento, che teneva conto delle indicazioni del Concilio di Trento, in particolare nel riferimento a quelli che abbiamo definito i tre “pilastri”, che sarebbe stato utilizzato in molte diocesi italiane. Il giovane doveva acquisire una profonda vita spirituale, derivante soprattutto dalla sistematicità degli esercizi di pietà, una buona formazione culturale di carattere teologico, morale, giuridico e pastorale su base sopratutto umanistica, e infine una rigorosa disciplina di vita. Ad ogni settore era preposto un responsabile, che avrebbe fatto capo al responsabile generale, il rettore.

Quasi come esempio per le altre diocesi, Roma aprì nel 1565 il proprio seminario, che venne però affidato non a preti romani ma a membri della Compagnia di Gesù. Negli anni successivi al Concilio di Trento in Italia vennero aperti un centinaio di seminari, molti dei quali però avrebbero avuto vita difficile, soprattutto per mancanza di docenti e di mezzi economici, al punto che non furono pochi che avrebbero chiuso poco dopo la loro inaugurazione, in attesa di essere poi rifondati o ristrutturati in epoca successiva.

Nel corso del ’600 diversi seminari italiani subirono l’influsso della scuola francese, che faceva capo soprattutto a San Vincenzo de’ Paolo e a Jean Jacques Olier, e quindi a Jean Eudes. A monte vi era ancora il seminario-parrocchia, cioè alcuni giovani vivevano con il parroco e frequentavano le facoltà universitarie. L’aumento di tali presenze portò alla nascita di veri e propri seminari, con due novità: la distinzione, causa la difficoltà a far convivere e formare persone di età troppo diverse, tra il petit séminaire e il grand séminaire, che in Italia sarebbero diventati seminario minore, comprendente le medie e il ginnasio, e seminario maggiore, con il liceo (detto anche filosofia) e la teologia; e un modello formativo diverso, con la vita comune tra superiori ed alunni, e una forma di spiritualità fortemente legata alla cristologia. Ma in Italia sarebbe rimasto il modello carolino, con la netta separazione tra alunni e superiori, e il ruolo fondamentale affidato al rettore. Inoltre, in Italia e a differenza della Francia, il padre spirituale era una figura a parte, che non partecipava alle riunioni in cui gli stessi superiori prendevano le decisioni circa la vita degli alunni.

A partire dal Concilio di Trento, non saranno pochi i papi che interverranno, o con documenti o con indicazioni e norme, per rendere sempre più efficace la formazione sacerdotale. Nel 1725 verrà anche instituita da Benedetto XIII, con la Costituzione Credite nobis, una Congregazione dei Seminari, con il compito di vegliare alla applicazione dei decreti tridentini.

Il papa indicava anche come reperire i fondi necessari alla vita dei seminari, e quindi dava istruzioni sulle materie che vi dovevano essere insegnate: la grammatica, il canto gregoriano, il computo ecclesiastico, e quindi le Sacre Scritture, i catechismi e i vari manuali ecclesiastici, in particolare quelli concernenti i sacramenti e le sacre cerimonie.

Non era comunque scomparso il chiericato esteriore: numerosi candidati al sacerdozio continuavano a prepararsi restando nella loro casa e frequentando scuole pubbliche o private, oppure le stesse scuole del seminario: che tra l’altro in molti casi sono frequentate anche da giovani che non intendono avviarsi al sacerdozio, soprattutto per gli anni antecedenti la teologia. In altri termini, non sono pochi i seminari che svolgono anche la funzione di collegi, o luoghi di istruzione pubblica, frequentati da futuri preti ma anche da altri studenti. Vi è una ragione economica: spesso sono questi ultimi a pagare la retta, ma anche una ragione di carattere culturale. Si pensa che sia un fatto positivo che parte della futura classe dirigente abbia avuto una soda formazione religiosa. Ma altri pensano che tale convivenza tra candidati al sacerdozio e chi pensa ad altre carriere rischi di rendere più difficile la formazione dei primi. Per questo si svilupperanno ampie discussioni fra i fautori dei seminari solo per futuri preti, e i fautori del seminario chiamato misto, cioè con la presenza di futuri preti e altri che restano in seminario, o lo frequentano, solo perché spesso è l’unico luogo in cui sono organizzate delle scuole.

Non è quindi strano che nella ricordata Costituzione di Benedetto XIII si dessero anche delle indicazioni per il reperimento di fondi per la vita dei seminari, anche se gli esiti non sarebbero stati quelli che il pontefice aveva auspicato.

Nel corso del XVIII il potere civile cercò di avere voce nelle nomine dei rettori e dei professori, soprattutto in alcune zone, come nel lombardo-veneto, e successivamente anche nel Piemonte di casa Savoia. Il prete era spesso considerato alla stregua di un funzionario di stato civile, capace di esercitare un forte influsso sulla popolazione. Per questo diversi governanti pensavano che fosse indispensabile un vero e proprio controllo della formazione di tali futuri funzionari.

Fra i vari tentativi fatti in proposito, possiamo ricordare l’opera di Giuseppe II che, dopo aver soppresso diversi seminari lombardi, nel 1786 faceva aprire a Pavia un “Seminario generale per la Lombardia austriaca” in vista della formazione di un clero che fosse anche al servizio dello Stato. Qualcosa di analogo, ma di segno diverso, avrebbe fatto in Toscana Pietro Leopoldo, le cui riforme avrebbero avuto come esito nel 1786 il noto Sinodo di Pistoia. I decreti del Sinodo contengono elementi di forte novità. La formazione del clero, secondo il Sinodo, deve privilegiare la pastoralità, e quindi il giovane sarà ordinato non in vista di un beneficio da acquisire, ma in funzione di un servizio pastorale da svolgere. Il vescovo quindi ordinerà un numero di preti in vista del servizio pastorale richiesto, ponendo così fine alla presenza di una moltitudine di ecclesiastici inutili e privi di ogni formazione. Per questo si dovranno ordinare solo dei giovani che abbiano svolto in seminario la formazione richiesta. Questo avrebbe portato in alcune zone alla scomparsa dei seminari-collegi, dal momento che venivano esclusi dai seminari quanti non manifestavano l’esplicita volontà di avviarsi al sacerdozio.

Il breve periodo della dominazione napoleonica, con l’accentramento nella mani dello Stato di tutta la formazione scolastica, avrebbe lasciato scarsi influssi nelle zone asburgiche, più significativi in altre zone, accentuando anche una certa diversificazione culturale, dal momento che i seminari privilegiavano la formazione umanistica, mentre si andavano diffondendo modelli culturali segnati da altre scienze.

Un significativo ritorno alle pratiche religiose proprio del periodo della Restaurazione, che avrebbe visto un proliferare di fondazioni di Congregazioni religiose, avrebbe anche spinto molti vescovi a rifare o ingrandire i loro seminari. Questo tra l’altro avrebbe reso possibile l’ingresso in seminario di quegli alunni che non potevano essere ospitati. Il che avrebbe contribuito alla lenta diminuzione dei chierici esterni e a una modifica anche dei programmi scolastici.

La base di tale modifica sarebbe stata la Costituzione Quod divina sapientia, emanata da Leone XII nel 1824, che prevedeva la ristrutturazione degli studi teologici nelle facoltà pontificie, e che avrebbe portato, con altri provvedimenti pontifici, a una sempre più accentuata separatezza tra il clero e la società civile. Il seminario diventa sempre più un’istituzione globale, autosufficiente, che eviterà di subire influssi esterni. Tale tendenza verrà accentuata dal conflitto tra Chiesa e Stato che si aprirà in diversi paesi europei, Italia compresa, dove il conflitto sarà accentuato dalla decisione presa dal governo dell’Italia unita di nominare nel 1864 dei visitatori incaricati di ispezionare anche i seminari e di presentare una relazione sullo stato interno degli istituti di formazione. Tra le motivazioni, si adduceva anche il fatto che in molti seminari svolgevano di fatto il ruolo di una scuola pubblica, e il governo riteneva suo diritto vegliare sulla formazione di molti futuri cittadini. Tale indagine avrebbe portato tra l’altro alla chiusura di ben 82 seminari, ma avrebbe anche spinto i vescovi a migliorare le condizioni di vita dei seminari stessi e il livello di istruzione, aprendo anche il dibattito sulla opportunità di introdurre i programmi governativi nelle scuole del seminario.

Se questo valeva soprattutto per le scuole medie e liceali, un problema diverso si poneva per gli studi teologici. Il conflitto determinatosi in Italia dopo l’occupazione di Roma avrebbe portato alla scomparsa nelle università statali degli alunni delle facoltà di teologia, che di conseguenza verranno soppresse, nel 1873. Tali insegnamenti saranno da allora confinati esclusivamente nelle facoltà ecclesiastiche e nei seminari.

Fonti e Bibl. essenziale

E. Brambilla, Società ecclesiastica e società civile: aspetti della formazione del clero dal Cinquecento alla Restaurazione, in “Società e Storia”, 1981, 299-366; C. Fantappiè, Istituzioni ecclesiastiche e istruzione secondaria nell’Italia moderna: i seminari-collegi vescovili, in “Annali dell’Istituto storico italo-germanico in Trento”, 1989, 189-240; M. Guasco, La formazione del clero: i seminari, in Storia d’Italia, Annali, IX, La Chiesa e il potere politico dal Medioevo all’età contemporanea, a cura di G. Chittolini e G. Miccoli, Torino, Einaudi 1986, 629-715; G. Pelliccia, La preparazione ed ammissione dei chierici ai santi ordini nella Roma del secolo XVI, San Paolo, Roma 1946; J.A. O’Donohoe, Tridentine Seminary Legislation. Its Sources and its Formation, Université de Louvain 1957; Sacra Congregatio pro Institutione Catholica, Enchiridion Clericorum. Documenta Ecclesiae futuris sacerdotibus formandis, Typis Polyglottis Vaticanis 1975; Sacra Congregatio de Seminariis et Studiorum Universitatibus, Seminaria Ecclesiae Catholicae, Typis Polyglottis Vaticanis 1963: C. Sagliocco, L’Italia in seminario 1861-1907, Roma, Carocci 2008; L. Sala Balust – F.M. Hernandez, La formacion sacerdotal en la Iglesia, Juan Flors, Barcelona 1966; M. Sangalli (ed.), Chiesa chierici sacerdoti. Clero e seminari in Italia tra XVI e XX secolo, Herder, Roma 2000.


LEMMARIO




Sessualità - vol. I


Autore: Margherita Pelaja

Per tentare di dare ordine a una riflessione sul tema della sessualità possono essere usati due termini: “parità” e “gerarchia”. Solo apparentemente contrapposti e lontani dal tema specifico, essi si intrecciano sempre fra di loro secondo relazioni complesse, mentre l’uno o l’altro acquista intensità e occupa di volta in volta il centro della scena in epoche diverse, permettendo così di proporre periodizzazioni, di suggerire grumi di senso.

Non si tratta qui infatti di comporre una narrazione lineare, incapace per sua natura di rendere conto sia pure in estrema sintesi di un cammino lunghissimo e tortuoso, fatto di elaborazioni e di esperienze contrastanti disseminate su territori e contesti i più diversi tra di loro. Né si tratta di guardare alla sessualità come luogo teologico, puro oggetto di dispute dottrinali. Si tratta piuttosto di osservare la declinazione storica e politica che alcuni enunciati hanno avuto nel corso dei secoli nella storia della Chiesa ma anche nella quotidianità dei vissuti dei fedeli.

Il primo termine dunque è “parità”, e ha portato una rivoluzione culturale nelle concezioni del mondo antico. Parità tra anima e corpo, prima di tutto: culture e filosofie precristiane ascrivevano il corpo – e con esso l’istinto sessuale – alla sfera della natura; lo separavano in un dualismo irriducibile dalla dimensione spirituale e intellettuale per farne di volta in volta luogo immondo di pulsioni da soffocare o centro di forze cui abbandonarsi in tutta innocenza, perché parte di una fisiologia separata dalla morale e dalla religione. Il cristianesimo sovverte tutto: nelle lettere di Paolo il corpo risplende della stessa luce che aveva fatto risorgere il corpo di Cristo dalla tomba, è «tempio dello Spirito santo». Non più terreno neutrale della natura, con l’Incarnazione il corpo diventa parte integrante della persona umana, inscindibile dallo spirito.

Il dualismo così limpidamente abolito torna tuttavia, e subito, in una nuova antitesi: impulsi e desideri capaci di trascinare ognuno nel peccato e nella perdizione risiedono infatti, nella visione paolina e poi in tutti i testi cristiani, non nel corpo ma nella “carne”. La carne è una forza possente, ribelle a Dio attraverso mollezze e tentazioni ben più pericolose degli istinti naturali del corpo; quella che Agostino chiamerà concupiscenza è il vizio della carne che desidera “contro” lo spirito, alla ricerca di un piacere fine a sé stesso e attratto dal peccato. La lotta tra spirito e carne trasforma così il corpo in uno strumento di salvezza, e dunque in luogo d’ordine e di esercizio della volontà e della disciplina: la parità tra anima e corpo ha implicazioni profonde nella vita di ogni cristiano e ancor più profondamente ambigue nella sua percezione della sessualità. L’enfasi posta sul dominio di sé e sul controllo degli impulsi sessuali propone subito infatti slittamenti di senso, suggerisce scelte economiche convenienti: «con l’astinenza – scrive Tertulliano nel De Anima (9, 4) – si può acquisire moltissima santità: risparmiando nella carne si può investire nello spirito». La scelta e l’esercizio della castità come vittoria definitiva sulla concupiscenza sarà letta nel corso dei secoli come la via più nobile e certa verso la salvezza, fino ad accreditare una visione che denigra anche la sessualità più continente e apre la strada all’affermazione del binomio cristianesimo/sessuofobia.

C’è un’altra parità, altrettanto controversa, alle fondamenta del cristianesimo: quella tra uomo e donna. «Ciascuno abbia la propria moglie e ogni donna il proprio marito. Il marito compia il suo dovere verso la moglie; ugualmente anche la moglie verso il marito», scrive Paolo nella Prima lettera ai Corinzi. Uguaglianza e reciprocità sono posti alla base dell’unione coniugale cristiana lungo un percorso che dalle coppie che nei primi secoli vivevano in ascesi nei Luoghi Santi, passa a porre la copula come condizione indispensabile all’esistenza stessa del legame coniugale; poi a elaborare tecniche amatorie efficaci perché entrambi i coniugi raggiungano il piacere, giungendo infine a tollerare la sessualità prematrimoniale come strumento per raggiungere le nozze.

Questo percorso è lungo e tortuoso: i teologi dell’antichità e del medioevo accettavano l’unione coniugale esclusivamente come remedium concupiscientiae e discutevano se la copula tra moglie e marito fosse da considerare almeno peccato veniale, dato che il piacere fisico ha la capacità di obnubilare, sia pure per pochi istanti, la vigilanza della coscienza cristiana. Dopo la codificazione del matrimonio varata dal Concilio di Trento invece si diffondono trattati che rovesciano questo punto di vista: rifacendosi alle teorie ippocratiche che ritenevano l’orgasmo sia maschile che femminile indispensabile alla procreazione, i più autorevoli teologi morali seicenteschi raccomandano eccitazioni, fantasie, toccamenti affinché moglie e marito godano pienamente e legittimamente dei piaceri dell’amplesso. Ogni preliminare e ogni posizione sono esaminati con tolleranza per garantire ai coniugi la reciprocità della soddisfazione e del possesso.

Naturalmente, in questa come in altre teorizzazioni, non si tratta soltanto di elaborare norme morali sulla sessualità coniugale: si tratta piuttosto di accentuare la distinzione tra la castità del clero e la quotidianità sessuata dei laici, e soprattutto di frastagliare i confini tra lecito e illecito, di sfumare l’assoluto delle norme universali per consegnare ogni esperienza alla responsabilità del singolo e all’autorità dei confessori.

La copula acquista così luci e qualità inedite rispetto al rigore della Chiesa medievale: l’unione della carne e la commistione del sangue generano un vincolo indissolubile che nell’ordine del popolo dei fedeli post-tridentini “deve” diventare matrimonio. In nome di questo obiettivo prioritario i prelati che amministrano la giustizia ecclesiastica sono pronti allora ad accantonare canoni e castighi per privilegiare l’opportunità di sanare singoli e scandalosi disordini. Comincia a configurarsi così una delle gerarchie che ispirano il governo delle anime per tutta l’età moderna: in cima alla scala degli eventi desiderabili nella vita dei fedeli c’è il matrimonio, mentre alla sommità di quella delle situazioni esecrabili per la comunità cattolica c’è lo scandalo. «A retto fine di matrimonio» e per evitare scandali maggiori saranno concesse dispense matrimoniali anche da impedimenti dirimenti – disparità di ceto sociale o di culto, adulterio con promessa di sposarsi alla morte del coniuge, parentela – purché forzati dalla consumazione di un amplesso più potente delle leggi canoniche. Dopo alcuni decenni di rigore – necessari a far penetrare nella coscienza collettiva l’obbligo di seguire i dettati tridentini nella celebrazione delle nozze – verranno aiutati i concubini che saranno stati capaci di convincere parenti e vicinato di essere davvero marito e moglie: la pena loro comminata sarà fino a tutto l’Ottocento nozze rapide ed economiche, celebrate a spese del Tribunale ecclesiastico risparmiando sui costi dei certificati necessari e ottenendo l’esonero da quelli difficili da reperire. Quanto poi alla seduzione, a quegli amplessi strappati con lusinghe o concessi con lucido calcolo, basterà dichiarare concordemente che gli impulsi della carne hanno solo preceduto gli onesti intenti nuziali, oppure denunciare al parroco un seduttore riottoso per ottenere una “condanna” che imponga il bene supremo del matrimonio ed eviti il male contagioso dello scandalo.

Altre gerarchie vengono poi a disporsi lungo la scala del lecito e dell’illecito nel governo delle anime e dei corpi dei fedeli: sono le gerarchie che riguardano gli impulsi irrefrenabili, le inclinazioni perverse, le resistenze poste dalla carne alla disciplina che ogni cristiano deve esercitare sul desiderio sessuale. Perché i peccati, anche all’interno del vizio capitale della lussuria, non sono tutti uguali: ognuno occupa un suo spazio specifico, ognuno è al centro di valutazioni e negoziazioni che declinano di volta in volta gli enunciati universali del bene e del male.

Alla sommità della graduatoria della colpa c’è il peccato più inatteso, quello cui nessun cristiano – neanche il monaco più santo – riesce a sfuggire: la dissipazione del seme. Lo sperma possiede la potenza generativa, che fa dell’uomo lo strumento del divino nel donare la vita: assicura quindi la legittimità dell’ordine paterno ma al tempo stesso è associato al disordine di emissioni involontarie e incontrollate, legandosi strettamente alla grande questione teologica del libero arbitrio e dei suoi confini. Per tutto il medioevo la polluzione fu ritenuta rischio e tentazione del clero, impegnato in battaglie feroci contro fantasie e abbandoni notturni; con il passare dei secoli poi nella riflessione di monaci e teologi fu progressivamente estesa a tutti i celibi; infine, a partire dal Quattrocento, a tutti gli uomini e a tutte le donne, stabilendo una sorta di identificazione con la masturbazione. Così nei manuali dei confessori post-tridentini è proprio la labilità del confine tra masturbazione e polluzione a consentire di scomporre il peccato secondo prospettive variabili, di ricondurlo di volta in volta a un fallimento episodico e veniale del controllo sugli istinti oppure a un esecrando crimine contro natura, a un vizio innominabile generatore di altrettanto innominabili perversioni.

Il “peccato nefando” che ne discende direttamente è infatti quello di sodomia. Peggiori degli omicidi (Giovanni Crisostomo), colpevoli di aver cacciato lo Spirito Santo dal tempio dell’anima (Pier Damiani), tanto abominevoli da suscitare disgusto perfino nei diavoli (Caterina da Siena), destinati alla corruzione del corpo prima che alla morte (Bernardino da Siena), i sodomiti hanno posto la Chiesa di fronte a contraddizioni paralizzanti: perché un rapporto carnale consapevolmente infecondo evidenzia un altrettanto consapevole abbandono alla lussuria ed esige dunque una punizione definitiva ed esemplare. Ma è qui che cominciano i problemi. Affinché sia comminata l’esclusione perenne dalla comunità dei cristiani, o sia addirittura richiesta – con due Costituzioni nel corso del Cinquecento – la collaborazione delle magistrature laiche per imporre supplizi e impiccagioni, è infatti necessario che la colpa sia accertata in tutta la sua pienezza: occorre provare la coscienza del peccato, la sua reiterazione perché non si tratti di una caduta occasionale, la sua consumazione completa e consenziente, il ruolo attivo o passivo sostenuto nella consumazione stessa, dato che solo per il dominante è prevista la consapevole emissione del seme. Magistrati, inquisitori e confessori rimangono in balia di denunce, ritrattazioni, sottigliezze giuridiche: così – in una visione che privilegiando la colpa dell’infertilità pone sullo stesso piano rapporti fra uomini, fra uomini e donne, fra uomini e fanciulli – proprio l’orrore del peccato nefando rende quasi impossibile il suo castigo.

È insomma un misericordioso pragmatismo a ispirare nel lungo periodo la politica della Chiesa verso i fedeli colpevoli di comportamenti sessuali irregolari: gli assoluti delle condanne sono stemperati in valutazioni e negoziazioni su casi particolari e su specifiche attenuanti, per giungere infine a proporre pene miti, perdoni condizionati. Perché l’obiettivo perseguito non è tanto la difesa dell’ordine morale e familiare, quanto la penetrazione nelle coscienze del senso del peccato e della colpa come vissuto perenne del cristiano, premessa irrinunciabile alla sottomissione e all’obbedienza.

Fonti e Bibl. essenziale

W. de Boer, La conquista dell’anima: fede, disciplina e ordine pubblico nella Milano della Controriforma, Einaudi, Torino 2004; J. Bossy, L’Occidente cristiano, 1400-1700, Einaudi, Torino 1990; P. Brown, Il corpo e la società. Uomini, donne e astinenza sessuale nel primo cristianesimo, Einaudi, Torino 1992; C. Casagrande, S. Vecchio, I sette vizi capitali. Storia dei peccati nel Medioevo, Einaudi, Torino 2000; A. D’Avack, Omosessualità (diritto canonico), in Enciclopedia del diritto, Vol. XXX, Giuffré, Milano 1980; J. Delumeau, Il peccato e la paura. L’idea di colpa in Occidente dal XIII al XVIII secolo, Il Mulino, Bologna 1987; T. Laqueur, L’identità sessuale dai Greci a Freud, Laterza, Roma-Bari 1992; T.W. Laqueur, Sesso solitario. Storia culturale della masturbazione, a cura di V. Lingiardi e M. Luci, Il Saggiatore, Milano 2007; V. Lavenia, L’infamia e il perdono. Tributi, pene e confessione nella teologia morale della prima età moderna, Il Mulino, Bologna 2004; M. Pelaja, L. Scaraffia, Due in una carne. Chiesa e sessualità nella storia, Laterza, Roma-Bari 2008; P. Prodi (ed.), Disciplina dell’anima, disciplina del corpo e disciplina della società tra medioevo ed età moderna, Il Mulino, Bologna 1994; A. Rousselle, Sesso e società alle origini dell’età cristiana, Laterza, Roma-Bari 1985; G. Ruggiero, I confini dell’eros. Crimini sessuali e sessualità nella Venezia del Rinascimento, Marsilio, Venezia 1988; R. Rusconi, L’ordine dei peccati. La confessione tra medioevo ed età moderna, Il Mulino, Bologna 2002; J. Verdon, Il piacere nel Medioevo, Baldini & Castoldi, Milano 1999.


LEMMARIO




Soppressioni - vol. I


Autore: Emanuele Boaga †

Con il termine di s. (= s.) si intende la chiusura di un istituto religioso o case di esso attuata sia per intervento della legittima autorità ecclesiastica, sia per l’azione autoritaria e unilaterale del potere civile, dai signori feudali e dalle magistrature delle città medievali fino agli Stati moderni.

Le s. dovute a decisioni di autorità interne dello stesso istituto religioso o dalla Santa Sede presentano sempre come prima e fondamentale motivazione la decadenza e non osservanza della disciplina regolare, e la impossibilità di continuare o di una ripresa, nonché le circostanze particolari che conducono a sopprimere e unire o a fondere un istituto in un altro simile. Oltre ai motivi canonici e disciplinari a volte si registra, soprattutto in epoca moderna, anche un’influenza di elementi di indole sociale, politica ed economica.

Le s. invece attuate da singole autorità civili o dagli Stati moderni, che si esprimono in modo spesso assai più radicale di quelle ecclesiastiche, si basano su una complessità di motivazioni, da quelle di ordine economico a quelle sociali del rapporto della società civile con la Chiesa e la Religione, e in particolare nel periodo moderno dalla scarsa o nessuna stima per la vita religiosa – considerata inutile e dannosa e anche superflua e non controllabile – e infine dagli influssi del giansenismo e dell’anticlericalismo liberale.

La quantità di questi connesse con le s. religiose rende impossibile trattarle ed analizzarle tutte nel breve spazio loro riservato nel Dizionario. Per questo si sceglie di offrirne un’essenziale panoramica, rimandando alle opere generali e ai singoli studi specifici su di esse indicati nella bibliografia.

Soppressioni operate dalla S. Sede. Le s. effettuate per iniziativa esclusiva dalla S. Sede, o d’accordo con le autorità civili oppure su loro richiesta, sono numerose. Quando i tempi portarono la separazione tra Stato e Chiesa esse invece diminuirono assumendo sempre più il loro carattere disciplinare.

Gran parte delle s. nel medioevo vanno collocate nel contesto della preoccupazione della S. Sede nel frenare il proliferare di nuovi ordini con le chiare misure adottate dal Concilio Lateranense IV (1215) e da quello di Lione II (1274), per motivi non solo di ordine religioso, ma anche per problemi di ordine sociale e per l’emergenza di movimenti dottrinali che si sottraevano all’obbedienza della Chiesa. Per il noto caso della s. dei Templari (1312), che avevano case anche in Italia, entrano in gioco questioni più politiche che religiose, che mettono in rilievo la sudditanza di papa Clemente V a Filippo il Bello, re di Francia.

Si può anche brevemente accennare che nel medioevo e prima del Concilio di Trento non mancarono casi di s. di monasteri decretate da vescovi o signori feudali, spesso per motivi economici o per affermare ancor più la propria autorità sul territorio. Nel corso del secolo XVI i casi di s. vengono sempre più risolti e decretati dall’autorità della S. Sede, fino a divenire l’unica competente in materia. Ciò permette tutta una vasta azione nell’applicazione dei decreti tridentini per la riforma della vita regolare che si ispira ai criteri del diritto canonico, e al particolare concetto di vita religiosa (con identificazione della vita regolare con gli atti comuni) che guida la restaurazione e la chiusura di conventi maschili e femminili.

In questo contesto si nota che l’azione promossa dai papi per il rinnovamento della vita dei religiosi, porta a vari tipi di s.. Prima di tutto, riguardo alla vita monastica femminile, c’è l’intervento di Pio V che con la bolla Circa pastoralis del 1566 sopprime tutte i monasteri in cui le religiose non emettono voti solenni e non osservano la clausura tridentina. Vi è poi, per l’opposizione che facevano alla riforma promossa da san Carlo Borromeo e all’attentato fatto alla sua vita, la s. degli Umiliati decretata dallo stesso Pio V con due brevi del 1571. Nel novembre dell’anno seguente Gregorio XIII sopprimeva l’Ordine di San Lazzaro e, d’intesa con il duca Emanuele Filiberto, designava i beni dei suoi conventi soppressi in Savoia e Piemonte all’Ordine di S. Maurizio. Ancora per indisciplina, decadenza spirituale e resistenza alla S. Sede avveniva la s. dell’Ordine dei Santi Ambrogio e Barnaba nel 1643, mentre Innocenzo X, considerandone l’esiguità del numero dei membri e l’impossibilità di sviluppo, sopprimeva nel 1651 i Preti del Buon Gesù di Ravenna.

Nell’immediata fase post-tridentina vi furono inoltre numerose s. di istituti religiosi e la loro conseguente unione o fusione con altri istituti similari. Sono i casi del Terz’ordine regolare unito con beni e persone agli Osservanti (1568), dei Florensi uniti ai Cisterciensi (1570), dei Conventuali riformati uniti ai Conventuali o ai Cappuccini o ad altre famiglie francescane (1626). Tra questi casi il più noto è la s. della congregazione camaldolese di Fonte Avellana, decretata il 10 dicembre del 1569 da Pio V con la bolla Quantum animus noster. Però più che un provvedimento di riforma si tratta in sostanza dell’unione di Fonte Avellana con il resto dei Camaldolesi, coronando così i falliti tentativi precedenti di quest’ultimi nel 1517 e nel 1530. Inoltre nel provvedimento hanno giocato un ruolo notevole anche gli interessi nel difendere e tutelare il patrimonio della commenda e il liberarsi di alcuni obblighi verso l’Abbazia Avellanita da parte del Card. Giulio Della Rovere.

Vi è poi da segnalare nel 1579 la chiusura di alcuni conventi di Camaldolesi in Italia dato il loro numero esiguo di membri e l’eccessivo numero di abati titolari. Nelle decadi seguenti si ebbero altre chiusure di conventi di Carmelitani, Agostiniani e di altri Ordini Mendicanti iniziando tra Cinque e inizio Seicento a frenare il dilagante fenomeno dei piccoli conventi sparsi sul territorio italiano e delle isole adiacenti. Le motivazioni che sostenevano queste s. erano soprattutto di natura giuridica, le conseguenze del concetto tridentino sulla vita regolare dei religiosi, e le rimostranze contro i Mendicanti da parte dei vescovi di singole diocesi. Ciò giunse al culmine con l’esito drammatico della s., decretata da Innocenzo X nel 1652 e attuata dalla S. Congregazione Sopra lo Stato dei Regolari, dei piccoli conventi o conventini. In seguito da tale decisione venne attuata la chiusura di 1513 conventi maschili, cioè di un quarto di quelli allora esistenti.

L’ispirazione fondamentale di questo provvedimento è da riporre non tanto, come ritengono ancora alcuni storici, nell’accertamento diretto di una diffusa rilassatezza morale presso i religiosi, bensì, come ormai appare chiaramente dall’attento studio delle fonti, da una serie di motivazioni disciplinari e materiali, oltre che giuridiche e pastorali intese alla soluzione radicale dei problemi posti dalla situazione creatasi specialmente negli Stati italiani alla fine del secolo XVI e durante la prima metà del secolo XVII a causa dell’esistenza di numerosissimi piccoli conventi e la larga diffusione di grange nelle zone rurali. Tale situazione creava non pochi problemi nelle strutture interne degli Ordini religiosi e nelle loro relazioni con l’autorità diocesana, nonché poneva nuovi interrogativi circa il modo con cui era concepito l’ideale della vita religiosa in quel tempo e destava al tempo stesso preoccupazione.

Inoltre influenzarono non poco il provvedimento innocenziano anche cause sociali ed economiche legate all’incremento numerico dei religiosi e al largo diffondersi dei vari istituti religiosi antichi e moderni. Inoltre vi sono altre complicazioni, tra cui quelle derivanti da un diffondersi della diminuzione della considerazione dei religiosi in ambienti curiali e diocesani, ed anche da aspetti giurisdizionali legati all’avvertito bisogno nelle diocesi di rafforzare la figura del vescovo nei confronti di tutte le realtà esistenti nel rispettivo territorio e specialmente verso i religiosi esenti, e alla necessità di rafforzare o organizzare meglio la cura pastorale cittadina e rurale, con tutta una rete di cappellanie e parrocchie, unitamente al problema di come disporre dei mezzi adatti per erigere e sostenere i seminari per la formazione del proprio clero, cosa che si rendeva possibile applicando ad essi e ad altre opere pie i beni dei conventi soppressi. In definitiva, la s. innocenziana costituisce uno degli atti che, nel periodo post-tridentino, ha avuto notevole o determinante influsso non solo sulle condizioni degli Ordini religiosi ma anche riflessi nella vita religiosa, politica ed economica degli Stati italiani. Infatti non mancarono reazioni contrarie alle s. da parte della Serenissima Repubblica Veneta, del Granducato di Toscana e del Regno di Napoli.

Tra le altre s. decise dalla Santa Sede e avvenute nel Sei e Settecento, si possono infine ricordare quelle di conventi i cui beni vennero messi a disposizioni della Repubblica Veneta nella guerra contro i Turchi. É il caso delle due s. del 1656 e 1668, che coinvolse a Venezia i Crociferi e i Canonici Regolari di S. Spirito, i Gesuati, i Canonici Regolari di S. Giorgio in Alga, e gli Eremiti di S. Girolamo di Fiesole, nonché il via libero a completare in territorio veneto la s. dei conventini voluta da Innocenzo X nel 1652.

Nel 1751 su iniziativa della S. Sede si realizzò la s. degli Eremiti di S. Maria di Colloreto, anche se il nunzio non poté evitare l’intervento del governo del Regno di Napoli con un editto di soppressione parallelo a quello pontificio.

Nel 1772 avvenne la s. della piccola comunità degli Oratoriani di Spello (Perugia) e infine la notissima s. dei Gesuiti, decretata da papa Clemente V con il breve Dominus ac Redemptor del 12 luglio 1773.

Soppressioni decretate dalle autorità civili e dagli Stati italiani. Queste s. riflettono molto i poteri e i concetti giuridici che nelle varie epoche venivano applicate all’autorità e al governo civile. Senza entrare nell’esame delle varie dottrine che giustificavano gli interventi civili e statali (cf. ad es. Marsilio da Padova, U. Grosso con la teoria della comunità, il giurisdizionalismo, l’assolutismo, l’illuminismo, il liberalismo), si può ricordare al riguardo che soprattutto in epoca moderna le modalità di applicazione di queste teorie portava gli Stati a varie forme di legislazione con misure ristrettive sulla vita religiosa (divieto di accettare novizi, limitazione del numero di conventi, divieto di nuove fondazioni, espulsione dei religiosi esteri, limitazione delle attività dei religiosi concorrenziali allo Stato e limitazione della loro presenza al mero culto nelle chiese); vi era poi lo sviluppo di una legislazione fiscale che rendeva difficile l’esistenza delle case religiose, e obbligava per la loro esistenza l’autorizzazione civile, fino a giungere alla legislazione per la totale soppressione delle corporazioni religiose e dell’incameramento dei loro beni da parte dello Stato.

Nel medioevo le ingerenze di principi e sovrani nella vita religiosa furono numerose, spesso con secolarizzazione di singole abbazie formalmente approvata dalla Curia romana. Un aspetto, che andrebbe approfondito per le s. in epoca medievale, è in rapporto alla nascita dello spirito laico la politica dei magistrati cittadini verso le istituzioni ecclesiali. Inoltre, un esempio tipico di ingerenza in campo ecclesiale è il caso della ricordata s. dei Templari.

Nel passaggio dal medioevo agli sviluppi dell’epoca moderna nel Seicento, fatta eccezione per qualche caso particolare, le misure ristrettive per la vita consacrata e la s. di conventi o di Ordini e Congregazioni religiose risultano in pratica come applicazione di una politica giurisdizionalista finalizzata dai sovrani e dagli Stati moderni a un crescente controllo anche della vita interna della Chiesa. Esempi di ciò sono numerosi. Nel 1606 la Repubblica Veneta, colpita dall’interdetto di Paolo V, espulse i religiosi che osservavano detto interdetto, tra cui i Cappuccini e di Teatini, mentre calcò fortemente la mano sui Gesuiti che, espulsi dai territori veneti, vi poterono tornare solo nel 1657.

Nel Settecento l’azione dei governi degli Stati italiani – caratterizzati dall’assolutismo e anche per influenze illuministe e gianseniste – nel rapporto con la vita religiosa si concentrarono su varie forme di persecuzione, espulsione e scioglimento della Compagnia di Gesù, collaborando così con altre potenze straniere, nella lotta contro di essa fino ala sua formale soppressione da parte di papa Clemente XIV nel 1773.

Nel Regno di Napoli, oltre alle misure contro i Gesuiti, si ebbe decretata direttamente dal governo la s. dei Romiti si S. Nicola di Calabria, la cui Congregazione veniva giudicata nociva alla Religione e allo Stato. Inoltre, sotto il governo di Bernardo Tanucci, negli anni 1768-74 continuarono la s. per lo più di conventi ritenuti inutili e di poca utilità pubblica, destinandone i beni ad altre opere pie.

A Venezia, subordinando le istituzioni religiose all’utile del governo, si attuò una «riforma» dei religiosi che portò dopo il 1769 alla s. di oltre 300 conventi e all’espulsione dei religiosi esteri o stranieri.

Nel Gran Ducato di Toscana i governi di Leopoldo Giuseppe e di Pietro Leopoldo I emisero tra il 1750 e il 1785 varie misure per regolare la vita dei religiosi, tra cui anche la s. di alcuni conventi.

Anche negli altri Stati italiani nel periodo dell’illuminismo si ebbero s. religiose. Così nel Ducato di Milano nel 1769-80 si attuava la s. di comunità con meno di 12 membri, nonché di tutti gli ospizi e grange. Da parte loro gli Ordini religiosi aderirono all’invito del governo preparando piani di consistenza in vita della progettata riforma.

Con la diffusione delle idee della Rivoluzione Francese, la sua legislazione antimonastica ispirò nei territori occupati dai francesi in Italia una conseguente politica avversa ai religiosi. Ciò risulta molto evidente nelle misure prese in merito nella Repubblica Cisalpina, in quelle Romana e Napoletana. A Napoli, sotto il governo di Murat, il numero dei conventi esistenti fu ridotto a un terzo. E infine nel Regno d’Italia durante il periodo napoleonico si giunse alla s. generale dei religiosi con le leggi del 1810.

Caduto Napoleone e dopo il Congresso di Vienna, nella restaurazione attuata negli Stati Pontifici e in altri Stati italiani si ebbe un rifiorire della vita religiosa, anche se non mancarono problemi, come ad es. nella fase costituzionale degli Stati italiani del 1820-21, quando emergevano tendenze di ritorno alle idee della Rivoluzione Francese e quelle nazionaliste.

Mentre in Sicilia nel 1848 vennero aboliti Gesuiti e i Redentoristi, nel Regno di Sardegna, che seguiva una politica sempre più ristrettiva verso la vita consacrata, già nel primo decennio del secolo si ventilava la s. di alcuni conventi per sovvenire alle necessità finanziarie della monarchia sabauda, e allo scopo si ebbero trattative con la S. Sede sulla destinazione dei loro beni. Il tutto si concluse solo con la chiusura di una diecina di case religiose e con la proibizione per alcuni istituti religiosi di ricevere novizi. In seguito, dopo l’espulsione nel 1848 dei Gesuiti nonostante il favore da essi goduto presso tre re sabaudi, la legge del 1855 sulla s. delle corporazioni religiose, non dedite alla predicazione, all’istruzione e alla cura dei malati, privò di personalità giuridica ben 17 congregazioni maschili e 13 femminili, e portò alla chiusura di 235 case religiose, coinvolgendo un totale di 5.489 tra religiosi e religiose.

Fonti e Bibl. essenziale

AA.VV., Soppressione, in Dizionario degli Istituti di Perfezione, VIII (Roma 1988), 1781-1865. Nel corso di questa voce viene indicata un’abbondante bibliografia a carattere generale sulle soppressioni, e gli studi specifici sulle singole soppressioni.


LEMMARIO




Soppressioni, Beni culturali - vol. I


Autore: Paola Picardi

Il patrimonio artistico delle corporazioni religiose, che è parte rilevante dell’intero patrimonio artistico italiano, è stato sottoposto, nel corso dei secoli, a fenomeni di dispersione e di distruzione provocati da interventi di eliminazione, coercizione o limitazione di tali corporazioni. I fenomeni di questa specie sono risalenti: la loro origine è individuabile già nei primi secoli di vita della Chiesa.

In età moderna, anche se ancora non sufficientemente studiato sotto il profilo storico-artistico, uno dei più casi significativi è quello legato a papa Innocenzo X. Il Pontefice, nel 1652, decretò la soppressione dei piccoli conventi, il che comportò, negli Stati italiani, la chiusura di 1.513 conventi su un totale di 6.238, numero complessivo stimato in base ad un censimento di due anni anteriore. Le conseguenze del provvedimento dovettero riguardare anche il patrimonio storico ed artistico realizzato appositamente per tali edifici e lì stratificatosi per secoli. Indicativo in tal senso è, ad esempio, il fatto che i beni incamerati in seguito alla soppressione, incluse le opere d’arte, dovevano essere messe a disposizione del Pontefice, che li avrebbe usati, a sua discrezione, per scopi pii od altri fini. Ricordiamo, a titolo esemplificativo, la fortunata vicenda di quattro quadri di Tiziano presenti nella chiesa di Santo Spirito a Venezia, che il Papa decise di non vendere e di trasferire, insieme ad altri nove dipinti, nella chiesa della Salute, sempre a Venezia.

Nella seconda metà del Settecento, l’imperante ideologia “giurisdizionalistica”favorì numerosi provvedimenti soppressivi. A partire da quegli anni, inoltre, le soppressioni, che fino a quel momento avevano riguardato singole corporazioni religiose, obiettivi mirati, assumono carattere estensivo, rivolgendosi all’insieme della vita religiosa come tale. Queste soppressioni si verificarono, fra l’altro, nei territori italiani soggetti all’impero Austriaco, soprattutto ad opera di Giuseppe II, il quale ordinò non solo la chiusura dei monasteri contemplativi, ma stabilì i programmi di formazione del clero.

Ma l’epoca che potremmo definire classica per la soppressione delle corporazioni religiose, è rappresentata dalla rivoluzione francese e dal successivo periodo napoleonico. Già nel 1792 in Franciavennero soppresse congregazioni secolari e confraternite, ordinando la nazionalizzazione e parziale vendita dei beni artistici che ne formavano la dotazione, procedura che fu successivamente utilizzata da tutte le emanazioni repubblicane di marca francese nella penisola italica, con applicazioni diverse a seconda delle circostanze.Con l’arrivo delle truppe francesi, in generale, si possono infatti riscontrare le prime lacerazioni del quasi intatto tessuto artistico italiano delle corporazioni religiose, le prime asportazioni e decontestualizzazioni.

Interessante, ad esempio, è il caso della Repubblica cisalpina, dove, per far fronte alle contribuzioni forzose imposte dai francesi, tra il maggio ed il luglio del 1798, furono soppresse trecentotrenta corporazioni religiose, tutte le abbazie e tutte le confraternite. La globalitàdelle opere d’arte presenti negli immobili degli enti religiosi soppressi divennero di competenza del Demanio statale, che era incaricato di depositarle in musei, o di alienarle tramite aste pubbliche. In questo quadro, interessante è il ruolo svolto dall’Accademia Clementina che, già nel periodo della Repubblica cispadana, censì le opere presenti nei conventi soppressi che erano destinate alle aste e ne selezionò una parte, escludendola dalla vendita. Analogo ruolo, poi, fu successivamente svolto dall’Agenzia dipartimentale dei beni nazionali, che prescrisse ai vari agenti nei dipartimenti di stilare elenchi dei beni artistici presenti nei conventi soppressi o da sopprimere, per evitare il rischio di vendite illegittime.

Altro caso rappresentativo è quello della Repubblica Romana, dove, in base al proclama dell’11 maggio 1798, trentuno edifici conventuali vennero soppressi ed una parte dei loro beni mobili venne venduta all’incanto a profitto del tesoro pubblico. Gli oggetti d’arte che invece vennero ritenuti “preziosi” da un’apposita commissione d’esperti sarebbero stati trasferiti in un pubblico museo (le raccolte capitoline o, forse, quelle vaticane).

Successivamente Napoleone, con decreto imperiale del 25 aprile 1810,stabilì la soppressione di tutti gli stabilimenti, corporazioni, congregazioni, comunità ed associazioni ecclesiastiche di qualunque natura e denominazione. Si tratta del testo di legge fondamentale, applicato in tutto il Regno d’Italia, a cui si ispireranno le successive normative emanate dagli Stati preunitari.

Gli effetti sul patrimonio artistico della legge soppressiva napoleonica sono di non immediataquantificazione. Non è semplice determinare il numero delle sedi di corporazioni religiose che in pochi anni furono soppresse, vuotate degli arredi liturgici, vendute o distrutte. E’ indubbio, comunque, che l’intero patrimonio artistico ha subito una riduzione di smisurate proporzioni.

In questo contesto va ricordato, ad esempio, che dopo pochi anni dall’occupazione napoleonica – coerentemente con il progetto francese relativo alla riforma delle Accademie di Belle Arti che dovevano essere dotate di spazi per l’esposizione di opere d’arte con finalità didattiche – si assiste alla formazione della Pinacoteca di Bologna, della Galleria dell’Accademia di Venezia, e della Pinacoteca di Brera, tre grandi musei progettati per accogliere i dipinti provenienti dai conventi soppressi dei Dipartimenti. Gli studi recenti hanno messo in luce come le operazioni di prelievo di migliaia di dipinti sul territorio, siano state condotte, con differenze da valutare caso per caso, senza competenza, e che molte delle opere destinate ad essere accentrate nei musei, furono invece in parte lasciate in deposito alle municipalità, in attesa di essere distribuite sul territorio (sull’esempio francese iniziato nel 1790), in parte furono vendute ed in parte furono disperse, in quanto non considerate adeguate al disegno culturale affidato alle nuove pinacoteche.

Interessante, in particolare, è il caso della Pinacoteca milanese di Brera, per l’arricchimento delle cui collezioni, a partire dal 1802, Eugenio di Beauharnais si affidò alla consulenza artistica di Andrea Appiani, il quale procedette ad una vera e propria incetta di opere d’arte, prevalentemente provenienti dai conventi soppressi. Appiani stilò delle liste delle opere presenti nei territori che progressivamente venivano annessi al Regno Italico (per la maggior parte dipinti appartenenti alla scuola bolognese, romagnola e marchigiana), e fu seguito in questa opera, negli anni successivi, dal restauratore modenese Aurelio Boccolari e dal pittore bolognese Giuseppe Santi. Questi ultimi misero in atto una vera e propria organizzazione di prelievo ed asportazione, finalizzata all’inaugurazione della pinacoteca braidense che si sarebbe svolta il 15 agosto 1809, in occasione del compleanno di Napoleone. Le opere prelevate venivano selezionate in base a tre categorie. Alla prima appartenevano i dipinti che per qualità artistica sarebbero confluiti nella galleria milanese, alla seconda le opere da poter assegnare, tramite scambio, ad altre pinacoteche del Regno (Bologna, Venezia). Alla terza categoria appartenevano i dipinti da assegnarsi alla vendita o al deposito nelle chiese minori lombarde.

Con la fine dell’epoca napoleonica immediata si presentò la questione della restituzione delle opere trasferite a Milano per effetto delle soppressioni. Già nel 1816 molte delle richieste vennero accolte. Altre rivendicazioni, invece, rimasero lettera morta come, ad esempio, quelle per la celebre Pala di San Bernardino di Piero delle Francesca che Appiani aveva sottratto al suo ambiente originario, sul colle urbinate, per collocarla nella pinacoteca milanese di Brera.

Altro caso rappresentativo è quello di Roma dove, ad esempio, le direttive del 7 e del 28 maggio 1810, decretarono la soppressione delle corporazioni religiose e l’incameramento di centoquarantacinque conventi. I rispettivi beni furono venduti portando nuova liquidità alle casse dello Stato e gli edifici ex conventuali furono convertiti in caserme, scuole, ospedali, risolvendo in tempi rapidi l’istallazione sul territorio dei servizi di pubblica utilità. I problemi di ordine conservativo del ricchissimo e secolare patrimonio di arredi sacri, suppellettili e opere d’arte presente nei conventi destinati al riuso furono affrontati con provvedimenti, se non risolutivi, senz’altro consapevoli della straordinarietà del patrimonio interessato. Ad esempio vennero nominati quaranta commissari di nomina prefettizia, molti dei quali giudici di pace, coadiuvati dai superiori dei conventi, che procedettero all’incameramento dei beni compilando dettagliati inventari che, nella gran parte dei casi, si rivelarono utili a vincolare i beni artistici ed evitarne la dispersione. Il 25 febbraio 1811, peraltro, veniva decretata la formazione a Roma di un Tesoro della Corona, che avrebbe comportato il trasporto di capolavori presenti negli edifici di culto soppressi, sia romani che del dipartimento, nei Musei Vaticani e Capitolini. Il progetto, che rispondeva ad una volontà accentratrice delle opere d’arte, caratteristica dell’epoca napoleonica, prevedeva a Roma, come d’altra era già accaduto per altre grandi città, la riorganizzazione dell’Accademia di Belle Arti (Accademia di San Luca), accanto alla quale la Pinacoteca Capitolina avrebbe assolto il ruolo di luogo di raccolta e di selezione di exempla figurativi da offrire ai giovani artisti in formazione. In particolare, il suo conservatore, Agostino Tofanelli, al fine di incrementare le collezioni della Pinacoteca, selezionò cinquantuno dipinti delle corporazioni religiose umbre soppresse, raccolti a Perugia, che dovevano essere portati nella seconda Città dell’Impero, cioè Roma, dichiarata tale nel 1809. Il progetto, che vide l’aspra opposizione del maire di Perugia, fu portato a termine nel gennaio del 1814 con il trasporto a Roma di un gran numero di dipinti che, per la maggior parte, furono restituiti, non con poche difficoltà, qualche anno dopo.

Fonti e Bibl. essenziale

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