Associazione Italiana dei Professori di Storia della Chiesa

Dizionario Storico Tematico La Chiesa in Italia
Dalle origini all'Unità Nazionale
Roma 2015
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Spiritualità - vol. I


Autore: Guglielmo Cazzulani

I primi secoli: vescovi, martiri e vergini. L’approdo del cristianesimo sulle rive della penisola fu pressoché istantaneo. Le principali città dell’Impero romano vantano il costituirsi di una comunità cristiana già in età apostolica. Roma non è la prima, ma è la più importante meta dei viaggi missionari descritti dagli Atti degli apostoli. Quando Paolo giunge nella città eterna, la narrazione si può arrestare. In quella casa presa a pigione, aperta a tutti, dove l’apostolo predica con franchezza e senza impedimento, c’è il primo seme cristiano gettato nel cuore dell’Impero (At 28, 30-31).

Per lungo tempo l’Occidente non resterà, nelle vicende della Chiesa, che una remota terra di missione. Il cristianesimo degli inizi è tutto sbilanciato verso est. La Siria, l’Egitto, l’Anatolia, la prefettura romana di Giudea sono le centrali umane, teologiche, catechistiche e monastiche della nuova religione. Se il poeta latino Giovenale poteva fustigare la Roma “ingrecata”, lamentandosi di come l’Oronte rovesciasse le sue acque nel Tevere, la stessa cosa si può ripetere per il nuovo mondo ecclesiale. Roma, da un punto di vista missionario, è figlia d’Antiochia e di Gerusalemme.

Sulle rive del Tevere si registrerà, però, uno dei più fruttuosi tentativi di sintesi della nuova fede. Perché, nella culla di Roma, il cristianesimo incontrerà il vero genio del civis romanus: il diritto. Il connubio non deve essere letto in termini puramente negativi, come se si trattasse di una profanazione. La Chiesa, incontrando il diritto, assume gli ampi orizzonti del mondo, la capacità di mediazione, il desiderio di rendere razionale la sua struttura. Non è un caso che, dei quattro dottori della Chiesa latina, il più occidentale di tutti sarà Ambrogio, buon funzionario romano, uomo intriso di cultura giuridica, battezzato poco prima di assurgere alla dignità episcopale, maestro, più d’ogni altro, nell’arte del governo.

Ma cerchiamo di fare sintesi sui primi passi della Chiesa nella penisola italica. L’avventura spirituale degli esordi cristiani è segnata soprattutto dalla esuberanza di tre figure, che qui andiamo a descrivere: il vescovo, il martire e l’asceta. Anzitutto il vescovo. In Occidente è lui a calcare la scena. Il vescovo è il responsabile della comunità cristiana, l’architrave della sua concordia, l’uomo depositario del carisma. Sbaglieremmo se attribuissimo a lui un ruolo solo burocratico, funzionale al buon andamento della macchina ecclesiale. Nei primi secoli della storia cristiana il vescovo è, per dirla con Hans Urs von Balthasar, una “personalità totale”. Non si è ancora aperta quella faglia tra contenuto di fede e devozione che sarà invece caratteristica della Chiesa del secondo millennio. Il vescovo predica il contenuto di fede, recepito dagli apostoli, e quello stesso contenuto è motivo della sua preghiera. In lui sono depositate, come in un’unica stratificazione, intelligenza, santità di vita, prudenza. In avvenire non sarà sempre così.

È in questo contesto che si collocano le vite dei primi papi e dei grandi vescovi dell’alba cristiana. L’Italia pullula di nomi ingombranti. Solo per citarne alcuni: Eusebio di Vercelli, Massimo di Torino, Cromazio d’Aquileia, Ambrogio da Milano, Zeno di Verona. Le chiese venerano tuttora questi uomini avvolgendoli d’un alone di leggenda, e ponendoli a pietra angolare delle cattedrali che, di secolo in secolo, punteggeranno il suolo della penisola. I loro scritti lasciano intuire di quale stoffa fosse tessuta la loro santità. Al centro di tutto sta l’amore per Gesù Cristo, nucleo incandescente della vita cristiana. Questo legame col Nazareno è spesso vissuto come schermo all’arianesimo, eresia cui l’Occidente risulterà sempre un po’ incline. La predicazione morale non è argomento a sé stante: l’accrescimento delle virtù trae linfa dalla piena ortodossia.

A livello pastorale, i vescovi combattono l’ignoranza e la superstizione. Desiderano che il processo di conversione delle loro città non sia epidermico, ma interiore. Guardano con un po’ di angustia alle campagne, ai villaggi dove dimorano ancora numerosi i pagani. Organizzano una missione a corto raggio in loro favore, perché Cristo possa essere conosciuto da tutti. Quando i barbari, superato il limes settentrionale, calano verso sud, guardano a questi avvenimenti con tristezza, ma non precipitano nella disperazione. Confidano che anche in questi eventi ostili vi possa essere racchiuso qualche aspetto misterioso del grande disegno di Dio. Sarà questa speranza, insieme alla buona tenuta dell’organizzazione ecclesiale, a far sì che i nuovi popoli venuti dalle terre di là dal Reno e dal Danubio intraprendano il cammino che li condurrà al fonte battesimale.

La seconda figura ecclesiale dei primi secoli è quella del martire. In pochi decenni la parola greca “martyria”, che inizialmente vuol dire semplicemente “testimonianza”, conosce un’evoluzione semantica radicale, fino a diventare il termine tecnico per designare coloro che spargono il loro sangue per amore del vangelo. La diffusione del cristianesimo è trapuntata da eventi drammatici. Dell’esperienza del martirio Roma diventerà presto il grande epicentro. Paolo e Pietro abbracciano nella città eterna la morte. A Roma viene ucciso Ignazio di Antiochia: le sue lettere rimarranno nella memoria della Chiesa. La trafila dei martiri dei primi secoli è interminabile: Clemente, Giustino, Apollonio, Prudenziana, Prassede, Lorenzo, solo per citarne alcuni.

L’elemento interessante di queste vicende dei martiri è che esse, nel volgere di pochi anni, usciranno dai libri di storia per entrare trionfalmente in quelli di spiritualità. Sulla possibilità del martirio i cristiani costruiranno impegnativi itinerari di formazione. Intuendo che, all’orizzonte ultimo del proprio cammino, vi può essere la totale identificazione con la vicenda di Cristo, tutta la vita del cristiano ne esce fortificata. Si predica che l’esistenza è un combattimento, da portare avanti sino alla fine, senza cedimenti. Tertulliano identificherà la figura del martire con quella di Cristo. Ignazio di Antiochia supplica i suoi fedeli perché non lo trattengano, ed egli possa offrire se stesso come olocausto. Nei racconti di martirio si crea quella sottile sovrapposizione di trame, per cui il supplizio del Maestro diventa il canovaccio letterario per descrivere la morte del discepolo. Poche altre opere incontrarono fortuna, nella Chiesa antica, quanto gli atti dei martiri. Per il momento si tratta di libercoli, ma non faticheranno a mutarsi in costruzioni letterarie ridondanti e pompose. Dalle utopie della comunità cristiana antica sgorgano copioni che solo parzialmente hanno a che fare con la storia. Il ricordo di un martire si fonde con elementi immaginifici e soprattutto con le credenze della nuova comunità religiosa. Appartengono al genere delle storie “poietiche”, che tengono un occhio sul passato, ma che soprattutto guardano al futuro, offrendo ai fedeli della giovane religione nuovi calchi di comportamento a cui ispirare la propria vita.

La terza figura spirituale degli inizi è l’asceta. Molto prima della grande espansione monastica dei secoli V e VI, l’Occidente vede sorgere, per gemmazione spontanea, diversi cenobi, soprattutto femminili. Già nel II secolo le cronache attestano l’esistenza in Roma di circoli di vergini consacrate, che vivono un intenso legame spirituale con Gesù Cristo, e adottano uno stile di vita austero. Il loro numero doveva essere ragguardevole. Centinaia, forse migliaia.

Solo a partire dal IV secolo questi gruppi di vergini consacrate entrano in più diretto contatto con le intuizioni del monachesimo egiziano, e ne subiscono l’influenza. Ma per lungo tempo sono una realtà sostanzialmente autonoma. Le corrispondenze di San Girolamo ci restituiscono uno spaccato di questo mondo. Roma concepisce una generazione di matrone, spesso provenienti da famiglie aristocratiche, che desiderano porre se stesse al servizio di Dio. La loro giornata è scandita dalla preghiera e dallo studio. Vivono sobriamente e aprono le loro case ai bisogni di tutti. Qualcosa di simile avviene, più o meno negli stessi anni, anche a Verona dove si costituiscono cenacoli di vergini. Ma si può citare anche l’esempio di Eusebio da Vercelli che riunì il clero della sua diocesi in piccoli focolari. Questi gruppi di cristiani ferventi saranno un faro per le loro chiese locali: si trasformeranno in centri d’irraggiamento spirituale. Chi entra in contatto con essi, ne esce fortificato. Queste forme, nella storia dell’osservanza religiosa, sono anche un esempio originale ed interessante: manifestano la possibilità di una consacrazione senza clausura, che porta ad un’immersione nel mondo e ad una condivisione della fatica di tutti gli uomini. Prime cellule attive nell’assistenza dei poveri, spesso diventeranno il supporto umano e spirituale della struttura pastorale della Chiesa.

Ma sono esperienze di vita breve. Un nuovo mondo bussa alla porta. Di lì a poco il collasso dell’Impero romano metterà in crisi la struttura sociale che si era da lungo tempo sedimentata. E soprattutto dall’Oriente sta per arrivare una forza propulsiva del tutto nuova, animata da un dinamismo sconvolgente, che in breve farà terra bruciata, da un punto di vista spirituale, di tutte le forme religiose che gli si avvicinano. Si tratta del monachesimo.

L’alto medioevo: l’affermazione del monachesimo. Il medioevo nasce dal difficoltoso connubio di due mondi che si erano a lungo combattuti: i latini, da una parte, creatori di quello sbalorditivo strumento amministrativo che fu l’Impero romano, e le popolazioni germaniche dall’altro, che da secoli stanziavano oltre i corsi dei grandi fiumi centroeuropei: il Reno, l’Elba, il Danubio. A partire dal V secolo, non senza preavvisi, qualcosa ruppe irrimediabilmente l’equilibrio tra questi due mondi ostili. È l’epoca delle invasioni barbariche, dapprima semplici incursioni di confine, poi migrazioni d’intere popolazioni, che calarono fin nel cuore dell’Impero, provocandone il crollo.

L’incontro si rivelò presto essere uno scontro. Solo raramente i nuovi popoli invasori mirarono a un’assimilazione delle istituzioni e delle forme culturali presenti sul suolo italico. Il più delle volte agirono per annientamento. Normalmente gli storici dipingono a tinte fosche quest’epoca. Per l’Occidente è un tempo di vuoto istituzionale, di calo demografico, le città si spengono. La stessa Roma finisce con l’essere ridotta a un grumo di case.

In questa situazione di crisi la Chiesa si trovò, suo malgrado, a essere l’unica erede della sapienza antica. Salvò il salvabile di quel mondo che fino a pochi decenni prima le procurava sofferenze, e abbracciò l’affascinante sfida rappresentata dai nuovi popoli entrati sullo scacchiere occidentale. Era destino che i due universi lontani dovessero pazientemente avvicinarsi, parlarsi, fino a concepire una nuova forma di integrazione. Sotto le ceneri dell’Impero romano, calda come la brace, covava l’idea d’Europa.

Il grande anello di congiunzione tra i due mondi, capace di produrre una nuova civilizzazione dell’Italia e di tutto il continente, sarà un’istituzione che affonda le sue radici a Oriente e che troverà un’entusiastica accoglienza nelle terre dell’ovest: il monachesimo. La sua rilevanza è talmente evidente che qualche commentatore parla di “monasticizzazione” della Chiesa medievale. Intendiamoci: non mancano in quest’epoca figure di vescovi capaci di illuminare con il loro carisma la vita spirituale della Chiesa. Ma si ha l’impressione che il loro contributo sia solo un affluente secondario rispetto a quella che è la grande corrente del primo millennio: il monastero. Il grosso delle acque, anche da un punto di vista spirituale, passa tutto di lì.

La mappatura del fenomeno monastico non è semplice, anche perché, nonostante le apparenze, esso non è per nulla monolitico. Dietro la parola “monachesimo” si celano infatti intuizioni ed esperienze diverse. È, poi, un fenomeno mutevole. L’istituzione monastica ha dimostrato, lungo i secoli, una vitalità eccezionale: ha mutato forme, ha operato continue correzioni di rotta, ha integrato nuove intuizioni. Data per morta, è continuamente risorta dalle sue ceneri, riformulando la radicalità degli inizi in contesti del tutto nuovi. Di questa vicenda citiamo solo gli episodi più significativi.

Il primo nome da citare è Giovanni Cassiano. Uomo vagabondo, nato in Dacia, compie, nel corso della sua esistenza, un buon periplo del Mediterraneo, tramandando alla fine, nelle terre di Provenza, il fuoco monastico che aveva conosciuto nelle regioni d’Oriente. Le sue opere traducono per i latini le intuizioni e le imprese dei padri del deserto. Rappresenteranno la base ideologica di cui l’ascetismo nostrano avvertiva prepotente il bisogno. I monasteri italiani cominciano così a rimasticare di psicologia, di introspezione, di discernimento degli spiriti. Questo patrimonio si accrescerà, anche se non di molto, sotto la penna nei monaci latini. Si ha infatti l’impressione che il monachesimo occidentale, in queste dottrine così impegnative, non riesca a spingersi molto oltre quel limite cui erano giunti i monaci d’Oriente. Vi aggiungerà le poche cose di cui era veramente esperto: un po’ di moderazione, e un acuto senso pratico.

L’unico virgulto pienamente occidentale del nuovo cammino ascetico avvizzì, ahimè, poco dopo il suo nascere. Episodio storico breve, ma denso di contenuti, val la pena essere richiamato. Il suo ispiratore fu un uomo capace di rappresentare da solo un’intera generazione: Flavio Magno Aurelio Cassiodoro. Fu lui a fondare, nell’odierna Calabria, il celebre Vivarium. Distante dalla scena del mondo, estraneo alla politica, Vivarium sarà una delle istituzioni che meglio immagineranno la fisionomia del nuovo mondo. Cassiodoro raccoglie attorno a sé un gruppo di monaci provenienti da paesi diversi, con loro prega, attingendo parole dal Salterio. Si adopera perché non vada disperso l’immenso patrimonio della cultura classica. Il suo monastero è votato a un lavoro di natura soprattutto intellettuale. Si trascrivono manoscritti antichi, religiosi o pagani che siano. È sorretto dalla convinzione che nessun fremito d’intelligenza, per quanto profano, sia lontano dalla fede. Animo riconciliatore, come buona parte del monachesimo occidentale, Cassiodoro crede che la fede in Gesù non annienti nulla, ma inveri ogni autentica ricerca dell’uomo.

Tralasciando le esperienze basiliane del sud Italia, veniamo al grande protagonista del monachesimo medievale: Benedetto da Norcia. Le tappe salienti della sua vita sono descritte nei Dialoghi di Gregorio Magno. Vissuto a cavallo tra il V e VI secolo, ha regalato alla Chiesa uno strumento di formidabile importanza: la Regola. Come risaputo, tale strumento non è del tutto nuovo. Nei primi secoli monastici molti si erano cimentati nell’impresa di offrire un trattato giuridico e spirituale che facesse da riferimento. Molti di questi testi erano più che apprezzabili. Benedetto legge e sperimenta gli strumenti fino ad allora in uso, e partendo dalla sua vicenda personale cerca di fare sintesi. Ne uscirà un testo breve, sobrio, improntato a moderazione, che diventerà fondamentale per il futuro del monachesimo.

La Regola di Benedetto brilla per alcune semplici scelte. Il monastero viene presentato come una scuola dove si apprende il servizio di Dio. La vita spirituale del cristiano è scandita dalle due fonti insostituibili della fede: la liturgia e la Parola. C’è un primato dell’oggettività cristiana che si manifesta fin dall’incipit della Regola: “Ascolta, figlio mio!”. Nutrito da questi alimenti, il monaco intraprende il suo cammino di ricerca e di adesione a Dio. Tutto è pervaso da un forte afflato spirituale, e Cristo è la ragione ultima di ogni ascesi. Il monastero diventa così luogo di crescita interiore e di solidarietà. All’abate è affidato il compito di vigilare sulla vita comunitaria, di rincuorare i pusillanimi, di correggere gli indisciplinati, di accostare tutti con tenerezza. Nella vita spirituale rientra anche la pratica del lavoro. Se la preghiera del monaco è fervente, il lavoro quotidiano non lo avvilirà. Benedetto raccomanda di affaticarsi sotto la potente mano di Dio, e non per una forma di compensazione interiore. L’ora et labora insegnerà alla civiltà occidentale a mettere un freno all’inquietudine, a cercare un equilibrio interiore che possa far da base a ogni impresa. La diffusione della Regola non è immediata, ma sarà comunque totale. Riuscirà a scalzare, per esempio, la regola dei monaci irlandesi che erano allignati a Bobbio, sulle montagne del piacentino, sostituendola in toto. Eppure si trattava di una delle più importanti normative dei primi secoli, un testo d’avanguardia che aveva sorretto la ri-evangelizzazione dell’Occidente.

L’epoca carolingia, in quest’opera d’unificazione normativa della legislazione monastica, sarà la più propizia. Anche se sopravvivono altri ordini religiosi, distinti da quello benedettino, la Regola diventa il riferimento insostituibile della tradizione monastica occidentale. È come se s’imponesse un unico pentagramma, su cui poi ritmare qualsiasi nuova melodia. E di nuove melodie, dalla fantasia degli uomini e dello Spirito, ne sgorgheranno presto copiose. Esse, però, non metteranno più in discussione la Regola, che sembra ormai intoccabile nella sua autorevolezza, ma cercheranno di applicarla in modulazioni differenti, a seconda dei diversi contesti sociali in cui il fenomeno monastico si trova a sbocciare.

La nazione che, in quest’ottica, manifesterà la più grande vitalità è senza dubbio la Gallia. Da lì prorompono i due grandi movimenti che caratterizzeranno l’Occidente posteriore: Cluny e Cîteaux. Le loro novità si spanderanno in Italia contribuendo a quella rinascita collettiva che si può riscontrare già a partire dal secolo XI. Cluny, con la sua difesa della libertà ecclesiale, sarà la grande ispiratrice della riforma gregoriana. Il movimento cistercense, con la sua attenzione alla persona, con la sua insistenza sul dovere lavorativo, con il suo nucleo mistico sempre palpitante, diventerà la forza capace di ri-colonizzare, sia da un punto di vista spirituale che economico, l’Europa.

In Italia i centri protagonisti di quest’epopea sono numerosi: Novalesa, San Pietro in Civate, Fonte Avellana, Vallombrosa, Montevergine, Camaldoli, Serra san Bruno. Ma più che per le abbazie madri il rinnovamento religioso passa per quel pulviscolo di piccoli monasteri e di eremitaggi che copre per intero il territorio della penisola. Il monachesimo medievale ebbe una capillarità assimilabile a quella delle pievi. Le abbazie divengono così centri spirituali, economici e politici. Questa rilevanza sociale qualche volta produsse i suoi grattacapi e le sue crisi. Nati per inseguire l’ideale del deserto, i monasteri si trovarono spesso a dover fare i conti con quel vecchio mondo che li tallonava da vicino, e che qualche volta li marcava un po’ troppo stretti. Le riforme monastiche, frequentissime per tutto il corso del medioevo, nascono dall’esigenza di spogliarsi di troppi involucri, ormai ritenuti paralizzanti, e di riconquistare la grazia e l’agilità degli inizi.

Sulla spiritualità altomedievale, fuori dalla saga dei monasteri, poco resta da dire. La cura spirituale nei confronti dei laici e del clero è minima. Permane l’idea che all’esterno del recinto monastico vi sia solo una umbra christianitatis. Probabilmente è anche vero. La gente semplice è divorata più dalla fregola del meraviglioso che dalla fede autentica. In tutto l’altomedioevo non s’incontrano laici devoti che reggano il paragone con i monaci. Bernardo di Chiaravalle, Pier Damiani sono scrittori assoluti, querce che non lasciano trapassare luce né respiro agli sparuti alberelli che crescono ai loro piedi. Tutti ne sono consapevoli, e perfino i vescovi, quando vogliono mettere mano alla decadenza umana e spirituale delle loro genti, non fanno altro che tentarne, in forme più o meno velate, una monasticizzazione.

Ma c’è nostalgia d’altro, di un tempo migliore. Gioachino da Fiore, monaco dell’Italia meridionale, intuisce che il vecchio mondo sta ormai scricchiolando. Lo dirà in termini che rasentano l’eresia, e che qualche problema incontreranno con l’autorità ecclesiastica. Dal suo eremo, Gioachino sogna l’avvento non di una nuova obbedienza religiosa, più cristallina delle precedenti, l’utopia di un mondo totalmente retto dagli spirituali. Le sue previsioni non si avverarono, ma qualcosa di nuovo effettivamente di lì a poco vedrà la luce.

La rinascita del secolo undicesimo. Dopo secoli di crisi, il basso medioevo vede una fiorentissima rinascita urbana. La superficie dell’Europa si ricopre di nuovi insediamenti umani. Tra le mura dei costituendi agglomerati la gente s’incontra, s’aggrega, discute, s’imbarca nella costruzione di ambiziosi edifici religiosi come le cattedrali. Nasce anche una nuova classe sociale, la borghesia, ben distinta dal clero e dagli aristocratici, abile e intraprendente, capace di accumulare in poco tempo enormi ricchezze. Di questo rinnovamento l’Italia sarà l’avanguardia.

In questo contesto s’impone una nuova domanda spirituale. Se fino ad ora l’ideale di perfezione era appannaggio esclusivo di monaci, si registra ora una fioritura della radicalità evangelica che parte soprattutto dal basso, dal mondo dei laici. I segnali di risveglio sono più di uno. La gente comincia ad utilizzare nuovi strumenti di preghiera, diversi da quelli canonici. Sono le laudi, forme di orazione che rifiutano il linguaggio clericale per adottare il vernacolo. Ormai si sta frantumando in identità nazionali, anche da un punto di vista spirituale, un mondo che fino ad allora aveva percorso un sentiero comune. Ci sono poi le confraternite, aggregazioni laicali che testimoniano un modo di vivere la fede profondamente comunitario. Presto vi sarà il primo esempio di santità che nasce a margine del chiostro e dell’episcopio: si tratta di sant’Omobono, di professione mercante, patrono della città di Cremona.

Questo risveglio evangelico, spesso vissuto in opposizione al ruolo del clero, prenderà un doppio binario, a seconda dell’esito che vorrà perseguire. Da una parte abbiamo la corrente contestataria, che sognerà l’edificazione di una Chiesa graniticamente pura. In questo filone possono essere annoverati diversi fenomeni, più o meno legati allo stesso progetto: la pataria, Arnaldo da Brescia, il catarismo… Il filo conduttore di questi movimenti è la lotta alla mondanità della curia, la predicazione popolaresca, lo spiritualismo, il rifiuto d’ogni seduzione secolare. Si tratta di una schiera di uomini integri, fautori di una Chiesa “popolo di eletti”, che però correrà sempre il rischio di distruggere le mediazioni della fede, in primis l’apparato sacramentale. Dall’altra parte avremo un cammino di riforma più prudente, meno illuministico, che si sposa con i passi lenti della Chiesa, che non coltiva forme di messianismo tanto pericolose quanto illusorie. Sarà la strada intrapresa soprattutto dal francescanesimo.

Rampollo di una famiglia borghese, figlio dell’Italia dei comuni, Francesco d’Assisi è il genio spirituale che interpreta un’epoca. Al centro della sua spiritualità si asside “madonna Povertà”. Già i cistercensi seguivano poveri il Cristo povero, ma si ha l’impressione che sulle labbra di Francesco il programma assuma una coloritura prima sconosciuta. Nel nuovo contesto sociale, il pauperismo va di pari passo con il rifiuto di un mondo di avidi, consacrati all’altare del guadagno. Scegliere di perdere, anziché di lucrare, è la nuova forma della carità. Preghiera intensa, affezione spirituale, cristocentrismo, gioia e semplicità saranno i cardini del movimento francescano. Il genio del Poverello travalicherà il contesto religioso per lasciarci le prime composizioni in lingua italiana. Su tutte, campeggia il Cantico delle creature, preghiera sgorgata da un fervore profondo, che, da sola, terrà testa al pessimismo dei catari, capaci di leggere solo in modo negativo il mistero della creazione.

Nasce così una forma monastica totalmente nuova. La stessa ubicazione dei conventi francescani apparirà singolare. Fuori dalla città, ma non troppo: il tempo sufficiente per raggiungerla con un breve tratto di cammino, e predicare in essa. La fuga mundi arretra di parecchi chilometri e bada a non recidere il legame con la società. Come argutamente ha osservato qualche studioso, dopo un monachesimo impegnato ad edificare un mondo parallelo, e dopo un’orda di focosi predicatori tesi a raddrizzare le storture della società, c’è finalmente una vita religiosa che ama il mondo. Qualche nome di frate particolarmente indicativo per i destini della penisola? Antonio da Padova, Bonaventura da Bagnoregio, Ubertino da Casale, Giacomo della Marca, Jacopone da Todi, Bernardino da Siena. Interessante sarebbe seguire anche la linea della mistica francescana, soprattutto femminile: qui svettano le figure di Angela da Foligno e di Margherita da Cortona. Anche Chiara di Montefalco, benché appartenente all’ordine agostiniano, può essere inclusa nella discendenza spirituale del Poverello.

A lato del grande fiume francescano si devono annoverare diversi fenomeni interessanti. L’inquietudine del nuovo mondo trova il patronato di vivaci direttori spirituali ed è all’origine di diverse istituzioni. Ci sono fenomeni fugaci, movimenti incapaci di darsi un profilo istituzionale, come i flagellanti e i disciplinati. Ma ci sono anche nuove famiglie religiose, con una fisionomia riconosciuta, come gli Umiliati e l’Ordine dei servi di Maria.

Un discorso a parte va fatto per i domenicani. Nati oltralpe, molto attivi nella lotta all’eresia catara, trovarono in Italia un terreno fertile di crescita, e alcune figure capaci d’illuminare con la loro personalità l’intera Chiesa. Citiamo Jacopo da Varagine, autore della Legenda aurea, lo scritto agiografico più diffuso per tutto il medioevo; Caterina da Siena, che coniuga la sua esperienza mistica con una partecipazione politica alle vicende del tempo; Girolamo Savonarola, guida dei piagnoni di Firenze; Tommaso d’Aquino, autore di quella sintesi monumentale di pensiero che è la Summa. A tal proposito, non si deve tacere un’importante novità di quest’epoca. Nel 1088 viene creata l’università di Bologna. A questa fondazione ne seguiranno rapidamente diverse altre. In breve, l’intero territorio europeo verrà punteggiato da centri intellettuali. Grande protagonista di quest’epoca pioneristica sarà la teologia scolastica. Nelle accademie s’impone un modo di ragionare e di pensare rigoroso, asciutto, anaffettivo. Nel bene e nel male, la scelta sarà gravida d’importanti conseguenze. Il chiostro e l’episcopio erano stati, fino ad ora, il grande utero d’ogni riflessione su Dio. La patristica e la teologia monastica avevano consegnato alla Chiesa delle opere capaci di integrare strettamente la speculazione teologica con l’afflato spirituale e la preoccupazione pastorale. Negli emicicli delle università, questo non avverrà più. La solidità di una costruzione scolastica si accompagnerà con la spoliazione delle sue pareti e con il poco spazio accordato all’emotività. Per gli spirituali sarà uno shock. Nelle quaestiones disputate dai dottori, troveranno sempre più difficilmente acqua per estinguere la loro sete. Per il momento non s’incrina quell’unità tra soggetto e oggetto di ricerca che è la base di ogni buona teologia. Ma le premesse sono poste. Di lì a poco si aprirà quella tensione tra teologia e mistica che caratterizza la Chiesa dei secoli successivi, fino a quando – ma la storia è recente – qualche autore contemporaneo cercherà di porvi rimedio.

Umanesimo devoto. Dalla seconda metà del secolo XIV, cominciando da Firenze, e poi in tutta la penisola, s’impone un movimento di vita e di pensiero che desidera pervenire a una nuova sintesi. L’Italia è la terra natale del Rinascimento. In cosa consista questo movimento, e che finalità abbia, è difficile sintetizzarlo in poche battute. Normalmente lo si identifica con una nuova attenzione per l’uomo. Alla comunità si sostituisce il singolo; alla trascendenza, l’immanenza; all’escatologia, la storia. È un tempo in cui si riscopre, al di là della scolastica e della patristica, l’eredità greca e latina. Si torna ai classici: s’intravvede in essi una sapienza profonda, che chiede di essere integrata in un’ottica evangelica. Sbaglieremmo se interpretassimo questo fenomeno come una sorta di secolarizzazione ante litteram. L’umanesimo paganeggiante è, tutto sommato, una corrente minoritaria del grande Rinascimento italiano: laicismo radicale e ateismo sono fenomeni significativi solo a partire dal XVIII secolo. Ciò che si chiede, in quest’alba dell’epoca moderna, è di approdare a un nuovo schema, più vitale, diverso da quello elaborato dalla scolastica decadente.

Il fenomeno ebbe i suoi riflessi nella spiritualità. Francesco Petrarca, Coluccio Salutati, Leon Battista Alberti, Lorenzo Valla, Maffeo Vegio, Vittorino da Feltre non furono uomini di settore, interessati solo alle lettere, o all’architettura, o alla filologia. Rappresentarono per l’Italia ciò che Erasmo da Rotterdam fu per l’intera Europa: dei geni completi. È in quest’epoca che si sogna l’avvento di una litterata devotio. Questi uomini di fede – qualche volta travagliata, ma il più delle volte serena – ascendono dalla sapienza antica per trasfigurare tutta la loro erudizione nell’universo evangelico. La filosofia morale dei greci e dei romani diventa la base su cui costruire il cristiano. Il vir bonus è la grande premessa per veder sbocciare il fidelis. Il progetto era già stato accarezzato dai grandi della scolastica, e verrà riproposto ancora infinite volte nel secolare travaglio del pensiero cristiano, ma qui, nel mondo degli umanisti, più che un’elucubrazione speculativa sembra essere un progetto pastorale, una vera missione. L’educazione dei giovani e l’impegno sociale diventano così doveri religiosi.

Forse la loro fu una spiritualità più d’elite che di massa. La religiosità del popolo e del popolino aveva attraversato il medioevo senza subire grossi scossoni. Benché la storia recente avesse registrato il grande ingresso dei laici nel mondo delle passioni ecclesiali, il modo di pregare del volgo rimaneva, tutto sommato, immutato, da secoli a questa parte. Tra superstizione e religione il confine è labile. La fede è più viscerale che razionale; il numinoso avvolge l’essenza di ogni realtà; l’uomo avverte un profondo bisogno di stupore. Spesso non illuminate da una teologia equilibrata, tutte le pratiche di pietà dell’uomo medievale (pellegrinaggi, culto delle reliquie, devozione eucaristica) risentono dell’interferenza di un sottofondo distorto.

Nei loro progetti di riforma gli umanisti devoti rimasero così isolati: una punta troppo avanzata rispetto al grosso della truppa; ma erano destinati ad aprire la breccia. Non si capirebbe il Barocco, la chiesa della Riforma e della Controriforma, senza questo trasalimento innovatore.

La spiritualità della riforma cattolica. La riforma cattolica nasce molto prima del Concilio di Trento. Già sul finire del Quattrocento, attecchiscono sul suolo della penisola istituzioni profetiche, desiderose di provvedere a una riforma della vita ecclesiale. Queste istituzioni si moltiplicheranno di anno in anno, per autogenesi, e incontreranno nei decreti del Concilio un’entusiastica approvazione. Dall’assise tridentina uscirà una Chiesa dal volto rinnovato, zelante nel progetto di evangelizzazione delle masse, impegnata nell’apostolato e nella missione.

Vescovi e preti saranno i grandi protagonisti di questa conversione. A pensarci, è una novità. Leggendo globalmente la storia della Chiesa, si ha infatti l’impressione che, dopo la grazia dei primi secoli, la strada maestra della spiritualità sia stata percorsa soprattutto da monaci e laici. Nella letteratura del basso medioevo non è difficile imbattersi in rampogne, spesso sarcastiche, indirizzate a vescovi e preti secolari. I primi troppo occupati da beghe terrene per assurgere a fari di vita spirituale; i secondi talmente impreparati al loro ministero da venir esclusi – nella Summa di san Tommaso – dal novero degli “stati di perfezione”. Una situazione drammatica e contraddittoria che venne affrontata con ritardo. A partire dal XV secolo qualcosa comunque cambiò: nasce la “Chiesa tridentina”.

Nell’arco di pochi decenni Roma diventa il covo di una vasta famiglia di chierici regolari. Si tratta di preti che, con l’aiuto di un’istituzione riconosciuta, si sottopongono a una rigida regola di vita spirituale. Teatini, barnabiti, somaschi, camilliani, oratoriani, scolopi… per finire con i grandi protagonisti della Chiesa tridentina: i gesuiti. Le loro innovazioni disciplinari e spirituali diventeranno presto patrimonio di tutta la Chiesa. Nell’arco di qualche decennio esse si propagheranno soprattutto al gigante addormentato dell’organismo ecclesiale: il clero diocesano.

Tenere un registro delle novità introdotte dai chierici regolari è impervio, vista la loro eterogeneità. Alcune caratteristiche comuni balzano però agli occhi. Si tratta di sacerdoti desiderosi di fede profonda; essa viene alimentata specialmente attraverso l’orazione mentale. Se è vero che la devotio moderna non riverbera in Italia gli stessi influssi che ebbe nel nord Europa, qualcosa della sua sensibilità s’irradia comunque anche al di qua delle Alpi. La preghiera si trasforma in meditazione, ahimè allentando di un poco il suo radicamento biblico. Al contrario, è tenacemente custodito il legame con l’eucaristia, che diventa la grande architrave su cui poggiare tutta la spiritualità cattolica. Le chiese barocche innalzano nel loro centro tabernacoli sublimi, come mai la cristianità ne ebbe avuti. In questi decenni nasce e si afferma la pratica delle quarantore.

Si completa un percorso che s’era inaugurato con l’affermazione degli ordini mendicati: l’unione con Dio, più che essere il fine ultimo della vita cristiana, ne è il grande motore. Dal cuore che trabocca d’amore, nasce lo zelo per le anime. I libri di ascetica propagandano l’abnegazione quale virtù cristiana. Gli esiti di questo sommovimento spirituale diventeranno presto visibilissimi: premura per gli ammalati, fondazione di scuole, difesa dei poveri, protezione degli orfani, formazione del laicato, sostegno del clero. La santità si misura sulla scala di un apostolato generoso. Qualche nome degli artefici di quest’audace impresa? Filippo Neri, Gerolamo Emiliani, Luigi Gonzaga, Roberto Bellarmino, Antonia Maria Zaccaria, Camillo de Lellis, Giuseppe Calasanzio. Alcuni di questi giganti non sono di culla italiana, ma in Italia, e soprattutto a Roma, lasciano un segno indelebile del loro passaggio. Il Cinquecento ha regalato allo Stivale un’inattesa primavera di santi.

Il Tridentino, come detto, trasmetterà le intuizioni di questi pionieri al clero secolare. Il protagonista di quest’operazione sarà Carlo Borromeo. È lui a plasmare la fisionomia del sacerdote dei secoli successivi e a imporla in larghi strati della penisola. La pagina del buon pastore diventa la linea guida della riforma ecclesiale. Dalla fucina dei seminari fuoriescono preti ansiosi, che si sentono sempre in difetto con se stessi, e soprattutto con il grande ideale che hanno accarezzato negli anni di formazione. Il buon parroco trema al pensiero della dannazione eterna. Sente il dovere di trascinare ogni anima a lui affidata alla salvezza. Predica, fonda scuole di dottrina cristiana, corregge i costumi deformi, sprona tutti a inginocchiarsi nel confessionale per chiedere perdono dei propri peccati. L’accompagnamento spirituale è curato meticolosamente. Tutti vengono edotti nella pratica del combattimento degli spiriti: l’autorità, in questo campo, è il sacerdote teatino Lorenzo Scupoli. C’è poi la grande frontiera della carità e dell’apostolato: poche altre istituzioni, come le parrocchie, si sono dimostrate nei secoli più pronte nel venire incontro ai bisogni dei poveri. Forse mancherà in Italia una scuola di spiritualità sacerdotale paragonabile a quella del Seicento francese. I riformatori cismontani hanno un’indole più pragmatica, meno avvezza a speculazioni. Nella formazione delle coscienze e nella pratica della pietà cristiana non faranno altro che appoggiarsi ai libri pii dell’età moderna, in primis agli Esercizi di Ignazio di Loyola.

In quest’opera di rinnovamento spirituale i laici non rimasero esclusi. Anzi, si può leggere in diversi capitoli della storia moderna un certo loro protagonismo. È il caso della mistica Caterina da Genova e di Ettore Vernazza, fondatori e animatori dell’Oratorio del Divino Amore. Nelle loro vicende si può leggere una costante del secolo sedicesimo: l’esperienza mistica non vive racchiusa in una torre d’avorio, ma si sposa con l’impegno apostolico, spesso spinto fino al suo limite estremo. Lo stesso schema si replicherà, con le dovute proporzioni, in quel grande universo delle confraternite che, come il pulviscolo, occuperà tutti gli interstizi del mondo ecclesiale. La partecipazione dei laici alla vita della Chiesa è mediata da queste associazioni di fedeli, dove i partecipanti si obbligano ad alcune pratiche di pietà e all’assunzione di un servizio ecclesiale.

Intanto la devozione dei cristiani prosegue lungo un sentiero ormai famigliare, con qualche piccola novità. La via crucis, il rosario, la devozione al Sacro Cuore, le già citate quarantore appartengono al panorama spirituale di tutte le parrocchie. Altre devozioni sono rilanciate: pellegrinaggi, culto dei martiri, di san Giuseppe, degli angeli. Spesso le comunità cristiane intraprendono un cammino collettivo di conversione attraverso le missioni al popolo. Leonardo da Porto Maurizio ne sarà, di lì a poco, il grande apostolo. S’impongono, poi, grazie alla recente invenzione della stampa, libretti pratici di devozione. Essi aiuteranno i fedeli più devoti a sostenere la meditazione. Una pietà intima e fervida riempie di bisbigli la penombra delle chiese, qualche volta rischiando di recidere il suo collegamento con la Parola e la liturgia. Di lì a qualche decennio, qualcuno lo lamenterà.

Poco si è detto di alcune figure interessanti dell’epoca tridentina, della fondazione dei cappuccini e dell’opera del monaco Ludovico Barbo, dell’esperienza mistica di Caterina de’ Ricci e di Maddalena de’ Pazzi, ma il quadro è ormai completo. Il Cinquecento ha donato alla Chiesa una cornice spirituale e pastorale solida, che resisterà a lungo, e che non verrà cambiata nella sua sostanza se non con il concilio Vaticano II.

Tra quietismo e giansenismo. Ne è prova un fatto. Il Seicento e il Settecento regaleranno all’Italia una schiera di ottimi scrittori e predicatori, ma ormai privi di originalità. Lorenzo da Brindisi, Tommaso da Olera, Carlo da Sezze, Paolo Segneri, Gregorio Barbarigo, Giovan Battista Scaramelli si muovono in un campo dai confini ben tracciati. Pochi si avventurano fuori di esso. Tra i pochi che tentano la sortita, citiamo il solo nome di un eruditissimo sacerdote modenese: Ludovico Antonio Muratori. Ma il suo è un caso isolato. Solo radi fenomeni riusciranno a turbare la tranquillità della Chiesa nei due secoli che conducono all’incendio della rivoluzione francese. Uno di questi sarà un’eresia tipicamente spirituale: il quietismo.

Nato dalla predicazione di Miguel de Molinos, prete aragonese trapiantato a Roma, il quietismo incontrerà un terreno fertile soprattutto nei paesi di lingua latina. Forse perché bisognosi di una vita spirituale meno contorta, più attenta alla dimensione contemplativa che a quella ascetica, molti ne resteranno affascinati. In Italia circoli di simpatia quietista sono segnalati a Milano, in Valcamonica, in Piemonte, nelle Marche, in Umbria, in Sicilia. Nella schiera dei sostenitori segnaliamo figure di spicco, il paladino è il cardinal Pier Matteo Petrucci. Non entriamo nella questione storica della condanna del quietismo. Ciò che interessa è qui rilevare le conseguenze della censura imposta dall’autorità ecclesiastica su quest’ambiguo fenomeno. Lo scacco a questa corrente di pensiero allungò un’ombra sinistra sulle manifestazioni mistiche, soprattutto se spagnoleggianti. Comincia quello che H. Bremond e L. Cognet definirono come il crépuscule des mystiques. Dell’entusiasmo di questi uomini non ci si fida più. Nei decenni successivi la storia ne registrerà ancora qualche voce (per l’Italia citiamo almeno i nomi di Veronica Giuliani e di Paolo della Croce), ma, generalmente, essi sono guardati con sospetto. Il lato più festivo della vita cristiana è così represso. Si dovrà attendere la fine dell’Ottocento perché la mistica torni a essere liberata da lacci e sospetti. Se il quietismo verrà estirpato in tempi brevi, non altrettanto si può ripetere per un movimento che vide la luce nel Seicento e che perdurò per almeno due secoli: il giansenismo. Benché condannato dall’autorità ecclesiastica, esso rivelò una vitalità sorprendente. L’Europa si popola di crocifissi inquietanti, con le braccia strette e tese verso l’alto, quasi a rappresentare una visione tragica di Dio e dell’uomo. La centrale teologica del nuovo movimento è da collocarsi in Francia e nei Paesi Bassi. In Italia esso avrà una diffusione capillare. Più che una setta fu una tendenza, spesso accolta dagli uomini migliori. Il simpatizzante giansenista brama un ritorno della Chiesa alla purezza evangelica, abbraccia una morale austera, sorretta da una pietà intima. Aborrisce il formalismo. In Italia desiderò una riforma globale della Chiesa, una riforma destinata a transitare più dalla pastorale e dalla spiritualità che dal dogma. Gli editti del sinodo di Pistoia, in questo, sono eloquenti.

A far da contraltare a questa tendenza si trovarono in Italia anzitutto i gesuiti e poi un mite vescovo del sud Italia: Alfonso Maria de’ Liguori. Soprattutto quest’ultimo preparò il mondo spirituale italiano a entrare nell’Ottocento. Al rigore e al pessimismo del pensiero giansenista Alfonso non contrappose il lassismo, ma una pietà semplice e luminosa, non angosciata, capace di spandere attorno a sé un’imperturbabile serenità. All’incirca metà della sua sterminata produzione letteraria riguarda tematiche di spiritualità. Saranno libri letti per almeno due secoli. La preghiera è collocata al centro dell’esperienza cristiana: attraverso di essa il cristiano ama Dio. Se l’uomo, a causa della sua natura creaturale, è un mendicante, non per questo deve disperare: Dio gli dona tutto ciò che chiede con umiltà. Alfonso insegna ad avere una cordialità quasi ingenua con i misteri della fede. Componendo il “Tu scendi dalle stelle” riscatta la pietà affettuosa e creativa delle anime semplici.

Fonti e Bibl. essenziale

AA.VV., Storia dei santi e della santità cristiana, I-XI, Grolier, Milano 1991; AA.VV., «Italie», DSp, VII, 2141-2311; AA.VV., Storia della spiritualità, I-VII, Borla, Roma 1985-2002; AA.VV., Storia della spiritualità, I-X, EDB, Bologna 1970-; G. De Luca, «Introduzione», Archivio Italiano per la Storia della Pietà, 1 (1951) XIII-LXXVI; G. Dumeige, «Storia della spiritualità», NDS, 1543-1571; P. Crespi – G.F. Poli, Lineamenti di storia della spiritualità e della vita cristiana, I-III, Edizioni Dehoniane, Roma 1998-2000; G. Filoramo (ed.), Storia della direzione spirituale, I-III, Morcelliana, Brescia 2006-2010; M. Petrocchi, Storia della spiritualità italiana, SEI, Torino 1996; P.L. Guiducci, Mihi vivere Christus est. Storia della spiritualità cristiana orientale e occidentale in età moderna e contemporanea, LAS, Roma 2011; G. Pozzi, Grammatica e retorica dei santi, Vita e Pensiero, Milano 1997; P. Zovatto (ed.), Storia della spiritualità italiana, Edizioni di storia e letteratura, Roma 2002.


LEMMARIO




Stati preunitari - vol. I


Autore: Massimo Mancini

Giurisdizionalismo dello Stato assoluto. L’assolutismo statale che caratterizza l’età moderna assume nei paesi cattolici i connotati di un potere monarchico sacrale, derivato direttamente da Dio (“re per grazia di Dio”), senza la mediazione della Chiesa e del papato. Diversi diritti in materia ecclesiastica che i sovrani medievali già esercitavano al fine della doverosa attuazione del Regno di Dio, nell’epoca moderna vengono considerati come poteri propri di ciascun sovrano, spettanti a chi è legittimato a governare il popolo in nome di Dio. Secondo questa visione, si riduce sempre più il potere della Chiesa sulla vita religiosa all’interno dello Stato, rivendicando come appartenente al potere temporale un sempre maggior numero di prerogative, prima invece riconosciute a chi deteneva il potere spirituale.

Anche sotto l’influenza di quanto avvenuto nei paesi passati al protestantesimo, i sovrani cattolici tendono a rivendicare per sé diritti sempre più ampi in materia ecclesiastica. Tra il XVI e il XVIII secolo si sviluppa ovunque un sistema politico-ecclesiastico che, con nomi differenti nei differenti paesi, afferma che la Chiesa, pur essendo una istituzione universale, in ciascuno Stato deve essere soggetta alla superiore autorità statale, la quale esercita sulla Chiesa determinati diritti, detti iura circa sacra.

Dal punto di vista politico ogni sovrano assoluto si ritiene indipendente da qualsiasi altro potere, mentre nei riguardi della religione il monarca si attribuisce il diritto e il dovere di tutelare la Chiesa; ma tale protezione tende spesso a trasformarla in instrumentum regni. I vescovi, in molti casi scelti proprio dal sovrano, di solito favoriscono l’intervento statale, anche perché ciò li aiuta a distanziarsi dal controllo del papa. Ma anche dove non vi un è un monarca assoluto, come nelle antiche Repubbliche italiane, nel rapporto con la Chiesa lo Stato cerca di orientarsi nello stesso modo.

Tale sistema viene diversamente denominato nei diversi paesi: gallicanesimo (in senso politico) in Francia e regalismo in Spagna e in Portogallo, là dove il forte potere monarchico, pur dichiarandosi devoto alla religione cattolica, in realtà ha il pieno controllo sulla vita ecclesiastica; giuseppinismo nell’Austria governata nel Settecento da Giuseppe II e negli altri paesi sotto la casa degli Asburgo-Lorena; febronianesimo in Germania, nome derivato da Febronio (pseudonimo del vescovo Nikolaus von Hontheim), autore del libro De statu ecclesiae (1763) in cui egli sostiene forti limiti al primato pontificio; giurisdizionalismo in vari Stati dell’Italia.

Durante il secolo XVIII, la S. Sede riscontra sempre più l’inefficacia dei tradizionali mezzi d’intervento verso gli stati: esortazioni, minacce e scomuniche non servono a cambiare l’indirizzo della politica statale verso la Chiesa. I numerosi concordati sottoscritti in quel secolo sono ormai il segno del diminuito prestigio del papato, perché essi concedono agli stati facoltà e spazi sempre più ampi a scapito dell’autorità ecclesiastica.

I diritti, mai riconosciuti dai pontefici, che lo Stato giurisdizionalista rivendica in campo ecclesiastico nell’Antico Regime, si possono riassumere come segue.

Per la difesa della Chiesa: ius advocatitiae o protectionis, con cui lo Stato protegge la Chiesa da eresie e scismi e quindi esclude i non cattolici dagli incarichi civili; ius reformandi, cioè diritto di imporre riforme per evitare abusi da parte della Chiesa, di ammettere o rifiutare nuove società religiose e di concedere o meno il culto privato o pubblico ai non cattolici.

Per difendere lo Stato dalle iniziative ecclesiastiche, lo ius cavendi si attua attraverso alcuni speciali istituti giuridici: placet ed exequatur, cioè l’assenso preventivo statale alla pubblicazione rispettivamente di atti pontifici o di autorità locali; e appellatio ab abusu, con cui clero e laici possono fare ricorso all’autorità statale contro gli atti ecclesiastici, che sono perciò annullabili dallo Stato. Vi sono inoltre altre prerogative con cui lo Stato si difende dall’azione della Chiesa: ius supremae inspectionis, cioè di limitare i rapporti tra gli enti ecclesiastici e la Sede romana, di controllare sinodi e missioni, di sopprimere gli enti considerati inutili, di controllare l’emissione delle professioni religiose e l’insegnamento in seminari e scuole ecclesiastiche, nonché l’acquisto e l’amministrazione dei beni della Chiesa; ius nominandi, cioè di presentare o nominare direttamente il candidato all’episcopato; ius exclusivae, diritto di veto o rifiuto del candidato sgradito; ius circa temporalia officia, che consente di sequestrare le rendite di uffici occupati da persone non gradite o incapaci; ius dominii eminentis, limitante il diritto di proprietà ecclesiastica, in modo da imporre imposte, distribuire diversamente le proprietà tra vari enti e appropriarsi dei frutti economici quando la sede è vacante; ius patronatus, diritto di nomina dei superiori di abbazie e conventi.

Stati italiani dell’Antico Regime. Stati Sabaudi. La dinastia dei Savoia fin dal Medio Evo è stata quasi sempre vicina all’autorità pontificia, ricevendo da essa numerosi privilegi e attribuendo spesso ad ecclesiastici importanti uffici nei propri Stati. Il più rilevante atto pontificio verso casa Savoia è l’indulto di Nicolò V del 1451: in cambio della rinuncia dell’antipapa Felice V (il duca Amedeo VIII), il papa concede che nei territori sabaudi si possa accedere alle più elevate cariche ecclesiastiche soltanto se ciò corrisponde alla volontà e al consenso espresso del duca di Savoia; nei secoli seguenti, l’interpretazione di quest’indulto sarà causa di forti tensioni tra Torino e Roma. Nel Cinquecento la dominazione francese sulle terre dei Savoia vi introduce gli usi gallicani, fra cui l’appel comme d’abus, cioè la possibilità di ricorrere ai tribunali statali contro provvedimenti ecclesiastici: Emanuele Filiberto, rientrato in possesso del suo territorio, conferma questo diritto a favore dello Stato. Gli usi gallicani rimarranno vivi in Valle d’Aosta fino al secolo XX.

Mentre si afferma l’uso del placet e dell’exequatur, nel Seicento la Chiesa cerca di contestare l’indulto di Niccolò V, accettandolo al massimo per la sola Savoia, ma senza ottenere cambiamenti significativi. Il re Vittorio Amedeo II conserva la legislazione spagnola per la Sardegna e cerca di estendere le prerogative statali in Piemonte. Soltanto a partire dal 1727 si riesce a trovare un accordo tra il papato e i Savoia: mentre altrove si afferma un giurisdizionalismo sempre più invasivo, da quell’anno fino all’invasione francese Stati Sabaudi e Chiesa instaurano fra loro un lungo rapporto di pacifica collaborazione (compreso l’arresto di Pietro Giannone), firmando in meno di settant’anni ben diciassette concordati. In Sardegna, già soggetta alla legislazione spagnola, i sovrani, in accordo con il papa, cercano di impedire l’abuso del regime di immunità dalla giurisdizione statale; Carlo Emanuele III vieta l’esecuzione degli ordini dell’Inquisizione spagnola e l’erezione di nuove case di religiosi e impone l’exequatur; ma tali misure vengono comunque attuate debolmente, evitando contrasti con Roma.

Repubblica di Genova. Fra gli Stati italiani, la Repubblica genovese è probabilmente quello che ha più facilmente gestito le relazioni con la Chiesa romana. Negli ultimi tre secoli della sua storia, lo Stato di Genova, che nel 1637 dichiara sua regina la Vergine Maria, generalmente senza difficoltà accoglie le iniziative dei pontefici e accetta al suo interno l’azione di vescovi e inquisitori. Nel Settecento Genova ottiene da Benedetto XIV la possibilità di tassare i beni del clero e di propria iniziativa proibisce la vendita e la locazione di immobili ad enti ecclesiastici, se non con il permesso degli organi statali. Unica occasione di conflitto, l’invio nel 1760, senza alcuna consultazione, di un visitatore apostolico da Roma nella Corsica genovese, già in piena ribellione: dura reazione del governo di Genova con conseguente arresto del prelato giunto in Corsica e lunga situazione di tensione tra la Repubblica e la Chiesa.

Milano. Dopo le tumultuose vicende dell’inizio del Cinquecento, con il passaggio dagli Sforza alla Francia e infine alla Spagna, Milano e il suo Ducato vedono instaurarsi un attento controllo statale sulla vita ecclesiastica, secondo l’orientamento generalmente attuato nei domini spagnoli. Carlo V decide nel 1540 di sottoporre a gravame i beni acquistati dal clero e vieta la vendita di immobili agli enti ecclesiastici. Con s. Carlo Borromeo come arcivescovo metropolita inizia un periodo in cui si applica efficacemente la riforma tridentina ma anche cominciano i contrasti con i governatori spagnoli: le autorità civili vedono infatti minacciata la giurisdizione statale dalle misure con cui il vescovo attua il suo programma di totale disciplinamento della società. Nel 1569 il governatore Albuquerque emana un editto per tutelare la giurisdizione dello Stato: seguono le scomuniche dei governatori che in poco tempo si succedono fino all’intervento di Filippo II re di Spagna, che infine accetta le richieste di s. Carlo. Con l’arcivescovo Federico Borromeo le tensioni continuano fino alla stipulazione di una “concordia giurisdizionale” nel 1615: è così possibile far convenire i laici presso il tribunale ecclesiastico, facendo eseguire le sentenze non solo dal braccio secolare ma anche dalle guardie dell’autorità episcopale.

Nel Settecento, terminato il dominio spagnolo, anche nella Lombardia austriaca si applica la riforma realizzata nell’Impero da Maria Teresa e da Giuseppe II. Un concordato con la S. Sede per il Ducato di Milano viene stipulato nel 1757. Alcune nuove norme speciali per Milano riguardano ancora il divieto di vendita di beni immobili a enti ecclesiastici, la cui dispensa viene ora riservata al sovrano, la censura dei libri ora sottratta all’Inquisizione romana, un più ampio uso dello strumento dell’exequatur. Decreti di Giuseppe II, confermati dal concordato del 1784, allargano la necessità del placet e soprattutto attribuiscono all’imperatore la nomina dei vescovi delle diocesi lombarde.

Valtellina sotto i Grigioni. Un’esperienza storica unica in Italia è quella della Valtellina e della Valchiavenna, dal 1512 sono sotto il dominio dei Grigioni, cioè della Repubblica delle Tre Leghe; tale dominio continua fino al 1797, quando i territori passano alla nuova Repubblica Cisalpina. Il governo dei Grigioni, la cui popolazione già nel Cinquecento è a maggioranza protestante, attua una forma di tolleranza religiosa che tuttavia non riesce ad evitare forti conflitti. La cattolica Valtellina è da molti secoli territorio della diocesi di Como, legata al patriarcato di Aquileia; ma i vescovi non possono svolgervi la visita pastorale fino al 1615, escluse tre eccezioni. Nel 1557 l’editto di Ilanz concede chiese cattoliche al culto protestante.

Dopo la tortura e l’uccisione dell’arciprete cattolico Nicolò Rusca, nel 1620 scoppia una ribellione guidata da nobili cattolici, sotto l’impulso della Spagna: i valtellinesi uccidono 400 protestanti nel cosiddetto “Sacro macello”. Dopo quasi vent’anni di guerra, pestilenze, uccisioni di streghe e l’intervento del papa, della Spagna e della Francia, nel 1639 il capitolato di Milano restituisce Valtellina e Valchiavenna ai Grigioni, ma vi ammette soltanto la confessione cattolica e vi proibisce la residenza stabile dei protestanti.

Repubblica di Venezia. La Repubblica Veneta attua costantemente per diversi secoli una politica di controllo della Chiesa e di limitazione della sua influenza; a questo scopo si costituisce il collegio dei Consultori in iure, teologi e canonisti di cui il governo richiede la consulenza. Il diritto ecclesiastico veneto risulta quindi particolarmente stabile e privo di grandi modificazioni nel corso dei secoli, fino alla caduta della Repubblica nel 1797. Per motivi di commercio, Venezia tollera la presenza di appartenti ad altre confessioni religiose, riconoscendo loro una limitata libertà di culto.

Quanto alle persone ecclesiastiche, già nel secolo XV esse sono escluse da qualsiasi incarico pubblico; mentre con una serie di leggi si vieta di ricevere dignità e benefici ecclesiastici ai familiari del doge, ai membri del governo veneziano, agli ambasciatori e ai loro rispettivi congiunti. La Serenissima Repubblica non concede alcun favore ai diversi pontefici di origine veneziana; anzi, dopo alcuni problemi con Gregorio XII, nel 1411 stabilisce che i “papalisti”, cioè i parenti dei membri della curia pontificia, siano espulsi dalle sedute degli organi costituzionali, allorché essi trattano materie ecclesiastiche e deliberano su di esse. Il divieto viene confermato ed esteso con altre leggi successive; inoltre i papalisti possono partecipare ai vari consigli solo in numero limitato e vengono esclusi per legge da alcuni incarichi pubblici, come dal 1574 quello di Savio all’Eresia.

Lo Stato veneto non riconosce in linea di principio privilegi di giurisdizione agli ecclesiastici, concedendo solo che ai processi contro di essi debba assistere il vicario del patriarca di Venezia. Il tribunale dell’Inquisizione può agire solo contro i cattolici e con il permesso dell’autorità statale, la quale controlla ogni seduta e vigila contro gli abusi per mezzo di tre magistrati statali: tre senatori detti Savi all’Eresia. Altre norme stabiliscono criteri severi per limitare l’attribuzione a vario titolo di proprietà di immobili agli enti ecclesiastici e per impedire la questua per indulgenze, se non con autorizzazione del governo. Un magistrato dello Stato, il Revisore dei Brevi, è addetto al controllo degli atti pontifici, che sono considerati inefficaci senza il placet governativo. Per diverse sedi vescovili, il governo si considera detentore del diritto di nomina del vescovo o almeno di proporre una terna di nomi.

Un periodo di speciale tensione fra Stato veneto e Chiesa è quello legato alla questione dell’interdetto: nel 1606 due sacerdoti, colpevoli di delitti comuni, secondo la legge veneta vengono arrestati e sottoposti al giudizio del tribunale statale. Il papa Paolo V chiede l’abolizione della norma che prevede tale disciplina, insieme al divieto di costruire chiese senza il permesso del governo. La Repubblica, guidata dal doge Leonardo Donà e influenzata dalle idee di Paolo Sarpi, frate servita e consultore in iure, rifiuta la richiesta pontificia: il papa risponde con la scomunica, l’interdetto e l’annullamento di propria autorità delle leggi contestate. I religiosi che, in obbedienza al pontefice, si rifiutano di celebrare e amministrare i sacramenti, vengono espulsi dallo Stato; ciò vale soprattutto per i Gesuiti, che potranno tornare solo dopo cinquant’anni, a seguito degli accordi con cui il papa favorirà Venezia nella guerra di Candia contro i Turchi. La controversia dell’interdetto si risolve nel 1607 soltanto grazie alla mediazione del re di Francia, senza che la Repubblica abbia rinunciato a far valere le proprie ragioni.

Altri motivi di tensione si hanno nel Settecento. Nel 1751, in seguito alle pressioni di Maria Teresa d’Austria, Benedetto XIV sopprime il patriarcato di Aquileia e attribuisce i suoi territori austriaci alla nuova arcidiocesi di Gorizia: ne deriva una difficile vertenza con ritorsioni tra Venezia e Roma, terminata solo nel 1758 con l’elezione del papa veneziano Clemente XIII.

Nel 1766 si istituisce la Deputazione ad pias causas, organo statale che interviene nell’organizzazione ecclesiastica, in particolare negli Ordini religiosi: forti limitazioni all’ingresso di nuovi candidati, soppressione dei conventi con meno di dodici religiosi o privi di rendite sufficienti per mantenerli, obbedienza solo a superiori che non risiedano fuori dello Stato. Questa politica provoca una rapida diminuzione del clero regolare, quasi dimezzato già nel 1790.

Ducati di Parma e di Modena. Nel Ducato di Parma e Piacenza il tradizionale favore verso l’autorità ecclesiastica che caratterizzava la dinastia dei Farnese si trasforma in politica giurisdizionalista sotto il governo dei Borboni. Guillaume du Tillot, dal 1759 primo ministro del duca Filippo di Borbone, realizza un piano di limitazione dei privilegi e dei diritti della Chiesa: fra l’altro, impedisce le ingerenze dei vescovi e la fondazione di nuovi conventi, e sottopone i provvedimenti ecclesiastici all’exequatur. Dopo la censura romana, il ministro espelle i Gesuiti e sopprime l’Inquisizione; ma tale politica termina nel 1771 con la deposizione di Guillaume du Tillot da parte dei duchi Ferdinando e Maria Amalia.

Anche nel Ducato di Modena e Reggio il duca Francesco III d’Este interviene energicamente in campo ecclesiastico: nel 1757 egli istituisce un Magistrato per difendere la giurisdizione statale; poi, suscitando le vane proteste di Roma, negli anni seguenti limita l’attribuzione di beni agli ecclesiastici che sottopone anche a tassazione, sopprime conventi e riduce notevolmente il potere del S. Uffizio. Il successore Ercole III regola nel dettaglio le celebrazioni liturgiche e ne disciplina il fasto.

Repubblica di Lucca. Ufficialmente legata alla tradizione cattolica, Lucca si mantiene tuttavia piuttosto indipendente rispetto alle direttive della S. Sede. Nel Cinquecento, quando si diffondono a Lucca le idee della Riforma protestante, lo Stato lucchese, anche se non le favorisce, respinge tuttavia le richieste di intervento che giungono da Roma. Il governo non accetta mai di introdurre l’Inquisizione romana nel proprio Stato e continua ad affidare la repressione dell’eresia al vescovo locale e dal 1545 ad una magistratura statale appositamente istituita, l’Offizio sopra la Religione, mentre diversi cittadini scelgono l’esilio per aderire liberamente al protestantesimo fuori d’Italia. Per impedire intromissioni della Sede romana si crea nel 1562 l’Offizio sopra la Giurisdizione, con competenze sempre più ampie fino al Settecento. Nel 1605 gravi tensioni tra il governo e il vescovo Guidiccioni portano Paolo V a chiedere ancora l’introduzione del S. Uffizio, ma senza significativi risultati. È caratteristico anche il costante rifiuto di Lucca ad accettare la presenza della Compagnia di Gesù.

Toscana. Già nel Quattrocento Firenze aveva realizzato una legislazione molto favorevole alle richieste della Chiesa: orientamento confermato dalla dinastia dei Medici, che vede alcuni suoi membri al vertice della Chiesa, anzitutto il papa Leone X. Per trattare gli affari ecclesiastici, i Medici stabiliscono un apposito ufficio, detto Segreteria del Regio diritto. Se il granduca Cosimo I riesce ad esercitare una certa influenza, arrivando fino alla parziale tassazione del clero, i suoi successori sono più deboli e lasciano spazio all’intervento ecclesiastico, compresa l’istituzione della nunziatura apostolica di Firenze con un’ampia giurisdizione concorrente con quella statale. Il clero possiede gran parte delle proprietà immobiliari nel Granducato.

Con il passaggio della Toscana agli Asburgo-Lorena nel 1737, cambia la politica ecclesiastica. Tra il 1765 e il 1790 il granduca Pietro Leopoldo, come il fratello Giuseppe II nell’Impero, attua una serie di misure che mirano non solo ad affermare i diritti dello Stato, ma anche a riformare la Chiesa. Abolisce il tribunale della nunziatura e quello dell’Inquisizione, il diritto di asilo, il privilegio del foro e l’immunità per i beni ecclesastici; impone exequatur e placet e limita radicalmente la c.d. manomorta. Collaborando con Scipione de‘ Ricci, vescovo di Pistoia, Pietro Leopoldo porta al culmine il giurisdizionalismo cercando di sottrarre la vita della Chiesa al controllo dell’autorità pontificia, considerata straniera. Sono colpiti soprattutto gli Ordini religiosi, con soppressioni di conventi e con la sottomissione delle comunità residue alla giurisdizione del vescovo locale, facilmente controllato dallo Stato. Il culto viene regolato in modo rigoroso, secondo la tendenza giansenista. La Chiesa viene subordinata allo Stato.

L’evento più importante della politica leopoldina è il sinodo diocesano di Pistoia del 1786, presieduto dal Ricci e animato dal canonista Pietro Tamburini: secondo la volontà del granduca e in conformità alle idee gianseniste-febroniane, come anche a quelle del richerismo che esalta il ruolo dei parroci, tale assemblea dovrebbe preparare un’assemblea nazionale dei vescovi toscani; il progetto cade per la reazione negativa dei vescovi e poi per la partenza del granduca, divenuto imperatore e trasferitosi a Vienna. Pio VI condanna 85 proposizioni estratte dal sinodo pistoiese con la bolla Auctorem fidei del 1794: è la fine del giansenismo politico e disciplinare.

Napoli e Sicilia. All’antica dominazione dei Normanni risalgono due fatti che hanno conseguenze fino all’Ottocento. Il primo è l’investitura pontificia dei re di Sicilia e Napoli, i quali, come vassalli, debbono perciò pagare ogni anno un tributo al papa. A tale somma gli Angiò hanno poi aggiunto l’omaggio di un cavallo bianco, detto “chinea”. In età moderna, diversi sovrani cercano con difficoltà di liberarsi di questi obblighi, ritenuti ingiusti e umilianti: solo con Ferdinando II delle Due Sicilie, la S. Sede rinuncia al tributo e alla chinea (già in disuso) in cambio di un’offerta di denaro.

Il secondo fatto è il conferimento della Legazia Apostolica ai sovrani di Sicilia. Il re ha il titolo di legato del pontefice nel proprio Stato, quindi può impedire l’invio da Roma di qualsiasi altro legato: è giudice ecclesiastico in ultima istanza, può assolvere dalle censure e rilasciare dispense matrimoniali, e impedisce qualsiasi appello a Roma da parte dei sudditi. Questa prerogativa prende il nome di Monarchia Sicula e i sovrani esercitano le loro numerose facoltà in campo ecclesiastico mediante il magistrato detto Giudice della Monarchia. I pontefici tentano più volte di revocare la Legazia provocando la resistenza dei sovrani: solo nel 1871, dopo la caduta del Regno delle Due Sicilie, si ha la definitiva rinuncia di Vittorio Emanuele II re d’Italia.

Durante il dominio spagnolo, lo Stato applica in Italia meridionale exequatur e placet, come pure accetta i ricorsi in materia ecclesiastica; tuttavia esercita debolmente tali diritti. Nel Settecento Vittorio Amedeo II di Savoia in Sicilia e gli Austriaci a Napoli si oppongono per anni alle pretese di Roma; ma con i Borboni si arriva presto alla firma del concordato del 1741. Nei decenni seguenti, sotto Carlo III e Ferdinando IV di Borbone, il ministro Bernardo Tanucci, ispirandosi alle idee di Pietro Giannone, conduce una politica giurisdizionalistica simile a quella delle altre monarchie borboniche: abolizione del S. Uffizio, autorizzazione statale richiesta alle associazioni religiose, abolizione del foro ecclesiastico. Espulsi i Gesuiti nel 1767, Clemente XIII reagisce con la scomunica; ma Tanucci fa occupare le città pontificie di Benevento e Pontecorvo, restituite al pontefice solo dopo la soppressione della Compagnia di Gesù.

Periodo napoleonico. Negli ultimi anni del Settecento, la Francia del Direttorio invade quasi tutti gli Stati italiani, sotto la guida di Napoleone Bonaparte; si estinguono antichi Stati e nascono nuove Repubbliche, tutte legate alla Francia: Cispadana e Transpadana (1796), che formano poi la Cisalpina, Ligure (1797), Romana (1798) e Partenopea (1799). La loro politica ecclesiastica non segue sempre il regime di radicale separazione tra Stato e Chiesa, proprio della Francia di quegli anni; anzi alcune di quelle nuove costituzioni dichiarano che il cattolicesimo è la religione della Repubblica, che se ne serve come uno strumento statale. Altre invece sono più fedeli al modello francese: separazione, ma sotto il controllo dello Stato. La successiva Repubblica Italiana, presieduta da Bonaparte, istituisce nel 1802 un nuovo Ministero per il Culto, affidato a Giovanni Bovara, e nel 1803 conclude con Pio VII un concordato che riconosce il cattolicesimo come religione dello Stato, ma attribuisce al governo la nomina dei vescovi, e impone il giuramento di fedeltà del clero. Mentre una notevole parte d’Italia entra nel nuovo Impero francese, il napoleonico Regno d’Italia eredita il concordato, più volte violato a danno della Chiesa: introdotto il codice civile che comprende il divorzio, imposto il catechismo imperiale, soppressi totalmente gli Ordini religiosi nel 1810.

Da Napoleone all’unificazione italiana. La restaurazione, attuata in base alle decisioni del congresso di Vienna, riporta in vigore i rapporti tra Chiesa e Stati secondo lo stile pre-napoleonico. Gli Ordini religiosi riescono con molte difficoltà a ricostituire solo alcune comunità, quasi mai negli spazi occupati prima delle soppressioni napoleoniche. Il Regno Lombardo-Veneto, soggetto all’Austria, continua il giuseppinismo fino al concordato tra Austria e S. Sede del 1855, che invece riconosce ampi diritti alla Chiesa e pone fine alla disciplina iniziata da Giuseppe II. Anche il Granducato di Toscana mantiene la precedente legislazione leopoldina, non toccata neppure dal concordato ottenuto da Leopoldo II nel 1851: esso conserva il controllo statale sui documenti pontifici ma garantisce la libertà delle diocesi; l’anno dopo la scuola assume carattere confessionale.

Il Regno delle Due Sicilie vede Ferdinando I di Borbone ripristinare subito il placet e concludere un concordato nel 1818: con esso la Chiesa rinuncia ai beni già venduti e viene mantenuto il foro ecclesiastico, mentre il re ottiene il diritto di nominare i vescovi, che devono anche giurargli fedeltà. Nelle scuole l’insegnamento deve conformarsi alla dottrina cattolica, mentre lo Stato contribuisce alle necessità economiche della Chiesa.

Il sabaudo Regno di Sardegna in una prima fase favorisce concretamente la S. Sede, che nel concordato del 1817 lascia al re la nomina dei vescovi. Lo statuto di Carlo Alberto del 1848 riconosce il cattolicesimo come sola religione dello Stato, ma garantisce la tolleranza degli altri culti. Gli anni seguenti portano però ad una netta svolta anticlericale, che tende al separatismo fra Chiesa e Stato, spesso in termini di vera ostilità: già nel 1848 si sopprime la Compagnia di Gesù poi, dopo le leggi Siccardi del 1850 che aboliscono il foro ecclesiastico e il diritto d’asilo e limitano gli acquisti degli enti ecclesiastici, viene incarcerato l’arcivescovo Fransoni di Torino e   l’arcivescovo Marongiu Nurra di Cagliari è costretto all’esilio.

Durante il governo di Cavour, la legge Rattazzi del 1855 sopprime nuovamente i conventi e toglie la personalità giuridica agli Ordini religiosi, i cui patrimoni vengono incamerati dallo Stato. In seguito a tali scelte legislative, il papa b. Pio IX interrompe le relazioni diplomatiche. Ma ancora nel 1859, un’altra legge, non votata a causa dei poteri di guerra, attribuisce al Consiglio di Stato il controllo statale sugli atti ecclesiastici e il giudizio sui ricorsi contro di essi.

Fonti e Bibl. essenziale

M. Roberti, La legislazione ecclesiastica nel periodo napoleonico, in AA.VV., Chiesa e Stato. Studi storici e giuridici per il decennale della conciliazione tra la Santa Sede e l’Italia, vol. I, Vita e Pensiero, Milano 1939, 253-332; A.C. Jemolo, Chiesa e Stato in Italia negli ultimi cento anni, Einaudi, Torino 1963; P. Chiocchetta (ed.), Dizionario storico religioso, Studium, Roma 1966; F. Ruffini, Relazioni tra Stato e Chiesa. Lineamenti storici e sistematici, a cura di F. Margiotta Broglio, Il Mulino, Bologna 1974; G. Pilati, Chiesa e Stato nell’epoca moderna: profilo dello sviluppo della teoria attraverso le fonti e la bibliografia, Coletti, Roma 1977; F. Venturi, Settecento riformatore, Einaudi, Torino 1984-1991; G. Gullino, Il giurisdizionalismo dello stato veneziano: gli antichi problemi e la nuova cultura, in B. Bertoli (ed.), La Chiesa di Venezia nel Settecento, Studium Cattolico Veneziano, Venezia 1993, 23-38; G. Martina, Storia della Chiesa da Lutero ai nostri giorni, vol. II-III, Morcelliana, Brescia 1994; C. Marongiu Buonaiuti, Chiese e Stati. Dall’età dell’Illuminismo alla Prima guerra mondiale, Carocci, Roma 1998; M. Rosa, Settecento religioso. Politica della religione e religione del cuore, Marsilio, Venezia 1999; C. Zaghi, Napoleone e l’Italia, La Città del Sole, Napoli 2001; I. Pederzani, Un ministero per il culto. Giovanni Bovara e la riforma della Chiesa in età napoleonica, Franco Angeli, Milano 2002; L. Mezzadri – P. Vismara, La Chiesa tra Rinascimento e Illuminismo, Città Nuova, Roma 2006; G. Greco – M. Rosa, Storia degli antichi stati italiani, Laterza, Bari-Roma 2009; M. Meriggi, Gli Stati italiani prima dell’Unità. Una storia istituzionale, Il Mulino, Bologna 2011; G. Scaramellini, voce Valtellina in: Dizionario storico della Svizzera (DSS), versione del 03/07/2013, URL: http://www.hls-dhs-dss.ch/textes/i/I7135.php.


LEMMARIO




Storiografia (età antica) - vol. I


Autore: Paolo Siniscalco

Il termine ‘storiografia’ esprime due differenti nozioni: da una parte l’elaborazione e la stesura di opere storiche scientificamente e criticamente fondate e dall’altra il complesso delle opere storiche consegnataci da una data epoca. Come è evidente interessa qui attenerci alla seconda nozione con l’intento di mettere in luce il patrimonio degli scritti di carattere storico dell’età patristica senza trascurare il lascito che viene dalla storiografia pagana di quel medesimo tempo.

Può essere utile indicare quale sia la visione della storia da parte del cristianesimo, in modo da meglio comprenderne i caratteri e le varie forme che assume. Con un immagine chiara, il teologo e storico Oscar Cullmann (cf. Cristo e il tempo, 74 ss.) ha osservato che per l’ellenismo l’espressione simbolica del tempo è il circolo, mentre per il cristianesimo, come per il giudaismo, è la linea: un’immagine efficace, che tuttavia non è esauriente, essendo la gamma di posizioni degli storici classici più ricca e variata. Alcuni non concepiscono la storia in termini di cicli, ma fondano il discorso sulla base dell’ordine necessario dell’universo a cui l’uomo è legato, altri sulla base di una visione razionale della realtà, altri ancora, e mi riferisco in special modo agli storici romani, applicano all’esposizione i canoni della retorica, abbellendo la narrazione, con il rischio di non più tenere nel conto dovuto la “verità” proposta dai documenti; donde il timbro moralistico della composizione che diventa opus oratorium maxime, secondo l’espressione di Cicerone.

Diversamente la concezione ebraica e cristiana ha propria base nella Scrittura: essa costituisce una rottura radicale rispetto all’orizzonte delle culture contemporanee e reca in sé tre nozioni (cf. R. Niebuhr, Fede e storia, 129 ss.). La prima consiste nella credenza che il Dio che si rivela nella Bibbia non è fatto a immagine dell’uomo, ma è totalmente ‘Altro’, non è il possesso di alcun popolo né l’estensione di alcun potere terreno. Di qui scaturisce la possibilità di concepire la storia come una e universale. La seconda nozione concerne la convinzione – verificata nei fatti – che la storia è piena dell’orgoglio dell’uomo, il quale tende costantemente a sfidare la sovranità divina; una possibilità che gli deriva dalla libertà di cui gode e che spiega come egli possa essere protagonista nel fare il bene o il male. La terza nozione riguarda quello che è stato definito lo scandalo dell’“unicità”: eventi significativi e determinati, che accadono una sola volta ne segnano il percorso; unicità che si oppone totalmente all’idea dell’eterno ritorno propria delle società arcaiche. Da tutto ciò deriva la dimensione della teologia della storia presente nella storiografia che ci interessa.

Non a torto, Eusebio di Cesarea, con la sua Historia ecclesiastica, scritta all’inizio del IV, secolo è considerato come il padre della nuova storiografia. Non di meno, in proposito, occorre fare qualche precisazione. Egli infatti si fa interprete di una tradizione che risale alle origini stesse del messaggio evangelico. I fatti raccontati da Nuovo Testamento – penso in special modo ai Vangeli e agli Atti degli Apostoli – pur avendo altra finalità e altri caratteri sono significativi: si tratta di narrationes historicae che hanno una fisionomia particolare. Non riguardano episodi locali (non i grandi accadimenti e neppure le ‘vite’ di personaggi famosi), ma narrano episodi pressoché ignoti a tutti fuorché a coloro che vi hanno partecipato. Eppure tali documenti sono redatti con la massima cura dei particolari e la serietà di chi ha consapevolezza che la loro conoscenza e la loro memoria diventerà decisiva per chi li conoscerà.

Il cristianesimo, infatti, è un movimento che si fonda sulla storia, giacché nella storia si rivela e si compie l’opera di Dio. Ogni avvenimento – lo si diceva – ha una importanza unica, a cominciare dall’evento centrale e decisivo che è la venuta di Gesù Cristo, la sua vita, la sua passione, la sua morte, la sua resurrezione. Si comprende dunque ciò che scrive Paolo (cf. 1 Cor 15, 3 ss.): «Vi ho trasmesso prima di tutto quanto anch’io ho ricevuto, che Cristo è morto per i nostri peccati, secondo le Scritture, che fu sepolto e risuscitò il terzo giorno…». E Luca, all’inizio del suo Vangelo (1, 1-4), rivolgendosi a Teofilo scrive :«Poiché molti hanno cercato di raccontare con ordine gli avvenimenti che si sono compiuti in mezzo a noi, come ce li hanno trasmessi coloro che ne furono testimoni oculari, così anche io ho deciso di fare accurate ricerche su ogni circostanza, fin dagli inizi, e di scriverne un resoconto ordinato (…) in modo che tu possa renderti conto della solidità degli insegnamenti che hai ricevuto».

Qualche decennio più tardi, nella prima decade del II secolo, Ignazio vescovo di Antiochia, mentre era condotto a Roma sotto scorta per essere martirizzato, sottolinea, rivolgendosi alla comunità cristiana di Tralli (vd. pure lettere agli Smirnei 1, 1 s. e agli Efesini 7, 2; 18, 2; 20, 2), che Gesù fu realmente perseguitato sotto Ponzio Pilato, fu realmente crocifisso e morì e realmente risuscitò dai morti, egli che è uomo e Dio. Indubbiamente, quelli citati, sono testi che hanno un carattere e uno scopi precisi: nascono dalla fede, sono a servizio della fede delle comunità più antiche.

Ciò che qui si vuole mettere in evidenza è l’intento di rendere certo chi legge che i fatti di cui si parla hanno un fondamento storico preciso. Non stupisce quindi che una delle forme più antiche della storiografia cristiana sia costituita dalla cronografia, la quale registra gli accadimenti storici (o liste di re, di consoli, di imperatori, di vescovi, ecc.) nella loro successione cronologica, in modo estremamente sintetico e essenziale. Alcune “cronache” hanno carattere universale e, basandosi sui dati biblici, tratteggiano la storia dell’umanità fino al tempo in cui sono composte o, ancora, fino alla fine del mondo (per cui, in questo caso cronologia e escatologia costituiscono un tutto unico).

Già nel II-III secolo Teofilo di Antiochia, Sesto Giulio Africano, Ippolito e Clemente di Alessandria offrono composizioni di tale genere. Esse intendono mettere in luce l’antichità del messaggio cristiano (che affonda le proprie radici nella storia ebraica) e insieme la sua novità e, non di rado, correlano i fatti secolari con quelli della Historia salutis. Le “Cronache” più note e diffuse sono nel IV secolo quelle di Eusebio e di Girolamo, che traspone in latino la prima e la aggiorna. A questa seguono molte altre. fino all’Alto Medioevo e oltre. Un altro genere che ha grandissima fortuna è l’agiografia, ossia i documenti relativi ai martiri (Acta e Passiones martyrum) e, più tardi, ai santi. Molti di questi testi muovono da un nucleo storico fondato, soprattutto gli Acta più antichi, anche se il loro carattere “vivo”, in quanto documenti talvolta letti nelle assemblee liturgiche, ha consentito l’intervento di ‘mani’ successive, in tempi diversi. Da parte loro, le Historiae ecclesiasticae raccolgono numerose e preziose notizie per conoscere le vicende delle comunità antiche; esse sono ispirate da un intento apologetico o celebrativo. Tuttavia presentano una fisionomia del tutto nuova, giacché non vogliono essere un’opera retorica, con molti discorsi inventati, ma, al contrario riportano alla lettera documenti per provare la veridicità dei fatti narrati. Una metodologia di cui la storiografia moderna terrà conto, attraverso la ricerca, e l’interpretazione delle fonti. La prima e la più famosa, cui già si è fatto cenno, è la Historia ecclesiastica Eusebio di Cesarea. A suo proposito è utile notare come, seguendo il filo delle più antiche vicende del movimento nato nel nome di Gesù, nel II secondo libro, l’autore ponga in rilievo la predicazione che Pietro, fa a Roma lui che è “il più forte, e grande degli apostoli, dei quali per sua virtù era capo”(II, 14, 6). Di lui parla come martire della persecuzione di Nerone e come primo reggitore della Chiesa dell’Urbs e, dopo di lui, si premura nei libri successivi di dare l’elenco dei vescovi che hanno retto la Chiesa di Roma.

Notevole è l’influsso che la Historia ecclesiastica eusebiana esercita in particolare nell’ambiente orientale di lingua greca, e numerosissimi sono i suoi continuatori. Per nominarne alcuni tra la fine del IV e il V nel secolo: Gelasio di Cesarea, Filippo di Side, Filostorgio, Socrate di Costantinopoli, Sozomeno, Teodoreto di Cirro, Esichio di Gerusalemme, Gelasio di Cizico; nel VI secolo, Giovani Diacrinomeno, Teodoro il Lettore, Giovanni di Efeso, Evagrio Scolastico, per non dire di altri scritti andati perduti.

Il nuovo genere letterario inaugurato da Eusebio trova dunque una conferma nella imponente sequela di scritti che seguono secondo una prospettiva centrata, per lo più, sulla pars Orientis. La storiografia di lingua latina segue la greca con Rufino di Aquileia che alla fine del IV secolo traduce, aggiornandola, l’opera eusebiana, facendola così conoscere in Occidente. Più tardi, nel VI secolo, Epifanio Scolastico (anche se non si è del tutto certi della sua paternità) compone una Historia ecclesiastica Tripartita, scegliendo passi dagli scritti greci di Socrate, Sozomeno e Teodoreto. In vero gli autori latini preferiscono un altro tipo di composizioni, quello concernente gli uomini illustri, sul modello di scritti pagani. Girolamo ne è il capofila con il De viris illustribus che risale al 392. Si tratta di una galleria di ritratti di personaggi illustri della letteratura latina cristiana – a cui è affiancato qualche pagano e qualche eretico – la cui vita e le cui opere sono degne di essere ricordaste. Lo scopo è quello di smantellare le accuse di ignoranza rivolte dai pagani ai suoi correligionari. Dopo Girolamo, uno stuolo di scrittori prosegue e aggiorna, attraverso i tempi, la sua opera (da Gennaio di Marsiglia a Isidoro di Siviglia, da Ildefonso di Toledo fino ai medievali come Onorio di Autun o l’Anonimo Mellicensis).

La storiografia latina ha pure tenuto vivo l’indirizzo ecumenico e universale. Basti pensare ad opere come il De civitate Dei di Agostino o alle Historiae adversus paganos di Orosio. Dopo di lui nasce un nuovo tipo di storiografia che, senza escludere, per lo meno in certi autori, la visione universale, si interessa con particolare attenzione alla storia di singoli popoli. Q. Aurelio Memmio Simmaco scrive una Historia romana, come poi faranno anche Iordanes, Paolo Diacono e Landolfo Sagace. Cassiodoro redigerà una “Storia dei Goti”, Gregorio di Tours una “Storia dei Franchi”, Isidoro di Siviglia una “Storia dei Vandali e degli Svevi”, Secondo di Trento, come Paolo Diacono, una “Storia dei Longobardi” e infine Beda, ritornando in certo modo al modello eusebiano, compone una storia degli Angli o, più precisamente una Historia ecclesiastica gentis anglorum. È l’alba di una nuova epoca che vede l’ascesa di popoli nuovi. È la nascita dell’Europa, di cui siamo gli eredi.

Non vi è dubbio dunque che la storiografia cristiana antica, sia in Oriente che in Occidente, ha avuto forme molteplici, ma soprattutto uno sviluppo straordinario per le ragioni che si sono dette. Non si può dimenticare che il cristianesimo è l’unica religione che tiene a scrivere fin dal suo sorgere la propria storia, il cui rapporto si può ben dire che sia dovuto ad uno dei elementi centrali proposti dalla fede, l’Incarnazione, percepita come compimento dei tempi, che è insieme conclusione di una successione di eventi e apertura verso il futuro escatologico.

A questo punto mi pare sia opportuno fare un cenno a un altro genere di documenti che non hanno a fare con la storiografia vera e propria, ma che non di meno forniscono una serie di notizie, di spunti e di particolari utili per delineare la storia, in particolare la storia della sede romana. Alludo ai calendari, ai martirologi, ai sinassari, ai sacramentari e ai cataloghi topografici. Il Cronografo del 354 è una compilazione che riunisce documenti differenti, tra i quali, particolarmente importanti sono la Depositio episcoporum che registra la ‘deposizione’ dei vescovi di Roma dal 254 al 352 e la depositio dei martiri più venerati dalla prima metà del III secolo all’inizio del IV. I due documenti si completano a vicenda e molto hanno giovato alle celebrazioni della comunità di Roma. Tra i sacramentari sono da ricordare il Leoniano, il Gelasiano e il Gregoriano che presentano dai nuclei primitivi redatti a Roma tra il VI e il VII secolo, che talvolta sono poi stati integrati in aree geografiche diverse per venire incontro a esigenze locali. A sua volta il Liber Pontificalis, che raccoglie una serie di notizie sui vescovi di Roma, è un altro documento significativo, anche se va considerato con cautela, data la tradizione testuale assai complessa che presenta. Infine gli Itinerari della città di Roma, che non risultano anteriori al VII secolo, ono compilazioni a servizio dei pellegrini che si recavano a Roma, non di rado redatti da pellegrini stessi. Testimonianze tutte preziose per l’archeologi che vi trovano elementi utili per identificare e illustrare la storia dei monumenti, le vie percorse per raggiungerli, pongono insomma in evidenza una serie di elementi che risultano utili per conoscere la vita, anche quotidiana della città di Roma. Un genere di guide che avrà un seguito fortunato nel Medioevo.

Fonti e Bibl. essenziale

R. Niebuhr, Fede e storia, Studio comparato della concezione cristiana e della concezione moderna della storia, trad.ital., Il Mulino Bologna, 1966; O. Cullmann, Cristo e il tempo, trad. ital., Il Mulino, Bologna, 1965; A. Momigliano, “Storiografia pagana e cristiana nel IV secolo”, in Il conflitto tra paganesimo e cristianesimo nel IV secolo, A. Momigliano (ed.), trad. ital., Einaudi, Torino, 1968, 89-110; AA.VV., La storiografia ecclesiastica nella tarda antichità, Atti del Convegno di Erice (3-8 dicembre 1978), Centro di studi Umanistici Umanistici, Messina, 1980; H.-I. Marrou, Teologia della storia, trad. ital. Jaca Book, Milano 1969; AA.VV., L’historiographie de l’Église des premiers siècles, B. Pouderon – Y.M. Duval (edd.), Beauchesne, Paris 2001, 207-235; P. Siniscalco. Il senso della storia. Studi sulla storiografia cristiana antica, Soveria Mannelli, Rubbetino Editore, 2003; Id., “Due tradizioni storiografiche a confronto: le Historiae ecclesiasticae e i De viris illustribus”, in Venti secoli di storiografia ecclesiastica. Bilancio e prospettive L. Martínez Ferrer (ed.), Pontificia Università della Santa Croce, Edusc, Roma 2006, 11-32; M. Manca – F. Rohr Vio, Introduzione alla storiografia romana, Roma, Carocci, 2010, Roma; AA.VV., Eusebio e le origini della storiografia cristiana, in AA.VV., Adamantius 16, Brescia, Morcelliana, 2010. Per quanto riguarda le fonti relative al culto dei vescovi e dei martiri a Roma e i cataloghi topografici, rimando alla sempre utile disamina fatta da P. Testini, all’inizio della sua opera, Archeologia cristiana, Edipuglia, Bari 1980.


LEMMARIO




Storiografia (età medievale) - vol. I


Autore: Mariano Dell’Omo

Sec. VI. Il primo esempio di letteratura storiografica originata dall’interno della Chiesa in Italia dopo la grande stagione dell’antichità è offerto da Cassiodoro (ca. 490-ca. 583) ‒ magister officiorum di Teodorico e infine monaco in Calabria a Vivarium ‒, con un’opera perduta, l’Historia Gothorum, composta in 12 libri per lo stesso re Teodorico, che si inserisce nel filone delle “storie nazionali” dei popoli di stirpe germanica, e di cui resta solo il riassunto nei Getica di Giordane risalenti al 551.

Sec. VII. Un caso di cronaca locale e contemporanea è quello di Secondo di Non (†612), personalità religiosa di una certa importanza alla corte di Agilulfo e specialmente consigliere spirituale della regina Teodolinda, la cui opera, che doveva estendersi dalla fine del regno ostrogoto all’inizio della dominazione longobarda, di tipo annalistico e rispecchiante in ogni caso una concezione storiografica latina ed ecclesiastica, è più volte utilizzata e citata nella Historia Langobardorum da Paolo Diacono.

Sec. VIII. Quest’ultimo educato alla retorica nella corte di Pavia, fattosi monaco a Montecassino intorno al 774 dopo la caduta del regno longobardo, pervenuto quindi alla corte di Carlo re dei Franchi (e dei Longobardi) nel 782, ebbe modo di arricchire ampiamente il suo già poderoso bagaglio culturale, e una volta ritornato al monastero cassinese nel 786 attese alla composizione della storia del popolo al quale apparteneva, delineandola dalle origini nordiche fino alla morte del re Liutprando (744). Paolo, pur appartenendo alla Chiesa e alla vita religiosa, tramanda fino a noi una memoria positiva dei Longobardi in Italia così come Gregorio di Tours aveva fatto per i Franchi, opponendo con successo l’immagine dei Longobardi culturalmente umani, civili nonché disponibili al contatto con i Romani, al luogo comune dei barbari feroci, avidi e irrazionali divulgato dal Liber Pontificalis della Chiesa di Roma. Quest’ultima d’altra parte anche quando accettò con i Longobardi (antibizantini) un’alleanza limitata nel tempo, lo fece in modo tale da evitare un cambiamento dell’assetto politico che fosse contrario ai suoi interessi, e perciò ‒ com’era sua convinzione ‒ a quelli dell’Italia. Sotto questo profilo il Liber Pontificalis, opera complessa in forma di biografie dei vescovi di Roma, prodotta in ambiente papale sebbene non ufficiale a partire dal sec. V fino al IX, e ripresa dal sec. XII, rappresenta una fonte storiografica ineludibile per tentare di comprendere come nella Chiesa romana siano stati vissuti e intesi gli eventi nel corso del tempo, particolarmente in quel sec. VIII in cui i nuovi dominatori Franchi soppiantavano i Longobardi.

Secc. IX-X. Se Paolo Diacono con la sua storia dei Longobardi aveva narrato il dominio e il trionfo di questi ultimi, la Ystoriola Langobardorum Beneventum degentium di Erchemperto, monaco cassinese intorno alla metà del sec. IX, ricostruisce ‒ unica fonte per la storia dell’Italia meridionale ‒ le vicende del principato di Benevento dalla difesa di Arechi e Grimoaldo contro Carlo Magno e Pipino fino alla divisione e all’affermarsi di Atenolfo di Capua e della dinastia capuana (dal 787 all’889). Terzo momento di una triade longobarda, i cui primi due sono i già menzionati Paolo Diacono ed Erchemperto, è l’anonimo Chronicon Salernitanum, scritto una sessantina d’anni dopo Erchemperto, dal quale l’ignoto estensore attinge interessandosi soprattutto alle vicende riguardanti Salerno e Benevento, ma senza possederne l’acuta visione storica e l’originalità autobiografica sia pure parziale. Meno variegata è nell’Italia settentrionale la continuazione dell’Historia Langobardorum di Paolo Diacono, che trova un solo epigono nel presbitero Andrea da Bergamo, la cui Historia si interrompe dopo la morte di Carlo il Calvo (6 ott. 877). Nell’Italia non occupata dai Longobardi, dove il legame con la tradizione antica è più immediato, come a Ravenna, antica sede dell’esarcato, e a Napoli, centro del ducato bizantino, si annoverano rispettivamente storie dei vescovi cittadini che rispecchiano da vicino la coscienza identitaria di quelle due città: il Liber pontificalis ecclesie Ravennatis di Agnello Ravennate (tra la fine dell’VIII e gli inizi del sec. IX), da s. Apollinare a Giorgio (837-846), escluse le vite di Valerio (788-802 ca.) e Petronace (817-835); il Chronicon o Gesta episcoporum, il più antico testo che illustri la storia di Napoli, con una prima parte anonima, dipendente dal Liber Pontificalis della Chiesa romana, che dalle origini si estende fino al 763, e una seconda parte con biografie più ampie che vanno da Paolo II (763-768) ad Atanasio I (849-872), dovuta a Giovanni Diacono (tra la seconda metà del sec. IX e gli inizi del X). Tra IX e X sec. nel contesto del tardo Impero carolingio e delle lotte tra Bizantini e Longobardi, i Chronica Sancti Benedicti Casinensis (sec. IX, prima dell’883) costituiscono una raccolta non sistematica di notizie circa il monastero cassinese e il proprio tempo, con citazioni da Paolo Diacono e altri brani di natura cronachistica che non superano l’871.

Sec. X. Nel sec. X oltre al Chronicon del monaco Benedetto di S. Andrea del Monte Soratte (da Giuliano l’Apostata al 972), debole tentativo di cronaca universale in cui è presente il ricordo della grandezza dell’antica Roma, nonché il senso dell’unità spirituale d’Italia rappresentato proprio da Roma, si segnala l’opera ben più poderosa di Liutprando di Cremona (ca. 920-971), nato a Pavia, diacono, poi nel 961 vescovo di Cremona. Tra i frutti della sua attività letteraria è utile qui menzionare: l’Antapodosis (Ritorsione), in 6 libri, opera storiografica e memorialistica, che va dalla morte di Carlo il Grosso (888) fino alla presa del potere da parte di Berengario II (l’ultimo evento narrato è l’ambasceria costantinopolitana dello stesso Liutprando del 949-950); e l’Historia Ottonis (o Gesta Ottonis), nella quale l’autore sostiene la politica dell’imperatore Ottone I nei confronti del papato fra il dicembre 963 e l’estate 964, allorché contro le stesse procedure canoniche fu deposto papa Giovanni XII e sostituito con Leone VIII, soluzione ritenuta da Liutprando inevitabile di fronte alla gravità del momento. Nel vescovo di Cremona emerge una visione della storia basata su un provvidenzialismo radicale, sul modello di Agostino e Gregorio Magno, che tuttavia non gli impedisce di descrivere con acuta lucidità, tuttora valida, il dramma di un papato in balia di alcune grandi famiglie romane.

Secc. XI-XII. Tra XI e XII sec., nel momento in cui ai Longobardi si sono ormai sostituiti i Normanni nel sud dell’Italia, le cronache di origine benedettina, derivanti rispettivamente da Montecassino (Chronica monasterii Casinensis di Leone Ostiense), S. Vincenzo al Volturno (Chronicon Vulturnense di Giovanni), S. Sofia di Benevento (Chronicon S. Sophiae), S. Clemente di Casauria (Chronicon Casauriense di Giovanni di Berardo), rivestono un particolare significato per cogliere certi passaggi epocali nella Chiesa stessa, insieme al bisogno di salvaguardare i grandi patrimoni di terre e chiese da parte delle grandi signorie monastiche meridionali nei confronti delle crescenti pretese episcopali. Per l’importante monastero di Farfa in Sabina oltre alla Constructio Farfensis (sec. IX), utile per la sua storia dalla fine del sec. VIII fino a ca. l’857, occorre segnalare il grande contributo di Gregorio di Catino, monaco e vera personalità di storico nato intorno al 1060, al quale si devono il Regestum Farfense, il Liber Largitorius, il Chronicon, infine verso il 1130 il Liber Floriger cartarum coenobii Farfensis, opere tra l’altro fondamentali per la storia economico-politica del ducato romano tra VIII e XII sec. Per il nord dell’Italia si distinguono il Chronicon Novaliciense (prima metà del sec. XI), composto da un monaco della Novalesa, fonte rilevante per la storia del Piemonte medievale, e il Chronicon di S. Michele della Chiusa (fine del sec. XI). In questo stesso periodo acquista vigore la storiografia cittadina che si identifica con quella ecclesiastica locale, come nel caso dei Gesta archiepiscoporum Mediolanensium o più esattamente Liber gestorum recentium di Arnolfo di Milano (ca. 1000-ca. 1077) laico, pronipote del fratello dell’arcivescovo di Milano Arnolfo (I) di Arzago (970-974): non un racconto di imprese episcopali ma cronaca cittadina di eventi che in gran parte coinvolsero direttamente l’autore (i primi 3 libri dal 925 al 1072, il quarto e il quinto dal 1075 al 1077), impegnato a difendere la Chiesa milanese sia dagli attacchi degli ambienti della Pataria cittadina che da quelli della Sede Apostolica, rivendicando privilegi e tradizione ambrosiani, oltre che sostenendo il clero milanese rispetto all’accusa di simonia e alienazione dei beni a vantaggio delle classi alte del laicato. Nondimeno più tardi Arnolfo, dopo aver fatto parte nel 1077 di una delegazione di cittadini milanesi recatisi a Roma per domandare a papa Gregorio VII il perdono dei precedenti atteggiamenti filoimperiali, modifica anche lo spirito con il quale aveva redatto fino ad allora il suo Liber gestorum, ammettendo negli ultimi 2 libri la supremazia di Roma, alla quale aveva prima anteposto la grandezza della tradizione ambrosiana. Nel Mezzogiorno normanno-svevo occorre in primo luogo registrare la stretta connessione tra Chiesa e storiografia normanna, a cominciare dalla Historia Normannorum di Amato di Montecassino († prima del 1105) relativa agli anni 1016-1078, non a caso dedicata all’abate Desiderio poi papa Vittore III (1086-87), la cui amicizia con gli intraprendenti e sagaci cavalieri venuti dal nord contribuì a renderli determinanti per l’equilibrio politico e per i rapporti stessi del papato con le altre potenze. Concentrati su un singolo principe normanno sono invece i Gesta Roberti Wiscardi di Guglielmo Appulo († dopo il 1099), dedicati a papa Urbano II, opera in 5 libri per un totale di 2819 esametri: nel quarto libro in particolare si sottolinea la fedeltà da parte di Roberto il Guiscardo alla Chiesa di Roma, con conseguenze di lunga durata sulla riorganizzazione della Chiesa latina meridionale. Ancora ai Normanni, alla formazione del Regnum Siciliae con il primo sovrano Ruggero II, nonché al suo atteggiamento di fronte al papato, sono dedicate due opere entrambe di estrazione monastica, il De rebus gestis Rogerii Calabriae et Siciliae comitis e Roberti Guiscardi ducis, fratris eius di Goffredo Malaterra e il De rebus gestis Rogerii Siciliae regis libri IV di Alessandro di Telese. Più a nord in Toscana con l’intento di celebrare la stirpe dei Canossa più che per un fine strettamente biografico, tra il 1111 e il 1115 fu composta in versi la Vita Mathildis (o anche De principibus Canusinis) da Donizone monaco di S. Apollonio a Canossa. Nel sec. XII si distinguono inoltre le storie legate all’identità di singole città italiane e alle loro comunità ecclesiali, in primis Genova con i monumentali Annales Januenses: avviati dal genovese Caffaro, a cominciare dai Genovesi alla I Crociata (dal 1100 fino al 1163), essi furono continuati nel corso del tempo giungendo fino al tardo sec. XV. Cronisti contemporanei dell’Italia meridionale furono Falcone di Benevento (Chronicon), nato verso la fine del sec. XI, insieme con Caffaro il più antico autore laico di una cronaca cittadina (fino al 1140); Pietro da Eboli (Liber ad honorem Augusti o Carmen de rebus Siculis), fautore di Enrico VI di cui narra nel 1195 la conquista della Sicilia contro il normanno Tancredi di Lecce; l’arcivescovo Romualdo Guarna di Salerno (ca. 1115-1181), autore di un Chronicon, storia del Regnum Siciliae che è pure una delle poche cronache universali prodotte in Italia; Ugo Falcando, che nel Liber de regno Siciliae narra gli eventi succedutisi nel regno di Guglielmo I d’Altavilla (1154-66) e nei primi anni del governo del figlio e successore Guglielmo II sotto la reggenza della madre Margherita di Navarra (1166-69).

Sec. XIII. Nel sec. XIII la storiografia subisce un’evoluzione positiva sia per la quantità dei contributi che per l’intervento sempre più marcato di laici e in particolare per la qualità dei testi, che rivelano la capacità degli autori di far convergere i molteplici fatti e di interpretarli. Si sviluppa specialmente in questo secolo una storiografia mendicante che offre modelli e scopi variegati: gli annali contemporanei, con Tolomeo da Lucca (Bartolomeo Fiadoni, ca. 1236-1327), domenicano (Annales Lucenses, dal 1061 al 1303); la storia urbana e la collezione agiografica, con Iacopo da Varazze (ca. 1228-1298), anch’egli domenicano, autore della Legenda aurea articolata in racconti dedicati alle vite dei santi e alle feste liturgiche , e di una Chronica civitatis Ianuensis ab origine urbis usque ad annum 1297, nella quale è esaltato il ruolo del vescovo nella storia di Genova, talché storia cittadina e azione vescovile costituiscono un tutt’uno, sullo sfondo di una concezione storica di matrice agostiniana; e ancora la storia intesa come exemplum morale e ausilio per la predicazione, con Tommaso di Pavia (ca. 1212-ca. 1280), autore dei Gesta imperatorum et pontificum (fino al 1278); non manca infine il capolavoro che fonde insieme i vari schemi e filtra gli avvenimenti attraverso una spiccata componente autobiografica, come la Cronica del francescano Salimbene de Adam da Parma (1221-dopo il 1288), dove la storia d’Italia (dalla metà del sec. XII a quella del sec. XIII) è letta in parallelo a quella d’Europa, sullo sfondo di un orizzonte escatologico che proviene dal gioachimismo dell’autore. Al centro della storiografia duecentesca è spesso la figura dell’imperatore e sovrano di Sicilia Federico II, che proprio a metà del ‘200 chiude la sua vita così controversa per i suoi rapporti con la Chiesa in Italia, in special modo con il papato. Verso l’ultimo quarto del secolo, allorché le passioni andavano ormai decantandosi, le fonti trasmettono su di lui un giudizio senza dubbio di parte ma finalmente di più ampio respiro, come nei due esempi emblematici del Chronicon Marchiae Tarvisinae et Lombardiae, l’opera politica più valida prodotta dalla pars ecclesiae, e del Chronicon Placentinum (Annales Placentini Gibellini), rappresentativo della pars imperii, con una narrazione che comincia da Federico Barbarossa e che tende ad illustrare l’azione dell’altro Federico nell’Italia dei Comuni. Validi esempi contemporanei della storiografia del Regno meridionale sono Riccardo di S. Germano (ca. 1165-ca. 1244) e la cronaca cistercense di S. Maria di Ferraria (Ignoti monachi cisterciensis S. Mariae de Ferraria chronica) presso Vairano (Caserta), quest’ultimo uno dei rari esempi italiani di cronaca universale. Infine per i fatti del Regno di Sicilia dopo la morte di Federico II (1250) e per quelli del Regno di Napoli fino alla morte di Carlo d’Angiò (1285), si segnala una Rerum Sicularum Historia (Liber gestorum regum Sicilie) scritta dal calabrese Saba Malaspina, canonico e decano della Chiesa di Mileto intorno al 1274, e scriptor di Martino IV (1281-1285), strenuo difensore dell’autorità pontificia nei confronti di quella regia.

Sec. XIV. Per il ‘300 tre sono i nomi più illustri della storiografia in Italia: i primi due fiorentini, Dino Compagni (ca. 1246-1324), primo grande scrittore di storia in lingua volgare, la cui Cronica delle cose occorrenti ne’ tempi suoi è fonte primaria della storia due-trecentesca di Firenze (la Firenze di Dante), e Giovanni Villani (ca. 1270/80-1348), autore di una cronaca dei propri tempi e insieme della storia ciclica della città di Firenze, alla quale rivendicava come erede di Roma un destino imperiale; l’ultimo, Albertino Mussato (1261-1329), padovano, precorre gli umanisti nello svincolarsi dal modello cronachistico per affermare una concezione della storia che si ispira a Livio, nella quale le libertà comunali si accordano con gli ideali universalistici dell’Impero e della Chiesa (De gestis Henrici VII Caesaris, detta poi Historia Augusta, in 16 libri; De gestis Italicorum post Henricum VII Caesarem, in 14 libri comprendenti gli avvenimenti fino al luglio del 1321). Del tutto originale in quanto produzione storiografica di cancelleria, è infine quella del doge-cronista Andrea Dandolo (1306-1354), autore di una Chronica brevis dalle origini di Venezia al 1342, e di una Chronica per extensum descripta dal 48 al 1280 d.C., fino agli ultimi anni del sec. XIX ritenuta la principale fonte per la storia di Venezia, poi dalla critica ampiamente ridimensionata.

Sec. XV. Nel ’400 allorché si rinnova totalmente la conoscenza spirituale e storica nel recupero dei valori più intrinseci della cultura classica e della stessa fede cristiana, tra i tanti nomi si può con sicurezza attribuire al forlivese Flavio Biondo (1393-1463), segretario apostolico di papa Eugenio IV, il ruolo di scopritore e cronista della civiltà italiana, rivalutata non solo nei suoi profili politici, civili, spirituali, ma anche nella sua topografia e nella monumentalità dei suoi siti, la maggior parte dei quali espressione della plurisecolare fede cristiana (Historiarum ab inclinato Romano imperio decades tres, Romae instauratae libri tres, Italia illustrata, De Roma triumphante libri decem). A testimoniare infine il rilevante significato che il papato continua a rivestire nelle vicende italiane, è la stessa storiografia pontificia di quegli anni, sospesa tra storia, biografia e propaganda.

Fonti e Bibl. essenziale

U. Balzani, Le cronache italiane nel Medioevo, U. Hoepli, Milano 1909; La storiografia altomedioevale, 10-16 aprile 1969, I-II, Centro italiano di studi sull’alto medioevo, Spoleto 1970 (Settimane di studio del Centro italiano di studi sull’alto medioevo 17); M. Miglio, Storiografia pontificia del Quattrocento, Patron, Bologna 1975; Fonti medioevali e problematica storiografica. Atti del congresso internazionale tenuto in occasione del 90° anniversario della fondazione dell’Istituto Storico Italiano (1883-1973), Roma 22-27 ottobre 1973, I. Relazioni, Istituto Storico Italiano per il Medio Evo, Roma 1976; G. Arnaldi, I cronisti di Venezia e della Marca trevigiana, in Storia della cultura veneta, 2. Il Trecento, N. Pozza, Vicenza 1976, 272-337; G. Arnaldi – L. Capo, I cronisti di Venezia e della Marca Trevigiana dalle origini alla fine del secolo XIII, in Storia della cultura veneta, 1. Dalle origini al Trecento, N. Pozza, Vicenza 1976, 387-423; N. Cilento, La storiografia nell’età barbarica. Fonti occidentali sui Barbari in Italia, in Magistra Barbaritas. I Barbari in Italia, Scheiwiller, Milano 1984, 317-350; A. Di Stefano (ed.), La storiografia umanistica. Convegno internazionale di studi (Messina, 22-25 ottobre 1987), I-II, Sicania, Messina 1992; J.W. Busch, Die mailänder Geschichtsschreibung zwischen Arnulf und Galvaneus Flamma. Die Beschäftigung mit der Vergangenheit im Umfeld einer oberitalienischen Kommune vom späten 11. bis zum frühen 14. Jahrhunderts, Fink, München 1997 (Münstersche Mittelalter-Schriften 72); M. Zabbia, I notai e la cronachistica cittadina italiana nel Trecento, Istituto Storico Italiano per il Medio Evo, Roma 1999 (Nuovi studi storici 49); L. Capo, La cronachistica italiana dell’età di Federico II, Rivista Storica Italiana, 114 (2002), 380-430; E. D’Angelo, Storiografi e cronologi latini del Mezzogiorno normanno-svevo, Liguori, Napoli 2003 (Nuovo medioevo 69); L. Capo, Il Liber Pontificalis, i Longobardi e la nascita del dominio territoriale della Chiesa romana, Fondazione Centro Italiano di Studi sull’Alto Medioevo, Spoleto 2009 (Istituzioni e società 12); E. D’Angelo, La letteratura latina medievale. Una storia per generi, Viella, Roma 2009, 175-215 e passim; S. Defraia, Fonti storiche in epoca medievale: memorie, ombre e tracce, Chiesa e Storia. Rivista dell’Associazione Italiana dei Professori di Storia della Chiesa, 2 (2012), 29-107 (specialmente 35-82, passim).


LEMMARIO




Storiografia (età moderna) - vol. I


Autore: Stefano Tessaglia

L’umanesimo. L’affacciarsi nel XIV-XV secolo della cultura umanistica porta anche nell’ambito storiografico il germe di cambiamenti epocali e duraturi. La riscoperta della classicità greca e latina, in particolare nello studio delle lingue originali, riconduce al contatto diretto con le fonti; nasce un’attenzione nuova di tipo eminentemente critico, impostata sull’indagine filologica e linguistica dei documenti, volta a verificare l’autenticità delle fonti. Vengono così realizzate in questo periodo importanti edizioni critiche, con l’ausilio straordinario della stampa a caratteri mobili.

Tra gli studiosi italiani è significativa la figura di L. Valla, maturo interprete della cultura umanistica, che coniuga l’amore per le humanae litterae con l’impegno nella vita civile, la fede cristiana con la ragione filosofica. Valla si distingue tuttavia soprattutto per la ricerca linguistica e filologica, eletta a strumento critico e storico per eccellenza. Di qui l’importanza delle sue Annotazioni sul testo del Nuovo Testamento (1444; pubblicate nel 1505 da E. da Rotterdam) e soprattutto del De falso credita et ementita Constantini donatione declamatio (1440), che dimostra la non autenticità (già sostenuta da N. Cusano) del documento sulla donazione di territori fatta da Costantino alla Chiesa. Si tratta di un approfondito e complesso trattato in cui la falsità del Constitutum è dimostrata con argomentazioni filologiche e storiche, mettendo in evidenza anacronismi stilistici e contraddizioni di contenuto, soprattutto in rapporto alla fonti antiche (Eusebio e poi Rufino e il Liber pontificalis).

Accanto a Valla è da ricordare in questo periodo B. Sacchi, detto il Platina, Prefetto della Biblioteca vaticana, la cui fama è legata al Liber de vita Christi ac omnium Pontificum (o Vitae Pontificum, 1479), una silloge di biografie di papi sulla scia delle raccolte di uomini illustri, basata sul Liber pontificalis, su Damaso, Paolo Orosio e altri scritti antichi. La sua opera sarà in seguito continuata dall’agostiniano O. Panvinio, grande conoscitore delle antichità romane.

Storiografia controversistica. Negli anni della Riforma protestante e di quella cattolica anche la storiografia segue i destini delle diverse confessioni cristiane, con scritti dai presupposti spesso più teologici e apologetici che storici. La ricostruzione storica è utilizzata strumentalmente per dimostrare e fondare l’apostolicità della Chiesa, la continuità della propria tradizione e del magistero, l’antichità delle istituzioni.

È ripresa in questi anni, da parte protestante e con accenti a tratti fortemente escatologici, la teoria della decadenza e dell’allontanamento dall’ideale dei primi secoli: basti qui ricordare il De captivitate babylonica Ecclesiae (1520) in cui M. Lutero tratteggia la figura di una Chiesa decaduta, prigioniera del papato e della curia romana. Proprio quest’idea di una Chiesa che si è andata pervertendo e allontanando dalle origini apostoliche, porta a ricostruire e studiare la storia delle comunità dei primi secoli per arrivare a conoscere il volto della Chiesa primitiva.

Dello stesso periodo sono le Vitae Romanorum Pontificum (1536) di R. Barnes, agostiniano convertito al luteranesimo, che nelle biografie dei papi elaborate sulla scorta del Platina, inserisce medaglioni di commento con critiche protestanti.

L’opera più emblematica di questa temperie, è però senza dubbio l’Ecclesiastica historia…secundum singulas centurias (o Centurie di Magdeburgo, dalla città tedesca in cui sono redatte), opera in 13 libri diretta dal riformatore M. Flacio Illirico con l’ausilio di molti collaboratori e pubblicata a Basilea (1559-1574). I Centuriatori, ripercorrendo la storia del cristianesimo dalle origini al Duecento, si propongono di scardinare la legittimità della Chiesa romana, mostrandone i tradimenti, a fronte della persistenza di una minoranza ininterrotta di testimoni fedeli alla verità delle origini, dai Padri della Chiesa ai movimenti medievali, fino agli albori della Riforma protestante. Lo stesso Flacio aveva preparato questo lavoro con il Catalogus testium veritatis qui ante nostram aetatem reclamarunt papae (1556), un’imponente raccolta di circa quattrocento testimonianze storiche antipapali, che entrando in altri scritti diventeranno poi ricorrenti.

Le Centurie non utilizzano la classificazione cronologica per gli eventi ma, fedeli al titolo, dividono la materia all’interno di ogni secolo per tematiche e argomenti: principalmente di tipo storico, sono affiancati dalle diverse dottrine e contenuti teologici, liturgici, giuridici, politici, e dalle vite delle personalità più importanti. Le fonti principali, studiate con un metodo critico a volte non pienamente scientifico, sono costituite dalla Scrittura e dagli antichi storici cristiani, Eusebio in specie, cronache e opere di tipo giuridico (decretali).

Tentativi di risposta da parte cattolica non tardano a giungere: così l’opera di P. Canisio, condotta con argomenti storici e dottrinali; allo stesso modo R. Bellarmino, che, da teologo, utilizza le acquisizioni storiche per esporre i dati della fede cattolica.

Solo alla fine del secolo, dopo questi tentativi di “catechismi storici”, giunge con C. Baronio la risposta storiografica adeguata, nella monumentale Historia ecclesiastica controversa, comunemente nota con il nome di Annales ecclesiastici (1588-1607), impresa a lui affidata sotto gli auspici di papa Sisto V, con l’esplicitazione, nella dedica del primo volume, del fine perseguito: “eccitare gli animi alla virtù…e contro i novatores di questo tempo”. I dodici volumi, che giungono fino al 1198, costituiscono probabilmente una risposta ai Centuriatori, tuttavia mai menzionati, ma anche il desiderio di mostrare la continuità della Chiesa del tempo con quella delle origini.

Baronio, che aveva già lavorato sulle fonti antiche per la revisione del Martirologio romano (1583) e insegnato storia su incarico di F. Neri e della Congregazione degli oratoriani, cui apparteneva, analizza sistematicamente il prezioso materiale di biblioteche e archivi romani, citando testimonianze inedite e prendendo posizione riguardo all’autenticità di alcuni documenti.

Il procedere degli Annales è sempre cronologico, non più per secoli ma per anni, dalla nascita di Cristo e secondo l’imperatore e il papa regnante. A differenza delle Centurie che procedono per argomenti, seguendo un metodo più innovativo, l’opera di Baronio è più tradizionale e, con minuziosa ansia di precisione, dipana la narrazione secondo la tipologia della cronache medievali, ma con procedimento critico umanistico. La raccolta, ricco insieme di apologetica, controversia ed erudizione, è certamente il frutto più compiuto dell’epoca controriformistica, il distillato dell’impegno della generazione che si sentiva chiamata ad arginare le nuove tendenze religiose e insieme ad applicare e completare le misure del Concilio di Trento. Gli Annales ebbero certamente anche critici (I. Casaubon, S. Basnage), ma anche compendi, commenti e continuatori, tra cui gli oratoriani O. Rinaldi, che portò l’opera fino all’anno 1565 e G. Laderchi, fino al pontificato di Pio V. In ambito italiano sono poi da ricordare gli eruditi C. Sigonio, A. Possevino e A. Rocca.

Concilio di Trento. Nell’alveo della storiografia controversistica la polemica sull’interpretazione del Concilio di Trento occupa senza dubbio un posto di rilievo e giova ricordare almeno le due opere più significative.

Sarpi, servita simpatizzante per le idee protestanti, teologo ufficiale della Repubblica di Venezia, è autore dell’Historia del concilio tridentino, iniziata nel 1608 e pubblicata a Londra nel 1619 sotto lo pseudonimo di P. Soave Polano, condannata e posta all’Indice nello stesso anno. Egli, servendosi di ottimo materiale storico (relazioni degli ambasciatori veneti al Concilio, testimonianze orali) e con prosa agevole, imposta una critica feroce del Concilio, ritenuto soltanto uno strumento nelle mani della curia papale. Secondo Sarpi, a Trento, si sarebbe affermata la più dura politica accentratrice romana mentre sarebbe stato eluso l’unico vero scopo del Concilio, la riforma della Chiesa a partire dal suo vertice; a scapito degli interessi religiosi e spirituali avrebbero prevalso quelli temporali e politici. L’Historia, composta da un teologo e con intenti polemici antiromani, non coglie in pieno l’importanza storica del Concilio, un indubbio passo avanti nell’opera di riforma, e, configurandosi come un trattato politico, pone invece in primo piano le carenze della curia romana.

Sul versante opposto si pone l’Istoria del concilio di Trento (1656-1657) del gesuita P. Sforza Pallavicino. Servendosi della vasta mole di materiale già raccolta da T. Alciati e F. Contelori, e per ordine di papa Innocenzo X e della Compagnia di Gesù, egli compone una vera e propria arringa contro Sarpi, con intento apertamente apologetico e dal conseguente stile a volte minuzioso e pedante. L’opera si fonda su fonti romane di grande valore e l’accurata interpretazione dei documenti e degli avvenimenti la pone ad un livello di ricerca superiore, pur soffermandosi a tratti su particolari marginali e sorvolando su quelli più rilevanti ma problematici. Come Sarpi, neanche Pallavicino, di formazione prevalentemente giuridica, riflette sul valore del Concilio né problematizza l’importanza delle opere di riforma da esso scaturite.

Storiografia critico-erudita. Nei decenni successivi, sopite almeno in parte le polemiche più accese, la produzione storiografica riprende il proprio corso nel solco tracciato dagli umanisti. È questo il periodo in cui la fioritura della filologia porta a edizioni critiche di molti scritti, senza il condizionamento d’intenti polemici o di difesa, ma pur sempre sotto lo sguardo vigile delle autorità ecclesiastiche, preoccupate che la messa in discussione di ingenti certezze storiche potesse indebolire il fragile equilibrio ad intra e ad extra.

È questa l’epoca di monumentali pubblicazioni di fonti antiche e, superando i confini confessionali, studiosi delle diverse chiese ritornano documenti delle origini. Sono così da ricordare almeno gli studi del pastore calvinista D. Blondel, che dimostrano la falsità delle decretali.

Nella seconda metà del ‘500 soprattutto in Francia si approntano diverse edizioni: fra gli studiosi cattolici, M. de la Bigne compone la Sacra Bibliotheca Sanctorum Patrum (1575-1579); D. Pétau (lat. Petavius) con altri gesuiti lavora alle traduzioni di Padri greci in latino, già sullo sfondo della polemica giansenista.

Sono tuttavia i benedettini parigini della congregazione di S. Mauro (maurini) a realizzare una delle imprese più significative della seconda metà del XVII secolo. Con l’intento di dare nuova linfa agli ideali culturali del monachesimo e seguendo un grandioso programma, essi portano a termine grandi edizioni, spesso insuperate, dei Padri della Chiesa, prima fra tutte quella di Agostino, quanto mai fondamentale in epoca di scontri sull’interpretazione della grazia. Tra le opere, redatte sotto la guida di J. Mabillon, si ricordano gli Acta Sanctorum Ordinis Sancti Benedicti (9 voll., 1668-1701), gli Annales Ordinis Sancti Benedicti (6 voll., 1703-1709), la Gallia cristiana (13 voll., 1715-1785). Soprattutto però nelle discipline “ausiliarie” i maurini lasciano una traccia profonda, fondativa: con il suo trattato De re diplomatica libri sex del 1681 Mabillon pone le basi della moderna ricerca storica basata sulla critica diplomatica e paleografica dei documenti.

Anche nel campo dell’agiografia si assiste alla nascita di grandi opere, nel tentativo di far chiarezza sull’antichità dei documenti e sulla presenza di elementi fantasiosi e non veritieri: sono riprese in esame le passioni dei martiri e le vite dei confessori, anche in funzione di difesa del culto dei santi, minato dai riformati.

Si hanno così due raccolte: le Sanctorum priscorum patrum vitae (8 voll., 1551-1560) di L. Lippomano, di non pieno valore scientifico, che costituisce la base per le De probatis sanctorum historiis (7 voll., 1576-1581) del tedesco L. Surio.

Queste opere ebbero larga diffusione, ma ancora non vi è in esse la precisione critica che si riscontra negli Acta sanctorum dei gesuiti belgi, impresa corale divenuta simbolo della produzione erudita del tempo. Il progetto iniziale di H. Rosweyde, autore dei Fasti sanctorum (1607), prevedeva un piano di ricerca complessivo, confluito poi nei lavori di J. Bolland – dal suo nome l’appellativo di bollandisti per questi studiosi gesuiti. Dal 1643 iniziano ad uscire i primi volumi degli Acta, e fino al 1794 si contano cinquantatre volumi cui lavorano con severo metodo critico gli assistenti e successori di Bolland, G. Henschen e sopratutto D. Papebroch, compilatore di diciannove volumi, autore dell’importante Propylaeum antiquarium circa veri ac falsi discrimen in vetustis membranis (1675), nel quale è esplicato il metodo scientifico per lo studio delle documenti medievali. Ciascun volume degli Acta procede secondo rigorosi criteri programmatici: ordine dei santi secondo il calendario romano, introduzione critica dei documenti, pubblicazione dei testi più attendibili posti come base per poi discutere gli altri, come varianti da recepire o ricusare. La severità, a volte eccessiva di questi studiosi nel vagliare le fonti, causò in qualche occasione le reazioni delle gerarchie ecclesiastiche e la messa all’Indice di volumi degli Acta.

Un simile metodo storico-critico viene applicato anche ai testi dei Concili, con le revisioni delle raccolte medievali e la ricerca di interpolazioni o di falsi. L’opera più importante in questo senso, riedita e ampliata fino al XX secolo, è la Sacrorum conciliorum nova et amplissima collectio (31 voll., 1759-1798) di G. D. Mansi, contenente Concili generali ed ecumenici ma anche Sinodi provinciali.

Nell’ambito della storia delle diocesi si hanno alcune importanti raccolte, tra cui i volumi dell’Italia sacra (9 voll., 1642-1662) del cistercense F. Ughelli, prima storia completa delle diocesi italiane divise secondo le province ecclesiastiche, con l’indicazione della serie completa dei vescovi, notizie biografiche, cenni storici dei luoghi di culto più importanti, tradizioni locali e documenti inediti. L’opera, pur non propriamente critica, apre la strada a raccolte simili: Gallia christiana (dal 1715, a cura dei maurini) ed España sagrada (dal 1747). Un’impresa ancora più ambiziosa, rimasta incompiuta e mai pubblicata è l’Orbis christianus di G. Garampi, Prefetto dell’Archivio vaticano, che avrebbe dovuto comprendere più di venti volumi e abbracciare le diocesi e la gerarchia di tutto il mondo, utilizzando l’immensa mole di documenti vaticani.

Nascono in questi decenni e sulla stessa scia anche raccolte e bullaria dei vari ordini religiosi. Primi sono i francescani, con gli Annales Ordinis Minorum di L. Wadding, pubblicati a partire dal 1625; seguono poi i già citati Annales Ordinis Sancti Benedicti redatti dai maurini e altri.

Sviluppi successivi. Nel contesto della storiografia critica sono significativi anche gli scritti influenzati dal gallicanesimo e molti degli studiosi francesi sono espressione delle idee gallicane o gianseniste, sensibili dunque al tema del primato papale e del centralismo romano. Ricordamo L.S. Le Nain de Tillemont, giansenista studioso dei primi sei secoli, non molto critico; N. Alexandre, domenicano moderatamente giansenista e di tendenze gallicane e conciliariste; C. Fleury, che pur difendendo idee gallicane, compie notevoli sforzi di imparzialità e compone un catechismo storico per la divulgazione ad un pubblico più vasto (Catéchisme historique, 1679), vero esempio di narrazione storica moderna. Sia Alexandre sia Fleury sono messi all’Indice e tradotti in diverse lingue dopo esser stati purgati, rimanendo alla base di molti studi fino al XIX secolo.

Esponente significativo delle tendenze gallicane e personalità influente è J. B. Bossuet, autore del Discours sur l’histoire universelle (1681), scritto in prospettiva provvidenzialistica. A questo si affianca l’Histoire des variations des églises protestantes (1688), opera innovatrice che utilizza fonti protestanti per dimostrare gli errori e l’allontanamento dei riformati dalla Chiesa delle origini.

Tra i vari tentativi di risposta e confutazione da parte romana ricordiamo la Storia ecclesiastica (21 voll., 1747-1762) del domenicano G. A. Orsi e il più modesto Breviarium historiae ecclesiasticae usibus academicis accomodatum (1760) dell’agostiniano G. L. Berti, significativo perché nato per l’insegnamento.

Nello stesso periodo in Italia si hanno varie esperienze di erudizione, spesso locale. Spicca in questo contesto L.A. Muratori, che si considera discepolo di Mabillon, rispetto al quale compie il passo decisivo di indagare non soltanto l’autenticità delle fonti, ma anche l’attendibilità/veridicità di esse. Egli, sacerdote e parroco, non si dedica a studi specifici di storia ecclesiastica, ma i suoi sono scritti di storia generale, in cui le radici culturali italiane sono ricercate piuttosto nelle fonti medievali che nell’antichità: su tutto le Antiquitates italicae medii aevi (6 voll., 1738-42), vera miniera di nozioni sulle istituzioni, la politica, l’economia, il costume, la religione della penisola. I suoi Annali della storia d’Italia (12 voll., 1744-49) sono particolarmente apprezzati nell’epoca del Risorgimento, per il tentativo di ricostruire una storia unitaria del Paese al di là delle frammentazioni contingenti; mentre riferimento ancora fondamentale rimane la monumentale Rerum Italicarum Scriptores (25 voll., 1723-1751), contenente le sue ricerche sulla storia d’Italia dal 500 al 1500, considerata a ragione la prima vera grande raccolta di fonti medievali della storiografia moderna.

Significativi editori e studiosi di testi furono anche B. Bacchini, maestro a Modena di Muratori e i fratelli P. e G. Ballerini.

I decenni successivi, con l’insorgere dell’Illuminismo, non vedono studiosi di rilievo dedicarsi esplicitamente alla storia del cristianesimo, limitandosi piuttosto ad utilizzare il materiale messo a disposizione degli eruditi per fini polemici e senza una vera rielaborazione in senso storico. L’approccio degli illuministi, nel tentativo di sottolineare l’oscurantismo e l’arretratezza della Chiesa, in specie nel medioevo (Voltaire), suscita un filone di storia apologetica e controversistica simile al passato, tesa a confutare filosofi e rivoluzionari, sostituitisi ora ai riformati. Nell’ambito più specificamente storiografico il fine per cui nasce uno scritto viene così a prevalere nuovamente sul valore storico dei documenti in sé, in una prospettiva ultramontana e intransigente.

Espressione moderata di questa tendenza è il breve trattato polemico Il trionfo della S. Sede e della Chiesa contro gli assalti dei novatori respinti e confutati colle loro stesse armi (1799) di B.A. Cappellari, futuro papa Gregorio XVI, argomentazione storica in difesa della natura monarchica della Chiesa (identificata ipso facto col papato), del primato e dell’infallibilità pontificia, della piena indipendenza della Sede apostolica dall’autorità temporale.

Fonti e Bibl. essenziale

H. Jedin, Introduzione alla storia della Chiesa, Morcelliana, Brescia 1996; M. Heim, Introduzione alla storia della Chiesa, Einaudi, Torino, 2002; P. Brezzi, La storiografia ecclesiastica, Libreria scientifica editrice, Napoli 1959; S. I. Camporeale, Umanesimo e teologia tra ’400 e ’500, in Problemi di storia della Chiesa nei secoli XV-XVII, Dehoniane, Napoli 1979, 137-164; M. Pellegrini, La storia della Chiesa nella prospettiva degli umanisti (secc. XV-XVI), in L. Martínez Ferrer (ed.), Venti secoli di storiografia ecclesiastica. Bilancio e prospettive, Edusc, Roma 2010, 73-130; M. Bendiscioli, La riforma cattolica nelle nuove testimonianze e nella nuova storiografia, introduzione a M. Marcocchi, La riforma cattolica. Documenti e testimonianze, I, Morcelliana, Brescia 1967, 7-31; H. Jedin, Il cardinale Cesare Baronio. L’inizio della storiografia ecclesiastica cattolica nel sedicesimo secolo, Morcelliana, Brescia 1982; R. De Maio – L. Gulia – A. Mazzacane (edd.), Baronio storico e la Controriforma, Centro di studi sorani “Vincenzo Patriarca”, Sora 1982 (da segnalare alcuni dei contributi: E. Norelli, L’autorità della Chiesa antica nelle Centurie di Magdeburgo e negli Annales del Baronio, 253-307; A. Ferrarini, Socrates Novatianus homo: giudizio storico e metodologia storiografica in Cesare Baronio, 309-346; A. Burlini Calapaj, Accademie e storiografia ecclesiastica alla fine del ‘600, 659-671; D. Menozzi, Il dibattito sul “Baronio storico” nella Chiesa italiana del Settecento, 693-734); L. Gulia (ed.), Baronio e le sue fonti, Centro di studi sorani “Vincenzo Patriarca”, Sora 2009; W. Reinhard, Disciplinamento sociale, confessionalizzazione, modernizzazione. Un discorso storiografico, in Disciplina dell’anima, disciplina del corpo e disciplina della società tra medioevo ed età moderna (Annali dell’Istituto storico italo-germanico in Trento), Il Mulino, Bologna 1994, 101-123; H. Schilling, Chiese confessionali e disciplinamento. Un bilancio provvisorio della ricerca storica, in Disciplina dell’anima, cit., 125-160; A. Prandi, La “storia della Chiesa” tra Sei-Settecento. Apologetica ed erudizione, in Problemi di storia della Chiesa in Italia nei secoli XVII-XVIII, Dehoniane, Napoli 1982, 13-38.


LEMMARIO




Teatro - vol. I


Autore: Bernadette Majorana

Il teatro ha con la Chiesa in Italia un rapporto costante, che coinvolge a vario titolo tutta la comunità, chierici e laici, e suggerisce di essere affrontato attraverso le convergenze e le opposizioni, non meno che le contraddizioni con cui si delinea.

Alla fine del I secolo a.C. l’azione scenica si è ormai sciolta dalla parola letteraria e il corpo di mimi e pantomimi diventa il perno esibitorio dei theatra, suscitando la pura eccitazione sensoriale ed emozionale del pubblico: la Chiesa entra in contatto con la tradizione teatrale greco-romana mediante questo genere di spettacoli. Tertulliano, Lattanzio, Agostino e altri vi si oppongono per un insieme di ragioni, tra cui spicca appunto la condanna dell’offrirsi allo sguardo, giacché ritengono che il potere esercitato dalla finzione della scena, e in essa dagli histriones, produca nello spettatore passioni vere, ma oscure, che si trasmettono alla comunità in un contagio corruttore delle anime e dei corpi.

Insieme con l’opposizione della Chiesa, la fine dell’impero d’Occidente porta all’abbandono degli edifici teatrali e alla dispersione di quanti vivono di spettacolo. Le istituzioni e l’idea stessa di teatro si dissolvono e tuttavia parte del patrimonio drammaturgico si conserva al di fuori delle scene, nei monasteri, dove le opere latine vengono studiate e ricopiate.

D’altronde, per quel processo d’inculturazione raccomandato già da Gregorio Magno (VI-VII sec.), alcuni rituali drammatici si riversano nella teatralità cristiana alimentandola. Tra Natale ed Epifania, per esempio, dal X secolo il clero minore realizza feste che, come quelle pagane del passaggio dall’anno vecchio all’anno nuovo, si basano sul mascheramento e sul sovvertimento dei ruoli sociali. Nonostante le denunce dei canoni conciliari, esse restano vive fino al XVI secolo.

L’arte dell’attore perdura intanto sotterraneamente, saldandosi con le pratiche barbariche per poi riconfigurarsi nell’attività eclettica dei giullari (non vi sono rari i clerici, benché condannati da Bonifacio VIII): i giullari si esibiscono senz’altro apparato che quello di corpo e voce, ovunque si possa formare un gruppo di spettatori. Le censure ecclesiastiche ne stigmatizzano l’inutilità, l’esteriorità fittizia, il parlare vano, gli eccessi gestuali, l’alterazione dell’aspetto, cioè dell’immagine di Dio riposta in ogni uomo. La corrispondenza tra condotte teatrali e cattiva vita si ritiene indubitabile, manifesta nel nomadismo e nella mercificazione del corpo esibito per guadagno. La professione teatrale viene però riconsiderata nel quadro della scolastica e in particolare da Tommaso d’Aquino (XII-XIII sec.), ma l’orientamento della Chiesa resta negativo, nel tentativo di frenare l’adesione dei cristiani all’offerta di spettacolo giullaresca, estesa e pervasiva, apprezzata nelle corti e presso gli ecclesiastici (soggetti perciò, nel 1286, ai richiami del Concilio di Ravennna), fino alla Roma pontificia del XVI secolo e oltre.

Teatro e Chiesa s’incontrano, all’opposto, sul terreno dei riti e della liturgia, della festa, della devozione, dell’educazione cristiana, dove l’esperienza teatrale ­non è mestiere ma eccezione, principio ordinatore di una intenzione comunicativa o partecipativa, ed è svolta senza fini economici. Sino all’avanzata età moderna la legittimazione delle attività comprese in questo orizzonte contrasta con gli attacchi mossi parallelamente agli attori professionisti, fondandosi sulla possibilità di informare il teatro a strumenti e scopi della Chiesa e del suo magistero.

In alcune solennità cristiane la liturgia esprime dal X secolo azioni note come drammi o uffici liturgici, sviluppatesi nelle chiese abbaziali e cattedrali e rese possibili dalla duttilità della liturgia, nella quale s’inquadrano: queste azioni, dialogate, articolate nello spazio della chiesa, compiute dai chierici nell’ambito ristretto della loro comunità, sono originariamente prive di intento spettacolare. Dal XII secolo, però, la presenza dei fedeli, la varietà drammaturgica e la caratura teatrale raggiunta da talune azioni dipendenti dalla liturgia segnalano finalità ulteriori, la volontà di educare il popolo attraverso di esse, istruendolo suggestivamente sul senso ultimo del mistero cristiano. L’ufficio più antico, detto Visitatio sepulchri, l’incontro delle Marie con l’Angelo presso il sepolcro vuoto, si svolge al termine del Mattutino di Pasqua. A questo si aggiungono episodi evangelici contigui e legati al ciclo di Natale, documentati fra XII e XV secolo. Col diversificarsi dei soggetti (biblici, agiografici, morali) crescono anche personaggi e scene, fornite di testi in versi, didascalie, notazioni musicali; gli allestimenti nelle chiese si fanno più studiati e impressionanti, come per esempio il volo dell’Angelo nelle feste dell’Annunciazione (Parma ante XV sec., Firenze 1439).

I drammi liturgici non subiscono censure in Italia, dove sopra tutti s’impongono gli uffici del tempo di Passione: la cosiddetta Passione cassinese ne è il documento più antico (XII sec.); il Planctus Mariae di Cividale (XIV sec.) e in generale quelli dell’area veneto-friulana ne sono esempi importanti. Ma è al di fuori della liturgia che il legame tra la Madonna e il Cristo sacrificato diventa il perno del teatro religioso italiano: si tratta della lauda in volgare, sorta nell’ambiente laico delle confraternite d’ispirazione penitenziale e diffusasi tra XIII e XV secolo in forma drammatica dall’Umbria in molte parti d’Italia (in Abruzzo o a Roma, per esempio, dove ogni Venerdì santo, fino al 1539, l’Arciconfraternita del Gonfalone allestisce al Colosseo una Passione che influenza tutto il Lazio). Debitrice ai giullari per le forme metriche, la lauda ha impianto dialogico a più personaggi; gli autori sono anonimi, forse ecclesiastici o laici letterati; i membri delle confraternite realizzano l’allestimento e sostengono tutte le parti, cantate e recitate. Rappresentata in chiesa a Quaresima e nella Settimana santa, la lauda si estende presto ad altri tempi e temi religiosi; in ambito francescano e domenicano viene anche integrata nella predicazione. Le sacre rappresentazioni fiorentine (XV sec.), di ambiente borghese, estinguono l’austera potenza devozionale della lauda, da cui provengono, accentuando la psicologia dei personaggi, la ricercatezza letteraria e l’invenzione degli apparati. Intanto la festa del Corpus Domini assume rilievo rispetto a quelle locali dei santi patroni, spesso destinate a rimanere inalterate per secoli: a Viterbo, nel 1462, la processione eucaristica è guidata da Pio II, che ne delinea anche l’assetto spettacolare e gli elementi drammatici, testimonianza di criteri festivi operanti nella comunità dall’alto, secondo un preciso progetto intellettuale.

Ripensando l’antichità classica, la civiltà curtense e umanistico-rinascimentale fornisce contenuti e forme a questa nuova concezione, dove convergono tutte le espressioni della cultura più attuale. A Roma la Chiesa costruisce un nuovo Stato, di cui la festa è immagine e strumento politico. Evento extra-quotidiano, che si manifesta nella metamorfosi temporanea dei luoghi cittadini e dell’aspetto di persone e gruppi partecipanti alle azioni pubbliche, la festa s’impernia sulla esibizione del potere gerarchico, rappresentando al contempo una società ideale. Da Pio II a Leone X e oltre, i papi la promuovono e ne sono protagonisti: paradigmatico il possesso, magnifica cavalcata processionale che conduce il pontefice appena incoronato da San Pietro al Campidoglio a San Giovanni in Laterano. Le feste religiose sono regolari e frequenti (ricorrenze solenni, traslazione di reliquie, giubilei: per quello del 1500 Alessandro VI fa rappresentare un trionfo di Cesare con dieci carri); si affiancano a quelle politiche (paci, conquiste, vittorie), a entrate trionfali di principi (nel 1471 Paolo II fa apparare sontuosamente la città per l’arrivo di Borso d’Este, a cui dedica un mese di feste; tuttavia il cardinal Ammannati Piccolomini esprime viva riprovazione al papa amante di lussi e spettacoli) e alle feste profane di tradizione cittadina come il Carnevale, a cui le corti romane contribuiscono con nuovi intrattenimenti: banchetti-spettacolo, musiche, rappresentazioni drammatiche e allegoriche, recitate, cantate, danzate, buffoni, attori, declamazioni oratorie. La recitazione delle opere classiche, avviata dal retore Pomponio Leto nello Studium Urbis, viene sostenuta dai papi e dai cardinali: l’agere sulla scena degli oratores riveste funzione morale nella civitas christiana (celebre, nel 1486, un Ippolito di Seneca). La commedia italiana ha a Roma la propria consacrazione: fra le altre si allestiscono in Vaticano, davanti a Leone X, la Calandria del cardinal Bibbiena, con scene di Baldassarre Peruzzi (1514), e I suppositi di Ariosto, con scene di Raffaello (1519). La Chiesa diventa inoltre soggetto drammaturgico: nella Cortigiana dell’Aretino (1525) le corti di Leone X e Clemente VII sono il centro di ogni intrigo, frati e preti sono personaggi ambigui e ridicoli nella Mandragola di Machiavelli, messa in scena anche per Leone X (1520).

Dalla metà del XVI secolo la scena teatrale si distingue dalla festa: viene coltivata nelle corti private e nelle dimore signorili a Roma e altrove, consentendo sperimentazioni impegnative, come quelle del teatro di palazzo Barberini, aperto dai cardinali nipoti di Urbano VIII, dove operano insieme scenografi come Gian Lorenzo Bernini, drammaturghi come Giulio Rospigliosi, futuro Clemente IX, e importanti musicisti.

Le riforme e il Concilio di Trento determinano trasformazioni importanti. I padri conciliari non si esprimono riguardo alla rappresentazione teatrale, che a differenza della figurativa non è investita di questioni dottrinali dirette e urgenti; ma la separazione di sacro e profano, di alto e basso, la depurazione delle pratiche devote e collettive da ciò che è considerato eterodosso, osceno, indiscreto, irrisorio toccano subito la pratica teatrale, struttura portante della vita sociale: seguito da altri vescovi, Carlo Borromeo vieta esemplarmente la rappresentazione della Passione e di storie di santi, riconducendone i contenuti a narrazioni fatte dai predicatori in chiesa, cioè alla competenza sacerdotale, agli spazi sacri e, quanto ai laici, a una pietà più interiorizzata (1565); proibisce le azioni teatrali profane estranee al tempo festivo e al culto, come le mascherate e i riti di fecondità e corteggiamento del primo di maggio, da sostituire con la venerazione dei santi del giorno (1569, 1579). Tuttavia, nelle aree marginali di campagna e di montagna, molte esperienze tradizionali resistono, anche per l’adesione a esse del clero curato.

Nel contesto post-tridentino la Chiesa non è però soltanto controparte del teatro. La strategia comunicativa e persuasiva cattolica comprende una intensa azione spettacolare, imponente in molte città (Roma, Milano, Venezia, Firenze, Napoli, Palermo): la festa è progetto retorico universale (il modello romano è esteso fino agli estremi confini dell’orbe cattolico), attento al piacere e alla comprensione dei dotti come degli illetterati, realizzato attraverso le più avanzate risorse tecniche e artistiche; l’artificio visivo vi è cruciale e la musica vi ha parte cospicua. Si affermano nel XVII secolo le quarantore, a santificazione delle profanità del Carnevale, le pompe funebri, macchine macabre grandiose e visionarie, le feste per le beatificazioni e le canonizzazioni che in ogni città seguono al rito celebratosi a Roma. Si può parlare di pastorale festiva non meno che di pastorale drammatica: la scena confessionale si pone sotto il segno della edificazione e della esemplarità delle condotte, incorporandosi in nuove realtà pedagogiche e devote. Collegi, accademie, congregazioni sono agenti di un teatro offerto alla collettività come esercizio virtuoso e pio intrattenimento, vincolato alla drammaturgia scritta (circolante a stampa anche per la lettura), recitato da dilettanti che sottoponendosi a una lunga preparazione, da cui non è esclusa la componente ludica, perfezionano i procedimenti attoriali di stampo oratorio a fini etico-pratici e d’intrattenimento, personali e sociali. Gli spettacoli si svolgono in occasioni straordinarie e in luoghi collegati al gruppo che li realizza: gesuiti, barnabiti, somaschi allestiscono, per esempio, sale e cortili delle loro scuole e gli apparati scenici vi raggiungono notevole complessità. Le produzioni dei collegi della Compagnia di Gesù, in latino e col Sei-Settecento sempre più in italiano, sono da Siracusa a Milano un fenomeno pubblico di grande rilevanza. Si afferma la tragedia spirituale e s’incrementano i soggetti agiografici, figure storiche che fra antichi martiri e nuovi santi rispondono tanto al criterio filologico che guida le indagini sulla Chiesa delle origini, quanto alle recenti prospettive della santità, incentrata sulla imitabilità dei più alti modelli cristiani. La sapienza scenica dei dilettanti (sempre maschi) determina uno scarto rispetto ai comportamenti quotidiani di attori e spettatori, ed esso stesso si qualifica come essenza ed eccellenza dell’esempio rappresentato (sulla base di questa consapevolezza, il missionario gesuita Paolo Segneri, già ottimo attore nel Collegio Romano e oratore di rango, usa la propria competenza drammatica nella predicazione ai semplici delle aree rurali, mettendo a punto nel 1671 una performance di grande efficacia compuntiva, sorte di emblema vivente della conversione, adottata e sviluppata da molti suoi seguaci). Già dal primo Cinquecento, intanto, e fino a tutto il secolo seguente, i conventi femminili danno spazio sotto forma di intrattenimento devoto e riflessivo alla commedia spirituale, recitata dalle novizie e poi dalle stesse monache per un pubblico ristretto.

Questo teatro, non solo ammesso in seno alla Chiesa, ma da essa anche promosso e regolato, si afferma mentre dalla metà del XVI secolo avanza con immensa fortuna il teatro dei professionisti: la Chiesa condanna quella che sarà poi detta commedia dell’arte servendosi più che di provvedimenti formali, parziali ed episodici, della predicazione, coscienziosa e capillare secondo le disposizioni tridentine. Gli antichi argomenti delle auctoritates contro istrioni pagani e giullari sono attualizzati in ragione degli aspetti specifici del moderno professionismo, vera e propria industria del divertimento: compagnie organizzate e itineranti, specializzazione drammaturgica (maschere e improvvisazione su canovaccio), economia di mercato (pubblico pagante indifferenziato). La novità maggiore è la presenza della donna, che mai aveva avuto un posto parimenti decisivo nella tradizione teatrale europea, pagana e cristiana: non più soltanto canterine o ballerine, come talvolta se n’erano viste, le donne dell’arte recitano come gli uomini ed esercitano una seduzione potente. Sulle scene dell’arte s’incarna l’anti-modello cristiano, facile, irrazionale, opposto a quello grave e pensoso del teatro dei dilettanti. I comici più coltivati rispondono ai detrattori affidando alle stampe la difesa morale del proprio mestiere e protestano la loro personale aspirazione alla perfezione cristiana, non disgiunta dalla disciplina recitativa quotidiana, esempio della possibilità di percorrere nel proprio stato la via della santità. D’altronde, l’offensiva ecclesiastica è di poco esito: al di fuori del tempo festivo, il successo è difficile da contenere e in assenza di testi drammatici scritti in forma distesa non lo si può nemmeno censurare preventivamente. Lo attestano, fra gli altri, i tentativi di Borromeo a Milano e di Paleotti a Bologna.

Le opposizioni della Chiesa vanno scemando nel XVIII secolo, mentre la pratica dilettantesca di uomini e donne si diffonde in ogni ambiente (i sacerdoti non sono rari), si aprono molti teatri pubblici, si rinnova il professionismo e, da Muratori (1706) fino a Manzoni (1823), si dibatte sulla riforma di generi, attori e recitazione per un teatro necessario alla maturazione morale della società. Nella disputa tra l’arcade Scipione Maffei, rinnovatore della tragedia italiana, assertore di un teatro aperto a tutti, e il domenicano Daniele Concina, che vuole la proibizione di ogni forma di spettacolo, Benedetto XIV si pronuncia a favore del primo (1753).

Il 1798-99 vede la Roma pontificia consacrata alla Repubblica dalle feste rivoluzionarie francesi: sulla resa di Pio VI a Napoleone si allestisce subito, alla Scala di Milano, senza che l’arcivescovo possa fermarlo, Il ballo del papa, pantomima del massone Fracncesco Saverio Salfi (1797). Nel processo risorgimentale, melodrammi, tragedie come quelle di Silvio Pellico, attori di rilievo come il mazziniano Gustavo Modena e i suoi allievi appassionano alla causa patriottica. Ma il nodo dei rapporti fra Stato e Chiesa impegna la censura teatrale prima e dopo l’unità, a tutela del sentimento religioso e dei rischi di scontro causati dagli attacchi alla figura del papa, ai religiosi (domenicani e gesuiti in ispecie), ai parroci: l’anticlericalismo, meditato o demagogico, caratterizza una gran quantità di drammi e commedie. Dopo la proclamazione del Regno le feste pontificie intendono rappresentare efficacemente, nei cortei splendidi, nella presenza delle milizie, negli apparati sontuosi, nelle allocuzioni ai prelati e ai fedeli spettatori, la potenza del capo di Roma e la gravità della minaccia sulla Chiesa: nel 1862, convenuti cardinali e vescovi da ogni parte dell’orbe cattolico, partecipe un’immensa folla, Pio IX canonizza i ventisei martiri uccisi in Giappone nel 1597 indicandoli esplicitamente come esempio del coraggio necessario a fronteggiare gli italiani nemici della religione. Una magnifica macchina pirotecnica, raffigurante la Gerusalemme dell’Apocalisse, incendiata per la Pasqua del 1870, è l’ultimo segno spettacolare della Roma dei papa-re.

Fonti e Bibl. essenziale

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LEMMARIO




Teologia - vol. I


Autore: Gianfranco Calabrese

Premessa. La teologia cristiana si è sviluppata nella penisola italiana, in ragione del tentativo di difendere, approfondire e proporre la verità dei misteri della fede, che la Chiesa, nei secoli, ha annunciato nella catechesi mistagogica, celebrato nella liturgia e testimoniato nella pastorale ecclesiale. La teologia, come disciplina scientifica, si è strutturata nella storia della Chiesa come risposta adeguata all’azione missionaria di evangelizzazione da parte della comunità dei credenti e come attenzione permanente della Chiesa alle sollecitazioni delle diverse tradizioni filosofico-culturali e alle molteplici esigenze socio-istituzionali. La teologia cristiana, come scienza della fede e della rivelazione, si è posta a servizio della comunità dei credenti, in dialogo con la storia, con il mondo, con le altre scienze e le altre teologie. Si cerca di descrivere qui la storia della teologia nel primo millennio fino al 1870 soffermandosi su alcune prospettive sintetiche e personalità significative che hanno contribuito a sviluppare il concetto di teologia nella Chiesa e nella cultura italiana. Ovviamente l’ampiezza del periodo storico comporta necessariamente una serie di scelte opinabili, che necessitano di un ulteriore approfondimento e rimandano ad una bibliografia. È possibile riassumere questo lungo periodo in due tappe: 1) Storia della teologia e teologia della storia. Partendo dalla necessità di comprendere e proporre le verità fondamentali della fede cristiana, la teologia ha acquistato, all’interno dello sviluppo storico-socio-culturale della penisola italiana, un ruolo sempre più strutturato e sistematico con lo scopo di evangelizzare l’impero romano e le popolazioni barbariche e per consolidare il ruolo della Chiesa e del vescovo di Roma, dopo lo scisma d’Oriente e la nascita dello Stato pontificio. Questo ha reso possibile la formazione di una teologia cristiana, come disciplina centrale nel Medioevo, soprattutto con la Scolastica; 2) Lo sviluppo della teologia verso l’unità d’Italia. Il rinascimento, la riforma protestante, la riforma cattolica, la nascita e lo sviluppo del mondo moderno con l’illuminismo, l’unità d’Italia, il concilio di Trento e il concilio Vaticano I sono il contesto storico-culturale, nel quale si è formata e strutturata la teologia apologetica e giustificativa dell’ottocento in Italia. Queste due tappe fanno da cornice ad altri fondamentali passaggi, che giustificano la formazione di una teologia cristiana, che condurrà la Chiesa a celebrare il concilio Vaticano I, mentre l’Italia raggiungerà la sua unità politico-amministrativa.

Storia della teologia e teologia della storia: la storia come luogo “teologico”. I contenuti della teologia hanno una loro autonomia e oggettività, tuttavia sono anche il risultato di una riflessione e di una ricerca che ha avuto come protagonisti soggetti differenti, che hanno accolto e studiato la realtà secondo sensibilità culturali diverse. Interpellati da esigenze concrete i primi Padri della Chiesa e i teologi del secondo II° hanno iniziato una riflessione credente, attenta alla storia e alla cultura dei diversi popoli, per elaborare un linguaggio adeguato all’annuncio del Vangelo di Gesù Cristo ai diversi popoli, per chiarire la canonicità dei libri della rivelazione e il valore della tradizione orale, soprattutto in riferimento all’insegnamento degli apostoli. Tutto questo processo ha avuto bisogno di tempo. Su di esso hanno influito molteplici fattori storico-ambientali, socio-ecclesiali e interpersonali. Questo processo, anche se non se ne possiede una precisa documentazione, ha trovato un proprio sviluppo nella penisola italiana, in parallelo con l’azione missionaria e con la graduale diffusione della comunità cristiana sul territorio, a cominciare da Roma, fino all’intero Impero romano. Di questo processo si trova testimonianza nella lettera di S. Paolo ai Romani, nella lettera di S Pietro e nel loro martirio a Roma. I rappresentanti della teologia apologetica dei primi secoli dell’era cristiana, oltre a volersi confrontare con alcune personalità significative della società e della cultura, latina e greca, presenti a Roma, hanno accolto ed elaborato una visione della storia e della filosofia positiva, anche se segnata dall’idolatria e dal paganesimo, in quanto inserita in una concezione credente della storia, in una teologia della storia della salvezza, come “preparatio evangelica”, al pari dei profeti dell’Antico testamento. Lo Spirito Santo, che illumina i discepoli di Cristo e guida la riflessione della Chiesa, ha condotto i profeti dell’antica alleanza e i sapienti del mondo pagano all’incontro e al confronto con la fede cristiana. La teologia dei primi secoli accoglie, valuta e discerne, da una parte, la rivelazione nella sua dinamicità e nel suo sviluppo e, dall’altra, la presenza e l’azione dello Spirito Santo nella storia degli uomini.

Il primo elemento che una storia dello sviluppo della teologia in Italia può evidenziare è la presenza nei primi secoli della Chiesa, di diversi livelli di riflessione teologica: l’approfondimento e la difesa del contenuto della fede (cristologico e uni-trinitario); la definizione della verità cristiana; l’incontro e lo scontro tra la riflessione patristica e teologica e il contesto socio-culturale del mondo pagano; l’elaborazione e la proposizione significativa della fede cristiana. Le prime elaborazioni teologiche sono il frutto della sinergia di queste riflessioni necessarie per l’azione missionaria e evangelizzatrice della Chiesa nell’Impero romano e all’interno della cultura latina. La presenza sul territorio italiano della città di Roma, capitale dell’impero romano, e sede del vescovo di Roma, successore di Pietro (elemento oggettivo, storico e geografico) ha condizionato necessariamente lo sviluppo della Chiesa cattolica e la stessa riflessione teologica intorno ad alcune questioni dottrinali e dell’istituzione ecclesiastica. Il dibattito tra alcune significative personalità della Chiesa sul territorio della penisola, Ippolito, Clemente romano, Giustino, Ambrogio, Leone Magno, ha influenzato fin dagli inizi la teologia in Italia (elemento soggettivo). In questa prospettiva una storia della teologia non può prescindere né dagli eventi storico-culturali né dalla stessa disposizione geografica e territoriale, ma deve tener presente l’insieme di tutti i fattori per presentare in modo adeguato la riflessione credente intorno a questioni teologiche fondamentali come il primato e l’infallibilità del Papa, il simbolo di fede niceno-costantinopolitano e l’aggiunta del Filioque; la nascita e lo sviluppo del potere temporale e dello Stato pontificio; il concilio e i sinodi generali e particolari; la lotta contro le eresie e la definizione di alcuni fondamentali dogmi della fede cristiana. Questa contestualizzazione del dato teologico, quest’attenzione della storia della Chiesa e della teologia al territorio, permette di giustificare le elaborazioni teologiche di quest’epoca e di comprendere alcune verità di fede. I Padri della Chiesa latina e gli altri teologi, che hanno operato sul territorio della penisola, hanno elaborato una metodologia teologica, attenta alla cultura e alla storia dei popoli sul territorio peninsulare. La teologia, elaborata nei primi secoli (II-III secolo d.C.), di fatto, è il frutto dell’azione di tre dimensioni, che hanno inciso sui primi passi della teologia cristiana e l’hanno resa ciò che è attualmente: la dimensione della fede, che rimanda alla rivelazione; la dimensione storico-culturale, che fa riferimento al mondo greco e latino e contribuisce all’opera di inculturazione della fede; la dimensione socio-ecclesiale, che permette alla Chiesa di formare cristiani adulti, capaci di “dare ragione della fede”.

In questa prospettiva la teologia cristiana, e in particolare l’apologetica ha cercato di rispondere ad eresie come l’arianesimo e il pelagianesimo, che potevano vanificare o distruggere l’originalità delle fede cristiana, anche grazie all’opera di Gregorio Magno e S. Ambrogio; si è occupata dell’organizzazione istituzionale ed ecclesiastica della Chiesa e della soluzione di questioni pratiche e giuridiche. Questo percorso ha condotto la teologia ad appropriarsi di alcuni termini della cultura e della tradizione latina e romana, di alcuni concetti filosofici dei pensatori pagani e di alcune esperienze amministrative dello stesso Impero romano, in particolare, dopo l’editto di Costantino (313 d.C.) e di Teodosio (391 d.C.). Questi primi secoli sono caratterizzati dalla volontà di valorizzare la singolarità della salvezza cristiana rispetto agli altri culti e alle altre impostazioni filosofiche, morali e giuridiche. La riflessione teologica nella penisola italiana diventa feconda e vivace attraverso l’azione di importanti pensatori cristiani e lo svolgimento di sinodi e concili, locali e regionali. La teologia fino alla riforma protestante tenta di strutturarsi all’interno di una legittima mediazione, culturale e teologica, legata ai diversi ambienti sociali. Questa interrelazione ha permesso alla fede cristiana di diventare significativa e rilevante a livello personale e sociale, ecclesiale e civile nel primo millennio. D’altronde l’attenzione all’uomo e alla sua salvezza è stata la ragione principale dell’evangelizzazione e della ricerca teologica. La teologia è nata e si è sviluppata come tentativo di proporre la credibilità della rivelazione cristiana, l’originalità del mistero di Dio e di Cristo, la singolarità della salvezza e la peculiarità della mediazione della Chiesa e dei suoi sacramenti.

La formazione di una teologia cristiana fino al IX secolo: l’inculturazione della fede nell’Impero romano d’Occidente e tra i nuovi popoli barbari. Dopo la pentecoste, con il martirio di Stefano a Gerusalemme e la conversione di Paolo (30-31 d.C.), gli apostoli e i primi cristiani iniziano il loro pellegrinaggio lungo le strade del mondo. Interpellati dalle culture e dai diversi popoli e motivati dalle decisioni dell’assemblea di Gerusalemme (At. 15, 22-29), testimoniano la possibilità di vivere la fedeltà all’annuncio di Gesù Cristo, con l’aiuto dello Spirito Santo, nel rispetto di alcuni precetti e nell’attenzione alla novità del dono definitivo della salvezza. Il riconoscimento di Gesù, Messia atteso e Signore risorto, è il fondamento della fede, della chiamata universale alla salvezza con il primato della grazia sulla legge. La fede in Gesù Cristo, Figlio di Dio, è la ragion d’essere della costituzione della nuova comunità dei cristiani, la Chiesa, fondata non più sull’antica legge, ma sulla nuova ed eterna alleanza e sul dono dello Spirito. Le prime eresie e le conseguenti chiarificazioni nella Chiesa primitiva riguardano le questioni dottrinali e morali, caratterizzanti la prospettiva cristiana rispetto all’ebraismo e al paganesimo: ebionismo, gnosticismo, manicheismo, montanismo, arianesimo, docetismo, pelagianesimo. I primi pensatori cristiani cercano, anche durante il periodo delle persecuzioni, di non concepire la fede cristiana come un evento solo culturale, religioso e filosofico, ma come un evento esistenziale. Per questo, per entrare nella comunità cristiana, è necessario un cammino iniziatico non magico, ma mistagogico. La natura popolare della proposta evangelica facilita la diffusione del cristianesimo e il dialogo con le altre religioni e concezioni filosofiche, presenti sul territorio imperiale. Per questo la nascita in questo primo periodo di numerose comunità cristiane è segno non solo di una vivacità missionaria, ma anche dottrinale e culturale.

A Roma la presenza dei cristiani è testimoniata dall’apostolo Paolo nella Lettera ai Romani, scritta verso l’anno 56 a Corinto (Rm. 15, 23). Invece, la Prima lettera di Pietro è scritta a Roma e inviata ai cristiani dell’Asia Minore. Il Vangelo di Marco, come è testimoniato da molte fonti, è composto nella città di Roma. Sia Pietro nel 65 d.C. che Paolo nel 67 d.C. circa subiscono il martirio sotto la persecuzione di Nerone (54-68). Questo imperatore, come ci ricorda Tacito († ca 117) condannò «una grande moltitudine di cristiani ad essere uccisi» (Annali, 15, 44). Svetonio (+ dopo il 130) (Vite dei Cesari, Nerone 16,2) riporta la notizia che l’imperatore Claudio (41-54) «espulse da Roma giudei, che erano in continua agitazione per istigazione di Cresto». Queste informazioni ci permettono di comprendere ciò che viene affermato in Atti 18,2: «Dopo questi fatti Paolo lasciò Atene e si recò a Corinto. Qui trovò un Giudei di nome Aquila, nativo del Ponto, arrivato poco prima dall’Italia, con la moglie Priscilla, in seguito all’ordinanza di Claudio che allontanava da Roma tutti i Giudei». Queste notizie dimostrano il fatto che a Roma, centro dell’Impero romano e fuori dalla penisola, esistono comunità cristiane, vivaci e missionarie. La comunicazione della fede caratterizza il ruolo del cristianesimo anche durante il regno dei Visigoti (418-711), degli Ostrogoti (489-552) con Teodorico il grande (489-526), dei Longobardi (568-774), prima ariani e persecutori dei cristiani fedeli alla tradizione niceno-costantinopolitana e, dopo l’editto di Rotari (652),divenuti cristiani ortodossi. E, infine, durante il regno dei Normanni, il filosofo Boezio (480 c.-524) ha avuto un ruolo fondamentale. La sua azione ha contribuito ad impostare una teologia aperta alla sensibilità dei popoli barbari, ormai amministratori e dominatori della penisola. Egli, come consigliere e maestro di palazzo di Teodorico, ha contribuito ad elaborare una teologia, capace di coniugare la cultura greco-latina e classico-cristiana con il germanismo.

Un altro aspetto, che deve essere tenuto presente, è il ruolo che il vescovo di Roma ha avuto in Occidente e particolarmente in Italia, in particolare con Leone Magno (440-461) e Gregorio Magno (590-604). Questo ruolo ha avuto un forte impulso dopo la decisione dell’imperatore Costantino di spostare la sede imperiale a Bisanzio in Oriente e in Occidente a Ravenna. Tuttavia, anche la discussione su alcune questioni teologiche e la necessità di stabilire una chiara tradizione apostolica, hanno contribuito a rinforzare il potere della Chiesa di Roma e del suo vescovo su tutte le altre sedi episcopali. In quest’ottica la teologia sul papato, dopo la donazione di Pipino (754 d.C.), re dei Franchi, diventa giustificativa di un primato e di una magistero non solo spirituale, ma giuridico e temporale sulla Chiesa universale. La stessa incoronazione di Carlo Magno a Roma da parte di Leone II (800 d.C.) di fatto è l’inizio di una nuova concezione teologica e giuridico-pastorale del papato e della Chiesa di Roma. È con questo gesto fortemente simbolico e politico che nasce il Sacro Romano Impero e la teologia della della «societas perfecta», la visione piramidale della Chiesa. La lotta dei regni cristiani contro l’Islam, contro i Saraceni, la guerra dei Normanni e la loro riconquista della Sicilia (1071-1072), la concezione monocratica, religiosa e politica della religione islamica rinforzano, di fatto, la visione teocratica medievale e la concezione ideologica, politica ed istituzionale della teologia cattolica, giustificando la persecuzione degli infedeli e degli eretici, persone considerate non solo pericolose per la purezza e per l’ortodossia della fede, ma anche per l’unità e l’armonia della società, per la sicurezza e l’ordine sociale, civile e religioso dell’Occidente. L’alleanza tra il trono e l’altare trova nella teologia del potere del papato, nell’idea della “sacra potestas” imperiale, nella salvezza delle anime e nella ricerca della vita eterna il fine di tutto l’impegno sociale e religioso della teologia.

La Chiesa di Roma e la formazione della teologia cristiana. A Roma è possibile ritrovare, già nel secondo secolo, un vivace dibattito tra le comunità ebraiche, il giudaismo ellenico (Filone) e le prime comunità cristiane, formate sia dai giudeocristiani sia da alcuni pagani convertiti. Al tempo stesso, dopo la definitiva separazione della Chiesa dalla sinagoga e la distruzione del tempio di Gerusalemme, si verifica una significativa chiarificazione e la peculiarità della visione religiosa cristiana rispetto alla religione ebraica e pagana. Indicazioni di questo dibattito sono presenti già nelle lettere di Pietro e di Paolo. In seguito si ritrovano nella Chiesa post-apostolica, nella Lettera di Clemente Romano ai Corinzi (circa 96 d.C.), nel Pastore di Erma e, ancora, nella seconda parte del secondo secolo nella riflessione patristica, apologetica (Giustino, Atenagora, Ireneo di Lione) e negli scrittori latini come Minuccio Felice, Tertulliano. In questa situazione alcune verità della fede cristiana che interessavano la dottrina e la morale della Chiesa di Roma e che richiedono un approfondimento: il mistero di Cristo e la sua identità divino-umana: la missione salvifica, cosmica e universale della Chiesa; il mistero di Dio, uno e trino, e l’identità personale e divina del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo; la missione della Chiesa e la sua costituzione gerarchica; la mediazione liturgico-sacramentale della salvezza; l’azione pastorale, caritativa ed evangelizzatrice della Chiesa.

Se il primo “tentativo teologico” conduce alla dottrina del Logos di Giustino (verso il 150 d.C.), il desiderio di elaborare un collegamento tra la rivelazione biblica e la filosofia greca si ritrova in Valentino, gnostico, e nella sua scuola verso il 140 d.C. in una cosciente, strutturata elaborazione teologica cristiana. Per riuscire a raggiungere una precisazione terminologica, fedele e rispettosa del dato rivelato ci vorrà, tuttavia, molto tempo e una vivace discussone all’interno della Chiesa. Le proto-eresie cristologiche e teologiche, che si sono sviluppate nello stesso ambiente cristiano, sono un segno del drammatico ma necessario percorso teologico, iniziato in un contesto particolare come l’Oriente con la necessità di un’attenta rielaborazione dottrinale e terminologica, per poter incidere su sensibilità diverse, radicate su un nuovo territorio come quello italiano. Roma fin dall’inizio è una città di immigrati e un «centro di incontro di personalità dotte». Il cristianesimo, che all’inizio si era sviluppato tra le classi più povere, con il passare del tempo comincia a suscitare interesse in alcune figure influenti dell’ambiente romano e della penisola italica. Le persecuzioni dei cristiani, prima legate a querele private (60-200 d.C.), poi apertamente indirizzare alla stessa organizzazione della Chiesa (200-249), e, infine, sistematiche e di massa, soprattutto sotto Decio, Valeriano e Diocleziano (249-305), non hanno, tuttavia, fermato lo sviluppo della Chiesa sul territorio né le discussioni teologiche e dottrinali della Chiesa. La teologia all’inizio cerca di fondare l’unicità della salvezza cristiana in alternativa alle altre teologie, ebraica e pagana. In seguito, dopo il riconoscimento ufficiale e la confessione pubblica della fede in Cristo, può concentrarsi sull’approfondimento, nel dialogo e nel confronto, con il patrimonio culturale greco-latino e romano (cfr. Col. 1, 12-20).

La teologia cristiana e la ricerca della formulazione di una fede ortodossa. L’editto di tolleranza dell’imperatore Galerio (311), l’editto di Milano con Costantino (313) e l’editto di Teodosio con il divieto dei culti pagani (391), trasformano il cristianesimo in religione ufficiale dell’Impero romano e sostengono ogni discussione teologica, al fine di sconfiggere le eresie ed estendere l’ortodossia. Per questo le assemblee conciliari e i sinodi sia in Oriente sia in Occidente, vengono favoriti dagli imperatori e dalla autorità civili e, in alcune occasioni, da loro stessi convocati. Le stesse dedizioni, dottrinali e disciplinari, vengono appoggiate e imposte dal potere politico. I concili generali e provinciali permettono ai papi, ai vescovi e ai teologi di discutere e condannare alcune eresie (l’arianesimo, la controversia apollinarista, il donatismo, i pneumatomachi, la controversia nestoriana, il pelagianesimo) e anche di sviluppare una fondamentale teologia sul mistero di Cristo e di Dio, sulla vergine Maria e sulla salvezza cristiana, a partire dai riferimenti biblici, dalla fedeltà alla tradizione e al magistero della Chiesa, nel dialogo con la cultura greco-latina e, in seguito, con i popoli barbari. Questo percorso teologico ha anche permesso di elaborare una professione di fede, ecclesiale, liturgica e battesimale. I molteplici concili sono stati preparati da un vivace dibattito teologico e hanno stimolato in seguito la ricerca e l’elaborazione teologica. Il primo concilio ecumenico si è svolto a Nicea (325) contro l’arianesimo; il secondo a Costantinopoli (381) contro i pnematomachi e i semiariani; il terzo a Efeso (431) contro il nestorianesimo; il quarto a Calcedonia (451) contro il monofisismo. Non sono di secondaria importanza per lo sviluppo della riflessione teologica gli altri concili ecumenici: il quinto a Costantinopoli II (553) contro i Tre Capitoli; il sesto a Costantinopoli III (680-681) contro il monotelismo e monoenergismo; il settimo a Nicea II (787) contro l’iconoclasmo; l’ottavo a Costantinopoli IV (869-870) per affrontare la controversia foziana. Questi importanti concili generali sono stati preceduti, preparati o recepiti da concili, che si sono svolti a Roma (368) e in altre importanti diocesi presenti nella penisola come per esempio a Milano (a partire dal 345), ad Aquileia (381), a Capua (382) e a Torino (398). Il cammino sinodale e conciliare della Chiesa in Italia trova il proprio riferimento in alcune personalità significative come i vescovi Lucifero di Cagliari; Eusebio di Vercelli, Dionigi di Milano, S. Zeno di Verona, papa Damaso (366-84), S Ambrogio e il suo successore Simpliciano, S Leone Magno, S Gregorio Magno e S Benedetto.

Il dibattito teologico del periodo post-costantiniano se ha contribuito a sviluppare la conoscenza della fede cristiana e la riflessione teologica, ha purtroppo giustificato un’ingerenza del potere civile all’interno di alcune questioni specificatamente religiose e dottrinali e, con il tempo, ha finito per facilitare l’uso strumentale della fede per interessi politici. La stessa teologia ha subito questa sorte, finendo per appoggiare e giustificare, in modo ideologico, alcune posizioni politiche e alcune correnti sociali. In questo la lotta tra l’arianesimo dei dominatori goti e longobardi (Odoacre e Teodorico) e l’ortodossia degli imperatori bizantini e del vescovo di Roma sono un esempio paradigmatico dell’uso strumentale e condizionante della teologia. Il riconoscimento ufficiale del cristianesimo ha anche favorito lo sviluppo di una molteplicità di sedi e diocesi e ha stimolato la riflessione teologica circa la funzione del ministero presbiterale, il ruolo del vescovo e del Papa e l’impegno della Chiesa nella difesa dei poveri e nella giustizia sociale. L’incremento della vita consacrata come testimonianza della sequela radicale di Cristo ha ritrovato nella stessa teologia un riferimento costante. La nascita della vita eremitica, cenobitica, monastica e religiosa ha espresso grandi figure di santi, di teologi e mistici, che con le loro opere e i loro scritti hanno influenzato la riflessione teologica, la spiritualità e la pastorale della Chiesa nel primo millennio.

L’affermazione del cristianesimo ha facilitato anche la nascita di alcune scuole teologiche come quella di Alessandria e di Antiochia, che hanno influenzato il dibattito teologico nella comunità di Roma e in altre sedi episcopali come Milano, la capitale del regno dei Longobardi, Aquileia e Ravenna, all’inizio bizantina e in seguito, dopo la conquista degli Ostrogoti, capitale del loro regno. È interessante la presenza all’interno delle Chiese di Roma, Aquileia e Milano di diverse correnti teologiche e, soprattutto, di differenti tradizioni rituali e liturgiche. A Milano la grande figura di S. Ambrogio (339-397) influenza notevolmente il rapporto tra la Chiesa e l’Impero. La teologia di Ambrogio, rivendicando la piena libertà nei riguardi del potere politico, sottolinea il valore della tradizione e la necessità della fedeltà alla Sacra Scrittura e al magistero della Chiesa e mette in evidenza la necessità di mantenere una costante relazione tra ciascuna verità della fede cristiana e il mistero di Dio, uno e trino. La Chiesa di Aquileia con il vescovo Teodoro (circa 308-315) ha un ruolo fondamentale per l’affermazione dell’ortodossia contro le eresie cristologiche e trinitarie. Nel 381 ad Aquileia viene convocato un concilio di 32 vescovi, nel quale è confermata la consustanzialità e la coeternità del Padre e del Figlio secondo la fede di Nicea. Alcune ragioni storiche e socio-ecclesiali sono all’origine dell’elaborazione di una teologia della funzione del vescovo di Roma soprattutto nella Chiesa d’Occidente: il cristianesimo come religione ufficiale, la funzione pubblica dei vescovi e dello stesso Papa, lo sviluppo del potere amministrativo e religioso, l’appropriazione di alcuni titoli religiosi e civili pagani (Sommo pontefice), la divisione dell’Impero romano, la celebrazione di importanti sinodi locali anche a Roma (il primo concilio è nel 252 presieduto dal papa Cornelio), il ruolo del vescovo di Roma nella diffusione del cristianesimo nell’Italia centrale e meridionale attraverso le vie consolari, la funzione del vescovo di Roma nelle controversie delle chiese locali, la costituzione dei regni barbarici e la loro lotta politica interna e con l’impero d’Oriente fino al drammatico scisma del 1054 tra Roma e Costantinopoli. Sin dai primi secoli sia i Padri della Chiesa sia i teologi hanno legato la funzione del vescovo di Roma al martirio, come garante della fedeltà al deposito della fede e come principio di comunione nella Chiesa, e alla testimonianza di fede degli apostoli Pietro e Paolo e alla presenza della loro tomba a Roma. In questo contesto il ruolo del vescovo di Roma diventa anche amministrativo e sociale, causando un’accentuazione della sua autorità, sia primaziale sia magisteriale, sulle altre chiese, trasformando un ruolo riconosciuto in un ruolo imposto. All’interno di questo sviluppo teologico-sociale il pontificato di Leone Magno (440-461) ha un influsso notevole. Si deve a Leone Magno l’attribuzione al vescovo di Roma del titolo di “vedetta” o “sentinella” per indicare la funzione di vigilantia, di sollecitudo e di auctoritas del Papa nei riguardi delle altre chiese: «Se non interveniamo con la vigilanza (vigilantia) che a noi spetta, non potremo scusarci presso colui che ha voluto che noi siamo la sentinella (qui nos speculatores esse voluit)» (Epist. 4,1 [PL 54, 610B]). Lo stesso Leone al termine “successore” preferisce quello di “vicario di Pietro” sulla sede di Roma, affermando che «il beatissimo apostolo Pietro non cessa di presiedere sulla propria sede» (Sermo 5,4 [PL 54, 153-155]). Gregorio Magno (540-604 d.C.), dopo aver seguito la carriera politica ed essere diventato prefetto di Roma, avendo abbandonato tutto per seguire la vita monastica, è ordinato diacono e inviato come legato pontificio a Costantinopoli. Questo percorso di vita permette di comprendere il valore del suo ministero come Papa. Eletto nel 590 d.C. si dimostra vero pastore della Chiesa nella cura dei poveri e nella diffusione della fede. La sua formazione giuridica e politica e la conoscenza della Chiesa d’Oriente lo rendono anche un buon amministratore e un fine diplomatico a servizio del bene della Chiesa universale. La formazione monastica e la cultura teologica gli permettono di scrivere molti trattati di morale e di teologia, che hanno influenzato la riflessione e il magistero dei secoli seguenti. Altri eventi che contribuiscono a sviluppare il ruolo del vescovo di Roma e a consolidare una teologia del papato, sono: l’appoggio dato al monachesimo benedettino e alle missioni nella penisola italiana e nel continente europeo come la missione scoto-irlandese, la missione anglosassone e la missione franca.

La teologia monastica e l’edificazione della «societas cristiana». La possibilità per la teologia cristiana di esprimere la propria capacità di assimilazione, di stimolo e di integrazione nei riguardi delle diverse culture trova nel monachesimo in Occidente un’esperienza significativa e incisiva. Il monachesimo viene portato nella penisola verso la metà del IV secolo da Atanasio (295-373) durante il suo esilio a Roma. Tuttavia sia Cassiodoro (490c.-583) in Calabria con la redazione della sua «enciclopedia», che Benedetto (480-547) contribuiscono allo sviluppo del monachesimo nella penisola italica. La vita e la teologia monastica nascono come tentativo di coniugare lo stile di vita agricola, comunitario e familiare, con la cultura classica, la proposta cristiana e la sapienza greco-latina. Si cerca di superare la semplice ripetizione degli schemi classici rispetto ad alcuni nodi antropologici, sociologici e teologici fondamentali come la relazione tra ragione, volontà e fede, tra intelletto e amore, tra il valore della persona con i suoi diritti individuali e il valore della comunità dei credenti e della comunione dei popoli, tra la libertà degli individui e dei credenti e l’autorità del capo come guida della comunità. L’esperienza e la teologia monastica hanno sviluppato un percorso possibile intorno a questi nodi tematici, secondo il modello gnostico-sapienziale della tradizione biblica e patristica. Esso caratterizzerà l’alto-medioevo e la rinascita benedettina e giustificherà con Carlo Magno la riforma carolingia. I monasteri con lo sviluppo delle attività religiose e sociali e la diffusione su tutto il territorio, diventeranno il centro dello sviluppo culturale, ecclesiale, sociale e teologico del periodo che condurrà al rinascimento. L’impostazione monastica, rispondente alla Regola di Benedetto, diventa un modello per la stessa organizzazione feudale della società e della Chiesa. Nel monastero, piccola cittadella e micro-società autosufficiente, l’insieme delle attività spirituali, pratiche ed economiche («ora et labora») trova una sua unità e armonia a partire dai principi della teologia cristiana. Nonostante la distruzione e le successive ricostruzioni del monastero di Montecassino (fondato verso il 529, distrutto dai Longobardi nel 581 d. C. e dai Saraceni nell’883d.C.) il monachesimo di Benedetto trova un grande sostenitore in Gregorio Magno. Quando nel 774 a Susa il sovrano franco Carlo Magno sconfigge i Longobardi, la rinascita benedettina diventa l’anima della stessa rinascita culturale e religiosa carolingia. La «societas cristiana», modello profetico e anticipazione del regno di Dio sulla terra, troverà nella forma monastica un segno concreto, sul quale si modellerà la «societas medievale». In questa prospettiva teologica e socio-culturale l’essere cristiano e l’essere cittadino diventa coincidente, in una visione d’armonia antropologica, sociale, religiosa ed ecclesiale.

La teologia, il Sacro Romano Impero e la Chiesa medievale (secc. IX-XIII). Dopo che Odoacre aveva deposto l’imperatore Romolo Augustolo e mandato le insegne imperiali all’imperatore d’Oriente, che gli aveva accordato il titolo di Patrizio Romano e aveva sancito la fine dell’Impero romano d’Occidente, diverse popolazioni del nord avevano invaso e saccheggiato la penisola. La Chiesa con la sua struttura sul territorio era stata nella concretezza della vita quotidiana, l’unico punto di riferimento per coloro che abitavano le città e i villaggi. I monasteri, come cittadelle fortificate, erano diventati centri non solo religiosi ma anche civili per la difesa di tutti coloro che risiedevano nella penisola e nelle isole. La conversione poi di alcuni re barbari al cristianesimo (gli Ostrogoti e, in seguito, gli ariani Longobardi all’ortodossia) di fatto aveva consolidato l’influenza della Chiesa sul potere politico e sulla stessa amministrazione civile. L’incoronazione il 25 dicembre dell’800 di Carlo Magno da parte di papa Leone III (783-816) nella Chiesa di S. Pietro, induce la possibilità di realizzare una nuova unità tra il potere civile e il potere religioso, che si era spezzata con la fine dell’Impero romano d’Occidente. La rinascita carolingia permette di realizzare un nuovo e grande impero in Occidente, sotto l’influenza cristiana e con la sacra benedizione del vescovo di Roma: il Sacro Romano Impero. I Franchi fin dall’inizio legano strettamente il loro potere alla difesa del cristianesimo sui loro territori: il re franco Clodoveo nel 496 era stato battezzato a Reims, Carlo Martello a Poitiers aveva sconfitto nel 732 gli Arabi. Pipino il Breve, unto re dal papa Stefano II (752-757), riconosce i possedimenti e i lasciti ereditati dalla Chiesa di Roma per la convenzione di Milano nel 313 d.C. E vi aggiunge nel 754 d.C. anche l’esarcato di Ravenna e la Pentapoli. Con questa Donazione, con la seguente estensione dei possedimenti pontifici nell’Italia centrale, si costituisce un influente ed esteso Stato della Chiesa nella penisola. Il potere temporale del pontefice, la sua influenza sia sul regno dei Franchi, sia nel X secolo, sul regno degli Ottoni si consolida con Gregorio VII (1073-1085 d.C.). Lo scisma tra Roma e Costantinopoli nel 1054, la lotta di Gregorio VII contro Enrico IV, la riconquista normanna della Sicilia (1071-1072 d.C.), l’elezione del Papa da parte dei cardinali e il grande concilio di Piacenza del 1095, con le sue decisioni riguardo al rapporto tra i vari gruppi nella Chiesa, l’indizione della Prima Crociata e la relazione della Chiesa con l’imperatore tedesco contribuiscono a sviluppare una teologia del papato e della Chiesa secondo una visione societaria, piramidale e gerarchica. Essa pone al centro di ogni elaborazione teologica il principio dell’autorità e l’origine divina del potere civile. Tale autorità è anche il principio unitario ed armonico della missione della Chiesa nel mondo e della pace sociale. L’incidenza storica del binomio Sacerdotium-Regnum, propria della teologia carolingia, dove l’imperatore in terra è l’immagine analogica della monarchia celeste, giustifica la concezione secondo la quale Chiesa forma con il potere regale un’unica “societas” cristiana.

La teologia nel periodo medievale. Nel periodo che gli storici definiscono alto Medioevo (692-1073) e basso Medioevo (1073-1294) non solo si estende il potere spirituale, culturale, amministrativo e socio-politico della Chiesa sul territorio della penisola, ma la stessa disciplina teologica, nell’alto Medioevo, si struttura, si sviluppa e progressivamente, come la Chiesa-istituzione, diventa: a) teologia confessante, di palazzo, legata agli interessi e alle esigenze storico-culturali (esempi evidenti sono: l’aggiunta del «Filioque» nel Simbolo niceno-costantinopolitano e il concilio generale franco del 794 d.C. che respinge i decreti del concilio di Nicea del 787 d.C. sul senso e sulla la liceità delle immagini); b) teologia mistica, religiosa e spirituale, che si sviluppa nei monasteri e afferma il primato della dimensione trascendente sulla realtà storica e sociale. Nel basso Medioevo, invece, la teologia si caratterizza come c) teologia scolastica, che contribuisce a conservare e a consolidare la visione gerarchica e piramidale della Chiesa e della stessa conoscenza umana con la ricerca di un metodo filosofico-teologico particolare, presso le grandi Università vicine ad alcune importanti cattedrali medievali, cercando di penetrare razionalmente nel patrimonio della fede cristiana; d) teologia monastica, che continua comunque a sviluppare la riflessione teologica attenta alla dimensione spirituale e esistenziale, che rimanda alle grandi Scuole dei monasteri e alla spiritualità dei nuovi ordini religiosi .

La teologia scolastica con le Summae nel tentativo di conciliare la scienza con la fede, le due fonti, la ragione umana e la rivelazione, la dialettica critica e quella argomentativa, di fatto elabora un metodo sistematico ed enciclopedico, capace di giustificare il patrimonio della fede, l’autorità del magistero del Papa e difendere la libertà della Chiesa in rapporto ad ogni altro potere umano e dialogare con le altre tradizioni e culture, anche con quella islamica. La teologia monastica, invece, afferma l’ortodossia della fede seguendo la via della spiritualità dell’Amore, l’accoglienza obbediente e adorante della rivelazione, il riconoscimento della regalità divina e l’attesa escatologica del regno di Dio. La teologia nel basso Medioevo giustifica teoricamente l’armonia tra il potere temporale e il potere spirituale e contribuisce a costruire una visione sacrale della storia, una visione unitaria tra la città degli uomini e la città di Dio, dentro la quale la Chiesa terrena è chiamata ad essere una profezia e un segno visibile del Regno. È la teologia confessante del primato di Dio, creatore e redentore dell’universo. La teologia e il cristianesimo sono, in questa prospettiva, il vertice di ogni conoscenza umana e di ogni evento terreno. La civiltà e la cultura feudale non sono solo un modo di concepire il potere civile, ma anche una visione teologica. Tale visione è cristiana, in quanto il mistero di Cristo è il centro della rivelazione e della pienezza della storia; è gerarchica, perché ordinata secondo alcuni criteri precisi, rivelati da Dio; è piramidale, dal momento che riceve dall’alto i propri principi veritativi (discendenti e ascendenti); è ideologica, in quanto, anche se si esercita nel rispetto della ragione umana, non può prescindere dalla rivelazione e deve essere accolta nell’obbedienza della fede; è sistematica e totalizzante, perché cerca e propone una sintesi omni-comprensiva della realtà cristiana, come riflesso della sintesi tra la trascendenza della storia divina e l’immanenza della storia umana.

La Chiesa e la cultura medievale italiana: la teologia e le eresie. La teologia scolastica e la teologia mistica e monastica hanno, a loro modo, contribuito alla sintesi medievale, alla visione unitaria e sacrale della cultura occidentale, al ruolo prioritario della Chiesa di Roma e del suo vescovo, il Papa. Nel periodo fino al XIII secolo la «confessio fidei», che la teologia, i concili e il magistero episcopale hanno contribuito a determinare e precisare, diventa «professio fidei» e soprattutto «doctrina fidei». Compito della teologia, in obbedienza al magistero della Chiesa, è la difesa della dottrina cattolica; suo scopo principale è quello di precisare e conservare l’ortodossia della fede, il primato e l’autorità del romano pontefice, costituito e stabilito per istituzione sacra e divina, contro le eresie e i diversi attacchi da parte del potere civile o religioso: «l’auctoritas fidei» diventa «potestas fidei». I concili di Roma sono una testimonianza evidente di questa concezione: il Lateranense I (1123) affronta la questione delle investiture, della simonia e degli altri abusi; il Lateranense II (1139) tenta di risolvere lo scisma di Anacleto II e condanna il radicalismo di Arnaldo da Brescia, avversario del potere temporale; il Lateranense III (1179) combatte il Catarismo e stabilisce nuove norme per l’elezione del Papa; il Lateranense IV (1215) condanna l’eresia degli Albigesi e dei Valdesi. Il sinodo Lateranense del 1059, con la sua decisione di stabilire il monopolio dei vescovi-cardinali delle chiese suburbicarie di Roma sull’elezione del Papa, elimina il ruolo del clero, del popolo romano e dello stesso imperatore e di fatto, influisce sulla visione teologica e pastorale dello stesso papato fino ad oggi. La teologia dei secoli X-XIII comprende una molteplicità di personalità significative, che hanno influito, in modi e in ambiti differenti, alla riflessione teologica e culturale nella Chiesa, in Occidente e nella cultura italiana. Particolarmente la teologia scolastica può essere suddivisa in quattro periodi: il periodo pre-scolastico (800-900) con Giovanni (Scoto) Eriugena (810 circa-877 circa), considerato il più grande filosofo altomedievale; il periodo iniziale della Scolastica (1000-1200) con Anselmo di Canterbury (1033-1109), il padre della Scolastica, e Pietro Abelardo (1079-1142); l’età d’oro della Scolastica (1200-1280) con Alberto Magno (1193- 1280), Bonaventura da Bagnoreggio (1221-1274); e con Tommaso d’Aquino (1224-1274); l’ultimo periodo della Scolastica (1280-1400) con Duns Scoto (1266-1308), Maestro Eckhart (1260-1327) e Guglielmo di Ockham (1280-1349). Non si possono dimenticare, poi, Bernardo di Chiaravalle (1090-1153), Caterina da Siena (1347-1380): la loro teologia risente della vita monastica e della dimensione mistica della Chiesa dell’epoca medievale.

Lo sviluppo della teologia verso l’unità d’Italia. Nel XIII secolo nascono una molteplicità di nuovi luoghi di formazione e di elaborazione del pensiero teologico, si creano spazi di dialogo tra le diverse sensibilità culturali all’interno dell’unica visione cristiana della vita e della società: “la fine del Medioevo è corrisposta in Occidente all’avvento di una nuova figura del sapere, e si può pensare che la figura del mondo ne è risultata cambiata, per il meglio e per il peggio. Sapere e spiritualità sono stati separati. Si tratta di una distinzione benefica o di un taglio rovinoso? La novità, ad ogni modo, ha permesso un diverso rapporto con la realtà, lo sviluppo della logica e delle scienze sperimentali, e poi il progresso della tecnica. In breve, l’essenziale della modernità. A.N. Whitehead pensava che le conoscenze scolastiche avevano aperto la strada che portava alla rivoluzione industriale (…). Nel Medioevo, si osserva chiaramente nell’aula universitaria il passaggio da un tipo di insegnamento in cui la ricerca della verità è un esercizio spirituale, che coinvolge totalmente il maestri e il suo discepolo, ad un altro modo più specifico, nel quale il teologo non è più un maestro spirituale, bensì un esperto che, grazie alla sua erudizione e al suo rigore, illumina come dal di fuori la vita cristiana” (Jean-Yves Lacoste (ed.), Storia della teologia, Queriniana , Brescia 2011, 196). I monasteri, prima, e le cattedrali, in seguito, diventano i luoghi non solo della preghiera e della vita liturgica, spirituale ed ecclesiale, ma anche della trasmissione e dell’approfondimento culturale e teologico. Si inizia a creare una visione condivisa, che può essere indicata come italiana, che precede quella politico-istituzionale e che si manifesta, progressivamente, con la creazione di una lingua comune “volgare” e con una Chiesa unita, piramidale e gerarchica, sotto il vescovo di Roma.

La teologia conflittuale e giustificativa: dal XIII secolo alla crisi di Lutero (1517). Nel duecento e nel trecento nascono le Università, insieme ad una molteplicità di altri centri di cultura teologica e filosofica, di ricerca scientifica e di elaborazione artistica e letteraria. Questi centri sono aiutati economicamente dalla nascente borghesia comunale e dalle famiglie influenti, che, attraverso il sapere, tentano di acquisire potere e prestigio sociale. Questa relazione tra potere e cultura interesserà anche la Chiesa e lo Stato pontificio. Lo sviluppo culturale e teologico sarà legato non solo ad alcune singole personalità, ma anche ad alcuni nuovi ordini religiosi, che nasceranno e si svilupperanno in questo periodo come i domenicani e i francescani. La massima espressione del potere pontificio,tuttavia, si avrà durante il pontificato di Bonifacio VIII con la bolla “Unam Sanctam” (1302) e con il primo Giubileo (1300). Egli, attingendo alle tesi tradizionali di Bernardo di Chiaravalle, di Ugo di San Vittore, di Innocenzo III e di Tommaso d’Aquino, cercherà di giustificare una visione ierocratica del papato. Ma la situazione socio-politica ed ecclesiale è ora molto diversa dalla concezione unitaria e piramidale del periodo medievale. Le autonomie locali, la frammentazione del Sacro Romano Impero, lo scontro tra i principi, i Comuni, le Signorie; le divisioni all’interno della Chiesa, la lotta per le investiture e il dramma della simonia, tutto questo logora la concezione unitaria medievale e la stessa supremazia del Papa sulla Chiesa e sull’Impero. Mentre fuori dalla penisola italiana si formano rapidamente gli Stati-nazione, si dovrà aspettare molto più tempo per riuscire a riunire l’Italia sotto un’unica amministrazione nazionale. Tuttavia già la lotta dei Comuni contro gli invasori può essere considerata come la manifestazione di una reale e cosciente tensione all’unità religiosa, culturale e civile, anche se non ancora politica e istituzionale. Paradossalmente la comune sensibilità religiosa, cristiana e cattolica, se da una parte, a causa della presenza dello Stato pontificio, ha rallentato l’unità d’Italia, dall’altra è stata la ragione profonda dell’unità stessa come dimostra il pensiero di Gioberti. La penisola italiana dal XIII° al XV° secolo vive un periodo economicamente e culturalmente vivace. In questo periodo si pongono le premesse per uno spirito comune, che, dopo la caduta dell’Impero romano, si era perso. L’Umanesimo e il Rinascimento, con la riscoperta della classicità, contribuiscono notevolmente a rianimare le radici profonde della comune “romanitas” e di un cristianesimo profondamente latino e classico. L’idea teologica di un cristianesimo fonte d’ispirazione e di civilizzazione del mondo e della Chiesa romana, centro della Chiesa universale, una, santa, cattolica, apostolica e romana guida le drammatiche vicende del cristianesimo fino all’unità d’Italia. La stessa idea risorgimentale dello Stato pontificio come centro di una possibile confederazione degli Stati si comprende in questa prospettiva. I papi del XV° e XVI° secolo come Alessandro VI, Giulio II, Leone X, al di là del loro ruolo spirituale ed ecclesiale, con la loro azione diplomatica, militare e politica, assecondano l’influenza straniera in nome di un’autonomia della Chiesa.

La riflessione teologica, rispetto al primo millennio, passa da una prospettiva difensiva e dichiarativa, che tenta di approfondire e definire il contenuto essenziale della fede cristiana e cattolica (il mistero di Cristo e del Dio cristiano) ad una visione teologica predominante, che punta sulla difesa dell’autorità del   ‘soggetto/ai soggetti’ che professano la fede cristiana. La teologia si pone dal secolo XIII° fino al XIX° secolo la questione dei soggetti legittimi, che sono autorizzati a trasmettere, interpretare e testimoniare la fede come magistero gerarchico, come singoli credenti e come comunità cristiana. La teologia tenta di giustificare la struttura istituzionale della Chiesa cattolica, sostenendo che la salvezza cristiana si riceve attraverso la mediazione della Chiesa, nella professione della vera fede, nella celebrazione dei sacramenti e nell’obbedienza ai legittimi pastori, successori degli apostoli, e al Papa, vicario di Pietro. Questo passaggio di attenzione dalla riflessione teologica sul contenuto della fede ai soggetti della comunicazione della fede rinsalda la questione sull’auctoritas e sulla potestas nella Chiesa, sul ruolo del vescovo di Roma e degli altri vescovi. L’espansione dei nuovi ordini religiosi mendicanti, delle confraternite e, in seguito, di altri movimenti religiosi e la loro azione nell’ambito della riflessione teologica, dell’impegno caritativo, dell’istruzione e della formazione del popolo hanno facilitato il radicamento di una visione culturale e sociale unitaria, cristiana e popolare. L’appoggio di diversi pontefici ai nuovi movimenti religiosi hanno rafforzato la tendenza alla centralizzazione romana e hanno assicurato, dal punto di vista teologico, una rinnovata visione verticistica dell’autorità del Papa sulla Chiesa in Italia e sull’intera cristianità. Lo sviluppo della Chiesa di Roma nei secoli fino al concilio di Trento e, in seguito, fino e dopo il Vaticano I ha giustificato una teologia manualistica ed apologetica, non solo post-patristica ma anche post-scolastica.

L’opera di Melchiorre Cano (1505-1560), «De locis theologicis libri duodecim», pubblicata incompleta dopo la sua morte nel 1563 e ristampata trenta volte fino al 1980, non solo fonda la metodologia teologica sul “principio di autorità”, ma estende anche a dieci i “loci”, le fonti della ricerca teologica: «i primi sette sono propriamente teologici (autorità della Scrittura, della Tradizione, della Chiesa cattolica, dei Concili, della Chiesa romana, dei Padri, dei teologici scolastici e canonisti), mentre gli altri tre sono argomenti di ragione (ragione naturale, autorità dei filosofi e ella storia (…) Dall’impostazione teologica di Cano è pervenuta in sostanziale continuità la figura della teologia manualistica in uso in tutte le scuole accademiche di teologia prima del Vaticano II» (Guido Pozzo,La manualistica, in Storia della teologia. 3. Da Vitus Pichler a Henri de Lubac a cura di Rino Fisichella, ED-EDB, Roma-Bologna 1996, 311-312) Le fonti della teologia, in questo modo, si sono strutturate in ordine alla difesa del potere e dell’autorità del magistero gerarchico della Chiesa cattolica romana e in funzione del servizio del ministero del Papa in contrapposizione al conciliarismo ed alle altre forme di autonomia episcopale, laicale e nazionale come il gallicanesimo, il febronianesimo e l’episcopalismo. La caduta di Bisanzio (1453), il saccheggio dei turchi di Maometto II e la lotta contro il pericolo islamico hanno contribuito a concentrare l’attenzione sul potere del vescovo di Roma. La stessa teologia ha contribuito nell’ambito della riflessione sistematica, spirituale, morale e giuridica dei secoli XIV° e XVI°, a spingere alcuni pontefici a cercare di impostare una riforma all’interno della Chiesa e difendere una teologia giustificativa. Le illusorie dichiarazioni di riforma della Chiesa, invece, durante il pontificato di Leone X (1517) aprono le porte alla protesta teologica e istituzionale di Martin Lutero (1483-1546), che il 31 ottobre 1517 affligge sulle porte del duomo di Wittemberg le 95 tesi contro il commercio delle indulgenze e la mondanità nella Chiesa. Lutero vuole così riproporre la purezza del Vangelo rispetto ad ogni riflessione teologica, che si è allontanata dalla fedeltà alla sorgente della fede: la Parola di Dio e il Cristo, unico Maestro e Signore. Per Lutero è necessario ribadire il primato della fedeltà e della grazia di Dio, che giustifica e salva nella sua libera e sovrana volontà. Nell’impostazione di Lutero e dei Riformatori l’attenzione alle istituzioni visibili della Chiesa, propria della prima parte del secondo millennio, viene superata dal tentativo di riportare la riflessione biblica al centro della riflessione teologica. Il primato di Cristo e l’azione misteriosa e permanente dello Spirito Santo sono la ragione della “communio sanctorum”. La stessa traduzione nella lingua tedesca della Bibbia certamente contribuisce ad avvicinare i cristiani alla fede in Cristo, a smascherare le interpretazioni strumentali e le evidenti incoerenze della Chiesa ufficiale, spesso compromessa con il potere civile e politico. Tuttavia il terremoto protestante non solo conduce la Chiesa a riprendere seriamente il tentativo di riforma, ma anche a rivisitare le problematiche e le questioni teologiche aperte nella polemica con la teologia dei Riformati. Il concilio di Trento (1545-1563), i teologici post-tridentini, le Congregazioni come i Gesuiti e la stessa Scuola romana cercano di impostare una nuova teologia, capace di arginare le obiezioni protestanti, ma, al tempo stesso, finalizzata a fondare le affermazioni tridentine sulla tradizione della Chiesa cattolica, per tentare una riforma in campo dottrinale, istituzionale e pastorale.

Dal concilio di Trento (1545-1563) al concilio Vaticano I (1869-1870): la teologia apologetica e controversista. Sul territorio italiano, per una molteplicità di fattori, la riforma protestante non ha avuto una diffusione significativa come è accaduto in altre nazioni del nord-Europa. Tuttavia, nelle diverse diocesi era chiara sia tra i vescovi sia tra i fedeli cristiani la percezione della necessità di una riforma nei riguardi della vita morale e spirituale, della teologia e delle stesse istituzioni ecclesiastiche. Per questo prima e durante lo svolgimento del concilio di Trento le richieste teologiche e pastorali, che erano state nella Chiesa cattolica sollecitate dal movimento riformatore, sono diventate le esigenze del rinnovamento della stessa Chiesa. In particolare il desiderio di una più coerente e profonda spiritualità, il superamento di una visione formale della vita cristiana, la ricerca di una maggiore fedeltà al vangelo di Gesù Cristo e alla Bibbia, la purificazione della teologia da un’esagerata influenza aristotelica, l’abbandono di un tomismo e di una scolastica, lontane dal contatto con le fonti patristiche e con la Rivelazione e, infine, la volontà di ritornare all’antica tradizione della Chiesa cattolica, sono le esigenze che trovano una loro prospettiva di analisi teologica nelle opere spirituali e teologiche di alcune importanti autori dal XV° al XVI°: Caterina da Genova (1447-1510), Girolamo Savonarola (1452-1498), Paolo Giustiniani (1478-1528), Vittorino da Feltre (1373 o 1378 -1446), Bernardino da Siena (+ 1444), Carlo Borromeo (1538-1585), Filippo Neri (1515-1595), Girolamo Emiliani (1486-1537), Gaetano da Thiene (1480-1547), Egidio da Viterbo (1469-1532), Seripando (1493-1563), Jacopo Sadoleto (1477-1547), Gasparo Contarini (1483-1542), Reginald Pole (1500-1558) Non si possono dimenticare anche alcuni importanti fondatori di Congregazioni religiose, che, in questo periodo, operano nel campo dell’istruzione, della formazione religiosa e spirituale, dell’assistenza materiale e ospedaliera del popolo. Queste figure insieme al rinnovamento spirituale della «devotio moderna» contribuiscono a preparare, a stimolare e ad attuare le decisioni rinnovatrici del concilio di Trento.

Prima e durante il concilio di Trento, nelle riflessioni teologiche del domenicano Tommaso de Vio ( 1468-1547), del gesuita Roberto Bellarmino (1542-1621) e, in seguito, di molti altri teologi e vescovi fino al concilio Vaticano I, è possibile cogliere alcune linee fondamentali di tendenza, che determinano una scuola teologica in Italia. I rappresentanti principali della teologia della Compagnia di Gesù nei secoli XVI°-XVII° sono un esempio di questi nuovi percorsi teologici, che nascono e si sviluppano in Spagna: Francisco de Toledo (1533-1596), Francisco Suárez (1548-1617), Tommaso Sánchez (1550-1610) (la triade andalusa); Luis de Molina (1535-1600), Gabriél Vázquez (1549-1604), Gregorio de Valencia (1549-1603) (la triade castigliana). Questi teologi condizioneranno e influenzeranno i gesuiti e i teologi del collegio della Gregoriana di Roma. In questa prospettiva la teologia cattolica cerca di recuperare un’attenzione alle fonti della fede cristiana, anche se in un contesto di reazione e di contrapposizione con la riforma protestante. In secondo luogo, lo stesso concilio con i suoi documenti, di fatto ha incoraggiato e sollecitato la formazione teologica, spirituale e pastorale del clero. Questa finalità ha messo in luce il valore e la funzione della teologia e della stessa ricerca teologica in ordine ad un necessario approfondimento di alcune questioni controverse. Era necessaria una seria formazione teologica per la riforma della Chiesa e per superare una certa ritualità formale, che non rispondeva al vero spirito della liturgia e che aveva impoverito la predicazione e la catechesi. Per rispondere alle osservazioni critiche dei protestanti e per sanare alcuni difetti della concezione cattolica, era necessario armonizzare la dimensione visibile della Chiesa con quella invisibile, la struttura gerarchica con la dimensione spirituale della vita ecclesiale. Questi tentativi non hanno trovato un’immediata realizzazione nella riflessione teologica del XVII° e del XVIII° secolo a causa dell’ambiente polemico e della contrapposizione tra la teologia cattolica e quella protestante e anglicana, per la crescente visione anticlericale, antiromana, illuministica e positivista della società e della cultura italiana.

Fonti e Bibl. essenziale

G. Alberigo, Il cristianesimo in Italia, Bari 1997; P. Ciardella – A. Montan (a cura di), Le scienze teologiche in Italia a cinquant’anni dal concilio Vaticano II. Storia, impostazioni, metodologie, prospettive, Leumann (Torino) 2011; E. dal Covolo (a cura di), Storia della teologia. 1. Dalle origini a Bernardo di Chiaravalle, EDB, Roma – Bologna 1995; G. Occhipinti (a cura di), Da Pietro Abelardo a Roberto Bellarmino, EDB, Roma-Bologna 1996; L. Jean-Yves (ed), Storia della teologia, Brescia 2011; B. Mondin, Storia della teologia Volumi 1-3, Bologna 1997; Id, Le teologie del nostro tempo, Roma 1975; R. Osculati, La teologia cristiana nel suo sviluppo storico. II – Primo millennio, Secondo millennio, Cinisello Balsamo (Milano) 1997; C. Vasoli, La crisi del tardo Umanesimo e le aspettative di Riforma in Italia tra la fine del Quattrocento ed il primo Cinquecento, in Storia della teologia. III: Età della Rinascita, Casale Monferrato (AL) 1995, 397-485; E. Vilanova, Storia della teologia cristiana. 1. Dalle origini al XV secolo, Borla, Roma 1991; G. Penco, Storia della Chiesa in Italia. 1. Dalle origini al Concilio di Trento, Jaca Book, Milano 1978; G. Penco, Storia della Chiesa in Italia. Volume II. Dal Concilio di Trento ai nostri giorni, Jaca Book, Milano 1978.


LEMMARIO




Terz'ordini - vol. I


Autore: Pereira Sergio

Fino al Basso Medioevo i laici che aspiravano alla vita devota non intravedevano altra possibilità che entrare in monastero o associarsi a un ordine religioso per beneficiare delle ricchezze spirituali. C’erano diverse forme di associazioni che non è il caso nominarle tutte. Tra di esse, si trovavano i laici che rimanevano nel mondo facendo un patto con un convento, una abazia o una collegiata, che chiamavano speso fraternità, oblati o donati. Questo spontaneo raggrupparsi di alcuni secolari attorno ai religiosi diede forma a ciò che alla seconda metà del XIII secolo sarà conosciuto con il nome di Terz’ordine. Ci sono, però, elementi affini a questa istituzione negli oblati di san Benedetto e di san Norberto che compaiono agli inizi del secolo XII; verso la fine dello stesso secolo appaiono i Poveri Cattolici e gli Umiliati. Questi ultimi, provenienti dal gruppo di valdesi milanesi riconciliati con la Chiesa, fu riconosciuto da Innocenzo III e diviso in tre distinti sezioni, l’ultima delle quali era costituita dalle persone viventi nel secolo sotto una Regola. Su questo dato si può dire che il Terz’ordine è, in fine, un’ulteriore espressione della spiritualità dei laici, specialmente dei movimenti di penitenza e pauperistici del XII e XIII secolo.

Tuttavia, chi diede forma propria e duratura a questi movimenti fu il movimento francescano in Italia nella prima metà del XIII secolo, anche se alla sua nascita non si può parlare di terziari, ma, di laici chiamati alla penitenza, che assumevano la spiritualità francescana e partecipavano ai privilegi e benefici spirituali dell’ordine. A essi Francesco d’Assisi scrisse la Lettera a tutti i fedeli, probabilmente verso il 1220, e Memoriali prepositi del 1221 (quest’ultimo attribuito a papa Niccolò III). La diffusione dei frati minori comportò una proporzionale diffusione dei gruppi di laici sposati e non sposati della penitenza. Fu il papa Niccolò IV a riorganizzare questi gruppi in un’unica realtà, mediante la bolla Supra montem, del 19 agosto 1289. In essa, il pontefice dà a Francesco d’Assisi il titolo di huius ordinis institutor, da dove proviene che sia stato considerato il fondatore del così detto Terz’Ordine della Penitenza di San Francesco.

Sulla scia del francescanesimo, gli altri ordini mendicanti ebbero le loro Fraternitas de Poenitentia, che, però, sono nate come associazioni analoghe al modello francescano in un periodo successivo. La Santa Sede riconobbe espressamente ai vari Ordini religiosi mendicanti il diritto di aggregarsi e dette analoghe associazioni, con le proprie particolarità: ai domenicani nel 1406, agli agostiniani nel 1409, ai serviti nel 1424, ai carmelitani nel 1476, ai minimi nel 1501, ai carmelitani scalzi nel 1594, ai mercedari nel 1680 e ai trinitari e premonstratensi nel 1751. Ciononostante, non significa che non ci fossero dei laici aggregati sin dalla loro origine a ognuno degli ordini sopra nominati. Infatti, quando la Santa Sede approvava espressamente associazioni analoghe al Terz’Ordine Francescano, sanciva spesso una situazione prima esistente.

I penitenti, o terziari francescani, si sono diffusi rapidamente per tutta l’Italia, in maniera molto densa nei territori centro-settentrionali, durante il XIV secolo, periodo a cui risalgono le tendenze di alcuni penitenti a unirsi in vita comune sul modello religioso, secondo la Regola di appartenenza, con uno o più voti religiosi, formando varie congregazioni con statuti propri, rendendo difficile la distinzione tra secolari e regolari. In questo senso, è importante la classifica fatta dal Concilio Lateranense V, nella Costituzione Dum intra promulgata il 19 dicembre 1516, nella quale si enumerano quattro gruppi diversi: i terziari a vita comune (regolari), i terziari che vivevano nei conventi insieme con i frati di voti solenni, le terziarie che vivevano avendo promesso con voto vita virginale o casta, e i terziari e le terziarie secolari che vivevano non solo nei loro ambienti, ma anche esercitavano la vita propria del secolo, cioè senza voti religiosi. Con questa divisione viene sancita ufficialmente la distinzione tra terziari regolari e secolari.

Terz’Ordine Regolare. Leone X, mediante la costituzione Inter cetera, del 20 gennaio 1521, emanò una Regola per i gruppi di terziari di vita comune e quelli che vivevano nei conventi con i frati, imponendo a tutti i voti solenni e la vita comune. Questi ultimi diventarono parte vera e propria del primo ordine, mentre dal primo gruppo nacque, il così detto, Terz’Ordine Regolare. Il quale fu un caso esclusivamente francescano.

I terziari francescani regolari adottarono la Regola di Niccolò IV, cioè la Supra montem, e le sue comunità fiorirono specialmente a partire del XIV secolo, con la nascita delle comunità di penitenti o terziari. In Italia sono note in questo periodo, tra altre, le fondazioni della Liguria, Toscana ed Umbria, più le città di Milano, Vicenza, Ferrara e Messina. Gli altri ordini mendicanti, invece, non avevano ufficialmente un Terz’Ordine Regolare. Fino a XV secolo è permesso ai domenicani di annoverare in comunità alcune delle proprie terziarie a Firenze, Prato e Perugia.

Dopo il Concilio di Trento, le istituzioni maschili ebbero una riforma voluta dal papa Pio V, che ebbe forma soltanto nel Terz’Ordine Francescano. I terziari regolari in pratica sparirono in questo secolo, quelli del movimento francescano furono obbligati ad unirsi agli Osservanti, mediate la bolla Ea est officii nostri ratio, del 3 luglio 1568. Solo il Terz’Ordine Francescano Regolare dell’Italia riacquistò la sua indipendenza il 29 marzo 1586, con la bolla Romani Pontificis providentia di Sisto V.

Le terziarie, che vivevano in comune, furono obbligate alla clausura dal papa Pio V, con la bolla Circa pastoralis, del 1566, sotto la minaccia di essere soppresse se non osservavano la nuova normativa. La maggioranza di queste comunità divennero pian piano comunità monastiche del secondo ordine, anche se ad alcune di esse fu concesso osservare la Regola di Niccolò IV, aggiungendo l’ingiunzione di Pio V con la bolla sopra citata. Tuttavia alcuni monasteri riuscirono a svolgere delle attività pastorali: la storia di molte città italiane è piena di questi «conventi aperti», conosciuti con il nome di conservatori, lasciati in vita dalle autorità ecclesiastiche, fin quando il richiamo alla clausura non fu più severo. Molte fraternità di terziarie sparirono in questo periodo ed alcune diedero origine a numerosi istituti di voti semplici. Le terziarie che vivevano nelle loro case e professavano il voto di castità coniugale o virginità non furono colpite dalle prescrizioni della Circa pastoralis.

In questa forma di comunità autonoma i terziari regolari ebbero una basta diffusione, soprattutto in ambito femminile. Dalla fine del XIII fino al XVIII secolo, si può parlare di centinaia di terziari e terziarie in Italia, legati ai diversi ordini mendicanti. Solo a Roma en 1514 si contavano 16 «case sante», nome con cui erano conosciuti i luoghi dove facevano vita comune gruppi di terziari. Anche se avevano preso una Regola di vita e iniziarono a fare vita comune, per cui regolari, i terziari non erano considerati religiosi o religiose.

Il Terz’Ordine secolare. Dopo la distinzione fatta dal Concilio Lateranense V nel 1521 tra regolari e secolari, e grazie alla recente invenzione della stampa, fiorirono una serie di manuali e commenti alle diverse Regole che fanno notare il modo in cui il Terz’Ordine Secolare partecipava ai privilegi e benefici spirituali del rispettivo ordine mendicante, specialmente le indulgenze offerte secondo il calendario proprio e universale.

Tra il XVI e il XVIII secolo gli ordini terziari secolari ebbero un grande sviluppo. Nel territorio italiano, il Terz’Ordine Secolare Francescano conobbe un grande espansione, grazie all’impegno di alcuni frati osservanti come Giovanni da Capestrano. La Compagnia di Santa Maria dei Servi, anche essi italiani, associati alla spiritualità dei Servi di Maria, furono approvati nel 1424 dal papa Martino V, e trovarono la massima diffusione nel Veneto e nella Toscana. L’Ordine dei Minimi, fondato da Francesco da Paola verso il 1435, in Calabria, sin dal inizio dettò norme per coloro che volevano vivere nei propri ambienti la spiritualità incarnata dal paolano. I terziari minimi furono approvati dal papa Alessandro VI nel 1501, quando il fondatore era ancora in vita.

I penitenti agostiniani (diversi di quelli chiamati cinturati considerati una specie di quart’ordine), le fratellanze trinitarie per la redenzione degli schiavi, e i mantellati domenicani e i carmelitani, tutti laici del rispettivo ordine religioso, tutti presenti nella Italia del nostro tempo di studio, divennero Terz’Ordine Secolare, con le successivi approvazioni pontificie sopra elencate.

I Terz’Ordini, siano regolari siano secolari, conobbero una grande decadenza a causa dalle leggi eversive e dalle soppressioni degli ordini religiosi che si susseguirono dalla fine del XVIII secolo. Per quanto riguarda all’Italia, la soppressione dei Terz’Ordini da parte di Giuseppe II, attuata dal 1780 al 1790, affettò alle diverse fraternità della Lombardia e del Veneto. Infine, nel Regno d’Italia, durante il periodo napoleonico, con decreto del 25 aprile 1810, furono soppressi tutti gli istituti, corporazioni, congregazioni, ed associazioni ecclesiastiche di qualunque natura (eccettuate le suore di carità e poche altre congregazioni dedite all’educazione). Tuttavia, alcuni terz’ordini riuscirono evadere la legge di soppressione.

Terziari italiani illustri. I Terz’Ordini hanno impresso un’orma marcata nella storia della Chiesa e della società italiana: specialmente nella numerosa schiera di santi, uomini e donne illustri. Tra i terziari francescani italiani più noti ci furono: Rosa de Viterbo (1233-1251), chi espugnò una forte posizione in difesa del papato nella lotta fra Guelfi e ghibellini; Angela da Foligno (1248-1309), uno dei più grandi esempi della mistica francescana; Corrado Confalonieri (1290-1351), penitente piacentino che condusse vita anacoreta; Angelina di Marsciano (1357-1435), considerata fondatrice del Terz’Ordine Francescano Regolare; Francesco da Paola (1416-1507), fondatore dell’Ordine dei minimi; il napoletano Gaetano da Thiene (1480-1547), cofondatore dell’Ordine dei Chierici regolari teatini; la bresciana Angela Merici (1474-1540), fondatrice della Compagnia di Sant’Orsola; il fiorentino Filippo Neri (1515-1595), fondatore degli oratoriani; Carlo Borromeo (1538-1584), cardinale e vescovo di Milano che contribuì alla riforma della Chiesa; Maria Francesca delle Cinque Piaghe (1715-1791), napoletana nota per le sue estreme penitenze; Giuseppe Benedetto Cottolengo (1786-1842), fondatore della Piccola Opera della Divina Provvidenza a Torino; Vincenza Gerosa (1784-1847), cofondatrice dell’Istituto delle suore della carità, dette di Maria Bambina, a Bergamo.

Gli agostiniani ostentano nella lista dei suoi terziari la friulana Elena di Udine (1396-1458) e Cristina da Spoleto (1432-1458), entrambe vedove, entrarono al Terz’Ordine della Penitenza di Sant’Agostino e se dedicarono all’attenzione dei malati e dei poveri. Anche terziario agostiniano fu Giovanni Battista Jossa (1767-1828), il quale si distinse come apostolo nelle cinque carceri cittadine di Napoli.

Il Terz’Ordine Domenicano italiano ebbe delle grandi figure come Caterina da Siena (1347-1380), nota per la sua corrispondenza con il Papa, insistente su il suo ritorno alla Sede Romana; Maddalena Panattieri (1443-1503), suora laica della penitenza di San Domenico; e Colomba da Rieti (1467-1501), fondatrice del monastero domenicano di Perugia.

Terziario mercedario fu il sacerdote romano Gaspare del Bufalo (1786-1837), fondatore dei Missionari del Preziosissimo Sangue. I trinitari, tra altri, hanno avuto come terziari: il papa Innocenzo XI (1611-1689); Teresa Cucchiari (1734-1801), fondatrice delle Maestre Pie della Santissima Trinità a Roma; Anna Maria Taigi (1769-1837), mistica senese dedita alle opere di carità a Roma; ed Elisabetta Canori Mora (1774-1825), romana, anche lei mistica, sposa e madre di famiglia.

Si ebbe il caso in cui una persona poteva appartenere a diversi Ordini Secolari, normalmente possibile ai principi e alti ecclesiastici. Il sacerdote romano Vincenzo Pallotti (1795-1850), fondatore della Società dell’Apostolato Cattolico, per esempio, fu terziario francescano, minimo, mercedario e trinitario allo stesso tempo.

Fonti e Bibl. essenziale

A parte le voci dedicate dal Dizionario degli Istituti di Perfezione sia ai singoli ordini terziari regolari e secolari, sia al concetto generale del terz’ordine, si vedano: M. Asselle, Le radici del passato le sfide del futuro. Il Terz’Ordine Francescano di fronte ai nuovi movimenti ecclesiali, Porziuncola 2014; Atti del Convegno nazionale nel V centenario dell’approvazione della I Regola del T.O.M., in «Charitas», n. s. 36 (2001); A. Benvenuti Papi, «In castro poenitentiae». Santità e società femminile nell’Italia medievale, Roma, Herder, 1990; J. De Longny, A l’ombre des grands Ordres, Parigi 1936; E. Kajetan, Origini e inizi del movimento e del ordine francescano, Milano, Jaka Book, 1990; A. Romano di S.T., Le affiliazioni dell’Ordine Trinitario. Appunti storici, Isola del Liri 1947; S. da Romallo, Terz’Ordine, in Enciclopedia Cattolica, XI, Firenze 1953, coll. 2044-2048; Terz’Ordine Agostiniano, Tolentino 1944; A. Vauchez, I laici e la vita religiosa, in «Storia del Cristianesimo. Religione-politica-cultura», 5, Apogeo del papato ed espansione della cristianità (1054-1274), edizione italiana a cura di Augusto Vasina, Roma, Borla-Città Nuova, 1997, 804-820; A. Vauchez, Penitenti laici e terziari nei sec. XIII e XIV, in Ordini mendicanti e società italiana XIII-XV secolo, Milano 1990, 206-220.

LEMMARIO




Tolleranza - vol. I


Autore: Jörg Ernesti

 

Antichità e Medioevo. Il Nuovo Testamento è ambiguo sulla questione della tolleranza religiosa. Nel Vangelo, accanto al precetto generale di battezzare (Matteo 28,18 ss.), troviamo anche l’esortazione di Gesù ai suoi discepoli ad andare oltre, quando in qualche luogo non li si voglia ascoltare (Marco 6,11). Questa ambiguità si riflette nell’atteggiamento della Chiesa primitiva. Nell’impero romano ci fu sostanzialmente tolleranza religiosa, intesa come libertà di culto e di coscienza, fin quando nel terzo secolo, di fronte alle nuove minacce provenienti dall’esterno, la religione, rafforzata dagli imperatori pagani, fu sentita come strumento di coesione sociale e si giunse a ricorrere ad ampie misure contro i cristiani visti come dissidenti religiosi. Anche quando la legislazione degli imperatori cristiani favorì la Chiesa, non si può tuttavia parlare di una sistematica soppressione del paganesimo nel IV secolo. Troviamo un’eco della più antica idea romana di tolleranza negli anni Sessanta e Settanta, in relazione alle figure dell’imperatore Giuliano e di Simmaco, il leader dell’aristocrazia senatoria romana. Soltanto alla fine del secolo, dopo che negli anni 392-394 l’usurpatore Eugenio aveva ancora messo in atto una politica di tolleranza verso i pagani, sotto l’imperatore vittorioso Teodosio si aggravò ancora di più Ia condizione giuridica per i pagani (divieto di praticare riti pagani, di consultare l’oracolo di Delfi e di celebrare le Olimpiadi). Il Codice Teodosiano e il Codice di Giustiniano introducono numerose misure contro gli eretici e gli scismatici e provvedimenti contro pagani ed ebrei. Questa posizione fu approvata dagli scrittori ecclesiastici: Agostino da un lato sottolinea la libertà nelle scelte di fede, ma dall’altro non si oppone alle misure coercitive dello Stato contro gli eretici (ep. 185).

La situazione cambiò di nuovo radicalmente con la conversione dei Longobardi in Italia e degli altri popoli germanici. Mentre l’adesione alla fede cristiana nei primi tre secoli della storia della Chiesa era frutto di una decisione individuale, ora invece avveniva a livello collettivo nell’ambito di un gruppo o di un popolo. Questa evoluzione produsse nuove forme di costrizione religiosa, quali il mondo antico non aveva conosciuto (si pensi al massacro di Verden del 792 in cui furono uccisi, per ordine di Carlo Magno, 4500 Sassoni). Tale tipo di coercizione è concepibile soltanto attraverso una cooperazione tra potere temporale e statale, così come andò configurandosi a partire dal XII secolo anche nella lotta contro i vari movimenti eretici da parte dell’Inquisizione.

Nell’alto Medioevo troviamo spesso sovrani interessati ad uno scambio con il mondo culturale islamico e tolleranti nei confronti dei musulmani, come Ruggiero II di Sicilia (†1154), l’imperatore Federico II (†1250) e Alfonso il Saggio di Castiglia (†1284). Con Raimondo Lullo (†1316) inizia anche un discorso teorico..

Rinascimento. Le idee di Lullo sono riprese nel Rinascimento dal cardinale Niccolò Cusano (†1464), che in qualità vescovo-principe di Bressanone, dopo la caduta di Costantinopoli scrisse l’opera De pace fidei (1453), nella quale pose in risalto gli elementi comuni delle tre religioni monoteistiche. Per Cusano Dio è inconoscibile e ineffabile. Nelle varie epoche della storia del mondo, Dio ha inviato agli uomini dei profeti per dare loro insegnamenti. Le pratiche religiose (l’autore parla di “riti”) che ne costituiscono il risultato, condizionate nelle diverse religioni dal contesto storico, furono considerate dagli uomini come verità assoluta.

La pace tra le religioni è possibile se gli uomini si rendono conto che dietro le varie forme di pratica religiosa vi è un unico Dio. Queste forme trovano la loro giustificazione in quanto tentativi di avvicinamento al Dio inconoscibile e devono essere pertanto tollerate (anche le non cristiane). La posizione di Cusano, tuttavia, non sfocia nell’indifferentismo: occorre avvicinare a coloro che professano un’altra fede l’essenza del Cristianesimo a tal punto che possano riconoscervi il nucleo della propria religione. Le conclusioni raggiunte nel De pace fidei furono riutilizzate da Cusano sette anni più tardi nello scritto Cribratio Alkorani, applicate in modo specifico ancora all’Islam.

Analogamente il filosofo fiorentino Giovanni Pico della Mirandola (†1494) si propose di formulare una conciliazione fra tutte le dottrine religiose e filosofiche. Pico nelle sue 900 tesi tentò di armonizzare le tradizioni delle tre grandi religioni monoteistiche e ritenne la Cabala particolarmente conciliabile con il Cristianesimo. Nessuna religione possiede la verità assoluta. Piuttosto una “rivelazione originale”, che sta a monte rispetto alle rivelazioni delle varie religioni, è accessibile a tutti gli uomini come philosophia perennis. Sulla base di questa convinzione egli promuove il rispetto per le altre concezioni religiose.

Dopo la Riforma I: Tolleranza pragmatica. Nell‘antichità, nel Medioevo e nel Rinascimento il discorso della tolleranza aveva riguardato i non cristiani. In seguito però alla divisione confessionale dell’Europa causata dalla Riforma, l’orientamento cambiò. Il vivere accanto a cristiani di “altre confessioni” conferì al concetto di tolleranza religiosa una dimensione pragmatica e divenne un elemento fondamentale della ragione di stato. I principi sanciti dalla Pace di Augusta nel 1555, ratificati nella loro sostanza dalla Pace di Westfalia del 1648 (e validi anche nei principati vescovili di Trento e Bressanone) costituirono il modello per le normative successive. Dal momento che né i dialoghi sull’unità né le guerre di religione avevano risolto la questione confessionale, con tali accordi si garantì una convivenza pacifica fra persone mediante un complesso di strumenti politico-legali, senza che si giungesse già ad una asserzione di principio riguardo alla tolleranza nei confronti di quanti professavano una fede diversa, e senza che fossero compresi tutti i gruppi religiosi.

Lo stesso vale per l’Editto di Nantes (1598), che in Francia riguardava gli ugonotti calvinisti (ma non i luterani), e per il Bill of Rights (1689), documento sulla base del quale vennero protetti i gruppi separati dalla chiesa di stato anglicana (non però i cattolici). Un caso parallelo è rappresentato dal trattamento riservato ai Valdesi, il gruppo più numeroso di non cattolici presente in Italia. Nel 1532 il loro sinodo generale decise di aderire alla Riforma. Nell’ambito della controriforma, i duchi di Savoia perseguitarono i Valdesi. In particolare nelle Pasque piemontesi (1655) ebbero luogo scontri sanguinosi che, in seguito alle pressioni delle potenze internazionali, sfociarono nella concessione da parte del duca Carlo Emanule II di una limitata libertà religiosa ai Valdesi (Patenti di grazia del 1655). Un altro momento cruciale si ebbe con le persecuzioni del 1686. Costretti ad emigrare a Ginevra, i Valdesi dovettero difensersi. Avendo vinto contro i Piemontesi, il duca Vittorio Amedeo II di Savoia concesse loro ampia tolleranza. Le disposizioni del governo piemontese sono in linea con le normative sopra ricordate vigenti nel Sacro Romano Impero, in Inghilterra e in Francia, in quanto si tratta di insiemi di regole pragmatiche di natura politico-giuridica, ma non della tolleranza vera e propria nei riguardi di questa minoranza. Solo con le Lettere Patenti firmate dal re Carlo Alberto il 17 febbraio 1848 i Valdesi ottennero finalmente la piena libertà religiosa e la parità civile e politica. Il testo dice: “I Valdesi sono ammessi a godere di tutti i diritti civili e politici de’ Nostri sudditi … Nulla è però innovato quanto all’esercizio del loro culto ed alle scuole da essi dirette”.

Nel Regno d’Italia, a partire dal 1861 anche altre confessioni religiose godettero di tolleranza religiosa, compresi gli ebrei ormai completamente emancipati. A Roma dopo il 1870 furono edificati numerosi edifici sacri non cattolici. Al tempo dello Stato Pontificio il culto non cattolico era stato possibile solo nelle ambasciate delle potenze straniere, come ad esempio avveniva nella cappella della legazione prussiana sul Campidoglio. Quando moriva un non cattolico a Roma, veniva sepolto nel Cimitero acattolico (l’11 ottobre 1821 il cimitero fu aperto ufficialmente con editto della Segreteria di Stato, dopo che già in precedenza vi erano state delle sepolture).

Dopo la Riforma II: Il discorso teoretico. Se i tentativi fin qui esaminati erano ancora di natura pragmatica, tesi cioè a risolvere i conflitti politico-giuridici tra le diverse confessioni, in una seconda fase (in parte parallela) si sviluppò un nuovo dibattito teoretico sul concetto di tolleranza. Erasmo da Rotterdam (†1536) si espresse ripetutamente contro l’applicazione di misure coercitive contro gli eretici, in particolare nell’opera Moriae Encomium (1509). Sospettato nel frattempo egli stesso di eresia, durante il Sacco di Roma del 1527, ammise che i sovrani possano agire contro i rivoltosi se l’ordine pubblico è minacciato, ma senza che venga applicata la pena di morte. La condanna al rogo dell’antitrinitario Michele Serveto nella Ginevra di Calvino mostrò chiaramente che i protestanti avevano uguagliato i cattolici quanto a durezza inquisitoria. Contro tali pratiche Sebastiano Castellione (†1563), nell’opera De haereticis, an sint persequendi, sulla scorta della tradizione dimostrò che gli eretici non dovrebbero essere perseguitati (1554). A partire dal XVII secolo i diritti civili fondamentali divennero sempre più spesso prioritari rispetto alle giustificazioni teonomiche tradizionali (sono da considerare pionieri John Locke, Baruch Spinoza, Samuel von Pufendorf, e successivamente Charles de Montesquieu e Thomas Jefferson). Dove l’appartenenza al sistema statale assicurò i diritti civili, non vi fu più spazio per l’intolleranza religiosa. Locke nella sua Lettera sulla tolleranza del 1689 si riferiva ancora ai non conformisti (cristiani non appartenenti alla Chiesa anglicana) ed escludeva cattolici e atei. In modo analogo già Spinoza aveva mostrato nel suo Tractatus theologico-politicus del 1670 che è per il bene dello Stato concedere ai sudditi la tolleranza religiosa.

Nell’Illuminismo si sviluppò l’idea di una religione razionale, la cui conseguenza logica fu un ethos della tolleranza nei confronti di appartenenti ad altre fedi (Voltaire, Gotthold Ephraim Lessing). Dopo la rivoluzione francese, con il riconoscimento anche politico dei diritti umani, la tolleranza religiosa divenne definitivamente un diritto appartenente ai cittadini in quanto tali, invece che una grazia concessa di tanto in tanto dalle autorità. La religione e la libertà di coscienza sono diritti di ogni essere umano in quanto tale. Anche se questa evoluzione fu rifiutata ancora da Gregorio XVI (Mirari Vos, 1832) e da Pio IX (Quanta Cura / Syllabus 1864), il termine tolleranza fu usato per la prima volta in senso positivo da Leone XIII: la tolleranza di altre forme di religione da parte dello Stato è consentita, se con essa può essere evitato un male maggiore (Immortale Dei, 1885).

Fonti e Bibl. essenziale

M. Firpo, Il problema della tolleranza religiosa nell’età moderna. Dalla riforma protestante a Locke, Torino 1978; La questione della tolleranza e le confessioni religiose. Atti del convegno di studi, Roma, 3 aprile, 1990, Napoli 1990; La tolleranza religiosa. Indagini storiche e riflessioni filosofiche, a cura di Mario Sina (= Cultura e storia 2), Milano 1991; A. Natale Terrin, La tolleranza nelle religioni di ieri e oggi, in Credere oggi 101 (1997), 47-63; G. Carobene, Tolleranza e libertà religiosa nel pensiero di Voltaire (= Classici sulla libertà religiosa 6), Torino 2000; De Pace Fidei. Die Toleranz. La tolleranza. Ein Schauspiel von Nikolaus von Kues, a cura di Philipp Steger (= SYN 6), Bressanone 2001; Wege zur Toleranz. Geschichte einer europäischen Idee in Quellen, a cura di Heinrich Schmidinger, Darmstadt 2002; F. Lomonaco, Tolleranza. Momenti e percorsi della modernità fino a Voltaire, Napoli 2005; A. Angenendt, Toleranz und Gewalt. Das Christentum zwischen Bibel und Schwert, Münster 32007; ‘Dignitatis Humanae’. La libertà religiosa in Paolo VI (= Colloquio Brescia, 24.-26.9.2004 / Istituto Paolo VI. Pubblicazioni 29), Brescia – Roma 2007; G. Salvini, La ‘Dignitatis humanae’. La libertà religiosa in Paolo VI, in La Civiltà Cattolica 159 (2008), 338-348; M. Cassese, Espulsione, assimilazione, tolleranza. Chiesa, Stati del Nord Italia e minoranze religiose ed etniche in età moderna, Trieste 2009; S. Salvadori, Sebastiano Castellione e la ragione della tolleranza. L’ars dubitandi fra conoscenza umana e veritas divina, Milano 2009; L. Sandoni (Hg.): Il Sillabo di Pio IX. Introduzione di Daniele Menozzi, Bologna, CLUEB, 2012.


LEMMARIO




Tribunali della Curia romana - vol. I


Autore: Irene Fosi

Il pontefice romano, in qualità di giudice supremo del mondo cattolico, esercita la giustizia da sé o attraverso i tribunali della sede apostolica o suoi delegati: questo assunto, presente nell’attuale Codice di Diritto Canonico, riflette gli esiti giurisdizionali di un complesso percorso plurisecolare dei tre tribunali supremi della Curia romana. Essi sono: il tribunale della Rota romana, il tribunale supremo della Segnatura e la Penitenzieria apostolica.

Il tribunale della Rota. Le sue origini risalgono al medioevo quando, nel XIII secolo, gli Auditores generales causarum Sacri Palatii Apostolici, ufficiali con i quali il pontefice trattava le cause di tutto l’orbe cattolico, separandosi dalla cancelleria pontificia, assunsero fisionomia autonoma, si costituirono in collegio e fu delegato loro il compito di giudicare le cause presentate a Roma da ogni parte della cristianità. Varie ipotesi sono state avanzate per spiegare il nome: forse dalla chiesa di S. Caterina della Rota, alla quale appartenevano i giudici; dall’uso di riunirsi in circolo o attorno ad un tavolo a forma di ruota; dal modo di presentare le suppliche e i memoriali avvolti come rotuli. Il tribunale fu in seguito regolamentato nelle procedure, nelle competenze assai vaste – aveva giurisdizione anche in materia di diritto feudale – e fu definito il numero dei suoi componenti. Con la costituzione Romani Pontificis, emanata da Sisto IV nel 1472, la sua struttura fu costituita da un collegio di dodici uditori, che avevano il rango di protonotari apostolici. I requisiti di accesso all’uditorato erano la legittimità dei natali, la laurea in utroque iure, i buoni costumi, una rendita annua di almeno 200 fiorini di Camera. Il carattere multinazionale del collegio, presente fin dalle sue origini e riflesso, secondo il cardinale G.B. De Luca, della sua universalità, fu definito nel corso del XVI secolo: fu costituito da tre uditori romani, un bolognese, un ferrarese nominati direttamente dal papa; un milanese e un veneziano scelti dal pontefice fra una rosa di candidati presentati dalle due città; un francese, due spagnoli, un soggetto imperiale presentati dalle rispettive corone; un fiorentino o un perugino, della cui nomina non si conoscono le procedure. Il tribunale rotale, a differenza di altri, doveva, prima di emettere la sentenza, renderne pubbliche le motivazioni, redatte di solito dall’uditore cui era stata affidata la causa (ponente). Questo materiale (decisiones) costituì un riferimento essenziale sia per interpretare norme del diritto canonico e civile e rappresenta solo una parte di un’imponente documentazione archivistica conservata, quasi interamente, nell’Archivio Segreto Vaticano.

Nel corso dell’età moderna la posizione e il ruolo svolto da alcuni auditori di Rota per i rispettivi governi rivestì notevole importanza, coadiuvando, ma anche sovrapponendosi, talvolta, alle rappresentanze diplomatiche ufficiali delle potenze cattoliche presenti a Roma. Per le città dello Stato Pontificio e per gli stati italiani, gli auditori di Rota costituirono un potente legame fra la Curia romana, la corte pontificia e le aristocrazie e i patriziati locali. La definizione della Rota come ‘sacra’ e ‘romana’ intendeva sottolinearne la natura di tribunale supremo del papa, distinto dalle altre Rote presenti sia nello Stato Pontificio che in altri stati. I tribunali rotali delle città dello Stato Pontificio, come Perugia, Bologna, Ferrara, si configurarono, nel corso dell’età moderna, come espressione dell’autonomia municipale, in contrapposizione, talvolta, con i tribunali del legato pontificio. Nella seconda metà del Cinquecento le competenze universali della Rota romana furono ribadite da Pio IV e nella riforma dei tribunali voluta da Paolo V con la costituzione Universi agri dominici (1612) le facoltà giurisdizionali del tribunale rotale furono estese alle cause beneficiali e matrimoniali, ai processi di beatificazione e di canonizzazione, in particolare riguardanti l’eroicità delle virtù e il martirio. Papa Borghese intendeva ridurre il crescente potere giurisdizionale delle congregazioni, istituite o riconfigurate da Sisto V e da Clemente VIII, che aveva suscitato conflitti di competenza proprio con i supremi tribunali della Curia romana. Nonostante l’apparente staticità, come ha rilevato P. Prodi, il tribunale subisce durante i primi secoli dell’età moderna un progressivo cambiamento già avvertito alla fine del Seicento dal De Luca. Il cardinale, che aveva fatto parte del tribunale rotale, individuava la perdita del carattere universale dello stesso nella frattura prodotta nella cristianità dalla Riforma, nella crescente ostilità dei sovrani di rimettere alla Rota le cause istruite e giudicate nei loro territori, la maggiore chiarezza della normativa in materia beneficiale. Tuttavia nella carriera curiale restava fondamentale il passaggio per l’uditorato di Rota, considerato un gradino che poteva condurre al cardinalato.

Con Alessandro VII fu riformato l’accesso a questo ufficio. Con Benedetto XIV le facoltà della Rota furono ulteriormente precisate e riguardarono le cause di beatificazione e canonizzazione, le cause di nullità della professione religiosa e lo scioglimento degli ordini sacri, il contenzioso civile, laico ed ecclesiastico, le cause beneficiali e tutte le cause inoltrate dai tribunali inferiori, laici ed ecclesiastici, che trasformarono la Rota romana in un tribunale di appello. Dopo i turbolenti anni del dominio francese, durante i quali interruppe la sua attività fra il 1798-1799 ed il 1809-1814, il tribunale rotale fu ripristinato una prima volta da Pio VII nel 1800 e nel 1814, al ritorno del pontefice nei suoi stati. Pio VII, nel 1821, lo rese competente anche per l’appello nelle cause di carattere commerciale; Gregorio XVI con il Regolamento legislativo e giudiziario per gli affari civili (1834) ne limitò le competenze e divenne tribunale di appello ordinario per le cause civili ed ecclesiastiche per Roma e lo Stato Pontificio, perdendo così la funzione di tribunale supremo universale, per trasformarsi in tribunale delegato per cause deferite alla sua competenza dal papa, dalla Segnatura di Giustizia o da congregazioni romane.

Tribunale della Segnatura. È uno dei tribunali supremi della Curia romana, insieme alla Rota e alla Penitenzieria, che ha origine anch’esso nel XIII secolo, quando i pontefici dettero facoltà ad alcuni curiali di riferire loro sommariamente il contenuto di suppliche, dopo averlo considerato alla luce delle norme del diritto canonico. La decisione e la firma – la segnatura, appunto – sarebbero state apposte dai pontefici sugli atti precedente preparati da notai, inizialmente, e poi dai cosiddetti referendari. La definizione dei compiti e del numero dei referendarii avvenne nel ‘400, dopo il concilio di Costanza, e successivamente, sotto Eugenio IV, essi costituirono un organismo che prese il nome di Segnatura, proprio dall’atto finale con il quale il pontefice firmava le decisioni in merito alle domande di grazia e di giustizia. Era, questa, un’espressione fondamentale del potere sovrano: il papa, fonte di giustizia e grazia, ascoltava le suppliche dei sudditi che si sentissero gravati da decisioni definitive e inappellabili di altri tribunali e decideva superando i limiti previsti dalle norme (suprema et absoluta papae potestas dispensandi vel derogandi). La monarchia pontificia, nel Quattrocento, si mostrava così rafforzata anche con la costituzione e regolamentazione di questo tribunale supremo. Proprio negli ultimi decenni del XV secolo – la data precisa non è stata stabilita ma si indica il 1491 o 1492 – il tribunale si scisse in due branche parallele e autonome, ma strettamente correlate: la Segnatura di Grazia, competente per l’esame di suppliche in materia amministrativa, aveva il compito di risolvere le cause con equità, non conosceva un limite pecuniario delle cause stesse, emanava sentenze alla presenza del papa. La Segnatura di Giustizia, alla quale erano demandati l’esame e l’approvazione delle suppliche in materia giudiziaria, doveva agire nei limiti del diritto, vigilare sulla correttezza delle procedure e sull’azione dei giusdicenti. La funzione suprema del tribunale apostolico fu celebrata anche dagli affreschi che Raffaello dipinse nella stanza della Segnatura, nel palazzo Vaticano, fra il 1508 e il 1511.

Dall’inizio del Cinquecento, la Segnatura di Giustizia si configurò come tribunale supremo della Curia con ampie competenze: poteva infatti conoscere le cause sia contenziose che criminali, ecclesiastiche e civili, sia in prima istanza che in appello per difetti di forma e per giudizio nel merito, di tutto lo Stato Pontificio, escluse quelle demandate al tribunale della piena Camera, al tribunale del Campidoglio. Non sottostavano inoltre alle due Segnature i tribunali di congregazioni come il Sant’Uffizio, Buon Governo, Vescovi e Regolari, Sacra Consulta. Nella seconda metà del Cinquecento, pontefici come Pio IV e Sisto V regolamentarono soprattutto le competenze della Segnatura di Giustizia e definirono il numero e i requisiti per poter accedere alla carica di referendario, diventata molto ambita per chi aspirava alla carriera curiale e per i privilegi che comportava, fra i quali la possibilità di legittimare i figli naturali e l’immunità di fronte alla giurisdizione vescovile per sé e per i propri familiari.

Alessandro VII, nel 1659, stabilì nuove e precise regole per il cursus honorum dei referendari, potenziandone soprattutto la formazione in utroque e in teologia e richiedendo la pratica legale svolta presso avvocati o nella stessa Curia. Non mancarono, nel corso del Seicento, concessioni di ulteriori privilegi da parte di pontefici per compensare il servizio, la fedeltà, l’amicizia e altri legami che si instauravano all’interno della Curia e della corte romana. Contrasti per la precedenza nelle cerimonie suscitarono in questo periodo accese dispute fra i referendari e i generali degli ordini religiosi. Già sotto Innocenzo X era mutata la prassi del supremo tribunale: i ricorsi nelle cause in criminalibus non venivano più discussi nella Segnatura di Giustizia, ma dall’uditore del cardinale prefetto. Sebbene manchino ancora studi specifici che chiariscano le pratiche del tribunale e i suoi rapporti con altri uffici curiali, si può affermare che il suo potere venne restringendosi, rimanendo come corte di appello per cause romane o di quelle provenienti solo da alcune parti dello Stato Pontificio. Fra XVI e XVIII secolo anche la Segnatura di Grazia perse progressivamente la sua funzione, assorbita dalla Dataria, dalla Segreteria dei Brevi e dall’Uditore del papa.

Tribunale della Penitenzieria Apostolica. È un supremo tribunale di grazia che concede, dietro pagamento, assoluzioni e dispense in base alla potestas ligandi et solvendi del pontefice: dispensare e assolvere da scomuniche, interdetti, censure sia nel caso di irregolarità di stato giuridico (matrimoni nei gradi proibiti) che sacramentale (ordini sacri). Sembra aver avuto origine già nel VII secolo, quando compare la figura del cardinale penitenziere, incaricato di rappresentare il pontefice davanti ai fedeli che giungevano a Roma o inoltravano suppliche per risolvere questioni di coscienza e, più tardi, casi riservati solo al papa. Infatti già nel XII secolo il tribunale appare strutturato per aiutare il papa ad assolvere i peccati gravi riservati alla sua suprema autorità. Le sue competenze riguardavano il foro interno, ma nel corso dei secoli, la sua giurisdizione si ampliò sconfinando nel foro esterno, nella giustizia penale e capitale – sacrilegio, lesa maestà papale, eresia – così come crebbe il numero dei componenti il tribunale. In particolare, con la prima celebrazione dell’anno santo, nel 1300, i penitenzieri acquisirono un potere riconoscibile anche da un rituale che sottolineava il carattere giudiziario del loro operato. Infatti, i penitenzieri minori delle basiliche romane, costituiti in collegio, toccavano con una lunga bacchetta i pellegrini e i penitenti inginocchiati davanti a loro per ottenere trenta giorni di indulgenza. Il cardinale Penitenziere maggiore celebrava questo rito pubblicamente solo quattro volte l’anno, in occasione della Domenica delle Palme a S. Giovanni in Laterano, il mercoledì santo in S. Maria Maggiore, giovedì e venerdì santo nella basilica di S. Pietro e concedeva cento giorni di indulgenza.

Nel corso del ’400, la figura del Penitenziere maggiore assunse nella Curia un ruolo di straordinaria importanza, soprattutto sul piano finanziario, rendendo necessari interventi sia da parte di Martino V che di Sisto IV (1484) per ridimensionarne il potere divenuto ormai di giurisdizione ordinaria e per ridefinire le competenze, poiché l’assoluzione dei casi riservati era divenuta una cospicua e scandalosa fonte di rendita. Anche nel secolo successivo il tribunale e il cardinale Penitenziere furono oggetto di continui tentativi di riforma che miravano a circoscriverne il potere non sempre limitato alla risoluzione dei casi riservati e di foro interno. In particolare le riforme di Pio IV (1562) e Pio V (1569), oltre a ristrutturare anche nel numero dei componenti il tribunale, limitarono la funzione giurisdizionale solo al foro interno, rendendolo esecutore della bolla In Coena Domini che, proclamata dal papa il giovedì santo, enunciava l’elenco dei casi la cui assoluzione era riservata al papa. Inoltre Pio V attribuì agli ordini religiosi il ruolo di penitenzieri nelle basiliche romane e stabilì che fossero francescani i penitenzieri minori di S. Giovanni in Laterano, domenicani quelli della basilica di S. Maria Maggiore e gesuiti quelli di S. Pietro. La funzione di questi ultimi rivestiva anche un particolare significato rituale: al cardinale penitenziere maggiore spettava infatti l’assoluzione del pontefice sul letto di morte, ai penitenzieri minori la preparazione della salma del pontefice defunto e la recita delle esequie prima della tumulazione. La limitazione delle competenze della Penitenzieria al foro interno imposta dai pontefici nella Controriforma mirava soprattutto a separare la sua giurisdizione da quella dell’Inquisizione nella lotta all’eresia.

Tuttavia, nel corso del Seicento, il tribunale superò nuovamente i limiti imposti, confliggendo con la giurisdizione di congregazioni, in particolare con l’Inquisizione. Il potere dei penitenzieri, che usavano l’oraculum vivae vocis nella concessione di assoluzioni di casi riservati, rese necessari ulteriori interventi per ripristinare il limite giurisdizionale al foro interno sia da parte di Urbano VIII (1634) che di Innocenzo XII (1692). Rimase però alla Penitenzieria la facoltà di assolvere nel foro interno gli eretici nei territori in cui non fosse presente l’Inquisizione. Infine, da Benedetto XIV (1744) furono di nuovo distinte con precisione le facoltà di assolvere da peccati e censure sia in foro interno che esterno, da casi riservati, concedere dispense matrimoniali, risolvere tutti i dubbi sottoposti all’autorità del sommo tribunale. La Penitenzieria divenne lo strumento per tutelare «l’uniformità e la disciplina interna del popolo cristiano…[e] diviene la sede dove si elabora e si applica la disciplina ecclesiastica, il punto di riferimento per la teologia morale, per il nuovo sistema normativo della vita cristiana» (Prodi, 311-313).

Fonti e Bibl. essenziale

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LEMMARIO