Associazione Italiana dei Professori di Storia della Chiesa

Dizionario Storico Tematico La Chiesa in Italia
Dalle origini all'Unità Nazionale
Roma 2015
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Cattolicesimo intransigente - vol. I


Autore: Mario Tosti

È ormai opinione ampiamente accettata che la posizione intransigente prenda origine dalla reazione cattolica alla trasformazione politico-culturale conseguente alla Rivoluzione francese. Prima della Rivoluzione, infatti, esisteva una società ufficialmente cristiana e il peso della Chiesa nelle strutture della società civile era determinante; la Chiesa vide nelle vicende rivoluzionarie solo aspetti negativi, legati alla scristianizzazione e all’eversione dei principi tradizionali e fondamentali della convivenza, non riuscì a cogliere il senso profondo degli avvenimenti e preferì, invece che analizzare storicamente il fenomeno, rifugiarsi nella teoria del complotto. La conseguenza immediata fu la condanna della Rivoluzione e dei principi da essa proclamati, con l’inizio del contrasto tra Chiesa e mondo moderno che l’età della Restaurazione aveva l’intenzione di superare facendo riassumere al pontefice il ruolo di sovrano temporale e ricostruendo dalle fondamenta la società cristiana. Se il primo passo fu una “Santa Alleanza” dei sovrani e del pontefice in nome dell’Antico Regime, nuovi fermenti culturali, ispirati al romanticismo, favorirono, contro l’Illuminismo, la valorizzazione della parte irrazionale dell’animo, l’aspirazione al ritorno al Medioevo e, in definitiva, una rinascita religiosa, che riscoprì l’utilità sociale della religione, vista come unica possibilità di dare fondamento e contenuto ai concetti di dovere morale e comportamento politico. Tuttavia, le restaurate monarchie dovettero ben presto venire a patti con le borghesie e i princìpi proclamati dalla Rivoluzione; in particolare, la ripresa di politiche giurisdizionaliste e il crescente isolamento diplomatico, finirono con l’attestare saldamente la Santa Sede su una posizione di intransigentismo. Dopo l’età napoleonica appare evidente lo sforzo della cultura cattolica italiana a favorire un clima culturale tendente al ripristino di una mitizzata cristianità medievale, come risposta ai problemi della società contemporanea. Giovanni Marchetti, redattore del Giornale Ecclesiastico, in un’opera stampata nel 1817 (Della Chiesa quanto allo stato civile della città) sosteneva che solo gli ordinamenti civili che si lasciavano modellare dalla gerarchia e riconoscevano il pontefice come capo supremo, erano in grado di costruire una città perfetta. Similmente, nell’ambiente delle “Amicizie cristiane”, gruppi di laici di impronta conservatrice che si formano nei primi anni dell’Ottocento a Torino e a Firenze, si pensava che solo la restaurazione del supremo potere papale potesse favorire il ritorno ad una ordinata e pacifica convivenza. Quello che tuttavia sembra contraddistinguere la letteratura politica reazionaria in Italia, tesi già avanzata dal Salvatorelli e ribadita anche da Ettore Passerin d’Entrèves, è che essa nasce non tanto in contrasto con l’esperienza rivoluzionaria europea, ma con il diffondersi del pensiero liberale. Tale letteratura politica reazionaria contiene perciò anche una critica della stessa Restaurazione e ne forma anzi la parte più caratteristica (L. Salvatorelli, Il pensiero politico italiano dal 1700 al 1870, Einaudi, Torino 1941, 191).

In tal senso, per esempio, è lecito ricordare il caso di Monaldo Leopardi, presentato dalla moderna letteratura più nelle vesti di conservatore che di reazionario, anche se alla base delle sue idee si deve collocare un fondamento fideistico che era soprattutto negazione del progresso e della modernità. Sullo stesso versante si può situare anche la parabola del religioso teatino p. Gioacchino Ventura, fondatore e direttore della tradizionalista Enciclopedia ecclesiastica e morale, scrittore politico nel segno di de Maistre e del primo Lamennais durante gli anni della Restaurazione, ispiratore delle linee politiche della prima fase del pontificato di Pio IX, poi sostenitore della causa liberal-nazionale e in contatto, nei mesi della Repubblica Romana, con Mazzini e con Garibaldi nel tentativo, non riuscito, di esercitare una funzione conciliatrice tra le parti in conflitto. L’entusiastica adesione al programma dell’ultramontanesimo è conseguenza della funzione che egli attribuisce alla religione come autentico impegno innovatore della società. E fu proprio su questo terreno che si maturò il distacco dalle posizioni degli ambienti ecclesiastico-politici della Restaurazione, che vedevano nell’ alleanza trono-altare, sostenuta dalla politica di Metternich, la vera e unica difesa nei confronti della rivoluzione. Una posizione che, secondo lo scrittore politico siciliano, finiva per favorire un’obbedienza passiva, che isteriliva il sentimento religioso e favoriva l’indifferenza nei confronti della vita pubblica. La Restaurazione, a suo avviso, non aveva fatto altro che impossessarsi del risultato della rivoluzione e quindi accogliere, per quanto riguardava l’organizzazione politica dello Stato, la sostanza della legislazione rivoluzionaria, in particolare un esasperato centralismo politico-sociale. Il motivo dominante del liberalismo e del costituzionalismo di Ventura sta proprio nella critica al centralismo politico-amministrativo, poiché la vera struttura portante dello Stato costituzionale risiedeva nella libera espressione delle forze operanti nella società civile. Il potere fondato unicamente sulla forza, sulla semplice costrizione, non poteva costituire uno stabile fondamento per i governi; “si può far tutto colle baionette, tranne sedervi sopra”, scrisse Ventura nell’opera Il potere politico cristiano (Milano 1858, pp. 506-507) che raccoglieva i discorsi pronunciati nella cappella imperiale delle Tuileries nel 1857. A partire dagli anni Venti, tuttavia, quella che è stata definita “l’ideologia della cristianità” (Menozzi, 47) sembra esercitare una reale capacità di egemonia culturale, in grado di promuovere anche nuove forme di pietà; dopo il 1815 la religiosità collettiva viene, infatti, risistemata nei suoi cardini: nel 1815 Pio VII istituisce la festa dei Sette Dolori, in ringraziamento a Maria per aver protetto la Chiesa durante le vicende della Rivoluzione e dell’Impero; nel 1832, Gregorio XVI rilancia il patrocinio di Maria, che definisce “sicurissimo baluardo”, “potentissima Ausiliatrice”, “debellatrice di tutte le eresie”, fino ad attribuirle la funzione di “assistere e proteggere il sommo pontefice e “proteggere e difendere Roma”.

La ricostruzione di una società teocratica diviene l’obiettivo che l’insieme dei cattolici dovevano tradurre in realtà ed emerge, nell’età della Restaurazione, un orientamento destinato in seguito ad affermarsi prepotentemente che vede il laicato cattolico in prima linea nel ripristinare l’autorità della Chiesa sulla società civile. Questo è il momento in cui l’insegnamento dei papi in materia politica e sociale fa proprio lo schema emerso negli ambienti tradizionalisti e lo propone a tutti i fedeli. Ormai era chiaro che l’opera politica fatta di scelte concrete nel gioco delle potenze europee non era più perseguibile e che la figura del papa non poteva più essere quella di un cancelliere di uno Stato europeo. Per un effetto solo all’apparenza paradossale proprio la drastica riduzione, tipica della contemporaneità, del ruolo politico della Chiesa, non poté dunque che spingere quest’ultima a politicizzare sempre più la sua azione, a contendere politicamente agli avversari ogni metro di terreno, a divenire anch’essa sempre più modernamente politica, cioè ideologica e sociale (E. Galli Della Loggia, Cristianesimo e modernità, in G.M.Vian (a cura di), Storia del Cristianesimo. Bilanci e questioni aperte, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 2006, pp. 68-91). Una tendenza che trovò qualche freno durante il pontificato di Pio VII soprattutto in virtù della politica del Segretario di Stato card. Ercole Consalvi più favorevole ad accordi con gli Stati che garantissero effettivi spazi di potere sociale alla chiesa. Tuttavia la sua linea di moderazione nei confronti dei governi europei non metteva in discussione la visione ecclesiologica che nella difesa del primato e nella funzione primaria di intervento nelle vicende politiche appare sostanzialmente simile a quella degli intransigenti. Quando nondimeno il gruppo degli “zelanti” riesce ad imporre Leone XII questi ridette vigore al “Giornale Ecclesiastico” di Roma, che venne a qualificarsi come l’organo della battaglia antigallicana e massimo veicolo della propaganda integralista tra i cattolici italiani ed europei. Diretto dal Ventura, che era allora anche docente di istituzioni di diritto ecclesiastico alla Sapienza, e irrobustito dalla penna polemica di Giovanni Marchetti, il giornale divenne strenuo difensore dell’accordo tra potere civile e autorità ecclesiastica, tipico dell’Antico Regime, individuando come unico rimedio ai disordini della società il riconoscimento dell’autorità politica del papato. Esso denunciava con forza i mali scaturiti dalla rivoluzione invitando i principi cristiani a tradurre in norme coercitive le condanne papali: un progetto analiticamente esposto prima nell’enciclica Ubi primum (1824) e poi nella Quo graviora (1825). Alla morte del papa, dopo il brevissimo pontificato del più moderato Pio VIII (1829-1830), gli “zelanti” ottennero un nuovo successo con l’elezione di Gregorio XVI, fautore di una decisa intransigenza dottrinale e politica.

D’altra parte la ripresa dei moti insurrezionali nel 1830, che non risparmiarono gli stessi possedimenti della Chiesa, i rivolgimenti nella tecnologia e nell’industria favorirono l’irrigidimento conservatore del nuovo pontefice. In questa prospettiva anche innovazioni innocenti ed utili erano guardate con diffidenza; è noto che Gregorio XVI non volle introdurre nel suo Stato le ferrovie e nemmeno l’illuminazione a gas, preoccupato forse, ha scritto p. Giacomo Martina, che esse potessero facilitare l’infiltrazione di idee liberali (Martina, p. 162). In effetti la preoccupazione che la diffusione delle idee liberali potesse mettere in discussione il potere temporale divenne preminente ed in tale ottica condannò risolutamente il sacerdote francese Félicité Robert de Lamennais (1782-1854) che, partito da posizioni intransigenti, si era convinto che la Restaurazione non avesse garantito la rinascita della società cristiana auspicando perciò una nuova alleanza tra Chiesa e popolo per una riconquista cattolica della società. Lamennais era convinto che il cattolicesimo dovesse accettare la sfida costituita dai principi liberali rinunciando a qualsiasi privilegio in cambio dell’effettiva libertà; una posizione che provocò la reazione negativa della gerarchia e del papato, che proprio in quell’epoca stava perseguendo una politica di incremento dei concordati con i governi restaurati in direzione opposta a quella indicata dal sacerdote francese. L’enciclica Mirari vos (1832) giunse a dichiarare che le libertà moderne non erano accettabili neppure come strumento, perché non si potevano mettere sullo stesso piano la verità cattolica e l’errore, riconoscendo per esempio la libertà di coscienza. Forti anche del magistero pontificio, alcuni intransigenti si spinsero a combattere risolutamente i fondamenti del nuovo ordine sociale giungendo a contrastare anche la diffusione dell’istruzione. Ne fecero le spese gli asili infantili, avviati nel 1828 dall’abate Ferrante Aporti, che rappresentavano invece un utile sostegno alle classi umili e che furono proibiti nello Stato Pontificio fino al 1847.

Alla luce di tutto questo il giudizio storico sull’intransigenza è stato assai negativo; sovente è mancata la necessaria distinzione tra gli intransigenti dell’età della Restaurazione, che mantengono ancora troppo viva la memoria della rivoluzione, e gli intransigenti della seconda metà del secolo, il cui pensiero e atteggiamento risultano oltremodo condizionati dal compimento del processo unitario, dalla resistenza alle leggi di laicizzazione, dalla difesa dei diritti della S. Sede e della gerarchia. Nel migliore dei casi si riconosce all’intransigentismo la solidità delle critiche rivolte a certe antinomie del liberalismo, oppure, in campo ecclesiologico, di aver favorito una centralizzazione in grado di rispondere meglio all’offensiva liberale ottocentesca; ma resta prevalente il giudizio di sterilità e di mancanza di senso storico e intuito politico (Martina, p. 188). In realtà il movimento, inteso non come sterile esaltazione della tradizione cattolica ma come confronto con le idee rivoluzionarie, mostra sviluppi importanti che in alcuni casi conducono fino alla possibilità di liberare la Chiesa dall’autorità dello Stato. Paradossalmente, più dei giansenisti, più dei cattolici democratici, alla fine furono gli intransigenti con il doppio irrigidimento – teologico e temporale – a favorire quella separazione tra sfera religiosa e sfera civile, strenuamente perseguita negli anni rivoluzionari. Insomma il cattolicesimo intransigente della prima metà dell’Ottocento, evidenziando l’intimo nesso fra religione e società, finì con il sottolineare con forza l’autonomia e l’indipendenza della stessa religione nei confronti del potere politico e del suo ordinamento e con ciò stesso alimentò una tradizione di pensiero politico capace di sollecitare un consapevole impegno di presenza culturale e politica nella società.

Fonti e Bibl. essenziale

G. Verucci, Per una storia del cattolicesimo intransigente in Italia dal 1815 al 1848, in “Rassegna Storica Toscana”, IV (1958), fasc. 3-4, 252-285; R. Colapietra, La Chiesa tra Lamennais e Metternich. Il pontificato di Leone XII, Morcelliana, Brescia 1963; S. Fontana, La controrivoluzione cattolica in Italia (1820-1830), Morcelliana, Brescia 1968; E. Passerin d’Entrèves, I conservatori e i controrivoluzionari dalla Restaurazione all’Unità, in Bibliografia dell’età del Risorgimento in onore di A.M. Ghisalberti, vol. I, Leo S. Olschki Editore, Firenze 1971; con l’aggiornamento di N. Raponi, I conservatori e i controrivoluzionari, in Bibliografia dell’età del Risorgimento 1970-2001, vol. I, Leo S. Olschki Editore, Firenze 2001, 263-280; G. Pignatelli, Aspetti della propaganda cattolica a Roma da Pio VI a Leone XII, Istituto per la Storia del Risorgimento Italiano, Roma 1974; G. Verucci, Chiesa e società nell’Italia della Restaurazione (1814-1830), Istituto Italiano per la Storia del Risorgimento, Roma 1974; G. Verucci, Félicité Lamennais: dal cattolicesimo autoritario al radicalismo democratico, Istituto Italiano per gli Studi Storici, Napoli 1975; M. Tesini, Gioacchino Ventura. La Chiesa nell’età delle rivoluzioni, Edizioni Studium, Roma 1988; E. Guccione (ed.), Gioacchino Ventura e il pensiero politico d’ispirazione cristiana dell’Ottocento. Atti del seminario internazionale, Erice, 6-9 ottobre 1988, 2 Voll., Leo S. Olschki Editore, Firenze 1991, in particolare il saggio di M. D’Addio, Gioacchino Ventura: dalla Restaurazione alla Rivoluzione, 1-37; N. Del Corno, Gli “scritti sani”. Dottrina e propaganda della reazione italiana dalla Restaurazione all’Unità, Franco Angeli, Milano 1992; D. Menozzi, La Chiesa cattolica e la secolarizzazione, Giulio Einaudi Editore, Torino 1993; G. Martina, Storia della Chiesa da Lutero ai nostri giorni, vol. 3, L’età del liberalismo, Morcelliana, Brescia 1998, in particolare 159-188; Ph. Boutry, Souverain et pontife: recherches prosopographiques sur la curie romaine à l’âge de la restauration: 1814-1846, École française de Rome, Rome 2002.


LEMMARIO




Cattolicesimo liberale - vol. I


Autore: Fulvio De Giorgi

Origini anti-cesaristiche. Le origini del cattolicesimo liberale sono da rintracciarsi nell’opposizione cattolica al cesarismo napoleonico, di marca non reazionaria, ma con ascendenze nella cultura muratoriana e vichiana del XVIII secolo. Un tipico esempio, in questo senso, fu l’opera Le Notti romane di Alessandro Verri. Da questo anti-dispotismo si dipartono, per così dire, due sviluppi culturali e di ideali politici, i quali, ancorché contigui e, in qualche caso, sovrapposti, sono tuttavia da distinguersi: il cattolicesimo liberale in senso stretto e il guelfismo.

In Europa. Per cattolicesimo liberale in senso stretto va dunque inteso quel movimento, a raggio europeo, che accompagnò la progressiva affermazione di regimi liberali nell’Ottocento: si trattò dunque, in sintesi, dell’adesione di cattolici alle ideologie liberali. Il momento di emersione fu il 1830, con la rivoluzione di luglio in Francia e con la rivoluzione indipendentista in Belgio. Le figure più rappresentative furono i francesi Lamennais, soprattutto nella sua fase post-1830 (e correnti di lamennesismo si ebbero pure in Italia: il rappresentante più originale fu il teatino Gioacchino Ventura), Tocqueville e Montalembert. A questi possono essere accostati gli inglesi John E.E. Dalberg-Acton e il card. John Henry Newman. Il cattolicesimo liberale e, in particolare, le dottrine dell’“Avenir”, la rivista di Lamennais, furono condannati da Gregorio XVI con la Mirari vos (1832). Tale condanna sarebbe stata, più tardi, ripresa da Pio IX. In generale il liberalismo, come ideologia politica o politico-economica, è rimasto estraneo alla Chiesa cattolica contemporanea.

Neo-guelfismo e giobertismo. Dall’anti-cesarismo e, in particolare, dal mito che si sviluppò attorno al pontefice Pio VII e alla sua resistenza a Napoleone derivò pure un’altra corrente, in cui alla libertas Ecclesiae si legava strettamente la libertas Italiae: il Papato, cioè, era visto come paladino storico dell’indipendenza italiana. Si tratta di un indirizzo che, mutuando le sue definizioni dal medievalismo allora in auge, si dice guelfo e che indicava soltanto una prospettiva filoitaliana e antiaustriaca, che tuttavia poteva anche essere estranea o ostile al liberalismo (come in alcuni gesuiti). All’interno di tale più generale guelfismo, si distinse poi, con Gioberti e con la sua opera Del Primato morale e civile degli Italiani (1842), un più puntuale neo-guelfismo, che fu una delle correnti ideologiche fondamentali del Risorgimento e che può essere, non arbitrariamente, accostato al cattolicesimo liberale europeo, considerandolo come una sua variante italiana: esso mirava ad una Confederazione italiana, presieduta dal Papa. Nel 1846, con l’elezione di Pio IX e con le sue aperture sembrò, per un momento, che si realizzasse il disegno giobertiano, con un papa neo-guelfo. Ma le successive vicende della I guerra d’indipendenza e, soprattutto, della Repubblica Romana smentirono questa lettura. Dal 1849 Pio IX si attestò su rigide posizioni intransigenti: di condanna del liberalismo, del giobertismo, del neoguelfismo, in difesa del temporalismo papale e dello Stato pontificio.

I centri. I luoghi più importanti del cattolicesimo liberale o filo-liberale nella prima metà del XIX secolo furono Milano, Torino e Firenze. Milano era il centro culturalmente più innovativo e più aperto all’Europa. A Milano vivevano Giuseppe Arconati Visconti, Giulio Carcano e, soprattutto, Alessandro Manzoni che mostrava un cattolicesimo moderno, con inflessioni agostiniane (di ascendenza tardo-giansenista), ma coniugate all’eredità dell’illuminismo lombardo, di Beccaria e dei fratelli Verri. A Milano soggiornarono, per qualche tempo, Tommaseo e Rosmini. Torino, invece, subiva ancora il forte influsso della cultura di Francia, a cui era stata annessa durante il periodo napoleonico. Qui i cattolici guardavano a regimi costituzionali di libertà: Santorre di Santarosa e, soprattutto, con spirito più moderato, Cesare Balbo, Massimo d’Azeglio e poi Gioberti furono gli esponenti più importanti (ma sono da ricordare pure Federico Sclopis e Gustavo di Cavour). A Firenze infine gli ambienti cattolici erano sensibili all’influenza del protestantesimo liberale ginevrino, per la presenza di Vieusseux: Capponi e Lambruschini le personalità emergenti. A causa delle caratteristiche assunte dalla restaurazione borbonica, Napoli non fu invece un centro importante e vitale in cui fermentasse un’originale tendenza riportabile al cattolicesimo liberale, anche se si ebbero dei nuclei giobertiani.

Conciliatorismo. Un particolare aspetto o caratteristica dei cattolici liberali italiani fu un’aspirazione alla libertà politica ma come espressione di un più ampio e generale ideale di conciliazione tra cattolicesimo e civiltà moderna: così che forse, per l’Italia, sarebbe corretto parlare di cattolicesimo ‘conciliatorista’, piuttosto che di cattolicesimo ‘liberale’. Si pensi alla cultura romantica, alla rivista significativamente intitolata “Il Conciliatore”, a Silvio Pellico. Più eloquente ancora è il già ricordato caso di Alessandro Manzoni. Ma certo su questa linea anche altri intellettuali cattolici possono essere visti, in particolare gli storici, che avevano vivo il senso del progresso e dei cambiamenti dell’epoca moderna: così lo stesso Manzoni e la cosiddetta scuola ‘cattolico-liberale’ (Troya, Tosti, Cantù, Capecelatro).

Costituzionalismo. Il liberalismo mirava ad ottenere la Costituzione: così che i cattolici liberali erano spesso più favorevoli a regimi costituzionali di libertà che a regimi in senso stretto liberali. Tra coloro che lavorarono alla stesura dello Statuto Albertino vi erano pure cattolici. E cattolico costituzionale (più che cattolico liberale) può definirsi Rosmini, il quale stese pure dei progetti di Costituzione, su principi diversi da quelli del liberalismo francese, contro il quale polemizzava. In questo senso il rosminianesimo (> vedi) fu una variante alterna/interna del cattolicesimo liberale italiano. Molti cattolici costituzionali piemontesi (come Roberto d’Azeglio e Gustavo di Cavour, fratello di Camillo e seguace di Rosmini) si collocavano su tale lunghezza d’onda, per non parlare di alcuni prelati, come mons. Luigi Moreno, vescovo d’Ivrea. Rispettoso della Costituzione fu pure, nel Regno sabaudo, don Bosco: così che se anche non fu un cattolico liberale, tuttavia fu in relazione con Rattazzi e con esponenti della classe politica liberale e le sue posizioni furono pertanto diverse da quelle anti-liberali e anti-costituzionali di tanto intransigentismo cattolico. Costituzionali furono pure don Cocchi e Leonardo Murialdo.

Unità nazionale. Il Risorgimento italiano è stato sia un processo di nation-building (e dunque di sentimenti e passioni nazionalitarie) sia un processo di state-building (in senso liberale), pertanto le vicende del cattolicesimo liberale italiano si sono fuse con la rivoluzione nazionale, facendo sì che alcuni cattolici liberali entrassero nel ‘canone’ politico del Risorgimento con le loro opere e con la loro azione: così fu per le Speranze d’Italia di Cesare Balbo, per i diversi scritti (successivi al Primato) di Gioberti, per I casi di Romagna e per l’impegno di capo del governo di Massimo d’Azeglio. Ciò significò che ci si dovette scontrare con il problema del temporalismo. La riflessione sul potere temporale dei papi e sulla sua non essenzialità ai fini della vita spirituale della Chiesa divenne un’urgenza e si coniugò a forti istanze spirituali di “riforma cattolica” nel segno dell’anti-gesuitismo.

Pedagogia nazionale. La cultura di ascendenza cattolico liberale divenne dunque l’asse portante della cultura nazionale dopo l’Unità. In particolare, vista la particolare necessità pedagogica (“Fatta l’Italia, bisogna fare gli italiani”, secondo la celebre espressione azegliana), il canone educativo nazionale fu permeato in tal senso: sia con Casati e con la legge del 1859 che delineava il sistema scolastico sia, sul piano degli indirizzi pedagogici, secondo una linea che da Rosmini e Lambruschini (e, anche qui, Gioberti) giungeva a Giovanni Antonio Rayneri, Domenico Berti, Giovanni Maria Bertini, ma anche a Antonino Parato, Giuseppe Allievo, Emma Perodi, Jacopo Bernardi, Pietro Baricco, Francesco Bonatelli, Francesco Acri. Un ambito particolarmente sensibile, poiché avversato dal cattolicesimo intransigente e dunque di grande portata ‘simbolica’, fu quello dell’educazione dell’infanzia: Ferrante Aporti e l’indirizzo aportiano rappresentarono, dunque, la proposta cattolico-liberale, per lungo tempo canonizzata come ‘metodo italiano’ (contrapposto al germanico froebelismo).

Dalla Destra storica ad un cattolicesimo di destra. La prima Destra storica post-unitaria costituì, comunque, un nuovo capitolo nella storia del cattolicesimo liberale (o, in questo caso, liberalismo cattolico e filo-cattolico) in Italia. Vi rientra in parte lo stesso Cavour, il cui separatismo ebbe forse matrici protestantico-ginevrine (Vinet) ma anche cattolico-liberali (Montalembert). E certo vi rientrano i capi del governo nazionale dopo Cavour: in particolare Bettino Ricasoli (con i suoi collaboratori Corsi, Borgatti, Cassani), con una forte carica di riformismo neo-piagnone toscano, e Marco Minghetti. Ma si possono ricordare anche Diomede Panteleoni, Pier Carlo Boggio, Luigi Carlo Farini, Ruggero Bonghi, Carlo Cadorna, Fedele Lampertico, Achille Mauri, il gruppo toscano (Tabarrini, Guasti, Conti). Una figura eminente fu quella dell’ex-gesuita Carlo Passaglia, che si adoperò, in senso filoitaliano, per una conciliazione con Roma, ma fu condannato dal Vaticano. Liberal-conciliatoriste furono pure, tra il 1859 e il 1864, le riviste “Il Conciliatore” e “Il Carroccio” di Milano, “Il Mediatore” (diretto da Passaglia) e “La Pace” di Torino, gli “Annali cattolici” (dal 1866 “Rivista Universale”) di Genova, “Esaminatore” di Firenze. Il motto di quest’area, favorevole allo Stato unitario liberale, era: “cattolici con il Papa, liberali con lo Statuto”.

Fonti e Bibl. essenziale

E. Passerin d’Entrèves, Religione e politica nell’Ottocento europeo, a cura di F. Traniello, Roma, Istituto per la storia del Risorgimento, 1993; A. Pellegrini (a cura di), Tre cattolici liberali. Alessandro Casati, Tommaso Gallarati Scotti, Stefano Jacini, Milano, Adelfi, 1972; F. Traniello, Cattolicesimo conciliatorista. Religione e cultura nella tradizione rosminiana lombardo-piemontese (1825-1870), Milano, Marzorati, 1970.


LEMMARIO




Censura ecclesiastica - vol. I


Autore: Gigliola Fragnito

Fin dalle sue origini la Chiesa esercitò forme di controllo sull’ortodossia dottrinale attraverso le deliberazioni dei concili. Ma tra Due e Trecento la vigilanza sulla produzione libraria divenne più rigorosa per il moltiplicarsi di botteghe di copiatura e l’ampliarsi del pubblico dei lettori ai docenti, studenti, chierici e regolari in seguito alla nascita delle università e degli ordini mendicanti insediatisi entrambi nei centri urbani. Sorse allora un problema che avrebbe attraversato gran parte dell’età moderna: a quale autorità spettava definire l’ortodossia? Ai concili, ai vescovi o alle università, come ad esempio pretendeva la facoltà di teologia di Parigi? Problema non irrilevante destinato ad assumere nuove dimensioni sia con l’invenzione a metà ’400 della stampa e il suo straordinario sviluppo, sia con la diffusione nei primi decenni del ’500 della Riforma protestante. La necessità di verificare l’ortodossia dei testi prima della stampa fu all’origine di due bolle papali: la Inter multiplices di Innocenzo VIII (1487) che introduceva la censura preventiva affidandola ai vescovi e, a Roma e nel suo distretto, al Maestro del S. Palazzo, e la Inter sollicitudines di Leone X (1515) che riservava a vescovi e inquisitori la concessione dell’imprimatur. Era questa la normativa in vigore, anche se largamente disattesa, quando penetrarono in Italia le dottrine luterane. Impreparata a contrastare la diffusione di opere eterodosse e turbata da profondi dissidi, Roma tardò a dotarsi di istituzioni e strumenti nuovi: non a caso prime a pubblicare in Europa e in alcuni Stati italiani elenchi di opere vietate furono le autorità civili, le università e le inquisizioni nazionali. Solo dopo la creazione della Congregazione romana dell’Inquisizione (1542) alla persecuzione di chi professava dottrine eterodosse si associò la caccia agli scritti che le divulgavano.

Sebbene la bolla Licet ab initio non conferisse alla Congregazione competenze in materia di censura, fin dal 1543 questa si arrogò il controllo sulla stampa, emanando un editto che, estromettendo i vescovi, incaricava propri delegati di ispezionare biblioteche, botteghe di tipografi e librai, case private, conventi e monasteri e di sequestrare e bruciare i libri proibiti rinvenuti. L’esecuzione di tali direttive trovava, però, un limite invalicabile nella mancanza di liste ufficiali di interdizioni, la cui predisposizione venne avviata alla fine degli anni ’40. Affidata dapprima al Maestro del S. Palazzo, poi ai generali di alcuni Ordini, venne trasferita da Paolo IV all’Inquisizione che promulgò il primo indice romano il 30 dicembre 1558. Da questo momento la storia della censura ecclesiastica è intimamente legata a quella degli indici. Il primo catalogo si rivelò di difficile applicazione: severità e approssimazione delle condanne; esclusione dei vescovi dall’esecuzione; ostracismo delle autorità civili; rigore delle pene comminate ai trasgressori, colpiti dalla scomunica prevista dalla In coena Domini solo per chi avesse letto o posseduto scienter libri di eretici e, quindi, costretti a ottenere l’assoluzione nei due fori, costituirono ostacoli insormontabili. Alla morte di Paolo IV (agosto 1559) Pio IV affidò al concilio, allora riunito a Trento, la redazione di un nuovo indice. Stilato da una commissione di vescovi e promulgato con la bolla Dominici gregis (24 marzo 1564), rispetto al primo – non incorporato nel nuovo – l’indice tridentino manteneva la divisione in tre classi (autori di cui veniva condannata l’opera omnia, autori di cui solo alcuni scritti erano vietati, e scritti anonimi) e introduceva 10 regole relative ad alcune categorie di opere, ma presentava molti elementi di moderazione: cassava o attenuava molte condanne; consentiva l’espurgazione dei testi sospesi; restituiva ampie competenze ai vescovi e distingueva tra lettori e detentori di opere eretiche, sottoposti alle sanzioni della In coena Domini, e lettori e detentori di opere proibite non eretiche, la cui assoluzione spettava al vescovo, sottoponendo alla sua giurisdizione la maggior parte dei colpevoli.

Con l’elezione di Pio V (1566), artefice del primo indice, la questione della censura ecclesiastica si intrecciò con quella cruciale dei poteri ai vertici della Chiesa. Il progetto di revisione dell’indice tridentino, infatti, non mirava solo al ripristino dei divieti del 1558, ma anche e soprattutto alla riaffermazione della preminenza dell’Inquisizione sul Concilio in materia di definizione dell’ortodossia. Dopo alcuni interventi che svuotavano la legislazione conciliare, Pio V nominò una commissione cardinalizia per la revisione dell’indice tridentino, eretta da Gregorio XIII con la bolla Ut pestiferarum opinionum in Congregazione dell’Indice (13 settembre 1572). Destinata a rimanere in vita fino al 1917, essa si affiancava, senza una ridefinizione delle rispettive competenze, all’Inquisizione e al Maestro del S. Palazzo. Composta da un numero variabile di cardinali, dal Maestro del S. Palazzo, da un segretario e dai procuratori degli ordini mendicanti, che ne erano tutti membri ex officio, nonché da un numero variabile di consultori, la Congregazione doveva preparare un nuovo indice e emendare le molte opere sospese donec corrigantur in vista della pubblicazione di un index expurgatorius. Non aveva però poteri di intervento sul territorio, né era legittimata a emanare divieti. Ciò consentì al Sant’Ufficio di mantenere un monopolio pressoché incontrastato sulla circolazione libraria e al Maestro del S. Palazzo di estendere la propria giurisdizione oltre i propri confini: dai loro uffici vennero inoltrate agli inquisitori locali e ai vescovi liste sempre più consistenti e confuse di proibizioni, spesso contrastanti con l’indice tridentino ancora formalmente in vigore, ma avallate, quantomeno nei primi anni di esistenza, dalla Congregazione dell’Indice. Questa pluralità di organi deputati alla censura era però destinata ad alimentare un alto tasso di conflittualità che ebbe riflessi sul terzo indice: dopo varie stesure solo il 27 marzo 1596 Clemente VIII poté promulgarlo e inviarlo a tutta l’Europa cattolica, ma poco dopo l’Inquisizione ne impose la sospensione. Erano venuti al pettine tutti i nodi che si erano aggrovigliati nei 25 anni di lavori preparatori. Orientamenti divergenti in seno alla Congregazione stessa, pressioni esterne dei papi dettate dalla loro provenienza o meno dalle file dell’Inquisizione, interferenze di questa sulle scelte dell’Indice avevano rallentato i lavori. I contrasti riguardavano non soltanto cosa si dovesse condannare, ma anche chi dovesse condannare e chi dovesse applicare la normativa, se i vescovi o gli inquisitori. La sospensione dell’indice, con la pretesa dell’Inquisizione di inserirvi i divieti del 1558 e di imporre la clausola secondo cui i propri divieti passati e futuri non potevano essere abrogati dai pontefici, evidenziava la durezza dello scontro. La clausola, che avrebbe inferto un grave colpo alla plenitudo potestatis sancendo la totale autonomia del tribunale in materia di tutela e definizione dell’ortodossia, non passò, ma il papa dovette cedere sulla proibizione di alcuni scritti, tra cui le traduzioni della bibbia nelle lingue materne.

L’indice clementino riproduceva quello tridentino, aggiungendo in coda a ogni lettera dell’alfabeto le successive proibizioni e mantenendo la suddivisione per classi, e introduceva nuove regole. Rivalutava i poteri dei vescovi restituendo loro un ruolo primario nell’esecuzione dell’indice, nella censura preventiva e in quella espurgatoria, affidate a congregazioni “locali” dell’Indice da loro presiedute. La bolla Sacrosanctum catholicae fidei di Clemente VIII affrancava la censura dal Sant’Ufficio, dando incarico all’Indice di sovrintendere all’esecuzione del terzo catalogo, che fu condotta con tempi lunghi, ma con inusitata efficacia, nonostante intralci degli inquisitori che non cessarono con la fine delle operazioni. Il Sant’Ufficio infatti continuò a intervenire sui suoi ministri perché sequestrassero opere non ancora formalmente proibite e ad avallare Syllabi locali che spesso ripristinavano proibizioni del 1558 e interpretavano arbitrariamente le regole. Tali iniziative vennero bloccate nel 1621 dall’Indice, che nel 1613 era riuscita a ottenere da Paolo V l’autorizzazione a sottoscrivere e pubblicare decreti che avrebbero riunito le proprie condanne e quelle pronunciate dall’Inquisizione e dal Maestro del S. Palazzo. Se questa parvenza di razionalizzazione contribuì ad attenuare le tensioni, vi concorse anche l’appannato prestigio dell’Indice a seguito del fallimento dell’attività espurgatoria, sintetizzabile nel ritiro del primo e unico tomo dell’index expurgatorius apparso nel 1607 ad opera di G.M. Guanzelli detto Brisighella. Al termine dell’esecuzione del clementino, la Congregazione tornò, quindi, a occuparsi di aggiornamenti e di stesura di nuovi indici, di espurgazione di testi sospesi e di esame di opere sospette, mantenendo esilissimi rapporti con la periferia, ormai rigorosamente controllata dal Sant’Ufficio. Non stupisce che il card. P.C. Sfondrati suo prefetto decidesse di trasferirsi in diocesi, avendogli «la esperienza […] mostrato che si fa tanto poco in questa Congregatione dell’Indice per varii rispetti […], che mi pare al fine che né questa, né altra Congregatione mi habbia da levare, per quanto si può, dalla residenza» (lettera a Bellarmino, 24 aprile 1615, cit. da P. Godman, 174). Alla promulgazione di ben tre indici in meno di 40 anni, seguì un lungo periodo di ordinaria amministrazione, in cui il problema più controverso riguardò la stampa di aggiornamenti che rendessero più chiara la percezione dei titoli proibiti. In tale attività si distinse il segretario F. Capiferro Maddaleni con compilazioni non ufficiali del 1619, 1624, 1625 e 1632.

Dagli anni ’50 si avvertì l’esigenza di un nuovo indice, ma i tentativi dei segretari di dargli una nuova struttura e di modificare le regole, incontrarono le resistenze dei cardinali. Promulgato solo il 5 marzo 1664 con la bolla Speculatores di Alessandro VII e rivelatosi strumento concepito più per gli addetti ai lavori che per il comune lettore, ne venne pubblicata nel 1665 una nuova versione più sintetica e funzionale, che eliminava le classi sostituendole con l’elenco alfabetico per nome e cognome dell’autore e per prima parola del titolo dell’opera o con l’indicazione opera omnia, un impianto che verrà mantenuto negli aggiornamenti e negli indici successivi. La sostanziale inefficacia della censura, la confusione nata da proibizioni della stessa opera rese note in tempi diversi dalle due Congregazioni, ma anche la volontà di rafforzare «la riputatione di quella poco accreditata Congregatione dell’Indice» (lettera a A.M. Querini, dicembre 1740, cit. da E. Rebellato, 201) indussero Benedetto XIV a emanare la costituzione Sollicita ac provida (9 luglio 1753), che segnò una svolta nella storia della censura. Stampata in apertura dell’indice del 1758, essa ridefinì le procedure sostituendo alla dura repressione di autori cattolici la pratica dell’autocensura; rese più ponderato l’esame di un’opera prima della condanna e più accorta la scelta degli esaminatori, e limitò l’intervento del Sant’Ufficio alle materie «gravioris momenti». Queste norme “garantiste”, peraltro spesso violate come testimonieranno le condanne di Rosmini e Gioberti, rimarranno in vigore fino alla Officiorum ac munerum di Leone XIII (1897) che, non condannando più la libertà di stampa ma solo le sue degenerazioni e affidando il controllo della stampa e della lettura ai vescovi, preludeva allo scioglimento della Congregazione dell’Indice.

Nonostante alcune scelte moderate di Benedetto XIV (permesso di lettura di versioni bibliche nelle lingue materne approvate da Roma, omissione dei divieti dei libri copernicani, sfoltimento di molte vecchie proscrizioni), l’indice colpì gran parte della produzione illuministica, non riuscendo a impedirne la diffusione né a bloccare l’accelerazione della politica giurisdizionalista degli Stati della penisola, avviata già nel Seicento, concretizzatasi nella statalizzazione della censura e nel progressivo smantellamento dei tribunali dell’Inquisizione. Priva del “braccio secolare” al di fuori dello Stato pontificio, la Chiesa ripiegò sui vescovi sollecitati a dissuadere i fedeli dalla «perniciosa lettura» e affidò a brevi ed encicliche papali e ad aggiornamenti dell’indice del 1758 interventi sempre più intolleranti dopo l’ondata rivoluzionaria e il decennio napoleonico. Se durante la Restaurazione si ristabilirono la tradizionale alleanza tra trono e altare e la collaborazione in materia di censura, nel 1848 l’art. 28 dello statuto albertino (esteso nel 1861 a tutto il Regno), prevedendo la libertà di stampa con l’eccezione di bibbie, catechismi, libri liturgici e di preghiere, sottoposti all’imprimatur del vescovo, pose le premesse per ulteriori irrigidimenti. Con articoli dai toni apocalittici contro la dilagante secolarizzazione, il pensiero liberale, la libertà di culto e la libertà di stampa, causa di disgregazione sociale e morale, la «Civiltà Cattolica», fondata dai gesuiti nel 1850, ispirò molte proibizioni, ma suscitò anche aspri conflitti in seno all’Indice tra moderati e intransigenti, sostenuti questi ultimi dal Sant’Ufficio e destinati, come in passato, a prevalere. Si susseguirono aggiornamenti corposi dell’indice del 1758 sotto Pio VI (1787), Pio VII (1819), Gregorio XVI (1835 e 1841), Pio IX (1852 e 1879) e Leone XIII (1881 e 1887) il quale promulgò nel 1900 un nuovo indice. Accerchiati dagli attacchi di una incontenibile produzione editoriale, minacciati dalla perdita dello stato temporale, sempre più consapevoli dell’inefficacia degli indici, ma decisi a ribadire che la Chiesa, in quanto custode del “depositum fidei” e dell’ordine morale, era l’unica autorità legittimata al controllo della cultura, i papi ricorsero spesso a encicliche che condannavano i principi della libertà di coscienza e di opinione, l’anticlericalismo, l’orientamento laicista dei governi postunitari, tra le quali la celebre Quanta cura con l’annesso Sillabo degli errori di Pio IX (8 dicembre 1864), difesa del primato dell’ordine sovrannaturale e dell’autorità pontificia e denuncia senza appello della cultura moderna.

Nati come risposta alla Riforma protestante e finalizzati allo sradicamento di ogni forma di dissenso teologico, gli organi censori e gli indici dei libri proibiti trasformarono nel giro di pochi decenni la censura da attività episodica in struttura stabile che – debellata l’eresia teologica – invase ogni campo del sapere e della morale e cercò di penetrare nell’intimo delle coscienze e delle menti, sottomettendole a stringenti direttive culturali, religiose e ideologiche. A organismo di indubbia modernità fu affidato un progetto, destinato a trovare applicazione praticamente solo in Italia, che puntò a controllare la produzione libraria italiana ed europea e a vietare espressamente opere “nocive” o intere categorie di scritti attraverso regole dalla formulazione così generica da prestarsi a ogni arbitrio. Con un costante aggiornamento dei divieti alla temperie culturale, alle correnti dissidenti interne alla Chiesa, ai mutamenti politici, sociali e comportamentali, e con un adeguamento alla mutevole fisionomia dei lettori la censura si abbatté sui settori ritenuti volta a volta più dannosi. La tutela di un ordine immutabile portò a un ampliamento senza confini degli ambiti di intervento: la difesa dagli attacchi contro l’ortodossia della fede e la morale si estese a quelli contro il potere spirituale e temporale dei papi, le istituzioni ecclesiastiche, il clero secolare e regolare, i suoi privilegi e le sue immunità, e alle pretese fondamenta storico-giuridiche su cui essi poggiavano. Attenuatasi a fine ‘500 la propaganda protestante (destinata a risorgere nell’’800 grazie alle società bibliche), oggetto di condanna furono i testi a sostegno dell’autonomia della politica dalla morale, quelli contro le interferenze della Chiesa nella sfera pubblica, i classici del giurisdizionalismo settecentesco, le opere ispirate a principi liberali e democratici o che contestavano la difesa a oltranza del potere temporale. Sotto la scure della censura caddero anche le opere letterarie per i toni anticlericali e i contenuti immorali; quelle scientifiche e filosofiche perché scardinavano il sistema aristotelico-scolastico; quelle storiche perché non subordinavano la conoscenza del passato alle esigenze apologetiche della Chiesa. Sul piano teologico, oltre ad opere di critica testuale applicata ai testi sacri, a essere investita fu la ricca produzione originata dalle controversie intorno al rapporto tra grazia e libero arbitrio, nelle sue varie articolazioni, e dalle correnti mistiche. Ma fu l’emergere tra gli intellettuali europei dalla metà del ‘600 dei principi di autonomia della ragione e di separazione tra religione, da un lato, morale, scienza e politica dall’altro e il loro sviluppo e la loro divulgazione a opera dei philosophes nel ‘700 ad allarmare come mai in precedenza i censori. Rivendicazione dei diritti della ragione umana, della libertà di coscienza e di espressione, negazione sul piano politico della teoria dell’origine divina del potere e sul piano religioso della rivelazione in nome della tolleranza, lotta alla superstizione e all’oscurantismo, attacchi alla religione stessa capaci di favorire incredulità e ateismo e di promuovere una morale sociale laica, difesa dei diritti dello Stato contro le ingerenze della Chiesa, rappresentarono una minaccia dirompente al suo tradizionale sistema di valori, aggravata dalla dilagante stampa periodica, accessibile a un più esteso pubblico di lettori, che vi attingevano le esecrate idee illuministe, massoniche, liberali, democratiche, socialiste e comuniste.

Se queste interdizioni, indirizzate prevalentemente ma non solo ai ceti colti, colpivano coscienze sempre meno sensibili alle sanzioni ecclesiastiche, altre incisero in maniera assai più duratura su donne e uomini di tutti gli strati sociali avvicinatisi alla parola scritta grazie alla stampa e al crescente uso delle lingue vernacolari. Questo mondo ai confini tra oralità e scrittura, digiuno di latino, si vide precluso l’accesso a due settori di largo consumo: le traduzioni della bibbia e soprattutto i libri devozionali di contenuto biblico in volgare (Ufficioli della Madonna, Vite di Cristo e della Madonna, Meditationi della Passione, raccolte dei salmi, storie sacre, tragedie, ecc.) e gran parte della letteratura italiana cui si aggiunse nel Settecento quella europea, che ricadevano sotto le regole generali degli indici. I cosiddetti “semplici” vennero privati di testi con i quali dal tardo medioevo avevano avuto un’intensa familiarità e sui quali avevano spesso acquisito in casa e a scuola i primi rudimenti della lettura e la prima formazione religiosa, sostituiti dall’apprendimento mnemonico del catechismo e dalla recita delle preghiere in latino.

Gli effetti della censura ecclesiastica non possono, quindi, essere misurati sul numero di titoli espressamente messi all’indice e sulla distruzione di un enorme patrimonio librario nei periodici roghi. Vanno valutati anche tenendo conto dell’incisività delle regole; dell’autocensura cui gli autori dovettero sottoporsi; delle mutilazioni e degli stravolgimenti (spesso non dichiarati) di un’infinità di opere emendate; del riorientamento di interi settori della produzione libraria in funzione di una sempre più dilatata nozione di eresia; del numero rilevante di scritti sottratti alla circolazione, ma non inseriti negli indici per motivi politici. Né d’altro canto possono essere ignorati gli effetti complessivi e di lunga durata della tenace azione condotta dalla Chiesa per scoraggiare la lettura non solo dei libri vietati, ma di qualsiasi libro, associandola intimamente all’idea di peccato e di reato, e le conseguenze che essa ebbe nel nostro paese ostacolandone la crescita intellettuale e rallentando i processi di alfabetizzazione e di unificazione linguistica.

Fonti e Bibl. essenziale

F.H. Reusch, Die Indices librorum prohibitorum des sechzehnten Jahrhunderts, Tübingen, Letterarischer Verein in Stuttgart, 1885; J. Hilgers, Der Index der verbotenen Bücher in seinem neuen Fassung dargelegt und rechtlich-historisch gewürdigt, Freiburg, Herderische Verlagshandlung, 1904; Index des livres interdits, a cura di J.M. De Bujanda, Sherbrooke-Genève, Centre d’Études de la Renaissance-Librairie Droz, 11 voll., 1984-2002; G. Fragnito, La Bibbia al rogo. La censura ecclesiastica e i volgarizzamenti della Scrittura (1471-1605), Bologna, il Mulino, 1997; Church, Censorship and Culture in Early Modern Italy, G. Fragnito (ed.),  Cambridge, Cambridge University Press, 2001; P. Godman, The Saint as Censor. Robert Bellarmine between Inquisition and Index, Leiden, Brill, 2000; M.I. Palazzolo, I libri il trono l’altare. La censura nell’Italia della Restaurazione, Milano, Franco Angeli, 2003; G. Fragnito, Proibito capire. La Chiesa e il volgare nella prima età moderna, Bologna, il Mulino, 2005; Ead., Un archivio conteso: le “carte” dell’Indice tra Congregazione e Maestro del Sacro Palazzo, in «Rivista Storica Italiana», CXIX, 2007, pp. 1276-1318; P. Delpiano, Il governo della lettura. Chiesa e libri nell’Italia del Settecento, Bologna, il Mulino, 2007; E. Rebellato, La fabbrica dei divieti. Gli Indici dei libri proibiti da Clemente VIII a Benedetto XIV, Milano, Sylvestre Bonnard, 2008; S. Ricci, Inquisitori, censori, filosofi sullo scenario della Controriforma, Roma, Salerno, 2008; Catholic Church and Modern Science. Documents from the Archives of the Roman Congregations of the Holy Office and the Index, vol. I, ed. Ugo Baldini and Leen Spruit, Roma, Libreria Editrice Vaticana, 2009; M.I. Palazzolo, La perniciosa lettura. La Chiesa e la libertà di stampa nell’Italia liberale, Roma, Viella, 2010; M. Cavarzere, La prassi della censura nell’Italia del Seicento tra repressione e mediazione, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 2011; R. Savelli, Censori e giuristi. Storie di libri, di idee e di costumi (secoli XVI-XVII), Milano, Giuffrè, 2011; La congregazione dell’Indice e la cultura italiana in età moderna, a cura di V. Frajese, numero monografico di «Dimensioni e problemi della ricerca storica», 1.2012, 5-328; M. Palumbo, «D’alcuni libri che potrebbero permettersi corretti, ed espurgati». La censura romana e l’espurgazione dei lessici, in Lessici filosofici dell’età moderna: linee di ricerca, a cura di E. Canone, Firenze, Olschki, 2012, pp.1-27; G. Fragnito, La censura ecclesiastica romana e la cultura dei «semplici», in «Histoire et civilisation du livre. Revue internationale», IX, 2014, pp. 85-100.


LEMMARIO




Chierici Regolari - vol. I


Autore: Flavio Rurale

La nascita dei chierici regolari si colloca in una particolare stagione della storia della Chiesa. La maggior parte delle loro comunità sorse infatti in Italia nel XVI secolo, rappresentando la “vera sostanziale novità nell’ambito dell’organizzazione regolare cinquecentesca” (Rosa, Introduzione, 9): nel 1524 Gaetano da Thiene e Gian Pietro Carafa (futuro papa Paolo IV) istituirono i teatini, cui seguirono le fondazioni di barnabiti, gesuiti, somaschi, ministri degli infermi, chierici minori della madre di Dio o caracciolini (nel primissimo ‘600 gli scolopi, verso fine secolo i chierici mariani e nel primo ’700 i chierici scalzi di s. Paolo della Croce). In quei tormentati decenni la popolazione degli antichi stati italiani, al pari dell’intera Europa cristiana, visse un grande fermento religioso e, superata definitivamente l’emergenza protestante (che percorse con esiti drammatici parte della società e i nuovi ordini religiosi), consolidò la propria identità cattolica. Merito, indubbiamente, anche delle nuove congregazioni, immediatamente attive su molti fronti (educazione, predicazione, missioni, assistenza), in virtù di un’organizzazione interna meno vincolante rispetto a quella di monaci, canonici regolari e frati mendicanti (che fino al XVI secolo avevano condiviso la medesima denominazione di chierici regolari, termine di origine antica e significato rimasto a lungo generico, che identificava i chierici viventi in regola con i sacri canoni e perciò distinti dai canonici secolari, F. Andreu, Chierici regolari, 898).

Il loro contributo non va tuttavia esagerato: la maggior parte delle nuove congregazioni conservò dimensioni ridotte, entro valori di poche centinaia di unità (i barnabiti tra 1600 e 1700 passarono da 322 a 726 membri, i somaschi da 430 a 450, circa 500 erano i caracciolini alla fine del XVII secolo; un incremento straordinario, che ne spiega il successo su scala internazionale e l’assoluta peculiarità, lo conobbero solo i gesuiti: triplicati nel decennio successivo alla morte di sant’Ignazio (1556), già 8519 nel 1600, e ben 19998 nel 1700, J.P. Donnelly, The New Religious Orders, 287-288, 293). Ebbero inoltre scarsa diffusone in Europa, se si escludono i teatini (il cui incremento, dai 400 membri del 1600 ai 1400 del 1700 fu dovuto anche all’attività missionaria intrapresa fuori d’Italia), i barnabiti (presenti in Francia e Austria) e ovviamente i gesuiti (tra i più impegnati su scala mondiale: dalle Americhe, alla Cina, al Giappone).

Siamo forse lontani dal poter definire queste forze lo strumento principale di cui la Chiesa poté disporre per difendersi dall’attacco luterano (Inquisizione e commissari locali di appartenenza mendicante continuarono ad essere il perno attorno cui ruotò la risposta romana contro l’eresia; anche se, va notato, studi recenti hanno dimostrato il forte coinvolgimento iniziale dei teatini nelle pratiche di controllo, investigazione e denuncia dei reati di fede, Vanni, “Fare diligente inquisizione”, 15). Né, forse, è del tutto corretto definirli ordini della controriforma cattolica, se con tale formula intendiamo forze fresche istituite e organizzate da Roma secondo una precisa e coerente strategia per fronteggiare la sfida religiosa lanciata da Lutero. La loro origine, infatti, non fu direttamente legata alla Riforma: semmai «nacquero come risposta a bisogni religiosi di livello locale, per iniziativa di laici, uomini o donne, o di preti, raramente della gerarchia, mai del papato» (J. P. Donnelly, The New Religious Orders, p. 283).

Il giudizio di sintesi di J.P. Donnelly, seppure provocatorio per certi aspetti, apre prospettive interpretative di grande interesse, utili a meglio comprendere i caratteri delle nuove formazioni religiose. Non spuntarono dal nulla, frutto di piani di riconquista messi a punto a tavolino negli ambienti romani. Ebbero invece carattere di spontaneità e conobbero una lunga gestazione entro un clima di sperimentazione non priva di eccessi, attraversato da grandi passioni che coinvolsero l’intera società, uomini e soprattutto donne. Solo così si spiegano i sospetti nei loro confronti di chi, istituzioni romane e pontefici, venne poi chiamato a dare una veste istituzionale a quelle esperienze. Fu questo, per esempio, il destino dei barnabiti, legati alle vicende di Paola Antonia Negri e al suo processo milanese degli anni Trenta; o dei gesuiti: l’Inquisizione spagnola indagò ripetutamente su sant’Ignazio e i suoi scritti prima e dopo la fondazione della Compagnia del 1540.

L’iniziale rifiuto dei voti monastici e delle tradizionali regole, la vita in comune in case private, la convivenza sotto lo stesso tetto di laici e chierici, di uomini e donne, riuniti a discutere anche di questioni dottrinali, l’attività esterna di tipo assistenziale, come nel caso dei somaschi di Girolamo Emiliani e dei ministri degli infermi di Camillo de Lellis (frutto dell’esperienza tre-quattrocentesca della devotio moderna, spintasi anche in territorio italiano ad alimentare nuove forme di spiritualità, e dell’associazionismo a fini caritatevoli degli oratori del divino amore e della carità) sono aspetti importanti nell’originaria formazione dei nuovi sodalizi e dei loro adepti. Il loro destino rimase, in un certo senso, indefinito, aperto a molteplici sviluppi: successi ma anche fallimenti, e poi richieste di connubi con ordini già affermati per superare difficoltà e crisi sempre incombenti, cambiamenti di status giuridico (come i chierici della madre di Dio di s. Giovanni Leonardi, fondati nel 1574 ma trasformati da chierici secolari in chierici regolari nel 1614), infine lunghi e complessi iter per la stesura e l’approvazione di regole e costituzioni.

Uno degli aspetti più originali della loro storia (legata in molti casi a fondatori ancora laici al momento della concezione del loro progetto, P. Sannazzaro, Storia dell’ordine camilliano, 31) va individuato nella presenza, nella fase istitutiva come nel loro sviluppo, di figure femminili: protagoniste, come accennato, delle vicende fondative dei chierici di San Paolo; altre volte, nelle vesti di visionarie e sante vive, chiamate a legittimare la bontà delle nuove esperienze (evocarono le profezie della beata Francesca Panigarola i gesuiti milanesi); altre ancora capaci, come gentildonne o principesse, di convincere comunità, principi, autorità vescovili dell’utilità dei nuovi insediamenti (di cui furono patrone con donazioni di denari, terre ed edifici). Un rapporto, questo, destinato a consolidarsi nei secoli successivi anche in duraturi legami con le comunità femminili sorte nel medesimo contesto storico-geografico (i chierici regolari ne divennero in molti casi i direttori spirituali).

Questi caratteri contribuiscono a spiegare la prudenza e le resistenze iniziali talora manifestate nei loro confronti dalle autorità secolari ed ecclesiastiche, sollecite nel richiedere l’intervento delle magistrature competenti, dei tribunali vescovili, dei delegati locali del Sant’Ufficio, nell’interdire e scomunicare, nell’avviare processi. L’ostilità raggiunse espressioni davvero eclatanti nel caso della Compagnia di Gesù, quando i pontefici con carriera regolare e/o nel Sant’Ufficio (il teatino Paolo IV, il domenicano Pio V, il minore conventuale Sisto V) si applicarono per riformarne l’istituto: personali gelosie, concorrenza cultuale, contrasti di carattere teologico, ma soprattutto le novità istituzionali (il nome stesso, il generalato perpetuo, la complessità dei gradi e i tempi lunghi della professione, l’assenza di periodici capitoli generali, il vivere di rendita dei collegi contro il voto di povertà dei padri professi, i privilegi goduti nel contrastare l’eresia e nell’assolvere anche giudiziariamente con la confessione sacramentale) sollecitarono attorno al nuovo ordine, fin dai primi decenni della sua storia, dibattiti e polemiche. Dottrina, attività di apostolato, costituzioni (ora contestate e modificate ora ristabilite nella loro originaria formulazione) divennero oggetto di critica da parte di alcuni esponenti del clero secolare e soprattutto dei vecchi ordini mendicanti (domenicani). Un alone di sospetti, «quelle certe ombre vane» le definì s. Carlo Borromeo, andò delineandosi attorno a quei primi adepti, destinato a mettere radici in diversi settori della società italiana ed europea e a segnare periodicamente le vicende controverse della Compagnia di Gesù.

Conobbero non minori difficoltà sotto Urbano VIII e il suo successore gli scolopi, fondati da Giuseppe Calasanzio nel 1617 e dediti a un ministero scolastico popolare e gratuito. Le vertenze interne – la diversità di gradi e soprattutto la difficile convivenza tra fratelli coadiutori e chi era invece sacerdote o professo produceva quotidianamente gelosie e occasioni di conflitto, come era già accaduto tra i cappuccini e stava accadendo tra i gesuiti – portò il papa alla decisione di deporre il Calasanzio da generale, cui seguì con Innocenzo X «la regressione» della congregazione «a semplice unione libera di varie case tra loro indipendenti»; spettò poi a papa Clemente IX nel 1669 di riconfermarne lo status di ordine religioso con voti solenni (L. Picanyol, Chierici regolari poveri, 1440).

Le difficoltà nelle relazioni con la curia papale non misero in discussione il ruolo che i maggiori esponenti dei nuovi ordini (in particolare gesuiti) svolsero nella battaglia anti-ereticale e a difesa della cultura cattolica e dell’autorità pontificia: con la pubblicazione di libri, pamphlet, vere e proprie “guerre delle scritture” (come avvenne tra il servita Paolo Sarpi e il gesuita Roberto Bellarmino durante l’interdetto scagliato su Venezia da Paolo V nel 1606), l’attività educativa (soprattutto nei collegi delle aree di confine col mondo protestante) e l’impegno missionario nelle città e nelle campagne italiane ed europee, ed oltreoceano. Anche se non mancarono, in particolare da parte dei religiosi impegnati a corte come confessori e teologi, occasioni per vertenze e conflitti in cui i chierici si trovarono contrapposti alla curia romana, al pontefice e al suo entourage.

La loro mobilità e il loro irrefrenabile dinamismo, «a un grado senza precedenti se si escludono gli ordini religioso-militari» dell’epoca delle crociate (J.P. Donnelly, The new religious orders, 285), sono ben rappresentati dalla rinuncia alla recitazione corale dell’ufficio liturgico (conservata dai barnabiti), alle penitenze personali e alla spiritualità contemplativa previste dalle regole tradizionali, appunto inadatte al loro attivismo senza precedenti, misto di ascesi e azione. Scelte e comportamenti, questi, che nel panorama religioso dell’epoca furono motivo di profonde polemiche, insieme con alcuni questioni di carattere dottrinale. Gli scontri tra gli ordini teologicamente più vivaci si prolungarono fino al Sei e Settecento: sul ruolo della Grazia nel percorso verso la salvezza eterna, sulla dottrina morale, sull’organizzazione delle missioni americane e asiatiche, sulle modalità di conversione dei popoli di quelle terre.

Il coinvolgimento dei chierici nella diretta gestione dei loro beni (l’attività delle congregazioni si fondò, come per la maggior parte degli istituti di perfezione, su una base patrimoniale frutto sia di donazioni di beni mobili e immobili, sia dell’attività di compravendita di case e terreni, sia di operazioni creditizie verso privati ed enti pubblici), e il loro ruolo nella formazione delle elite d’antico regime, negli affari di stato e nel dibattito scientifico (portato fin nelle celle dei singoli religiosi) fecero degli istituti sorti nel Cinquecento degli spazi di discussione non solo teologica ma anche politica e culturale, dei veri e propri microcosmi in cui fu possibile un proficuo scambio di idee e la sperimentazione scientifica a stretto contatto con i maggiori rappresentanti europei della repubblica delle lettere.

Con il Settecento gli equilibri maturati tra i chierici regolari nei secoli precedenti si modificarono in parte a favore di congregazioni fino allora meno affermate. Come nel caso degli scolopi, che ampliarono la loro presenza e i loro insediamenti scolastici, o dei somaschi (già diffusi precedentemente laddove altre congregazioni avevano subito l’ostracismo dei governi: a Venezia, dove i gesuiti nel 1606 furono costretti all’esilio, la loro presenza si consolidò anche in seguito alla «maggior malleabilità della congregazione […] ai desiderata del Senato veneto, teso a “venetizzare” sempre più l’ordine»). La recente storiografia, del resto, ha mostrato «un maggiore dinamismo di barnabiti somaschi scolopi durante il XVIII secolo sotto il profilo intellettuale: e questo non solo nel campo della pubblicistica di carattere scientifico, ma pure in quella a sfondo letterario», così come «nel campo degli studi umanistici e filologici, tradizionalmente legati all’indagine degli studiosi della Compagnia [di Gesù] […] Si accumula dunque sotto questo profilo un ulteriore ritardo dei gesuiti, che per essere valutato appieno deve necessariamente venire bilanciato da una più profonda conoscenza delle opere degli studiosi appartenenti agli altri ordini religiosi insegnanti (e non solo)» (M. Sangalli, Le congregazioni religiose insegnanti, 43, 39). Tali cambiamenti furono l’esito anche del manifestarsi di alcuni punti deboli del “modo di procedere” degli ordini che fino allora avevano conosciuto maggiore successo, come appunto i gesuiti, colpiti nel frattempo su più fronti: in ambito teologico (la morale probabilista), sulla questione dei riti cinesi, a causa dell’arretratezza dei loro programmi educativi e della spettacolarizzazione ormai giudicata eccessiva delle missioni rurali.

Nel Sette-Ottocento anche le congregazioni dei chierici regolari (prima fra tutte la Compagnia di Gesù, momentaneamente soppressa dal papato nel 1773, ma oggetto di numerosi interventi repressivi dopo la ricostituzione voluta da Pio VII nel 1814) subirono le conseguenze patite dagli altri ordini religiosi a causa dei provvedimenti di riforma e abolizione presi prima dai governi delle monarchie europee e degli stati italiani, poi dalle forze rivoluzionarie e risorgimentali. Se travagliata fu, nel contesto italiano e nel percorso verso l’unificazione, la vicenda dei gesuiti, maggior fortuna conobbero altri chierici regolari come i barnabiti e gli scolopi. Nella situazione di incertezza giuridica propria delle comunità vecchie e nuove alcuni chierici regolari ebbero infatti più fortuna di altri. Per sopravvivere, per sfuggire alla soppressione e agli incameramenti fu necessario organizzarsi non come regolari a tutti gli effetti (vietato dalle leggi emanate tra il 1866 e il 1873) ma come “semplici riunioni di ecclesiastici, senza vincoli di voti, senza rinunzia ai propri averi”, come società private, come cittadini che conservavano i propri diritti e dunque potevano acquistare, vendere, lasciare e adire eredità. Poterono così sfuggire “alla confisca e continuarono più o meno tranquillamente la loro attività varie case dei barnabiti e degli scolopi, che figuravano di fronte alla legge come amministratori di opere pie”. Di nuovo ciò accadeva con esiti differenti a seconda della collocazione geografica delle singole comunità: “in Sicilia le case degli scolopi vennero tutte disperse”. E non fu estraneo a questi destini così diversi anche il comportamento dei vescovi: “l’episcopato assunse un atteggiamento un po’ vario: mentre i vescovi delle Marche e dell’Emilia protestavano energicamente contro le soppressioni, difendendo i religiosi, quelli dell’Italia meridionale e soprattutto quelli della Calabria non mostrarono troppa preoccupazione” per la loro sorte (Martina, Gli istituti religiosi in Italia, 236, 241-242).

Nel complesso, tuttavia, i chierici regolari vennero colpiti duramente: al pari dei gesuiti lo furono per esempio i caracciolini e i camillini (ministri degli infermi), privati in molti casi delle loro case e dispersi. Fu compito di Roma richiamare allora i singoli religiosi, laddove fu possibile, a una vita comunitaria sotto gli ordini di un superiore, alla conservazione dell’abito e all’attaccamento alla vocazione (Ibidem, 246, 254). Fu compito dei ministri generali anche dei chierici regolari, nonostante le leggi eversive, dare direttive precise e accorate al fine di ricostituire le antiche comunità, riacquisire le antiche case (facendo mutui, trattando coi vincitori di aste, beneficiando della solidarietà di benefattori laici), fondarne di nuove. Come avvenne di fatto, gesuiti in testa, nei decenni finali del secolo, complici l’applicazione fallimentare delle leggi stesse e le urgenze educative e assistenziali che reclamavano una loro rinnovata presenza nella società.

Fonti e Bibl. essenziale

M. Tentorio, Saggio storico sullo sviluppo dell’ordine somasco dal 1569 al 1650, Archivio Storico Padri Somaschi, Roma 2011 (tesi di laurea, Università Cattolica del Sacro Cuore, Milano a.a. 1940-41); L. Picanyol, Chierici regolari poveri della Madre di Dio delle Scuole pie (scolopi), in Enciclopedia Cattolica, Ente per l’Enciclopedia Cattolica e per il Libro Cattolico, Città del Vaticano 1949, III, 1438-1441; F. Andreu, Chierici regolari, in DIP, Edizioni Paoline, Roma 1975, II, 898-909; P. Sannazzaro, Storia dell’ordine camilliano (1550-1699), Edizione Camilliane, Torino 1986; G. Zarri, Le sante vive. Profezie di corte e devozione femminile tra ’400 e ’600, Rosenberg & Sellier, Torino 1990; M. Firpo, Paola Antonia Negri monaca angelica (1508-1555), “Barnabiti studi”, VII (1991), 7-66; M. Rosa, Introduzione, in Idem (ed.), Clero e società nell’Italia contemporanea, Laterza, Roma-Bari, 1992, 3-41; J. P. Donnelly, The New Religious Orders, 1517-1648, in Th. A. Brady, Jr. – H.A. Oberman – J.D. Tracy (edd.), Handbook of European History 1400-1600. Late Middle Ages, Renaissance and Reformation, II, E. J. Brill, Leiden – New York – Köln 1995, 283-315; E. Bonora, I conflitti della Controriforma. Santità e obbedienza nell’esperienza religiosa dei primi barnabiti, Le Lettere, Firenze 1998; S. Pavone, I gesuiti dalle origini alla soppressione, Laterza, Roma-Bari 2004; M. Sangalli, Le congregazioni religiose insegnanti in Italia in età moderna: nuove acquisizioni e piste di ricerca, “Dimensioni e problemi della ricerca storica”, 2005, I, 25-47; G. Mongini, Per un profilo dell’eresia gesuitica. La Compagnia di Gesù sotto processo, “Rivista Storica Italiana”, CXVII (2005), 26-63; F. Favino, Scienza ed erudizione nei collegi degli ordini religiosi a Roma rea Sei e Settecento, Cheiron, 43-44, 2006, 331-370; I. Fosi – G. Pizzorusso (eds.), L’Ordine dei Chierici Regolari Minori (Caracciolini): religione e cultura in età postridentina, Atti del convegno (Chieti 11-12 aprile 2008), Studi medioevali e moderni, XIV (2010); A. Vanni, “Fare diligente inquisitione”. Gian Pietro Carafa e le origini dei chierici regolari teatini, Viella, Roma, 2010.


LEMMARIO




Chiese Ortodosse - vol. I


Autore: Soler Jaume

Intendendo per ortodossia l’insieme dei fedeli e del clero che, dopo lo Scisma di 1054, rimasero fuori della comunione con il Papa di Roma, si deve segnalare che la sua presenza in Italia prima dell’unità nazionale è stata scarsa e divisibile in due zone e periodi cronologici.

Dagli inizi del VIII fino all’invasione normanna del XI secolo, le provincie della Puglia, Calabria e Sicilia sono state ecclesiasticamente sotto la giurisdizione del Patriarcato di Costantinopoli, e hanno ricevuto ripetutamente ondate di migranti greci che fuggivano sia dell’iconoclastia che dell’iconodulia, il che diede alla Chiesa in quelle provincie un carattere decisamente bizantino in tutti gli aspetti. In questi stessi secoli, il papato richiamò in diversi momenti la sua giurisdizione su questi territori. La situazione cambiò profondamente dopo l’occupazione normanna di quei territori e la firma, nel 1059, del Concordato di Melfi, che nel campo religioso comprendeva l’impegno che i normanni prendevano per la latinizzazione dei territori su dei quali Papa Niccolò II gli riconosceva la sovranità. In seguito, iniziò un processo di riforma latinizzante, limitando i rapporti della popolazione greca con la sede costantinopolitana e favorendo i cambiamenti liturgici e sacramentali. Questo processo, definitivo dopo il Sinodo di Bari del 1098, ebbe effetti diversi nelle diverse provincie.

L’Italia fu punto di approdo per i greci fuggitivi anche dopo la caduta di Costantinopoli nel 1453, con due centri principali di stabilimento, la Repubblica di Venezia e il Regno di Napoli.

Nelle provincie meridionali della penisola arrivò un numeroso gruppo di famiglie, fra le quali diverse procedenti della nobiltà bizantina, intellettuali ed ecclesiastici, il che provocò una fiorita di nuovi centri di culto ortodossi, i quali ricevettero la protezione delle autorità locali, come lo provano i numerosi decreti e concessioni, come quello del 30 agosto di 1488, di Ferdinando il Cattolico, per il quale potevano celebrare liberamente i loro riti ed essere governati secondo le proprie leggi. La comunità greca ortodossa, dopo queste misure favorevoli, crebbe e fiorì nell’Italia meridionale. Fra i greci migrati in Campania distacca la presenza di Tommaso Assani Paleologo, nipote di Costantino XI Paleologo, vero organizzatore della comunità, fondatore della prima associazione di greci e del prima cappella per il culto greco ortodosso nel 1561. Fra gli ecclesiastici è notevole la presenza del Metropolita Benedetto di Coroni, che conseguì da Papa Paolo III una bolla molto favorevole ai greci ortodossi nel 1536. La presenza greca ortodossa si organizzò presto in delle potenti confraternite, presenza visibile nella società di quella popolazione, che continuava unita al Patriarcato di Costantinopoli. Questa situazione fiorente della popolazione ortodossa cambiò progressivamente lungo il XVII secolo, nel quale queste comunità, pur conservando il rito e la prassi sacramentale bizantina, passarono alla giurisdizione cattolica, specialmente dopo la fondazione del Pontificio Collegio Greco di Roma, nel 1577, in seguito alla creazione della Congregazione per i Greci, istituita da Papa Gregorio XIII nel 1573, e dal Seminario Italo-Albanese di Palermo, voluto da Papa Clemente XII nel 1734, il quale nel 1732 aveva provveduto alla nomina di vescovi destinati all’ordinazioni di sacerdoti per i cristiani di rito bizantino. La situazione mutò definitivamente dopo il Trattato di Verona, del 22 luglio 1822, per il quali tutti i sovrani della Penisola Italica s’impegnavano nel promuovere che tutti i suoi popoli abbracciassero la fede cattolica romana. Questo trattato fu il preludio dei decreti emanati da Francesco I nel 1829, che introducevano definitivamente il cattolicesimo nelle confraternite greche, pur conservando il rito bizantino. In seguito a questa nuova situazione, con il passo effettivo di tutti i greci alla giurisdizione romana, la popolazione di rito greco fu dotata da due eparchie, quelle di Lungro (1919) e di Piana degli Albanesi (1937).

La presenza ortodossa greca a Venezia data anche di prima della caduta di Costantinopoli nel 1453, quando il commercio e la minaccia turca portava numerosi greci a migrare verso i territori della Repubblica di Venezia. Dopo la sconfitta definitiva dell’impero bizantino, la migrazione aumentò, arrivando, verso il 1479, la popolazione greca di Venezia alle quattromila persone.

Il principale problema che dovette affrontare la comunità fu quello della pratica religiosa, che fino all’unione stabilita dal Concilio di Firenze nel 1439, fu proibita pubblicamente dalle autorità venete. Con l’unione, la Repubblica accordò la concessione ai greci ortodossi di una cappella nella chiesa di S. Biagio e, nel 1456, il permesso per incominciare la costruzione di una chiesa, che fu, però interdetto nell’anno successivo dal Consiglio dei Dieci.

La volontà della comunità greca di stabilire un centro di culto ortodosso nella città di Venezia, ebbe come effetto la fondazione nel 1498 della Confraternita dei Greci Ortodossi, con sede nella chiesa di S. Biagio. Grazie all’influsso dei soldati greci, che con la sua contribuzione alle guerre fra Venezia e i Turchi godevano di un grande rispetto, il 4 ottobre 1511 la comunità greca ottenne il permesso del Consiglio dei Greci di acquistare un terreno ed edificare una chiesa, che si doveva dedicare a s. Giorgio, il quale permesso fu confermato dallo stesso doge nel 1514. Anche di Leone X ottenne la comunità delle bolle, per le quali potevano costruire una chiesa e usare un cimitero, mentre che Clemente VII li concesse l’esenzione della giurisdizione del patriarca di Venezia, appartenendo in tutto momento sotto la giurisdizione del Patriarca di Costantinopoli.

Nel 1536 s’iniziò la costruzione dell’attuale chiesa di S. Giorgio, che fu ultimata nel 1577, essendo insediato, nello stesso anno, il primo metropolita ortodosso della città, Gabriele Seviros, al quale era stato concesso il titolo di metropolita di Filadelfia dal Patriarca di Costantinopoli. Il resto di metropoliti, successori di Seviros, ostentarono lo stesso titolo.

L’opera della confraternita greca incluse l’apertura, nel 1593, di una scuola di lettere greche e latine e la fondazione, nel 1599, di un monastero femminile greco, dedicato a funzioni educative.

L’occupazione napoleonica di Venezia nel 1797 significò anche la decadenza della comunità greca della città, i cui beni furono confiscati dalle nove autorità. Gli avvenimenti del periodo e la nascita della Grecia indipendente provocarono di nuovo la migrazione dei greci veneziani, rimanendo in città una comunità molto ridotta.

Notevole è stata anche la vicenda della comunità greco ortodossa di Livorno, dove la presenza di greci data dal tempo di Cosimo I di Medici. L’esistenza, dentro della stessa comunità greca, di elementi cattolici e ortodossi provocò numerosi scontri fino che, a metà XVIII, Francesco I concesse agli ortodossi la possibilità di edificare una chiesa, la prima acattolica della Toscana, consacrata nel 1760.

Fonti e Bibl. Essenziale

Aa. Vv., La Chiesa greca in Italia dal VIII al XVI secolo. Atti del Convegno Storico Interecclesiale, Padova 1973; Panessa, G., Le comunità greche a Livorno. Vicende fra integrazione e chiusura nazionale, Livorno 1991; Tiepolo, M. F. et Tonetti, E., I greci di Venezia, Venezia 2002; Vergotti, G., Comunità Ortodosse nella Penisola Italiana, Tessalonica 1989; Zervos, G., I Greci Ortodossi in Campania d’Italia dalla caduta di Costantinopoli sino all’Unità d’Italia ed a Garibaldi, Tessalonica 1999.

LEMMARIO




Clero secolare - vol. I


Autore: Gaetano Greco

Con «clero secolare» s’intende l’insieme di tutti quei chierici, dai semplici tonsurati fino agli stessi vescovi, che, vivendo nel «secolo» (nella società, a contatto diretto e quotidiano con i laici), sono incardinati in una diocesi o in una chiesa particolare, senza l’obbligo di seguire la regola di un ordine regolare e professare i voti di povertà, obbedienza e castità. Nella storia del clero diocesano, il Concilio di Trento costituisce uno spartiacque fra il Rinascimento e il periodo successivo, fino alle soglie della Rivoluzione francese, benché non siano mancate trasformazioni anche fra gli inizi del XVII secolo e la fine del XVIII; tuttavia questi processi non costituirono una vera novità, ma furono lo svolgimento di una svolta iniziata già nella seconda metà del Cinquecento. Nel corso del basso Medio Evo all’interno della Chiesa cattolica le istituzioni ecclesiastiche diocesane, al cui servizio erano addetto prevalentemente questi chierici, si erano andate conformando con ritmi e modi diversi da regione a regione al modello del «beneficio», ma il sistema beneficiale parve crollare durante l’età rinascimentale. Nel secolo e mezzo precedente il Concilio di Trento, la Chiesa cattolica aveva attraversato una stagione di anarchia istituzionale vissuta all’insegna della caccia ai benefici ecclesiastici, per accumulare rendite sacre e per usare i poteri ecclesiastici secondo finalità politiche. Un simile disordine aveva prodotto danni gravissimi nell’amministrazione dei sacramenti, nella cura d’anime e nella giurisdizione spirituale, precipitati in una condizione di confusione generalizzata, con ampie aree caratterizzate dal vuoto istituzionale in ambito ecclesiastico e dall’assenza di sacerdoti. Mentre nel Basso Medio Evo gli uffici ecclesiastici territoriali erano stati tenuti e gestiti da un clero secolare in grande prevalenza di estrazione locale, in età rinascimentale questi uffici furono occupati da un gran numero di forestieri o di chierici cittadini, che, detenendo la titolarità formale dei benefici, ne consumavano le rendite e i beni dotali, facendosi sostituire solo raramente da preti mercenari di dubbie qualità morali e intellettuali. Questa situazione era legittimata dalla Curia romana, che dispensava, a pagamento, dall’osservanza delle norme canoniche: divieto di cumulo degli uffici, residenza, possesso degli ordini sacri maggiori (irrinunciabili), rispetto dei diritti di collazione e patronato.

Proprio da questo periodo emerge un’incipiente divaricazione nelle fortune dei chierici delle due grandi aree italiane: poiché presso la Curia romana erano attive le succursali dei banchieri del Centro-Nord, i chierici di quest’area erano facilitati nell’affrontare le pratiche finanziarie per impadronirsi dei benefici. Inoltre, alcuni stati territoriali delle medesime regioni cominciarono a istituire uffici pubblici per controllare l’accesso agli uffici ecclesiastici. All’inizio si trattò di misure adottate per finalità politiche: impedire ai propri avversari di accedere agli uffici e favorire partigiani, clienti e familiari. Tuttavia, per stati territoriali centralizzati e autocefali questa prassi governativa poteva accrescere le occasioni occupazionali del clero locale, che ricorreva al potere politico per ostacolare le nomine in favore di concorrenti stranieri. Infine, un altro segnale è offerto dalla presenza di sacerdoti corsi, sardi e siciliani nelle regioni tirreniche: un personale che, pur possedendo un livello culturale al limite dell’analfabetismo, era impiegato nella cura d’anime e nell’amministrazione dei sacramenti in sostituzione dei rettori cumulatori e assenteisti. La disoccupazione cronica dei sacerdoti sardi dipendeva non tanto da una miseria congenita delle loro terre, bensì dall’usurpazione degli uffici cittadini da parte dei chierici d’origine iberica e dall’«ammensamento» dei benefici rurali a favore dei più forti corpi ecclesiastici urbani. Anche se fra il XV e il XVI secolo questo fenomeno interessò tutte le diocesi italiane, e non solo quelle sarde, probabilmente i suoi effetti furono meno gravi nell’Italia continentale. Qui, era più difficile legittimare su larga scala simili operazioni, a causa delle stesse caratteristiche degli insediamenti umani e dei rapporti di produzione esistenti sul territorio, e il reticolo più fitto dei centri urbanizzati favorì la persistenza dei benefici curati negli edifici religiosi dislocati sul territorio.

La nascita di associazioni di ecclesiastici diocesani, come i Preti Secolari di Genova, sul finire del Quattrocento, e, nella prima metà del secolo successivo, i Preti del Buon Gesù di Ravenna, i Preti Contemplativi di Parma o i Preti Riformati di Tortona testimonia la presenza anche nel clero secolare d’istanze di autoriforma ecclesiale testimonia   . Dediti all’attività sacramentale e all’istruzione religiosa di chierici e laici, questi sacerdoti diocesani costituirono il primo esempio di un fenomeno che si ripresentò anche altre volte nell’età moderna, almeno alla fine del Cinquecento e poi ancora un secolo dopo. Nell’età della Controriforma l’iniziativa più nota e fortunata fu intrapresa a Milano dall’arcivescovo Carlo Borromeo con i suoi Oblati di S. Ambrogio, dai quali agli inizi del XVIII secolo germinarono gli Oblati missionari di Rho; ma vanno ricordate pure le associazioni ecclesiastiche secolari sorte a Novara e a Pescia, e soprattutto la società dei Pii Operai, fondata a Napoli dal sacerdote Carlo Carafa. Nell’età innocenziana i vescovi manifestarono un visibile sostegno a questi istituti: così, per esempio, su stimolo degli stessi Pii Operai e con il favore degli ordinari, anche a Capua nacque una congregazione di sacerdoti diocesani dediti alla predicazione delle missioni popolari.

Nonostante questi fermenti di autoriforma, il quadro del clero secolare che emerse ancora alla fine del Cinquecento in occasione delle visite pastorali e apostoliche era assai negativo. Il clero appariva culturalmente inadeguato al proprio ruolo, per la diffusa incapacità a comprendere e tradurre in volgare i testi scritti in lingua latina e per la presenza di sacche di analfabetismo. Spesso le celebrazioni liturgiche erano ufficiate senza la lettura del messale (assente in molte chiese), pronunciando formule incomplete e prive di significato, secondo schemi memorizzati nell’apprendistato presso qualche sacerdote, senza aver frequentato le lezioni di un maestro, oppure una vera scuola ecclesiastica. Fra i sacerdoti più assidui nella residenza non pochi erano coinvolti nelle forme meno ortodosse della religiosità popolare: preti disposti a seguire i fedeli nelle pratiche considerate superstiziose, ad assisterli in riti non ammessi dalla gerarchia, a offrire la stessa materia dei sacramenti per funzioni religiose intrise di superstizioni. Sul piano dei comportamenti morali i chierici si differenziavano poco dai laici: gli uni come gli altri erano violenti sia nei rapporti sociali, sia negli affetti e nella sessualità fondata sulla prepotenza: i fedeli, infatti, apprezzavano i parroci conviventi more uxorio con una sola donna, secondo il modello tradizionale latino dell’uomo onesto e ben costumato, mentre criticavano i chierici che, con gli atteggiamenti prevaricatori e disordinati tipici di nobili e facinorosi, turbavano la quiete domestica altrui. Il programma disciplinatore della Controriforma cattolica impose al clero secolare un forte elevamento culturale: la trasmissione orale del sapere religioso e della pratica liturgica doveva essere sostituita da una preparazione teologica e letteraria codificata, fondata sulla pratica della lettura-scrittura e sulla conoscenza della lingua latina, pena la bocciatura agli esami imposti per accedere per gli uffici ecclesiastici con cura d’anime davanti alle commissioni diocesane composte da canonici laureati in utroque iure e da monaci e frati esperti in teologia (gli «esaminatori sinodali»). A tal fine in ogni diocesi doveva sorgere un seminario vescovile, nel quale gli aspiranti all’ordine sacro avrebbero ricevuto l’istruzione letteraria di base e la preparazione teologica e liturgica, ma questo precetto ebbe una scarsa applicazione nel Cinquecento perché i vescovi italiani erano privi dei mezzi finanziari sufficienti per fondare, dotare e mantenere le scuole-convitto capaci di preparare una quota consistente del clero secolare. Solo tardivamente, nella seconda metà del Settecento, fu realizzata la costruzione di una rete di seminari diocesani: fallito il progetto di utilizzare i patrimoni dei cosiddetti «conventini» per dotare i seminari alla metà del Seicento, questo successo del riformismo settecentesco fu reso possibile dalla scelta politica di impiegare in questo delicato settore una parte delle risorse rastrellate con la soppressione di molte case degli ordini regolari. L’attenzione alla qualità nella formazione del clero diocesano interessò i governi illuminati degli stati italiani, ma assunse un aspetto particolare nel ducato di Milano, dove Giuseppe II dette vita nel 1787 a un’istituzione centralizzata: il Seminario Generale di Pavia, sottoposto direttamente al governo e finalizzato a una rigorosa uniformizzazione della preparazione spirituale del clero lombardo. Eppure, già dal Seicento si nota una crescita del livello culturale del clero diocesano impegnato nella cura d’anime e dei membri dei capitoli cattedrali. Mentre la generazione in servizio all’atto del Concilio riuscì in un modo o in un altro a salvaguardare la propria condizione precedente per lungo tempo, le nuove generazioni s’industriarono per trovare a proprie spese i mezzi per imparare a leggere e scrivere in volgare e in latino. In questo processo di elevazione culturale un ruolo fondamentale fu svolto non solo dalle nuove congregazioni regolari, nate proprio con queste finalità e operanti prevalentemente nelle città, ma anche dalla rete distesa a maglie strette su tutta la Chiesa italiana dagli ordini regolari tradizionali. Sono fenomeni complessi, difficili da decifrare prima ancora di quantificarli, ma certamente la presenza di piccoli insediamenti di frati mendicanti nelle campagne ebbe un effetto positivo anche sul versante della formazione del clero secolare rurale: anche in questo ambito intervenne la diffusa presenza dei Regolari, che già supplivano alle deficienze del clero diocesano sul pulpito, sulla cattedra e nel confessionale.

Quanto ai comportamenti morali, il programma cattolico di disciplinamento dei chierici si caratterizzò per la netta distinzione nei confronti dei laici per evidenziare la sacralità insita nella persona ecclesiastica. Alla distinzione nei costumi esteriori (vesti, attività manuali e intellettuali, ecc.) si doveva accompagnare una più rigorosa separazione dai laici, astenendosi dai luoghi e dalle occasioni della socialità umana (piazze, osterie, locande, teatri, «veglie», banchetti, balli, feste nuziali, serenate), «praticando» solo altri ecclesiastici ed evitando le «pericolose conversazioni» con i laici. Questo ideale clericale di stampo monastico non si adattava alle effettive condizioni materiali di vita dei maschi. A parte chi era necessitato a ricorrere alla manodopera femminile per i servizi domestici, molti sacerdoti dovevano e volevano adempiere alle responsabilità di ogni maschio italiano, prendendosi cura di madri, sorelle, cugine, cognate e nipoti: nei casi di parentela stretta, la nostra tradizione imponeva la solidarietà e la convivenza sotto il medesimo tetto. Anche il risultato effettivo della repressione della sessualità degli ecclesiastici è opinabile: l’insistenza delle autorità ecclesiastiche nei confronti della sollicitatio ad turpia da parte dei confessori fa pensare che i chierici abbiano avuto gli stessi comportamenti dei loro coetanei laici. Maggior successo ebbe la lotta contro il concubinato del clero: nonostante la tradizione giuridica e sociale favorevole alle relazioni stabili fra le persone non coniugate con altri, grazie all’accordo fra la gerarchia ecclesiastica e i poteri politici i sacerdoti dovettero rinunciare alle convivenze pubbliche more uxorio, limitandosi a relazioni segrete, possibilmente con donne residenti in altre località, tranne in alcune aree periferiche (Alpi, dorsale appenninica, Maremma) e nelle isole, dove la vigilanza delle gerarchie era meno efficace. Tuttavia, pur marginale è rimasto un elemento di contraddizione, destinato a crescere nei nostri giorni in virtù della massiccia presenza d’immigrati euro-orientali di rito cattolico-unito: nelle comunità grecaniche e albanesi della Sicilia, della Calabria, della Puglia e di Cargese in Corsica il culto sacro era officiato secondo l’antico rito greco-cattolico da sacerdoti che conservavano dell’antica disciplina ecclesiastica orientale il diritto di sposarsi prima di assumere gli ordini sacri maggiori. La latinizzazione delle comunità grecaniche, perseguita dalla gerarchia episcopale per eliminare lo «scandalo» della differenza di disciplina, riuscì nelle zone dove maggiore era la contiguità con le popolazioni latine, come in Puglia, ma fallì dove la Chiesa di rito greco era arroccata in paesi più isolati o dove, come nella stessa Venezia o nei domini genovesi e nella Livorno medicea, i governi avevano adottato politiche protettive nei confronti di chi manteneva relazioni con i popoli delle coste orientali del Mediterraneo.

Per quanto riguarda l’obbligo della residenza nella sede d’ufficio, mentre ai chierici secolari di estrazione urbana fu concesso lo sfruttamento dei benefici posti nelle chiese cittadine e di molti benefici rurali ridotti a cappellanie semplici e privati della cura d’anime, nelle campagne si liberarono numerosi uffici curati, ormai divenuti scarsamente appetibili da parte dei chierici cittadini, poiché richiedevano la residenza personale sul luogo dell’ufficio. A questo punto la professione ecclesiastica tornò a offrire prospettive valide sia per i giovani, sia per le loro famiglie, disponibili a investire mezzi finanziari ed energie nella professione sacerdotale, facendo affidamento sul godimento dei diritti di patronato privato e comunitario. Nel contempo, anche le comunità rurali, che non avevano mai cessato di vigilare con attenzione sulla qualità dei servizi religiosi ritenuti essenziali, ripresero a investire nel sacro con la sicurezza che le risorse impiegate non sarebbero state asportate da chierici forestieri residenti altrove. Il flusso d’investimenti da parte degli enti pii e delle comunità andò a vantaggio sia del mantenimento di un personale ecclesiastico locale, sia di un livello più elevato di funzioni religiose, come la celebrazione di una seconda messa nei giorni festivi, la presenza di un secondo sacerdote nel confessionale, la predica durante la Quaresima e l’Avvento, o il suono dell’organo a canne per accompagnare la liturgia sacra. L’esistenza di una massa di legati pii si tradusse nella crescita del cumulo delle messe: la loro celebrazione era ricompensata con l’«elemosina manuale» o «tassa», stabilita periodicamente dall’ordinario diocesano locale, per adeguarla al costo della vita. D’altronde, questo ingombrante numero di oneri sacri alimentava la crescita del personale ecclesiastico, creando una ragionevole aspettativa di lavoro nel sacro: grazie alla celebrazione di queste messe non sarebbe mancato il mezzo per procacciarsi il pane quotidiano esercitando il mestiere di sacerdote. Infine, nelle regioni centro-settentrionali borghi e comunità rurali istituirono «condotte» di cappellani-maestri di scuola: furono stipendiati sacerdoti che insegnavano ai bambini i rudimenti della lettura, della scrittura e dell’aritmetica e celebravano la seconda messa domenicale nella chiesa parrocchiale, oltre ad assistere il parroco nel ministero della confessione e nell’istruzione della dottrina cristiana.

Questa situazione in movimento trovava il suo fondamento in due presupposti: da un lato, una forte difesa delle «pertinenze laicali» da parte del potere politico statale, indipendentemente dal vantaggio immediato per gli alleati, i clienti, i familiari, i partigiani e via dicendo (e proprio in ciò si potrebbe constatare il salto di qualità rispetto allo stato rinascimentale); dall’altro lato, un’incidenza assai ridotta dell’immunità fiscale e personale dei chierici, tale da poter escludere o minimizzare la rilevanza di questo specifico incentivo per coloro che intraprendevano la carriera ecclesiastica. Questi fenomeni si saldarono con i risultati conseguiti dal programma di disciplinamento del clero secolare nelle regioni centro-settentrionali: senza diventare casti e pii e senza abbandonare del tutto le «pericolose conversazioni» con i laici, i sacerdoti assunsero, comportamenti più riservati e non «scandalosi». Sullo sfondo si stagliano nettamente quelle «strategie familiari» e comunitarie, nelle quali le finalità economiche s’intrecciavano con motivazioni di prestigio e onorabilità sociali, cumulando eredità patrimoniali con non meno importanti «eredità immateriali». Ideare e perseguire simili strategie, nelle quali il sacerdozio si presentava sotto il profilo della «professione», richiedeva la presenza di regimi politici stabili, intenti a salvaguardare l’ordine sociale interno all’interno delle garanzie del diritto tradizionale, sufficientemente autonomi dalle pressioni della Curia romana e privi di reali interessi a favorire forestieri o sudditi provenienti da altre regioni o nazioni: proprio il contrario di quanto avveniva nei domini spagnoli.

Questo sistema, infatti, non ebbe successo nell’Italia centro-meridionale e insulare, per la quale si può parlare di sacerdozio come «condizione». Qui continuarono a trovare applicazione le cosiddette «regole di Cancelleria» della Curia romana, comprese la provvisione apostolica ai benefici ecclesiastici locali e l’imposizione di pesanti pensioni sulle rendite beneficiali a favore di forestieri, a danno dei chierici del posto e dei loro patroni, disincentivati a finanziare le Chiese locali . Una maggiore impermeabilità alle ingerenze esterne fu dimostrata dalle chiese «ricettizie» a massa comune indivisa, quando riuscivano a impedire che l’ordinario diocesano locale s’intromettesse nel controllo dei patrimoni, nella gestione degli uffici, nella nomina dei chierici «partecipanti». Ancora nel Settecento la difesa dell’autonomia del clero ricettizio nei confronti della giurisdizione vescovile costituì un caposaldo della politica giurisdizionalistica dei Borboni nell’alveo della tradizione anticuriale, perché chiudere la porta all’intrusione dei vescovi significava anche sbarrare l’accesso alle provvisioni apostoliche nei mesi «riservati» alle nomine della Curia romana. A differenza del Centro-Nord, nel Mezzogiorno i chierici in minoribus costituirono sempre un’ampia aliquota del clero secolare, al quale si aggiungevano i «chierici coniugati» o «salvatici», i «diaconi selvaggi», i «varas», i «monazillos» e altri ancora, che godevano i privilegi clericali con il matrimonio e la famiglia. Allo stesso modo degli oblati delle congregazioni regolari e delle «bizzoche», in cambio dei loro servizi come sagrestani, come «procuratori» delle chiese, come «cursori» vescovili, come guardie armate, questi tonsurati chiedevano alla Chiesa solo la duplice protezione del privilegio clericale: l’esenzione dai tributi fiscali e l’immunità personale nei confronti delle corti giudiziarie civili. Nella Chiesa meridionale, la pratica dell’ordinazione a titolo di patrimonio personale e l’uso di attribuire ai figli chierici la titolarità del patrimonio domestico raggiunsero dimensioni altrove sconosciute, scatenando una forte conflittualità sociale all’interno di ogni comunità, nonché la reazione dei baroni, allarmati dalla diminuzione dei soggetti fiscali. Infatti, poiché il regime fiscale d’antico regime si basava sulla ripartizione delle imposte fra le comunità e i feudi, l’assegnazione legale di patrimoni privati ai chierici consentiva alle loro famiglie di eludere l’imposizione fiscale civile, con la conseguenza di accrescere il carico dei tributi gravante sulle famiglie prive di chierici. D’altronde, nel Meridione e in Sicilia sin dalla prima metà del Seicento – quindi assai prima dell’esplosione di un fenomeno analogo negli stati centro-settentrionali – era imponente anche il numero dei chierici che permanevano negli ordini sacri minori, senza ascendere al sacerdozio: chierici inutili per il servizio sacro, non impiegabili in alcuna funzione religiosa e pronti a tornare allo stato laicale con il semplice consenso di un vescovo compiacente.

L’emigrazione dei preti dalle campagne verso le città e da una regione all’altra d’Italia è un altro capitolo fondamentale nella storia del clero secolare. Accanto ai due modelli indicati, con le loro varianti (la «coloniale» sarda e l’«indisciplinata» còrsa), vi era tutta una molteplicità di aree, geograficamente assai diverse ma assimilabili sotto la categoria di «periferia». Qui, dove i poteri politici erano frammentati e non vi era una precisa coincidenza fra le circoscrizioni diocesane e i distretti civili o addirittura gli stati, i vescovi non riuscivano a controllare i propri chierici, né potevano verificare il conferimento degli ordini sacri maggiori, ottenuto non a titolo di beneficio, bensì a titolo di patrimonio personale: un patrimonio spesso fittizio, perché concesso all’ordinando solo temporaneamente da parenti compiacenti. Questa finzione favoriva la crescita di un clero secolare composto da sacerdoti pronti a emigrare per guadagnarsi la vita nelle regioni più ricche con gli strumenti del mestiere: la celebrazione della messa e, ottenuta la licenza da parte degli ordinari locali, l’amministrazione di altri sacramenti, come la confessione. Dopo un rallentamento nei decenni del post-Tridentino, questo flusso di mercenari del sacro si riattivò nel Seicento a causa della persistenza degli uffici di vicari amovibili e della ripresa di fondazioni sacre. Fra la fine del Seicento e gli inizi del Settecento la richiesta di manodopera sacramentale fu alimentata dall’accentuarsi del fenomeno di «non-sacerdotalizzazione» dei chierici titolari di benefici semplici e fruitori di rendite ecclesiastiche secondo modalità meramente parassitarie, proprio mentre esplodeva la «clericalizzazione» della società italiana con conseguenze disastrose per la disciplina di un corpo ecclesiastico divenuto pletorico. La crescita del numero dei chierici secolari rese chimerico il progetto di un clero secolare differenziato e separato dal suo contesto sociale, impedì ai vescovi la gestione della preparazione culturale dei chierici e fece riemergere costumi e comportamenti tipicamente laicali. Sullo scorcio del secolo, nell’«età innocenziana», spinta dalle congregazioni romane e dai pontefici, la gerarchia episcopale rinnovò la sua attenzione nei confronti della formazione e dei costumi del clero diocesano. Inasprite le verifiche al momento delle ordinazioni sacre e degli esami sinodali per la collazione dei benefici, furono imposte a tutti i chierici la frequenza alle conferenze sui «casi di coscienza» e agli «esercizi spirituali»; furono incoraggiate le attività delle congregazioni regolari e secolari dedite all’istruzione del clero e la nascita di nuove associazioni sacerdotali; fu intensificata l’attività ispettiva delle visite pastorali, rivolta soprattutto al controllo delle funzioni sacramentali e amministrative degli ecclesiastici, furono favorite le missioni popolari che intervenivano con particolare attenzione sui costumi e sui comportamenti dei chierici. Il rinnovato impegno di alcuni vescovi si protrasse per alcuni decenni, grazie anche all’intervento propulsivo delle congregazioni romane e di pontefici come Benedetto XIV, e confluì nell’alveo del riformismo cattolico di stampo muratoriano. Più incisivi, però, furono gli interventi governativi, ancorché non omogenei fra stato e stato. Per esempio, nel Sud borbonico e nel Piemonte sabaudo si puntò a frenare la crescita del clero aggravando i requisiti per le ordinazioni ecclesiastiche, mentre nella Lombardia e nella Toscana lorenesi si mirò prima a disincentivare le fondazioni di nuovi benefici non curati e a incardinare tutto il clero nelle chiese curate, ponendolo al servizio dei parroci. Nell’insieme si avviò così un processo di «sacerdotalizzazione» del clero secolare, che, sospinto a procedere nell’ordinazione sacra, fu obbligato a lavorare «nella vigna del Signore», impegnandosi nelle funzioni religiose e nell’assistenza alla cura d’anime. Nel complesso, anche per il clero secolare iniziò una fase discendente sul piano dei numeri: come per i regolari, a questo fenomeno contribuì la diffusione di una cultura secolarizzata, in larga misura di provenienza ultramontana ma non estranea alla nostra tradizione umanistica.

La sacerdotalizzazione del clero secolare superò i drammi della Rivoluzione e le illusioni passatiste della Restaurazione, diventando un fatto acquisito. Lo scontro frontale tra i nuovi ideali, e la dottrina della Chiesa cattolica relegò in secondo piano le antiche «strategie familiari» e le antiche forme di composizione sociale, con il ruolo essenziale assunto dal parente prete e/o dai patrimoni degli uffici sacri. In ambito ecclesiastico la rivoluzione sostituì a questo sistema nuove motivazioni ideologiche e con esse una nuova «vocazione» sacerdotale, basata sulla scelta individuale fra «il rosso» e «il nero».

Fonti e Bibl. essenziale

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LEMMARIO




Collegi - vol. I


Autore: Raffaele Savigni

I collegi universitari, nati come istituzioni sussidiarie dell’Università, rappresentano un’istituzione tipicamente rinascimentale e moderna. Nel Medioevo essi avevano svolto un ruolo piuttosto marginale, ospitando una minoranza di studenti (non più del 10-20 %). Il primo collegio documentato è quello fondato nel 1180 presso l’Hôtel-Dieu di Parigi, per studenti poveri, da un pellegrino inglese di ritorno dalla Terrasanta; a metà del ʼ200 il fenomeno si intensificò con la fondazione della “Maison de Sorbonne”, dotata di una ricca biblioteca ed ispirata al modello monastico, e di altri internati. Nei Paesi mediterranei i collegi non comparvero prima della metà del Trecento: a Bologna, grazie al lascito testamentario del cardinale Egidio Albornoz (1310-1367), sorse il collegio di S. Clemente, poi denominato Collegio di Spagna in quanto destinato ad ospitare una trentina di studenti spagnoli, scelti tra le famiglie nobili al fine di creare la classe dirigente della nazione. Il rettore era eletto a scrutinio segreto dagli studenti residenti, e successivamente confermato dal vescovo bolognese (più tardi dal governo iberico). I discenti erano tenuti ad una disciplina molto rigida: presenziare ai pasti, rientrare a sera, non accogliere donne. Dotato di una ricca biblioteca (la più antica biblioteca di collegio giunta sino a noi), il collegio di Spagna costituì un modello per altri collegi spagnoli, come quello dell’Università di Salamanca (1401).

A Bologna furono inoltre fondati i collegi Avignonese, Urbaniano e Gregoriano, e più tardi i collegi Ungaro-illirico (1553), e il collegio Montalto per studenti marchigiani (1586). I collegi universitari, spesso strettamente legati al mondo ecclesiastico, offrivano la possibilità di usufruire di borse di studio, di maestri e ripetitori interni, di ricche biblioteche. A partire dal ʼ400 essi accolsero una parte cospicua dei corsi e delle cerimonie universitarie, ospitando, accanto ai borsisti, studenti a pagamento, quindi di estrazione sociale elevata

Per integrare l’attività didattica dello Studium Urbis sorsero anche a Roma, nel ʼ400 (dopo precedenti tentativi), alcuni collegi studenteschi. Il cardinale Domenico Capranica (1400-1458) fondò nel 1457 l’omonimo Collegio (tuttora attivo come vivaio di ecclesiastici spesso approdati all’episcopato), per offrire la possibilità di una adeguata formazione al sacerdozio ai giovani meno abbienti della città di Roma. Esso fornì il modello di riferimento per la redazione degli statuti del Collegio Nardini, fondato pochi anni più tardi dal card. Stefano Nardini per formare teologi e canonisti, ma destinato a minore fortuna, in quanto la sua parabola si concluse intorno alla metà del ’700.

L’istituzionalizzazione di luoghi di formazione dell’élite di governo ecclesiastica e civile, come i Seminari ed i collegi destinati a specifici ceti e corpi sociali (i nobili, gli ecclesiastici, i militari), si accentuò in connessione col processo di disciplinamento sociale che caratterizza l’età della Riforma cattolica, e più in generale la prima età moderna. Tra i collegi ecclesiastici si segnalano quelli dei Gesuiti, il cui metodo d’insegnamento si ispirava a quello in uso alla Sorbona di Parigi, ma a poco a poco fu elaborata una Ratio studiorum, ossia un curriculum di studi tipicamente gesuitico, approvato, dopo alcuni tentativi e sperimentazioni, nel 1599. Nei collegi dei gesuiti si dava grande rilievo alla sistematicità e gradualità dell’apprendimento, alla memorizzazione, allo studio del latino e del greco, all’emulazione tra gli studenti; furono valorizzate le gare, le dispute, la recitazione ed il teatro.

Infine, la Compagnia prese a cuore la formazione del clero nei seminari da essa diretti, dando importanza alla formazione sia intellettuale (filosofica e teologica), sia spirituale, mediante la predicazione di Esercizi Spirituali e la pratica della direzione spirituale. Nel 1544 Francesco Borgia, che aveva già contribuito alla nascita del collegio di Valencia, ottenne da Paolo III il permesso di fondare un collegio a Gandía: fu il primo collegio in cui i gesuiti impartivano anche l’insegnamento e dove erano ammessi anche studenti non destinati a entrare nella Compagnia. Venne quindi fondato un collegio a Messina, che avrebbe dovuto porre rimedio alla diffusa ignoranza nel clero, e successivamente anche a Palermo, Napoli, Venezia, Bologna; il 22 febbraio 1551, con il sostegno economico del duca di Gandía, venne aperto il Collegio Romano. I collegi gesuitici aumentarono notevolmente di numero, da 160 (1580) a ben 444 (1626), raccogliendo soprattutto esponenti delle classi dirigenti, per quanto la gratuità ne garantisse in teoria l’accesso anche ai meno abbienti. Nel corso del ʼ600 ad essi si affiancarono convitti a pagamento per i nobili, che offrivano ai rampolli delle famiglie aristocratiche una solida istruzione classica ed altri insegnamenti (come scherma, equitazione, musica, danza, lingue straniere) utili a persone destinate a svolgere funzioni di governo e ad inserirsi nella vita di corte. Nei seminari dei nobili, oltre che nei collegi gesuitici, furono adottati testi come i trattati Del bene (1644) e Trattato dello stile e del dialogo di P. Sforza Pallavicino; e mediante il teatro veniva valorizzata la componente emotiva degli allievi.

Il Collegio senese dei Gesuiti, aperto nel 1676 da Celso Tolomei e strutturato sul modello dei seminaria nobilium (istituiti nel ducato di Parma e Piacenza all’inizio del ʼ600 con l’appoggio dei principi Farnese), ospitava chierici indirizzati al sacerdozio ma anche convittori esterni spesso provenienti dagli alti ranghi del patriziato cittadino; ed anche i collegi di Brera e di Milano forniscono un esempio di integrazione tra spiritualità gesuitica ed istanze della nobiltà, alla quale erano destinati manuali di “buone maniere” che coniugavano istanze evangelizzatrici e regole sociali. Le richieste educative dei ceti nobiliari trovarono una risposta efficace in questi collegi seicenteschi, che coniugavano l’istruzione con un preciso progetto educativo, integrando la formazione letterario-filosofica propria dell’Ordine con le istanze cavalleresco-militari: i giovani nobili apprendevano l’arte delle “buone maniere”, per diventare perfetti gentiluomini, secondo un modello suggerito dal Galateo di mons. Giovanni Della Casa (1503-1556).

Tra i collegi-convitti di educazione, che accoglievano, a pagamento, giovani nobili possiamo annoverare, a Bologna, l’Accademia degli Ardenti, fondata dal fratello del card. Paleotti e poi passata sotto il controllo dei Somaschi, e il Collegio S. Francesco Saverio, fondato dai Gesuiti; era invece indirizzato a esponenti di famiglie borghesi il Collegio S. Luigi di Bologna, nato in ambito gesuitico ma passato, dopo le soppressioni, ai Barnabiti e destinato a trasformarsi nel tuttora esistente ginnasio-liceo classico. A Modena il Collegio San Carlo nacque ai primi del Seicento per impulso di una Congregazione di laici devoti, guidata dal conte Paolo Boschetti; nel 1626 si trasformò in Collegio dei Nobili di San Carlo, con lo scopo di formare i giovani delle famiglie nobili secondo un modello pedagogico che aggiungeva ai classici studi teologici, letterari e filosofici, quelli scientifici e giuridici. Nel 1685 esso acquisì il titolo e le funzioni di Università, alla quale collaborarono intellettuali come Lazzaro Spallanzani. Nel 1581 fu istituito a Pavia il Collegio Borromeo, attivo dal 1581 e tuttora esistente: esso, destinato a studenti di umili origini, preparava nel ʼ600-ʼ700 soprattutto giuristi chiamati a svolgere funzioni amministrative nella Chiesa e nello Stato milanese, ma formò anche medici e scienziati.

Nella seconda metà del ʼ700 la vicenda di Carlo Michele d’Attems, arcivescovo di Gorizia, che intraprese gli studi nei seminaria nobilium e in collegi religiosi, prima a Graz, poi a Modena ed infine a Roma, attesta la solidità di un progetto educativo finalizzato alla formazione del gentiluomo e del vescovo-funzionario dell’Impero asburgico.

La Compagnia di Gesù proponeva, ricollegandosi alla tradizione umanistica ed al classicismo cinquecentesco, un codice religioso e di comportamento civile anche mediante le congregazioni mariane (un’istituzione nata nel Collegio Romano nel 1563 per opera di una giovane gesuita belga, G. Leunis), che divennero, insieme alle accademie studentesche, il supporto dell’insegnamento impartito nelle classi dei collegi, e si aprirono alle cerchie degli ex studenti ormai attivi nel mondo ecclesiastico e nelle diverse professioni. Attraverso l’impegno pedagogico dei Gesuiti la ratio studiorum classicistica si radicò profondamente, ispirando il liceo classico, istituito dalla legge Casati del 1859 e destinato a formare la classe dirigente del nuovo Stato unitario.

Nel ’500 sorsero inoltre numerosi conservatori femminili, finalizzati alla tutela delle fanciulle abbandonate, delle orfane, delle “malmaritate”, delle mendicanti ed anche delle “repentite”, ossia delle prostitute che intendevano reintegrarsi nella società. Il progetto educativo di tali istituti risulta però incentrato quasi esclusivamente sull’attività tecnico-professionale: è il caso del conservatorio di S. Maria del Baraccano di Bologna, che, sorto nella prima metà del ʼ500, comprende nei primi tempi una scuola di canto, musica e teatro, ma nel ʼ600-ʼ700 impegna le donne ospiti esclusivamente nel lavoro di tessitura e ricamo, mentre quello di S. Geminiano di Modena si trasforma in educandato per fanciulle benestanti, abbandonando le originarie finalità assistenziali a favore delle orfane.

In concomitanza col diffondersi di collegi maschili sorsero, a partire dalla seconda metà del ʼ500, sostituendosi gradualmente a forme di educandato monastico, collegi-convitto femminili ispirati al modello gesuitico e destinati a fanciulle nobili: il corpo insegnante era costituito «da donne nubili dedicate a Dio ma non soggette alla giurisdizione ecclesiastica» (Zarri, Recinti, 475). Spesso le educande rimanevano poi nell’istituto come educatrici, ed in questo quadro il nubilato femminile venne socialmente legittimato. Nel collegio delle Orsoline di Parma, istituito nel 1623 per le donzelle nobili, le educande, distinte dalle novizie e dalle religiose, studiavano e lavoravano: veniva così esteso al mondo femminile un modello educativo analogo a quello che aveva ispirato l’erezione dei seminaria nobilium. Un po’ meno elitario appare il collegio delle Orsoline di Ferrara, che, eretto alla fine del secolo XVII, comprendeva, oltre all’educandato, anche una scuola per allieve esterne. A Genova Camilla Medea Ghiglini (1559-1624), legata spiritualmente ai Gesuiti, e desiderosa di superare il modello della clausura monastica, fonda il collegio denominato “delle Medee”, per formare spiritualmente le donne insegnando loro (come recitano gli statuti del 1622) a «lavorare e leggere alevandole nel santo timore di Dio», nonché ad apprendere la dottrina cristiana: mediante il suo progetto educativo, che prevede classi distinte per le convittrici e le allieve esterne, viene promossa anche l’alfabetizzazione femminile, peraltro funzionale all’evangelizzazione ed alla formazione della donna «semplice e buona».

In Italia il primo vero e proprio educandato femminile fu fondato a Palermo nel 1779 da Ferdinando IV, ed altri furono aperti durante la dominazione napoleonica. Questi collegi, che svolsero un ruolo rilevante nell’età della Restaurazione (è il caso ad esempio dei collegi di Maria in Sicilia), subirono dopo l’unità d’Italia un lento e contrastato processo di laicizzazione: ad alcune ispettrici furono affidate dal Ministero funzioni di controllo e verifica delle condizioni in cui veniva gestita l’istruzione femminile negli istituti delle diverse regioni italiane, per lo più controllati da ordini religiosi che privilegiavano la formazione religiosa (tradizionalmente intesa come una serie di pratiche devote) rispetto a quella più propriamente culturale.

Nel corso del Novecento i collegi hanno progressivamente perduto il loro carattere di “istituzioni totali” fondate su una rigida disciplina interna per assumere piuttosto la funzione di residenze universitarie destinate ad accogliere, in un contesto più aperto, studenti provenienti da altre città.

Fonti e Bibl. essenziale

C. Piana, Nuovi documenti sull’Università di Bologna e sul Collegio di Spagna, I-II, Publicaciones del Real colegio de Espana, Bolonia, 1976; G.P. Brizzi, La formazione della classe dirigente nel Sei-Settecento: i “seminaria nobilium” nell’Italia centro-settentrionale, Il Mulino, Bologna, 1976; Id., I collegi per borsisti e lo Studio bolognese: caratteri ed evoluzione di un’istituzione educativo-assistenziale fra XIII e XVIII secolo, Istituto per la storia dell’Università, Bologna, 1984; D. Maffei – H. De Ridder-Symoens (edd.), I collegi universitari in Europa tra il XIV e il XVIII secolo, Atti del Convegno di studi della Commissione internazionale per la storia delle università (Siena-Bologna, 16-19 maggio 1988), Giuffré, Milano, 1991; A. Bianchi, Scuola e lumi in Italia nell’età delle riforme, 1750-1780: la modernizzazione dei piani degli studi nei collegi degli ordini religiosi, La Scuola, Brescia, 1996; G. Zarri, Le istituzioni dell’educazione femminile, in Ead., Recinti. Donne, clausura e matrimonio nella prima età moderna, Bologna, Il Mulino, 2000, 145-200; F. Sani, Collegi, seminari e conservatori nella Toscana di Pietro Leopoldo. Tra progetto pedagogico e governo della società, La Scuola, Brescia, 2001; X. Toscani, Seminari e collegi nello Stato di Milano fra Cinque e Seicento, edizioni dell’Ateneo, Roma, 2003; G. Tortorelli (ed.), Educare la nobiltà: atti del Convegno nazionale di studi (Perugia, 18-19 giugno 2004), Pendragon, Bologna, 2005; S. Franchini – P. Pozzuoli, Gli istituti femminili di educazione e di istruzione (1861-1910), Ministero per i beni e le attività culturali, Roma, 2005; L. Caminiti, Educare per amor di Dio: i collegi di Maria tra Chiesa e Stato, Rubbettino, Soveria Mannelli, 2005; M. Turrini, Il giovin signore in collegio: i gesuiti e l’educazione della nobiltà nelle consuetudini del Collegio ducale di Parma, Bologna 2006; A. Bianchi – G. Rocca (edd.), L’educazione femminile tra Cinque e Settecento, «Annali di storia dell’educazione e delle istituzioni scolastiche», 14 (2007); A. Esposito – C. Frova (ed.), Collegi studenteschi a Roma nel Quattrocento: gli statuti della Sapienza Nardina, Viella, Roma, 2008; G.P. Brizzi – A. Mattone (edd.), Dai collegi medievali alle residenze universitarie, Clueb, Bologna, 2010; R. Folino Gallo, L’istruzione pubblica in Calabria: scuole regie, real collegi e real licei tra Settecento e Ottocento, Soveria Mannelli 2011; M. Batllori, L’ Universita di Sassari e i collegi dei gesuiti in Sardegna: saggio di storia istituzionale ed economica, Poliedro, Nuoro, 2012; L. Bravi – G. Rocchiccioli – C. Balsamini (edd.), La civiltà specchio della morale: galateo pei giovinetti e specialmente per gli alunni dei Collegi compilato dal p. Alessandro Serpieri delle Scuole pie Rettore del Nobil collegio convitto di Urbino, Argalia, Urbino, 2013.


LEMMARIO




Concili ecumenici - vol. I


Autore: Norman TannerImmagine

Dei ventuno concili (a partire da Nicea Iº del 325 al Vaticano II° del 1962-5) che trovano il loro posto nella lista tradizionale dei concili ecumenici della Chiesa Cattolica – ovvero, i concili che rappresentano l’intera Chiesa (in Greco “oikoumenike”) – nove si svolsero interamente od in parte in Italia. Quattro di essi vengono trattati in questo Dizionario separatamente: Basilea-Firenze (1431-45), Trento (1545-63), il Vaticano I e il Vaticano II. Il presente articolo si concentra sugli altri cinque, i quali tutti si tennero nella Basilica Lateranense (o nel Palazzo annesso) in Roma: il Laterano I° nel 1123, il Laterano II° nel 1139, il Laterano III° nel 1179, il Laterano IV° nel 1215 e il Laterano V° nel 1512-17. La basilica Laterano, dedicata a San Giovanni Battista, rappresentò una scelta naturale per questi concili della Chiesa cattolica in quanto essa era la Chiesa cattedrale della diocesi di Roma. Oggi, sfortunatamente, poche parti della basilica e del palazzo sopravvivono dall’epoca dei concili, a causa dei incendi e successive ricostruzioni.

Questi cinque concili costituiscono un tratto fondamentale della storia della Chiesa. In ognuno di essi, inoltre, la Chiesa italiana fu ben rappresentata. Situati tra i due eventi epocali dello scisma Oriente-Occidente del 1054 e della Riforma Protestante del 1517, essi costituiscono la metà dei 10 concili ecumenici della Chiesa cattolica durante il periodo medievale.

Ci fu una esitazione all’interno della Chiesa Cattolica durante il periodo medievale riguardante lo status di questi 10 concili, inclusi pertanto i cinque tenuti a Roma, riguardante il fatto se essi dovessero essere considerati concili ecumenici o meno, con status identico a quello dei primi otto concili (da Nicea primo nel 325 a Costantinopoli IV nel 869-70) o piuttosto concili generali della Chiesa occidentale. Questa esitazione era dovuta principalmente alla assenza dei rappresentanti della Chiesa ortodossa. C’era la speranza che lo scisma fra la Chiesa cattolica e la Chiesa Ortodossa – il quale iniziò nel anno 1054 – fosse risolto e poi ci sarebbe stato un nuovo concilio pienamente ecumenico. Seguendo questa linea, il concilio di Costanza nel 1417 (sessione 39) parlò in modo cauto de “i concili generali tenuti al Laterano, Lione e Vienne”, senza enumerarli, in contrasto con il linguaggio più preciso utilizzato per indicare “gli otto santi concili universali” (in Latino universalia) del primo millennio, che vengono nominati individualmente.

Il dubbio sembrava essere stato risolto attraverso l’edizione dei decreti conciliari, Editio Romana, 4 volumi, che vennero pubblicati a Roma con piena autorità papale tra il 1608 e il 1612. Questa edizione diede ai 10 concili medioevali (e a Trento) lo stesso stato ecumenico dei primi otto concili. L’argomento ritornò alla luce, tuttavia, nella seconda metà del ventesimo secolo, specialmente con gli studi di Victor Peri e di Yves Congar, ed in modo più autorevole quando Papa Paolo VI descrisse i concili medievali come “concili generali della Chiesa occidentale” (generales synodos in occidentali orbe) invece che concili ecumenici (Acta Apostolicae Sedis, 1974, 620).

Laterano I. Non sono arrivati fino a noi Acta di questo concilio – probabilmente non ne fu emesso nessuno – quindi numerosi dettagli ci rimangono oscuri. Il concilio si riunì nel 1123, probabilmente dal 18 al 27 marzo. Esso venne convocato, presieduto, e pare, direttamente organizzato, da papa Callisto II. Alcune stime presumono il numero di partecipanti pari a circa trecento vescovi, numerosi abbati ed altri ecclesiastici, della Chiesa occidentale. Il lavoro principale fu la ratificazione del concordato di Worms, concernente l’investitura, che era stata conclusa tra papa Callisto e l’imperatore Enrico V nel settembre 1122. Il concilio trattò la canonizzazione di Corrado di Costanza (morto nel 976), il riconoscimento del pallium all’arcivescovo Adalberto di Brema-Amburgo, la lotta tra le chiese di Genova e di Pisa al riguardo dell’episcopato in Corsica, e la disputa tra gli arcivescovi di Canterbury e di York al riguardo del primato in Inghilterra. Inoltre promulgò 22 (o, secondo alcuni, 25) canoni di natura disciplinare. Questi canoni confermavano una serie di argomenti che erano stati il centro della politica papale durante il movimento della Riforma Gregoriana, ed includevano l’insistenza sul celibato dei sacerdoti, diaconi e suddiaconi (canoni 7 e 21). I canoni cercavano di preservare la Chiesa ed i suoi servizi da una indebita interferenza laica, mentre promuovevano varie forme di esercizio della pietà popolare, principalmente i pellegrinaggi.

Laterano II. Lo scisma papale, sorto nel 1130 con le elezioni incompatibili di Innocenzo II e di Anacleto II, ebbe fine con la morte di quest’ultimo nel 1138. Papa Innocenzo presiedette il secondo concilio Laterano durante il periodo di aprile dell’anno successivo, cercando di appianare una situazione tormentata. I trenta canoni emessi dal concilio seguirono da vicino nello spirito quelli del primo concilio Laterano ed essi possono essere considerati una estensione ulteriore del movimento della Riforma Gregoriana. La maggior parte della legislazione fu tratta dai canoni di vari concili locali tenuti durante i pontificati di Gregorio VII (1073-85), Urbano II (1088-99), Callisto II (1119-24) ed Innocenzo II (1130-43). Subito dopo molti di questi canoni lateranensi vennero incorporati nel Decretum di Graziano. La maggior parte dell’attenzione è in essi diretta verso la crescita morale del clero, considerando però importante anche la cura della stessa caratteristica per i laici.

Gli argomenti / i titoli dei 30 decreti testimoniano le caratteristiche generali: 1. Contro la simonia. 2. Nulla può essere donato per ottenere benefici o vantaggi sacri. 3. Nessuno può ricevere coloro che sono stati scomunicati dal loro vescovo. 4. Coloro che non desiderano cambiare il loro modo di procedere, anche dopo avere ricevuto un avvertimento dal loro vescovo, devono essere privati dei loro benefici ecclesiastici. 5. I beni degli ecclesiastici morenti non possono essere confiscati. 6. I suddiaconi che hanno preso mogli o concubine devono essere privati della loro posizione e dei loro benefici. 7. Nessuno può assistere alle messe dei sacerdoti che hanno preso mogli o concubine. 8. Le suore non possono sposarsi. 9. I monaci ed i canonici regolari non possono apprendere né il diritto né la medicina. 10. I laici non possono tenere il possesso né di decime né di chiese. 11. Sacerdoti, chierici, monaci, pellegrini, mercanti, e contadini ed i loro animali, dovrebbero essere lasciati in pace. 12. I giorni di tregua devono essere osservati. 13 Sugli usurai. 14. I cavalieri non possono prendere parte a giostre e tornei. 15. Chiunque colpisca o eserciti violenza fisica su un rappresentante del clero, o chiunque si stia recando in una chiesa o un cimitero, deve essere scomunicato. 16. Nessuno può reclamare benefici per se stesso per diritto ereditario. 17. Le unioni tra consanguinei sono proibite. 18. Sugli incendiari. 19. Al riguardo di un vescovo che assolva qualcuno scomunicato per avere appiccato incendi. 20. I principi possono dispensare giustizia in consultazione con i vescovi. 21. Sui figli dei sacerdoti. 22. Sulla falsa penitenza. 23. Al riguardo di coloro che condannano i sacramenti. 24. Nessun prezzo può essere domandato per i sacramenti, l’olio sacro e la sepoltura. 25. Nessuno può ricevere benefici dalle mani di un laico. 26. Le suore non possono vivere in case private. 27. Le suore non possono cantare gli uffici nello stesso coro con i canonici ed i monaci. 28. Elezioni episcopali. 29. Contro gli utilizzatori delle balestre e gli arcieri. 30. Le ordinanze emesse dagli scismatici non sono valide.

Laterano III. Così come era avvenuto col Laterano II, lo scisma papale formò una parte del contesto del terzo concilio Laterano. Papa Alessandro III, che era stato eletto nel 1159, dovette contendere con numerosi rivali prima di emergere vittorioso da tale contesa proprio poco tempo prima di convocare il concilio. Pace e riconciliazione si possono considerare i motivi chiave della convocazione del concilio; sebbene Alessandro abbia dovuto contendere con un ulteriore antipapa prima della sua morte, nel 1181. Il concilio si riunì nel marzo 1179 ed approvò 27 canoni, che erano stati preparati in precedenza da Alessandro e dalla curia papale. La lista sopravvivente di partecipanti portava i nomi di circa trecento vescovi e numerosi abbati. La rappresentazione territoriale era estremamente ampia, inclusi, tra i prelati italiani, alcuni ecclesiastici provenienti dalla Francia, dalla Germania, Inghilterra, Irlanda, Scozia, Dalmazia, Spagna, Danimarca, Ungheria e dagli stati delle crociate. Inoltre molti partecipanti vennero inviati da governanti cristiani.

Sebbene siano presenti chiare similitudini tra il Laterano III ed i due precedenti concili Laterani in quanto la tipologia del materiale è in gran parte disciplinare piuttosto che dottrinale, il Laterano III sia chiaramente più canonico nell’approccio e nella formulazione. La metà del 12º secolo aveva visto lo sviluppo del diritto canonico come disciplina, soprattutto all’Università di Bologna, e la compilazione del Decretum di Graziano. Papa Alessandro III era egli stesso un noto canonista, essendo stato in precedenza professore di diritto canonico a Bologna (1139-42) ed autore di un commentario sul lavoro di Graziano. Tuttavia, i decreti conciliari rappresentano, per la maggior parte, il diritto canonico al suo apice con le maggiori qualità pastorali, così come indicato da alcuni dei titoli: 3. Le qualità richieste in coloro che vengono scelti per governare la Chiesa. 4. Come i prelati siano tenuti a risiedere nello stesso territorio delle persone a loro soggette. 12. I clerici non dovrebbero intraprendere la gestione di affari secolari. 14. Nessuno può gestire più di una chiesa. 18. I prelati devono provvedere ai bisogni dei maestri di scuola. 21. Sulla osservanza delle tregue. 23. I lebbrosi possono avere le loro proprie chiese ed i propri cimiteri. Il tono di alcuni altri canoni è più severo: 20. I tornei sono proibiti. 26. I cristiani non possono vivere insieme agli ebrei o ai saraceni. 27. Sugli eretici.

Laterano IV. Di tutti i cinque concili laterani – anzi di tutti i dieci concili medievali ecumenici-generali – il quarto concilio Laterano fornì la legislazione più comprensiva e fu il più influente. Esso venne convocato da Papa Innocenzo III, un papa italiano nato ad Anagni, eletto al soglio pontificio alla giovane età di 37 anni. Innocenzo era nel completo controllo del papato quando il concilio si riunì nel 1215. Esso era stato annunciato due anni prima, ma se molta preparazione ebbe luogo presso le chiese locali fuori di Roma – così come era stato richiesto dal papato – è difficile da comprendere. Sembra chiaro, sebbene la precisione sia impossibile poiché non ci sono documenti Acta sopravvissuti del concilio, che i 71 decreti approvati infine dal concilio fossero stati stesi da Papa Innocenzo e dalla curia papale prima dell’inizio del concilio e che vennero accettati – in modo essenziale e solo con alcuni emendamenti – dal concilio. Il concilio ebbe luogo dall’11 al 30 novembre 1215. Ci furono solamente tre sessioni solenni: una sessione di apertura l’11 novembre, una seconda sessione in cui ci fu un animato dibattito riguardante i due candidati all’impero di Germania, e una terza sessione il 30 novembre quando i decreti furono approvati per acclamazione. I vescovi presenti erano circa quattrocento, rappresentanti ogni parte del cristianesimo occidentale, inoltre erano presenti abbati e priori, inviati di governanti cristiani, e rappresentanti di città.

Papa Innocenzo fu un canonista sia per inclinazione che per gli studi eseguiti. I decreti conciliari vennero incorporati nei Decretalia, la autorevole collezione di canoni della Chiesa occidentale che era stata pubblicata da Papa Gregorio IX nel 1234. Essi rimasero altamente influenti e normativi per la regolazione della vita della Chiesa attraverso tutto il periodo medievale. I decreti erano pastorali e spirituali tanto quanto canonici in senso stretto, anche se il loro linguaggio può apparire severo per i moderni ascoltatori. Il primo canone, un credo, introdusse la parola “transustanziazione” riguardante l’azione del sacerdote durante la messa. Inoltre esso conteneva questo linguaggio forte che il Vaticano II trovò difficile da riconciliare: “esiste pertanto una sola Chiesa universale di fedeli, al di fuori della quale nessuno può salvarsi”. La maggior parte degli altri canoni sono disciplinari piuttosto che dottrinali. 3. Istanze urgenti spinsero lo Stato e la Chiesa a cooperare nella condanna e nella espulsione degli eretici; il che indica un forte senso di cosa fosse l’eresia, una grave minaccia per il bene della comunità cristiana. 4. Il biasimo fu applicato allo scisma Oriente-Occidente e, in modo evidente, sulla Chiesa Ortodossa. 10. e 11. Si poneva come urgente il bisogno di una istruzione: fornire predicatori e stabilire scuole per l’insegnare a “clerici ed altri scolari poveri” la teologia e la scrittura tanto quanto “la grammatica ed altre branche degli studi”; una inclusiva e completa istruzione religiosa. 13. Si cercò di restringere il numero di nuovi ordini religiosi. 14-18. Ci si rivolse alla buona condotta del clero diocesano, includendo una rinnovata enfasi sul celibato. 19-20. Si focalizzò su un’adeguata manutenzione ed un buon ordine nelle chiese parrocchiali. 21. Si sottolineò il doppio compito dei laici riguardante la confessione annuale e l’effettuazione della comunione. 22. Ci si interessò alla cura spirituale dei morenti. 27. Si rinforzò il canone 11 relativo al bisogno di istruire coloro che si apprestavano ad essere ordinati al sacerdozio. Una serie di decreti seguiva su vari argomenti di diritto canonico.

Furono importanti i canoni 50 e 51, che rimangono ancor oggi basilari per la regolazione del matrimonio, in particolare insistendo sulla importanza delle pubblicazioni e sul fatto che la cerimonia dovesse essere eseguita esclusivamente dal parroco. 62. Si comandò di preservare e venerare in modo proprio le reliquie. L’argomento degli ebrei venne trattato nei canoni 67-70, che vennero intitolati “Sulla usura dei Giudei”, “Dovrebbe essere possibile distinguere gli ebrei dai cristiani in base ai loro vestiti”, “Gli ebrei non possono tenere pubblici uffici” e “Gli Ebrei convertiti alla fede cristiana non possono mantenere i loro vecchi riti”. Questi quattro canoni influenzarono profondamente l’attitudine cattolica nei confronti degli ebrei per molti secoli ed essi non possono facilmente riconciliarsi con l’insegnamento attuale. Tuttavia l’altro estremo della loro interpretazione dovrebbe essere evitato: non viene dato nessun ordine di uccidere gli ebrei, piuttosto essi devono essere protetti se vivono in pace con i cristiani.

Il decreto finale 71 dava indicazione per una nuova crociata per recuperare la Terrasanta e liberarla dall’occupazione mussulmana. Tale giusta guerra doveva essere considerata come difensiva, volta a recuperare una terra che una volta era appartenuta ai cristiani, come un dovere nei confronti di Gesù Cristo poiché essa era, secondo le parole del decreto, “La Sua Terra”.

Laterano V. Il quinto concilio Laterano ebbe luogo poco prima della Riforma Protestante. La sua convocazione fu il risultato di una controversia. In base alla giustificazione che il decreto Frequens del concilio di Constance (1414-18) – che autorizzò la regolare convocazione dei concili ecumenici – non era stato osservato per numerosi anni, alcuni cardinali italiani e francesi, supportati da re Luigi XII di Francia, convocarono un concilio che si riunì a Pisa dal 1511 al 1512. Allo scopo primario di aggirare questo concilio, piuttosto che soddisfare immediatamente i bisogni dottrinali o disciplinari, Papa Giulio II convocò il quinto concilio Laterano, che si riunì la prima volta nel 1512 e continuò sotto il suo successore Papa Leone X fino al 1517. Il concilio ebbe successo nel rimuovere la minaccia di Pisa. Ma sotto altri profili i suoi decreti appaiono modesti, in termini sia di riforma morale che di bisogno di rinnovamento dottrinale. Essi furono carenti nel rendersi conto della tempesta imminente della Riforma. Così, nel suo decreto finale, emesso solo sette mesi prima che Martin Lutero pubblicasse le sue 95 tesi a Wittemberg, il concilio dichiarò ciò che segue, nella quasi incredibile incoscienza di ciò che sarebbe seguito: “Infine, viene riportato a Noi (Papa Leone X) in numerose occasioni, dai cardinali e dai prelati dei tre comitati (del concilio), che non è rimasto nessun argomento da discutere a loro parere e che ormai da numerosi mesi nulla gli è stato riportato da nessuna persona”. Numerose delle prime sessioni del concilio furono dedicate ai decreti che condannavano il concilio scismatico di Pisa. Altri decreti condannavano la “Sanzione Pragmatica” del 1438 in cui il clero francese aveva dichiarato misure sostanziali di indipendenza rispetto al papato. Il filosofo italiano Pomponazzi fu condannato per la sua ottica scorretta sull’immortalità dell’anima. Furono emessi vari decreti contro l’abuso della simonia, sulla riforma della curia e del collegio dei cardinali, sulla predicazione e sulla stampa dei libri, sulla promozione della pace tra i regnanti cristiani, sulle crociate “contro i nemici della fede cristiana”, sulle cooperative di credito (Montes Pietatis) fondate per aiutare i poveri, e sugli ordini religiosi. Il Laterano V finì così poco tempo prima dell’inizio della Riforma Protestante. Tale fatto aiuta a spiegare come mai il papato non desiderasse convocare un altro concilio subito dopo la frattura provocata dalla Riforma nonché, come risultato, perché siano stati necessari quasi trent’anni prima che finalmente il concilio di Trento avesse inizio.

Fonti e Bibl. essenziale

G. Alberigo e altri (eds.), Conciliorum Oecumenicorum Decreta: edizioni bilingue (Bologna, Edizioni Dehoniane, 1991), 187-271 e 593-655, contiene i testi Latini originali dei decreti dei cinque concili Laterani insieme ad una traduzione italiana. Gli stessi testi Latini, insieme con un apparato critico leggermente più ampio, ma senza una traduzione italiana, si trovano in G. Alberigo e A. Melloni (eds.), Conciliorum oecumenicorum generaliumque decreta: edizione critica, 3 vols. (Turnhout: Brepols, 2006-2013), voll. II.1 e II.2. Ambedue le edizioni contengono una introduzione (in inglese per l’edizione di 2006-13) e una bibliografia per ciascuno concilio. Anche utile è G. Dumeige (ed.), Storia dei concili ecumenici (Libreria Editrice Vaticana, 1994-2001), voll. 5 e 9. Tra le corte narrazioni storiche, le seguenti possono essere raccomandate: G. Alberigo (ed.), Storia dei concili ecumenici (Brescia: Queriniana, 1990); N. Tanner, I concili della Chiesa (Milano: Editrice Jaca Book, 1999), e per il contesto più ampio, idem, Nuova breve storia della chiesa cattolica (Brescia: Queriniana, 2012), cap. 3; Storia dei Concili ecumenici. Attori, canoni, eredità, O. Bucci – P. Piatti (edd.), Città Nuova 2014.

Immagine: Innocenzo III convoca i vescovi al Conclio Laterano IV (Chronicon Major, di Matthew Paris (+1259), manoscritto del XIV secolo, Courtauld Institute, London)


LEMMARIO




Concili, Sinodi - vol. I


Autore: Gaetano Greco

Con i termini sinodo e concilio s’intendono le assemblee di ecclesiastici, nelle quali sin dai primi secoli dell’affermazione del Cristianesimo sono stati discussi e deliberati aspetti e problemi riguardanti il governo della Chiesa, nella sfera spirituale (osservanza dell’ortodossia, amministrazione dei sacramenti, disciplina ecclesiastica, cura delle anime, cerimonie sacre e loro liturgia, culto dei santi ecc.) e temporale (come la distribuzione dei carichi fiscali, difesa dei privilegi, relazioni con le autorità civili ecc.). I due termini sono equivalenti, ma con il passare dei secoli è invalso l’uso di indicare con maggiore precisione con l’espressione “sinodo diocesano” l’assemblea dei sacerdoti (ma per lungo tempo anche dei laici più importanti per ruolo politico) di una diocesi presieduta dal vescovo e con l’espressione “sinodo provinciale” (o anche “concilio provinciale” o particolare) la riunione dei vescovi di una provincia ecclesiastica presieduta dal suo metropolita. Sulla base di questa distinzione la dottrina della Chiesa cattolica si è attestata nel negare all’assemblea sinodale diocesana una potestà legislativa, pur nel solo ambito della Chiesa locale, attribuendo questa potestà solo al vescovo: l’assemblea avrebbe solo una funzione consultiva e, di fatto, servirebbe al vescovo per pubblicare e illustrare il diritto vigente nella Chiesa universale e in quella locale (più recentemente, cf. l’Istruzione sui sinodi diocesani della Congregazione per i Vescovi e della Congregazione per l’evangelizzazione dei Popoli del 19 marzo 1997, e il Direttorio per il Ministero Pastorale dei Vescovi Apostolorum successores del 22 febbraio 2004). Da parte sua, sin dagli inizi dell’età moderna la ricerca storica è impegnata nel reperimento di fonti e notizie sullo svolgimento di sinodi diocesani e concili provinciali: edizioni di fonti, dalla raccolta generale intrapresa nella prima metà del Settecento da Giovanni Domenico Mansi sulla scia del Merlin, del Labbé, del Coleti e altri ancora, a collezioni di testi locali, sia per iniziativa diretta di vescovi (come il Synodicon della Chiesa beneventana, pubblicato dall’arcivescovo Vincenzo Maria Orsini all’inizio del Settecento), sia per iniziativa di eruditi (come nel caso dei sinodi lucchesi editi da Paolino Dinelli); individuazione ed edizione di testi dimenticati dalla memoria locale; reperimento di tracce documentarie anche al di fuori delle fonti documentarie. Lavori ancora in corso, che riguardano non solo le epoche più lontane, ma anche i secoli dell’età moderna, quando non tutti gli atti dei sinodi diocesani raggiunsero la dignità di una pubblicazione a stampa, vuoi per carenza di risorse finanziarie da parte dei vescovi, vuoi per gli ostacoli e le dilazioni imposte dagli uffici della Curia romana in disaccordo su questo o quel punto delle norme sinodali, sia per timore di possibili turbative alla preminenza papale e curiale, sia anche su istigazione di componenti della Chiesa locale, colpite dalle decisioni vescovili.

Probabilmente i sinodi diocesani nacquero e si affermarono nelle regioni e nei periodi storici, nei quali i concili provinciali o non si affermarono o entrarono in crisi (Longhitano). I primi documenti scritti ne fanno menzione già agli inizi del VI secolo (Lex Romana Visigotorum) e nei secoli successivi non mancarono assisi diocesane, convocate dal vescovo per affrontare particolari problemi locali, anche di tipo giudiziario, ma solo nel Concilio Lateranense IV del 1215 l’istituto sinodale ebbe un pieno riconoscimento e una normazione: in quella sede fu previsto che i sinodi diocesani dovessero svolgersi con cadenza annuale, sotto la presidenza del vescovo o di un suo rappresentante. Col tempo si andarono stabilizzando le materie oggetto dei sinodi: l’integrità della dottrina, l’amministrazione dei sacramenti, l’ordine delle feste ecclesiastiche e le regole per il rispetto dei luoghi sacri, la disciplina dei chierici e dei laici, il conferimento e l’amministrazione degli uffici ecclesiastici. Quanto ai partecipanti, le assemblee furono ristrette al solo clero, e più in particolare ai canonici, ai vicari forensi, ai pievani e agli altri curati; nel contempo i vescovi chiedevano la partecipazione anche degli abati e degli altri prelati della diocesi, suscitando – ancora fino alla fine dell’età moderna – la resistenza di questi ecclesiastici, che erano ben consapevoli del fatto che la loro semplice presenza poteva significare l’accettazione del diritto promulgato in quella sede dall’ordinario diocesano.

Fra Quattro e Cinquecento la documentazione sulle assemblee sinodali locali e provinciali è scarsa, e persino lo stesso Concilio provinciale fiorentino del 1516-18, indetto da Giulio de’ Medici (poi papa Clemente VII) sulla scia del V Concilio Lateranense, pare che non abbia dato alcun risultato sul piano di una riforma disciplinare della Chiesa della provincia fiorentina e delle diocesi contermini, assoggettate al governo politico dei parenti dello stesso Giulio. La situazione cambiò radicalmente dalla metà del XVI secolo. Nel 1960, nel suo catalogo bibliografico degli atti sinodali italiani a stampa padre Silvino Da Nadro ha schedato 1762 titoli, partendo da un sinodo bolognese del 1535 e giungendo fino al sinodo torinese del 1878: dopo la conclusione del Concilio di Trento si ebbero quasi 460 sinodi nel cinquantennio successivo e altri 430 nel mezzo secolo seguente; poi si verifica una lieve flessione (234 nel 1716-1765), seguita da un crollo nel periodo compreso fra l’età delle riforme illuministiche e gli anni della rivoluzione. Nella XXIV sessione (1563), in effetti, il Concilio intervenne con decisione su questa materia, confermando l’obbligo per ogni vescovo di celebrare di persona il sinodo diocesano almeno una volta l’anno (così anche a Basilea nel 1433) e per i metropolitani di radunare ogni tre anni i concili provinciali da troppo tempo trascurati. Cominciò allora una ricca stagione sinodale e conciliare, non priva di ricadute concrete, anche se non immediate né uniformi ed esaustive, nella disciplina dei chierici e dei laici, nella riorganizzazione e nel rinnovamento delle istituzioni ecclesiastiche locali (dai capitoli alle parrocchie, dai monasteri femminili alle confraternite laicali), nella repressione dei persistenti residui e delle nuove forme di paganesimo, nell’emarginazione civile degli ebrei, nella cristianizzazione dei riti individuali e comunitari. In questa fase d’intensa attività assunse un ruolo di guida il card. Carlo Borromeo, arcivescovo di Milano, con i suoi Acta Ecclesiae Mediolanensis, nei quali fu pubblicato il ricco corpus legislativo emanato nel corso dei sei concili provinciali celebrati fra il 1565 e il 1582: questi costituiranno nei decenni successivi il modello esplicito di riferimento per l’attività sinodale dei vescovi italiani. Tuttavia, almeno per tutta l’età moderna, l’analisi particolare permette di rilevare il persistere di modelli diversificati, anche in relazione alle differenti condizioni socio-economiche e culturali delle regioni italiane: «Ci sono sinodi che si rifanno al modello borromeano e sinodi che di rifanno a modelli di epoche successive anche se tutti si riferiscono essenzialmente ai decreti tridentini […] Ci sono sinodi che riflettono direttamente la realtà religioso-sociale a livello diocesano; ci sono sinodi prescrittivo-normativi strettamente aderenti ai dettati del Concilio di Trento senza nulla aggiungere o togliere; sinodi in cui prevale l’aspetto giuridico-formale e quelli più intimamente legati alla realtà religiosa riscontrata dai vescovi nelle loro visite pastorali; ci sono sinodi stereotipi e sinodi più aderenti ai tempi ed all’evoluzione della società» (Cestaro).

Lo studio delle singole situazioni locali permette di individuare l’impegno dei vescovi in questo settore dell’azione pastorale (come nel caso delle visite), ma consente anche di individuare anche l’esistenza di ostacoli politici alle iniziative dei vescovi e, più ancora, dei metropoliti: la non coincidenza fra province ecclesiastiche e confini statali frenava o impediva la convocazione dei concili provinciali (per es., gli arcivescovi di Pisa non hanno mai riunito in epoca moderna i vescovi corsi loro suffraganei, perché la Corsica dipendeva dalla Repubblica di Genova). Con gli inizi del Seicento, poi, sopravvenne una lunga fase di stasi: gli atti sinodali a stampa del periodo ripetono stancamente le medesime formule. Negli ultimi decenni dello stesso secolo e nei primi del Settecento s’intravedono netti i segni di un rinnovato impegno da parte dell’episcopato italiano nella cura pastorale e nella riforma disciplinare, segnato da una nuova ondata di sinodi diocesani, spesso editi a stampa con un ricco corredo di decreti vescovili, di documenti pontifici e di provvedimenti emanati dalle congregazioni romane. Sempre alla prima metà del Settecento risalgono il concilio provinciale romano del 1725 (voluto dall’Orsini, ora papa Benedetto XIII) e la pubblicazione di due opere, che avrebbero dovuto costituire il riferimento essenziale per la celebrazione dei sinodi diocesani: il Promptarium Synodale di Giovanni Battista Braschi (1727), e il De Synodo Dioecesana di Prospero Lambertini, scritto durante l’episcopato bolognese e pubblicato nel 1748 (sarà poi accresciuto e parzialmente modificato nelle edizioni successive). Strumento di pronto uso per i vescovi, il primo, e analisi problematica in un’ottica giuscanonista e curiale, il secondo, queste due opere sono la testimonianza del punto di arrivo e del consolidamento di una tradizione gerarchica, che utilizzava l’assemblea sinodale non già come occasione di consultazione, discussione e condivisione di temi e soluzioni fra il vescovo e il suo clero, bensì come catena di trasmissione di decisioni assunte nel centro della cattolicità e trasferite alla lettera nelle periferie per il tramite dei vescovi. In effetti, nel sinodo diocesano era assai limitata anche quell’autorità episcopale, che pure nella sede assembleare appariva come assoluta, poiché in essa il vescovo promulgava e pubblicava leggi, sulle quali i presenti avevano tutt’al più un diritto di consultazione. D’altronde, l’angustia dei poteri normativi dei vescovi emerge in più punti proprio dall’opera di Lambertini, che costellò la sua opera di paletti e di ostacoli, per impedire agli ordinari diocesani di sottrarre prerogative acquisite da secoli dalla Curia romana o, persino, di portare a conoscenza dei loro fedeli materie e soluzioni adottate, con il consenso dei pontefici, in altre regioni della cattolicità (come nel caso del matrimonio dei cattolici con acattolici). Non è casuale che durante il suo episcopato, esteso anche nei primi anni del suo pontificato, Lambertini non convocò mai un’assise sinodale, preferendo fare sentire e leggere i suoi voleri tramite quelle Notificazioni, di cui fece stampare una ricca silloge.

Pochi decenni dopo il vescovo giansenista di Prato e Pistoia Scipione de’ Ricci definì «pestifero» il libro di Lambertini e «zibaldone alla beneventana» quello del Braschi. Nelle sue memorie il Ricci collegava questi «due zibaldoni o repertorii di legali forensi» a una lettera convocatoria sinodale del vescovo Mancini di Fiesole, nella quale questi «si affatica malamente […] per istruire i parrochi di quel che non debbono fare né esaminare, e molto meno decidere in punto di dottrina e di disciplina ecclesiastica; in modo che, dopo aver detto che i concili erano utili tanto e necessari nella primitiva Chiesa, viene a provare il contrario pei tempi presenti, e dissuade indirettamente il clero e i parrochi dallo intervenire all’adunanza per cui gli invita» (Ricci, vol. I p. 401-402). In aperto contrasto con questa tradizione, nel Sinodo diocesano pistoiese del 1786 lo stesso Ricci giunse a proporre, nel contesto di un ampio progetto di riforma religiosa che spaziava dalla preparazione dottrinale del clero fino agli aspetti liturgici dell’espressione pubblica del sacro, un nuovo modello ecclesiologico fondato sulla cooperazione e l’interazione del vescovo con i suoi parroci. Condannato nel 1794 da Pio VI con la bolla Auctorem fidei, questo Sinodo ha rappresentato l’espressione più avanzata del riformismo interno alla Chiesa locale, in virtù della presenza nel suo programma di alcune istanze, che sono sopravvissute a lungo, seppure nascostamente, in alcune componenti della cultura cattolica italiana fino al Concilio Vaticano II. Intanto, nel 1787 si tenne per volontà del granduca Pietro Leopoldo una grande assemblea dei vescovi del Granducato, con il duplice intento di fondare una “Chiesa nazionale” e di accelerare le riforme ecclesiastiche grazie all’esplicito consenso della gerarchia episcopale toscana. Nell’un caso come nell’altro la politica granducale subì un’apparente sconfitta, perché i vescovi toscani, sotto l’accorta guida dell’arcivescovo di Pisa Angelo Franceschi, riuscirono a bloccare le proposte ritenute più eversive. Ma questo risultato ufficiale andrebbe poi verificato sulla base di ricerche locali, diocesi per diocesi: qui, infatti, i vescovi toscani mostrarono spesso di essere degli affidabili collaboratori del sovrano nell’applicazione concreta delle sue riforme. Anzi, Pietro Leopoldo non doveva certo essere insoddisfatto del suo episcopato, se gli affidò la gestione effettiva di tutte le nomine dei curati, già spettanti agli enti pubblici, e se nella complessa ristrutturazione di tutto il sistema della giustizia ecclesiastica regionale, seguita all’abolizione del Tribunale d’appello presso la Nunziatura Apostolica a Firenze, pose al suo vertice proprio quei tre arcivescovi di Firenze, Siena e Pisa, che pure avversavano pubblicamente le componenti “gianseniste” del riformismo religioso toscano.

Dopo la parentesi napoleonica, riprese l’attività sinodale dei vescovi italiani, pur con moderazione: Silvino da Nadro ha rintracciato centoventi edizioni di atti sinodali diocesani fino al 1878. Il sinodo pistoiese e l’assemblea dei vescovi della Toscana avevano fatto emergere due “tentazioni” fortemente invise all’ecclesiologia “romana”, decisamente assestata su una concezione gerarchica e centralistica: il parrochismo nei sinodi diocesani e il conciliarismo episcopalista nelle assisi dei vescovi su base statale. La ritrovata alleanza fra trono e altare nella Restaurazione, prima, e, dopo, il dichiarato non-interventismo dello Stato liberale negli affari interni della Chiesa consentirono alla Santa Sede di spegnere queste aspirazioni e di utilizzare i sinodi diocesani e i concili provinciali come strumento di trasmissione del diritto romano dal centro alle periferie. Come ha scritto Silvio Ferrari, «il “figurino” sinodale è unico, ispirato ad una ecclesiologia di stampo giuridico che esalta il momento gerarchico della comunità cristiana. Dopo il definitivo tramonto degli aneliti riformisti del clero parrocchiale settecentesco i vescovi sono rimasti i soli padroni del terreno sinodale: ma – sotto l’azione combinata delle spinte accentratrici interne alla Chiesa cattolica, della rigida politica di nomine episcopali inaugurata da Pio IX e del declino degli interventi sovrani nella scelta dei vescovi – questa vittoria si è risolta in una marcata tendenza ad importare ed applicare a livello locale le direttive provenienti dal centro, depotenziando il rilievo della realtà socio-religiosa diocesana che può essere colta, nei sinodi, soltanto attraverso una attenta lettura in filigrana di costituzioni largamente uniformi».

Fonti e Bibl. essenziale

Acta Ecclesiae Mediolanensis ab eius initiis usque ad nostram aetatem, A. Ratti ed., Milano, Raffaele Ferrari ed., 1890-1900; Benedictus XIV, De Synodo dioecesana libri octo, Roma, Niccolò e Marco Palearini, 1748 (e successive edizioni ampliate e modificate); G.B. Braschi, Promptuarium synodale in quo ad commodum Episcoporum omnium, aliorumque Ordinariorum habentium Jus convocandi Synodum Dioecesanum, Roma, F. Zinghi e G. Monaldi, 1727; P. Caiazza, Tra stato e papato. Concili provinciali post-tridentini (1564-1648), Roma, Herder, 1992; Id., La prassi sinodale nel Seicento: un «buco nero»?, in «Ricerche di Storia Sociale e Religiosa», XXVI (1997), n. 51, 61-109; A. Cestaro, Sinodi e parrocchie nell’Italia moderna, in Il sinodo diocesano nella teologia e nella storia, Atti del convegno di Studi, Catania 15-16 maggio 1986, Catania 1987 («Quaderni di Synaxis», 3), 129-148; P. Dinelli, Dei Sinodi della Diocesi di Lucca, in Memorie e documenti per servire all’istoria del Ducato di Lucca, Lucca, F. Bertini, 1834, vol. VII; M.T. Fattori, “Acciò i vescovi latini siano ben informati di tutto”: la seconda edizione del De Synodo dioecesana di Benedetto XIV, in «Cristianesimo nella storia» XXVIII, 2007, 543-608; Ead., “In Synodo, extra Synodum: limiti del consenso in età tridentina, in «Cristianesimo nella storia», XXXIII, 2011, 945-973; S. Ferrari, I Sinodi diocesani in Italia: criteri metodologici per il loro studio, in «Ius canonicum», XXXIII (1993), n. 66 pp. 713-733; L. Fiorani, Il Concilio romano del 1725, Roma, Ed. di Storia e Letteratura, 1978; G. Giarrizzo, Sinodi diocesani e politica delle riforme nel regno di Napoli (sec. XVII), in Il sinodo diocesano… cit., 105-128; A. Longhitano, La normativa sul sinodo diocesano dal concilio di Trento al codice di diritto canonico, in Il sinodo diocesano… cit., 33-85; M. Mariotti, Concili provinciali e sinodi diocesani postridentini in Calabria, in «Rivista di Storia della Chiesa in Italia», XXI, 1967, 461-481, e XLI, 1987, 111-127; D. Menozzi, Prospettive sinodali nel Settecento, in «Cristianesimo nella storia», VIII, 1987, 115-146; M. Miele, Concili provinciali e rapporti interdiocesani tra ’400 e ’500, in G. De Sandre Gasparini – A. Rigon – F. Trolese – G.M. Varanini edd., Vescovi e diocesi in Italia dal XIV alla metà del XVI secolo, Atti del VII Convegno di Storia della Chiesa in Italia (Brescia, 21-25 settembre 1987), Roma, Herder, 1990, I, 259-294; C. Pioppi, I concili provinciali della Chiesa Cattolica di rito latino dal 1648 al 1914: uno sguardo d’insieme, «Annales theologici», XX, 2006, 393-406; S. de’ Ricci, Memorie di Scipione de’ Ricci… scritte da lui medesimo, Firenze, Le Monnier, 1865; M. Rosa, Il movimento riformista liturgico, devozionale, ecclesiologico, canonico, sfociato nel sinodo di Pistoia, in «Concilium», 1966, n. 5, 113-127; Silvino da Nadro OFMCap., Sinodi diocesani italiani. Catalogo bibliografico degli atti a stampa 1534-1878, Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana, 1960; I sinodi diocesani siciliani del ’500, numero monografico di «Synaxis», XIX/2, 2001; Il Sinodo di Pistoia del 1786, Atti del convegno internazionale per il secondo centenario, C. Lamioni ed., Roma, Herder, 1991; A. Tilatti, Sinodi diocesani e concili provinciali in Italia nord-orientale fra Due e Trecento. Qualche riflessione, in «Mélanges de l’Ecole française de Rome. Moyen-Age, Temps modernes», CXII, 2000, 273-304; R.T. Trexler, Diocesan Synods in Late Medieval Italy, in Vescovi e diocesi in Italia dal XIV alla metà del XVI secolo, Atti del VII Convegno di Storia della Chiesa in Italia (Brescia, 21-25 settembre 1987), G. De Sandre Gasparini, A. Rigon, F. Trolese e G. M. Varanini edd., Roma, Herder, 1990, vol. I, 295-335; A. Turchini, Pastorale e riforma della chiesa fra ’600 e ’700: il “Synodicon” del cardinal Orsini, in «Rivista di Storia e Letteratura Religiosa», XIX (1983), 388-414.


LEMMARIO




Concilio di Trento - vol. I


Autore: Elena Bonora

Fu convocato a Mantova nel 1536, poi a Vicenza e nel 1542 a Trento, città dell’Impero al di qua della Alpi sottoposta all’autorità del principe-vescovo, e quindi luogo adatto alla mediazione con i protestanti, ma fu subito sospeso a causa della guerra tra Carlo V e il re di Francia. Dopo tanti rinvii, indetto nuovamente da Paolo III Farnese con la bolla Laetare Jerusalem nel novembre 1544, fu solennemente aperto il 13 dicembre 1545 a Trento. Di qui nel marzo del 1547 fu trasferito a Bologna, città pontificia. La traslazione, motivata da Roma con il diffondersi di un’epidemia, provocò la protesta ufficiale di Carlo V. Mentre i vescovi filoimperiali restavano a Trento e tra gli osservatori contemporanei si diffondeva il timore dello scisma, la sguarnita assemblea conciliare si prolungò stentatamente a Bologna sino alla morte del papa nel novembre 1549 (prima fase). Riaperto a Trento da Giulio III Del Monte nel maggio 1551 e nuovamente sospeso un anno dopo per la ripresa delle ostilità franco-asburgiche (seconda fase), il concilio non fu riconvocato durante il pontificato dell’intransigente Paolo IV Carafa, impegnato in una rovinosa politica anti-imperiale e anti-spagnola. Fu riaperto a Trento solo il 18 gennaio 1562 sotto il successore, il milanese Pio IV Medici, e portato a termine a tappe forzate il 4 dicembre 1563 (terza fase). Vi parteciparono, oltre ai vescovi, anche un folto numero di teologi e canonisti privi del diritto di voto, i generali e gli abati degli ordini regolari nonché, in qualità di osservatori, gli ambasciatori delle grandi potenze che avevano un forte peso sui loro episcopati. I lavori si svolsero sotto il saldo controllo di cardinali legati pontifici. Se durante le prime due fasi l’affluenza dei vescovi era stata scarsa e prevalentemente italiana, nella terza vi fu una consistente partecipazione anche di spagnoli e francesi.

Le due massime autorità dell’Europa cristiana – il papa e l’imperatore – guardavano al concilio da diverse prospettive. Nelle intenzioni dell’imperatore esso avrebbe dovuto in via preliminare affrontare le questioni disciplinari con una severa riforma dei costumi ecclesiastici e della corte romana: ciò avrebbe permesso di dividere e indebolire il fronte dei principi protestanti organizzati nella lega di Smalcalda contro i quali era imminente la guerra, ponendo nel contempo le premesse per una conciliazione della cristianità. Il pontefice invece, temendo un attacco alla propria autorità e al sistema ecclesiastico-istituzionale su cui si basava, premeva per la definizione delle questioni teologiche contro le dottrine di Lutero. A Trento si decise di trattare simultaneamente i due ordini di problemi, ma sin dalla prima fase furono approvati una serie di decreti che sancirono la rottura con il mondo riformato.

Nonostante le voci dissenzienti, il prevalere delle posizioni teologiche dei grandi ordini mendicanti condusse al decreto del gennaio 1547 che ribadì il valore salvifico delle opere contro la giustificazione sola fide dei protestanti. La volontà di una netta definizione dell’ortodossia e l’irrigidimento delle posizioni confessionali furono evidenti anche sul nodo decisivo delle fonti della Rivelazione. Contro il sola Scriptura dei luterani si stabilì infatti l’eguale importanza della tradizione orale amministrata dalla Chiesa; fu fissato il canone della bibbia; si dichiarò che la Vulgata di s. Girolamo era la sola traduzione latina autorizzata. La dottrina del peccato originale fu parimenti definita in chiave anti-protestante; i sacramenti (dei quali si ribadì il significato di «segni efficaci della grazia», cioè il valore salvifico per il fedele) furono confermati nel numero di sette contro i due ammessi dalla dottrina luterana (battesimo ed eucaristia). Furono decretati il carattere di sacrificio della messa e l’uso del latino nella liturgia. Più avanti furono riaffermati l’esistenza del Purgatorio, la validità delle indulgenze, il culto dei santi e della Vergine.

I decreti relativi alla riforma delle strutture ecclesiastiche non riguardarono gli organi di governo romani, vertici mai neppure lambiti dai dibattiti tridentini, ma la riorganizzazione delle chiese locali attraverso il potenziamento del ruolo dell’episcopato. Ciò avvenne soprattutto nella terza fase, allorché la consistente partecipazione di vescovi francesi e spagnoli rese più difficile per la curia romana il controllo dei dibattiti conciliari, come mostrano gli aspri scontri sull’obbligo della residenza che, qualora dichiarato di diritto divino, avrebbe privato i dicasteri romani e il papa della possibilità di concedere dispense in deroga.

Al fine di combattere il diffuso fenomeno dell’assenteismo si vietò il cumulo dei benefici con cura d’anime, imponendo l’obbligo della residenza per vescovi e parroci. Si decretò l’erezione di seminari per la formazione del clero diocesano, cui furono imposti con nuova rigidità il celibato ecclesiastico e l’abito talare allo scopo di instaurare quella separatezza tra chierici e laici che la dottrina luterana del sacerdozio universale negava. Richiamando in vigore antiche prescrizioni si rinnovarono l’obbligo per l’ordinario o i suoi collaboratori di effettuare le visite pastorali; si prescrisse la convocazione triennale dei concili provinciali e quella annuale dei sinodi diocesani.

Sinodi e concili erano le sedi per l’esercizio delle funzioni legislative e di governo delle chiese locali sotto l’autorità del vescovo, mentre le visite pastorali rappresentavano il momento della verifica e del controllo oltre che degli ecclesiastici, anche della vita religiosa dei fedeli. Nei loro confronti, i parroci furono incaricati di organizzare scuole per insegnare la dottrina cristiana, della redazione dei registri parrocchiali dove annotare battesimi, matrimoni sepolture e della compilazione degli status animarum (stati delle anime) dove veniva registrato l’assolvimento dei precetti religiosi da parte dei parrocchiani tenuti alla confessione e alla comunione annuali. L’imposizione di forme rituali (i sacramenti) rigidamente definite e controllate dalla Chiesa e la clericalizzazione delle tappe fondamentali della vita umana modificarono, non senza tenaci resistenze, pratiche sociali diffuse e consolidate, come dimostra il profondo cambiamento della disciplina matrimoniale introdotto dal decreto conciliare Tametsi dell’11 novembre 1563.

A conclusione dei lavori, l’assemblea affidò al papa alcune importanti integrazioni tra le quali la pubblicazione dell’indice dei libri proibiti (1564), la redazione del catechismo per i parroci (1566) e la riforma dei libri liturgici (1568-1570). Nel caso del catechismo, però, il progetto di un agile e chiaro testo su modello erasmiano auspicato da molti padri a Trento trovò ben diversa realizzazione nel Catechismus romanus, ponderosa sintesi teologica redatta da tre domenicani.

Il decreto tridentino del 1546 aveva stabilito contro il libero esercizio della critica testuale di filologi e umanisti che la Vulgata era l’unica traduzione latina della bibbia ammessa dalla Chiesa. Solo nel 1592 e dopo varie traversie l’edizione ufficiale fu pubblicata e imposta d’autorità ai cattolici. Un’altra integrazione alla normativa conciliare fu la professio fidei (14 novembre 1564), ossia la professione di fede obbligatoria per ecclesiastici ma anche per medici e maestri all’atto di assunzione del loro ufficio, che riassumeva i principi dottrinali fissati dal concilio e si concludeva con la promessa di obbedienza all’autorità papale.

Nel corso delle ultime delicate battute del concilio era fallito il progetto (utilizzato da Roma anche come strumento di pressione politico-diplomatica) di affrontare la «riforma dei principi», ossia di far approvare misure atte a salvaguardare la giurisdizione ecclesiastica rispetto ai poteri civili. I sovrani opposero privilegi e diritti dei loro stati, rafforzati da quei concordati e concessioni papali che tra Quattro e Cinquecento avevano accentuato il carattere nazionale delle loro Chiese e la subordinazione di queste all’autorità del re. Di tali aspetti occorre tener conto nel valutare la ricezione europea del concilio. Prontamente accolta dagli stati regionali italiani, dal Portogallo e dalla Polonia, la normativa conciliare fu infine ufficialmente approvata da Filippo II di Spagna ma con limitazioni verso quei decreti considerati lesivi delle prerogative regie. Nell’Impero la pubblicazione del concilio si rivelò impossibile così come in Francia dove si scontrò con la tradizione gallicana, largamente condivisa dalle massime istituzioni civili del regno e dallo stesso clero francese, nonché con gli assetti giuridico-istituzionali originati dalle guerre di religione. Il re di Francia quindi non confermò i decreti tridentini neppure quando furono infine approvati dall’Assemblea del clero nel 1615.

Con la bolla Benedictus Deus (30 giugno 1564) Pio IV promulgò i decreti tridentini avocandone l’interpretazione alla congregazione cardinalizia del Concilio appositamente istituita per risolvere i problemi e i dubbi che le innovazioni avrebbero creato nella loro applicazione, e in seguito incaricata anche di valutare la congruità con la normativa tridentina della produzione legislativa dei vescovi a livello locale.

Si trattava di una straordinaria affermazione del centralismo romano ottenuta attraverso la secretazione e il monopolio dell’interpretazione delle norme conciliari. La Santa sede bloccò infatti la già annunciata edizione degli atti (che fu realizzata solo a partire dal 1901) e vietò tassativamente di stampare senza autorizzazione papale ogni commento o glossa ai suoi decreti, cui si aggiunse in seguito la proibizione di pubblicare senza licenza i decreti della congregazione cardinalizia del Concilio.

Negli anni successivi il disegno di rinnovamento basato sul rafforzamento della funzione episcopale e della parrocchia si dovette confrontare oltre che con le tenaci resistenze provenienti dalla società e dalle autorità civili, anche con gli ostacoli frapposti da logiche e componenti interne all’istituzione ecclesiastica. L’esigenza strutturale del papato di impiegare gli ordinari negli incarichi istituzionali connessi al governo della Chiesa e dello stato pontificio fu spesso all’origine dell’inadempienza dell’obbligo tridentino della residenza. Lo strumento della deroga di concessione papale incise anche sulle facoltà di reclutamento del clero diocesano da parte del vescovo, dal momento che attraverso il meccanismo della resignazione molti cardinali nel rinunciare a un vescovato non solo trattenevano una parte preponderante delle sue entrate, ma potevano riservarsi il diritto di nomina ai benefici vacanti di collazione vescovile nella diocesi cui avevano rinunciato. La stessa selezione dei vescovi fu accentrata in curia e condotta sulla base delle informazioni provenienti dai nunzi delegati papali, laddove invece il Tridentino aveva attribuito un importante ruolo ai concili provinciali nel vaglio dei candidati.

Per aggirare il divieto del cumulo di benefici fissato dal concilio, le mense episcopali furono gravate di pensioni istituite a vantaggio di terzi accordate direttamente dal papa che ne decurtavano l’entità in misura ben superiore alla percentuale massima (1/3) consentita dai canoni conciliari. In questo modo le entrate per mezzo delle quali i vescovi avrebbero dovuto finanziare le riforme (ad es. l’erezione dei seminari) venivano dirottate a favore di cardinali, di curiali e persino dei tribunali inquisitoriali, secondo una logica da cui emerge come i pontefici privilegiassero il rafforzamento del proprio patronage e il consolidamento degli apparati coercitivi della Chiesa piuttosto che il rinnovamento tridentino delle chiese locali.

Occorre inoltre ricordare come l’esercizio delle prerogative dell’Inquisizione, progressivamente allargatesi dall’eresia teologica al campo del controllo sociale, interferisse sovente in modo conflittuale oltre che con l’attività giudiziaria svolta dai tribunali episcopali, anche con il governo pastorale del vescovo e con i progetti di riforma fondati sulla sua autorità. Ma soprattutto, i vescovi non potevano contare sull’appoggio della Santa sede contro quanti – chierici e laici – continuamente si rivolgevano ai dicasteri centrali (come la congregazione dei Vescovi e regolari) o ai tribunali delle nunziature rivendicando esenzioni e privilegi per sottrarsi alla giurisdizione dell’ordinario. E se i ricorsi a Roma erano di norma in grado di legare le mani ai vescovi, specie a quelli più deboli ed esposti dell’Italia meridionale, le dilazioni e i ritardi con i quali in curia si ratificavano gli atti sinodali (diocesani e provinciali) alla lunga riuscirono a fiaccare lo slancio riformatore anche degli ordinari post-tridentini più zelanti e agguerriti.

A Trento i vescovi avevano tentato di limitare il monopolio detenuto dagli ordini religiosi sulla predicazione nonché i tradizionali privilegi ed esenzioni che li sottraevano al controllo degli ordinari diocesani. Ciononostante i regolari mantennero un’importanza centrale nella cura d’anime e nella vita religiosa: nella predicazione, nell’assistenza, nella confessione, nell’educazione e nell’organizzazione delle devozioni. Ciò avvenne grazie alla riconferma e all’ampliamento dei loro privilegi ed esenzioni da parte dei pontefici post-tridentini, per i quali la struttura gerarchica e centralizzata degli ordini e i vincoli d’obbedienza che la percorrevano costituivano un capitale prezioso da valorizzare e di cui servirsi rispetto alle tendenze autonomistiche dei vescovi e all’intreccio di fedeltà che spesso legava il titolare di una diocesi alle autorità civili.

Il progressivo depotenziamento operato dalla Santa sede delle soluzioni e degli strumenti operativi emersi dai dibattiti conciliari nonché delle aspirazioni di riforma che ne erano all’origine si accompagnò già all’indomani della chiusura del concilio a una precoce esaltazione agiografica e di maniera del Tridentino. L’uso strumentale del tridentinismo ai fini dell’autorappresentazione della Chiesa post-conciliare, il suo diventare categoria ideologica e di maniera entro una realtà che invece aveva seguito altre direzioni furono lucidamente analizzati da Paolo Sarpi nell’Istoria del concilio tridentino (Londra, 1619).

Solo a partire dalla fine del Seicento e nel corso del secolo successivo il confronto con le profonde trasformazioni operanti nella cultura e nella società, nonché la necessità di rispondere con strutture e uomini adeguati agli attacchi delle autorità civili e delle loro sempre più sviluppate burocrazie, condussero progressivamente la Santa sede a fare assegnamento sulla centralità degli episcopati e sulle riforme tracciate dal Tridentino.

Fonti e Bibl. essenziale

G. Alberigo, I vescovi italiani al concilio di Trento (1545-1547), Firenze, Sansoni, 1959; H. Jedin, Storia del concilio di Trento, 4 voll., Brescia, Morcelliana, 1973-812; E. Bonora, Giudicare i vescovi. La definizione dei poteri nella Chiesa postridentina, Roma-Bari, Laterza, 2007; Clero e società nell’Italia moderna, a cura di M. Rosa, Roma-Bari, Laterza, 1992; Il concilio di Trento come crocevia della politica europea, a cura di H. Jedin e P. Prodi, Bologna, Il Mulino, 1979; Il concilio di Trento e il moderno, a cura di P. Prodi e W. Reinhard, Bologna, Il Mulino, 1996; Il concilio di Trento nella prospettiva del terzo millennio, a cura di G. Alberigo e I. Rogger, Brescia, Morcelliana, 1997; C. Donati, Chiesa italiana e vescovi d’Italia dal XVI al XVIII secolo. Tra interpretazioni storiografiche e prospettive di ricerca, in «Annali dell’Istituto storico italo-germanico in Trento», XXX, 2004, 375-389; P. Prodi, Il paradigma tridentino. Un’epoca della storia della Chiesa, Brescia, Morcelliana, 2010; A. Prosperi, Il Concilio di Trento: una introduzione storica, Torino, Einaudi, 2001; A. Tallon, Il concilio di Trento, Cinisello Balsamo, San Paolo, 2004; I tempi del concilio. Religione, cultura e società nell’Europa tridentina, a cura di C. Mozzarelli e D. Zardin, Roma, Bulzoni, 1997; M. Mancino – G. Romeo, Clero criminale. L’onore della Chiesa e i delitti degli ecclesiastici nell’Italia della Controriforma, Roma-Bari, Laterza, 2013.


LEMMARIO