Associazione Italiana dei Professori di Storia della Chiesa

Dizionario Storico Tematico La Chiesa in Italia
Dalle origini all'Unità Nazionale
Roma 2015
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Università - vol. I


Autore: Raffaele Savigni

Lo sviluppo culturale dell’Europa occidentale nei secoli XI-XII favorì la nascita di nuovi centri di istruzione superiore, che, pur presentando qualche affinità con esperienze precedenti (come le “case della scienza” del mondo islamico), rappresentano un fenomeno sostanzialmente nuovo, di dimensione internazionale, che accompagna l’emergere della figura moderna dell’”intellettuale” ed al tempo stesso si caratterizza per un legame più o meno stretto con la Chiesa (sottolineato da Boncompagno da Signa, per il quale «ordo quippe scholasticus est ecclesie speculum»). Le università, nate dall’incontro tra studenti e docenti ma inizialmente prive di locali appositi e di strutture stabili, assumono progressivamente, intorno al 1200, una più precisa configurazione giuridica come Studia promossi e governati da associazioni (universitates) di docenti (come a Parigi) o studenti (come a Bologna), in una complessa e variabile interazione con i due poteri universali (Papato ed Impero, ai quali Alessandro di Roes aggiunse, alla fine del ʼ200, proprio lo Studium per formare un trittico ideale) e con le autorità locali. Il primo Studio italiano, quello bolognese, sorto da una comitiva di docenti e studenti di diritto, si sviluppa progressivamente come istituzione incentrata sulla universitas scholarium (poi articolata in nationes): allo studio del diritto romano si affianca quello del diritto canonico, e, nel secolo XIV, anche della medicina, delle arti, della teologia.

Sulle origini dello Studio di Bologna (per il quale, diversamente dal caso parigino, non è dimostrabile un preciso legame con una preesistente scuola della cattedrale, anche se G. Ropa ha raccolto alcuni indizi della vitalità della cultura ecclesiastica bolognese del sec. XI, a partire dal celebre Codice Angelica 123), si è sviluppato negli ultimi decenni un vivace dibattito: se Carlo Dolcini ha ipotizzato un ruolo decisivo del vescovo filoimperiale  Pietro (forse identificabile con il misterioso Pepo che secondo fonti più tarde avrebbe insegnato diritto a Bologna prima di Irnerio: si veda l’allusione di Rodolfo il Nero, intorno al 1180, «Cum igitur a magistro Peppone velut aurora surgente iuris civilis renasceretur initium»), Giovanna Nicolaj ha ricondotto piuttosto la figura di Pepo ad un ambiente notarile. Da parte sua Giuseppe Mazzanti ha attribuito a Irnerio un curriculum di studi anche teologici, che sarebbe sfociato nella redazione di un Liber divinarum sententiarum (di cui lo stesso Mazzanti ha fornito l’edizione critica: Centro italiano di studi sull’Alto Medioevo, Spoleto, 1999): ma questa proposta non è condivisa da molti storici del diritto. Non appare più sostenibile l’ipotesi, accreditata nel ‘200 dal giurista bolognese Odofredo, di una translatio dei libri legales da Roma a Ravenna e di qui a Bologna, e sembra preferibile sottolineare il policentrismo che caratterizzava la realtà culturale del secolo XI.

Con la costituzione autentica Habita di Federico I (1155) gli studenti approdati a Bologna per frequentare lo Studio («fatti esuli dall’amore della scienza») vennero sottratti alla giurisdizione comunale e sottoposti al giudizio del loro maestro o, a scelta, del vescovo. Più tardi, per nobilitare lo Studio bolognese nel momento in cui Federico II creava l’Università di Napoli (1224), vietando ai sudditi del Regno di Sicilia di frequentare scuole al di fuori del Regno stesso, venne fabbricato (intorno al 1225) il falso privilegio teodosiano, che riconduceva a Teodosio II la fondazione dell’Ateneo bolognese. Sebbene il Comune cercasse di trattenere a Bologna i docenti mediante l’imposizione di vincoli giuridici e la concessione di benefici economici (ad esempio assicurando un salario ai maestri che insegnavano nello studium locale), si verificarono diverse migrazioni di studenti e docenti, che diedero origine agli Studi (talora destinati al successo, talora di durata effimera) di Modena (discusso trasferimento di Pillio da Medicina, 1182), Vicenza (1204), Arezzo (1215), Padova (1222), Vercelli (1228: trasferimento promosso da studenti padovani col sostegno attivo del Comune di Vercelli). I nuovi Studi sorti nella penisola in seguito alla volontaria migrazione di gruppi di studenti e professori seguono sostanzialmente il modello bolognese (quello dell’universitas scholarium: è il caso della «societas bazallariorum et scollarium liberalium arcium de Studio paduano» che nel 1262 approva la Cronaca di Rolandino da Padova) piuttosto che quello parigino (incentrato sull’universitas magistrorum e maggiormente dipendente dall’autorità ecclesiastica, che controllava lo Studio tramite la figura del cancelliere vescovile); ma sembra che quest’ultimo abbia esercitato un’influenza sulla nascita dell’Ateneo pisano, formalmente sancita da Clemente VI nel 1343. Nel secolo XIII venne utilizzato, per indicare un centro di studi superiori capace di attirare studenti da tutta Europa, il termine Studium generale; e a questi Studi venne riconosciuto dal pontefice, nel 1291, il potere di conferire la licentia ubique docendi, che estendeva la validità della licentia docendi (la laurea con valore legale) già introdotta nei decenni precedenti (nel quadro di un processo di istituzionalizzazione che implicò il superamento dell’iniziale spontaneismo) e conferita dall’autorità ecclesiastica. A Bologna tale compito fu affidato nel 1219 da papa Onorio III non al vescovo o al suo cancelliere, ma all’arcidiacono: come ha osservato Lorenzo Paolini, questo provvedimento non riflette tanto una volontà di ingerenza della Chiesa (che appare invece più evidente verso la fine del secolo), quanto piuttosto l’intento di favorire un superamento delle tensioni che negli anni precedenti avevano caratterizzato i rapporti tra studenti, docenti ed autorità cittadine (le quali tentavano di sottoporre lo Studio al proprio controllo). L’intervento papale bloccò le pressioni localistiche e salvaguardò il respiro internazionale dello Studio, ma non eliminò il vaglio scientifico dei candidati da parte della commissione esaminatrice, in quanto il compito dell’arcidiacono si limitava al conferimento del titolo finale nel quadro di una cerimonia pubblica.

A Bologna la nascita di una vera e propria universitas scholarium, ben presto articolata in nationes, ma chiamata a rappresentare unitariamente gli studenti di fronte alle autorità comunali, va collocata tra la fine del XII e l’inizio del XIII secolo: dopo un’iniziale divisione tra studenti citramontani (italici) e ultramontani, nel 1265 è attestata l’esistenza di ben tredici nationes ultramontane, che fissarono i criteri di rotazione per l’elezione del loro rettore. Gli studenti d’oltralpe erano mediamente più anziani e studiavano prevalentemente diritto canonico, mentre quelli italiani privilegiavano lo studio del diritto civile. Se Parigi mantenne a lungo il monopolio sull’insegnamento universitario della teologia, nel 1360 Innocenzo VI istituì anche a Bologna la facoltà di teologia, che, inaugurata nel 1364, fu affidata al controllo dell’arcivescovo, il quale assumeva la funzione di cancelliere. Tale facoltà svolse però un ruolo non troppo incisivo, in quanto nell’insegnamento della teologia si affermarono ben presto gli Ordini Mendicanti (già sostenuti dal Papato nella polemica che nel Duecento li aveva contrapposti a Guglielmo di S. Amore ed ai maestri “secolari” dello Studio parigino). Nel 1304 il capitolo generale dei Domenicani (che sin dagli inizi avevano stabilito rapporti di contiguità con gli ambienti universitari) stabilì che in ogni provincia dell’Ordine sorgesse uno Studium generale; nel corso del Quattrocento gli Studia dei Mendicanti vennero incorporati nelle Università, per cui le facoltà universitarie di teologia che mantennero un’autonomia formale rispetto ad essi vennero di fatto marginalizzate.

Altre università furono fondate dall’imperatore, dal papa o da altri sovrani europei. L’iniziativa di Federico II, che fondando l’Ateneo di Napoli sulla base del principio del monopolio statale dell’insegnamento intendeva preparare i funzionari del Regno (per questo egli sottopose al proprio controllo la nomina dei docenti), pose le premesse per una serie di fondazioni di atenei nazionali (Lisbona 1290, Praga 1347, Vienna 1365) o comunque controllati dai poteri regionali (Pavia 1389, Torino 1405, Catania 1444). A partire dalla fine del ‘300 diversi Studi, come quello padovano, tentarono sempre più di limitare il reclutamento dei docenti all’ambito locale, chiedendo come prerequisito per potervi insegnare il possesso della cittadinanza, e concessero l’ingresso gratuito nel collegio dei giuristi ai soli discendenti maschi di un dottore che ne avesse fatto parte: si verificò quindi un processo di graduale nazionalizzazione degli Studia, mentre il corpo accademico tendeva a diventare una casta ereditaria. In età umanistica si registra inoltre uno scollamento tra le Università e le Accademie umanistiche create dai principi.

La libera ricerca razionale, che con Abelardo aveva caratterizzato la figura di un intellettuale orgoglioso del proprio status ed almeno tendenzialmente autonomo rispetto al gruppo sociale di provenienza ed ai diversi poteri, cedette il passo ad un potenziato ruolo politico del docente, concepito come educatore dei sudditi e garante dell’ordine sociale e morale. Nel corso del XV secolo, che nonostante le sfumature introdotte dagli studi più recenti segna indubbiamente una frattura cronologica, le università diventarono quindi, come ha osservato J. Le Goff (Università e pubblici poteri, p. 187), «centri di formazione professionale al servizio degli Stati» piuttosto che centri di lavoro intellettuale disinteressato. Carlo V nominò (1530) conti palatini i dottori dello Studio bolognese, che però assunse sempre più una connotazione cittadina e vide progressivamente attenuarsi quella dimensione internazionale che lo aveva caratterizzato nei primi due secoli.

A Roma gli istituti di istruzione superiore furono a lungo rivolti esclusivamente al clero urbano (è il caso della scuola capitolare lateranense e dello Studium Curiae istituito da Innocenzo IV, che non rilasciava veri e propri titoli accademici). La prima vera università di Roma, lo Studium Urbis, matrice dell’attuale Università «La Sapienza» (laicizzata nel 1870), venne istituita da Bonifacio VIII con la bolla In Supremae praeminentia dignitatis (20 aprile 1303: «uno Studio generale dotato di tutte le facoltà, i cui maestri e studenti godano di tutti i privilegi, libertà e immunità concessi ai dottori e agli studenti degli Studi generali»), e rifondata, dopo un periodo di decadenza, nel 1406. Lo Studium Urbis (presso il quale si tennero corsi di teologia, materie letterarie, diritto civile e canonico, quindi anche di medicina e chirurgia) subì dalla metà del ‘500 la forte concorrenza del Collegio romano dei Gesuiti, innalzato al rango di università da papa Paolo IV (1556); e venne sottoposto nel 1824 da Leone XII, con la bolla Quod divina sapientia, ad uno stretto controllo da parte della Congregazione degli studi, che, composta da cardinali e prelati, sovrintendeva ai programmi e all’organizzazione di tutte le università dello Stato della Chiesa, con ampi poteri di censura. In età moderna sorsero altri Atenei pontifici, come l’Università Urbaniana, che trae le sue origini dal Collegio Missionario di Propaganda Fide, fondato nel 1624 dal prelato spagnolo J.B. Vives y Marja, con lo scopo di formare missionari secolari attenti alle culture dei popoli extraeuropei: il collegio, affidato ai Teatini, fu elevato al rango di Pontificio Ateneo da papa Urbano VIII con la bolla Immortalis Dei Filius (1 agosto 1627). In concomitanza con la soppressione della Compagnia di Gesù (1773) Clemente XIV affidò le facoltà di teologia e di filosofia del Collegio Romano al clero della diocesi di Roma; nel 1824 Leone XII le restituì ai Gesuiti, ma consentì al clero secolare che li aveva sostituiti di continuare a dedicarsi all’insegnamento, e da questo nucleo sorse, sotto Pio IX, l’Ateneo del Pontificio Seminario Romano, che con Giovanni XXIII (1959) divenne la Pontificia Università Lateranense.

Il passaggio, nel corso dei secoli, da un’ampia peregrinatio di studenti (e talora di maestri) ad una progressiva regionalizzazione del reclutamento studentesco favorì la diffusione dei collegi. I Gesuiti fondarono scuole e collegi che talora divennero vere e proprie università: il loro inserimento a Bologna provocò il progressivo scorporo di una parte delle discipline propedeutiche (come la grammatica) dal controllo degli organi accademici, mentre non ebbe successo il tentativo di rilancio della Facoltà di teologia dello Studio avviato dal card. Paleotti, per cui nel ‘700 Benedetto XIV inserì all’interno del Seminario gli insegnamenti di teologia destinati alla formazione del clero secolare.

La soppressione delle cattedre di teologia nelle Università statali per iniziativa del ministro Correnti (1873) relegò tale insegnamento negli atenei ecclesiastici e favorì quella divaricazione tra cultura “laica” e cultura ecclesiastica che ha caratterizzato la storia dell’Italia unita.

Fonti e Bibl. essenziale

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LEMMARIO




Valdesi - vol. I


Autore: Stefano Cavallotto

Il movimento valdese nasce tra il XII-XIII secolo intorno alla figura di Valdo (†1206), commerciante di Lione convertitosi nel 1170 ca. dopo una profonda crisi religiosa agli ideali evangelici della povertà e della predicazione itinerante secondo il modello apostolico (Mt 10) nella scia peraltro dei movimenti penitenziali e pauperistici. Intenzionato inizialmente a rinnovare la chiesa dal suo interno, Valdo ne viene messo ai margini con l’accusa di eterodossia e ribellione. La stessa sorte tocca ai suoi seguaci (chiamati all’inizio “poveri di Lione” e più tardi “valdesi”), i quali dopo una prima approvazione papale nel 1179 rifiutano la proibizione imposta dalla gerarchia di predicare senza autorizzazione, radicalizzando via via in alcuni filoni la loro critica contro la chiesa istituzionale a sostegno di una «chiesa di laici» con culto e sacramenti propri e in cui anche le donne possono accedere al ministero della predicazione. Condannati come eretici, assieme ai catari, da Lucio III nel 1184 e dal IV Concilio Lateranense nel 1215 sotto Innocenzo III, sono sottoposti a repressione e persecuzione da parte dei poteri civili e religiosi. Paradossalmente, però, le difficoltà e gli attacchi inquisitoriali finiscono per accrescere il consenso popolare nei loro riguardi e a far sì che nonostante il forzato ricorso alla clandestinità si espandano non soltanto nella Francia meridionale e in Lombardia, ma un po’ in tutta l’Europa. Fra il XIV-XV secolo la loro presenza appare lungo le valli alpine del versante piemontese fino all’Austria, all’Ungheria e specialmente in Boemia, dove influenzano i seguaci di Jan Hus (†1415) e i Taboriti.

Le zone in cui però si radicano maggiormente sono il Delfinato, le Alpi Cozie, la Provenza, la Calabria, la Puglia e la Germania meridionale. L’espansione del movimento valdese è dovuta principalmente al carattere missionario della sua predicazione, ma anche alla radicalità degli ideali proposti in antitesi col quadro ufficiale della societas christiana e alla natura popolare, fraterna, solidale e ugualitaria della comunità. Centro della testimonianza valdese sino al Cinquecento sono la fedeltà al Vangelo nell’obbedienza “letterale” agli insegnamenti di Gesù e la conseguente scelta di povertà della chiesa con la rinuncia al potere politico e all’uso della violenza; testimonianza continuamente alimentata dai predicatori itineranti, i “barba” o “barbetti” secondo un termine popolare che indica una persona di riguardo, i quali visitando le comunità svolgono la funzione di maestri e curatori delle anime. A giudizio di alcuni studiosi più che di un movimento unitario bisognerebbe parlare di “valdismi medievali” al plurale (c’è anche un movimento di «Poveri cattolici» guidati da Durando di Osca [† dopo 1210] e sottomessi al papa) e ciò anche a motivo del debole collegamento istituzionale che vige tra i diversi gruppi. Altri si chiedono pure, se e fino a che punto i movimenti valdesi del Trecento e Quattrocento abbiano conservato l’identità propria dei seguaci del “povero di Lione”. E’ indubbio comunque che la loro convinzione, come si evince dalla letteratura valdese del tempo, è di essere rimasti in linea di continuità con i “figli di Valdo”.

Ciò non impedisce alle comunità del Meridione francese e del Piemonte, costrette anche dalle persecuzioni della fine del XV secolo, di aderire alla Riforma calvinista nel 1532 col sinodo di Chanforan. Una data di svolta (di “morte” del movimento medievale secondo lo storico Gabriel Audisio) nella storia dei valdesi che li porta a chiudere l’esperienza medievale e ad organizzarsi secondo il modello della [→] Riforma ginevrina in chiese locali con predicatori-pastori propri per il culto e la celebrazione dei sacramenti. Come minoranza protestante ormai fuori della clandestinità, seppur circoscritta nello Stato Sabaudo, subisce assieme alle altre presenze evangeliche in diverse città dell’Italia gli attacchi della Controriforma fino alla Convenzione di Cavour del 1561, con cui Emanuele Filiberto di Savoia sancisce il libero esercizio del culto riformato-valdese in modo limitato e all’interno dei confini nelle Valli. Tali comunità, formate da poche migliaia di persone, costituiranno per quasi tre secoli una specie di avamposto del [→] protestantesimo europeo. Diversa è invece la sorte del valdismo in Calabria e in Puglia, dove a causa delle persecuzione e della diaspora tende a scomparire, lasciando comunque significative testimonianze di martirio, come quella del predicatore Giovan Luigi Pascale (†1560). Oltre all’emarginazione, le comunità valdesi delle Valli sperimentano nella seconda metà del Seicento nuove persecuzioni, dovute anche al progetto, mai abbandonato, dei sovrani francesi e piemontesi di riportarle alla chiesa cattolica. Così nel 1655 subiscono il tremendo eccidio, noto come «Pasque piemontesi», ad opera dell’esercito sabaudo (secondo fonti valdesi i morti sono oltre 1700); una strage, stigmatizzata con forza dall’Europa protestante e che provoca l’intervento dell’Inghilterra di Oliver Cromwell.

Un’altra prova che mette in pericolo la stessa loro sopravvivenza è effetto del decreto emanato in Piemonte nel 1686, su pressione di Luigi XIV, che l’anno prima ha revocato l’Editto di Nantes: Vittorio Amedeo II di Savoia impone di scegliere tra l’abiura e l’esilio. La risposta dei valdesi è la resistenza armata, conclusasi però con una disfatta e l’espatrio dei pochi sopravvissuti nei cantoni protestanti svizzeri. Da Ginevra tre anni dopo tornano con un’operazione politico-militare spettacolare e coraggiosa («Glorioso rimpatrio») guidati da Enrico Arnaud (†1721) per occupare alcune valli delle Alpi piemontesi, rimanendo però confinati in un’area intorno a Pinerolo, che verrà chiamata il «ghetto alpino», e subendo ogni tipo di discriminazioni. La sopravvivenza delle comunità viene assicurata dagli aiuti dei protestanti di tutto il mondo, in particolare dagli inglesi (notevole l’apporto del quacchero rev. William Allen [†1843] e del rev. Stephen Gilly [†1855]). Negli anni Venti dell’800 i valdesi piemontesi «risvegliati» dalla predicazione carismatica di Felix Neff (†1829) partecipano non senza rotture interne al rinnovamento della vita protestante europea («Risveglio»).

L’affrancamento dalla ghettizzazione viene solo nel 1848 grazie alle “Regie Lettere Patenti”, con cui Carlo Alberto pone fine a secoli di discriminazione, riconoscendo ai suoi sudditi valdesi i diritti civili e politici. Un editto di tolleranza che comunque concede una libertà molto limitata, dal momento che «nulla [è] innovato» per quanto riguarda la libertà religiosa, e perciò restano in vigore tutte le restrizioni dell’età controriformista. Il Risorgimento vede i valdesi impegnati in prima linea: per loro è un’occasione provvidenziale per “ridiventare italiani” e riprendere nello spirito del «grande Risveglio» la predicazione e la diffusione della bibbia assieme ad altri gruppi protestanti («Liberi», «Fratelli», metodisti, battisti, pentecostali). Col processo di unificazione dell’Italia e il conseguente conflitto tra Chiesa romana e Stato si aprono nuove possibilità di evangelizzazione, specialmente nel Meridione, e di presenza con attività accademiche e culturali (risale al 1855 la fondazione della Facoltà Valdese di Teologia, la più importante istituzione culturale di tutto il Protestantesimo italiano) e nel settore dell’educazione e della carità con molteplici opere sociali.

Nella seconda metà dell’Ottocento si intensifica inoltre, anche per ragioni economiche, l’emigrazione valdese verso l’America Latina e gli Stati Uniti (esiste oggi una chiesa valdese di migliaia di membri anche nel distretto del Rio de la Plata [Uruguay e Argentina]). Emarginati durante il ventennio fascista (1922-1943) e protagonisti convinti nella Resistenza (1943-1945) con un notevole contributo di sangue (le Valli sono uno degli epicentri più significativi della lotta antifascista), nel secondo dopoguerra i valdesi avviano un duplice processo: di negoziazione per un riconoscimento statale e di unificazione con le altre realtà evangeliche italiane, in linea con lo spirito ecumenico che pervade la cristianità evangelica dopo il conflitto mondiale, e di dialogo “sincero” con le componenti più aperte della chiesa cattolica specialmente a partire dal Concilio Vaticano II. Nel 1984 siglano un’Intesa con lo Stato italiano in applicazione dell’art. 8 della Costituzione; intesa che sarà integrata nel 1993 e perfezionata nel 2007.

Nel 1975-1979 assieme ai metodisti, con i quali sin dal 1948 hanno partecipato al Consiglio Ecumenico delle Chiese, realizzano un patto d’integrazione, basato sulla medesima confessione di fede calvinista del 1655 e nel rispetto delle proprie identità, creando una struttura amministrativa comune: le due chiese si presentano con il nome di «Chiesa Evangelica Valdese – Unione delle Chiese Valdesi e Metodiste» con un unico organo esecutivo, che è la «Tavola Valdese», e un Sinodo annuale “unito”, composto di laici e pastori, dove si assumono le decisioni più importanti per la vita delle chiese e la loro testimonianza. Anche con i battisti realizzano un accordo: dal 1990 la Chiesa Evangelica Valdese e l’Unione Cristiana Evangelica Battista d’Italia si riconoscono reciprocamente e insieme pubblicano il settimanale “Riforma”. La Chiesa valdese, che ha un’organizzazione di tipo presbiteriano e sinodale (i «presbiteri» – uomini e donne – a cui è affidato il ministero della predicazione hanno il titolo di pastori; la comunità locale è guidata da consigli di «anziani» eletti dai fedeli), fa propria la teologia calvinista con i principi del solus Christus, sola fide, sola gratia, sola Scriptura, e conserva alcune tradizioni ecclesiastiche tipiche del mondo riformato (matrimonio dei pastori, comunione col pane e vino, rifiuto del culto delle immagini e del principio episcopale). Nel campo dell’etica sessuale e in quello politico-sociale non interviene con disposizioni obbliganti i propri fedeli, mentre sull’aborto e l’eutanasia lascia aperto il dialogo con la scienza in linea con gli orientamenti del gruppo di lavoro sui problemi di bioetica nominato dalla Tavola Valdese.

A partire dagli anni Settanta del XX secolo dietro l’impulso ecumenico del Vaticano II si sono intensificati, seppure con alti e bassi, i rapporti dei valdesi con la chiesa cattolica italiana. Se nell’orizzonte europeo la Carta Ecumenica, sottoscritta a Strasburgo il 22 aprile 2001 dai rappresentanti della KEK e del CCEE e accolta lo stesso anno dal Sinodo valdese, costituisce il documento più importante dell’incontro istituzionale tra le due chiese, a livello nazionale uno dei documenti più rilevanti del dialogo ufficiale con la Conferenza Episcopale Italiana è il Testo comune per un indirizzo pastorale dei matrimoni tra cattolici e valdesi o metodisti, approvato nel 1997, a cui ha fatto seguito, nel 2000, il Testo applicativo. Sempre nel solco del nuovo clima ecumenico post-conciliare bisogna ricordare la traduzione interconfessionale della bibbia in lingua corrente negli anni Settanta, promossa dalla Società Biblica in Italia. E ancora: una rappresentanza della Commissione per il dialogo ecumenico ed interreligioso della C.E.I. è regolarmente invitata quale ospite al sinodo che ogni anno le comunità valdesi italiane celebrano a Torre Pellice; così come docenti valdesi insegnano in varie strutture universitarie pontificie, tra cui vale la pena menzionare il ben qualificato Istituto di Studi Ecumenici s. Bernardino di Venezia. Cattolici e i valdesi, assieme ad ortodossi ed ebrei, sono tra gli animatori dell’associazione laica ed interconfessionale Segretariato Attività Ecumeniche che in Italia già dai primi anni Sessanta è impegnata a promuovere in sede locale e nazionale con molteplici iniziative la formazione ecumenica delle diverse comunità cristiane. Frequenti e significativi sono pure i rapporti e le collaborazioni tra le due confessioni in ambito locale nelle varie diocesi della chiesa italiana.

Fonti e Bibl. essenziale

G. Audisio, Les «Vaudois». Naissance, vie et mort d’une dissidence (XII-XVI siècles), Claudiana, Torino 2000; C. Maurizio, L’emigrazione dei valdesi in Sud America: 150 anni fa dalla Val Pellice a Montevideo, Pinerolo (TO) 2008; G.G. Merlo, Valdesi e valdismi medioevali. Itinerari e proposte di ricerca, Claudiana, Torino 1984; ID., Valdesi e valdismi medioevali. 2. Identità valdesi nella storia e nella storiografia. Studi e discussioni, Claudiana, Torino 1991; ID., Valdo. L’eretico di Lione, Claudiana, Torino 2010; G. Spini, Risorgimento e protestanti, Mondadori, Milano 1989 (nuova edizione Claudiana, Torino, 1998); Storia dei Valdesi: vol. 1 di A. Molnar, Dalle origini all’adesione alla Riforma (1176-1532), Claudiana, Torino 1974; vol. 2 di A.A. Hugon, Dall’adesione alla Riforma all’emancipazione (1532-1848), Claudiana, Torino 1984; vol. 3 di V. Vinay, Dal movimento evangelico italiano al movimento ecumenico (1848-1978), Claudiana, Torino 1980; G. Tourn, I valdesi, La singolare vicenda di un popolo-chiesa, Claudiana, Torino, 2008; S. Peyronel Rambaldi – M. Fratini, 1561. I valdesi tra resistenza e sterminio: in Piemonte e in Calabria, Claudiana, Torino 2011; S. Velluto, Valdesi d’Italia, Edizioni Sonda (1a ed. 2003), Casale Monferrato 2008.


LEMMARIO




Valtellina: Riforma/Riforme - vol. I


Autore: Lovison Filippo

Il territorio di confine della Valtellina appare sempre più cartina tornasole degli impervi tornanti storiografici d’Europa, all’indomani della divisione religiosa e la nascita delle chiese territoriali; primo destinatario di un’inquietudine di coscienza tra il rispetto delle leggi e i dettami della propria professione di fede, quasi in bilico tra la fedeltà alla propria tradizione – «quasi per manus traditae» – e l’esposizione ai variabili assetti geopolitici del tempo.

Situazione non tanto diversa agli inizi del Seicento quando, accanto all’instabilità degli steccati confessionali, la Valtellina – assieme a Chiavenna e Bormio soggetta ai Grigioni dal 1512 al 1797 – rappresentava un “crocevia d’Europa” e un luogo di sfide decisive in una situazione non facile per il papato, come riconosciuto dal Tallon nel suo volume Conflits et médiations dans la politique internationale de la papauté, p. 120: «Dans les faits, la diplomatie pontificale est bien consciente non seulement des limites des moyens militaires de l’État pontifical, mais même de sa difficulté à mener seule une politique européenne, fut-ce celle de la médiation».

Nella vallata – così lontana dagli echi delle grandi città – si conduceva una vita montanara ritirata e dura, contribuendo a fare della Valtellina un rifugio per gli italiani esuli religionis causa e una via sicura di transito per la Svizzera e il Nord Europa: qui si fermarono i maggiori riformatori italiani: da Bernardino Ochino, a Pier Paolo Vergerio, a Pietro Martire Vermigli. Non avevano, infatti, ancora portato ad apprezzabili risultati l’attuazione dei decreti tridentini, di cui il papato aveva promosso l’esecuzione anche a Como inviando il Consiglio della Congregazione Tedesca, fondato nel 1569, e i cosiddetti “nunzi di riforma” nei paesi già passati all’eresia o minacciati dalla stessa. Da qui le non facili visite pastorali in Valtellina. Lo stesso San Carlo Borromeo, il 27 novembre 1582 aveva ottenuto l’incarico di Visitatore apostolico delle diocesi della Svizzera e dei territori ad essa soggetti, riscontrando de visu come il maggiore pericolo per la fede proveniva dall’ignoranza. Dopo di lui, i vescovi di Como cercarono di porre in essere l’azione restauratrice tra le mille difficoltà delle loro visite pastorali alla Valtellina come ai contadi di Bormio e Chiavenna, sempre vigilati speciali a causa del proselitismo protestante.

In questo scenario, la documentazione per lo più inedita custodita nell’Archivio della Congregazione per la Dottrina della Fede permette di studiare l’esercizio di giurisdizione del Santo Officio in Valtellina agli inizi del Seicento, rivelando interessanti dinamiche di una situazione in movimento circa la natura dei rapporti tra cattolici e riformati, rispetto alle successive regolamentazioni di natura politico-istituzionale. Di fatto si cercava di eludere questi steccati ricorrendo ai mezzi più impensati. Se era ancora ben presente nella memoria comune come nel 1549 l’Inquisitore domenicano Michele Ghislieri (futuro San Pio V) – in un tempo di forti contrasti tra l’Inquisitore e i canonici del Duomo – aveva fatto sequestrare 12 balle di libri eretici che provenivano dalla Valle di Poschiavo (Grigioni), per esser poi smistati in tutta l’Italia settentrionale, nell’anno 1624, benché la diffusione della stampa protestante fosse diminuita notevolmente, anche il rinvenimento di un semplice libretto sospetto bastava a destare grande allarme (nel faldone citato in bibliografia: – Comensis. N. Primo. Circa exercendum S. Officium in Valletellina et Valle Pragellini (1621-1698) – a c. 609c, a questo proposito, si trova l’esemplare di un libriccino in quegli anni inviato a Roma dall’Inquisitore di Como Fra Giacomo Tinti da Lodi, e dal titolo Alphabeto volgare italiano, stampato per P. de la Rovere, MDCV, cm. 8 (larghezza) x 10.5 (lunghezza). Presenta una copertina dal colore grigio, per meglio mimetizzarsi in una sacca di viaggio o in un carro carico di fieno. Contiene l’alfabeto, come impararlo, e poi le preghiere).

In particolare lo studio della documentazione relativa all’anno 1624 appare significativa circa la Controriforma – dai fictis catholicis ai «Catholici vecchi» – che convogliava sulla figura dell’Inquisitore le più diverse pressioni provenienti dalle classi sociali più elevate e dagli ecclesiastici più zelanti, come pure dai diversi e ben saldi vincoli di solidarietà montana dei «parenti, et amici nell’Alpi» (ACDF, St. St. L 7 b: Comensis. N. Primo. Circa exercendum S. Officium in Valletellina et Valle Pragellini (1621-1698), c. 13, Poschiavo, 15 aprile 1624, Lettera inedita del Padre Paolo Beccaria, curato di Poschiavo, al «Molto Illustrissimo e Reverendissimo Padre Signor et Pron. Osservandissimo».

Grazie alla sua particolare posizione “di mezzo” dell’Inquisitore – che si trovava tra la Congregazione del Sant’Ufficio e la società civile ed ecclesiastica della Valtellina (in una specie di triangolazione: Como – Valtellina – Roma; sempre all’interno del cerchio, benché imperfetto, rappresentato dal Ducato di Milano) –, dall’analisi della sua corrispondenza appaiono interessanti aspetti del nervosismo serpeggiante tra cattolici e riformati, rispetto alle successive regolamentazioni di natura politico-istituzionale, messe ben in evidenza, per esempio, da studi recenti.

I contorni incerti e per certi versi paradossali, sempre in bilico da tra “memorie opposte” che cercano un loro spazio politico e religioso di tutela e di garanzia, e tra le “piccole e grandi storie” di coloro che – a diversi livelli – lavorano per una normalizzazione dello status quo, emergono tra le carte del Fondo Comensis, che riportano esempi esplicativi.

Il primo riguarda il cappuccino Fra Arsenio da Desio, che riferisce all’Inquisitore quanto di sua conoscenza a proposito di un certo Giovanni Enrico: «Giovanni Henrico par ben Italiano ha detto alcune heresie nel Monastero nega il libro arbitrio, contra le sante imagini, è lecito alli Religiosi haver moglie, le buone opere non son necessarie havendo patito Christo a bastanza, l’heresia di Calvino è la meglior Fede, over Religione che sia; ciò non li posso provare perché eravamo io, et lor duoi Calvenisti, ho fatto il debito mio, et convinti m’hanno accusato al Capitano. Sono avisato a star sopra di me acciò non sia battuto, et se io me ne andarò in Palazzo è pericolo che mi butti giù della scala, ha dato ordine che non mi lasciano intrare in Palazzo, non me ne curo punto del fatto suo, volontieri lasciarò la vita per la fede tanto come l’ho fatto a dire. Si lamenta, ch’io habbia voluto convertire le moglie delli suoi Cavaleri, cioè Bariselli; sono due donne Cattoliche, quali l’anno passato si volevano confessare, li suoi mariti, benché Luterani, si contentavano a mia richiesta, ma gli hanno fatto intendere, che subito che fussero confessate gli haria discacciate dal Palazzo contro li ordini del suo paese, nel qual si promette la libertà delle conscienze, et credere quello che li piace» (ACDF, St. St. L 7 b: Comensis. N. Primo. Circa exercendum S. Officium in Valletellina et Valle Pragellini (1621-1698), c. 83, Lugano, 20 marzo 1624, Lettera inedita di Fra Arsenio da Desio).

Il secondo riguarda il Signor Paganino della Valle di Poschiavo, che, a detta di informazioni ricevute da parte del Rettore P. Reginaldo da Coira (Curia Rhaetorum) e da alcuni grigioni cattolici come da eretici: «Cioè ch’egli sia evangelico secundum Calvinum nel cuore, e Papista di fuori, che sia la speranza delli Heretici Grisoni, e che loro gli procurino il Vescovato quanto possono, et egli lo tiene per sicuro, et a questo fine ha procurato d’esser fatto Canonico di Coira, et il Reverendissimo Monsignor Vescovo con li Signori Canonici lo hanno fatto agente appresso la Sedia Apostolica. Sapendo io l’amicizia grande che è fra il Molto Reverendo Signor Curato di Bruglio, et il detto Paganino, gli feci una domanda, che opinione habbia del Paganino. Mi rispose che è vero ch’egli sia la speranza delli heretici Grisoni, et di molti Valtellinaschi fuggitivi, e che procura, anzi promette a se stesso il Vescovato come sicuro, e che se non potrà spuntare, che senza dubbio diventarà pazzo, e matto, overo ritornerà Predicante, e che poco bene senta della fede catholica, disse quest’argomento, che lo haveva condotto seco in carrozza di Roma sino a Milano, e di qua sino a Buglio alle sue spese, né mai l’haveva visto dir l’Officio divino, né Rosario, né la corona, né anco dir un sol Pater, né Ave, né mai visto farsi il segno della Croce, et ogni volta che lo voleva condurre alla Messa si mostrava tanto difficile, come se havesse d’andare alla forca. L’istesso diede conseglio al Padre Lettore Curioni, che dovesse vendere alli Grisoni il nostro Convento, cosa dalli Grisoni heretici più che ogni altra cosa desiderata, e procurata, e tutti quelli Grisoni, a’ quali doverebbe esser venduto il Convento sono heretici, cioè quelli di Coira, e quelli d’Engandina, li quali sino adesso hanno signoreggiato, e maneggiato il Convento. De vita, et moribus il Signor Curato di Tirano, quale ha doi lettere del Paganino nelle quali dice d’esser uno delli buoni nella Corte Romana, quel di Morbegno, e quello di Poschiavo, et il Signor Potestà di Morbegno gli daranno piena informatione. Non ho voluto, né potuto mancare di scrivergli le cose suddette accioché lei possa provedere» (ACDF, St. St. L 7 b: Comensis. N. Primo. Circa exercendum S. Officium in Valletellina et Valle Pragellini (1621-1698), cc. 34-35, lettera inedita di P. Reginaldo da Coira, Morbegno, 10 marzo 1624, all’Inquisitore di Como).

Il terzo riguarda il Vicario dell’Inquisitore che si trovava a Poschiavo, di nome P. Paolo Beccaria, curato di Poschiavo: «Il Lunedì Santo havendo qua sbirri da Tirano per far far qualche captura, intendendo come in certa hosteria si trovava un heretico de forisciti di Puschiavo de’ più ribaldi, mi partii dalla Chiesa ove havevo l’impiego per far quest’attione che giudicavo di gloria grande al Signore Vostro in persona alla casa, comando a i fanti che assaliscano questo tale, e assalito nella stanza ove si ritrovava a tavola, sono subito da lui scoperti, e perciò prende una pistola in mano, e dice che vivo non si vuol render se non in mano del Podestà del luogo. Inteso questo corro dal Podestà, e li dico che lo facci prigione a nome del Santo Officio; e mentre il Podestà rauna alcuni consiglieri per consultar ciò che ha da far in tal negotio, esso messisi insieme alcuni Neofiti amici, e parenti del reo, i quali assalendo i birri dal un canto, e porgendo arme a quello che si doveva far prigione aprirono la strada alla fuga, ma prima di fugire sparò la pistola a un de’ birri in un braccio senza però offenderlo molto; ma questo tale poi, cioè il birro, fu da un altro de’ sudetti immatuito con un sasso nel capo senza grave pericolo; però per quanto sin hora si è scoperto, mi trovai in mezzo anc’io a questa baruffa per ovviar a molti mali che mi parea di prevedere. Non ho sin hora processato per i molti affari e per alcuni buoni rispetti. Lo farò di giorno in giorno, e ne darò parte a Sua Paternità Reverendissima supplicandola in questo passarvela per questa volta quanto più levemente sij possibile contro questi tali per veder pure se si potessero aiutare le lor anime. Aspetto poi Sua Paternità Reverendissima quanto prima se non sarà necessario  per il felice progresso del Santo Officio in questo luogo ch’io mi transferisca costì per molte cose che hora per non attediarla tralascio. E qui facendole riverenza finisco» (ACDF, St. St. L 7 b: Comensis. N. Primo. Circa exercendum S. Officium in Valletellina et Valle Pragellini (1621-1698), c. 7, Poschiavo, 8 aprile 1624, lettera inedita di P. Paolo Beccaria).

Traspare in modo significativo dai documenti fin qui pubblicati la debolezza della presenza del Santo Officio nel territorio, al punto che lo stesso Vicario dell’Inquisitore non mancava di scrivergli per suggergli quattro rimedi, affinché si potesse esercitare realmente il Santo Officio in quei luoghi: «Visto, e considerato l’eccesso a’ giorni passati commesso contro il Santo Officio circa il scacciar, et mal trattar de fanti, del qual prima anco gli ne ho mandata l’informatione, e processo, ho comminciato a pensar a rimedij, intorno a’ quali dirò il mio parere, che servirà a Sua Paternità Reverendissima solo come di bozzatura, sopra la quale spiegando la perita mano del suo maturo giudicio verrà a triarla a perfettione. La prima cosa dunque ch’io giudico almeno espediente per far, ch’il Santo Officio fruttuosa, et felicemente s’esserciti in questo luogo è, che la Sacra Congregatione si compiaccia di dicchiarare, et insieme far intender al Conseglio, et Communità di Puschiavo, come il Santo Officio ha preso sufficiente possesso appresso loro di maniera, che non vaglia loro il dire che non sij stato accettato, non essendo però anche sin hora stato da essi contradetto a nome publico alle attioni sue. In oltre commetti, et commandi alla suddetta Communità il prestar braccio per aiuto dell’essercitio d’esso Santo Officio, che sarà secondo i tempi, et le opportunità richiesto da suoi ministri. Commetta inoltre all’Eccellentissimo Signor Marchese di Bagni l’assistenza a’ ministri del Santo Officio, come di sopra in tutte le maniere, et bisogni. E quel che sarebbe la massima per mezzo del detto Signor Marchese procuri, che siano scacciati dall’Agnedina alta i forusciti heretici di Puschiavo, altrimenti sarà impossibile il tenerli lontani dalla conversatione et cohabitatione de parenti, et amici nell’Alpi, ove per 4 mesi continui dimora la maggior parte della plebe, et mezzani di Puschiavo; non per questo rispetto solo si deve ciò procurare, ma per assicurar insieme gl’istessi Catholici del luogo, a’ quali da un mese e mezzo in qua incirca è stato da detti forusciti heretici minacciato il fuoco, come consta per publica fama d’avisi dati a’ suoi parenti, et amici neofiti, che portassero le robbe loro ai monti prima del mese di maggio, affinché poi dandosi il fuoco alla terra, benché l’animo fosse solo contro i Catholici vecchi, essi anco non restino occupati, e consumati. Del qual lor pessimo dissegno ne dà anco chiarissimo indicio un processo per altro fatto dal Podestà del luogo di cui le ne mando la copia. Ne taccerò che dall’accennato tempo in qua l’istessi neofiti mi si mostrano di gran longa meno obbedienti del solito, anzi molto renitenti, come ne fa fede l’eccesso occorso, e molte altre impertinenze, quali per brevità tralascio. E gli altri stessi confederati delle 2 leghe, per quanto si dice, benché si siano due volte raunati insieme in publico Pitacco, non hanno però chiamato la Communità di Puschiavo, non credo per altro, se non per l’odio ch’hanno, che ivi si esserciti il Santo Officio, e per i continui mali officij, che fanno questi forusciti; al che sarebbe bene mettesse qualche mano per rimediarci la Sacra Congregatione per via pure del detto Signor Marchese, o in altro modo, perché di ciò ancora si serve il commune nemico per render odioso il Santo Officio appresso etiandio quelli di mezzana mente di questa Communità. L’eccesso anche passato richiederebbe, che in tutti i modi si procurasse d’haver prigione il capo di detta sollevatione per nome Mattheo Moti, come sta nel processo, qual per timore è scappato in Agnedina alta otto giorni sono. Quest’è quanto par a me espediente per la duratione e felice progresso di questo Santo Officio in queste parti, e, o in questa, o in altra maniera supplico Sua Paternità Reverendissima procuri sij fatto ostacolo incontinente all’imminenti pericoli accennati, con che finisco in farle riverenza» (ACDF, St. St. L 7 b: Comensis. N. Primo. Circa exercendum S. Officium in Valletellina et Valle Pragellini (1621-1698), c. 13, Poschiavo, 15 aprile 1624, lettera inedita del Padre Paolo Beccaria, curato di Poschiavo).

Riflessi di una situazione precaria che si incontra anche nelle cosiddette retrovie. Lo stesso Inquisitore di Como constata amaramente nella sua lettera del 6 maggio 1624, che, nel caso di Como, dove risiede, «Il braccio per gratia di Dio in questa Città lo ha il Santo Officio, senza mendicarlo né dal Vescovato, né dal foro secolare, mercé che i Crocesegnati son sempre pronti ad ogni cenno dell’Inquisitore; ma l’andar a catturar quei Giovani de’ quali ho già scritto, et por mano in quel paese con la Corte armata haverebbe del certo partorito qualche grave inconveniente, né dal Capitano (senza il cui consenso non haverei potuto effettuar alcuna cosa) non haverei mai ottenuta licenza, massime essendo colà quei due heretici sotto l’ombra, et protettione di esso. Et quando bene mi fosse riuscito (come già pensavo di farlo) di prender coloro per forza con mano armata de Crocesegnati, questo sarebbe stato pericolosissimo, et quando non altro sarebbe stato un farli bandir perpetuamente, et quei Crocesegnati, che havessero accompagnato l’Inquisitore, et l’Inquisitore istesso con perder affatto quel poco essercitio che del Santo Officio pure in quelle parti vi resta. Sono nondimeno quei due heretici partiti di là in virtù della mia lettera che scrissi a Monsignor Nontio, et prima di quello che havessi potuto essequire l’ordine della Santità di Nostro Signore di carcerargli. Devo però dar parte a cotesto Sacro Tribunale che con l’occasione di questi due heretici la Dieta de Svizzeri Catholici ha conchiuso quanto Vostra Signoria Illustrissima vedrà in questo alligato foglio che è copia tratta da un’altra che hieri l’altro mi mandò il Signor Vicario Generale, in virtù del quale spero nell’avenire di poter proceder con maggior braccio, et libertà di quello si faceva per il passato…» (ACDF, St. St. L 7 b: Comensis. N. Primo. Circa exercendum S. Officium in Valletellina et Valle Pragellini (1621-1698), c. 18 Como 6 maggio 1624, lettera inedita di Fra Giacomo di Lodi, Inquisitore di Como).

Il 23 luglio 1624 l’Inquisitore di Como scriveva a Roma usando il termine “benignità”, che bene sintetizzava l’attività del Santo Officio qui svolta: «Ancorché vi sia stata gran difficoltà l’introdur in Poschiavo l’essercitio del Santo Officio, nulla di meno è piaciuto a Dio, la cui causa si trattava di dar felice fine a quanto ho negociato, al che ha giovato molto il mostrar la lettera scrittami a parte da cotesta Sacra, et Soprema Congregatione et un’altra del Signor Marchese di Bagni scritta a mia instanza al Consiglio di detta Terra; il quale non solo si è congregato due volte, ma la mattina di San Pietro, dopo haver io predicato, si congregarono tutti gli huomini della Communità, che è uno per casa, stando che vivano a Republica Democratica come tutti li Grigioni, per trattar se dovevano accettar il Santo Officio, benché io sempre al Podestà, et Consiglieri protestassi, che non volevo dipender dalle loro determinationi, ma che volevo essercitar l’officio mio conforme al commando della Santità di Nostro Signore, alla quale eglino dovevano prontamente obedire. Il che anco publicamente in pulpito nel predicar io dissi; finalmente volsero far Communità, nella quale prevalendo i Catholici vecchi determinarono di voler in tutti i modi si essercitasse l’Officio dell’Inquisitione, come Vostra Signoria Illustrissima vedrà in questa protesta, che le mando, della quale ne ho fatto fare authentico rogito. Mi venne in animo di farli giurar conforme alle leggi, ma giudicai bene non passar più avanti, acciò eglino per timor di nuovo giuramento non si ritirassero dalla promessa fatta, et intorbidasse il negocio, stimando che bastasse al mio intento quanto si era fatto. Fu preso a Brusio, terra della Valle di Poschiavo, et confederata con Poschiavo, un heretico nativo già fugitivo, che vi venne senza licenza contro gli ordini del mio Vicario di Poschiavo, che sotto pena di ducento scudi di mia commissione, commandò che niuno senza sua licenza potesse venire in Poschiavo, et in Brusio; et fu mandato in Tirano carcerato. Il quale essendosi ridotto a farsi Catholico, l’ho fatto abiurare, l’ho dichiarato incorso nella pena di ducento scudi, ma poi per mera gratia gli l’ho condonata. L’ho bandito per cinque anni da Bruso, et da Poschiavo con sigurtà di presentarsi ogni volta, che sarà chiamato, come vedrà dalla copia della sentenza, che qui colligata le mando: et ciò a buon fine, perché andandovi adesso portava pericolo di esser ammazzato, et il proceder seco con questa piacevolezza ha dato grande edificatione, oltre che ha assicurata quella Valle di Poschiavo della benignità, con che procede il Santo Officio, né più l’hanno in quell’horrore che prima l’havevano. Con la medesima benignità secondo l’ordine di cotesta Sacra Congregatione ho trattato con due di quelli, che hebbero parte in pigliar da i sbirri quel prigioniero, che il Curato di Poschiavo voleva far carcerare, havendo riguardo tanto al loro esser comparsi da se medesimi, quanto alle raggioni, che in loro diffesa adducono. Come anco, stante le cose, perché mi bastava far in quella Terra atti giudiciali per meglio impossessarmi, et tanto più, che il primo fu essaminato avanti, che la Communità si deliberasse di accettar (come loro dicevano) il Santo Officio et dei loro detti mando anco copia con questa mia, essendosi di già mandato il resto in questa causa formato da quel Curato mio Vicario. Il principale però, che già offese i sbirri per nome Mattheo Regazzo detto Mat se ne fuggì, né mai più è ritornato, egli era heretico, mostrava di esser divenuto Catholico, ma giudicialmente non ha abiurato. Contro del quale se piace a codesta Sacra Congregatione procederò, chiamandolo come absente. In che non credo vi habbia ad esser più difficoltà alcuna. Invio nelle mani dell’Illustrissimo Signor Cardinale di Cremona quanto ho fatto contro di Paganino Gaudenzo da Poschiavo, contro del quale però non risulta altro di certo, salvo di haver detto che le Historie di Gioseffe hebreo siano di maggior authorità delle Epistole di San Paolo. Mi informai di lui estragiudicialmente dal Curato di Poschiavo, il qual mi disse di non haverli sentito a dir cosa di male circa ai particolari della fede, ma che in moribus non è di molta edificatione; come dire, che sarà bene il tenerlo lontano da quei paesi. Devo dar parte a cotesto Sacro et Sopremo Tribunale, che havendo il mio Vicario in Poschiavo sempre ovviato, che gli heretici, massime i Poschiavini fugiti come più perfidi, et pericolosi venissero in Poschiavo senza licenza, procurando di far carcerar quelli, che vi venivano, come già occorse a colui, che fu levato da le mani de sbirri, et a colui, che di sopra scrissi fu preso in Brusio. Le due Leghe, Grisa, et della Casa di Dio si sono lamentate con la Communità di Poschiavo, cercando per lettera commune, che si lascino venire, et rimpatriare detti heretici acciò possino godere le loro facoltà. Della qual lettera hauta in Brusio al mio ritorno da Poschiavo, ne mando copia, et vedrà da essa codesta Sacra Congregatione quanto sicure potrebbero essere le cose della Santa Fede nella Valtellina, quando di nuovo si possedesse da Grigioni, benché anco Catholici, che pur Catholico, come ne sono informato è il sottoscritto capo della Lega Grisa. Et per essequir l’ordine di cotesta Sacra Congregatione in darle compita informatione di quanto ho fatto in Poschiavo, aggiongo che per molte necessarie cause, non si potendo impedir per hora in tutto il commercio delli heretici con Poschiavini, sì per i beni, che alcuni ivi posseggono, sì per altri interessi di danari, et di contratti, che vi hanno, ho lasciato, et publicato ordine, che niuno de tali heretici possa fermarsi in detta Terra senza licenza del mio Vicario et per quel poco tempo, che da lui sarà giudicato necessario con questo che non raggionino di cose di religione, né diano scandalo, né in fatti, né in parolle, et anco, che questo mio ordine solo vaglia sino a tanto, che piacerà a cotesta Sacra Congregatione di ordinar altrimenti. Finalmente il Podestà di Poschiavo con il Conseglio, mi pregorno di significare alla Santità di Nostro Signore la loro buona volontà, et prontezza, et come sempre saranno obedienti figliuoli a sua Beatitudine. Il che io faccio, et per loro consolatione et per debito mio…» ACDF, St. St. L 7 b: Comensis. N. Primo. Circa exercendum S. Officium in Valletellina et Valle Pragellini (1621-1698), cc. 28 e 43, 23 luglio 1624, lettera inedita di Fra Giacomo di Lodi Inquisitore di Como a Roma).

Concludendo, nel caso specifico dell’attività dell’Inquisitore di Como – fenomeno che sembra però essere ben più generale – i primi studi effettuati sulla specifica documentazione Circa exercendum S. Officium Valletellina et Valle Pragellini, nel periodo considerato rivelano una situazione sul territorio ben più sfumata rispetto a quanto sostenuto dalla recente storiografia, che ha finito per porre i vescovi in una condizione di assoluta inferiorità di fronte all’intervento di una apposita e ben strutturata Congregazione esterna deputata alla lotta contro l’eresia. Dinamiche di un territorio di montagna particolarmente complesso che si lasciava alle spalle l’ambiguità di tutto un secolo, dal 1512 al 1620, “fra autorità grigionesi e gerarchie cattoliche”, ossia di due giurisdizioni, quella politica esercitata dai rappresentati riformati (zwingliani) dei Signori delle due Leghe, e quella ecclesiastica rappresentata dai Vescovi di Como che si sono succeduti, i cui resoconti delle Visite pastorali – già ricordate – evidenziano la debolezza della giurisdizione ecclesiastica della curia comasca sulla Valtellina. In questo contesto si inserisce la figura dell’Inquisitore, per il quale recenti studi avanzano l’ipotesi che la sua figura emerga solo alla fine del ’500, e che i veri protagonisti della repressione delle riforme protestanti in Italia siano stati dunque i Vescovi e i Nunzi.

APPENDICE

ACDF, St. St. (Stanza Storica) L 7 b. Comensis. N. Primo.
Circa exercendum S. Officium in Valletellina et Valle Pragellini (1621-1698)
[Grosso faldone in cattive condizioni di conservazione]. N.B. significativamente all’inizio del faldone si trovano dei fogli sciolti molto rovinati, a brandelli, senza segnatura particolare. Sono ciò che rimane degli Articoli della Capitolazione tra Sua Maestà  e SS. Grigioni del 7 novembre 1639 concernenti la Religione Cattolica in Valtellina e Contadi di Bormio e Chiavenna.

Lettere inviate da Fra Giacomo di Lodi

Lettere ricevute da Fra Giacomo di Lodi

Lettere inviate dal Vicario della S. Inquisizione di Poschiavo

Varie

Opuscoli

Memoriali

Capitolazioni

Elenchi

ACDF, St. St. (Stanza Storica) D 2 h. Della Origine Giurisdizione Privilegi e Rendite delle Inquisizioni di Pier Gerolamo Guglielmi Assessore del Santo Officio, 4 dicembre 1749
Tomo III, N ad Z

Fonti e Bibl. essenziale

Archivio:
Si vedano i Fondi esistenti presso l’ACDF, VALTELLINA: St. St.(Stanza Storica) L 7 a: Comensis Vol. 4. Circa expulsionem haereticorum a Valletellina, et Comitatu Clavennae (1587-1808);Stanza Storica L 7 b: Comensis. N. Primo. Circa exercendum S. Officium in Valletellina et Valle Pragellini (1621-1698);Stanza Storica LL 4 h: Circa l’affare di Napoli, Spagna, Portogallo, Valtellina, Grigioni (1566-1778); Stanza Storica QQ 3 c (4): Catholicis Vallis Tellinae dat. facultas utendi ad tempus veteri Kalendario (1612-1616). In questa voce del Dizioanrio si analizza in particolare il secondo grosso faldone: Circa exercendum S. Officium Valletellina et Valle Pragellini (1621-1698), in cattive condizioni di conservazione, del quale si sono analizzati un centinaio di documenti che descrivono l’attività dell’Inquisitore di Como attorno all’anno 1624.

Fonti a stampa:
A. Pastore, Nella Valtellina del tardo Cinquecento: fede, cultura, società, Viella, Roma 2015 (ristampa); I. Fosi, Frontiere inquisitoriali nel Sacro Romano Impero, in Papato e politica internazionale nella prima età moderna, a cura di M.A. Visceglia, Viella, Roma 2013, pp. 257-274; F. Lovison, Evangelizzazione “continua” nelle popolazioni cristiane d’Europa in età moderna e contemporanea. Spunti per la ricerca, in «Archiva Ecclesia», Archivi ed evangelizzazione, vol. 53-55 (2010-2012), Atti del XXIV Convegno degli Archivisti ecclesiastici, Sassone-Roma, 13-16 settembre 2011, Associazione Archivistica Ecclesiastica, Città del Vaticano 2014, pp. 87-89; A. Tallon, Conflits et médiations dans la politique internationale de la papauté, in Papato e politica internazionale nella prima età moderna, a cura di M.A. Visceglia, Viella, Roma 2013; B. Dompnier, Linguaggi della convinzione religiosa. Una storia culturale della Riforma cattolica, Bulzoni Editore, Roma 2013, in particolare il Cap. I, Le frontiere della missione, pp. 33-62, con abbondanti riferimenti bibliografici; Paolo Sarpi, Breve relazione di Valtellina (cfr. l’edizione a cura di L. Novati,  Edizione 2 di Pietra verde, Museo Etnografico Tiranese, 2010), edita criticamente però solo nel 1969); A. Prosperi, Tribunali della coscienza. Inquisitori, confessori, missionari,Einaudi, Piccola biblioteca Einaudi, 2009; C. Cremonini, La congregazione dei Crocesignati milanesi tra 1644 e 1767. Alcune considerazioni, in «Studia Borromaica: Saggi e documenti di storia religiosa e civile della prima età moderna» 23 (2009), pp. 489-519; A. Rotondò, Studi di storia ereticale del Cinquecento, Volume 2, L.S. Olschki, Firenze 2008; S. Xeres, «Il pretesto della religione». La questione confessionale inValtellina, Chiavenna e Bormio, 2004 (consultabile all’indirizzo http//castellomasegra.org/saggi/Xeres.pdf); C. Cantù, Episodio della riforma religiosa in Italia: il sacro macello di Valtellina: le guerre religiose del 1620 tra cattolici e protestanti, tra Lombardia e Grigioni, prefazione di Diego Zoia, Bormio, collana storica Alpinia, 1999; S. Xeres, Istituzioni ecclesiastiche e vita religiosa in Valtellina tra Quattro e Cinquecento, in Il Rinascimento in Valtellina e Valchiavenna. Contributi di storia sociale, Sondrio 1999; A. Wendland, Passi alpini e salvezza delle anime. La Spagna. Milano e la lotta per la Valtellina 1620-1641, Sondrio 1999 (Zürich 1995); C. Di Filippo Bareggi, Le frontiere religiose della Lombardia. Il rinnovamento cattolico nella zona “ticinese” e “retica” fra Cinque e Seicento, Milano 1999; La Valtellina crocevia dell’Europa. Politica e religione nell’età della guerra dei Trent’anni, a cura di A. Borromeo, Milano 1998; G. Signorotto, Aspirazioni locali e politiche continentali. La questione religiosa nella Valtellina del ’600, in Frontiere geografiche e religiose in Italia. Fattori di conflitto e comunicazione nel XVI e nel XVII secolo, atti del XXXIII convegno di studi sulla Riforma e i movimenti religiosi in Italia, Torre Pellice, 29-31 agosto 1993, a cura di S- Peyronel-Rambaldi, «Bollettino della società di studi valdesi», 177 (1995) pp. 87-108; G. Signorotto, Equilibri politici e tensioni religiose in Valtellina dopo il Capitolato del 1639, in Riforma e società nei Grigioni, Valtellina e Valchiavenna tra ’500 e ’600, a cura di A. Pastore, Milano 1991, pp. 173-201; J. Metzler, Religiöse Interessen in den Westalpen: Schweiz, Savoyen-Piemont, in Sacrae Congregationis de Propaganda Fide memoria rerum, a cura di J. Metzler, vol. I, tomo 2, Roma-Freiburg-Wien 1972, pp. 64-92; Concilio di Trento, Sessione IV, 8 Aprile 1546, Decretum de libris sacris et de traditionibus recipiendis, in H. Denzinger, Enchiridion Symbolorum definitionum et declarationum de rebus fidei et morum, a cura di P. Hünermann, EDB, Bologna 1996, p. 638; S. Xeres, Filippo Archinti vescovo di Como (1595-1621), in Filippo Archinti, vescovo di Como (1595-1621). Visita pastorale alla diocesi: edizione parziale (Valtellina e Valchiavenna, pieve di Sorico, Valmarchirolo), in «Archivio Storico della Diocesi di Como», 6, (1995), pp. 53-93; A. Rotondò, Studi e ricerche di storia ereticale italiana del Cinquecento, Volume 1, Giappichelli, 1974.

LEMMARIO




Visite ad limina - vol. I


Autore: Angelo Turchini

La visita ‘ad limina apostolorum’ in pellegrinaggio devoto è una prassi remotissima, affonda nei primi secoli (tracce in una lettera indirizzata al papa dal concilio di Sardica del 343), legata al culto delle reliquie degli apostoli Pietro e Paolo; papa Zaccaria (741-752) sarebbe stato il primo a imporla come obbligo ai vescovi nel sinodo romano del 743; i vescovi più vicini dovevano recarsi a Roma, quelli più lontani potevano assolvere all’obbligo tramite un chirografo (probabilmente una relazione sullo status).

L’omaggio al successore di Pietro, visitando le basiliche di S. Pietro e di S. Paolo, e comunque la sede apostolica, vedrà diverse fasi e momenti, compresa la fissazione della periodicità, variabile a seconda della distanza da Roma (ogni anno, ogni due, se al di qua o al di là delle Alpi, e ogni tre o cinque, poi ogni quattro, se oltremare) non ben definita ancora alla fine del XII secolo; Gregorio VII (sinodo romano del 1079) stabilisce che i vescovi, prima della consacrazione, giurino di fare una visita ‘ad limina’ annuale (anche tramite delegati); poi il concilio Lateranense del 1215 (c. 26) prevederà la visita ‘ad limina’ del vescovo (personalmente se possibile) per la conferma dell’elezione. Gregorio IX nel 1234 (costituzione apostolica Rex pacificus) dà forza di legge all’obbligo del giuramento dal 1234 la visita ‘ad limina’ per disposizione di papa Gregorio IX viene richiesta a tutti i vescovi, con frequenza proporzionata alla distanza. Al di là dell’oggetto della visita propriamente detta (al papa e alle tombe degli apostoli) si fissa un anche contenuto della visita, ovvero la presentazione dello ‘status’ della chiesa particolare, esplicitamente ricordato nella tradizione canonistica già verso il 1265 (E. Ostiense), divenendo poi opinione comune (e non considerando il pagamento di censi dovuti alla sede apostolica).

Per soddisfare all’atto dovuto e universalmente previsto dalla bolla Romanus pontifex emanata da papa Sisto V il 20 dicembre 1587, il vescovo si deve recare a Roma ogni tre anni (almeno per le diocesi italiane) per prestare il dovuto omaggio, e presentare, personalmente o tramite procuratore specifico o delegato, le ‘relationes ad limina’ ovvero le relazioni sulla diocesi alla competente Congregazione romana (in questo caso quella detta del Concilio) perché potesse rendersi conto della situazione delle diocesi, stimolare l’attività dei vescovi, risolvere tutti i dubbi e le difficoltà; la norma verrà poi incorporata nel Pontificale romano. Le relazioni da allora prodotte tendono a dare un resoconto, una descrizione completa della diocesi, sia di quanto sotto il controllo e giurisdizione episcopale sia di quanto esente, e sono scritture molto utili per conoscere la vita e la storia delle diocesi, permettendo di cogliere la complessità e la diversità delle istituzioni presenti in chiave sincronica e diacronica, offrendo soprattutto dati pertinenti alle istituzioni ecclesiastiche e alla loro organizzazione, con precisi riferimenti ad un quadro d’insieme della realtà (sia pure limitata ad alcuni ambiti, mentre vorremmo sapere molto di più per tanti altri), percepita e selezionata dal vescovo in ottemperanza ad un obbligo previsto con tempistica, formalità, contenuti ben determinati. Esse sono conservate e disponibili nell’Archivio Segreto Vaticano, nel fondo della Congregazione del Concilio.

Il problema di una sollecitazione alla visita era già stato presente a C. Borromeo che ne aveva disposto le modalità tematiche nel VI concilio provinciale del 1582, relazionando con particolare riguardo sullo stato della chiesa, sulla disciplina del clero e sul progresso dei fedeli ‘in via Domini’; poi papa Gregorio XIII sul finire del pontificato aveva elaborato un questionario apposito probabilmente rivolto a questo fine, e incentrato sulla attività dei vescovi: non è qui il caso di soffermarvisi se non per un doveroso richiamo ai suoi Capita rerum quarum rationem…nunc ab episcopis petit; ma Sisto V non sembra offrire precise istruzioni in proposito; alcune formule, come una “formula ultima episcoporum per se visitantium”, e un’altra “formula episcoporum visitantium limina apostolorum per procuratorem”, peraltro compariranno nel 1588. Successivamente interviene ancora papa Benedetto XIII proponendo nel 1725 un questionario molto ricco, in cui ai punti principali sullo stato della chiesa materiale (I.), sul vescovo (II.), sul clero secolare (III.) e regolare (IV.), sulle monache (V.), sul seminario (VI.), sugli oneri delle messe, le confraternite e i pia loca (VII.), sui fedeli (VIII.), richieste, quesiti, problemi (IX.) segue una serie articolata e precisa di paragrafi oggetto di ulteriore richiesta informativa; seguirà un intervento di Benedetto XIV con la costituzione Quod sancta del 23 novembre 1740. Le ‘relationes’ stavano con l’Archivio del buon governo sino al 1767, trasferite quindi in un’altra stanza sotto la terrazza di Pio IV, e riordinate prima del trasferimento a Parigi e il ritorno in Vaticano.

Uno schema ideale prevede (anche se l’ordine non è rispettato nella sequenza) nascita e sviluppo della diocesi, la diocesi, amministrazione della medesima (vicario e simili), cattedrale e residenza episcopale, capitolo della cattedrale, collegiate, monasteri maschili e femminili, fondazioni religiose, pia loca e confraternite, parrocchie, fedeli, clero, azione episcopale, residenza e attività pastorale (sinodi, visite, clero, liturgia, seminario e scuole e simili. Nulla sfugge nella relazione al controllo episcopale, anche gli esenti sono oggetto di un discorso da parte di chi conosce bene la realtà diocesana da un punto di osservazione eccezionale, ma spesso si riscontra genericità, magari circa l’organizzazione regolare, e quella caritativo assistenziale; naturalmente si presta particolare attenzione ai problemi maggiormente avvertiti.

Le relazioni, sfruttate ancora episodicamente nella ricerca delle realtà diocesane, magari erroneamente considerate inadeguate alla conoscenza della vita religiosa e istituzionale, possono essere sommarie o analitiche, più o meno ben strutturate, fino a presentare la trattazione divisa in capitoli, quindi in paragrafi, a loro volta ulteriormente articolati per punti (la cosa è agevolata avendo a modello gli schemi emanati), per chiudere con una serie di domande o postulati, o quesiti; tuttavia anche nella loro asciuttezza e talvolta secchezza schematica presentano un quadro documentario notevolmente ricco e articolato, offrendo articolate forme di presenza della chiesa nel contesto della società. Nella loro attendibilità gioca la persona del vescovo estensore, l’attenzione, l’impegno, la conoscenza.

La struttura in genere segue un ordine definito, che parte dalla descrizione della città, per passare a parlare dell’episcopato (in realtà offrendo un breve curriculum del vescovo e della sua attività), presentando poi il territorio diocesano, la struttura istituzionale e la popolazione nel suo complesso; si passa poi alla cattedrale, alla prestazione del culto e dei divini offici nella medesima, quindi alle parrocchie con particolare riguardo all’amministrazione dei sacramenti, per venire alla presentazione dei loca pia, delle case religiose presenti (monasteri maschili e femminili); infine si segnalano alcuni casi particolari, prima di concludere in generale sulla diocesi nel suo complesso, presentando eventuali questioni per cui in qualche modo si richiede l’intervento della S. Congregazione del concilio. Nella estensione non mancano aspetti di ripetitività quando viene assunto il modello della visita precedente non solo per lo schema, ma anche sotto l’aspetto lessicale (con intere frasi e parti del discorso, per punti non problematici) che va ben oltre la struttura dei temi affrontati; importano anche valutazioni talora affidate a un aggettivo o a un avverbio.

Come viene recepito dai vescovi l’obbligo della presentazione della relazione sulla diocesi? E’ evidente una lettura pastorale, e non burocratica, dell’atto, per quanto incanalato in forme e modalità determinate, e anche ripetute; la cosa non viene spesso esplicitata dal vescovo estensore e, quando ciò accade compare generalmente in occasione d’inizio episcopato. Spesso i vescovi ripercorrono rapidamente la loro carriera, scrivendo il loro curricolo a partire dalla nomina, sottolineando tuttavia di osservare la residenza, di espletare le visite pastorali e via dicendo; una volta esposto lo stato materiale della diocesi (ovvero la struttura istituzionale) si passa a descrivere la parte formale del clero ed i costumi della popolazione e la valutazione talora volge al panegirico. Dalle relazioni traluce la coscienza dei doveri episcopali, la percezione soggettiva dei problemi, e i loro riflessi pastorali, e insieme la limitazione dei medesimi ad una sfera precisa, di tipo amministrativo, generalmente (e obbligatoriamente) rivolta a tutta la diocesi; del resto ci si rifà ai dettami del concilio di Trento, assunti come principi motori delle dinamiche pastorali, e della stessa coscienza episcopale.

Le relazioni, una volta accolte, vengono esaminate negli uffici curiali romani, che vi lasciano tracce e appunti, da sottolineature di richiamo marginale su alcuni aspetti o punti problematici o anche apprezzabili; in qualche caso si procede a sottolineature, o ancora ad annotazioni con parentesi quadre; a margine ancora compare qualche nota del lettore che probabilmente si appunta dubbi ed eventuali quesiti di qualche problema da affrontare e discutere, evidentemente meritevole di approfondimento ulteriore, da trattare o sottoporre a parere alla Congregazione (talora anche il referente), comunque meritevoli di risoluzione adeguata, tanto più se il vescovo chiede lumi sul da farsi e via dicendo. A tale riguardo non mancano annotazioni del lettore curiale con qualche riferimento giuridico richiamando risoluzioni già adottate altrove, atto a costituire evidentemente la base della risposta alla richiesta esplicitamente posta nel corso della relazione; si apre una pratica e diverse scritture possono accrescere il fascicolo della visita.

Fonti e Bibl. essenziale

Per l’epoca precedente al Tridentino mi limito a segnalare J. Cottier, Eléments nouveauz des normes de la visite “ad limina” et elur valeur juridique respective, des Décrétales au concile de Trent, “Ephemerides juris canonici”, VIII, 1952, 1; poi cfr. La sacra Congregazione del Concilio. Quarto centenario della fondazione (1564-1964). Studi e ricerche, Città del Vaticano 1964; per il questionario, edito in fine al concilio romano del 1725, rinvio ad A. Lucidi, De visitatione sacrorum liminum seu instructio S. C. Concilii S. M. Benedicti XIII super modo conficiendi relationes de statu ecclesiarum exposita et illustrata…, I, 1-2, Romae-Parisiis-Tauruni 1866 (2a ed. 1878) (riproposto in F.L. Ferraris, Bibliotheca canonica iuridica moralis theologica nec non ascetica polemica rubricistica historica, V, K-O, Romae 1889, 165-168); si v. M. Rosa, Religione e società nel Mezzogiorno tra Cinque e Seicento, Bari 1976, 17-74 (Geografia e storia religiosa per l’Atlante storico italiano, già edito in “Nuova rivista storica”, 1969), poi M. Chiabò, C. Ranieri, L. Roberti, Le diocesi suburbicarie nelle “visitae ad limina” dell’Archivio segreto vaticano, Città del Vaticano 1988, quindi A. Turchini, Lo stato materiale e spirituale della diocesi di Pesaro nelle ‘visite ad limina’, secoli XVII-XVIII, in Pesaro dalla devoluzione all’illuminismo, IV, 1, Venezia 2005, 31-49, e Le relazioni “ad limina” della diocesi di Catania (1595-1890), Catania 2009; infine v. gli importanti contributi di D. Menozzi, Per l’utilizzazione delle “relationes ad limina” in sede storica. L’esempio di Reggio Emilia e Guastalla, in Presiedere la carità. Studi in onore di mons. G. Baroni, vescovo di Reggio Emilia e Guastalla, a c. di E. Mazza, D. Gianotti, Genova 1988, 407-415 e, dello stesso autore, L’utilizzazione delle “relationes ad limina” nella storiografia, “Storia e problemi contemporanei”, V, 1992, n. 99, 135-156.


LEMMARIO




Visite apostoliche - vol. I


Autore: Maurilio Guasco

Il termine assume un significato specifico solo con il Concilio Tridentino, e possiamo dire che i papi vi fanno ricorso con una certa frequenza nel corso dei secoli XVI e XVII. Le ragioni sono le più diverse. Il pontefice può nominare un suo visitatore che indaghi e presenti una relazione alla Santa Sede quando in certe zone si verifichino situazioni di irregolarità o di disubbidienza a determinate regole. Oppure può decidere di estendere a intere regioni ecclesiastiche una visita o per verificare se e come viene applicata una determinata riforma, oppure in vista di meglio programmare proprio quella riforma che si sta preparando. Per questo le visite possono essere ordinate direttamente dalla Santa Sede, ma più sovente vengono indette da una Congregazione romana: in questo caso il visitatore riceverà un mandato connesso con gli aspetti della vita di una diocesi o di una regione ecclesiastica dipendenti dalla Congregazione che decide la visita. Si tratta, come precisa il canone 343 del Codice di Diritto Canonico del 1917, e attribuendo alla visita apostolica gli stessi scopi connessi con la visita pastorale, di conservare “sanam et orthodoxam doctrinam”, di difendere i buoni costumi e correggere quelli cattivi.

Non esiste una specifica normativa che regoli tali visite. Esse infatti, come viene ricordato nei documenti romani, sono occasionaliter decretatae, il visitatore quindi agisce nei modi e negli ambiti che sono specificati dal mandato ricevuto, che si estende ai vari aspetti indicati dal documento con cui la visita è stata decisa dall’autorità romana. Si distinguono dalle visite pastorali, termine con il quale vengono indicate le visite che il vescovo compie periodicamente nella sua diocesi.

Sarebbe però riduttivo indicare con tale termine solo il modello messo in atto dal Concilio Tridentino, dal momento che già in epoca precedente alcuni Concili e Sinodi hanno parlato di visite da compiersi in alcune diocesi o in alcuni monasteri, e non solo per ordine di qualche vescovo o di qualche abate, ma anche facendo riferimento esplicito alla Sede apostolica.

Troviamo ad esempio un cenno alla visita canonica da parte di un arcivescovo o metropolita nel Concilio Costantinopolitano IV (869-870), che condanna gli abusi che il visitatore può compiere proprio con la scusa della visita canonica, mentre nel Lateranense III (1179) si danno delle precise norme perché tali visite vengano svolte con una certa sobrietà, per non gravare eccessivamente sulle chiese visitate, al punto da costringere i sudditi “a vendere le suppellettili della chiesa, mentre i viveri accantonati per un lungo periodo sono consumati in breve tempo”.

Il Lateranense IV (1215) dà invece disposizioni perché “siano nominate persone religiose e prudenti” che visitino le abbazie sia maschili che femminili del regno o della provincia avendo come compito di “correggere e riformare ciò che ha bisogno di correzione e di riforma”, in modo che “i visitatori al loro arrivo vi trovino più cose da lodare che da riformare”. Il secondo Concilio di Lione (1274) ricorderà la proibizione per i visitatori di ricevere sotto qualsiasi forma del denaro o dei doni, dovendo invece accontentarsi della semplice ospitalità. Il Concilio di Vienna (1311-1312) parla invece delle visite ai monasteri femminili facendo esplicito riferimento all’autorità pontificia. Questi infatti riceveranno “la visita degli ordinari locali in nome della loro personale autorità, se essi non sono esenti, in nome dell’autorità apostolica se fossero esenti”.

Sarà poi il Concilio di Trento (1545-1563) a dettare una serie di regole sulle visite apostoliche, che man si differenzieranno dalle visite pastorali, di pertinenza degli ordinari del luogo. Tale visita verrà svolta dai vescovi “in virtù dell’autorità apostolica” e in certi casi particolari “anche in qualità di delegati della Sede apostolica”.

Gli stessi vescovi d’altronde potevano diventare oggetto della visita apostolica. Il Concilio di Trento infatti era orientato, causa i problemi sollevati dalla Riforma, a una certa centralizzazione romana, e soprattutto voleva creare strumenti che garantissero che nelle varie diocesi si sarebbero attuati i provvedimenti decisi dallo stesso Concilio. La visita apostolica diventava così anche uno strumento di controllo sulla attuazione delle riforme, e vi avrebbe fatto ricorso con una certa regolarità Gregorio XIII, successore di Pio V anche nella volontà di far applicare le riforme del Tridentino.

Tale strumento però, utilizzato con una certa regolarità nel corso del XVI secolo, venne di fatto abbandonato nel corso del XVII secolo, al di là di qualche caso considerato grave. Fu solo negli anni della Restaurazione che i papi fecero nuovamente ricorso alla visita apostolica. Leone XII, ad esempio, fece svolgere una visita apostolica tra il 1824 e il 1828. Si trattava però, e questo vale per altre visite apostoliche concernenti la diocesi di Roma, più che di una visita apostolica, di una visita pastorale. Il termine deriva dal fatto che il papa viene indicato come il dominus apostolicus, e quindi anche la visita pastorale alla diocesi viene definita visita apostolica.

Negli anni della Restaurazione, la Chiesa stava vivendo una situazione parzialmente simile a quella vissuta nei decenni successivi alla Riforma, dopo la bufera napoleonica e mentre gli Stati si stavano lentamente riorganizzando. Era dunque necessario avere a Roma una panoramica delle diverse situazioni, e l’Italia, causa la presenza di Stati con culture e amministrazioni civili molto diverse, così come i territori pontifici, avevano particolarmente bisogno di tale verifica.

Fonti e Bibl. essenziale

G. Alberigo, L’episcopato nel cattolicesimo post-tridentino, in “Cristianesimo nella storia”, VI (1985), 71-91; Conciliorum Oecumenicorum Decreta, a cura dell’Istituto per le Scienze religiose di Bologna, Dehoniane, Bologna 1991; L. Fiorani, Le visite apostoliche del Cinque-Seicento e la società religiosa romana, in “Ricerche per la storia religiosa di Roma”, 4 (1980), 53-148; S. Pagano, Le visite apostoliche a Roma nei secoli XVI-XIX. Repertorio delle fonti, in “Ricerche per la storia religiosa di Roma”, 4 (1980), 317-464; A. Prosperi, Riforma cattolica, controriforma, disciplinamento sociale, in Storia dell’Italia religiosa, II, L’età moderna, a cura di G. De Rosa e T. Gregory, Laterza, Roma-Bari 1994, 3-48; Visita apostolica e decreti di Carlo Borromeo alla diocesi di Brescia, a cura di A. Turchini et alii, “Brixia sacra. Memorie storiche della diocesi di Brescia”, 6 voll., Brescia 2003-2007.


LEMMARIO




Visite pastorali - vol. I


Autore: Angelo Turchini

Fin dalle origini la visita è ritenuta uno dei più gravi obblighi del ministero sacerdotale, a partire dalle testimonianze degli apostoli Pietro che “circuibat civitates et vicos ut confirmaret fideles” (At 9,32), e Paolo. Attestata dal IV secolo, l’istituzionalizzazione dell’istituto giuridico della visita si ha nel VI secolo: per la prima volta un concilio provinciale, quello di Terragona del 516, formula l’obbligo delle visite (can. 8), con riferimento ad un ordine di antica consuetudine, generalizzata un po’ ovunque, specialmente in Italia sotto il pontificato di Gregorio magno e in Francia. La disposizione del 516, ripetuta e meglio determinata dal concilio di Toledo del 633, verrà riproposta nel Decretum di Graziano (1150 circa), per entrare poi nelle compilazione autentiche.

Visita pastorale e sinodo nel IX e X secolo si articolano come organizzazione di controllo; l’obbligo di visita è imposto ai vescovi dai capitolari carolingi (capitolare mantovano del 781 ad esempio); anche se non sono rimasti verbali di visita sino al X secolo, non mancano i formulari di visita, testimoniati dal De synodalibus causis et de disciplinis ecclesiasticis (906) di Reginone di Prum, opera inspirata dai Capitula di Incmaro di Reims (845-882), e poi ripresa da Burchard di Worms (1025).

Non mancano litigi fra vescovi e arcidiaconi, fra metropoliti e suffraganei per applicazioni, periodicità, modalità dei controlli all’interno della diocesi, con concorrenza fra visitatori per l’esercizio del diritto, con relativa riscossione di tributo (cfr. Extravagantes c. 6 de censibus, e le decretali per lo più limitate alla repressione di abusi), giacché il vescovo itinerante, come il sovrano, ha dei costi /ovvero diritto “de gite”/; Innocenzo IV nel 1246 promulga la costituzione Romana Ecclesia, contenente un trattato giuridico sulla visita pastorale; nel 1270 se ne sottolinea l’importanza nel concilio Lateranense 4 (cap. 12); la visita poi diventa un dovere, ma privilegi ed esenzioni non permettono libera giurisdizione episcopale su persone fisiche e morali, e non manca chi cerca di approfittarne per usurpare diritti.

Visite in diocesi della penisola sono attestate fin dal XIII secolo, per diventare un po’ più diffuse nel XIV e più frequenti nel XV, connesse ad una nuova sensibilità episcopale e ad un sentimento di riforma della chiesa; non di rado le visite pastorali nel basso medioevo seguono un questionario, comunque ricostruibile, ad esempio per le diocesi di Pisa, Milano, Piacenza; si effettuano inchieste amministrative, disciplinari e riformatrici e qualche volta il visitatore, in preciso contesto, è anche giudice su questioni giuridiche e patrimoniali, attuando la cosiddetta visitatio synodalis, come farà ancora G. M. Giberti a Verona poco prima del concilio di Trento. Un Ordo ad visitandas parochias nel Pontificale di G. Durand, testo liturgico, ma solo con il Pontificale romanum di Clemente VIII (1595, reso obbligatorio nel 1596) si ha una procedura cerimoniale uniforme, per cui il cerimoniale di visita viene ben definito, con ragguagli sull’accoglienza, la procedura, la processione alla chiesa con l’assegnazione dei posti, i riti all’ingresso e all’altare con benedizione, quindi sulla predica del visitatore, con i motivi della venuta (inchiesta, verifica, giudizio, consiglio) durante la messa; nota delle confraternite, ospedali e luoghi pii e dell’amministrazione della cresima.

Dopo la conclusione del concilio di Trento, la visita pastorale diventa dovere personale del vescovo, da effettuarsi obbligatoriamente ogni due anni, come importante strumento di riforma ecclesiastica, nei riguardi del clero come dei fedeli. La visita pastorale secondo il concilio (Sess. XXIV, de ref. cap. 3) intende soddisfare a diversi scopi: in primo luogo indurre e proporre una dottrina pura e ortodossa, conservare una buona prassi di vita cristiana, animare i fedeli (“populum”) con esortazioni ed ammonimenti, stimolandoli alla religione, alla collaborazione sociale (“ad…pacem”), alla purezza di vita; in altri termini si propone una acculturazione religiosa e comportamentale ad extra e ad intra, in chiave di disciplinamento morale e sociale, ben illustrato dalla teoria e soprattutto nella prassi visitale di personaggi influenti non solo in loco, come Carlo Borromeo a Milano. Dopo il concilio di Trento (al di là di un’ottica tridentinocentrica degli studi) si assiste ad una forte mutamento nella prassi visitale, ben rilevabile dalla documentazione sedimentata negli archivi diocesani: la visita tocca la città e la diocesi, può esplicarsi in diverse tornate di visita e vede l’emanazione di decreti, intervenendo conseguentemente sulla realtà; per quanto limitata, essa offre un quadro specifico e nuova è la generalizzazione diffusa della visita, la sua rivalutazione, la sua formalizzazione come dovere personale del vescovo, come il suo costante (parziale) adeguamento alle situazioni del tempo. Importa l’azione della visita, oltre lo svolgimento della medesima, il cui contesto naturale è pastorale e insieme amministrativo, in una precisa realtà istituzionale investigata.

Come è noto, nella pratica della visita, si hanno alcuni momenti fondamentali: oltre il momento della preparazione, si ha quello dell’ingresso come incontro fra comunità e visitatore alla scoperta del territorio; segue la ‘visitatio rerum’ e la ‘visitatio hominum’ (con particolare riguardo ai chierici), ma si presta attenzione anche ai laici, organizzati o meno, ai loro specifici interessi, anche con diverse attese ed aspettative rispetto ad un potere più vicino che tende a reintegrare eventuali motivi di lacerazione della comunità; si assumono inoltre informazioni relative all’organizzazione ecclesiastica sul territorio, tendendo al controllo del funzionamento delle istituzioni, anche per via delegata; non manca la predicazione come occasione di insegnamento, di ricognizione amministrativa e di animazione religiosa; infine si adottano i ‘decreta’, ovvero i provvedimenti ritenuti utili per quella specifica realtà.

Si esaminano gli edifici ecclesiastici per verificarne lo stato di conservazione, gli altari e le suppellettili e soprattutto le reliquie dei santi, al pari dei cimiteri; si guarda allo stato dei chierici, dei benefici, del loro modo di vivere, considerando la figura di un buon sacerdote quale punto di riferimento per i fedeli; tramite un clero residente e predicante, esercitante appieno le funzioni amministrative, si intende pervenire al controllo della comunità, alla sua formazione ed educazione, con l’insegnamento della dottrina cristiana; lo stato del ministro assume una visibilità istituzionale maggiore rispetto al passato, così come quello del fedele ha caratteristiche evidenti di battezzato e catecumeno, confermato, sposato, confessato e pascalizzato, il tutto accertabile attraverso la scrittura aggiornata dei libri dei battesimi, delle cresime, dei matrimoni, dei morti.

Si evidenzia il luogo sacro rispetto a quello profano, in un processo più che di sacralizzazione della realtà, di clericalizzazione della società; del resto lo spazio sacro è luogo deputato ad una socializzazione comunitaria con uno statuto spaziale simbolicamente determinato a segnalare la natura liminare dei riti nel loro complesso; nella chiesa parrocchiale si riuniscono le assemblee della popolazione come espressione sia del grado di organizzazione raggiunto in campo civile, della comunità locale, sia della tipologia della struttura ecclesiastica meridionale a base largamente laicale. I gesti e le formule del rituale come circostanze uniformi sono destinati ad imprimersi in ognuno, costruendo una comunità che confessa la sua identità; il rito costituisce un indice comportamentale, designando tanto il gruppo, con punti di riferimento identitario, quanto le persone, in cui ciascuno riceve il nome, alimenta l’itinerario di fede, con ruoli differenziati da permetterne il riconoscimento confessionale.

La struttura organizzativa del territorio, all’alba della introduzione delle riforme disciplinari previste dal concilio di Trento, attraversa una fase di grande fluidità all’interno della quale si assiste ad un tentativo di razionalizzare i rapporti tra centro e periferia attraverso figure intermedie fra curia e sacerdoti diocesani, destinate a diventare permanenti con l’obbiettivo di riorganizzare il clero e conseguentemente i fedeli amministrati. Conoscere per governare è funzionale all’amministrazione, per cui esercitare il controllo del clero e della popolazione dei fedeli, nel loro complesso e nella loro particolarità, è cruciale come si è visto per la realtà della diocesi di Trento. I verbali di visita pastorale sono una fonte importante per la conoscenza della storia, preziosi rivelatori della situazione religiosa (almeno in parte), in virtù della loro larghissima diffusione nel tempo, dal XV secolo soprattutto, e nello spazio, sin nei più piccoli territori all’interno delle istituzioni diocesane; non è facile avere ampi quadri spaziali e temporali, come ad esempio per la realtà delle diocesi della Sardegna.

Occorre considerare nel particolare le specificità territoriali, mettendo l’accento su quanto il concilio ha potuto o meno modificare, sullo sfondo della lunga durata delle istituzioni ecclesiastiche, sia in un periodo temporale relativamente breve (entro il XVI secolo e da questo punto di vista è interessante l’edizione degli atti delle visite pastorali della diocesi di Arezzo dal 1207 al 1609) che anche più lungo e plurisecolare sino al XVIII secolo e oltre nel XIX. Ad un primo momento di entusiasmo, segue una fase più statica o amministrativamente piatta, con veri e propri momenti di routine (anche nei singoli episcopati); in ogni caso le visite pastorali risentono degli uomini come del tempo: se sono magari concentrate nella prima metà del XVIII secolo per diminuire nella seconda metà, si può osservare una loro ripresa successiva nel corso del XIX, e magari un cambio d’uso della lingua (con prevalenza dell’italiano sul latino); si può avvertire maggiormente il rapporto con la società civile e politica durante, ma non solo, la stagione dei moti risorgimentali soprattutto nel Nord della penisola, evidenziati non solo dalle visite nelle diocesi venete, mentre il visitatore rinforza ciò che fa il parroco (e la figura dei laici è ridotta ai margini).

Se la fonte in genere testimonia, al di là della pastoralità del vescovo, una porzione della realtà (quella interessante l’istituzione promotrice che ne condiziona il punto di vista), l’interesse maggiore sta nell’andare al di là della realtà abbracciata dall’istituzione che ha creato la fonte, interrogandola adeguatamente, con l’attenzione volta a conoscere direttamente le condizioni religiose, sociali, economiche di ogni realtà istituzionale e la vita religiosa di ogni comunità attorno ad essa aggregata nel contesto politico, sociale, economico, culturale coevo.

Fonti e Bibl. essenziale

Cfr. in generale G. Baccrabere, Visite canonique de l’éveque, DDC, VII, Paris 1965, coll. 1512 ss.; per un approccio alle visite cfr. U. Mazzone, A. Turchini, Le visite pastorali. Analisi di una fonte, Bologna 1990, poi Visite pastorali ed elaborazione dei dati. Esperienze e metodi, a c. di C. Nubola, A. Turchini, Bologna 1993, quindi A. Turchini, Dai contenuti alla forma della visita pastorale: problemi e prospettive, in Ricerca storica e chiesa locale in Italia: risultati e prospettive. Atti del IX convegno di studio dell’associazione italiana dei professori di storia della Chiesa, Grado 9-13 settembre 1991, Roma 1995, 133-158; per situazioni esemplari si v. il classico G. De Rosa, Vescovi popolo e magia nel Sud, Napoli 1971, nonché A. Turchini, I questionari di visita pastorale di Carlo Borromeo per il governo della diocesi milanese, “Studia borromaica”, X, 1996, 71-120 e anche, dello stesso autore, Les visites pastorales en Italie après le concile de Trente, in La paroisse communauté et territoire. Constitution et recomposition du maillage paroissial, sous la dir. de B. Merdrignac, D. Pichot, L. Plouchart, G. Provost, Rennes 2013, 207- 215; S. Sitzia, ‘Congregavimus totum clerum et visitavisum eum’. Le visite pastorali in Sardegna dal Medioevo all’età moderna. Approcci metodologici per l’utilizzazione delle fonti visitali sarde, Tesi di dottorato, Facoltà di lettere e filosofia, Università degli studi di Sassari, aa. 2008-2009.


LEMMARIO




Zingari, Nomadi - vol. I


Autore: Matteo Sanfilippo

La letteratura sulla presenza nell’Italia della prima età moderna dei nomadi, genericamente definiti zingari sin dal Quattrocento, è di solito incentrata sul comprendere quando siano arrivati e quando si sia passati dalla curiosità nei loro riguardi alla repressione. Ferma restando la notevole confusione su presenza e origine di gruppi nomadi, si ha la tendenza a considerarli arrivati nella Penisola già agli inizi del Quattrocento. Per quanto riguarda la reazione della Chiesa alcuni autori riprendono lo spunto cronachistico di un gruppo transitato per Bologna e Forlì nel 1419 e diretto in pellegrinaggio a Roma. Per la maggior parte degli studiosi più recenti tale pellegrinaggio non è mai stato compiuto, né quel gruppo avrebbe allora ottenuto privilegi relativi al vagabondare senza pagare alcuna gabella.

Nelle fonti segue il vuoto sino agli inizi del Cinquecento, quando lo Stato della Chiesa, dopo essersi assicurato il definitivo controllo delle attuali Emilia-Romagna e Marche, si trova a dover legiferare in merito ai nomadi di passaggio. Iniziano allora i bandi contro “gli zingari” accusati di furto e, secondo alcuni studiosi, le singole amministrazioni locali dello Stato pontificio si distinguerebbero nel perseguitare gli itineranti. La recente letteratura italiana sugli altri stati di antico regime, dal Regno di Napoli alla Repubblica di Venezia, mostra, però, un’univoca reazione negativa contro i nomadi.

Per quanto riguarda lo Stato della Chiesa i primi provvedimenti sono presi nelle Marche (Macerata 1533, Iesi 1535), in Emilia (soprattutto Bologna) e infine a Roma. Qui le attestazioni di una presenza nomade sono abbastanza numerose, ivi compresa la testimonianza toponomastica di una via degli Zingari. La prima notizia romana risale al 1525 e si trova nei registri dell’arciconfraternita di S. Giovanni Decollato. Tale informazione potrebbe far pensare a una certa attenzione nell’ambito dell’impegno a sostegno, ma in realtà gli “zingari” appaiono in questo e in altri archivi romani, solo nella veste d’imputati o condannati in processi di vario genere. Inoltre si ripetono dal 1566 i bandi che intimano ai nomadi di abbandonare lo Stato pontificio, pena la galera o la forca.

Più o meno negli stessi anni diverse diocesi s’impegnano contro i nomadi. Qualcosa traspare già nei dibattiti tridentini; inoltre Federico Borromeo si occupa di loro nel Concilio provinciale di Milano del 1565, apparentandoli ad altri gruppi pericolosi come gli attori, i girovaghi, i giocatori di azzardo. Nel capitolo II delle deliberazioni del Concilio di Ravenna, indetto nel 1568, si afferma con ancora maggiore decisione che gli zingari sono una “genia di gente vagante colma di ogni empietà” e che devono essere allontanati, se non accettano di vivere cristianamente. Indicazioni analoghe si diffondono soprattutto nell’Italia meridionale, dove gli “zingari” paiono stabilirsi in un primo tempo dalla Campania alla Sicilia.

Nel concilio provinciale di Napoli del 1575 vi è un capitolo “De meretricibus, lenonibus, circulatoribus, zingaris, turcis et mauris, mendicis et aleatoribus”, presto imitato dalle altre diocesi coinvolte. In esso e in testi analoghi viene espresso il sospetto che le nomadi pratichino la prostituzione e ingannino gli astanti con la lettura della mano o delle carte. Nei decenni successivi la questione attira l’attenzione del Sant’Uffizio, perché sorge il dubbio che si pratichi una forma di magia, ma presto si riconosce trattarsi piuttosto di un imbroglio. I vescovi definiscono quindi i nomadi come ladri e imbroglioni, per esempio a Messina nel 1588, e sostengono che ciò avvenga a causa della loro itineranza.

Si ripete quindi per tutto il Sei-Settecento, ma sempre più stancamente, che bisogna convincere gli “zingari” a insediarsi stabilmente, ma di fatto essi scompaiono progressivamente dall’orizzonte di attenzione delle autorità ecclesiastiche, mentre non si afferma mai una spinta verso la concreta evangelizzazione di questi gruppi. Nel frattempo crescono i racconti e le leggende su questi “cattivi cristiani” e, soprattutto nel Sud, si diffonde l’idea siano una genia antica, la quale avrebbe provveduto a fondere i chiodi con cui il Cristo sarebbe stato crocifisso. Si rafforza così un sentimento di diffusa ziganofobia.

Fonti e Bibl. essenziale

F. de Vaux de Foletier, Le pèlerinage romain des Tsiganes en 1422 et les lettres du pape Martin V, “Études tsiganes”, 12 (1965), 13-19, e Mille anni di storia degli zingari, Milano, Jaca Book, 2010; G. De Rosa, Vescovi, popolo e magia nel Sud, Napoli, Guida, 1971; B. Geremek, Uomini senza padrone: poveri e marginali tra medioevo e età moderna, Torino, Einaudi, 1992; V. Martelli, Gli Zingari a Roma dal 1525 al 1680, “Lacio Drom”, 32, 4-5, 1996, 4-5, 2-86, e Roma tollerante? Gli zingari a Roma tra XVI e XVII secolo, “Roma Moderna e Contemporanea”, II, 2 (1995), 485-509; P.C. Stasolla, La chiesa cattolica e il popolo zingaro nell’Italia del XVI secolo, Roma, Fondazione Migrantes, 2001; G.M. Viscardi, Tra Europa e Indie di quaggiù: Chiesa, religiosità e cultura popolare nel Mezzogiorno, secoli XV-XIX, Roma, Edizioni di storia e letteratura, 2005; E. Novi Chavarria, Sulle tracce degli zingari. Il popolo rom nel Regno di Napoli. Secoli XV-XVIII, Napoli, Guida, 2007; B. Fassanelli, “Considerata la mala qualità dellicingani erranti”. I rom nella Repubblica di Venezia: retoriche e stereotipi, “Acta Histriae”, 15, 1 (2007), 139-154, e Un’ostinata autonomia. I rom nell’Europa moderna, “Zapruder”, 19 (2009), 26-44; Aurora Cimini, Zingari nell’Italia moderna: il caso di Vetralla, “Studi Emigrazione”, 187 (2012), 511-524.


LEMMARIO