Associazione Italiana dei Professori di Storia della Chiesa

Dizionario Storico Tematico La Chiesa in Italia
Dalle origini all'Unità Nazionale
Roma 2015
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Barbari - vol. I


Autore: Paolo Fusar Imperatore

Tracciare delle linee di sintesi sul rapporto fra la chiesa e i barbari fra V e VIII secolo è un lavoro che ancora oggi può portare a nuovi percorsi storiografici: le ultime ricerche hanno messo in luce quanto lo stesso concetto di “barbaro” sia inadeguato ad esprimere una realtà così diversificata dal punto di vista cronologico, geografico e culturale. Notevoli furono le differenze fra la discesa in Italia, dalla Francia o dalla Spagna, di popolazioni nomadi stanziate già entro i confini dell’impero, il contatto con genti di stirpe germanica, dislocate oltre i confini, ma abituate a vivere in stretti rapporti con il mondo romano o il fenomeno di migrazioni violente, in cerca di terre in cui abitare o di un ricco bottino da spartire. In senso opposto, per quelle popolazioni fu diverso incontrare il mondo culturale romano del III secolo, fortemente imbevuto del concetto di “impero”, o, un secolo e mezzo più tardi, l’Italia uscita dalle guerre greco-gotiche, priva di un fronte comune anche in ambito religioso. Aspetti di carattere economico, sociale e politico, oltre a quelli di ordine linguistico, culturale e religioso, rendono quest’epoca molto più policroma di quanto non si pensasse prima. Gli studi più recenti forniscono informazioni dettagliate sulle modalità di insediamento e sui reciproci influssi culturali e civili che il mondo “barbaro” ha condiviso col mondo romano: oggi, l’attenzione alle rovine e agli incendi è affiancata ad uno studio delle interazioni e degli scambi fra le due differenti realtà.

L’aspetto religioso necessiterebbe, invece, di una rilettura generale più ampia per l’epoca tardo-antica. Il sacco di Roma del 410 e la deposizione dell’ultimo imperatore d’occidente avvengono a meno di un secolo dall’intervento di Teodosio per l’imposizione della religione cristiana a tutto lo Stato romano: l’impero era tanto cristiano da percepire come estraneo l’elemento religioso delle nuove popolazioni? In Italia, in un primo momento, le invasioni barbariche, comunque le si voglia definire, furono anzitutto un problema politico e sociale piuttosto che un problema religioso. Una prima situazione da prendere in considerazione è quindi quella che vede l’incontro fra il barbaro, ex mercenario o federato, e il cittadino romano dell’Italia: che fossero i Goti di Alarico, gli Unni di Attila, o i Vandali di Genserico, poco importa; ci troviamo davanti a capi militari che conducono le loro milizie attraverso l’Italia per fare bottino e dare dimostrazioni di forza. Il cristiano non poté che mettersi al riparo sperando che se ne andassero presto: i barbari erano dei nemici, al massimo degli alleati pericolosi che servivano a conservare meglio l’impero. Incendi, rapimenti, uccisioni, saccheggi col trascorrere degli anni portarono soltanto a scegliere siti più indicati per la difesa e per le comunicazioni: Ravenna divenne corte imperiale al posto di Milano e Grado, e poi Venezia, sostituirono la più esposta Aquileia. Persone più giovani e disinteressate nel gestire la res publica cittadina sostituirono la corrotta amministrazione precedente e spesso i vescovi diventarono la figura ideale di questa nuova gestione. A livello sociale tutto ciò portò ad un ulteriore scontro fra cristianesimo e cultura pagana romana, riscontrabile, ai massimi livelli, nella Città di Dio di Agostino, impegnata difesa del cristianesimo dall’accusa di essere stato la rovina dell’impero e tentativo di trovare una sintonia piena tra cristianesimo, romanità ed impero.

Un secolo di “età costantiniana”, come si suole definire il IV secolo, e un altro di comune difesa dalle invasioni, furono sufficienti a rendere i cristiani non solo interessati, ma affezionati all’impero. Al cedere delle strutture politiche i vescovi presero il ruolo di difensori della città e della romanità, punto di riferimento essenziale per tutti gli abitanti, pagani o cristiani che fossero. Ambrogio a Milano prima, Massimo di Torino, Paolino da Nola e, ancor più enfatizzato dai racconti della tradizione, Leone magno poi, diventeranno i modelli di questo ruolo civico del cristianesimo di V secolo: soffrire per la crisi dell’impero fu il sentimento comune anche di persone votate a vita ascetica come Girolamo, Rufino e la giovane Melania.

Il breve regno di Odoacre diede inizio ad una nuova fase, quella dell’insediamento stabile di intere popolazioni in Italia: l’aspetto religioso divenne più importante. Con i Goti di Teoderico, infatti, entrò nella penisola l’elemento ariano del cristianesimo, politicamente caratteristico di chi doveva governare in contrasto con la sponda greca del mediterraneo: il barbaro divenne usurpatore e potenziale persecutore religioso ma, forse proprio per questo, oggetto di evangelizzazione. L’Italia, memore di un glorioso passato di fedeltà nicena, vedeva con distacco l’arianesimo dei governanti e, per quanto il regno goto avesse cercato di presentarsi in continuità col passato romano, non vi furono integrazioni: nel tumultuoso tentativo di equilibrio con Costantinopoli essere ariani consentiva di mantenere la pressione politica e militare, a scapito delle relazioni con la popolazione locale; i re faticarono ad essere tolleranti nei confronti dei sudditi, visti come potenziali alleati del nemico. La testimonianza di una difficile convivenza è visibile ancora oggi nella presenza del duplice battistero di Ravenna, capitale del regno goto, e nel toponimo romano di sant’Agata dei Goti, oltre che nelle moltissime località italiane con toponimi bizantini, dove si giocò, metro per metro, la difesa della fede nicena fra V e VII secolo. I vescovi del VI secolo diventarono difensori della retta fede sull’esempio di papa Leone o dei loro predecessori ai tempi di Atanasio. Al contempo, mantennero la prerogativa di difensori dei popoli e garanti della giustizia, poiché il regno goto, conservando le linee romane di governo, dovette riconoscere ai vescovi la dignità giuridica e sociale che nel IV secolo la figura episcopale aveva acquisito: i doveri religiosi e civili del vescovo furono la chiave di volta di una nuova testimonianza cristiana sul territorio, fatta di carità, onestà e giustizia, ma, soprattutto, del coraggio di presentarsi davanti al potente per contrattare e coordinare la vita italiana.

Il periodo che va dalla morte di Teoderico alla discesa dei Longobardi in Italia fu segnato da due importanti avvenimenti che modificarono la situazione sociale e religiosa fin qui delineata: le guerre greco-gotiche e lo scisma tricapitolino. Dal 533 al 553 l’imperatore Giustiniano organizzò la riconquista dell’Italia: l’elemento gotico e l’elemento romano vennero totalmente spazzati via da una stagione di spietate guerre e l’Italia ne uscì distrutta e spopolata. I Goti restarono immortalati nei ricordi del passato come i sanguinari eretici dei Dialoghi di Gregorio magno; il Senato romano per sopravvivere dovette avvalersi della protezione offerta dalla Chiesa e Roma fu ridotta a parte del prestigioso passato dell’impero bizantino. Dal punto di vista religioso, devastante quanto le guerre, fu lo scisma tricapitolino, imposto a forza da Giustiniano nel 553 a tutto il territorio dell’impero: gli aspetti teologici della condanna dei tre maestri antiocheni al secondo concilio di Costantinopoli e le vicende politiche annesse sono molto complesse per essere affrontate qui, ma possiamo ben segnalarne le conseguenze. A livello ecclesiale, per la prima volta, il cristianesimo italico risultò ostinatamente diviso, per tutto un secolo, fra romani e tricapitolini: non ci furono conseguenze teologiche, ma molte furono le ricadute politiche e giurisdizionali, prima fra tutte la separazione fra Roma e il resto della penisola. L’Italia e i suoi vescovi avevano definitivamente acquisito libertà e prestigio e non erano ormai più capaci di comprendere come proprie le scelte politiche e religiose dell’imperatore bizantino: in Italia non c’era più un impero romano in cui riconoscersi.

La discesa dei Longobardi fu facilitata da questi segni di disgregazione: con una politica religiosa caratterizzata da un forte opportunismo politico, i Longobardi pare abbiano fatto la scelta di scardinare quel poco di geografia imperiale ed ecclesiastica che ancora si reggeva alla fine delle guerre gotiche. Una diversa gestione delle terre e degli stanziamenti, la divisione in ducati territoriali e la volontà di porsi in antagonismo con Costantinopoli sancirono la divisione dell’Italia in sfere di influenza ben precise. La stessa testimonianza delle fonti, Gregorio magno in particolare, ce li descrivono come popolazione nefanda e terribile, forse proprio per marcarne la differenza culturale rispetto alle altre popolazioni. Lo strato di paganesimo e la risoluta volontà di inquadrare l’Italia nel proprio modo di vedere e gestire il mondo rese la comparsa dei Longobardi sul suolo italiano un evento apocalittico. Ariani forse per accattivarsi la fiducia dei goti rimasti, niceni tricapitolini per mantenere un’adeguata tensione politica con Costantinopoli, i Longobardi seppero ben sfruttare le divisioni presenti sul suolo italiano. La loro conversione al cattolicesimo non convinse mai del tutto la chiesa di Roma, ma permise, infine, di chiudere lo scisma tricapitolino: le stesse diocesi italiane comprendevano sempre meglio la necessità di essere in comunione con Roma contro i monoteliti e gli iconoclasti orientali del VII secolo e anche il regno longobardo si schierò su queste posizioni. La chiesa di Roma poteva così riconquistare i rapporti col resto della penisola e, alla fine dell’VIII secolo, tornare ad orientare il mondo politico e religioso italiano: la scelta dei Franchi fu il tentativo di impedire la formazione di un’Italia longobarda e di acquisire autonomia dal pericoloso vicino e dall’ormai sempre più scomodo impero d’oriente.

Il pensiero di Gregorio magno sulla vecchiezza del mondo fa di lui l’ultimo antico romano, la sua eredità monastica, con l’esaltazione della figura di Benedetto, e il suo desiderio di vedere il mondo interamente cristiano permetterà, col tempo, al regno longobardo di accogliere le tradizioni monastiche irlandesi, ma il monito contro le genti infernali che distruggono le chiese e testimoniano l’avvento escatologico delle genti di Og e Magog, assieme all’instabilità delle scelte religiose longobarde, impediranno, a lungo termine, una valutazione positiva dei Longobardi e del loro dominio nei confronti di quello franco. Quando in Italia, agli inizi del X secolo, scenderanno gli Ungari, popolazione inarrestabile e parlante una lingua sconosciuta, la terribile nomea dei “nefandi barbari longobardi”, lasciata intatta nei mutamenti del VI e VII secolo e confermata dalla politica franca, non potrà altro che essere trascritta nella storiografia successiva.

Fonti e Bibl. essenziale

C. Azzara, Le invasioni barbariche, il Mulino, Bologna 1999; C. Azzara, Teoderico, Il Mulino, Bologna 2013; A. Barbero, Barbari. Immigrati, profughi, deportati nell’impero romano, Laterza, Roma-Bari 2006; P. Brown, La formazione dell’Europa cristiana. Universalismo e diversità, Laterza, Roma-Bari 2003; U. Dovere, La figura del vescovo tra la fine del mondo antico e l’avvento dei nuovi popoli europei, AHP, 41 (2003), 25-49; S. Gasparri, Italia longobarda, Laterza, Roma-Bari 2012; G. Penco, Storia della Chiesa in Italia. I Dalle Origini al Concilio di Trento, Jaca Book, Milano 1977, 77-143.


LEMMARIO




Barocco - vol. I


Autore: Andrea Spiriti

Al di là degli etimi/paretimi (la perla scarmazzzata “barroca”, il sofisma “baroco”), il termine gode attualmente di un’estensione semantica duplice: un senso estensivo e meramente cronologico per indicare la sviluppo artistico ed architettonico europeo (con cospicui influssi in America ed Asia) dall’ultimissimo cinquecento fino alla metà del settecento, con il problema dipendente del tardo barocco e del rococò; un senso specifico, a significare uno specifico “stile” basato sul nesso fra grandiosità e persuasione, fra teatralità e metamorfismo. Risulta palese il legame con l’evoluzione ideologica della Chiesa Cattolica, che fin dal Concilio di Trento si era trovata di fronte all’alternativa fra un’arte chiara, precisa nella trasmissione dei significati, comprensibile per quasi tutti, rigorosa e un po’ noiosa, cerebrale; ed un’arte coinvolgente, attenta alla dimensione psicoemotiva, inevitabilmente ambigua e polisemica, ossia più bella e più rischiosa. La durezza del contrasto con il mondo protestante e la percezione di rischio anche nelle aree rimaste cattoliche spinse alla prima scelta, che si tradusse in quel manierismo già definito “senza tempo”: una fase che giunge fino a Federico Barocci (peraltro già aperto ad un intimismo dolce dalla brande futuro ottocentesco) e che si chiude simbolicamente con il rogo di Giordano Bruno (1600). Le aperture successive (si pensi alla sorte molto meno tragica di Galileo) e la nascita del barocco vanno di conserva: e non è casuale la nodalità intellettuale ed artistica dei papati di Paolo V Borghese (1605-1621) e di Urbano VIII Barberini (1623-1644).

Gli esiti trionfali del classicismo emiliano romanizzato (Correggio, i Carracci, Guido Reni, Domerichino, Francesco Albani, Guercino) e l’irriducibilità del Caravaggio, col suo naturalismo (preferirei iperverismo) che condivide istanze teatralizzanti e drammatiche ma gode di un proprio incatalogabile linguaggio, per poi divenire fenomeno europeo, non sono affatto fondativi di mondi in comunicanti, ma aperti ad un continuo interscambio: si pensi al tema del drappo angolare superiore che, nato con la Madonna Sistina di Raffaello si ripropone in contesto sacro per Caravaggio, in ambito ritrattistico per Rubens e Van Dyck. Questo rende spesso difficile la cronologia e la stessa appartenenza categoriale: esemplare il mondo milanese, dove Carlo Borromeo finanzia pittori di manierismo internazionale (Carlo Urbini, Aurelio Luini), mentre il secondo successore Federico Borromeo creerà l’iconografia carliana grazie a pittori tardo manieristici ma anche a cavaliere fra manierismo e barocco (Cerano, Morazzone) o fra classicismo e barocco (i Procaccini, Daniele Crespi). Così nell’Urbe il cardinale Scipione Borghese commissiona al giovane Bernini due opere paradigmatiche come il David e l’Apollo e Dafne: un binomio biblico e classico nel quale il rapporto non condizionato col passato rinascimentale si unisce ad un virtuosismo metamorfico molto più profondo della propria perizia tecnica. Ma ancora nell’età barberiniana vecchio e nuovo, barocco e no coesistono: così nello stesso palazzo di famiglia l’architettura di Carlo Maderno da Bissone, affiancato dai giovani Borromini e Bernini, racchiude gli affreschi scenografici di Pietro Berrettini da Cortona ma anche quelli classicisti di Andrea Sacchi. Del resto in età Borghese lo stesso Maderno –portatore della sapienza architettonica ed ingegneristica degli artisti dei laghi lombardi – aveva proseguito la linea di sistemazione di un monumento/simbolo quale la basilica vaticana iniziata dalla cupola dei Della Porta e del Fontana, raggiungendo un compromesso accettabile fra le due istanze di pianta centrale e pianta longitudinale che fin dall’età di Giulio II si erano alternate. In parallelo, un cantiere innovativo come la casa-madre filippina di Santa Maria in Vallicella vedeva coesistere sugli altari le opere di Barocci, Caravaggio e Rubens, visti come compatibili dalla committenza pilotata da Cesare Baronio. Il paradigma di questa fase è proprio Pieter Pauwel Rubens, sia per le sue tappe italiane (Milano, Mantova, Venezia, Firenze, Roma e soprattutto Genova) sia per il respiro europeo che presto assume la sua arte, con le grandi committenze per la propaganda di stato di Fillippo IV in Spagna, di Maria de’ Medici in Francia, di Carlo I in Inghilterra: non a caso sovrani, con diverse gradazioni, cattolici o filocattolici.

Spesso mediata da quegli Ordini religiosi che una storiografia “episcopalista” ha sottovalutato, la diffusione di questo primo barocco nei centri italiani eccelle, per impatto urbano e qualità di realizzazioni, a Genova e a Napoli. Nel primo caso, la volontà patrizia di visualizzare il proprio status con scenografiche committenze sacre si traduce in spazi “ariosi” di forte impatto: esemplare la Santissima Annunziata del Vastato, coi grandi affreschi dei lacuali Carloni di Rovio. A Napoli il fittissimo tessuto di architettura dei regolari crea un percorso ininterrotto che ha il suo culmine nella certosa di San Martino al Vomero, con la volontà di servirsi dei migliori artisti degli altri territori della Monarchia Cattolica, dal lombardo Cosimo Aliprandi del Fanzago allo spagnolo Jusepe de Ribera. Questa dimensione ecumenica della Spagna filippina (oltretutto dominatrice, dal 1580 al 1640, del Portogallo e del suo immenso dominio coloniale) crea circolazioni di artisti ed opere di cui è difficile sminuire la portata; e che in Europa si traduce in un interscambio Madrid – Lisbona – Bruxelles – Milano – Napoli – Palermo – Cagliari, senza dimenticare le due piazze vitali per la Monarchia di Roma e Genova.

Il successo di Bernini negli anni di Urbano VIII, la sua iniziale marginalizzazione clientelare e recupero trionfale nel periodo di Innocenzo X e la fase grandiosa di Alessandro VII scandiscono le tappe di una ditta il cui leader si gioca sempre più in un ruolo di regìa, coordinando competenze specifiche ed articolate, e declinandosi in realizzazioni che diventano paradigmi: si pensi ai modelli alternativi di tomba papale elaborati per Barberini (pontefice seduto, benedicente/trionfante) e per Chigi (pontefice inginocchiato orante). Né sul piano formale Bernini si astiene dalle arditezze metaforiche: si pensi alla Transverberazione di Santa Teresa in Santa Maria della Vittoria (con la sua geniale lettura sottesa della poesia di Giovanni della Croce) o all’iconema del Lago di sangue. Anche sul piano architettonico la grandiosità del baldacchino petrino, l’articolazione scenografica della cattedra-gloria e l’ellissi della piazza colonnata costituiscono modelli di lunga fortuna europea.

A Roma le alternative possibili sono due: il classicismo “greco”, sublime, idealizzato della scultura bolognese di Alessandro Algardi (si pensi all’altare petrino di San Gregorio Magno); e l’architettura “concettosa”, iperrazionalizzata eppure scenografica del lombardo Francesco Castelli il Borromini (San Carlo alle Quattro Fontane, Sant’Ivo alla Sapienza), capace al Laterano di un restauro filologico molto lacuale. Né va dimenticata la preziosa mediazione dei lombardi Ercole Ferrata ed Ercole Antonio Raggi, per un verso modelli a loro volta per la grande diffusione europea, che aveva portato gli artisti dei laghi ad alterare l’attività nei centri italiani con la conquista della Mitteleuropa, spesso utilizzando un medium tecnico adattissimo come lo stucco, modellato in intrecci manieristici e barocchi; e questo mentre a Roma l’eredità berniniana si declinava nelle scenografie del Baciccio, nella fioritura francesizzante, nel grandioso finale dell’altare di Sant’Ignazio al Gesù coordinato dal lombardo Andrea Pozzo, che peraltro nella sua attività di pittore (volta di Sant’Ignazio) porterà all’estremo la dialettica fra doxa e pistis, fra apparenza/parere e Fede. In parallelo l’attività napoletana, fiorentina e spagnola di Luca Giordano segnerà per un verso il trionfo di una pittura capace di rileggere Veronese in termini barocchi, per un altro di finire nel modo migliore la storia figurativa della Monarchia Cattolica di Spagna. E questo mentre lo Spatbarock dell’Europa Centrale creava straordinari complessi devozionali (spesso proseguiti nel Settecento, da Einsiedeln a Wies, da Vierzehnheilingen a Waldsassen) e i centri italiani raggiungevano il culmine dell’impatto urbano, dalle monumentali conferme di Milano, Genova, Napoli alla pirotecniche facciate di Venezia (Santa Maria del Giglio, San Moisé, peraltro con Sinai interno che riprendeva la grande lezione teatrale dei Sacri Monti lombardo-piemontesi seicenteschi, da Varallo a Varese ad Orta) e al borrominismo di Guarino Guarini a Torino (cappella della Sindone, San Lorenzo).

Ed è sintomatico che già nel 1665 il celebre viaggio di Bernini a Parigi (programmato per fallire, e infatti simbolo dell’inizio nell’arte di quel primato francese che dal 1648 era dato politico) includa l’accettazione della sua scultura come strumento di propaganda e il rifiuto classicista della sua architettura, Ma questo contribuisce a spiegare perché l’ultimo barocco si delinei soprattutto in quella Mitteleuropa dove l’Austria asburgica diveniva (grazie alla genialità di Innocenzo XI Odescalchi, all’assedio ottomano del 1683, al nuovo asse Roma – Vienna – Varsavia) la potenza alternativa, unificata visivamente dal quel barocco dei lacuali già pronto, come avverrà nel primo quinquennio del Settecento a divenire rococò in netto anticipo sulla Francia. Ma proprio questa evoluzione segnerà le ambiguità del rocaille: per un verso la sua eredità linguistica barocca, per un altro la sostituzione all’estetica del grandioso della nuova estetica del delicato, del miniaturistico, del grazioso, con tutti i rischi conseguenti (e puntualmente avverati) di crisi del sacro come categoria artistica.


LEMMARIO




Beneficio ecclesiastico - vol. I


Autore: Gaetano Greco

Ancora agli inizi del Novecento il Codex Iuris Canonici del 1917 definiva il beneficio ecclesiastico con queste parole: «un ente giuridico costituito od eretto in perpetuo dall’autorità ecclesiastica, composto da un ufficio sacro e dal diritto di percepire i redditi della dote, spettanti all’ufficio» (canone 1049). Le sue origini storiche sono riconducibili soprattutto alla nascita delle prebende canonicali, all’affitto o la concessione in livello enfiteutico di chiese, con tutti i loro diritti, oneri e beni, e alla fondazione di chiese proprie da parte di feudatari, famiglie, consorterie, villaggi, corporazioni, città ed altri. Su questa base, formatasi nel corso dei secoli con percorsi differenti nelle diverse aree regionali, nel basso Medioevo e in Età Moderna s’innestò il fenomeno delle fondazioni e dei lasciti testamentari per la celebrazione di Messe in suffragio delle anime del Purgatorio. In Italia, questo fenomeno ha conosciuto due picchi: l’uno fra il XIV ed il XV secolo e l’altro fra il XVII secolo e i primi decenni del XVIII. Queste fondazioni permettevano di costituire uffici ecclesiastici stabili anche all’interno di chiese preesistenti, alla stessa stregua delle prebende canonicali o delle chiese proprie: chiamati “cappellanie” o persino “altari”, non si differenziavano molto dalle “ufficiature” istituite con le stesse garanzie. D’altra parte, con l’appellativo di beneficio ecclesiastico si intendono estensivamente anche uffici sacri stabili di maggiore rilievo, purché dotati di un patrimonio e attribuiti ad un singolo individuo.

Analizzando il beneficio ecclesiastico nelle sue diverse componenti, troviamo un “ufficio sacro”, cioè una carica o un complesso di attribuzioni e di oneri di culto religioso o di giurisdizione spirituale, in base ai quali si articolavano due diverse tipologie: i benefici “residenziali” e quelli “semplici”. Fra i primi, che obbligavano il loro titolare a risiedere dove si trovava fisicamente l’ufficio, si contavano i vescovadi, le prepositure, i decanati, le dignità e gli altri canonicati delle chiese cattedrali e delle chiese collegiate, le cappellanie “corali”, le pievi, le parrocchie e tutti gli altri uffici con cura d’anime. Secondo la tradizione canonica, ribadita dal Concilio di Trento, per questi benefici vigeva il divieto di “cumulo”, che, però, è stato largamente disatteso persino dopo il Concilio di Trento, grazie ad apposite dispense papali che permettevano in una serie di casi di cumulare questi uffici, per motivi politici (come nei paesi germanici o iberici) o semplicemente logistico-finanziari (come nel caso dei canonici delle piccole città italiane, ai quali era concesso di essere anche parroci cittadini). Non sono mancati neppure pontefici che hanno continuato a godere il precedente vescovado insieme con quello romano: esemplari i casi, nel Settecento, di Benedetto XIII a Benevento e di Benedetto XIV a Bologna. I benefici “semplici” richiedevano al loro titolare soltanto l’adempimento, anche tramite altri sacerdoti, di obblighi di culto sacro, come la celebrazione di un certo numero di messe. In genere questi benefici erano esclusi dal divieto di cumulo, poiché non era considerata indispensabile la presenza continuativa del rettore nelle chiese in cui erano eretti. Col tempo, questa distinzione ha assorbito di fatto la più antica divisione fra “benefici maggiori”, uniti ad un ufficio dotato di potestà ordinaria di governo (vescovadi, decanati, prepositure nullius dioecesis, pievanati), e “benefici minori”, per i quali non era essenziale questa unione. Il «rettore» di questi uffici, che doveva essere un chierico (salvo dispensa papale), aveva il diritto di percepire ed utilizzare la “rendita” del beneficio ecclesiastico per mantenersi, per adempiere agli oneri e per conservare l’edificio sacro. La rendita proveniva dalla “dote” patrimoniale del beneficio ecclesiastico, costituita in genere da beni immobili, ma anche da prestazioni, da diritti reali e da obbligazioni consuetudinarie (come la decima ecclesiastica), oppure da capitali consolidati in titoli di rendita pubblica o privata. Ultimo elemento indispensabile per connotare un beneficio era l’“istituzione canonica”, tanto dell’ufficio, quanto del suo rettore: senza l’intervento di un’autorità ecclesiastica non esistevano uffici sacri perpetui, ma solo “condotte” precarie, destinate a sopravvivere senza la garanzia delle forme e dei privilegi della Chiesa, e, dopo la conclusione del conflitto fra papato ed impero sulle “investiture”, la nomina formale dei rettori doveva essere effettuata da parte di un’autorità ecclesiastica.

La presenza della dote presupponeva l’esistenza di uno o più fondatori del beneficio ecclesiastico. Se il fondatore era una persona ecclesiastica con potestà giurisdizionale, la scelta del nuovo rettore avveniva per “libera collazione”, cioè per libera scelta e con immediata istituzione canonica da parte dello stesso “collatore”, cioè il fondatore e i suoi successori pro-tempore nella potestà ecclesiastica. In questo caso, però, già nel Basso Medio Evo vigeva quella prassi dei “mesi riservati” alla Santa Sede, che si protrasse in Italia fin quasi la fine dell’età moderna: per un certo periodo dell’anno (un terzo, la metà) la collazione era devoluta al pontefice, anche quando si trattava di un ufficio curato. Se, invece, il fondatore (vero o presunto) non aveva il carattere clericale, si riconosceva l’esistenza del giuspatronato, cioè di un diritto vantato dai “patroni” originari e dai loro successori (→ voce). Il momento conclusivo dei percorsi di nomina del rettore era costituito dalla “presa di possesso” del beneficio da parte sua o di un suo procuratore, cioè non solo dell’ufficio sacro, con tutti i suoi oneri di giurisdizione, di amministrazione dei sacramenti, di culto, ma anche dei suoi beni patrimoniali con le relative rendite. Di fatto, anche quest’ultimo momento non era una tappa scontata: talvolta per prendere possesso effettivamente di un beneficio non bastava il diritto, ma era necessario il ricorso alla forza e al potere delle autorità politiche locali, chiamati a garantire il possesso del nuovo rettore nei confronti dei chierici concorrenti o dei laici scontenti (patroni, popolazioni locali ecc.).

Fra il tardo Medio Evo e la prima età moderna si colloca un particolare fenomeno degenerativo delle istituzioni ecclesiastiche locali: la “resignazione” o “risegna” (rinuncia) dei benefici ecclesiastici da parte dei loro legittimi titolari. Nella prassi rinascimentale questa rinuncia agli uffici sacri non avveniva più “nelle mani” dell’ordinario diocesano locale o del capitolo della cattedrale, bensì apud Sedem Apostolicam. Di conseguenza la successiva collazione era sottratta ai legittimi collatori ed ai legittimi patroni e diventava di libera pertinenza del papa: già secondo la Costituzione Licet ecclesiarum di papa Clemente IV (1265) proprio al pontefice – il dominus beneficiorum – apparteneva la collazione di tutte le chiese, dignità, personati e benefici vacanti per morte presso la Santa Sede, oppure rinunciati nelle mani del pontefice. Durante il XV secolo si cercarono di moderare gli effetti di questo abuso; tuttavia, a partire da papa Leone X il mercato dei benefici si dilatò assumendo connotazioni simoniache: sempre più spesso le resignazionioni presso la Curia Romana furono accompagnate da una serie di patti e condizioni in favore del rinunciatario, come il godimento di una porzione o della totalità delle rendite, oppure il diritto di rientrare in possesso del beneficio in caso di premorienza o di rinuncia del suo successore. Oltre alla possibilità di scambi e permute fra un beneficio e l’altro, era anche permesso di conservare la “dignità”: come quel carattere episcopale che consentiva agli insigniti di svolgere le funzioni tipiche di un vescovo suffraganeo (consacrazioni di chiese, cresime, ordinazioni sacerdotali etc.) al servizio di vescovi titolari assenteisti, incapaci dell’ufficio oppure oberati da un eccessivo carico di lavoro. La diffusione incontrollata delle resignazioni in Curia Romana e l’uso di tutte queste clausole provocarono forte malcontento nelle Chiese locali, dalle quali a più riprese fu richiesto di stroncare o almeno frenare questo sistema. Alla fine, in occasione del Concilio di Trento furono condannate e abrogate le clausole della reimmissione in possesso, ma le altre rimasero per tutta l’età moderna (Sess. XXV, Decr. de reformatione c. 7).

Oltre ai danni arrecati dalle ingerenze della Curia Romana nella provvisione dei benefici, alle soglie dell’età moderna altre due problematiche sconvolgevano la gestione degli uffici sacri locali: il saccheggio dei beni mobili e immobili alla morte o rinuncia dei rettori e la volontà politica che gli uffici e le risorse della Chiesa fossero attribuiti a chierici vicini, o almeno non ostili, ai governanti. Nell’Italia centro-settentrionale non mancarono principi e repubbliche che tentarono di controllare l’accesso ai benefici ecclesiastici, condizionandone direttamente e formalmente le nomine da parte dei pontefici, sia riservandosi le scelte per le prebende più ricche, sia impedendo l’accesso ai forestieri e agli esponenti di consorterie ostili (diritto di placitazione). Così avvenne, già fra tardo Medio Evo e prima Età Moderna, a Milano nel 1450, nel Piemonte-Savoia nel 1451 e a Genova nel 1453 grazie a concessioni di papa Niccolò V e nel 1487 (per opera di Innocenzo VIII), e ancora a Firenze nel 1475 e a Siena nel 1492. Sulla stessa linea si collocano le pretese dei sovrani, che, sull’esempio della Chiesa gallicana, mirarono a impadronirsi a proprio uso degli spogli degli ecclesiastici defunti e dei frutti dei benefici vacanti (le “regalie”). Un sistema di controllo più efficiente sugli uffici ecclesiastici fu realizzato grazie a quell’Economato dei Benefici Vacanti, che aveva mosso i suoi primi passi nella Lombardia visconteo-sforzesca, trovando poi imitatori anche in altri stati italiani, come nel Piemonte sabaudo. Per qualità d’intervento e per durata nel tempo, l’esempio più riuscito può essere considerato l’Auditorato dei Benefici vacanti, istituito in Toscana nel 1539 dal duca Cosimo I de’ Medici: a questo ministero governativo competeva la cura dell’amministrazione delle “temporalità” degli uffici vacanti e la concessione delle licenze di possesso ai nuovi rettori, sulla base di un’accurata e aggiornata indagine sull’assetto beneficiale di ciascuna diocesi.

Grazie alla protezione giurisdizionale accordata dai poteri politici locali, il sistema beneficiale, pur presente in tutta la penisola, conobbe un grande successo soprattutto nell’Italia Centro-Settentrionale, dove continuò a crescere e radicarsi nelle Chiese locali per tutta l’età moderna con la fondazione soprattutto di cappellanie e ufficiature perpetue, che affollavano le cattedrali come le chiese parrocchiali cittadine e rurali, le collegiate come gli oratori. Il carattere particolaristico e individuale di questi enti e la gestione personale dei loro patrimoni corrispondevano alle esigenze di tesaurizzazione e di trasmissione ereditaria di una società tesa a difendere i beni sottoposti a un regime giuridico privatistico, in cui le ragioni civili delle strategie familiari prevalevano sui bisogni sociali (del culto, della carità etc.) e sulle pretese della Curia romana. Ciò non avvenne in egual misura nell’Italia meridionale e insulare, dove la debolezza dei poteri politici stranieri e la minore differenziazione sociale facilitò per lungo tempo le ingerenze da parte della Curia romana e, per reazione, l’affermazione di un modello di chiesa collegiale, più coerente con realtà a basso livello di mobilità individuale. Anzi, il sistema beneficiale resse anche i colpi del riformismo illuminista: la stretta connessione esistente fra i benefici e i diritti di giuspatronato privato impedì fino alla Rivoluzione Francese l’evizione di quel sistema, che presentava i caratteri marcati della proprietà privata. I sovrani illuminati procedettero all’annessione dei benefici semplici di patronato laicale pubblico ai benefici curati, ma si fermarono di fronte alla grande massa dei giuspatronati privati. Soltanto alla metà dell’Ottocento, la secolarizzazione della società e l’eversione dell’asse ecclesiastico con la redenzione dei giuspatronati laicali (→ giuspatronati) fece implodere il sistema beneficiale. Svanito l’apporto delle fondazioni private e dei loro diritti, cresciuta la pressione della gerarchia ecclesiastica sui soggetti collettivi detentori di patronati (comunità, parrocchiani etc.), sulla personalità della dote patrimoniale cominciò a prevalere il carattere dell’ufficio sacro, finché con il più recente Codice di diritto canonico è stato soppresso il concetto stesso di beneficio ecclesiastico.

 

Fonti e Bibl. essenziale

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LEMMARIO




Bibbia - vol. I


Autore: Giovanni Rizzi12

La Bibbia, intesa come Miqrā’ôt nell’ebraismo, o come Antico e Nuovo Testamento nelle chiese cristiane fin dalle origini, è uno dei monumenti letterari più consistenti per ricostruire anche la storia della fede e dello sviluppo delle comunità dei credenti, dall’antichità ai nostri giorni. Fin dalle antiche versioni delle Miqrā’ôt nel giudaismo come da quelle cristiane il tradurre aveva comportato uno sforzo di fedeltà nelle nuove lingue rispetto a quelle originali, e un impegno nel documentare le interpretazioni dei testi sacri secondo la viva tradizione delle comunità giudaiche come delle chiese locali che li trasmettevano. Nelle antiche versioni delle Sacre Scritture, come nelle traduzioni più recenti nelle nuove lingue parlate si riflettono la fede, la preghiera, l’esegesi, l’interpretazione e il canone dei testi sacri. Anche seguendo le linee principali della storia delle traduzioni in lingua italiana della Bibbia e circoscrivendo l’indagine alle sole edizioni manuali complete o in pochi volumi, si riscontrano costantemente i fenomeni indicati, per quanto tutto ciò sia iniziato intorno al sec. XV.

La presenza della Bibbia nella penisola italica ha una fenomenologia molto variegata, connessa inizialmente alle comunità ebraiche, poi a quelle giudeo-cristiane e quindi alle comunità cristiane effettivamente indigene, con un pluralismo linguistico e confessionale nella trasmissione della Bibbia (ebraico, aramaico, greco e latino), come anche dimostra la presenza di codici e manoscritti biblici, parziali o anche completi, dell’Antico e del Nuovo Testamento in queste lingue, documentati nelle biblioteche italiane; ma la Bibbia fu trasmessa anche da lezionari liturgici, da un’imponente tradizione testuale indiretta e per molto tempo dai capolavori dell’arte musiva di grandi cattedrali, o da più semplici affreschi di chiese locali, importante forma di accesso al testo sacro per una maggioranza della popolazione analfabeta.3

Le comunità ebraiche sono state sempre presenti nella penisola, sicuramente dal sec. I a.C., ed ebbero un influsso sulle prime comunità giudeo-cristiane a Roma; ma il giudeo-cristianesimo non ebbe lunga vita; anche la popolazione ellenofona, più attestata nella parte meridionale della penisola, subì gli effetti della mescolanza delle popolazioni dovuta alle invasioni durante la decadenza dell’impero romano d’occidente e lungo il periodo medievale. Perciò, la presenza della Bibbia come Antico e Nuovo Testamento nell’area peninsulare, nelle forme parziali o complete di codici, manoscritti e lezionari liturgici cristiani, è attestata largamente in latino, poiché le comunità cristiane furono soprattutto di lingua latina. La situazione perdurò oltre un millennio con continue e profonde mutazioni nella lingua latina, fino al sorgere del volgare italiano, quando s’impose la necessità di tradurre il latino della Bibbia, accessibile prevalentemente ai dotti, nei nuovi dialetti vernacolari della popolazione fino a ottenere traduzioni in lingua italiana.

La presenza e la trasmissione della Bibbia nella penisola italica dalle origini alla Vulgata geronimiana, alle soglie dell’umanesimo, al Concilio di Trento, fino all’esplosione del illuminismo e alle sfide della modernità, ormai contemporanee al costituirsi dell’unità politica dell’Italia (1861), intreccia la tradizione testuale (diretta e indiretta), le questioni legate al canone dei testi biblici e delle varie ermeneutiche anche confessionali, di cui è facile trovare eco nelle traduzioni stesse del testo biblico.

Dalle origini alla Vulgata geronimiana. Non abbiamo né rotoli, né manoscritti, né codici delle Miqrā’ôt utilizzati dalle prime comunità giudaiche della diaspora nella penisola italiana, ma forse il cosiddetto «Salterio latino di Pietro», versione latina dei Salmi dall’ebraico conservata nel Salterio Cassinese (sec. XII), attesta ancora un influsso diretto giudeo-cristiano su qualche comunità cristiana a Roma nel I sec. d.C.

Verosimilmente i primi tentativi di versione latina del Pentateuco avvennero in comunità giudaiche della costa africana mediterranea, seguiti dalle prime versioni cristiane dal greco dell’Antico e del Nuovo Testamento in lingua latina: la Vetus Latina (sec. II a.C.), che si suole suddividere in una tradizione africana (Afra) e italica (Itala). La rapidità, con cui si giunse a questa versione dal greco della Septuaginta (LXX) dell’Antico Testamento, senza passare per l’ebraico, e del greco del NT per le comunità cristiane della penisola italiana, documenta che le conversioni alla fede cristiana appartenevano più spesso agli strati più popolari, del tutto ignari degli originali semitici della Bibbia e ben poco familiarizzati col greco della parlata comune mediterranea. La lingua della Vetus Latina era grezza, molto più prossima a quella della gente comune, ma protesa a rendere il senso del testo tradotto e interpretato, fino a forzare il latino e a creare nuovi significati per i termini già noti nella tradizione corrente: la Bibbia stava plasmando irreversibilmente il latino e la sua cultura.4

La nuova versione cristiana della Bibbia, soprattutto per l’Antico Testamento ricorse in molti a casi a interpretazioni tipicamente cristiane, più o meno apertamente allusive alla persona e alla vicenda di Gesù, fissando così già nella versione alcune coordinate ermeneutiche del testo biblico. La necessità di avere testi in latino a disposizione per le comunità indusse a riprodurre spesso anche vari tentativi di versione dai testi greci, con errori e varianti molteplici, fino a creare un’incontrollata proliferazione della tradizione testuale diretta della Vetus Latina, oltre che delle sue riprese nelle citazioni degli autori cristiani (tradizione testuale indiretta).

L’interpretazione del testo biblico compare già nel più antico scritto esegetico rimasto della Chiesa cristiana, sul testo greco di Teodozione di Daniele, in quattro libri, dove Ippolito di Roma (morto nel 235) commenta anche le parti deuterocanoniche di Daniele; di Vittorino di Pettau (morto nel 304) rimane in latino solo il commento all’Apocalisse. La discussione era stata forte sul canone dei libri biblici dell’Antico e del Nuovo Testamento come si vede dal così detto Frammento del Muratori (fine del sec. II), di provenienza romana, che presentava una quadruplice distinzione: i libri considerati sacri da tutti e che si debbono leggere nella liturgia; i libri che non sono accettati da tutti come sacri e quindi in qualche chiesa non sono letti pubblicamente; i libri che si possono leggere privatamente, ma che non è lecito leggere nella liturgia; i libri che la Chiesa non può ricevere perché scritti da eretici, contenenti errori. Le controversie dottrinali, interpretative anche della Bibbia, lasciavano una loro traccia nell’arte, come nella basilica di Sant’Apollinare in Classe a Ravenna, eretta dal re goto Teodorico (505) di confessione ariana: nonostante le trasformazioni dovute alla conquista bizantina (540) e i rifacimenti di impronta cattolica, anche Sant’Apollinare Nuovo porta ancora le antiche “Storie di Cristo”, con i santi e i profeti negli ordini più alti della fascia sopra gli archi.5

Dalla Vulgata alle soglie dell’umanesimo. Vi furono eccellenti lavori di commento alla Bibbia, come quello su 13 lettere paoline (manca Ebrei) dell’Ambrosiaster (Pseudo-Ambrosius), comparso a Roma sotto papa Damaso (366/384); l’impegno omiletico-esegetico di Ambrogio (334-397), vescovo di Milano, ebbe vastissima eco e attinse anche alla tradizione esegetica greca, pur avvalendosi del testo latino corrente. Un contributo importante fu dato da Rufino (nato ad Aquileia intorno al 345), con la traduzione dell’opera esegetico-ermeneutica principale di Origene: De principiis (dopo il 397).

La situazione testuale della Vetus Latina era diventata caotica, come notava Agostino d’Ippona (354-430), che cercò di controllare attentamente i testimoni testuali per la lettura del testo latino, lasciando anche una cospicua serie di commentari ai libri biblici, fino a creare una sorta di «grammatica cristiana» per l’interpretazione della Bibbia. Il poderoso sforzo di sintesi di Cassiano (360-432/433) radicato anche nella sapienza monastica orientale, tra lettura del testo biblico, riferimento al mistero di Cristo e compartecipazione della vita del credente all’ermeneutica biblica (cfr. Conlatio 14), ebbe un influsso enorme sul monachesimo di lingua latina, come attesta anche la Regola di Benedetto da Norcia (480-547).

L’impegno di Girolamo (347-419/420), di Stridone, che aveva potuto acquisire una buona conoscenza del greco e discreta per l’ebraico, si svolse su due fronti: la revisione della Vetus Latina (Nuovo Testamento, Salmi e Antico Testamento, consultando anche l’Esapla origeniana nella copia di Cesarea in Palestina) e la versione del testo ebraico dell’Antico Testamento (presso Betlemme tra il 390-405), che poi fu chiamata correntemente Vulgata. Girolamo con Origene condivideva la convinzione che la Septuaginta e la Vetus Latina fossero la traduzione dello stesso testo ebraico che poteva leggere dall’Esapla origeniana; era all’oscuro del fatto che, tra il sec. III a.C. e il sec. I d.C., il testo ebraico delle Miqrā’ôt, anche dopo la traduzione della Septuaginta, aveva subito interventi, ritocchi, aggiunte sotto il controllo degli ambienti sacerdotali presso il tempio di Gerusalemme, così che molte differenze tra la traduzione della Septuaginta e il testo ebraico dell’Esapla origeniana, o il testo ebraico della sinagoga di Betlemme da lui lungamente studiato e consultato, non erano semplicemente errori dei copisti greci, ma potevano dipendere anche differenze originarie nel testo ebraico presupposto dalla Septuaginta. Un malinteso, che si sarebbe chiarito soltanto 1500 anni più tardi, soprattutto a partire dalle scoperte dei rotoli del Mar Morto. Girolamo lavorò alla monumentale versione della Vulgata per rendere in un latino non più classico il senso del testo ebraico; ricorse alle antiche versioni giudaiche di lingua greca a lui note, o anche alla parafrasi aramaica targumica, senza rifuggire dal riprodurre il calco della Vetus Latina, quando non ritenne necessaria una nuova traduzione dall’ebraico. Tra i suoi scopi, v’era anche quello di fornire alle chiese di lingua latina un testo biblico dell’Antico Testamento sicuro, fedele all’originale e affidabile nelle dispute tra cristiani e giudei. Nell’ambito di quindici anni di lavoro intensissimo, il traduttore arrivò anche all’idea che la Septuaginta non avrebbe dovuto più occupare quel ruolo centrale, di cui fino ad allora aveva goduto. Solo di Tobia e di Giuditta Girolamo diede una sua versione latina, accogliendo invece la Vetus Latina dei libri e dei frammenti deuterocanonici dell’Antico Testamento. Il drastico ridimensionamento geronimiano della Septuaginta, a favore del testo ebraico e dei libri che lo compongono, fu piuttosto anomalo, così che esaltando la veritas hebraica, prese una posizione marginale rispetto alla comune tradizione delle chiese antiche. Ma era impossibile a Girolamo rinunciare alla propria fede cristiana, così che in numerosi punti intese il testo ebraico nel comune senso cristiano corrente, soprattutto in relazione all’indole messianica di passi dell’Antico Testamento, intesi come riferiti a Gesù di Nazaret. La stessa chiesa latina di Roma non volle sostituire subito la versione corrente della Vetus Latina dei Salmi, con quella nuova geronimiana, per non stravolgere la tradizione della preghiera liturgica e personale. Girolamo ha lasciato testimonianze significative del suo impegno esegetico sul testo biblico nei prologhi ai singoli libri biblici della Vulgata e in brevi commentari ai singoli libri biblici, dove nella sostanza dei contenuti si allinea alla tradizione cristiana classica.6

La tradizione del commento e dell’interpretazione dei testi biblici si evidenziò anche nel magistero pontificio (cfr. Leone Magno, 440/461; Gregorio Magno, 540-604), fondamentale per una tradizione orale. Ma l’esigenza di sintesi della tradizione esegetica ed ermeneutica cristiana della Bibbia trovò soprattutto nelle Catene, con il testo biblico al centro della pagina e i padri che lo commentano disposti intorno, un genere attestato da centinaia di manoscritti e ancora nell’Italia del sec. XVI. Ancora più importante fu il genere della Glossa: raccolta di spiegazioni prevalentemente patristiche, ma anche di autori contemporanei, impaginata per lo più come una Catena; la Glossa, che per la diffusione fu detta anche ordinaria, divenne il principale strumento della tradizione e dell’interpretazione della Bibbia nell’occidente latino, nei teologi scolastici, in Tommaso d’Aquino; in Italia divenne epocale quella di Nicola da Lira, stampata a Venezia nel 1485.

Il margine tra libri canonici e non canonici rimase fluttuante. Il catalogo più ampio dell’antichità cristiana circa gli scritti «apocrifi» è il così detto Decreto gelasiano: una raccolta di decreti autentici della chiesa romana (412-523), scritta nella Gallia meridionale come opera di un privato e attribuita, non senza riserve, a papa Gelasio (morto nel 496); contiene un elenco dei libri della Bibbia ed un elenco di scritti apocrifi, opere riguardanti personaggi dell’Antico Testamento e opere teologiche più o meno eterodosse ripudiate dalla Chiesa romana; un secolo più tardi, nella Lista dei sessanta libri canonici mancava ancora l’Apocalisse canonica.

L’esegesi biblica medievale mosse i suoi passi dalla distinzione dei quattro sensi della Bibbia, condensata da Giovanni Cassiano: senso storico o letterale; allegorico o cristologico; tropologico, o morale, o anche antropologico; anagogico. Ne nacque il celebre distico: «Littera docet; qudi credas allegoria; / moralis quid agas; quo tendas anagogia». L’esperienza monastica traeva linfa dai sensi della Bibbia così schematizzati, privilegiando ordinariamente quello allegorico, i contenuti morali e anagogici. Il ministero pastorale della predicazione attingeva largamente al senso morale dei testi biblici, ricorrendo a quello allegorico soprattutto là dove il senso letterale sarebbe stato inaccettabile per la vita cristiana.

Le scuole, attente a ricavare materiale biblico atto a confermare le dottrine teologiche e morali, non privilegiavano ordinariamente il senso letterale della Bibbia, soprattutto nel caso dell’Antico Testamento. In Italia la tradizione teologica medievale non poté avvalersi delle conoscenze dell’ebraico e dell’esegesi rabbinica del canonico regolare inglese Andrea, abate di S. Vittore presso Parigi (morto a Wigmore, 1175), il cui commento all’Antico Testamento ebbe larga risonanza. Ebbe grande successo anche in Italia, fino a entrare nelle biblioteche papali, il Pugio fidei (1278), del domenicano catalano Raimondo Martini: una «Summa contra Iudaeos», parallela a quella del suo confratello Tommaso d’Aquino (1225-1274), Summa contra Gentiles, nella quale compaiono passi identici all’opera del Martini. Tommaso d’Aquino, dopo aver chiarito che la metafora faceva parte del senso letterale della Bibbia, formulava il principio più vasto circa l’ermeneutica biblica: «niente di necessario alla fede è contenuto nel senso spirituale, che la Sacra Scrittura non esprima chiaramente in senso letterale in qualche altro testo (La Somma teologica 1.1,10 ad 1; traduzione a cura dei domenicani italiani, vol. I, Firenze 1952). L’eredità di Tommaso d’Aquino esercitò un influsso immenso in tutta la storia del cristianesimo e non solo in Italia, anche nell’ambito degli studi biblici (cfr. il commento al Vangelo di Giovanni, al Padre nostro, al Corpus Paulinum, a Giobbe; la Catena aurea, una Glossa continua sui Vangeli), fino in epoca ancora recente. Più complesso rimane il bilancio della successiva tradizione degli «scolastici», dove l’utilizzazione della Bibbia per la ricerca ormai esclusiva di punti di appoggio dottrinali rimase in auge nell’insegnamento della teologia cattolica in Italia ancora nel sec. XX, ma segnò anche la fine della sua credibilità scientifica col progresso delle scienze bibliche e orientalistiche.

Per la gente comune, spesso ancora analfabeta, la conoscenza della Bibbia avveniva anche attraverso le «rappresentazioni sacre» di episodi o cicli biblici e nell’arte musiva delle chiese. Nel Duomo di Monreale, costruito nel 1174 per ordine di Guglielmo d’Altavilla, le pareti delle absidi e delle navate in alto sono rivestite da mosaici, fondo oro, eseguiti tra il sec. XII e la metà del sec. XIII, da artigiani locali e veneziani di scuola bizantina: il catino absidale presenta la maestosa figura del Cristo Pantocratore, mentre lungo le pareti absidali e delle navate si susseguono le storie cicliche dell’Antico e del Nuovo Testamento.

Da forme popolari di approccio e di trasmissione della Bibbia, le «rappresentazioni sacre» poi evolvettero in un genere teatrale vero e proprio. La forma più semplice era una narrazione più articolata rispetto alla lettura o declamazione di un testo biblico: ne emergeva l’intento didascalico e il desiderio d’immedesimazione. La prima «rappresentazione sacra» con la presenza di varie persone, fu il «presepe vivente», riguardante la nascita di Gesù, che Francesco d’Assisi realizzò a Greccio nel 1223, ispirandosi certamente al racconto di Lc 2,1-20, ma anche all’esegesi popolare della Septuaginta di Ab 2,2, dove il manifestarsi divino tra «due esseri viventi» (cfr. i cherubini dell’arca di Es 37,7-9) fu inteso come tra «due animali», come il bue e l’asino delle tradizioni apocrife (cfr. Pseudo-Matteo). La tradizione del presepio è rimasta viva ancor oggi in Italia e vi sono molti esempi di presepi viventi in tutto il mondo.

Anche la «Lauda drammatica», composta da «stanze», affidate a un «solista» o a un gruppo, da intendersi come un «coro», divenne strumento di diffusione per l’approccio popolare alla Bibbia sul genere della «rappresentazione sacra»: Jacopone da Todi (1230-1306) ne iniziò la forma dialogica e la più celebre composizione fu «Donna del paradiso», o «Il pianto di Maria», dove oltre alla madre di Gesù, compaiono altri personaggi: Gesù, il popolo, il nunzio fedele (Giovanni apostolo); ispirandosi alla «Passione di Gesù», in una forma cantata liturgica è stata presente in Italia fino alla tradizionale «Via crucis», celebrata nei venerdì di Quaresima del sec. XX. La «Lauda drammatica» esprimeva il desiderio anche popolare di un rinnovamento, come ristrutturazione dell’istituzione ecclesiastica basata sulla spiritualità e la povertà, attraverso la pietà religiosa popolare, che si voleva sentire vicina a Cristo nella partecipazione attiva e passiva delle rappresentazioni di momenti fondamentali della sua vita. Le «Laudi» furono rappresentate da «fraternite» e poi «confraternite», formate da chierici e anche da laici. Lo spazio architettonico della chiesa non fu più sufficiente per la «rappresentazione sacra» e nel 1300 comparvero «palcoscenici» sui sagrati delle chiese; la musica, prima in forme monodiche accompagnate da strumenti musicali e più tardi la polifonia fu sempre più protagonista. Come genere teatrale, di argomento religioso e in particolare biblico, la «rappresentazione sacra» si sviluppò in Italia a partire dal sec. XV in Toscana.

Dall’umanesimo al Concilio di Trento. Alle difficoltà degli inizi subentrò una completa affermazione della Vulgata: dal sec. V fino all’epoca di Carlo Magno; l’impulso carolingio si fece sentire fino al sec. XIII, quando si cercò di arginare la tendenza straripante a glossare il testo latino. Dopo le prime edizioni a stampa in Italia nel 1450-1456, la Vulgata fu stampata circa un centinaio di volte, ma per lo più senza alcun apparato critico. Il Concilio di Trento (1545-153) chiarì le ultime questioni relative al canone dei libri ispirati (IV sessione, 1546; cfr. Concilio di Firenze, 1438-1445): 47 libri dell’Antico Testamento, compresi i deuterocanonici e 27 libri del Nuovo Testamento; dichiarò la Vulgata punto di riferimento per la definizione del canone biblico, da considerare come «autentica», autorevole per letture, dispute, predicazione, esposizione, per i momenti ufficiali come la liturgia e l’insegnamento. Alcuni volevano la proibizione delle traduzioni della Bibbia nelle lingue vive, altri le incoraggiavano, o si cercava qualche compromesso; nella prassi disciplinare successiva veniva favorita la Vulgata latina e per leggere la Bibbia nelle lingue vive, al di fuori dai testi ebraici, greci e latini, doveva esserci il permesso scritto dal «santo Uffizio dell’Inquisizione romana», non potendosi abitualmente usare le Bibbie in lingue vive, poste invece accanto ai libri proibiti. I teologi e i biblisti tridentini erano ben consapevoli della mancanza di un’edizione critica della Vulgata; il lavoro della commissione appositamente istituita da Sisto V nel 1586 subì ritocchi sostanziali non pertinenti all’edizione critica, ma voluti dallo stesso Pontefice; ne risultò l’edizione della Bibbia Sistina (1590); sotto il pontificato di Clemente VIII l’edizione Sistina fu migliorata e ricomparve come Biblia sacra vulgatae editionis Sixti V iussu recongita et Clementis VIII autoritate edita in una ristampa del 1604 a Lione. La Sisto-clementina della Vulgata rimase per lungo tempo l’unica «ufficiale», «autentica» e «autorevole» della chiesa cattolica, mentre le successive edizioni furono soltanto delle ristampe di questo testo, emendato dagli errori tipografici.

Nel frattempo, la nuova civiltà europea, emergente dalla fioritura dell’umanesimo e del rinascimento, aveva portato con sé il desiderio di riscoprire a occidente i testi originali della Bibbia, dopo aver vissuto quasi esclusivamente delle sue traduzioni in prevalenza latine. Accanto allo studio dell’ebraico, del greco e poi delle lingue delle antiche versioni «orientali», fu fondamentale l’esigenza di poter leggere la Bibbia nelle lingue effettivamente parlate dalle varie popolazioni, rimanendo ormai il latino la lingua dei dotti. Il sorgere delle traduzioni della Bibbia nelle nuove lingue correnti, antenate di quelle attuali come tedesco, francese, inglese, spagnolo, portoghese, italiano e così via, divenne irreversibile.

Nel mondo italiano non mancarono traduzioni complete della Bibbia nella lingua e anche nei dialetti locali, prima e dopo il Concilio di Trento (1545-1563); prima dell’epoca segnata dalla stampa sono rimasti manoscritti di traduzioni, caratterizzate da dialetti locali frammisti a quello che si sarebbe imposto più tardi come italiano: parti del testo biblico per la liturgia, oppure un libro, o un gruppo di libri, come i Vangeli, ma l’intera Bibbia era assai rara. A seguito del Concilio di Trento, l’Indice dei libri proibiti risultò fatale alla lettura delle traduzioni prodotte nelle chiese riformate oltre che in quella cattolica. Le restrizioni post-tridentine volevano scoraggiare un uso individuale che comportasse una lettura senza riferimento ecclesiale e quindi legata alle forme del libero esame; divenne obbligatoria la pubblicazione del testo biblico corredato di opportune introduzioni e note; obbligatorio nell’uso liturgico, l’uso della Vulgata, a fronte dell’assenza di una traduzione ufficiale in lingua italiana, fece della Vulgata la versione ufficiale e più importante in ambito cattolico; le traduzioni italiane dell’area cattolica vi si ispirarono per lungo tempo. Nell’interpretazione anche spirituale della Bibbia si poteva fare ricorso tradizioni, ora definitivamente apocrife, ma allora circondate da un alone di credibilità storica, come per esempio gli Atti di Simone e Giuda; anche le edizioni della Vulgata continuarono a riportare in fondo alcuni testi apocrifi, ritenuti edificanti (cfr. Preghiera di Manasse, 3-4 Esdra).7

Con l’invenzione della stampa cattolici e riformati in Italia produssero varie traduzioni: il monaco camaldolese N. Malermi (Malherbi) traduceva la prima intera Bibbia dalla Vulgata latina (Wandelin, Venezia 1471), utilizzando, revisionando e confrontando manoscritti precedenti, con molte ristampe successive: A. Guerra la riproponeva ancora nel 1773 (Venezia), riveduta sulla Vulgata latina e sulla versione di G. Diodati.

Nel 1471 si diffondeva anche la traduzione anonima a cura dello stampatore N. Jenson. A. Brucioli, utilizzando per l’Antico Testamento la versione latina dall’ebraico del domenicano S. Pagnini (1527) e per il Nuovo Testamento quella dal greco di Erasmo da Rotterdam (1516), pubblicava la sua «nuova traduzione» di tutta la Bibbia (L. Giunta, Venezia 1530-1532), ma lo scontro con l’Inquisizione ecclesiastica ne decretò la condanna. Ancora due domenicani curarono due edizioni della Bibbia in italiano presso l’editore L. Giunta a Venezia: Zaccaria da Firenze (1536) e S. Marmochino (1538); per gli italiani riformati a Ginevra fu attivo F. Rustici (F. Duron); il benedettino M. Teofilo curava un’edizione del Nuovo Testamento a Lione (1551); il valdese G.L. Paschale pubblicava un’edizione bilingue in italiano-francese (Ginevra, 1552). Sempre a Ginevra (1607), dove si era rifugiato, G. Diodati pubblicava la sua valida traduzione della Bibbia completa dai testi originali, indipendente da quella di Lutero (1522-1534), e influendo anche profondamente per i secoli successivi su tutto il mondo italiano; una commissione, guidata da G. Luzzi, la revisionava nel 1924, eliminando i deuterocanonici dell’Antico Testamento, presenti ancora fino al 1822-1823; i valdesi in Svizzera la usarono fino al 1848; fu revisionata in Germania nel sec. XVIII, a Londra nel 1819 da G.B. Rolandi e ancora da scozzesi e italiani nel sec. XIX; nel 1894 da A. Meille e Giovanni Luzzi; l’ultima revisione è del 2001.

Una notazione scribale a metà di un manoscritto della Torah, in ebraico non vocalizzato, catalogato molto più tardi presso la biblioteca dell’Università di Bologna come Rotolo 2, segnalava che il rotolo era stato regalato dagli Ebrei ad Aimerico Giliani da Piacenza, Maestro Generale dei Domenicani dal 1304 al 1311; il rotolo, fissato agli estremi esterni a due perni sui quali poteva essere avvolto e svolto, è lungo 36 metri e largo 64 centimetri, è scritto con inchiostro a carbone, contiene tutto il Pentateuco ed è databile tra la seconda metà del XII secolo e l’inizio del XIII secolo circa. La sua attribuzione a Esdra è certamente discutibile, ma si tratta di uno dei più antichi codici ebraici integri del Pentateuco ebraico non vocalizzato. Il rotolo della Torah divenne un’attrazione per viaggiatori e studiosi stranieri a Bologna e il paleografo francese Bernard de Montfaucon ne diede una dettagliatissima descrizione, riportandone nel suo Diarium italicum l’iscrizione bilingue (latina ed ebraica) che attribuiva ad Esdra la scrittura del testo. Le rapine napoleoniche lo fecero arrivare a Parigi, dove però scomparve l’attestazione della donazione da parte degli ebrei. Per il resto il rotolo tornò integro dalla Francia nel 1815 per essere conservato presso la Biblioteca Pontificia di Bologna, oggi divenuta Biblioteca Universitaria. La sparizione dell’attestazione sulla donazione ebraica ai Domenicani, ingenerò l’equivoco che aveva portato a identificare il rotolo in questione con un altro rotolo mutilo della stessa università, fino a che la catalogazione del Rotolo 2, fatta da Leonello Modona nel 1889 lo aveva classificato come un manoscritto molto più tardivo del Pentateuco. I più recenti studi sulla “Torah di Bologna”, avviati dallo studioso italiano M. Perani, hanno permesso di ristabilire identità e antichità del manoscritto biblico, che ritenuto comunque prezioso per le comunità ebraiche italiane, potrebbe comunque essere arrivato in Italia con gli esodi delle comunità ebraiche sefardite o askenazite espulse da altre aree europee.

Tra il sec. XV-XVI iniziava in Italia l’impresa delle Bibbie Rabbiniche (Miqrā’ôt Gedôlôt = Le Grandi Scritture), un genere di edizione della Bibbia, che condivideva e riformulava anche genialmente l’intuizione delle Catene e della Glossa cristiane: la Bibbia interpretata con la Tradizione. A Bologna (1462) Joseph ben Abraham, coadiuvato da Abraham ben Tintori editava il Pentateuco: al centro della pagina il testo ebraico, affiancato dal targum Onkelos e tutt’intorno il commento di Rashi. Seguirono ben 6 edizioni complete della Bibbia Rabbinica, anche con trasformazioni. La prima in 4 voll. (D. Bomberg, Venezia 1516-1517) era curata da F. Prato, che dopo la morte del padre, aveva chiesto il battesimo e intorno al 1506 era diventato religioso agostiniano; per la prima volta in una Bibbia ebraica i libri di Samuele e dei Re furono divisi ciascuno in due libri distinti, seguendo il modello della Vulgata latina; oltre ai commentari comprendeva anche i «tredici articoli» delle fede del giudaismo, raccolti e schematizzati da Maimonide, e il trattato sugli accenti attribuito a Ben Asher. Nella seconda Bibbia Rabbinica (D. Bomberg, Venezia 1524-1525, 4 voll.), curata da Jacob ben Hayim, che in tarda età passò alla fede cristiana, il testo ebraico, basato su manoscritti spagnoli (sefarditi) e con la masorah marginale, diventava il testo masoretico standard per 400 anni e oltre ai targumim portava i commentari di Rashi, di Ibn Ezra, di Davide e Mosè Kimchi e di Levi ben Gerson; in un’ulteriore edizione veneziana (1525-1528) il testo ebraico diventava una combinazione tra quello di F. Prato e quello di Jacob ben Hayim. Fu poi C. Adelkind a modificare l’edizione bombergiana (Venezia, 1546-1548, 4 voll.), che, sotto la direzione di Giovanni di Gara, fu rivista venti anni dopo con numerosi cambiamenti da Isaac ben Ioseph Salam e da Isaac ben Gerson Treves (D. Bomberg, Venezia 1568). Quasi mezzo secolo più tardi, sotto la direzione di Leone di Modena e di Abraham Shaber-Tob ben Solomon Hayim Sopher, usciva quasi una riproduzione della precedente (Pietro e Lorenzo Bragadin, Venezia 1619), con l’«imprimatur» del censore Renato di Modena (1626).8

Caratteristico fu anche il genere della retroversione dei Vangeli dalla Vulgata in ebraico, come quella di G.B. Iona (Roma 1668), un ebreo divenuto cristiano (1625) e docente di ebraico nell’Accademia Romana della Sapienza, desideroso di riconfigurare un patrimonio spirituale originario, distorto dalla polemica anti-giudaica; l’opera aveva due finalità: spiegare comprensibilmente alle comunità ebraiche italiane l’esperienza dell’autore; far conoscere con una selezionata antologia di esempi e di argomentazioni il tesoro della tradizione giudaica al mondo cristiano, come si evidenziava anche dalla dedica dell’opera a papa Clemente IX. Il genere delle retroversioni del Nuovo Testamento nell’ebraico classico si sviluppò successivamente abbandonando la Vulgata e partendo dal testo greco, per arrivare alle edizioni del sec. XIX-XX e agli studi, che hanno cercato di ricostruire anche il sottofondo aramaico dei Vangeli. Con finalità talora dichiaratamente proselitistica nel sec. XX si sarebbe rivelato qualche tentativo di retroversione del Nuovo Testamento, o di alcune sue parti, in ebraico moderno e anche in yiddish; ma nessuno di questi tentativi sembra provenire dall’area italiana.

Mentre le chiese riformate nella restante Europa compivano una larga esperienza del nuovo corso delle traduzioni della Bibbia dai testi nelle lingue originali in lingue moderne, la chiesa cattolica italiana restava essenzialmente ancorata alla Vulgata Sisto-Clementina. Vi furono alcuni tentativi di traduzioni in latino di qualche libro della Bibbia anche dell’Antico Testamento dall’ebraico, come il Salterio, a cura di G.G. Giuseppe Mingarelli, dei canonici regolari del SS. Salvatore (Bologna 1748), ma rimase tra le migliori eccezioni.

La versificazione poetica italiana di G.C. Gazola (Verona 1816) di un’edizione dei Salmi, tradotti dall’ebraico in italiano da G. Venturi, a parte lo sforzo di accostarsi al testo biblico ebraico, non meriterebbe particolare attenzione. Molto più significativa ne fu invece l’acutissima recensione critica del sedicenne G. Leopardi, che dimostrava una discreta conoscenza dell’ebraico, anche di fronte alle difficoltà dei testi poetici col solo testo consonantico, seguito puntualmente facendo riferimenti precisi anche al testo vocalico a lui noto; sembra emergere solo qualche caso di puntuazione masoretica diversa da quella ordinaria; ne emergono i criteri per una traduzione italiana del Salterio ebraico: nell’indole propria della poesia religiosa dei Salmi, per Leopardi era necessario che il traduttore avvertisse la forza dell’originale ebraico, ne conservasse la semplicità, la forza, la rapidità, il calore della fantasia orientale e profetica nella traduzione, che avrebbe dovuto colpire il lettore come nell’originale, anche quando un’interpretazione in prosa ne presentasse almeno la fedeltà della Vulgata. Leopardi ammetteva comunque l’insufficienza della Vulgata per una conoscenza dei Salmi, pur riconoscendole il pregio di saper anche «commuovere» un traduttore serio del testo ebraico. Ma una traduzione del Salterio avrebbe dovuto evitare il ricorso a glosse, parafrasi e anche a perifrasi non indispensabili, preferendo invece nettamente una resa il più possibile letterale del testo; sarebbe stato inutile qualsiasi tentativo di «versificazione», ancor peggio con la rima come quella di G.C. Gazola; neppure il seguire la scansione sticometrica del testo ebraico e la riproduzione degli acrostici sarebbero stati sufficienti a garantire la rigorosità di una traduzione italiana. La traduzione in versi sciolti sarebbe stata la migliore delle soluzioni possibili, rispettando la sticometria della poesia ebraica e rimandando in nota indicazioni metriche e acrostiche. Per quanto non manchino numerosi riferimenti, riprese e interpretazioni di testi e temi biblici negli scritti di G. Leopardi, si può solo immaginare quale tappa miliare sarebbe stata per la lingua religiosa italiana una sua traduzione completa dei Salmi dall’ebraico, se il sedicenne Leopardi avesse voluto o potuto continuare e approfondire i suoi studi in materia, fino a cimentarsi in una compiuta traduzione del libro biblico dall’originale ebraico.9

Nel 1757 Benedetto XIV auspicava una traduzione della Bibbia in italiano; l’abate A. Martini, poi divenuto vescovo di Firenze, dalla Vulgata latina prima tradusse il Nuovo Testamento (1769-1771) e quindi l’Antico Testamento (1776-1791), accompagnando l’opera con note desunte da autori cattolici e specialmente dai padri della chiesa, secondo la prassi disciplinare post-tridentina. Ebbe 8 edizioni nella seconda metà del sec. XVIII e 40 in quello successivo (ultima riedizione 1967-1972 in 3 voll.). Per quanto monumento tardivo della lingua italiana, fu dichiarato «testo di lingua» dall’Accademia della Crusca (1885) ed è stato tenuto presente anche nella prima edizione della Bibbia tradotta dalle lingue originali in italiano curata dalla CEI (1971). Ha avuto un’importanza incalcolabile nella tradizione della chiesa cattolica italiana sia per la divulgazione come per la formazione del clero e dei religiosi. Può essere vista come una traduzione interlineare italiana della Vulgata, ma faceva anche attenzione al testo greco dell’Antico e del Nuovo Testamento e all’ebraico. L’esegesi e l’interpretazione dei testi era fortemente ancorata alla tradizione patristica e agli autori più conformi alla teologia magisteriale; nell’introduzione generale si avverte il senso di accerchiamento vissuto nell’ambito cattolico italiano a fronte anche delle migliori nuove istanze dell’esegesi biblica e delle scienze orientalistiche europee.10

Col secolo XIX il nuovo corso delle scienze bibliche e orientalistiche e della traduzione della Bibbia dalle lingue originali in quelle moderne prendeva slancio anche nel mondo cattolico italiano: G.B. De Rossi a partire dal 1808 (Parma) curò la traduzione di Salmi, Ecclesiaste, Giobbe, Lamentazioni e Proverbi; G. Ugdulena a Palermo tradusse il Pentateuco (1859-1861, 2 voll.), Giosuè e i Libri dei Re; a Torino C.M. Curci tradusse e commentò il Nuovo Testamento (1879.1883); a Milano N. Tommaseo tradusse i Vangeli dal greco (1869); a Firenze G. Vegni tradusse dall’ebraico l’Ecclesiaste (1871). Il seminario di Padova, ad esempio, brillava per la sua opera formativa accompagnata da pubblicazioni-manuali dalle lingue bibliche originali. Gli esponenti italiani delle chiese riformate erano attivi soprattutto fuori Italia e facevano ricorso alla versione di Giovanni Diodati. Nelle comunità ebraiche italiane emergeva la traduzione delle Miqrā’ôt dall’ebraico in italiano, iniziata da S.D. Luzzatto e terminata dai suoi discepoli (Padova-Rovigo 1853-1875).

Se i primi passi della critica moderna della Bibbia furono compiuti dal sacerdote oratoriano R. Simon (1638-1712), passato dalle chiese riformate al cattolicesimo, il mondo cattolico italiano non riuscì a entrare nel dibattito internazionale successivo; già col sec. XVI-XVII si stava sviluppando la critica testuale, la filologia ebraica e nel sec. XVIII nasceva in Germania il metodo storico-grammaticale, con implicazioni interpretative nuove del testo biblico. Il sec. XIX vide l’affermarsi del metodo storico-critico grazie a studiosi dell’area tedesca, che proposero svariate teorie sull’evoluzione storica della letteratura biblica, guardando anche al modello hegeliano. La documentazione letteraria, emergente dalle nuove scoperte archeologiche, parlava di uno sviluppo delle antiche religioni di quell’area culturale, nella quale era nata e si era formata la Bibbia. La valutazione dei dati a confronto apriva la strada a interpretazioni molto diverse di parti consistenti dell’Antico e del Nuovo Testamento. Si avvertiva una commistione confusa tra ermeneutica filosofico-razionalista e i possibili significati dei dati letterari e culturali studiati; tra gli studiosi delle chiese riformate prevalse l’ipotesi-quadro che la critica moderna dovesse essere esperita fino in fondo, senza preoccuparsi di eventuali implicazioni dogmatiche e morali e delle convinzioni più tradizionali o popolari sulla Bibbia. La poderosa spinta culturale in atto provocò reazioni anche nelle chiese riformate, ma non subì arresti. Nell’area della chiesa cattolica, e in particolare nel mondo italiano, che raggiungeva intorno alla metà del sec. XIX una sua unità anche politico-nazionale, il nuovo corso delle scienze bibliche, archeologiche e orientalistiche suscitò interesse e studiosi di assoluto valore, come l’esegeta ed egittologo L. Ungarelli (1779-1845), il filologo, orientalista, egittologo e storico A. Peyron (1785-1870), il critico testuale C. Vercellone (1814-1869), l’orientalista I. Guidi (1844-1935), l’archeologo G.B. De Rossi (1822-1894), ma non poteva ancora raggiungere la gente comune; l’influsso inizialmente più avvertito nel mondo culturale italiano per il rinnovamento degli studi biblici fu quello esercitato da A. Loisy (1857-1940). Gli ambienti dell’ex-Stato Pontificio lo chiamarono «modernismo», in senso negativo.11

Sotto il profilo pastorale incontrava ben più fortuna tra la popolazione cattolica italiana il genere letterario della «Storia sacra». Il sacerdote C.I. Fransioli nel 1868 (ultime aggiunte nel 1881) traduceva in italiano un’opera di un confratello anonimo della diocesi di Basilea: La Storia Biblica Illustrata ossia la Storia Sacra del Vecchio e Nuovo Testamento con illustrazioni; era destinata all’uso scolastico (tra il 1880 e il 1914) ed ebbe larga diffusione anche tra gli adulti, con notori consensi. Il genere letterario dell’opera è misto: segue il canone dei testi biblici dell’Antico-Nuovo Testamento selezionandone gli episodi ritenuti significativi, come in un’ampia antologia; le citazioni provengono dalla Vulgata, ma il testo è spesso riformulato e parafrasato con abbreviazioni e aggiunte dell’autore; il percorso storico si conclude con gli Atti degli apostoli. La parte successiva dell’opera ricalca il genere del “catechismo tridentino”: dopo un florilegio di «profezie» dell’Antico Testamento e una silloge di «sentenze morali», desunti da uno studio di Mons. A. Martini, è esposta una «Concordanza della dottrina cristiana con i racconti biblici», che riguarda i fondamenti biblici del «Credo», dei «Comandamenti» e dei «Sacramenti». Prima e dopo la sua pubblicazione, il testo ottenne 60 approvazioni ecclesiastiche e quella pontificia (8/3/1880); in italiano fu ristampato in più di 80 edizioni fino agli anni 1940, ma, eccettuata l’edizione del 1881, le altre non sembrano recare data. L’opera consentì un approccio popolare facilitato alla Bibbia, tradizionale-catechistico, ma aprendo la strada alla divulgazione di altre forme di «Storia sacra». G. Bosco, fondatore dei Salesiani, visse il periodo critico degli studi biblici come sacerdote impegnato soprattutto con i ceti popolari del mondo giovanile, al quale era destinata la sua «Storia Sacra», che nell’edizione del 1929 (Torino), aveva raggiunto il «250° migliaio»; il testo espone soprattutto con parole proprie quello che ritiene il tracciato narrativo della Bibbia, inserendo anche vere e proprie citazioni in corsivo; qualche elemento più tecnico e catechetico compare nel dizionario e nelle tavole finali. Il genere della «Storia Sacra», antologia biblica parafrasata, corredata e illustrazioni con didascalie, rimase in uso ancora fino agli inizi del Vaticano II.

Fonti e Bibl. essenziale

Edizioni: N. Malermi, Biblia. vulgare novamente stampata, et coreta: con le sue figure alli luochi congrui situade…: aggionti etiam i suoi ordinatissimi repertorii…ne mai per i tempi passati con tale ordine per altri fatta, Venetiis, per Bernardino Bindoni milanese [colophon], 1541; Biblia sacra vulgatae editionis Sixiti V iussu recognita et Clementis VIII auctoritate edita, Lione 1604; Bibliorum sacrorum latinae versiones antiquae seu Vetus Itala, a cura di P. Sabatier, Parigi: Franciscum Didot 1751; La Sacra Bibbia secondo la volgata. Tradotta in lingua italiana e con annotazioni dichiarata da Monsignore Antonio Martini, Firenze: David Passigli e Socj, 1833-1836; La Storia Biblica Illustrata ossia la Storia Sacra del Vecchio e Nuovo Testamento / scritta da un Sacerdote della Diocesi di Basilea; e tradotta ad uso delle scuole italiane dal M.R. Parroco di Faido D. Carlo Ignazio Fransioli- 3. ed. – Einsiedeln: F.lli. Benzinger; Torino: Tipografia e Libreria S. Giuseppe, 18-279; ill. (Biblioteca racconti e novelle) [1868]; Vetus Latina. Die Reste der altlateinischen Bibel nach Petrus Sabatier, a cura dell’Abbazia di Beuron, Herder, Freiburg 1949; La Sacra Bibbia, Tradotta in lingua italiana e commentata da G. Diodati, a cura di M. Ranchetti – M. Ventura Avanzinelli, Mondadori, Milano 1999. Cataloghi: E.M. North, The Book of Thousand Tongues, Being Some Account of the Translation and Publication of All Part of the Holy Scriptures into morre than a Thousand languages and Dialects with over 1100 Exemples from the Text, American Bible Society, New York and London 1938; Istituto centrale per il catalogo unico delle biblioteche italiane e per le informazioni bibliografiche, Bibbia, Catalogo di edizioni a stampa (1591-1957), Roma 1983. Studi: R.E. Brown – C. Buzzetti – D.W. Johnson – K.G. O’Connell, Testi e versioni, in Nuovo Grande Commentario Biblico, a cura di R.E. Brown – J.A. Fitzmyer – R.E. Murphy, edizione italiana a cura di F. Dalla Vecchia – G. Segalla – M. Vironda, Queriniana, Brescia 1997, 1418-1463; G. Fragnito, La Bibbia al rogo. La censura ecclesiastica e i volgarizzamenti della Scrittura (1471-1605), Saggi, Il Mulino 1997; G. Rizzi, Edizioni della Bibbia nel contesto di Propaganda Fide. Uno studio sulle edizioni della Bibbia presso la Biblioteca della Pontificia Università Urbaniana, voll. I-III, Urbaniana University Press, Roma 2006; G.I. Gargano, Il sapore dei padri della Chiesa nell’esegesi biblica, Introduzione a una lettura sapienziale della Scrittura, San Paolo, Cinisello Balsamo (Milano), 2009; G. Rizzi, Le antiche versioni della Bibbia. Traduzioni, tradizioni e interpretazioni, San Paolo, Cinisello Balsamo (Milano), 2009; G. Rizzi, Le versioni italiane della Bibbia. Dalla Bibbia del Malermi (1471) alla recente versione della CEI (2008), San Paolo, Cinisello Balsamo (Milano), 2010.

Immagini: 1) Mosaici del Duomo di Monreale (1172-1267) – Fascia inferiore dei mosaici della parete sud della navata; 2) Mosaici del Duomo di Monreale (1172-1267) – Fascia inferiore dei mosaici della parete nord della navata; 3) Frontespizio di un’edizione della Vulgata del 1542; 4) Copertina del primo tomo dell’opera di Pierre Sabatier († 1742); 5) Mosaico in S. Apollinare in Classe (Ravenna, 549 d.C.). Il tradimento di Giuda; 6) S. Apollinare Nuovo (505 d.C.) – Melchisedec, Abele e Abramo prefigurano il sacrificio di Cristo; 7) Bibbia tradotta da Nicolò Malermi, frontespizio per il libro dei Proverbi; 8) Cappella Sistina; costruzione iniziata nel 1473 – Michelangelo Buonarroti: Il giudizio universale; 9) Bibbie Rabbiniche – Un’edizione moderna delle Miqrā’ôt Gedolot (da Esodo 12); il testo ebraico masoretico in caratteri più grandi; i targumim aramaici vocalizzati a fianco in caratteri più piccoli; i commentatori della tradizione rabbinica in caratteri ebraici non vocalizzati nelle parti inferiori delle pagine; 10) Frontespizio di un’edizione della Bibbia di Antonio Martini (1836); 11) Storia Sacra di G. Bosco (1847).


LEMMARIO




Biblioteche - vol. I


Autore: Federico Gallo

La Chiesa ha conservato libri sin dalle sue origini. In primo luogo la Sacra Scrittura e gli scritti apostolici, necessari alla celebrazione liturgica e alla catechesi. A questo nucleo fondamentale si aggiunsero nel corso dei primi secoli gli atti dei martiri e gli scritti dei Padri; di questi ogni comunità doveva possedere almeno i libri indispensabili e più letti. La condizione di totale o parziale clandestinità impediva però l’esistenza di raccolte pubbliche; si può dunque immaginare che i libri sacri e liturgici fossero conservati presso abitazioni private, verisimilmente presso i ministri del culto. Non va dimenticato che insieme ai libri erano conservate le carte, i documenti delle comunità primitive: essi non erano così numerosi da richiedere un deposito archivistico distinto da quello bibliotecario.

Dopo la svolta costantiniana, i cristiani cominciarono a poter disporre di luoghi propri per la vita delle comunità. Fu dunque possibile raccogliere gli scritti in modo più ufficiale e organizzato. Quando le quantità lo consentivano, le carte d’archivio venivano conservate in un ambiente differente da quelle dei volumi; la possibilità che un medesimo luogo servisse da archivio e da biblioteca fu tuttavia costante, specie per le istituzioni più piccole, sino al termine del primo millennio. Le prime biblioteche sorsero così presso le residenze dei vescovi. Esse contenevano i testi biblici e le opere di commento e di supporto ad essi, le opere degli autori ecclesiastici ed anche quelle degli scrittori profani: utili, questi ultimi, ad apprendere il “bello stile”.

Peculiare fu la situazione di Roma, dove sin dal III secolo le chiese raccolsero, tra le “carte” da conservare, gli atti dei martiri, e dove Damaso (366-384) fu il primo papa a creare una biblioteca della Chiesa di Roma; circa un secolo dopo papa Ilaro (461-468) fondò una biblioteca con un’aula destinata ai libri greci ed una a quelli latini, secondo la scansione già in uso nella Roma imperiale. Altri interventi importanti si dovettero ad Agapito I (535-536), Gregorio Magno (590-604) e Zaccaria (741-752). La presenza di biblioteche e scuole di lingua greca nella città dei papi fu caratteristica nei secoli VII e VIII.

Accanto alle biblioteche ecclesiastiche istituzionali vanno ricordate quelle di singoli uomini di cultura cristiani, che avevano la stessa formazione intellettuale dei loro coevi pagani. Non pare che in Italia si siano sviluppati luoghi di raccolta libraria intesi come un cenacolo di dotti studiosi, alla stregua di quanto avvenne ad Alessandria, Antiochia e Cesarea, dove fiorirono scuole teologiche e filologiche con esponenti del calibro di Clemente, Eusebio ed Origene. Unica eccezione fu il monastero di Vivarium, il fervido centro di erudizione voluto da Cassiodoro dopo il 554 nella sua nativa Calabria, presso Squillace. Mosso dall’ideale dell’unione armoniosa delle scienze sacre e profane, Cassiodoro elaborò un piano di studi e di letture organico e completo; da questo progetto scaturì anche un’importante attività di ricerca testuale, produzione di codici e traduzione dal greco.

In Italia, più che altrove, la cultura cristiana si innestò su quella romana; quasi per continuazione naturale le istituzioni culturali ecclesiastiche ereditarono e riformularono i modelli e le abitudini culturali del mondo imperiale. Se a Marziano Capella dobbiamo l’ordinamento delle materie profane, per quelle ecclesiastiche si devono i primi ordinamenti appunto a Cassiodoro (485 ca.–580 ca.) e a Gelasio I (492-496), cui è attribuito il cosiddetto decreto «De recipiendis et non recipiendis libris». Tali modelli vennero acquisiti dalla scuola e costituirono così la base della tassonomia dei campi del sapere, secondo scansioni che sono state tramandate e rimodellate per secoli.

A partire dalle prime biblioteche legate al vescovo nacquero così, nel primo Medioevo, le biblioteche “cattedrali” (anche dette, con sfumature non irrilevanti, “episcopali” o “capitolari”). Esse si affiancavano alla scuola cattedrale, per lo studio e la consultazione, e costituirono poco alla volta raccolte di manoscritti ancor oggi notevoli: si pensi alle biblioteche cattedrali di Vercelli, Novara, Ivrea, Pavia, Milano, Cremona, Verona, Modena, Lucca, Arezzo. Anch’esse, seppur già ricche della tradizione romano-cristiana, godettero della stagione fortunata di Carlo Magno, che le volle importanti centri di cultura, e furono costantemente arricchite da doni e lasciti librari di vescovi e prelati.

Contemporaneamente nasceva e si sviluppava anche in Italia la vita monastica. Nei monasteri i libri furono indispensabili dapprima soltanto per la liturgia, lo studio biblico e la meditazione, ma nel corso del tempo si ampliò lo spettro delle letture dei monaci, seguendo il nuovo modello culturale carolingio, e nacque l’uso di un locale appositamente deputato all’attività di copiatura e alla conservazione dei libri. Anche in ambito monastico, dunque, vennero a crearsi raccolte inestimabili di manoscritti: basti citare anzitutto Bobbio, Nonantola, Montecassino e Farfa, e poi Pomposa, S. Michele in Val di Susa, Fruttuaria, Lucedio, Novalesa, Fonte Avellana, Cava dei Tirreni. Anche le biblioteche monastiche di tradizione bizantina dell’Italia meridionale furono influenzate dal modello benedettino. Come è noto, l’acquisizione di libri avveniva soprattutto, benché non esclusivamente, per opera dei copisti interni al monastero, i monaci cosiddetti “amanuensi” che lavoravano nello scriptorium. Fu il mondo autonomo dei monasteri, insieme a quello delle scuole cattedrali, a trasmettere e salvare gran parte del patrimonio letterario antico, poi riscoperto proprio in queste biblioteche dagli umanisti.

Un secondo momento importante fu la nascita degli ordini mendicanti, contestuale a quella delle università. Anche i conventi si dotarono di biblioteche ben fornite; esse dovevano soddisfare sia le esigenze del curriculum di studi filosofici e teologici affrontato dai frati studenti e sostenuto dai frati docenti, sia quelle della cura d’anime da parte dei frati impegnati nella predicazione e nelle confessioni. Tra le molte insigni biblioteche conventuali che vennero formandosi anche in Italia, si possono ricordare anzitutto quella francescana ad Assisi, e a Firenze le domenicane S. Marco e S. Maria Novella, la francescana S. Croce e l’agostiniana S. Spirito; altre importanti biblioteche conventuali vennero create ad esempio anche a Torino, Venezia, Padova, Bologna, Pisa, Siena, Todi, Napoli. L’acquisizione di libri poteva avvenire secondo una quadruplice modalità: opera di copiatura da parte di frati, commissione presso copisti di professione, acquisto sul mercato librario, donazioni di privati. L’importanza dello scriptorium interno andò comunque calando progressivamente, sino all’invenzione della stampa.

Nelle biblioteche monastiche a partire dal XI secolo e poi in quelle conventuali vi erano solitamente due fondi. Il primo era quello della biblioteca vera e propria, dedicata allo studio, la libraria communis, una grande aula a tre navate in cui i libri si trovavano cathenati ai banchi sui quali erano letti. La disposizione dei banchi è ancora oggi visibile in due biblioteche non ecclesiastiche: la Malatestiana di Cesena e la Laurenziana di Firenze. I banchi sono disposti in due file, accanto alle finestre, uno dietro l’altro. Nelle scansie, legati ad una lunga catena, stanno i libri, che possono esserne estratti per essere appoggiati sul leggìo inclinato del banco e venire così letti. La collocazione nei banchi costituisce una prima “segnatura” e consente di organizzare una disposizione organica e coerente dei libri in base al loro contenuto. Tale biblioteca era percepita come esterna, ossia aperta anche alla scuola e alla consultazione. L’altra, la parva libraria o minus armarius, era invece quella interna, costituita dai libri vagantes ossia senza catena; essi erano destinati all’uso personale dei singoli religiosi. Ove siano sopravvissuti inventari di epoca medievale o umanistica delle biblioteche è possibile e molto interessante studiarne la ricostruzione.

Occorre rilevare anche la presenza di elementi iconografici all’interno delle biblioteche ecclesiastiche. Se già in epoca romana imperiale, come testimonia Plinio, le biblioteche erano arricchite da statue ritraenti insigni autori e, in posizione d’evidenza, la dea Atena, le biblioteche cristiane del secondo millennio furono sovente dotate di una teoria di ritratti di personaggi eminenti nella sala di lettura, e in evidenza il Crocifisso o il santo fondatore. I personaggi effigiati non erano solo prelati e pastori, bensì anche e soprattutto autori ecclesiastici e profani; essi guardavano idealmente i religiosi durante lo studio, ispirando in questi ultimi emulazione, incoraggiamento, rettitudine di intenti.

L’Umanesimo e il Rinascimento diedero forte impulso agli studi classici e alla cultura in generale. Questo poté trovare riflesso anche nelle biblioteche ecclesiastiche, che si arricchirono di testi di umanisti e ritennero da allora irrinunciabile la lettura di molti autori classici prima meno conosciuti. Celebre è la raccolta di testi greci dell’erudito cardinale Bessarione, donata alla Repubblica di Venezia nel 1468 e custodita nella Biblioteca Marciana. Fu poi la Riforma cattolica a suggerire nuovi passi nel campo delle biblioteche della Chiesa; esse in Italia non subirono danni, cosa che invece accadde in molti paesi europei. Il rigore nella dottrina, nella disciplina e negli studi, fondati su una solida ossatura classica, ispirò la creazione delle biblioteche dei nuovi ordini religiosi: ne sono un esempio la Biblioteca Vallicelliana degli Oratoriani a Roma e le numerose biblioteche dei Gesuiti. Una particolare fioritura di biblioteche fu quella dei seminari, che il Concilio di Trento aveva istituito nel 1563. Per l’educazione dei nuovi sacerdoti furono allestite ricche raccolte librarie, che permettessero una formazione solida, documentata, ampia; sovente ai seminari era legata una tipografia. Esemplari in questo senso le biblioteche del Collegio urbano de propaganda Fide a Roma (1627), e del seminario di Padova per volontà di Gregorio Barbarigo (1671). Anche i pii sodalizi vollero dotarsi di un buon corredo librario, per la lettura dei suoi membri. Furono anche i collegi retti dai religiosi a disporre di ottime biblioteche funzionali alla ratio studiorum. Un testo molto influente sulle scelte bibliografiche per tutto il Seicento fu la Bibliotheca selecta del gesuita Antonio Possevino (1533-1611).

Al periodo della Riforma cattolica dobbiamo anche una particolare novità, ossia l’istituzione della Congregazione dell’Indice dei libri proibiti, la cui azione ebbe inevitabile riflesso per le biblioteche nella scelta dei nuovi libri da acquisire e di quelli da espellere o da purgare. Va tuttavia notato che molte biblioteche possedevano i libri “proibiti”, consentendone la lettura soltanto a coloro che ne ottenevano il permesso per ragioni di studio. A questa istituzione si deve l’esistenza di un’importante mole documentaria: si tratta degli elenchi dei libri delle biblioteche dei religiosi, richiesti dalla Congregazione dell’Indice nel 1597-1603. La maggior parte dei monasteri e dei conventi inviò a Roma tali elenchi, la cui ricchezza si è recentemente imposta all’attenzione degli studiosi.

Una storia a se stante è quella della Biblioteca Apostolica Vaticana, che, da sempre esistente come biblioteca dei papi a Roma e in altre sedi pontificie, ebbe travagliate vicende nel corso del Medioevo. Essa ricevette grande impulso da Niccolò V (1447-1455) e da Sisto IV (1471-1484), che la aprì al pubblico, rendendola un cenacolo di studiosi. Fu poi Sisto V (1585-1590) a creare il grandioso edificio che ancor oggi la ospita, e Paolo V (1605-1621) a separare definitivamente da essa l’Archivio. La Biblioteca Apostolica Vaticana, ricca di un patrimonio unico al mondo, annovera tra i suoi prefetti e bibliotecari alcuni uomini celeberrimi per la loro erudizione, come Cesare Baronio e Angelo Mai.

Nel corso del Seicento si assistette alla nascita di importanti biblioteche, germinate dalla dote di un prelato e progressivamente arricchite da altri lasciti. Nel 1604 l’agostiniano Angelo Rocca fondò a Roma la prima biblioteca europea aperta al pubblico tout court (la Bodleiana di Oxford, aperta nel 1602, aveva invece destinazione più accademica); essa prese da lui il nome di Biblioteca Angelica. Nel 1609 fu la volta della Biblioteca Ambrosiana di Milano, che il cardinale Federigo Borromeo volle aperta «a gloria di Dio e per la pubblica utilità», dotandola di un patrimonio straordinariamente ricco e di un collegio di Dottori, ossia di ecclesiastici completamente dediti allo studio, all’aggiornamento, al servizio degli studiosi. Una pagina assai eloquente che descrive il fervore di Federigo a favore dell’apertura della biblioteca per un servizio “universale” è quella che Alessandro Manzoni, nel XXII capitolo de «I promessi sposi», dedica proprio all’Ambrosiana. Vennero poi altre biblioteche di questo genere come l’Alessandrina (1667) e la Casanatense (1701), entrambe a Roma. Va rilevata, già a partire dal periodo dell’Umanesimo, l’importanza delle raccolte librarie di molti altri personaggi ecclesiastici, lasciata in eredità a biblioteche maggiori o ad altri eruditi.

Il primo periodo illuminista trascorse senza imporre particolari cambiamenti alle biblioteche ecclesiastiche; furono piuttosto gli archivi a risentire del clima culturale del tempo. Comunque, nelle biblioteche si registrò, in quel periodo, un’attività culturale molto vivace, i cui protagonisti erano di norma ecclesiastici, anche nelle biblioteche laiche. Tra costoro ci furono personaggi del calibro di Ludovico Antonio Muratori, Antonio Maria Querini e Domenico Passionei. Le soppressioni cosiddette “teresiane” e “giuseppine”, che ebbero luogo nei territori italiani governati dalla monarchia asburgica a danno dei religiosi contemplativi, prevedevano in genere che i fondi librari incamerati venissero trasformati in biblioteche pubbliche o universitarie, secondo il principio illuminista di “utilità”. Fu il caso, ad esempio, della Biblioteca Teresiana di Mantova. Soppressioni simili avvennero nella Repubblica di Venezia, nel Granducato di Toscana e nel Regno delle Due Sicilie. Storia a sé fu quella della soppressione e ricostituzione dei gesuiti: se vi fu una restituzione dei libri confiscati, essa in ultima analisi risultò in perdita; casi più lineari furono invece quelli delle biblioteche dei gesuiti rese d’autorità nazionali o universitarie, come a Milano, Genova, Messina e Palermo.

Una tempesta orribile stava però per abbattersi sull’intero patrimonio librario ecclesiastico italiano: la calata di Napoleone Bonaparte e la confisca dei beni ecclesiastici decretata da costui. Egli non solo si avventò con ingordigia sui beni della Chiesa, ma arrivò a concepire il progetto di concentrare a Parigi tutte le opere letterarie, artistiche e storiche più importanti d’Europa. Mise così in atto un ampio processo di sottrazioni, ruberie, spogliazioni, confische che squassarono la Penisola da cima a fondo: furono scompaginati fondi plurisecolari, disperse collezioni preziosissime, sottratte al loro legittimo luogo libri di ogni genere; le istituzioni religiose furono maggiormente colpite rispetto a quelle diocesane. Si darebbe un quadro parziale della bufera napoleonica se si concentrasse l’attenzione soltanto sui libri preziosi, celebri o rari inviati da Napoleone in Francia, inseguendone le vicende. Fu invece enorme anche la quantità di libri meno preziosi che semplicemente sparirono ad opera degli emissari napoleonici. Alla confisca di una casa religiosa faceva immediatamente seguito la requisizione dei suoi beni. Essi, e dunque anche i libri, finivano in mano ai francesi, che, se non li destinavano ad una biblioteca di raccolta, li facevano vendere all’asta o semplicemente li destinavano altrove a loro capriccio. Molti libri accatastati in attesa di raggiungere una biblioteca centrale furono suddivisi e dirottati verso altre istituzioni. Esemplare fu il destino, per citare un esempio tra i molti, dei libri della biblioteca conventuale agostiniana di S. Maria Incoronata di Milano. Questa antica raccolta, iniziata nel 1455 e costantemente arricchita, tanto da divenire una delle più importanti della Provincia, non fu intaccata dalla riforma di Giuseppe II, che nel 1787 commutò il convento in parrocchia: i libri restarono al loro posto. Quando invece arrivò Napoleone nel 1797, soppresse tutto: i libri furono confiscati e destinati al Fondo di Religione dell’Archivio di Stato; tra un trasloco e l’altro svanirono e, sino ad oggi, di essi non si sa più nulla.

Fu il Congresso di Vienna a permettere un parziale recupero dell’immensa quantità di materiale bibliografico sottratto ai legittimi proprietari dai francesi: sarebbe stato impossibile un lavoro di restituzione completo e preciso. Gli Stati italiani di allora inviarono a Parigi i loro incaricati per recuperare quanto più possibile delle opere d’arte sottratte: dunque anche codici, incunaboli e stampati di valore; per lo Stato Pontificio fu Antonio Canova ad assolvere questo compito. Le biblioteche ecclesiastiche, mutilate o trasferite, rinacquero poco alla volta, come poterono. Gli istituti soppressi e non rinati non poterono mai reclamare quanto loro sottratto, che restò in Francia. Questo il panorama alla vigilia dell’unificazione politica della Penisola.

Fonti e Bibl. essenziale

Biblioteca, in Enciclopedia italiana di scienze, lettere ed arti, Istituto Giovanni Treccani, Roma 1930, VI, 942-969; Biblioteca, in Enciclopedia cattolica, Ente per l’Enciclopedia cattolica e il libro cattolico, Città del Vaticano 1949, II, coll. 1591-1617; G. Cavallo, Libro e pubblico alla fine del mondo antico, in G. Cavallo (ed.). Libri, editori e pubblico nel mondo antico, Laterza, Bari 1975, 83-162; E. Bottasso, Storia della biblioteca in Italia, Editrice Bibliografica, Milano 1984; G. Cavallo (ed.). Le biblioteche nel mondo antico e medievale, Laterza, Bari 1988; G. Cavallo (ed.). Libri e lettori nel Medioevo, Laterza, Bari 1989; A. Serrai, Storia della bibliografia, Bulzoni, Roma 1988-2001; G. Lombardi – D. Nebbiai Dalla Guardia (edd.), Libri, lettori e biblioteche dell’Italia medievale (secoli IX-XV). Fonti, testi, utilizzazioni del libro (Atti della Tavola rotonda italo-francese. Roma, 7-8 marzo 1997), Istituto centrale per il catalogo unico delle biblioteche italiane, Roma 2000; E. Barbieri – D. Zardin (edd.), Libri, biblioteche e cultura nell’Italia del Cinque e Seicento, Vita e Pensiero, Milano 2002; R.M. Borraccini – R. Rusconi (edd.), Libri, biblioteche e cultura degli ordini regolari nell’Italia moderna attraverso la documentazione della Congregazione dell’Indice (Atti del Convegno Internazionale, Macerata 30 maggio – I giugno 2006), Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 2006; A. Serrai, Breve storia delle Biblioteche in Italia, Sylvestre Bonnard, Milano 2006; A. Ledda, Uno sguardo sulle biblioteche ecclesiastiche in Italia tra Settecento e Ottocento, in E. Barbieri (ed.), Chiesa e cultura nell’Italia dell’Ottocento, EDB, Bologna 2009, 119-140; E. Barbieri – F. Gallo (edd.), Claustrum et armarium. Studi su alcune biblioteche ecclesiastiche italiane tra Medioevo ed Età moderna, Bulzoni, Milano 2010; A. Rita, Biblioteche e requisizioni librarie a Roma in età napoleonica, Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana, 2012 (Studi e testi, 470).


LEMMARIO




Canonici Regolari - vol. I


Autore: Flavio Rurale

La storia della Chiesa ha conosciuto fin dalle sue origini esperienze volte a soddisfare l’aspirazione a una vita di assoluta coerenza evangelica e in rapporto diretto con Dio, lontano dalle lusinghe e dalle tentazioni del mondo. Nei primi secoli scelta eremitica (anacoretismo) e vita di comunità (cenobitismo) furono l’occasione per sperimentare in luoghi distanti dai centri abitati e talora poco accessibili condizioni di perfetta solitudine, ascesi e contemplazione, nell’osservanza di un sistema di rinunce e divieti precisatosi più tardi in “regole” e “voti” (di povertà, castità e obbedienza). Per soddisfare il medesimo bisogno di perfezione guardarono al modello “regolare” anche i chierici con vocazione del tutto diversa dalla vita solitaria del monaco eremita, inclini cioè a conservare un proprio ruolo entro la società e tra i fedeli, esercitando l’apostolato e la predicazione: e tuttavia attratti dall’esperienza contemplativa e dal rigido stile monacale. Gli obblighi imposti dai sacri canoni richiesero in particolare a questi chierici, a lungo designati con diversi appellativi (claustrali, canonici, religiosi), un impegno costante al rispetto della comunanza dei beni. Numerose comunità sorsero ovunque in Europa per volontà dei vescovi con simili caratteri, secondo l’antico uso «di convivere sotto una regola col clero della propria cattedrale» (G. Moroni, Dizionario, VII, 249).

Ma il progressivo attenuarsi della rinunzia all’uso personale di rendite e denari e le concessioni al diritto di proprietà previste dalla regola imperiale di Aquisgrana del IX secolo introdussero tra i chierici comportamenti inclini ad abusi e rilassatezza, rendendo necessari interventi volti a restaurare la vita comune e il rispetto del voto di povertà. Sulla scia di queste riforme e nell’ambito di un più generale processo di rinnovamento delle istituzioni ecclesiastiche, si giunse nell’XI secolo (età gregoriana) alla distinzione tra canonici secolari (refrattari alla riforma e propensi a condurre una vita privata godendo individualmente di una parte della rendita ecclesiastica sottoforma di beneficio) e canonici riformati o regolari, come appunto da allora vennero chiamati i chierici che esercitavano la cura pastorale (riconosciuta loro verso la fine del secolo e vietata ai monaci), con l’obbligo di vivere in comune (in perfetta povertà) e recitare coralmente l’officio liturgico.

In molte comunità, in gran numero istituite oltralpe e del tutto indipendenti, dal XII secolo (periodo del loro maggiore sviluppo: a quell’epoca risale la fondazione dei premostratensi a Prémontré, in Francia, nel contesto della riforma avviata da s. Norberto) fu introdotta la regola di s. Agostino, in sostituzione di quella imperiale di Aquisgrana. Ne uscì rafforzata l’organizzazione interna e favorito lo sviluppo successivo in collegiate, abbazie e priorati, in alcuni casi riuniti in strutture federative o congregazioni («tradizionalmente considerate una caratteristica dei grandi ordini monastici»), con una direzione superiore (canonica principale) e «organi di controllo quali il capitolo generale e la visita periodica di tutte le canoniche» (C. Andenna, Studi recenti sui canonici regolari, 124-125).

Oltre all’attività pastorale (comunque soggetta a restrizioni) i canonici regolari furono impegnati nell’opera missionaria e di conversione; e con le loro scuole spirituali e teologiche – “studio e contemplazione furono un tutt’uno nei chiostri del XII secolo” (Ardura, Premostratensi, 41) – contribuirono allo sviluppo della cultura cristiana, raccogliendo seguito anche tra i laici. Nel periodo che seguì il grande scisma d’Occidente (XV secolo) e precedette la protesta luterana va ricordato, nella cerchia dei canonici regolari della congregazione di Windesheim di fine ’300, il sorgere della straordinaria esperienza della devotio moderna, poi ramificatasi dal nord Europa anche in Italia.

Non mancarono nei secoli successivi altri momenti in cui si rese necessaria un’intensa attività riformatrice, che comportò in alcuni casi la secolarizzazione dei capitoli un tempo regolari o la loro organizzazione in commenda (come accadde nel primo Cinquecento per la stessa abbazia di Prémontré, amministrata dai cardinali italiani Francesco Pisani e Ippolito d’Este). Un percorso in un certo senso originale, emblematico delle difficoltà incontrate da tali esperienze, caratterizzò i canonici di S. Giorgio in Alga (Venezia), priorato regolare ridotto nel 1404 in collegiata di canonici secolari, cui Pio V impose di abbracciare di nuovo una regola e i voti: furono infine soppressi nel 1668 e i loro beni finirono alla Repubblica di Venezia impegnata nella guerra contro i Turchi.

Tra le congregazioni italiane più importanti vi è quella dei canonici lateranensi (istituita nel XV secolo dopo una prima antica fase in cui fu organizzata in forma di priorato): devono il loro nome al luogo di residenza, la basilica di S. Giovanni in Laterano a Roma. Eredi di molte antiche canoniche regolari, rimasti a lungo uniti «in fraterna carità» con il noto priorato dei canonici di S. Frediano di Lucca (N. Widloecher, Canonici regolari di sant’Agostino, 556), i canonici lateranensi conobbero il periodo di maggiore fervore e osservanza nel Cinquecento: «le comunità erano numerose […] fecondo l’apostolato della predicazione. L’impronta contemplativa era prevalente (non era permesso il ministero parrocchiale)», (C. Egger, Canonici regolari della congregazione, 105). La loro ricostituzione, dopo la dispersione dovuta alla dominazione napoleonica, avvenne nel 1823, quando si ebbe l’unione celebrata in San Pietro in Vincoli coi canonici del Santissimo Salvatore di Bologna (congregazione renana) ad opera dell’abate Vincenzo Garofali.

Caratteristiche originali ebbero gli ospitalieri di sant’Antonio Abate, comunità di sacerdoti secolari di origine francese, da Bonifacio VIII dichiarati soggetti direttamente alla santa sede e trasformati in canonici regolari. Con competenze mediche che ne favorirono la diffusione anche in Italia (a Roma ebbero chiesa e convento con l’attiguo ospedale di S. Antonio presso Santa Maria Maggiore), avevano l’obbligo particolare di accompagnare la corte papale nei suoi spostamenti: «per l’incombenza di seguire i padri ovunque andavano a risiedere […] avendo cura de’medicamenti per i bisogni di tutta la corte e curia romana». Dopo gli interventi di riforma di inizio Seicento (e le nuove costituzioni nel 1630), vennero soppressi da Clemente XIV nel 1769 e incorporati nell’ordine gerosolimitano (G. Moroni, Dizionario di erudizione, VII, 263).

Come larga parte degli ordini religiosi, molte di queste comunità conobbero cicli di crisi e rinnovamento e periodiche riforme da parte sia dei pontefici sia delle autorità secolari (particolarmente drammatiche furono le soppressioni napoleoniche), approdando ora a unioni con altri istituti ora alla chiusura e alla definitiva dispersione. Molti dei loro conventi «in progresso di tempo […] , venendo abbandonati, […] per lo scarso numero dei canonici furono dichiarati commende e poi, per le lagrimevoli vicende degli ultimi anni del secolo XVIII ed i primordi del corrente, […] terminarono di esistere» (ibid., 260).

Fonti e Bibl. essenziale

G. Moroni, Dizionario di erudizione storico-ecclesiastica da s. Pietro sino ai nostri giorni, Tipografia Emiliana, Venezia 1840-1861, VII, ad vocem; N. Widloecher, Canonici regolari di sant’Agostino, in Enciclopedia Cattolica, Ente per l’Enciclopedia Cattolica e per il Libro Cattolico, Città del Vaticano 1949, III, 553-562; C.D. Fonseca, Medioevo canonicale, Pubblicazioni dell’Università Cattolica del Sacro Cuore, Milano 1970; C. Egger, Canonici regolari della congregazione del SS. Salvatore lateranense, in DIP, Edizioni Paoline, Roma 1975, II, 101-107; S. Tramontin, Canonici secolari di S. Giorgio in Alga, in DIP, Edizioni Paoline, Roma 1975, II, 154-158; B. Ardura, Premostratensi. Nove secoli di storia e spiritualità di un grande ordine religioso, Edizioni Studio Domenicano, Bologna, 1997; C. Andenna, Studi recenti sui canonici regolari, in G. Andenna (ed.), Dove va la storiografia monastica in Europa? Temi e metodi di ricerca per lo studio della vita monastica e regolare in età medioevale alle soglie del terzo millennio, Vita e Pensiero, Milano 2001, 101-129; C.D. Fonseca, La pastorale dai monaci ai canonici regolari, Vita e Pensiero, Milano 2004.


LEMMARIO




Capitoli cattedrali, Collegiate - vol. I


Autore: Gaetano Greco

Il termine “capitolo” indica in primo luogo l’assemblea dei chierici appartenenti a una stessa chiesa, o a uno stesso monastero o convento, oppure a una congregazione regolare; nello specifico, poi, i capitoli cattedrali e le collegiate sono anche enti ecclesiastici, forniti di una personalità giuridica autonoma e dotati di un proprio patrimonio (la “mensa capitolare”), distinto dai patrimoni dei singoli chierici ascritti o “partecipanti” all’ente. Questi collegi erano istituiti in una chiesa particolare: in genere la chiesa principale di un’intera diocesi (la “cattedrale”), ma, secondo i tempi e le aree geografiche, anche le chiese madri di città non episcopali o pure altre chiese cittadine in concorrenza con le cattedrali. In queste chiese gli ecclesiastici gestivano collegialmente gli uffici sacri: i riti sacri, innanzitutto, garantendo la celebrazione di “messe cantate” o “messe corali”, ma anche la cura d’anime, affidata talora, ma non sempre, a “vicari parrocchiali” inamovibili o persino amovibili. A sua volta, il termine di “collegiata” indica una chiesa nella quale gli uffici sacri (in ambito liturgico, nella cura e giurisdizione sulle anime, nella gestione del patrimonio comune) sono gestiti da un collegio di ecclesiastici, chiamato “Capitolo collegiale”. La genesi e le vicende di queste comunità ecclesiastiche secolari (cioè di pertinenza del clero diocesano) sono assai variegate sul piano temporale e su quello regionale, dove non si può sottovalutare l’incidenza del differente sviluppo economico fra il Nord e il Sud del paese.

Schematizzando un percorso storico più tortuoso, possiamo dire che il capitolo della cattedrale ha tratto origine dall’antico presbyterium, cioè dal corpo del clero locale che coadiuvava il vescovo nelle sue funzioni di culto e amministrazione e che ne faceva le veci in sua assenza. Sin dall’età carolingia il capitolo era un corpo dotato di una propria personalità giuridica, distinta ed autonoma da quella vescovile, ed era composto da chierici diocesani (i “canonici”), i quali convivevano in comune nella casa del vescovo secondo precise regole (i canones) ispirate alla vita monastica. La vita comune del clero di queste chiese cattedrali fu assunta anche dai corpi delle chiese principali dei maggiori centri rurali e di altre importanti chiese cittadine, che formarono dei “collegi” (da qui il nome di “chiese collegiate”). L’età carolingia fu l’epoca d’oro di questo sistema, che però entrò in crisi già nel IX secolo. In età gregoriana, sotto la spinta delle istanze di riforma disciplinare e sul modello della vita monastica, si ebbe una ripresa della vita comune del clero. Ma anche questa rinascita delle “canoniche” ebbe una vita effimera: lo sviluppo economico e urbanistico delle città italiane induceva i canonici ad optare per altri stili di vita, più consoni alla propria condizione sociale di maggiorenti, convivendo nelle abitazioni domestiche con i propri familiari piuttosto che con i propri colleghi. Furono i vescovi che, per primi, separarono la loro mensa episcopale, cioè il patrimonio a loro diretta disposizione, dalla portio cleri, dalla mensa canonicorum, dalla “massa canonicale”, cioè dal patrimonio diretto al mantenimento del clero della chiesa madre egoduto pro indiviso dai canonici. In seguito, anche i canonici ottennero di poter avere una casa separata e provvidero anche a separare la loro mensa in due settori: la “massa comune”, goduta dai singoli canonici secondo il metodo delle distribuzioni dei frutti sulla base della partecipazione individuale al coro nelle funzioni religiose (questa partecipazione era segnalata con l’“appuntatura” delle presenze in appositi registri), e le “prebende”, cioè le porzioni patrimoniali divise e assegnate a ciascun canonico, che le amministrava e godeva a titolo individuale. Inoltre, alcuni capitoli canonicali avevano un numero prefissato di queste prebende canonicali (“capitolo numerato” o “chiuso”), mentre altri capitoli non prevedevano un numero determinato di prebende e, di conseguenza, di canonici (“capitolo non numerato” o “aperto”).

Il diritto dei canonici di presenziare alle funzioni liturgiche del capitolo e di partecipare alle riunioni con diritto di parola e di voto presenza (o “voce”) è stato regolamentato nel Concilio di Vienne del 1311-14, allorché fu stabilito che la promozione agli ordini sacri costituisse il suo indispensabile prerequisito (decr. 5). In linea di principio, la collazione dei canonicati delle cattedrali, come pure nelle chiese collegiate, doveva spettare simultaneamente al vescovo e al capitolo, ma vi erano le diverse consuetudini locali da rispettare: l’elezione poteva spettare solo al vescovo o solo al capitolo, per non parlare dei patroni (→ beneficio e giuspatronato). Costituzioni scritte, privilegi papali e consuetudini locali regolamentavano l’assistenza dei canonici al vescovo nel culto sacro: dalle rispettive collocazioni in chiesa o nelle processioni alle vesti e agli ornamenti che potevano indossare legittimamente. Fra i canonici si distinguevano le “dignità”: con questo nome venivano indicate le prebende canonicali di maggior prestigio delle chiese cattedrali e delle chiese collegiate, come nei casi dell’“arcidiacono”, dell’“arciprete”, del “primicerio”, del “decano” e del “magiscolo” (il maestro della scuola per i chierici della chiesa). Dopo l’erosione delle funzioni iniziali, furono gli statuti e le consuetudini locali a stabilire una sorta di gerarchia fra queste dignità, in relazione a taluni compiti interni al capitolo (come la presidenza delle riunioni assembleari) e alla maggiore o minore ricchezza delle rendite. In epoca moderna, poi, il Concilio di Trento impose a tutte le chiese cattedrali di istituire specifiche prebende per i canonicati del Teologo e del Penitenziere (Sess. V, 17 giugno 1546, decr. II cc. 1-2 e Sess. XXIV, 11 novembre 1563, decr. De Reformatione can. VIII) e in seguito la costituzione Pastoralis di papa Benedetto XIII (1725) stabilì che il loro titolo d’accesso fosse obbligatoriamente la laurea in Sacra Teologia, giudicando insufficiente la laurea in Diritto Canonico. In realtà, fu assai difficile realizzare la riforma tridentina in tutti i capitoli delle cattedrali, mancando le risorse economiche per finanziare questi nuovi uffici, che richiedevano una dote congrua e un interesse per gli studi teologici estraneo agli orizzonti culturali dei chierici diocesani di estrazione patrizia. Oltre ai canonici titolari delle rispettive prebende esistevano sia i “canonici coadiutori”, che collaboravano con i canonici titolari impediti per malattie o per vecchiaia e poi succedevano nella prebenda al momento della loro morte, sia i “canonici soprannumerari”, che erano destinati a succedere nella prima prebenda che si rendesse libera, oppure erano stati aggregati ad un capitolo già completo per nomina particolare dell’autorità ecclesiastica superiore.

Capitoli canonicali erano presenti anche in altre chiese cittadine (si pensi alla basilica medicea di S. Lorenzo a Firenze), insieme ad altri corpi ecclesiastici, come i collegi di cappellani (le “università”, le “scuole”, le “centurie”, le “fraternite”, etc.), e, nelle città come nei paesi delle campagne, si trovavano i presbiteri, le canoniche delle pievi, le chiese “ricettizie” e, più in generale, le collegiate. Queste erano le chiese ufficiate da una comunità di ecclesiastici, la quale si congregava in capitolo, possedeva una cassa o patrimonio in comune ed era riconosciuta come persona giuridica autonoma: anche in queste chiese il culto era esercitato in modo solenne, mediante l’ufficiatura corale. Solo le collegiate che possedevano particolari requisiti (come l’importanza del centro urbano in cui erano insediate) ottenevano dalla Santa Sede (l’unica cui competeva) il titolo di “collegiata insigne”, ma nelle città dove già sorgeva una cattedrale le collegiate erano considerate inferiori alle cattedrali, che conservavano sempre la preminenza sulle altre chiese diocesane. Come i capitoli delle cattedrali, tutti questi collegi presentavano statuti disciplinari interni, regolamenti liturgici, norme in difesa della condizione privilegiata dei propri membri: talvolta, anzi, nel Nord come nel Sud della Penisola i privilegi papali erano sfociati nella nascita di corpi e prelature secolari nullius dioecesis, del tutto esenti dalla giurisdizione dei vescovi locali, con i quali ingaggiavano conflitti destinati a durare nei secoli. Anche nelle collegiate vi era la possibilità che accanto alla massa comune ci fossero delle prebende, delle porzioni individuali per ciascun membro, con connessi e ben specificati compiti sacramentali, liturgici e gestionali, ma la caratteristica più comune di questi corpi consisteva nel fatto che il loro accesso era riservato ai chierici del posto, secondo il principio del “giuspatronato passivo”. Questo diritto locale trovava un’applicazione particolarmente rigorosa nelle chiese ricettizie, che per tale motivo erano anche definite “ricettizie patrimoniali”: queste chiese potevano accogliere nel loro corpo ecclesiastico solo i chierici nativi della patria locale, anche perché, non essendovi prebende separate, tutto il patrimonio rimaneva comune e il reddito di ogni chierico partecipante derivava esclusivamente dal suo servizio nella chiesa. Le stesse dignità erano dette “ventose”, cioè puramente nominali, perché non davano luogo ad un vero e proprio “titolo” con una propria dote patrimoniale. Anzi, nel caso delle ricettizie con cura d’anime, per lungo tempo l’ufficio curato fu esercitato actualiter e in solidum da tutti i partecipanti, e solo in epoca più tarda fu accettato il sistema della turnazione, mentre spesso non furono attuate le prescrizioni tridentine che richiedevano l’istituzione di un vero vicario curato, pur rimanendo la parrocchialità prerogativa dell’intero collegio dei chierici partecipanti.

Queste chiese collegiate non costituirono solo un retaggio della vita comune del clero: ancora per tutto il tardo Medioevo e per l’Età Moderna si continuò a fondare collegiate persino in quelle regioni dell’Italia centro-settentrionale, dove ormai prevaleva il modello istituzionale del beneficio ecclesiastico. Le motivazioni di questo successo sono state molteplici. Da parte dei ceti dirigenti delle città e delle famiglie preminenti nei borghi e nei paesi vi era certo un desiderio di prestigio sociale, che non può essere sottaciuto. A questo si legava la possibilità di una magnificenza del culto sacro altrimenti non raggiungibile nelle feste patronali, nelle cerimonie propiziatorie, nelle festività più solenni. Inoltre, la presenza di un collegio di ecclesiastici garantiva la continuità delle funzioni sacre con la realizzazione di economie di scala, particolarmente apprezzate tanto negli ambienti più ricchi, quanto in quelli più poveri. D’altronde, nel corso dei secoli non è esistita una relazione indissolubile fra i collegi ecclesiastici e la vita comune del clero. I collegi potevano esistere anche senza adottare una disciplina clericale modellata su quella dei religiosi: chiostri e canoniche non erano indispensabili per realizzare strutture ecclesiastiche in grado di fornire servizi religiosi più sicuri e più ricchi; i chierici incardinati in questi collegi potevano condurre una vita nel “secolo”, presso le loro famiglie, seguendo anche altre attività, senza ridursi nel chiuso di dormitori e refettori di stampo cenobitico.

Il Concilio di Vienne aveva confermato che il capitolo dei canonici della cattedrale assicurava la continuità del potere vescovile durante la vacanza di quest’ufficio (per morte, rinuncia, fuga o destituzione del titolare) o in occasione di assenze ingiustificate del vescovo. Per esercitare queste funzioni si ricorreva a un “vicario capitolare sede vacante” appositamente designato e incaricato dal capitolo della cattedrale diocesana per governare il vescovato in simili casi. Tale compito e il tradizionale esercizio del potere d’istituzione canonica anche su chiese curate urbane e rurali, nonché il diritto di accompagnare il vescovo in occasione delle visite pastorali, permettevano al capitolo della cattedrale di considerarsi come l’alter episcopus della diocesi. In effetti, non di rado i capitoli canonicali hanno assunto tale figura in particolari situazioni d’emergenza: così accadde nel 1860 nell’Italia meridionale, quando alcuni vescovi fuggirono di fronte all’avanzata dell’esercito garibaldino e furono rimpiazzati dai capitoli cattedrali con vicari più graditi al nuovo regime politico. Tuttavia, fra il Tre e il Quattrocento i capitoli cattedrali persero il potere di elezione del vescovo, che sempre più spesso era nominato per provvista papale, in accordo con il potere politico. Anzi, nella stessa epoca i capitoli cattedrali delle città sottomesse furono invasi da chierici della “dominante”, che, alla stessa stregua degli altri beneficiati forestieri e cumulatori, non prendevano residenza presso i loro uffici: fra l’assenza di costoro e la presenza di bambini, investiti di prebende grazie alle dispense papali sul “difetto d’età”, il ruolo civico dei capitoli cattedrali subì una forte perdita di prestigio. A questa situazione pose rimedio il Concilio di Trento, con l’imposizione della residenza e con il divieto del cumulo dei benefici residenziali: pur con qualche eccezione, le prebende canonicali tornarono a disposizione dei chierici cittadini, rispecchiando la composizione sociale del ceto dirigente della città capoluogo della diocesi. Nel corso del Sei-Settecento, però, questa nuova crescita del potere locale ebbe anche la conseguenza di trasformare i capitoli in soggetti tipici dei frequenti conflitti di precedenza, che turbarono gli spazi urbani in occasione delle cerimonie civili e religiose, delle ostensioni delle reliquie dei santi e delle processioni, per non parlare dei riti funebri dei propri membri e delle autorità politiche. Nel frattempo, e per circa un secolo, la resistenza dei capitoli canonicali nei confronti della disciplina tridentina ebbe la meglio sulle intenzioni riformatrici dei vescovi, grazie anche al comportamento delle Congregazioni romane, che per lungo tempo si assecondarono le motivazioni dei privilegiati. A partire, però, dalla fine del XVII secolo, con la “svolta innocenziana” la sensibilità dell’alta gerarchia e la giurisprudenza curiale mutarono di segno, permettendo ai vescovi di recuperare gli spazi della giurisdizione ordinaria quando i canonici, o non possedessero prove documentarie valide a favore dei loro diritti, oppure avessero interrotto per qualsivoglia motivo il loro esercizio continuato, che era l’unica possibile condizione per conservare in vita l’“eccezione” rispetto alla “norma”. Fra Quattro e Settecento anche a livello periferico diocesano il rapporto fra i vescovi e i capitoli canonicali si evolse verso una sostanziale esautorazione dei poteri collegiali dei corpi nel loro complesso, mentre la disciplina più rigorosa e il maggior carico della burocrazia ecclesiastica richiedevano un impegno diretto più continuo dei singoli membri dei capitoli al servizio dei vescovi negli uffici diocesani.

Sempre più espressione delle oligarchie urbane, nel Settecento i capitoli subirono pochi danni diretti dalle politiche riformatrici, anche se iniziò un lento mutamento nella loro composizione a causa della riduzione dei ranghi delle famiglie più antiche del patriziato, quale conseguenza di strategie matrimoniali restrittive. Dopo la bufera napoleonica, mentre il ruolo dei vescovi continuava a crescere in virtù del rapporto privilegiato con i governi politici, propensi a utilizzarli come una sorta di “prefetti circa sacra”, quello dei capitoli cattedrali tese a sminuire, anche perché lentamente cambiò la loro composizione a causa dei cambiamenti avvenuti nella società civile, nonché nei comportamenti e nelle aspirazioni dei cadetti delle famiglie patrizie. Così, da corpo rappresentativo dei ceti dirigenti cittadini nel governo della Chiesa locale i capitoli cattedrali si trasformarono progressivamente in collegi di anziani sacerdoti, anche di umili origini, che avevano ben meritato per l’ortodossia della dottrina e per l’impegno nella cura d’anime. Nel Meridione, poi, con il concordato del 1818 e con il breve Impensa del 3 agosto 1819, fu intaccato il carattere sostanzialmente patrimoniale e laicale delle ricettizie, perché ai vescovi locali fu attribuito il potere di esaminare preventivamente i chierici candidati alla cooptazione, per approvarli o escluderli: si aprì, così, un contenzioso, che cessò solo con la legge del 17 febbraio 1861, n. 248, che abolì il concordato con tutte le norme conseguenti.

Di lì a poco, realizzata l’Unità d’Italia e la rivoluzione liberale, con la legge del 15 agosto 1867 n. 3848, questi corpi ecclesiastici ricevettero un colpo esiziale, che accelerò la loro già avviata decadenza. Con eccezione della regione romana (città e diocesi suburbicarie), furono soppressi tutti i capitoli collegiati, attribuendo al demanio le loro proprietà, fatto salvo – nei capitoli con annessa cura d’anime – il patrimonio del beneficio curato o, nei casi di parrocchialità collegiale, una congrua porzione della massa capitolare. Nel contempo, gli stessi capitoli cattedrali subirono un drastico ridimensionamento, con la soppressione di tutte le prebende canonicali oltre la dodicesima e dei benefici semplici dei coadiutori oltre il sesto, nonché dei canonicati di patronato laicale ed ecclesiastico. Inoltre, se i capitoli cattedrali non furono privati della loro personalità giuridica, i capitoli collegiali subirono un destino diverso, continuando a esistere solo di fatto e nella mera sfera ecclesiastica. Il riconoscimento giuridico è stato recuperato in linea di principio dai capitoli collegiali, come dagli altri enti e corpi ecclesiastici, solo in applicazione del concordato del 1929 (art. 29); la sua attuazione, però, non fu automatica, ma dipese caso per caso dal riconoscimento da parte dell’autorità civile di particolari requisiti (legge 27 maggio 1929 n. 848).

Fonti e Bibl. essenziale

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LEMMARIO




Casuistica - vol. I


Autore: Flavio Rurale

La casuistica (o casistica) è una scienza pratica del consiglio, la cui funzione è quella di fare da guida ai comportamenti e alla condotta quotidiana dell’uomo di fede, in ideale coerenza con le leggi divine. Si sviluppa e raggiunge la sua massima diffusione, distinguendosi dalla teologia morale speculativa, nel XVI e XVII secolo, favorendo in particolare la produzione di testi e manuali (somme casistiche) per supportare l’azione pastorale di confessori e padri spirituali, chiamati a rispondere tanto ai casi particolari dell’ultimo dei penitenti come alle grandi questioni di Stato poste sul tappeto da principi e sovrani. A partire dalla riflessione teologica («dalle conclusioni già solidamente provate dai sommi moralisti», I. Tarocchi, Casistica, 981), essa valuta i dubbi che insorgono nella coscienza del singolo posto di fronte a scelte che possono presentare più opzioni. Infine propone una soluzione moralmente accettabile. È dunque applicazione della dottrina ai fatti pratici della vita, «atto morale concreto, azione in situazione», nella definizione dello storico Louis Vereecke (Da Guglielmo d’Ockham, 38).

Sempre Vereecke ha individuato due estremi nello sviluppo di questa ricca esperienza: da un lato l’introduzione nei collegi della Compagnia di Gesù a partire dal secondo Cinquecento dei corsi di casi di coscienza, come richiesto dal concilio di Trento: «un ciclo breve di teologia morale pratica» orientato alla formazione degli studenti per risolvere casi concreti di morale, poi precisato nel programma di formazione della Ratio studiorum gesuitica e nel 1600 dalle Institutiones morales di Giovanni Azor; e, all’estremo opposto, l’opera di Alfonso de Liguori († 1787), che nella sua Theologia moralis riassume l’essenziale del lavoro dei teologi dei secoli XVII e XVIII, pochi anni prima che la rivoluzione francese travolga «come in un turbine le istituzioni civili e religiose dell’Ancien Régime» (ibid., 33, 36 ).

Il periodo di maggiore fortuna della casuistica si colloca dunque entro due gravi crisi della dottrina cristiana: da un lato quella teologica, luterana, di inizio ’500, a cui si sommano anche le novità filosofiche e politiche dell’epoca rinascimentale e le conseguenze della scoperta del continente americano (ci si chiese per esempio: i coloni avevano il diritto di occupare quelle terre? Era possibile celebrarvi l’eucaristia in mancanza di vino e frumento? Si doveva costringere gli indigeni ad abbracciare la fede cristiana? ibid., 597-598); dall’altro la crisi culturale che innesca a partire dalla fine del Seicento, sulla scia della rivoluzione scientifica, la cosiddetta “crisi della coscienza europea”, accompagnando i profondi mutamenti del secolo successivo (rivoluzioni politiche e rivoluzione industriale): questa svolta, portando a compimento il processo di definitiva emancipazione delle scienze dal testo sacro (Bibbia) e dalla sua tradizione interpretativa (teologia), apre la strada a una forma mentis secolarizzata che tende a rintracciare unicamente nelle proprie facoltà raziocinanti il fondamento della conoscenza.

All’origine della stagione della casuistica vanno posti anche i profondi cambiamenti economici e sociali degli ultimi secoli del medioevo – si pensi all’affermazione del capitalismo finanziario, con la sua forte impronta individualistica, e al plurisecolare dibattito sull’usura che ne deriva – a cui si affiancano quelli culturali prodotti dalle correnti dell’umanesimo (la riflessione dei teologi sui temi economici, la proposta politica di Machiavelli e la risposta dei teorici della ragion di stato cristiana, il rigore filologico erasmiano ed esperienze come quella della devotio moderna). Insieme con la rottura luterana, tali trasformazioni incidono in profondità sulla spiritualità cristiana: si diffonde ed emerge una religione dell’interiorità, sottratta alla speculazione teologica e basata sull’imitazione di Cristo. La centralità dell’individuo, la sua solitudine di fronte a Dio, l’affermarsi di posizioni che tendono a favorire una concezione della morale non più come obbedienza ma come auto-governo, pongono inizialmente il cristiano in una condizione di incertezza, di debolezza e disperazione, rendendo necessaria l’attività di consiglio degli esperti di morale.

A sollecitare e legittimare questo intervento non è solo la volontà di controllare e disciplinare i fedeli propria delle chiese e degli stati nell’età cosiddetta confessionale; vi è soprattutto, come ha scritto Adriano Prosperi, «una costrizione interna ben più forte […] I dubbi pullulavano davanti alle infinite complicazioni della casistica; l’unico in grado di guarire dalle pene mortali dei dubbi era il confessore, depositario di un potere sacrale, ma soprattutto padrone di una scienza in grado di far chiarezza negli ingarbugliati conti di una coscienza ridotta a partita contabile» (A. Prosperi, Intellettuali e Chiesa all’inizio dell’età moderna, in C. Vivanti (ed.), Storia d’Italia, Annali, 4, Intellettuali e potere, Einaudi, Torino 1981, 159-252: 232-233). In questo bisogno va dunque rintracciata l’enorme fortuna dei testi di teologia morale di età moderna (diffusi non solo in area cattolica ma anche tra le chiese riformate), frutto del confronto talora serrato e polemico tra le scuole degli ordini religiosi (dove si trasferisce il centralissimo dibattito sulla grazia ed il libero arbitrio già motivo della frattura dell’unità dei cristiani) e delle singole chiese nazionali (con le loro differenti tradizioni universitarie).

In una condizione di arretratezza rispetto all’area francese e spagnola (forti delle loro prestigiose università: Sorbona, Salamanca, Alcalá de Henares), Roma, la sede del papato, il centro della cristianità, si presenta a metà Cinquecento ancora priva di una propria originale elaborazione teologica, ed è solo a partire dai decenni successivi, attraverso le università dei nuovi ordini, in particolare il Collegio Romano della Compagnia di Gesù, e l’attività intellettuale di figure come Cesare Baronio e Roberto Bellarmino, che conquista una posizione di primo piano. Dall’incontro-scontro con le scuole teologiche spagnole, mentre incombono urgenze anche politiche, traggono alimento le discussioni teologiche che fanno da sfondo alla produzione casuistica barocca (Broggio, La teologia e la politica).

Il carattere pratico della casuistica (sua l’adattabilità alle circostanze di luogo e di tempo) implica una disamina, in alcuni autori quasi maniacale, delle molteplici situazioni che chiamano l’individuo a scelte coerenti con i dettami della propria fede. Di qui l’attitudine forse più straordinaria e affascinante degli scrittori di casuistica: quella di indagare gli aspetti più minuti della vita quotidiana, di penetrare ogni particolare più recondito dell’esistenza, intervenendo su questioni di ogni genere (economiche, politiche, militari), comprese le più intime e segrete (sessuali). Sottoposti al vaglio delle loro competenze e della loro autorevolezza, i comportamenti umani vengono meticolosamente sezionati e discussi, con l’obiettivo di risolvere difficoltà e dubbi, fornire indicazioni comportamentali, in una parola consigliare. Solo per l’Italia, dall’invenzione della stampa al 1650, Miriam Turrini ha censito la pubblicazione di oltre 1350 opere in latino e in italiano “finalizzate alla pratica della confessione”; pubblicate in gran parte nel maggiore centro tipografico della penisola, Venezia (in media circa il 47% delle edizioni, con una percentuale addirittura del 90% nel decennio 1551-1560), seguita da Roma e Firenze (Turrini, La coscienza e le leggi, Appendice).

Subendo gli influssi dei differenti contesti sociali e geografici e le conseguenze delle trasformazioni tecniche, incontrandosi e scontrandosi con riflessioni di carattere filosofico e giuridico (i concetti di legge e ragione naturale, il definirsi di uno spazio di libertà interiore, l’affermarsi del relativismo nell’incontro con l’”altro”), la casuistica è chiamata a un processo di adattamento a condizioni fattuali in continuo mutamento: infatti «il fattore storico svolge un ruolo essenziale fin nel più intimo della teologia morale» (L. Vereeckhe, Da Guglielmo d’Ockham, 489). Suo carattere precipuo è dunque questa dinamicità, questo confronto incessante con i cambiamenti che investono individuo e società, da cui derivano sia la sua forza, attenzione e capacità di consiglio appunto, sia i suoi limiti: quel frantumarsi del consiglio stesso in una gamma di opzioni non sempre condivise e autorevoli, di opinioni “meno probabili” come vennero dette (proprio per questo giudicate foriere di atti peccaminosi) ma lecite tanto quanto quelle opposte sebbene “più probabili” e moralmente certe.

Si è letto proprio in questi esiti contraddittori, amplificati dall’alternarsi di interventi papali ora di condanna ora di assoluzione di alcune proposizioni contenute nei manuali di casuistica sei-settecenteschi, una crisi della riflessione teologica di quei secoli. Certo è che l’affermarsi di morali lassiste (alla ricerca della soluzione più benigna per tranquillizzare la coscienza, come avviene con la dottrina del probabilismo), probabilioriste (proprie di chi consiglia di seguire l’opinione più probabile, più sicura perché sostenuta da un numero maggiore di autorità) e rigoriste (come nel caso del tutiorismo giansenista, favorevole al massimo rigore) comporta scontri talora molto aspri – come nel caso delle Lettere provinciali scritte dal giansenista Blaise Pascal contro la morale dei gesuiti – contrapponendo i diversi indirizzi e i loro sostenitori in lunghe e annose dispute. Tuttavia «il lassismo non fu mai un sistema organicamente strutturato, se non altro per il fatto che era seguito da autori appartenenti a scuole diverse; esisteva piuttosto una tendenza a presentare come sicure opinioni molto dubbie, solo apparentemente probabili, tali da rilassare le norme di un’autentica vita cristiana» (M. Petrocchi citato in L. Vereecke, Da Guglielmo d’Ockham, 724). Tutto questo farà dire ad Alfonso de Liguori, di formazione giuridica e teologicamente cresciuto all’ombra dei seguaci del probabiliorismo: «la morale è un caos che non finisce mai» (ibid., 59).

La dimensione “del consigliare” pone la casuistica in stretta relazione anche con la pratica politica, con il “dovere di consiglio” costantemente ribadito dalla trattatistica sul principe cristiano della prima età moderna, che giustifica la presenza a corte, a fianco dei re e dei loro ministri, a Parigi come a Madrid, a Vienna come a Milano, di teologi e confessori di appartenenza regolare, ovvero l’istituzione di consigli e giunte di coscienza. Ai manuali ove ogni direttore dell’anima può trovare risposta ai quesiti posti dal più umile dei peccatori fanno così da contrappunto i lunghi elenchi di casi dubbi proposti ai propri teologi da principi e sovrani: sulla liceità di alleanze militari con re di altra fede, la facoltà di imporre nuovi tributi, la legittimità del duello o del tirannicidio. Pareri e discussioni si susseguono, il confronto avviene nelle chiese, nei conventi, nelle scuole. Negli anni Sessanta del ‘500, nel collegio dei gesuiti di Palermo, è l’autorità secolare locale a porre al noto teologo spagnolo Juan de Mariana il quesito se sia legittimo assassinare il sovrano tiranno addirittura attraverso l’inganno (l’avvelenamento). La Sicilia spagnola rimane per tutto il secolo il centro di una produzione casuistica che trova nel teatino Antonino Diana il suo maggiore esponente: 82 trattati divisi in dieci tomi “per un totale di poco meno di seimilaseicento opinioni su circa ventimila casi riguardanti, per limitarci a qualche esempio, i sacramenti, le assoluzioni riservate, la giurisdizione episcopale, l’immunità ecclesiastica, le ore canoniche, il giubileo, le indulgenze, i digiuni, la scomunica, la censura, l’interdetto, l’aborto, l’eresia, l’usura, il diritto di guerra, la lussuria” (Burgio, Teologia barocca, 8).

Più in generale i casuisti politicamente impegnati intervengono sul rapporto tra coscienza e normativa positiva, sull’obbligo morale del suddito di obbedire alle autorità civili e alle loro leggi. «La teologia poteva stabilire quando un tributo fosse giusto; contestarlo, se necessario; moderarlo nell’esercizio della confessione e nel consiglio ai sovrani» (V. Lavenia, L’infamia e il perdono, 351). È un aspetto, questo, che deve richiamare l’attenzione sul profondo legame tra etica (cristiana) e politica: legame che continua a caratterizzare sul lungo periodo e ovunque in Europa fino alla svolta settecentesca tanto la riflessione teorica come la pratica quotidiana dell’esercizio del potere.

Molto si è discusso sui caratteri di modernità (o di conservazione) dei differenti indirizzi della teologia morale cinque-seicentesca, impegnati a formare con metodi profondamente diversi tra loro la coscienza individuale dei cattolici. Emblematicamente, e semplificando, la contrapposizione tra le dottrine gesuitiche e quelle dei giansenisti ha incarnato a lungo la battaglia, un vero e proprio duello come quello immortalato nella Via lattea di Louis Bunuel (1969), non solo tra lassismo e rigorismo, ma anche tra conservazione e modernità. La discussione oggi rimane aperta. Controcorrente, Leszek Kolakowski ha scritto: alla fine vinse lo spirito di modernità dei gesuiti, non con le loro opinioni lassiste ma con la loro fede nella capacità di riscatto dell’uomo (L. Kolakowski, God owes us nothing. A brief remark on Pascal’s religion and on the spirit of jansenism, The University of Chicago Press, Chicago and London 1993, 3, 108).

Fonti e Bibl. essenziale

P. Hazard, La crisi della coscienza europea, UTET, Torino, 2007 (ed. originale 1935); I. Tarocchi, Casistica, in Enciclopedia cattolica, Ente per l’Enciclopedia Cattolica e per il Libro Cattolico, Roma 1949, III, 981-983; M. Petrocchi, Il problema del lassismo nel secolo XVII, Edizioni di storia e letteratura, Roma, 1953; G.C. Angelozzi, L’insegnamento dei casi di coscienza nella pratica educativa della Compagnia di Gesù, in G.P. Brizzi (ed.), La Ratio studiorum. Modelli culturali e pratiche educative dei gesuiti in Italia tra Cinque e Seicento, Bulzoni, Roma 1981, 121-162; E. Leites (ed.), Conscience and Casuistry in Early Modern Europe, Cambridge University Press-Maison des Sciences de l’Homme, Cambridge-Paris 1988; L. Vereecke, Da Gugliemo d’Ockham a sant’Alfonso de Liguori. Saggio di storia della teologia morale moderna, Edizioni Paoline, Milano 1990; M. Turrini, La coscienza e le leggi. Morale e diritto nei testi per la confessione della prima età moderna, Il Mulino, Bologna 1991; A. Prosperi, Tribunali della coscienza. Inquisitori, confessori, missionari, Einaudi, Torino 1996; S. Burgio, Teologia barocca. Il probabilismo in Sicilia nell’epoca di Filippo IV, Catania 1998; G. Todeschini, I mercanti e il tempio. La società cristiana e il circolo virtuoso della ricchezza fra Medioevo ed Età Moderna, Il Mulino, Il Mulino 2002; V. Lavenia, L’infamia e il perdono: tributi, pene e confessione nella teologia morale della prima età moderna, Il Mulino, Bologna 2004; P. Hurtubise, La casuistique dans tout ses états. De Martin Azpicueta à Alphonse de Liguori, Novalis, Ottawa 2005; M. Pelaya – L. Scaraffia (edd.), Due in una carne. Chiesa e sessualità nella storia, Laterza, Roma-Bari 2008; P. Broggio, La teologia e la politica. Controversie dottrinali, curia romana e monarchia spagnola tra Cinque e Seicento, Leo Olschki, 2009; F. Alfieri, Nella camera degli sposi. Tomás Sánchez, il matrimonio, la sessualità (secoli XVI-XVII), Il Mulino, Bologna, 2010.


LEMMARIO




Catari - vol. I


Autore: Luigi Michele de Palma

L’Italia dei Catari, animata prevalentemente dal diffuso spirito anticlericale, era lo specchio delle divisioni interne al movimento ereticale e alla sua organizzazione, a cui mancava un simbolo di fede comune.

La tardiva testimonianza (1270) di Alessandro di Alessandria, Inquisitore francescano, faceva giungere il catarismo nelle regioni dell’Italia settentrionale e centrale, prima del 1170, a seguito della predicazione itinerante proveniente dalla Francia meridionale. Sembra, invece, che, durante gli ultimi decenni del XII sec., i rapporti degli Italiani con esponenti catari abbiano avuto origine attraverso contatti con la Francia settentrionale e con i Bogomili di area bizantina e balcanica, tuttavia la struttura gerarchica e le estensioni territoriali italiane si svilupparono e si frammentarono rinsaldando i legami con le varie correnti e fazioni del catarismo. Si trattò di un fenomeno per nulla omogeneo e compatto. Furono costituite le chiese catare di Desenzano sul Garda, di Concorezzo (Monza), di Bagnolo San Vito (Mantova), di Vicenza (o della Marca di Treviso), di Firenze e di Spoleto e Orvieto. Per circa un secolo queste chiese restarono fra loro separate, sebbene Desenzano, Firenze, Spoleto e Orvieto professassero un dualismo assoluto, proprio dell’ordine di Drugunthia della chiesa di Dragovitza, mentre Concorezzo condivise il dualismo moderato dell’ordine di Bulgaria, e Bagnolo San Vito insieme a Vicenza fu vicina ai Bogomili della Bosnia. A vescovi italiani risalgono due rare testimonianze della letteratura catara: il Liber de duobus principiis di Giovanni di Lugio, autorevole teorico del catarismo e vescovo di Desenzano; e l’Interrogatio Iohannis (apocrifo bogomilo, detto anche Cena segreta) portata in Italia da Nazario, vescovo di Concorezzo.

Intorno al 1250 il computo, abbastanza verosimile, dell’inquisitore domenicano Raniero Sacconi, ex cataro convertito da s. Pietro martire, distribuiva i 4.000 Perfetti (il grado supremo della gerarchia catara) a seconda della loro appartenenza alle chiese catare italiane: 1.500 a Concorezzo, 500 a Desenzano, 200 a Bagnolo San Vito, 100 a Vicenza e altri 100 a Firenze e a Spoleto e Orvieto. Era, comunque, un calcolo approssimativo perché a questi si devono aggiungere altri 200 emigrati dalla Francia meridionale e, inoltre, si deve tenere conto che il calcolo riguardava soltanto i Perfetti, cioè la componente gerarchica più elevata e minoritaria della compagine catara. I dati, tuttavia, rendono l’idea della larga diffusione del catarismo nell’Italia centro-settentrionale e spiegano la forte preoccupazione da parte della Chiesa cattolica, nonché la sua reazione dinanzi al propagarsi dell’eresia.

Il rigore etico vissuto dai Perfetti, insieme al prestigio personale acquisito dai catari italiani, corrispondeva all’esigenza di autentico impegno religioso avvertita specialmente in seno al laicato. Perciò il catarismo ebbe larga accoglienza fra i cittadini agiati delle dinamiche città italiane centro-settentrionali; essi rappresentarono, tra la fine dell’XI e gli inizi del XIV sec., il terreno più fertile per i numerosi movimenti di rinnovamento spirituale che circolarono lungo la penisola. Per altro, la presenza catara venne agevolata dalla politica antipapale e filoimperiale dei comuni di tradizione ghibellina, ma dopo la morte di Federico II (1250) e la definitiva vittoria (1266) di Carlo d’Angiò, la prevalenza della parte guelfa all’interno delle amministrazioni cittadine consentì all’Inquisizione di muoversi più agevolmente e di operare con maggiore efficacia la repressione dei Catari. In area italiana, comunque, la confutazione degli errori catari è testimoniata dalle ritrattazioni, sotto forma di trattati, di ex catari pentiti: la Manifestatio heresis catarorum (ante 1190) del milanese Bonacursus, il Liber contra varios et multiplices errores (1200 ca) di Maestro Vacario e il Liber supra stella (1235 ca) di Salvo Burci. Ugualmente significative furono le confutazioni, non soltanto del catarismo, elaborate successivamente da alcuni eretici convertiti, quali furono il francescano Giacomo Cappelli e i domenicani s. Pietro martire, Moneta di Cremona e Raniero Sacconi.

La presenza, poi, degli ordini mendicanti – benvoluti dalla popolazione per lo stile di vita evangelico che propagavano – e la loro attività finalizzata anche al coinvolgimento dei laici nei terz’ordini e nelle confraternite, favorirono il controllo e la direzione della vita religiosa dei fedeli, incentivarono le conversioni e contribuirono al dissolversi del catarismo. D’altro canto, con la svolta politica filopapale dei comuni, l’Inquisizione poté svolgere un’intensa azione repressiva, nonostante talune forti resistenze. A differenza dei francesi, i Catari italiani avevano goduto di maggiori libertà e molto più tardi, rispetto ai primi, furono costretti alla clandestinità. Emblematico è il caso di Armanno Pungilupo, figlio di genitori catari, coniugato, viaggiatore e frequentatore di ambienti eterodossi. Egli non era un teorico, ma è stato definito semplicemente “un eretico quotidiano”. Alla sua morte, avvenuta a Ferrara il 16 dicembre 1269, intorno alla sua tomba si verificarono eventi prodigiosi e miracoli che alimentarono la sua fama di santità. Questo culto popolare venne stroncato nel 1301, al termine di un processo per eresia istruito dall’inquisizione. Nonostante l’opposizione del clero ferrarese, durante il processo venne sostenuta l’affettata santità di Armanno. Questi era stato un cataro di Bagnolo San Vito, inquisito nel 1254. Dopo l’abiura egli era tornato a frequentare ambienti eterodossi. Perciò la sua salma venne riesumata e bruciata sul rogo, mentre le sue ceneri furono disperse nel Po.

Nel frattempo, Mastino e Alberto della Scala avevano espugnato la Rocca di Sirmione, dove nel 1276 avevano trovato rifugio i vescovi di Desenzano e di Bagnolo San Vito insieme ai Perfetti italiani e occitani. Arrestati e processati a Verona, i 174 catari vennero arsi nell’arena il 13 febbraio 1278. Il declino del catarismo italiano era stato segnato irreversibilmente e dopo il primo ventennio del XIV sec. forse sopravvisse segretamente, ma ridotto ad un numero esiguo di adepti.

Fonti e Bibl. essenziale

Ilarino da Milano, La Manifestatio heresis catarorum quam fecit Bonacursus secondo il cod. ottob. lat. 136 della Biblioteca Vaticana, in «Aevum», 12 (1938), 281-333; Id., Il “Liber supra stella” del piacentino Salvo Burci contro i Catari e altre correnti ereticali, ibidem, 19 (1945), 281-341; Id., L’eresia di Ugo Speroni nella confutazione del maestro Vacario. Testo inedito del secolo XII con studio storico e dottrinale, Città del Vaticano 1945; Id., Il dualismo cataro in Umbria al tempo di san Francesco, in «Filosofia e cultura in Umbria tra medioevo e Rinascimento. Atti del IV Convegno di studi umbri, Gubbio, 22-26 maggio 1966», Gubbio 1967, 176-216; S. Savini, Il catarismo italiano ed i suoi vescovi nei secoli XIII e XIV. Ipotesi sulla cronologia del catarismo italiano, Firenze 1958; R. Manselli, L’eresia del male, Napoli 1980; Medioevo ereticale, a cura di O. Capitani, Bologna 1983; Mariano d’Alatri, Eretici e inquisitori in Italia. Studi e documenti, 2 vol., Roma 1986-1987; G. Zanella, Itinerari ereticali. Patari e catari tra Rimini e Verona, Roma 1986; A. Vauchez, Movimenti religiosi fuori dell’ortodossia nei secoli XII e XIII, in Storia dell’Italia religiosa, I, a cura di A. Vauchez, Roma-Bari 1993, 311-346; V. Sabbadini, Gli eretici sul lago. Storia dei catari bagnolesi, San Nicolò Po di Bagnolo San Vito 2003; Libro dei due principi. Liber de duobus principiis, a cura di G. Bettini, Bologna 2010; E. Gerosa, I Catari di Concorezzo, Concorezzo 2006; G.G. Merlo, Eretici ed eresie medievali, Bologna 2011.


LEMMARIO




Catechesi, Catechismi - vol. I


Autore: Luigi La Rosa

Periodizzazione. A partire da uno stadio zero con cui indichiamo la situazione di “stato nascente” del movimento di Gesù e dei suoi discepoli, tipico del I secolo, possiamo distinguere due grandi periodi: secoli II-XV e secoli XVI-XIX.

Lo stadio zero è caratterizzato dalla relazione privilegiata con Gesù e con le persone che lo hanno conosciuto direttamente. Attraverso la conversione, questa relazione fa sì che uomini e donne si stacchino dal proprio ambiente e producano al posto di questo una entità sociale e culturale nuova che permette di ristrutturare tutta la vita alla luce della sequela Christi. Si attua una rivoluzione. Le persone si sentono avvolte in uno stato emozionale e mentale che li spinge a considerare il tempo precedente una prigionia. Solo adesso si respira aria di libertà e novità di vita. Dato il carattere volontaristico dell’esperienza e la non necessaria appartenenza etnica, la situazione di “stato nascente” si ripresenta ogni qualvolta un individuo decide di convertirsi a Cristo ed entrare nella sua chiesa. Cosicché ciò che è avvenuto alle origini si ripresenta come una linea di continuità attraverso i secoli pur nella differenza fenomenica.

Le età tardo-antica e medievale costituiscono un continuum, nonostante le vistose e molte diversità. L’unità di fondo è data dalla dimensione comunitaria dell’iniziazione alla fede e della vita cristiana e, insieme, dalle leggi della comunicazione orale, che tende ad una catechesi “per immersione globale”, cosicché, anche con la presenza di una vasta pubblicistica a carattere catechistico, il ruolo formativo è legato alla predicazione e al vissuto familiare e sociale. Appaiono i sussidi per il contesto liturgico: sermonari, omeliari, artes praedicandi; per la vita cristiana: specchi, penitenziali, libretti d’ore e di preghiere, manualetti per la pastorale catechistica; per la missione: sermoni di primo annuncio per i rustici e i pagani, scritti apologetici e primi tentativi di dialogo con gli ebrei e i musulmani.. Se gli scritti sono per gli alfabetizzati, per tutti gli altri (più del 90%), le immagini costituiscono un catechismo visivo e un devozionario. L’altro elemento unificatore è il formarsi, rinsaldarsi e disgregarsi di quella realtà sociale, economica, politica e religiosa che è stata la christianitas, con la sua profonda tensione all’unità, spesso tradotta in uniformità costrittiva e violenta. Questo periodo può essere suddiviso in: secoli: II-VII; VIII-X; XI-XIII; XIV-XV.

L’età moderna (XVI-XIX) è l’era del catechismo, considerato lo strumento principale della formazione cristiana, del rinnovamento della chiesa e la risposta a qualsiasi carenza della vita cristiana, causata, secondo le convinzioni del tempo, dalla persistente ignoranza del popolo cristiano. Il Catechismo Romano è lo strumento-base che permea di sé tutta la pastorale catechistica tridentina, ma preceduto, affiancato e seguito da una grande molteplicità di catechismi per i fanciulli e i rudes. Tutta l’Europa diventa campo di missione e le zone più interne, raggiungibili tra molte difficoltà, della Calabria, della Sicilia e della Sardegna sono considerate “le nostre Indie” al pari dei luoghi delle missioni estere, che vedono la splendida attività catechistica, rispettosa delle culture, degli italiani A. Valignano, M. Ruggieri, M. Ricci, R. De Nobili, F. Ingoli, primo segretario di Propaganda Fide (1622). Le due riforme, cattolica e protestante, animate dall’urgenza della salus animarum, insieme all’incipiente cultura legata alla nascita della stampa, costituiscono una frattura nei confronti dell’epoca precedente. Il “catechismo”, libro-formulario, scritto nelle varie lingue locali e diffuso dai missionari popolari, e, insieme, istituzione capillare, promossa dalle Confraternite delle Dottrina cristiana, ha come compito principale quello di trasmettere, autorevolmente, la sana dottrina in maniera chiara, elementare ed esatta (si distingue tra verità di precetto, da sapere a memoria, pena la dannazione eterna, e le verità di mezzo che completano la formazione del buon cristiano). Il linguaggio dei catechismi-formulari diventa sempre più tecnico e dottrinale per essere appreso, pedissequamente parola per parola, a memoria, con l’aiuto della versificazione, della ritmicità della frase e del canto, con la conseguenza di far prevalere la dottrina sulla vita di pietà.

Dal punto di vista della letteratura catechistica i due periodi possono essere segnati: dalla Dimostrazione della predicazione apostolica di Ireneo (II sec.); dal De Agone Cristiano (396); dal De parvulis ad Christum trahendis (1406), che pone al centro della pastorale catechistica i fanciulli e inaugura l’epoca dei catechismi moderni; dal Catechismo Romano (1566); dagli Atti dei Concili Provinciali di Milano (1565-1579); da Dell’educazione cristiana e politica dei figliuoli di Silvio Antoniano (1584), tipico esempio di pedagogia e catechesi controriformista; dall’Acerbo nimis di Pio X (1905), che rilancia il catechismo come Summa credendi et agendi.

Dal punto di vista catechetico ricordiamo come marcatori: De catechizandis rudibus (405) di Agostino, Theologia catechetica di Antonio Possevino (1593), Instructio practica de munere concionandi, exhortandi, catechizandi di Tobia Lohner (1699), l’elaborazione di quattro manuali, attenti alla metodologia catechistica e all’uso di un linguaggio adatto agli uditori (Hortus pastorum di G. Marchand del 1626), Trésor de la Doctrine chrétienne di N. Turlot del 1620 ca., Pédagogue chrétien di Ph. D’Outreman del 1622, la Dottrina cristiana, ricca di riferimenti biblici, del chierico regolare G. Savonarola del 1773), l’istituzione, a fine settecento, della Cattedra di Teologia pastorale nelle università di lingua tedesca, che si fanno promotrici della catechesi storico-biblica, il Metodo normale di von Felbiger (1724-1788), tradotto in Italia da P.Soave e applicato da G.A. De Cosmi nel Regno delle Due Sicilie (1788), il rinnovamento pedagogico a cavallo dell’Ottocento-Novecento (pedocentrismo, attivismo, centri di interesse), con la nascita della Catechetica come scienza fondata teologicamente e strutturata scientificamente, in cui le discipline teologiche dialogano interdisciplinarmente con le scienze dell’educazione a favore dell’uomo educabile e capace di relazionarsi con Dio nel suo contesto esistenziale, ecclesiale, sociale e culturale, storicamente determinato.

Secoli II-XV. I primi quattro secoli, attraverso l’inculturazione ellenistico-romana del vangelo, producono un’unità culturale e un patrimonio comune di pensiero, donando ai secoli futuri un’organizzazione formativa di base, cioè il catecumenato e un nucleo catechistico fondamentale (il Credo, espresso dal Simbolo e dal segno di Croce, il Padrenostro, i Sacramenti e il Decalogo, unito alle liste di vizi e virtù). Il “catecumenato”, prima di essere una struttura formativa ben organizzata, è l’esperienza di una Chiesa che, in tutti i suoi membri, si sente madre e accoglie nel suo seno coloro che accolgono la novità di Cristo, li nutre e li educa al discepolato. Dopo il battesimo il neofita non è più un catecumeno, ma sarà sempre un discepolo ed è chiamato a divenirlo sempre di più fino alla piena conformazione a Cristo. In questo modo, il discepolato, che era l’elemento strutturale cardine del movimento di Gesù, resta vivo anche all’interno della comunità cristiana istituzionalizzata, e riesce a conglobare, a livello mistico, l’altra struttura portante della società che è la parentela. I credenti formano la familia Dei. Il catecumenato, come istituzione pastorale-liturgica si è affermato alla fine del II secolo e si è diffuso rapidamente in tutte le comunità cristiane, raggiungendo il suo periodo d’oro nel III secolo (come ci testimonia la “La Tradizione Apostolica” di Ippolito), mentre comincia a sentire i primi limiti nella seconda metà del IV secolo, a decadere nel V per scomparire completamente nel VI e VII secolo. Nel catecumenato si distinguono tre momenti fondamentali, caratterizzati dai principi di progressività, essenzialità, organicità ed esistenzialità: la preparazione remota al battesimo dei catechoumenoi/audientes; la preparazione immediata, dei photizomenoi/electi; e la catechesi mistagogica dei neofiti. Durante la profonda crisi del catecumenato i vescovi non smettono di ricordare le esigenze della vita battesimale e i principi di una sana e seria iniziazione, ma imparano ad adattarsi ai tempi nuovi e a ripiegare sul catecumenato quaresimale. Agostino, rifiutando l’eccesso donatista che tende a formare una “chiesa di puri”, esorta ad unire insieme fermezza e bontà <senza mostrarci deboli in nome della pazienza, né duri con il pretesto dello zelo> (De fide et operibus,5.7). Ma verso il VI secolo ingresso nel catec. e celebrazione del battesimo avvengono nello stesso giorno: ormai il catec. è svuotato del suo significato e Severo di Antiochia (+ 518) usa il termine catechesi come termine tecnico per designare l’istruzione specifica dei candidati al battesimo.

La catechesi assume le caratteristiche della comunità cristiana che la esprime o del pastore-catecheta che l’anima. Così possiamo parlare di una catechesi bizantina come quella svolta dai monaci basiliani, dal VI-VIII sec. in Sicilia e Calabria, tutta incentrata sulla sinfonia fra le cose divine e gli affari umani per formare un cristiano, che si percepisce “servo e familiare” di Dio e dell’imperatore, membro della grande famiglia dei figli di Dio; e anche di una catechesi romana, come quella realizzata da Ambrogio di Milano (333/34-397). Per lui la vita cristiana è vita in Cristo, ma si sostanzia di una sintesi armonica tra i valori del cristianesimo e quelli della romanità, al punto da far coincidere l’umanesimo romano con l’umanesimo cristiano. Nelle sue opere (De Abraham, Explanatio Simboli, De Sacramentis, De Mysteriis, De officiis, e gli Inni) possiamo cogliere la visione di una catechesi come educazione alla vita cristiana, articolata sulla triplice dimensione di natura, fede e grazia; e l’elaborazione di un discorso catechistico, organizzato in maniera storico-narrativo, che segue i principi didattici della gradualità, progressività e ciclicità in modo da permettere all’ascoltatore di interiorizzarne la dimensione, morale, dogmatica, misterica e trarne luce per la propria esistenza. Mentre il tardo-antico trascolora nelle tinte medievali, il monachesimo occidentale, manifesta la sua forte carica evangelizzatrice. L’unione tra peregrinatio eremitica, evangelizzazione e martirio, insieme alla realizzazione di un corpus di scritti catechistici ad uso dei missionari come il De correctione rusticorum di Martino di Braga (†579), lo Scarapsus di Pirmino (†753/8), i Sermoni di Cesario di Arles (†542), l’Indiculus superstionum (743), gli epistolari di Alcuino (†804), e di Bonifacio (†754), la Disputatio puerorum, la Storia ecclesiastica degli Angli di Beda (†735), fa sì che dai monasteri escano i padri e i maestri del popolo cristiano. Ricordiamo quelli che possiamo considerare i “fondatori” del medioevo, poiché hanno inserito la c. in un piano globale di educazione cristiana: Cassiodoro (†580) che con le sue Istituzioni fa del Vivarium calabrese un centro di cultura al servizio della conoscenza della S. Scrittura e della formazione del popolo cristiano nella fede retta e nella vita onesta; Colombano (†615) che, missionario tra i pagani e riformatore tra i cristiani, nei suoi sermoni, tenuti a Milano tra il 612 e il 615, traccia un itinerario di fede, intessuto di semplicità di cuore, di pietà e timore di Dio, di preghiera (Credo e Padrenostro), di penitenza, di fuga dal peccato e di perseveranza nella vita battesimale; Benedetto da Norcia (†547 ca.) che evangelizza le genti delle campagne, trasformando il sacro pagano in segni cristiani, e le affida alla cura pastorale dei suoi monaci; Gregorio Magno (†604), promotore della cura animarum (Regola pastorale, Omelie, Moralia, Dialoghi in cui ci dà uno spaccato sull’evangelizzazione delle campagne italiche) e dell’ evangelizzazione degli Anglosassoni, all’insegna della libera adesione dell’intelligenza e del cuore al messaggio evangelico, dell’adattamento alla cultura locale, della tolleranza; Isidoro di Siviglia (+636), che trasmette alla chiesa una vera enciclopedia del sapere (De natura rerum, De ecclesiasticis officiis, Sententiarum libri), utile a guidare i credenti sulla duplice via della contemplazione del careato e dell’ ascolto della Scrittura, per giungere alla beatitudine eterna. Dopo la caduta del regno longobardo (774), Carlo Magno si trova nella necessità di integrare in unità i vari popoli del suo vasto impero e si avvale dell’opera di un’élite culturale (Alcuino, Paolino di Aquileia, Rabano Mauro et alii), capace di fornire un quadro culturale e religioso sopranazionale e cattolico-umanitario, e, conseguentemente, di promuovere un serio impegno pastorale nei confronti del popolo, considerato “familia Christi”. Assistiamo così a un grande sforzo per formare un clero capace di educare il popolo credente con un minimo di conoscenze religiose (Credo e Padrenostro, opere di misericordia, SS. Trinità, incarnazione di Cristo e redenzione, vizi, peccati e virtù) e con un inquadramento socio-religioso adatto a sostenerlo nella vita cristiana. L’imperatore Lotario nel capitolare di Corteolona dell’825 applica all’Italia settentrionale tutte le normative precedenti (Admontio generalis del 789, Litteris colendis del 794/797, concilio di Attigny dell’822) ed organizza una vasta rete di scuole episcopali con centri a Pavia, Ivrea e Torino. La meta è “l’unità nella retta fede”, mediante una prassi cristiana uniforme. Si vuole l’unità del movimento monastico attraverso l’imposizione a tutti della Regola benedettina, l’unità pastorale dei vescovi mediante la Regola pastorale di Gregorio Magno, l’unità del clero con le Regole di Aquisgrana, l’unità dei laici mediante il De institutione laicali di Giona di Orleans, la formazione dei re con il De institutione regia. Si afferma una sola liturgia, quella romana, una sola lingua sacra, quella latina. Paolino d’ Aquileia (†802) è l’animatore principale della pastorale catechistica del Nord-Italia: per mantenere i fedeli nella retta fede, scrive per i preti la Regula fidei affinché li istruiscano in maniera uniforme ed esorta gli uni e gli altri ad apprendere e recitare a memoria il Simbolo e il Pater; compone, inoltre, Inni ritmici e Cantici spirituali in modo che, con la dolcezza del ritmo e della melodia, vengano interiorizzate le verità della fede, imitate le virtù degli uomini biblici, e gli animi vengano orientati alla celebrazione del mistero di Cristo; scrive anche uno specchio Libro dell’esortazione dove svolge una catechesi cristocentrica, utile all’esercizio fervente della vita cristiana. Mentre la chiesa carolingia è nel suo splendore, la Sicilia cade progressivamente (827-902) nelle mani dei musulmani e la fede cristiana sopravvive tra grandi difficoltà, grazie alla profonda cristianizzazione operata dai monaci basiliani di indirizzo studita, nel secolo VIII, mediante la predicazione, l’agiografia e l’innologia.

Nei secoli XI-XV si impone con forza il problema pastorale-catechistico della comunicazione della fede agli infedeli e ai cristiani semplici. Non basta credere, ma bisogna conoscere ciò che si crede. Ragione e fede sono considerate due vie complementari di conoscenza, in cui bisogna progredire. Mentre il clero è tenuto a conoscere esplicitamente le verità della fede, a motivo del proprio ministero, ai minores è sufficiente l’adesione alla fede della Chiesa ed impegnarsi ad ascoltare la predicazione, a recitare devotamente il Credo, il Padrenostro e (dal sec. XII) l’Avemaria, segnarsi con il segno della croce, partecipare alle feste dell’anno liturgico e accostarsi alla confessione. Siamo di fronte ad una “devotio” che è sostenuta dalla cristianizzazione dello spazio e del tempo per cui tutto parla di fede e, quindi, da una forte socializzazione religiosa costrittiva. Ma il desiderio che ogni cristiano giunga a possedere una fede consapevole, retta, viva, autentica, spinge concili e pastori a prescrivere, elaborare e diffondere tra il clero e i laici piccoli formulari e compendi della fede. È il tempo della moltiplicazione degli “Specchi” (descrizioni del profilo virtuoso del cristiano), dei Lucidari, dei Settenari e degli Interrogatori ad uso dei confessori. Il lucidario più famoso, che attraversa i secoli fino all’età moderna con il titolo Libro del Maestro e del discepolo, stampato più volte nel sec. XV a Milano, Brescia, Venezia, Ferrara e diffuso in tutti i paesi europei, è l’Elucidarium di Onorio di Autun. I Settenari espongono la dottrina cristiana con formule impostate sul numero sette. Famosi sono stati: il settenario di Ugo di S. Vittore, gli opuscoli di. Tommaso d’Aquino, e la Somme-le-Roi. Questa, compilata dal frate domenicano Lorenzo (1279) e tradotta anche in siciliano, contiene i dieci comandamenti, i dodici articoli del Credo, i sette peccati capitali, le sette domande del Pater, i sette doni dello Spirito Santo, le stette virtù, le beatitudini. Il metodo settenario, iniziato da Ugo di S. Vittore (1096-1140) col suo munusculum de quinque septenis per fornire al buon cristiano ciò che è necessario alla salvezza, trova la sua “consacrazione” nella Summa vitiorum ac virtutum del domenicano Guglielmo Peralto. Gli opuscoli catechistici di Tommaso d’Aquino contengono la sua predicazione al popolo napoletano, durante la quaresima del 1275; essi tracciano un cammino di fede, che spinge alla pratica delle tre virtù teologali mediante l’apprendimento e l’interiorizzazione del Credo, del Pater (insieme all’Ave Maria) e del Decalogo, sintetizzato nel duplice comandamento dell’amore di Dio e del prossimo. Lo strumento principale della formazione cristiana del popolo è proprio la predicazione degli ordini mendicanti. Essi sono capaci di coinvolgere la mente, la memoria e la volontà degli ascoltatori, avvolgendoli in un ricco immaginario fisico (pitture, mosaici, sculture, ancone, vetrate, xilografie) e mentale carico di insegnamenti e di stimoli spirituali, e trasformano il cristianesimo in una religione veramente popolare. Seguendo le espressioni del Manipulus curatorum di Guido de Monte Rocheri e le prescrizioni del Conc. di Tortosa (1429), possiamo dire con Matteo d’Agrigento (1380ca.-1450) che essi si fanno obbligo di insegnare: ciò che bisogna credere (Credo), ciò che bisogna chiedere (Pater), ciò che bisogna fare ed evitare ( Comandamenti), ciò che bisogna sperare (Gloria del paradiso), ciò che bisogna temere (le pene dell’Inferno). Cicli interi di predicazione diventano catechismi; per es. le prediche di Maria da Gennazzano (1484-89) o il Libro de la divina legge (1486) di Marco da Montegallo. Tra i grandi predicatori ci limitiamo a ricordare i nomi di Antonio di Padova, Bernardino da Siena, Giovanni da Capestrano, Giacomo della Marca, Matteo d’Agrigento e Antonino di Firenze; quest’ultimo con il suo catechismo Libretto della doctrina cristiana ricorda a tutti la meta da conseguire: <sapere, servire et onorare Idio benedetto et schivare le temptationi et peccati> (1473). Alla fine del medioevo il catechismo diventa un fenomeno diffuso: è presente nei conventi; nelle parrocchie ove si é obbligati ad usare il catechismo scritto dal proprio vescovo; nelle case ove i genitori devono educare cristianamente i figlioli e istruirli nella fede; nelle scuole sia umanistiche che di abaco, ove si apprende a leggere sul salterio o sul catechismo, oltre a ricevere dal proprio maestro una guida ferma all’esercizio della vita devota. Ricordiamo le scuole più famose, e cioè la Casa giocosa di Vittorino da Feltre (†1446) e la Scuola-convitto di Guarino Veronese (†1460), la Scuola del Paradiso di Angelo Porro, le scuole ambulanti di Albertino Bellerati di Busto Arsizio, l’opera di Maffeo Grassi (Liber formule vite insipienti et docti), sostenitore e promotore del progetto di educazione e istruzione voluto da Filippo Maria Visconti; ma non dobbiamo dimenticare tutti quei comuni e corporazioni che si facevano un onore di gestire l’educazione e la formazione cristiana dei fanciulli affinché acquistassero una personalità armonica, ricca di virtù cristiane e civiche. La nuova sensibilità catechistica trova il suo paladino in Giovanni Gersone (†1429), autore del “De parvulis ad Christum trahendis” (1406).

Degna di nota è la “catechesi politica” realizzatasi, ad opera della predicazione francescana, nella Sicilia aragonese, in una situazione di pluralismo religioso. L’opera missionaria-catechistica (spesso forzata) si muove in un intreccio di due atteggiamenti opposti: il primo aperto alla conoscenza e, quindi, al dialogo e alla valorizzazione della cultura ebraica e musulmana, connesso alla visione francescana della missione come testimonianza ed evangelizzazione esplicita; il secondo di carattere polemico e controversista, animato da sentimenti di superiorità che facilmente sfociano nella crociata violenta o in leggi discriminatorie. Questi due atteggiamenti li ritroviamo anche nella proposta della costruzione di una società cristiana presentata e caldeggiata da Villanova (1238 ca-1311) con il suo Alphabetum catholicorum, da Lullo (1232-1316) con la sua vasta pubblicistica (particolarmente Liber clericorum, Doctrina pueril, Blanquerna e Ars Magna), da Eiximènis (1327?-1409) con Regiment de la cosa publica e El Crestià; e da Matteo d’Agrigento (1380ca-1450) con i suoi sermoni. A partire dalla fede in Cristo crocifisso, modello di carità operosa, essi presentano i valori della fides, caritas, et fidelitas come i pilastri del bene comune della res publica. La loro interiorizzazione è il nucleo-base per la formazione del suddito/cittadino come fidelis, amico di Cristo, e civis leale e onesto, al punto che il discrimine tra fedele e infedele non viene dato tanto dal battesimo ma dalla partecipazione alla realizzazione del bene comune. È la carità operosa, fatta di generosità e liberalità, il cuore della vita e della società cristiana, strutturata monarchicamente o in maniera pattizia. Per cui può avvenire che il vero infedele per es. è l’usuraio o il lussurioso o il vagabondo o l’amante del lusso, che priva di risorse la società cristiana, e non l’ebreo o il musulmano che con la loro operosità possono essere cittadini fedeli. E inoltre l’aspetto operativo della carità insieme alla fiducia e alla lealtà comunitaria fanno sì che il mercante diventi la figura del cristiano ideale, che trova nella conformazione a Cristo quella sapienza capace di fare fruttificare la saggezza e le perizie umane per la costruzione del bene comune. In lui, le virtù civiche (industriosità, operosità) si intrecciano con le virtù ascetiche del digiuno e del corretto uso delle ricchezze, in modo tale che può divenire la punta di diamante dell’espansione della società cristiana e dell’evangelizzazione degli infedeli.

Secoli XVI-XIX. La seconda metà del sec. XV segna la fine della società e della chiesa medievale. È un universo che si sgretola e spinge il fedele cristiano a cercare Dio camminando verso il centro della propria anima, ove sono i segni della sua presenza. Siamo di fronte ad un cammino interiore (opposto all’esteriore che è vanità), che trova il suo linguaggio nella tradizione e in un equilibrio, in verità instabile, fra soggettività credente e oggettività della fede. Si afferma una nuova immagine della plantatio ecclesiae e del buon cristiano devoto, con il passaggio da un cristianesimo a carattere collettivo a un cristianesimo a carattere individuale, fondato sulla coscienza individuale consapevole della propria fede, ma, nello stesso tempo, inquadrato rigidamente e uniformemente nella struttura ecclesiale. Si passa lentamente da una catechesi, obbediente alle leggi della comunicazione orale, ad una catechesi legata alla nascita della stampa; da una catechesi ambientale, ad una catechesi di istruzione attraverso i catechismi dottrinali. Diventa certezza comune, sancita anche dal Concilio di Trento, che “senza un minimo di conoscenza non si può essere salvati”. Per cui i padri conciliari fanno obbligo ai vescovi e ai responsabili della cura d’anime di predicare frequentemente (tutte le domeniche e feste solenni e quotidianamente o almeno tre volte la settimana in Avvento e Quaresima), di fare, nelle medesime circostanze, il catechismo serale agli adulti e di curare diligentemente l’istruzione dei fanciulli nei rudimenti della fede e nell’obbedienza a Dio e ai genitori. Per aiutare il clero nello svolgimento della sua missione, il Concilio si fa promotore della compilazione di un catechismo, affidato a un gruppo redazionale di teologi tomisti, che viene alla luce nel 1566 con il titolo Catechismus ex decreto Concilii Tridentini ad Parochos. Questo, tradotto nello stesso anno in italiano da A. Figliucci, si diffonde subito per tutta l’Italia e diventa oggetto di riassunti, parafrasi, commenti, suddivisioni in lezioni, per le domeniche dell’anno liturgico, da leggersi durante la celebrazione delle messe (A. Ferentillo 1570; A. Sauli, Pavia 1581; G. Bellarino, Brescia 1601, 1610); E. Nieremberg (Roma 1658, Venezia 1676, Milano 1691). Ma è nell’organizzazione sistematica e capillare del catechismo alle nuove generazioni che viene riposta la fiduciosa speranza di potere riformare la società cristiana. <Si dee penetrare che la via prencipale di riformare il mondo e la Chiesa è la buona e santa institutione della gioventù, castigando li figliuoli et allevandogli col timor di Dio>. Così si esprimono gli anonimi Avertimenti et brievi ricordi circa il vivere christiano, editi a Bologna nel 1563 e similmente quelli del De Torres, arcivescovo di Monreale, nel 1638. Il primo obbligo educativo spetta ai genitori, che devono istruire i loro figli “nella pietà e devozione”, devono correggerli con “discrezione” e “senza crudeltà” e insieme alle parole devono dare il “buon esempio”. La loro azione è sostenuta, completata e, spesso, sostituita dai membri (chierici e laici) della Congregazione della Dottrina cristiana (famosa quella fondata da Castellino da Castello a Milano nel 1536, autore anche di un Interrogatorio del maestro e del discepolo, e fondamentale per la sua azione coordinatrice l’Arciconfraternita della Dottrina cristiana di Roma), dai maestri di scuola, dalle Congregazioni devote e di perseveranza, e dalle molteplici iniziative e strutture educative create da Girolamo Miani (†1537) con i suoi Somaschi, dai Gesuiti con i loro Collegi, da Angela Merici (†1540) con le sue Orsoline, da Antonio M. Zaccaria (†1539) con i suoi Barnabiti, dai Dottrinari di Cesare de Bus (†1606), la cui ricerca di una catechesi viva ed inventiva trova una bella espressione negli italiani O. Imberti (1650-1731) e G.D. Moriglioni (1652-1735), dagli Scolopi di Giuseppe Calasanzio (†1648), dai Fratelli delle Scuole Cristiane di Giovanni Battista de La Salle (†1719). L’insegnamento del catechismo diventa il fulcro delle stesse missioni popolari, promosse da Gesuiti, Redentoristi, Cappuccini, Preti della Missione, Pii Operarij, Barnabiti, Teatini. Essi mettono in moto un grandioso processo di ricristianizzazione delle popolazioni, cittadine e rurali, anche le più disperse, servendosi, anche di. catechismi propri come il Piccolo metodo di Vincenzo de’ Paoli (†1660), il Compendio della dottrina cristiana (1743), Breve dottrina cristiana (1762), e Istruzione al popolo (1768) di Alfonso de Liguori (†1787), il Piccolo catechismo di G. Calasanzio (†1648). Ben presto i catechismi si moltiplicano rapidamente nel tentativo di trasmettere la dottrina e l’esercizio della vita cristiana in maniera facile e chiara. La stessa impostazione teocentrica dei catechismi, cerca di superare l’astrattezza teologica per coniugarsi alla vita cristiana dei fedeli, che devono diventare sempre più consapevoli della loro fede. Decisiva è l’influenza esercitata dai catechismi del card. Bellarmino (1542-1621): la Doctrina Christiana breve (1597) e la Dichiarazione più copiosa (1598) Per la chiarezza del contenuto, per la praticità del loro uso, grazie alla brevità e ritmicità delle frasi, la ricchezza di esempi tratti dalla vita quotidiana, la sottolineatura dell’oggettività delle verità di fede, vengono tradotti nelle varie lingue regionali italiane, oppure adattati con aggiunte, modifiche, riduzioni da teologi, vescovi zelanti, missionari in infinite edizioni fino al sec. XX. Altri testi di notevole successo sono i catechismi del Canisio (1524-1597) (grande, piccolo, minimo, redatti rispettivamente nel 1555,1556,1559), di Ledesma (1519-1575) il cui formulario del 1567 conosce una vasta diffusione in tutta l’Italia continentale ed insulare), di Montorfano (Venezia 1629), di G. Paleotti (Bologna 1578), di A. Gagliardi (Milano 1584), di GB. Eliano (1587), di GP. Pinamonti (1632-1703). Alla fine del XVI secolo alcune innovazioni catechistiche sono ormai un fatto assodato: a) l’organizzazione del catechismo e la sua diffusione capillare è un ministero pastorale fondamentale, diretto particolarmente ai fanciulli e alla gente semplice; b) il catechismo si configura come un insegnamento umile, familiare, avulso dalle regole dell’arte oratoria, capace di ritagliarsi i suoi spazi nella vita quotidiana del popolo; c) lo strumento didattico per eccellenza è il formulario a domande e risposte, che può essere accompagnato da melodie e composizioni in versi; d) la prevalenza dei catechismi dottrinali, sono ritenuti i migliori strumenti per difendere la retta fede. Nel settecento la nuova mentalità antropocentrica e razionale dell’illuminismo se da un lato porta un nuovo slancio catechistico, promosso dai vescovi, sostenuto da preti zelanti, riuniti nelle Congregazioni clericali della Dottrina cristiana, dall’altro genera una deriva moralistica della catechesi e una sua strumentalizzazione in ordine alla formazione di un cittadino ossequioso delle leggi, sottomesso alla guida del principe illuminato. Si va alla ricerca di nuovi metodi di insegnamento, particolarmente di quelli induttivi basati sulla storia biblica, attenti ai processi del pensiero, per facilitare nei fanciulli e nella gente semplice un apprendimento significativo. Per cui si compilano nuovi catechismi più idonei al processo formativo, tanto da favorire la proliferazione di una grande quantità di catechismi in una stessa diocesi. Particolarmente significativa mi appare la situazione siciliana, crogiuolo di multiculturalità. Influssi spagnoli, francesi, inglesi, asburgici, sabaudi, borbonici si intrecciano lasciando il loro segno nella prassi catechistica e dando origine a prodotti originali. Molti vescovi siciliani si dedicano all’impresa con il desiderio di promuovere nei loro fedeli una fede consapevole e una vita cristiana devota e sobria, moralmente irreprensibile e osservante della “creanza cristiana” Se S. Ventimiglia di Catania rifiuta il Catechismo di Bossuet, impostogli dal vicerè Fogliani e pubblica un suo catechismo siciliano ispirandosi al Catechismo Romano e al Bellarmino, F. Testa di Monreale elabora un suo catechismo diocesano in siciliano prendendo come fonte principale proprio il Bossuet. Di Blasi e Gambacurta di Messina compila il suo catechismo rifacendosi al Ledesma e al Bellarmino, mentre G. Gasch di Palermo traduce in siciliano la Dottrina copiosa del Bellarmino. Mineo di Patti, pur rifacendosi al Bellarmino, si preoccupa della gradualità di un insegnamento catechistico, che vuole integro e capace di promuovere la vita cristiana dei fanciulli. Il giansenismo non riesce ad attecchire, ma sono presenti ed usati i testi di Pouget, di Mésenguy, di Gourlin per la loro impostazione didattica. Il catechismo storico-biblico di C. Fleury viene ampiamente usato nelle scuole di metodo normale e nelle scuole lancastriane e trova un imitatore nel palermitano Domenico Campione (1827), convinto seguace delle teorie pedagogiche di Ch. Rollin (1661-1741); mentre il catechismo, ricco di citazioni scritturistiche, dell’edimburghese Giorgio Hay viene apprezzato come testo adatto alla comprensione del semplice fedele. e tradotto dal palermitano Domenico Turano.

Il secolo XIX, vede il trionfo della neoscolastica con la produzione di catechismi dottrinali che, all’interno di una pastorale difensiva e di “riconquista” e di un progetto formativo popolare, che si avvale dell’incremento delle devozioni, della pietà popolare, della predicazione quaresimale e delle missioni, sono considerati lo strumento prezioso per difendere i semplici fedeli dagli errori della modernità. Essi intendono trasmettere una dottrina universale, eterna, immutabile, le cui verità sono garantite da Dio e strutturate in maniera sistematica con un rigoroso linguaggio filosofico-teologico, che trova la sua esemplare espressione nel catechismo di J. Deharbe (1865). In genere si articolano in tre testi: uno per la prima confessione, uno per la prima comunione e uno di perseveranza. Ma i nuovi catechismi si assommano a quelli dei secoli precedenti, che sono ancora in circolazione. Potremmo distinguere tre filoni: il primo fa capo ai testi del Bellarmino, che godono di ampio uso nel nord-est, a Roma e in Sicilia; il secondo fa riferimento al Compendio della dottrina cristiana (1765) di M. Casati, che viene scelto dagli episcopati piemontesi e lombardi come testo unico; il terzo filone potrebbe essere costituito da tutti quei tentativi, che pur all’interno della scelta dottrinale, aprono vie nuove in campo pedagogico e didattico sulla scia della riflessione di A. Rosmini (1797-1855), F. Aporti, G.A. Rayneri (1810-1867) o sulla scia del metodo normale come cerca di fare il Catechismo graduato del messinese G.S. Burrascano (1841-1903). L’Ottocento si chiude con il desiderio espresso dal Vaticano I (1870) di superare la pluralità dei catechismi con l’elaborazione di un unico catechismo, adatto a trasmettere in maniera autorevole le verità della fede cattolica.

 

Fonti e Bibl. essenziale

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LEMMARIO