Associazione Italiana dei Professori di Storia della Chiesa

Dizionario Storico Tematico La Chiesa in Italia
Dalle origini all'Unità Nazionale
Roma 2015
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Concordati - vol. I


Autore: Carlo Fantappiè

Nella storia dei patti, accordi, convenzioni, concordati tra la Santa Sede e gli Stati preunitari italiani si possono distinguere nettamente tre fasi, corrispondenti ad altrettante fasi significative del contesto europeo: a metà del Quattrocento, nella prima metà del Settecento, nella Restaurazione. Il clima di queste tre epoche è ovviamente molto diverso, così come l’andamento, l’oggetto e la portata dei singoli concordati. C’è però una costante, ed è il peso decisamente minore che gli accordi con i piccoli Stati italiani hanno rivestito lungo queste epoche a differenza di quelli conclusi con gli altri Stati dell’Europa. Certamente la presenza del papa e della Corte di Roma nella penisola hanno reso meno frequente, se non inutile, il ricorso ad atti bilaterali con i sovrani per regolare materie o risolvere controversie a motivo dei rapporti diretti del papa e delle fitte relazioni politico-diplomatiche. Ma anche la natura di tali accordi è differente, perché mancano convenzioni destinate a regolare nel suo complesso il regime giuridico della Chiesa di uno Stato. Fino al concordato italiano del 1803, che nell’aspetto formale risente dell’influenza del concordato con la Francia del 1801, non si dovrebbe neppure parlare di una moderna convenzione diplomatica quanto di pattuizioni dirette a regolare l’esercizio di certi diritti di entrambe le parti oppure a comporre un conflitto su una materia determinata nelle relazioni tra esse. Va infine osservato che, mentre nell’antico regime si agiva sul presupposto della superiore e armonica concordia tra le due potestà, dopo Napoleone si stipulano concordati sulla base del principio di uguaglianza tra le parti.

A metà Quattrocento, mentre i «concordati con le nazioni» risentono delle conseguenze della crisi conciliarista che aveva colpito il papato, quelli con gli Stati italiani s’inquadrano nel progressivo inserimento del papato nel sistema politico della penisola e tendono a creare una situazione di equilibrio e di stabilizzazione mediante la regolamentazione delle materie dei benefici e delle immunità ecclesiastiche secondo le forze in campo. Due aree hanno la preminenza sulle altre: il regno di Sicilia, dove Ferdinando I si trova a dover attenuare le prerogative giurisdizionali della casa d’Aragona rispetto al papato, che deteneva sul regno il diritto d’investitura feudale (si vedano i patti di pace del 1486-1492), e il regno di Savoia dove, in compenso della rinuncia spontanea di Amedeo VIII alla tiara, la casa regnante ottiene dalla Santa Sede notevoli concessioni in materia di riserva di benefici e di nomine ecclesiastiche (indulto di Niccolò V del 1452 rinnovato e innovato da diversi papi fino al 1819).

Ben diversa la situazione della prima metà del Settecento, quando la Santa Sede si trova in posizione difensiva e ricerca una «concordia» con gli Stati assoluti. Oggetto centrale delle convenzioni stipulate tra il 1720 e il 1758 da Benedetto XIII, Clemente XII e Benedetto XIV non sono tanto le materie beneficiarie o giurisdizionali quanto le materie immunitarie e disciplinari. Poiché gli abusi della vita clericale erano spesso coperti dal privilegio dell’immunità, gli Stati tendono ad abbinare le due questioni e a presentare le loro richieste come mezzi per ristabilire la disciplina ecclesiastica sancita dal concilio di Trento. Di fatto i governi assoluti tendono a intervenire nella vita della Chiesa ricorrendo agli iura circa sacra per estendere il loro potere politico e rimodellare gli assetti delle chiese nazionali nelle strutture dello Stato (v. Giurisdizionalismo).

Mediante abili trattative diplomatiche, i Savoia, ora re di Sardegna, riescono a strappare a Benedetto XIII nel 1727 due concordati assai vantaggiosi sulle immunità ecclesiastiche e sulle materie beneficiarie. Dopo la dichiarazione di nullità del concordato da parte di Clemente XII, Benedetto XIV apre nuove trattative che conducono a due altre convenzioni nel 1741: una sui feudi pontifici del Piemonte che prevede l’investitura del re di Sardegna in modo che possa conferire benefici, l’altra sulla riserva dei benefici ecclesiastici a «persone ecclesiastiche». Con un’Istruzione ai vescovi del 6 gennaio 1742, pattuita col re di Sardegna e confermata dai papi fino al 1826, Benedetto XIV ottiene che dalla «visione» dei brevi e delle bolle papali da parte dell’autorità governativa siano esclusi gli atti di natura dogmatica, morale e disciplinare emanati dalle Congregazioni romane e dalla Penitenzieria. Tra il 1759 e il 1761 si giunge ad un’altra Istruzione di Clemente XIII che elimina gli abusi che si erano introdotti in materia di immunità e diritto di asilo, nell’ammissione al chiericato e nella disciplina ecclesiastica col fenomeno dei chierici coniugati.

Larghe concessioni vengono fatte da Benedetto XIV anche al regno di Napoli col concordato del 1741. Le trattative per un compromesso sembravano ben iniziate; gli ostacoli frapposti dai funzionari della Curia finiscono però per estendere le prerogative del regalismo borbonico. Su questa linea va letta la previsione del regio exequatur per le bolle e brevi pontifici, l’esclusione dalle immunità reali dei beni ecclesiastici e il conseguente obbligo di contribuzione alla tassazione governativa, la limitazione del diritto di asilo a luoghi predeterminati, la facoltà di reprimere gli abusi del privilegio del fòro compiuti da soggetti che non ne avevano il diritto, la riserva di tutti i benefici e pensioni ecclesiastiche ai soli regnicoli, l’istituzione di un tribunale misto per giudicare le controversie sulle immunità. Ispirati a princìpi di collaborazione tra le due potestà sono altre disposizioni dello stesso concordato: il controllo dei requisiti dei promovendi agli ordini sacri, il diritto di visita episcopale e di controllo dell’amministrazione di chiese, cappelle, confraternite, ospedali conservatori e altri luoghi pii, fatta eccezione di quelli posti sotto la protezione regia, l’introduzione della censura sui libri contrari alla fede e alla morale. Anziché appianare i conflitti giurisdizionali, questo concordato del 1741 spinge la politica del ministro Tanucci dopo il 1761 ad accelerare le riforme in senso anticuriale.

Nel complesso lo sforzo di papa Lambertini di superare l’isolamento politico della Chiesa e la subordinazione dalle potenze cattoliche non ottiene risultati positivi e prelude una radicalizzazione delle politiche statali in materia ecclesiastica dopo gli anni Sessanta Ne è prova il concordato di Pio VI con Giuseppe II del 1784 relativo alle nomine episcopali nella Lombardia austriaca che assegna al Duca di Milano e di Mantova, compresi i loro successori, il diritto di nomina dei principali uffici ecclesiastici delle chiese, abbazie, propositure e collegiate.

Come accennato, il concordato del 1803 tra Pio VII e la Repubblica italiana riveste più un’importanza tecnico-giuridica che storica, considerata la sua sostanziale inapplicazione per motivi connessi ai contrasti di vedute tra il Melzi e Napoleone e alle vicende politiche dell’Italia e dell’impero francese. In linea con la concezione centralizzatrice e amministrativa dello Stato napoleonico, questo concordato mira a riorganizzare, in maniera uniforme e gerarchica, le strutture ecclesiastiche nel territorio nazionale e ad affermare su di esse le prerogative del potere politico. Da qui il riassetto razionale delle circoscrizioni (province e diocesi), l’estensione del diritto di nomina del presidente della Repubblica a tutti i vescovati, il giuramento politico di vescovi e parroci, la composizione mista delle amministrazioni delle opere pie e il diritto presidenziale di nomina degli amministratori. Particolare cura si ha poi nell’estendere al presidente della Repubblica i diritti e le prerogative dell’imperatore e nell’ottenere la condonazione dei beni ecclesiastici alienati.

Al tempo stesso, però, il concordato del 1803 si rivela innovativo perché, nella regolazione delle materie strettamente ecclesiastiche, rinvia al diritto canonico e, sulle materie che potremmo definire miste, prevede una disciplina bilaterale. Da qui la libertà di comunicazione della Santa Sede con i vescovi, la libertà di ordinazione dei chierici, la direzione esclusiva dei seminari, il riconoscimento della potestà coattiva dei vescovi, la tutela penale della religione e dei suoi ministri, l’esenzione del clero dal servizio militare.

Nell’età della Restaurazione il clima politico-culturale muta in senso favorevole alla Santa Sede. L’abbandono di qualsiasi progetto di riforma esterna della Chiesa favorisce un maggiore riconoscimento della sua autonomia. Nonostante ciò, gli Stati difendono le conquiste essenziali del giurisdizionalismo settecentesco per una ragione eminentemente sociale e politica. La mescolanza di princìpi cesaro-papisti e confessionalisti che troviamo nel concordato del 1803 fa da sfondo anche al concordato del 1818 tra Pio VII e Ferdinando I re delle Due Sicilie. Anche qui è affermata la religione cattolica come religione di Stato, si abroga la legislazione precedente per sostituirla con il nuovo concordato e si rinvia alla vigente disciplina della Chiesa nelle materie o oggetti non negoziate. Ma anche qui si prende occasione del concordato per operare una vasta riorganizzazione politica delle strutture ecclesiastiche del regno, la quale investe sia gli aspetti patrimoniali (con la sanazione dei beni alienati, la restituzione parziale dei patrimoni non alienati, lo scorporo di una quota di beni del clero regolare a vantaggio delle istituzioni secolari), sia la rete istituzionale (con la riduzione delle circoscrizioni diocesane e il riordino degli ordini religiosi e delle abbazie), il sostentamento di parte del clero (con il supplemento di congrua a una quota di parroci). Nella sfera propriamente giurisdizionale, oltre ad abolire tutte le immunità, si afferma il regio exequatur e la competenza dei tribunali laici sulle cause degli ecclesiastici, il controllo statale sulle nomine episcopali anche di collazione pontificia mediante rilascio di apposito indulto papale e l’obbligo del giuramento dei vescovi, la riserva della collazione dei benefici semplici ai sudditi del regno, la limitazione delle ordinazioni sacerdotali e dell’ingresso dei novizi in proporzione ai mezzi di sussistenza. Viene invece considerato in netta controtendenza con queste disposizioni l’affidamento alla Chiesa del controllo sull’istruzione, il riconoscimento della giurisdizione ecclesiastica sulle cause matrimoniali e la reintroduzione della censura religiosa sulla stampa. La compresenza di aspetti confessionalisti, regalisti e giurisdizionalisti ha indotto gli storici a dare valutazioni disparate del concordato del 1818. Forse bisognerebbe distinguere maggiormente tra le affermazioni di principio e l’effettiva prassi amministrativa. Nel dare esecuzione alle norme concordatarie le cancellerie della Restaurazione, a somiglianza dell’amministrazione napoleonica, introducono clausole limitative oppure condizionano l’esercizio delle libertà riconosciute alla Chiesa a verifiche e controlli piuttosto penetranti.

La tradizione giurisdizionalista di Pietro Leopoldo si mantiene ancora forte e radicata nell’amministrazione del Granducato di Toscana. Il concordato del 1815 per il ripristino degli ordini religiosi costituisce un’occasione per attuare una ristrutturazione organica della presenza del clero regolare in funzione delle attività sociali e educative dello Stato. La convenzione del 1851, nata per armonizzare la legislazione statuale con quella canonica in materia di cause civili o criminali del clero e per trovare un accordo, mediante delega a commissioni miste, tanto nella gestione dell’amministrazione delle entrate dei benefici vacanti quanto nel cambio di destinazione dei beni dei legati pii, invece che eliminare le differenze tra i diplomatici romani e gli apparati amministrativi locali, lascia dietro di sé uno strascico di controversie.

Assai diverso il contesto dello Stato sabaudo, dove si era andata consolidando dai primi decenni del Settecento una politica ecclesiastica di accordo con la Santa Sede. Nell’età della Restaurazione l’attività concordataria si restringe a due convenzioni minori relative alla riorganizzazione delle circoscrizioni ecclesiastiche del Piemonte (1817) e alla limitazione dell’immunità personale degli ecclesiastici circa alcuni reati (1841). Un cambiamento radicale si avrà negli anni 1848-1855, allorché si procederà con le leggi Siccardi all’abolizione del privilegio del fòro, del diritto d’asilo, delle decime nonché alla soppressione degli ordini religiosi.

Con l’unità d’Italia l’esigenza di uniformare su tutto il territorio nazionale la legislazione ecclesiastica conduce, nel 1860, all’abolizione dei concordati stipulati dagli ex-Stati con la Santa Sede, anche di quelli che avevano validità per singole regioni (come il concordato austriaco del 1855 per il Lombardo-Veneto) oppure all’introduzione di norme che rendessero inapplicabili gli impegni pattizi preesistenti.

Fonti e Bibl. essenziale

F. Ruffini, Relazioni tra Stato e Chiesa, Bologna 19742; A. Mercati, Raccolta di concordati su materie ecclesiastiche tra la Santa Sede e le autorità civili, vol. I, 1098-1914, Città del Vaticano 19542Chiesa e Stato. Studi storici e giuridici per il decennale della conciliazione tra la Santa Sede e l’Italia, vol. I, Studi storici, Milano 1939; W. Maturi, Il concordato del 1818 tra la Santa Sede e le Due Sicilie, Firenze 1929; A.M. Bettanini, Il concordato di Toscana 25 aprile 1851, Milano 1933; D. Arru, Il concordato italiano del 1803, Milano 2003; F. Vecchi, Gli accordi tra potestà civili ed autorità episcopali, Napoli 2006; G. Paolini, Il concordato toscano del 1815 sugli ordini religiosi. Documenti inediti, Firenze 2006; M. Pignotti, Potestà laica e religiosa autorità. Il concordato del 1851 fra Granducato di Toscana e Santa Sede, Firenze 2007; M. Pellegrini, Il Rinascimento come stagione della politica concordataria, in Papato e politica internazionale nella prima età moderna, a cura di M.A. Visceglia, Roma 2013, 63-102; M. Rosa, Una rilettura della politica dei concordati nel Settecento, ivi, 173-197.


LEMMARIO




Confessione, Penitenza - vol. I


Autore: Alessandra Costanzo

All’interno dei tre sistemi – antico, tariffato e moderno – che scandiscono le tappe salienti della storia della penitenza, l’Italia apporta alcuni significativi contributi alla teologia e alla prassi penitenziale.

Intorno alla metà del II secolo, Erma, fratello del papa Pio I (140-154 ca.), scrive a Roma il Pastore, in cui formula per la prima volta il principio della non reiterabilità della penitenza: chi si è macchiato di una colpa grave dopo il battesimo (omicidio, adulterio, apostasia della fede) ha un’unica possibilità di ricorrere alla penitenza. Questo principio, definitivamente sancito nel III secolo da Tertulliano, che considererà la penitenza la “seconda tavola di salvezza” dopo il battesimo, segna tutto il sistema penitenziale antico fino al VI secolo.

L’irripetibilità della penitenza resiste persino alla questione dei lapsi, ossia di tutti coloro che, dopo aver rinnegato la fede durante le persecuzioni, desiderano essere accolti di nuovo nella comunità cristiana. Rispetto alla loro riammissione, la Chiesa appare divisa tra i seguaci di Cornelio, eletto vescovo di Roma nel marzo 251, che si mostra indulgente verso i lapsi, e i sostenitori del presbitero Novaziano, che non permette alcuna accoglienza degli apostati e si fa consacrare antipapa da tre vescovi dell’Italia meridionale. Nell’autunno 251 egli viene scomunicato dal sinodo di Roma, ma lo scisma cui Novaziano aveva dato origine trova seguaci in oriente e in occidente protraendosi per qualche secolo.

Contro i Novaziani prende posizione Ambrogio, che a Milano, tra il 386 e il 390, compone il De poenitentia, in due libri: il primo, in cui confuta le tesi dei seguaci della setta circa l’irrimediabilità dei peccati mortali e la necessità di un nuovo battesimo per gli adepti al movimento; il secondo, in cui espone in modo positivo la sua concezione della penitenza e della maniera di esercitarla. Contro il rigorismo degli avversari, che pretendevano di fondare le proprie tesi su alcuni passi della Scrittura, Ambrogio ricorda la misericordia di Dio, che assicura a tutti i peccatori pentiti la sua grazia, riferendosi alle parabole del samaritano, del figlio prodigo o all’episodio della resurrezione di Lazzaro. In questa linea, egli riprende gli stessi passi scritturistici di cui si avvalgono i Novaziani, fornendone un’interpretazione diversa. Ribadisce l’analogia tra battesimo e penitenza circa l’irripetibilità di entrambi i sacramenti, dai quali scaturisce una trasformazione radicale di vita, sempre possibile a chi si penta sinceramente del male commesso. Ambrogio denuncia l’incongruenza della dottrina dei Novaziani, che annunciano la penitenza, ma negano il perdono, pensano di onorare Dio con la loro intransigenza, ma in realtà lo offendono con la propria durezza.

Mentre Ambrogio attende alla composizione del De poenitentia, Agostino si trova a Milano come professore di retorica. Attirato dalla predicazione di Ambrogio, si converte al cristianesimo, ricevendo da lui il battesimo nel 387. Agostino, a differenza di Ambrogio, non scrive un trattato specifico sulla penitenza, ma ad essa si ispira in varie opere, prima fra tutte le Confessiones, i cui primi nove libri costituiscono una biografia “sui generis”, dove il racconto si snoda, attraverso le tappe del percorso spirituale dell’autore, nella confessione dei suoi smarrimenti dinanzi a Dio. Così confessare la lode della grandezza e misericordia divina va insieme al confessare la propria miseria umana, riconoscendo che solo la misericordia di Dio può chinarsi sulla miseria dell’uomo e redimerla. Nella sua attività pastorale, Agostino tratta spesso della penitenza: in particolare, nei sermoni 351-352 (PL 39, 1535-1549; 1549-1560), De utilitate agendae poenitentiae, distingue tre specie di penitenza: quella prebattesimale, per cui è necessario pentirsi delle colpe commesse per poter iniziare una nuova vita attraverso il battesimo; la penitenza quotidiana, indispensabile per tutti, nella misura in cui la consacrazione battesimale non rende nessuno immune dalla caduta nel peccato, e pertanto occorre pentirsi ogni giorno delle colpe lievi, offrendo quotidianamente preghiere, elemosine e digiuni; infine la penitenza per i peccati mortali, più severa delle altre, per cui è necessario sottoporsi innanzitutto al tribunale della propria coscienza, prima ancora che a quello della Chiesa, e astenersi dalla mensa del Signore in attesa della riconciliazione.

Nonostante il contributo di Ambrogio e Agostino alla teologia e alla prassi penitenziale, alla fine del periodo antico il ricorso alla penitenza si fa sempre più raro: l’irripetibilità del sacramento e la sua scarsa accessibilità, insieme alla gravosità degli interdetti penitenziali, che condizionano la vita del penitente anche dopo la riconciliazione, determinano una disaffezione crescente alla penitenza, che spesso viene differita in punto di morte.

Un’inversione di tendenza si profila all’inizio del VII secolo, quando il monaco irlandese Colombano giunge in Italia, dove fonda nel 614 il monastero di Bobbio, ed introduce un nuovo sistema penitenziale, proveniente dalle isole celtiche. Le comunità cristiane della Gran Bretagna e dell’Irlanda infatti non conoscevano il regime della penitenza antica e avevano elaborato un particolare sistema penitenziale che prevedeva la penitenza privata ripetibile. In questo ambito, probabilmente nei monasteri cui queste comunità facevano riferimento, nascono i primi Libri poenitentiales come guide ai ministri della penitenza, che contengono le classificazioni delle colpe cui corrispondono le penitenze da imporre, le “tariffe”, particolarmente lunghe e onerose. Grazie dunque a S. Colombano e ai suoi seguaci, tra il VII e l’VIII secolo, questo sistema si diffonde nel continente, trovando ampi consensi. La penitenza tariffata infatti sembra offrire tutto ciò che al regime antico mancava, in una sorta di puntuale “coincidentia oppositorum”: la ripetibilità del sacramento al posto dell’unicità, la segretezza del processo penitenziale al posto della dimensione pubblica, la liberazione dalle tasse penitenziali una volta saldate al posto della gravosità degli interdetti attivi anche dopo la riconciliazione, l’accessibilità della penitenza a tutti al posto della sostanziale inaccessibilità ai più.

Tra la fine dell’VIII e gli inizi del IX secolo, i Libri penitenziali conoscono una particolare fioritura: le “tariffe” che essi contengono consistono sostanzialmente in digiuni, che vengono imposti non solo in base alla gravità della colpa, ma talvolta anche in rapporto allo stato di vita di chi l’ha commessa, e possono durare giorni, mesi o addirittura anni, rendendosi così praticamente insostenibili. Pertanto i Penitenziali contengono, sin dalle origini, liste di commutazioni per consentire al peccatore di “riscattare” il proprio digiuno attraverso opere espiatorie compiute da lui stesso o effettuate tramite terzi, in cambio di denaro, celebrazioni di messe o donazioni di terre. A lungo andare, la naturale conseguenza fu lo svuotamento di significato dell’espiazione.

Così i teologi carolingi, a partire dal IX-X secolo, iniziano a spostare l’accento dall’espiazione all’accusa dei peccati, ritenendola sempre più cuore del processo penitenziale, senza la quale non può esservi perdono. Il rilievo che in età carolingia si inizia a dare alla confessione trova la sua compiuta manifestazione tra la fine dell’XI e l’inizio del XII secolo, grazie ad un breve trattato, il De vera et falsa poenitentia (PL 40, 1113-1130), scritto, secondo Pierre-Marie Gy in Italia (ma tale localizzazione rimane dubbia). Sotto il nome prestigioso di Agostino, l’opera segnerà come una pietra miliare la storia della penitenza medievale, offrendo la prima formulazione teologica del valore della confessione, per cui nell’accusa dei peccati il peccatore sperimenta il dolore per quanto ha commesso, che comporta vergogna e umiliazione. Sono questi sentimenti che ora rendono la confessione la vera penitenza (cfr. PL 40, 1122: cap. X, par. 25), capace di colmare il vuoto delle altre penitenze ormai logore del loro senso. La vis confessionis è talmente grande che, in mancanza del ministro, l’accusa dei peccati può esser fatta al prossimo e il peccatore può divenire degno di misericordia ex desiderio sacerdotis, sebbene il laico non abbia potere di assolverlo (cfr. ibidem). Il trattato, che a partire dalla metà del XII secolo viene tramandato in ampie sezioni dal Decretum di Graziano e dalle Sententiae di Pietro Lombardo, grazie ai quali conosce una straordinaria diffusione, lancia alla riflessione teologica posteriore alcune fondamentali linee prospettiche: sulla sua scia, l’attenzione dei primi Scolastici verterà sugli atti del penitente, e in particolare sul pentimento; la loro distinzione tra contritio e attritio scaturisce con ogni probabilità da quella, operata nel trattato, tra penitenza vera e falsa. L’intero processo penitenziale, che lo pseudo-Agostino designa significativamente con il termine confessio, già nella sua stessa epoca viene più precisamente indicato da Lanfranco da Pavia come sacramentum confessionis (Cfr. Lanfranco, De celanda confessione, in PL 150, 625-626), definizione difficilmente concepibile senza il contributo dell’autore del trattato. Significativo inoltre del cambiamento di accento sulla confessione, avvenuto attraverso il De vera et falsa poenitentia, sarà che, tra la fine del XII e gli inizi del XIII secolo, i Libri penitenziali cederanno il posto alle Somme dei confessori; e ancor più significativo sarà il canone 21 del IV Concilio Lateranense del 1215, Omnis utriusque sexus, che prescrive ad ogni fedele cristiano, giunto in età conveniente, di confessare privatamente i suoi peccati al proprio sacerdote almeno una volta l’anno e di comunicarsi nella sua parrocchia almeno a Pasqua (Cfr. DS 812 già 437): viene sancita così, in modo ufficiale, la centralità della confessione orale nella pratica sacramentale e – particolare di sorprendente rilievo – in quel concilio alcune espressioni, in materia di disciplina sacramentale, vengono direttamente desunte dal Tractatus de poenitentia, inserito nel Decretum Gratiani, quindi proprio dal De vera et falsa poenitentia.

Di fatto, però, l’obbligo stabilito dalla costituzione conciliare viene attuato solo in parte, ovvero soltanto per quel che riguarda la prescrizione della confessione annuale. L’obbligo di confessarsi al “proprio” sacerdote, invece, non riesce a realizzarsi, se non in modo marginale e per colpe lievi, che richiedono una penitenza privata, la cui giurisdizione spetta al parroco. Per i peccati gravi, che esigono una penitenza pubblica, è necessario rivolgersi al vescovo, se non addirittura al papa. Del resto, il clero curato risulta inadeguato ad accogliere la confessione annuale dei parrocchiani a causa della sua scarsa formazione teologico-canonistica, che non gli consente di avvalersi nemmeno dell’aiuto offerto dalle Summae confessorum, che cominciano a diffondersi all’indomani del Lateranense IV come guide teoriche e pratiche per una rigorosa amministrazione del sacramento della penitenza. Questi poderosi trattati, che a partire dal modello fornito dal domenicano catalano Raimond di Peñafort (1220-1240) vengono scritti anche in Italia – per citare solo qualche nome, dai francescani Astesano d’Asti (1317 ca.) e Angelo da Chivasso (1480-1490) o dal domenicano Bartolomeo da Pisa (1338) – restano fuori della portata del clero diocesano, del tutto impreparato a comprendere la complessa disciplina dei “casi”, strettamente congiunta al diritto canonico, che contraddistingue queste opere.

Più adatti al modesto livello culturale del clero curato appaiono i “manuali per la confessione”, spesso scritti in lingue volgari, che si limitano ad offrire sia ai confessori che ai penitenti le indicazioni necessarie per amministrare e ricevere il sacramento della penitenza. Gli autori di questi manuali, come quelli delle Summae, sono per lo più dei religiosi appartenenti agli ordini mendicanti: per fare solo qualche esempio, in Italia i domenicani fiorentini Jacopo Passavanti e S. Antonino o il francescano S. Bernardino da Siena. In effetti, sono proprio i membri dei nuovi ordini religiosi che, in virtù della loro preparazione culturale e della propria attività pastorale, assumono dagli inizi del XIII secolo il compito della predicazione e dell’ascolto delle confessioni. Nel 1221 il papa Onorio III, nell’enciclica Cum qui recipit prophetam, affida all’ordine domenicano, cui in seguito si aggiungerà anche quello francescano, la pratica della confessione; disposizioni analoghe verranno prese anche da Gregorio IX e Innocenzo IV, a conferma del fatto che non basta essere sacerdoti per poter confessare e assolvere, ma occorre aver ricevuto una specifica delega dal vescovo o dal papa. Così l’amministrazione del sacramento della penitenza si realizza solo in parte attraverso il clero diocesano, e l’obbligo di confessarsi al “proprio” sacerdote, previsto dal Lateranense IV, viene in gran parte disatteso mediante il sistema della riserva dei casi, di cui è competente il papa, il foro episcopale, al quale viene affidata l’assoluzione dei peccati più gravi, e l’attività dei membri degli ordini mendicanti con poteri delegati dal papa.

L’obbligo del 1215 sarà sempre meno realizzabile quando sorgeranno, tra la fine del XII e la metà del XIII secolo, il tribunale della Penitenzieria apostolica e quello dell’Inquisizione, legati ad autorità giudiziarie che, pur passando attraverso la confessione, vanno oltre il ruolo del confessore. La Penitenzieria nasce infatti dalla figura del penitenziere papale, il cardinale delegato all’assoluzione dei peccati riservati al papa; l’Inquisizione pone al suo centro la figura dell’inquisitore, il giudice chiamato a reprimere i sospetti di eresia e combattere la corruzione all’interno della Chiesa. Entrambi i tribunali diventano rappresentativi dell’esercizio del potere ecclesiastico, sebbene declinato in modi diversi, attraverso la concessione di grazie e dispense, fornite dalla Penitenzieria, o mediante il metodo giudiziario-repressivo, adottato dall’Inquisizione. Questi sviluppi istituzionali determinano prassi nuove e fanno emergere concezioni latenti in ambito penitenziale: il ricorso alla concessione di grazie dà luogo alla pratica delle indulgenze, ossia della remissione delle pene temporali dei peccati ottenuta al di fuori del sacramento della penitenza; l’adozione del sistema repressivo nei confronti dei sospetti di eresia rafforza sempre più l’idea della confessione come atto giudiziario. Contro questo modo di vivere ed intendere la penitenza reagisce Lutero, che nel 1517 promulga come segno di rottura le sue 95 tesi sulle indulgenze e nel 1520, per sottolineare anche simbolicamente il suo rifiuto della pratica penitenziale cattolica, brucia la Summa angelica di Angelo da Chivasso.

In polemica con i Riformatori, il Concilio di Trento (1545-1563) afferma, sulla base di Gv 20, che la penitenza è un sacramento istituito da Cristo (cfr. DS 1701-1710); del resto, essa era già stata inclusa tra i sette sacramenti al Concilio di Firenze (1438-1445), nella Bolla di unione degli armeni (cfr. DS 1310-1313). Il Concilio tridentino distingue tra sacramenti maggiori e minori (cfr. DS 1603, can. 3), per cui la penitenza risulta subordinata ai sacramenti dell’iniziazione cristiana, conferma che essa va amministrata dall’autorità ecclesiastica e la ritiene necessaria per la remissione dei peccati. Il Concilio ribadisce l’obbligo della confessione annuale per tutti i battezzati, sancito dal canone 21 del Lateranense IV, e difende il diritto della Chiesa di concedere indulgenze, sia pure con moderazione (cfr. DS 1835). Il Concilio puntualizza che la contrizione, la confessione e la soddisfazione del penitente sono parti o “quasi materia” del sacramento, mentre l’assoluzione del sacerdote è la “forma”, e sottolinea che il potere di assolvere non dipende dalla santità del ministro, ma si fonda sul comando di Gesù Cristo, contenuto in Mt 18,18 e Gv 20,23. In questa linea, i Padri conciliari ribadiscono il carattere di atto giudiziario della confessione sacramentale, di cui il giudice è il confessore.

Tra il ministro e il penitente occorre dunque che si instauri un legame stabile e intenso, ma che sia rispettoso della distanza dovuta tra chi giudica e chi è giudicato (in modo particolare se si tratta di donne penitenti, con cui poteva sempre accendersi la sollicitatio ad turpia). Da questa preoccupazione nasce l’idea del confessionale, la cui struttura originaria viene proposta per la prima volta nel 1542 dal vescovo di Verona Gian Matteo Giberti, sotto forma di tabula divisoria, che separa il confessore dalla penitente. Dopo il Concilio di Trento, nel 1577, essa trova la sua piena realizzazione, come vero e proprio mobile, con il cardinale Carlo Borromeo, arcivescovo di Milano, e ben presto si diffonde in tutta la cristianità cattolica. Ma mentre il confessionale diviene il simbolo della confessione sacramentale intesa come atto giudiziario, garantendo la distanza tra confessore-giudice e penitente-imputato, si introduce l’attività penitenziale dei Gesuiti, che “lavorano” nel confessionale in un modo del tutto nuovo. La Compagnia di Gesù, fondata da Ignazio di Loyola nel 1539, e ben presto diffusa anche in Italia, si fa promotrice infatti di una nuova forma di rapporto tra confessore e penitente e di un nuovo modo di intendere la confessione.

Dotati di una solida preparazione nei casi di coscienza, i confessori gesuiti si offrono ai penitenti come conforto e guida spirituale. Malgrado i poteri loro conferiti – possono assolvere da ogni vincolo di scomunica e da tutti i casi riservati – non si pongono dinanzi ai penitenti come giudici, ma come padri e medici. La relazione che si instaura nel confessionale è dunque profonda e durevole, e pertanto richiede una frequentazione assidua, che va ben oltre l’obbligo annuale stabilito dal Lateranense IV e ribadito dal Concilio di Trento. La confessione diviene così il luogo della fiducia e dell’ascolto, dello svelamento e dell’aiuto. È opportuno che sia “generale”, ovvero che comporti un profondo scavo interiore e un’attenta analisi della propria vita, perché possa costituire l’inizio di un percorso di perfezionamento, volto alla conversione e alla guarigione.

Entrambe le novità introdotte dai Gesuiti – il rapporto tra confessore e penitente e la confessione intesa come inizio di un cammino di perfezionamento – si fondano sulla riscoperta dell’antica concezione del peccato come malattia, che affligge il peccatore-malato, al quale il confessore-medico può prestare la sua cura per ricondurlo alla guarigione attraverso il sacramento della confessione. Il recupero di questa concezione terapeutica della penitenza, che nel tempo era stata offuscata da quella di tipo giudiziario, consente ai Gesuiti di improntare la propria attività penitenziale sulla direzione spirituale, segnando una svolta nella storia della confessione. L’idea che il confessore non è più un giudice, ma un medico e un padre, porterà un Gesuita italiano come Francesco Saverio, in una lettera del 1549, a suggerire ai confessori di rivelare per primi le proprie mancanze ai penitenti pur di suscitare in essi una fiduciosa apertura d’animo, libera dal timore del giudizio.

In questa linea, circa due secoli dopo, il napoletano Alfonso de’ Liguori, fondatore dei Redentoristi, parla dei “doveri di padre” nella sua Guida del confessore del 1764. Per adempiere a tali doveri, il confessore deve porsi nei confronti del penitente con benevolenza e carità, non dimenticando di essere per lui un medico spirituale. Ancora nel XIX secolo, don Giovanni Bosco, fondatore dei Salesiani, nell’ambito dell’attività penitenziale ad opera delle parrocchie, sottolinea la necessità di accogliere il penitente con amorevolezza e di correggerlo con bontà perché la penitenza costituisca l’inizio di un percorso di crescita spirituale, volto alla guarigione dal peccato e alla conversione del peccatore.

Fonti e Bibl. essenziale

W. De Boer, Ad audiendi non videndi commoditatem. Note sull’introduzione del confessionale soprattutto in Italia, Quaderni storici 26 (1991), 543-572; J. Delumeau, La confessione e il perdono. Le difficoltà della confessione dal XIII al XVIII secolo, Paoline, Cinisello Balsamo (Milano) 1992; P. Prodi, Una storia della giustizia. Dal pluralismo dei fori al moderno dualismo tra coscienza e diritto, Il Mulino, Bologna 2000; A. Prosperi, Tribunali della coscienza. Inquisitori, confessori, missionari, Einaudi, Torino 2009; Pseudo-Agostino, Sulla vera e falsa penitenza. Introduzione, testo e traduzione, A. Costanzo ed., Sussidi Patristici Augustinianum, Roma 2011; R. Rusconi, L’ordine dei peccati. La confessione tra Medioevo ed età moderna, Il Mulino, Bologna 2000; K. Rahner, La penitenza della Chiesa. Saggi teologici e storici, Paoline, Cinisello Balsamo (Milano) 19923; J. Ramos-Regidor, Il sacramento della penitenza. Riflessione teologica biblico-storico-pastorale alla luce del Vaticano II, ElleDiCi, Leumann (Torino) 1972; M. Simonetti, La letteratura cristiana antica greca e latina, Sansoni – Accademia, Milano 1969; C. Vogel, Il peccatore e la penitenza nel Medioevo, ElleDiCi, Leumann (Torino) 19882; M. Sodi – R. Salvarani (edd.), La penitenza tra I e II millennio. Per una comprensione delle origini della Penitenzieria Apostolica, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 2012; A. Costanzo, Il Penitenziere Maggiore: stato degli studi e prospettive di ricerca, in R. Rusconi – A. Saraco – M. Sodi (edd.), La penitenza tra Gregorio VII e Bonifacio VIII. Teologia – Pastorale – Istituzioni, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 2013, 193-217. Integrazioni bibliografiche: Renzo Gerardi, Eucaristia e Penitenza: sacramenti di riconciliazione, nella dottrina del Concilio di Trento, Pontificia Università Lateranense, Roma, 1975; Fabio Fabbi, La confessione dei peccati nel cristianesimo, Ed. Pro Civitate Christiana, Assisi, 1947; Nicola Bux, Confessione, penitenza e comunione nelle epistole canoniche di San Basilio,  Milano 1983; Elena Brambilla, Alle origini del Sant’Uffizio: penitenza, confessione e giustizia spirituale dal medioevo al XVI secolo, Il Mulino- Bologna, 2000; Dino M. Manzelli, La confessione dei peccati nella dottrina penitenziale del Concilio di Trento, Centro di Studi Ecumenici Giovanni XXIII: Sotto il Monte, 1966; Dizionario degli Istituti di perfezione, edizione paoline, Tipografia Città Nuova della PAMOM, Roma, 1975.


LEMMARIO




Confraternite laicali - vol. I


Autore: Emanuele Boaga †

Un notevole esempio di associazionismo dei laici è costituito dalle confraternite tra medioevo e epoca moderna. Tale esperienza cristiana aggrega un gruppo di fedeli allo scopo di venire incontro – attraverso la mutua assistenza, opere di carità e di pietà – ad esigenze differenziate ed avvertite da larghi strati delle popolazioni urbane e rurali alle quali le istituzioni allora esistenti non erano in grado di dare una risposta adeguata. Per gli associati o membri essa costituisce, in diverse misure, un luogo di socializzazione, di scambio di idee e di elementare acculturazione; ed è anche mezzo notevole d’inserimento sociale tramite la partecipazione degli associati alla gestione di opere e iniziative, e l’embrionale mutua assistenza in contingenze difficili. Ma soprattutto, l’esperienza confraternale offre ai membri un concreto e puntuale impegno religioso, una prassi comunitaria cultuale, liturgica e di preghiera, e una partecipazione a benefici, indulgenze, e suffragi per le proprie anime.

L’origine delle confraternite è molto incerta. Per alcuni studiosi gli antecedenti nel mondo tardo antico sarebbero le associazioni dei “fossores” a Roma e a Cirta, dei “parabolani” a Costantinopoli, dei “philopones” e “spoudaei”. Le scarse notizie su tali associazioni mostrano però una loro forte differenza rispetto alle confraternite medievali, che risultano invece un fenomeno tipicamente medievale con complessa varietà.

Nel suo sviluppo storico l’associazionismo confraternale in Italia presenta infatti una varia denominazione da regione a regione. I termini più frequenti sono: confraternitas, fraternitas, fraterie, confraterie, consortia, fratele, fraglia, sodalitium, gilda, gildonia, schola e congrega. In uso a Napoli vi è anche il termine estaurita o staurita. Inoltre i singoli tipi o famiglie delle confraternite in relazione alla loro finalità risultano estremamente varie. Qui di seguito si offre un breve panorama delle loro origini e sviluppo facendo riferimento ad alcune particolarmente importanti.

In Italia l’esistenza delle confraternite è provata dal secolo IX in poi. Riscontri e documenti più precisi per il secolo X attestano l’esistenza a Napoli di diverse associazioni miste di chierici e laici, mentre a Modena vi era una “fraternitate” di laici (75 uomini e 44 donne) intitolata a S. Geminiano. Nel secolo XI si hanno esempi a Ravenna e Ivrea di laici che si associano «pro Dei timore et Christi amore». Nel frattempo, in alcune chiese di Napoli, di Sorrento e di Benevento si hanno i casi di fedeli ammessi ed iscritti a confraternite clericali. Ma è soprattutto dal secolo XII che i laici sviluppano le confraternite autonome, come quelle composte da uomini e donne e sorte per scopi ospedalieri nel Veneto già nella seconda metà di quel secolo.

Nel secolo XIII il dilatarsi del movimento dei Disciplinati nell’Italia centrale e settentrionale spinge al sorgere di numerose confraternite di carattere penitenziale. La prima di esse sorge a Perugia nel 1260. Notevole è anche il numero di confraternite che sorgono sotto l’impulso dei laudesi, avendo la loro origine a Siena nel 1267. A Roma nel 1246 nacque la compagnia dei Raccomandati di Madonna S. Maria, riconosciuta da Clemente IV nel 1267 fu favorita dagli ordini mendicanti e unita ad altri sodalizi diverrà nel 1486 con intervento di Innocenzo VIII la confraternita del Gonfalone, che conoscerà con il passare degli anni una larga diffusione e una forte influenza. Altre confraternite nascono nel secolo XIII per scopi assistenziali e devozionali, e anche dal movimento cosiddetto dei Bianchi ne derivarono numerose in tutta Italia a partire dal 1399 a Chieri presso Torino. Un caso particolare riveste invece la confraternita di S. Maria delle Neve sorta nel 1258 nel regno di Napoli che, alle attività devozionali collegate ai santi suoi patroni, aggiunse il fine di contrastare il potere politico svevo in favore della politica filopontificia.

Dal XIV al XVIII secolo si assiste ad una larga diffusione e sviluppo delle confraternite. Molte di esse divennero importanti e portarono un contributo non indifferente non solo nella lotta contro le eresie, ma anche per contrastare il protestantesimo nei vari Stati della penisola. Numerose furono le confraternite che forti dal punto di vista finanziario contribuirono efficacemente allo sviluppo sociale, artistico ed economico delle città e paesi in cui erano inserite. Ad esse infatti si devono l’erezione di ospedali, ospizi per i poveri e pellegrini, orfanatrofi e conservatori per ragazze in pericolo, di chiese, oratori e monumenti, nonché la organizzazione e gestione di scuole per diffondere la conoscenza di mestieri e l’educazioine religiosa, ed infine, ma non ultimo, per gestire luoghi di sepoltura. Notevolissimo è stato poi l’apporto che esse hanno dato allo sviluppo delle arti, commissionando agli artisti per le loro sedi sculture, dipinti, oggetti pregiati e di culto. Diedero anche un forte impulso alla musica; basta pensare allo Stabat Mater di Pergolesi composte su commissione dell’arciconfraternita dei Cavalieri della Vergine dei Sette Dolori di Napoli. Inoltre, in occasione delle feste e delle processioni alimentavano anche espressioni folkloristiche.

Già nel secolo XIV erano numerose le confraternite che amministravano ospedali, specialmente per i malati non accolti altrove a causa della loro infermità ripugnante, come ad es. nel “ridotto degli incurabili” di Genova (1499). A Roma nel 1499 esisteva una confraternita di S. Rocco, alla quale Alessandro VI dava l’autorizzazione di costruire chiesa ed ospedale. Altre confraternite gestivano delle banche per la lotta contro l’usura.

Nel secolo XV si assiste al diffondersi tra gli scopi delle confraternite l’assistenza ai malati e ai condannati a morte, come ad esempio a Genova la confraternita della Misericordia e a Napoli quella dei Bianchi della Giustizia. E non mancano casi in cui l’opera dei membri di una confraternita era l’impegno nel pacificare gli animi divisi da interessi e fazioni cittadine, come a Genova con la confraternita «pacis et amoris» nella chiesa di S, Lorenzo. Né mancano confraternite che sorgono per assistere gli indigenti e dare sepoltura ai poveri. In questo un caso particolare a Roma è la Confraternita della Pietà dei fiorentini sorta in occasione della peste del 1448. Più tardi sempre a Roma, con il sacco compiuto nel 1527 dai lanzichenetti al soldo di Carlo V, alcuni laici provvidero a dare cristiana sepoltura ai numerosi cadaveri che giacevano sulle vie e sui campi dell’Urbe. Tale iniziativa caritativa continuò e assunse caratteri organizzativi più definiti in occasione della grave carestia che colpì nel 1538-39 la città eterna e i suoi dintorni, mietendo numerosissime vittime. Nacque così la confraternita della Morte ed Orazione, che ha svolto in seguito una vasta azione per la sepoltura dei cadaveri di vagabondi e pellegrini rimasti insepolti, ricercati e raccolti a Roma e negli agglomerati isolati delle campagne circostanti. Lo sviluppo di questo tipo di compagnie della Morte fu in epoca moderna assai impetuoso e vasto in tutta Italia, poiché la cura dei defunti, la tumulazione delle salme, la gestione dei luoghi funerari furono sempre considerate questioni inerenti strettamente alla pietà e carità cristiana, più che ad una preoccupazione di natura pubblica e civile.

Inoltre, sempre nel secolo XV, non vanno dimenticate le confraternite erette, presso le proprie chiese, da frati degli ordini mendicanti: a Mantova la confraternita della Madonna, che nel 1460 ebbe regola e statuti dal b. Bartolomeo Fanti, e le confraternite «de signo ordinis» presso i carmelitani; la confraternita di S. Orsola di Faenza e quelle dei Cinturati di S. Monica e S. Agostino presso gli agostiniani; la confraternita della S. Corona, quella della Purità in S. Maria Novella a Firenze e la compagnia di S. Tommaso a Perugia presso i domenicani; la compagnia di S. Bernardino e il Consorzio della Carità a Milano nonché la confraternita di S. Giovanni a Perugia presso i francescani.

La complessa e molteplice importanza delle confraternite nella vita religiosa italiana del secolo XV viene rivelata anche dai compiti e dalle caratteristiche che dal punto organizzativo e da quello della spiritualità emergono dall’esame delle relative regole o statuti, dalla scelta dei Santi titolari, dall’impegno dell’insegnamento catechistico. Sovente da quest’epoca in poi le confraternite cercarono uno spazio proprio tra gli organismi ecclesiali e il popolo, e spesso venivano ad essere alternativa o sostegno delle attività di pertinenza delle parrocchie. Significativo è pure il diffondersi, all’interno delle confraternite sotto lo stesso titolo e finalità, degli schemi iconografici propri, come nel caso della prima filiale italiana – fondata nel 1480 a Venezia – della Confraternita del Rosario e della sua ulteriore diramazione in varie città, con la raffigurazione della Vergine col Bambino e i santi Domenico e Caterina da Siena.

Agli inizi del secolo XVI la confraternita del SS. Sacramento, che in precedenza era scarsamente diffusa, conobbe una forte rifioritura. La prima confraternita eucaristica romana eretta in S. Lorenzo in Damaso, alla quale nel 1508 lo stesso papa Giulio II volle essere affiliato. Ad essa seguì poco dopo nel 1513 quella a S. Maria in Traspontina, ed entrambe vennero poi trasferite in altre sedi. Quella eretta nel 1538 a S. Maria sopra Minerva e approvata l’anno seguente da Paolo III e dotata dei privilegi liturgici delle basiliche, divenne in breve il modello di tutte le altre che sarebbero sorte successivamente e che si sarebbero a centinaia aggregate ad essa. Ciò determinò un incremento della devozione eucaristica, anche se le altre antiche e nuove confraternite continuavano a seguire la consuetudine della santa Comunione una volta al mese.

A partire alla metà del secolo XVI, anche se il Concilio di Trento si soffermò in modo frettoloso e non organico sulle confraternite, non mancarono iniziative promosse dai vescovi per l’attuazione dello spirito tridentino nel mondo confraternale. Emblematica di ciò è la riforma delle confraternite disciplinate operata a Milano da S. Carlo Borromeo, che imponeva ai vescovi suffraganei la visita di quelle esistenti nei territori della loro giurisdizione, l’esame dei loro statuti e libri di preghiera, e l’accertamento dello stile di vita dei loro membri. Negli anni successivi queste disposizioni furono seguite non solo nelle diocesi suffraganee di Milano, ma anche in altre diocesi in Piemonte e in Liguria.

Sempre in questo periodo assai florido per le confraternite italiane, i papi elargirono molte indulgenze e privilegi alla arciconfraternite, che venivano designate tramite una bolla o breve pontificio. Inoltre volsero la loro attenzione alla riorganizzazione giuridica. Così nel 1595 Clemente VIII, in applicazione del Concilio di Trento che aveva stabilito la dipendenza dai vescovi delle pie associazioni e le confraternite, parlava di indulti e facoltà necessari all’erezione delle confraternite. E nel 1604 lo stesso papa, con la costituzione Quaecumqua a Sede Apostolica, designava una organica e nuova visione giuridica per le confraternite, definendo chiaramente le modalità della loro erezione, di acquisizione e di partecipazione di indulgenze e privilegi spirituali, i diritti e i doveri di controllo e di disciplina da parte dei vescovi e superiori degli ordini religiosi. Inoltre stabiliva che qualsiasi tipo di confraternite avesse la sede primaria, detta arciconfraternita, in Roma e ad essa dovessero essere aggregate tutte le altre confraternite simili per poter godere dei privilegi e benefici spirituali; anche le confraternite già esistenti erano tenute a chiedere tale affiliazione, aggregandosi così alle arciconfraternite romane. In seguito il titolo e i privilegi delle arciconfraternite vennero pure concessi ad altri sodalizi con sede fuori di Roma.

Nel periodo dopo Trento assai attive furono pure le confraternite – diffuse a Como, Genova, Verona, Parma, Piacenza, Lodi e Cremona – per organizzare e favorire l’insegnamento della dottrina cristiana. I vescovi Carlo Borromeo a Milano e Gabriele Paleotti a Bologna, favorirono la istituzione sistematica di queste confraternite della dottrina cristiana nella parrocchie delle loro rispettive diocesi. Dopo l’erezione in arciconfraternita decretata da Paolo V nel 1607 della scuola fondata a Roma nel 1560 da Marco de Sadi Cusano e Enrico Pietra, questa si diffuse ampiamente anche fuori d’Italia giungendo tra il 1607 e il 1908 ad aggregare 528 analoghe compagnie.

Nel corso del secolo XVII aumentano, sotto nuovi titoli, le confraternite di culto e di devozione alla Vergine Madre di Dio e ai Santi. Ad esse si aggiungono quelle per il suffragio delle anime del Purgatorio, istituite dal cappuccino Alessio Segàla da Salò (†1628), e quelle del nome di Gesù, le congregazioni mariane, le pie società di S. Giuseppe e le associazioni degli Schiavi di Maria istituite dai Teatini, nonché le compagnie dell’Angelo Custode diffuse dai Somaschi.

Nel corso dello stesso secolo, però, i consistenti patrimoni delle confraternite fecero emergere una serie di problemi relativi alla loro amministrazione, tra cui quello del rapporto con i frati, nel caso delle confraternite erette dagli istituti religiosi, e l’eventuale presenza del fenomeno “clericalizzazione“ nella loro gestione. Certo la presenza di sacerdoti diocesani in varie confraternite è un fenomeno rilevante alla fine del secolo XVII e nei secoli seguenti. A volte alcuni di essi divenivano anche priori o governatori delle confraternite. Questo fenomeno trova la sua spiegazione non solo nella pietà e nella devozione dei singoli membri di una confraternita, ma anche nelle necessità amministrative dei patrimoni ormai consistenti che persone poco o per nulla istruite erano incapaci di gestire. Inoltre si ha una pressione da parte dei parroci nei vari luoghi per unire le confraternite più strettamente alla parrocchia, non tanto per motivi pastorali, quanto per situarle meglio nella sfera ecclesiastica. E sempre riguardo all’amministrazione, anche se la documentazione relativa oggi nota spesso mostra una gestione accurata e una particolare attenzione alle attività di culto, non tutto doveva scorrere liscio se a volte in questo secolo XVIII alcuni vescovi intervennero per imporre la compilazione di inventari del patrimoniale difendendolo così da eventuale usurpazione di alcuni, e per comporre e sanare il partitismo che divideva gli animi in questioni amministrative, con discussioni accese e anche violente.

Nell’Italia meridionale, sempre nel secolo XVIII, sotto l’influsso della politica riformista dei Borboni, le confraternite subirono trasformazioni verso un carattere più secolarizzato e più amministrativo sanzionato dai regi assensi, che portavano in vari casi allo sgancio dallo spirito originario, e ad una forte caratterizzazione formale e secolarizzata.

Con le vicende del periodo napoleonico in Italia (1796-1814) molte confraternite vennero soppresse o costrette dall’evolvere degli eventi a ridurre notevolmente le relative attività proprie. Altre invece, si rianimarono o si rifondarono nell’opera svolta per la restaurazione, e non poche assunsero un orientativo caritativo e pastorale con una più stretta connessione con gli organismi ecclesiastici, ma il loro declino era ormai segnato nelle varie regioni d’Italia.

Fonti e Bibl. essenziale

G. Angelozzi, Le confraternite laicali. Un’esperienza cristiana tra medioevo e età moderna. Editrice Queriniana, Brescia, 1978; J.R. Banker, Death in the Community: Memorialization and Confraternities in an Italian Commune in the late Middle Ages, Athens, Georgia, Usa, 1988; Ch. F. Black, Italian Confraternities in the Seixteenth Century, Cambrigde 1989 (traduzione italiano, Milano 1992); Chiesa e società. Aspetti e problemi dell’associazionismo laicale europeo moderno e contemporaneo, a cura di L. Bertoldi Lenoci, Fasano, 1994; G. De Sandre Gasparini, Appunti per uno studio sulle confraternite medievali: problemi e prospettive di ricerca, in “Studia patavina”, 15 (1968), 115-124; G. De Sandre Gasparini, Movimento dei disciplinati, confraternite e ordini mendicanti, in I Frati Minori e il terzo ordine. Problemi e discussioni storiografiche. Atti del convegno, Todi 17-20 ottobre 1982, Todi, 1985, 79-114; Le confraternite in Italia fra Medioevo e Rinascimento, a cura di G. de Rosa, Atti della tavola rotonda, Vicenza, 3-4 novembre 1979, in “Ricerche di storia sociale e religiosa”, num. spec., 17-18 (1980); P. Lopez, Le confraternite laicali in Italia e la riforma cattolica, in “Rivista di studi salernitani”, 2 (1969), IV, 153-238; G.G. Meersseman, La riforma delle Confraternite laicali in Italia prima del Concilio di Trento, in Atti del convegno di storia della Chiesa in Italia, Padova 1960; G.G. Meersseman, Ordo fraternitatis. Confraternite e pietà dei laici nel Medioevo, in collaborazione con G.P. Pacini, Roma, 1977, 3 voll; G.M. Monti, Le confraternite medievali dell’alta e media Italia, Venezia 1927, 2 voll.; D. Zardin, Le confraternite in Italia settentrionale fra XV e XVIII secolo, in “Società e Storia, 10 (1987), 81-137.


LEMMARIO




Congregazione dei Vescovi e Regolari - vol. I


Autore: Antonio Menniti Ippolito

L’origine della Congregazione dei Vescovi e regolari può essere individuata nella speciale commissione cui Pio V affidò il compito d’affrontare alcune gravi questioni in materia ecclesiastica relative al Patriarcato di Aquileia. Esauritasi l’emergenza in quella sede, la commissione continuò a operare in tema di controllo sull’attività dei vescovi fino a divenire nel 1576, con Gregorio XIII, un organo, peraltro da ora permanente, che prese il nome di Sacra Congregatio super consultationibus episcoporum. Ad essa si affiancò, dieci anni più tardi, con Sisto V, nel 1586, la Sacra Congregatio super consultationibus regularium e lo stesso papa, l’anno successivo, accolse nel suo elenco di quindici organismi le due congregazioni con personale e competenze distinte. Fu sotto Clemente VIII che esse furono infine accorpate ed ebbero, almeno dal 1593, un unico prefetto. Dal 1601 l’organismo viene presentato quale Sacra Congregatio negotiis et consultationibus Episcoporum et Regularium praeposita.

Tali e tante le sue competenze, che Urbano VIII ebbe a specificare che esse potevano considerarsi di fatto universali: di fatto le era solo precluso il compito di affrontare questioni legate all’interpretazione dei canoni conciliari che restava esclusivo della Congregazione del Concilio. In realtà nel 1622 era stata già sottratta all’ufficio la giurisdizione sui vescovi in area di missione, passata a Propaganda Fide, e nel 1626 le questioni relative all’Immunità e privilegi di giurisdizione del corpo ecclesiastico che passarono, appunto, alla Congregazione dell’Immunità. Nel 1649 Innocenzo X istituì poi la Congregazione sullo Stato dei regolari che si proponeva di analizzare la situazione dei vari conventi in vista di una riforma disciplinare.

Composizione, procedura e competenze. A comporre la Congregazione dei Vescovi e regolari erano soli cardinali con l’eccezione del prelato segretario (ma tale ruolo, scriveva de Luca, era «tra i più prossimi al cardinalato»), e un discreto numero di detti componenti, rivelano gli Annuari, partecipavano – venendo a costituire di fatto una sorta di “supercongregazione” – anche all’attività delle Congregazioni del Sant’Uffizio, del Concilio e dell’Immunità, che costituivano i “dicasteri” pontifici con competenza sulla realtà ecclesiastica (e non solo). Chi si rivolgeva per qualsiasi genere di problema a questa, come alle altre Congregazioni su nominate, non doveva pagare nulla, neppure per le spedizioni. Le competenze della Congregazione dei Vescovi e regolari si sovrapponevano inevitabilmente soprattutto con quelle della Congregazione del Concilio, ma il cardinal de Luca notava però in proposito che mentre quest’ultima camminava in termini strettamente giuridici, «i quali risultano dai canoni o dai concilii», la prima «ragionevolmente alle volte suol camminare da principe ecclesiastico, con le regole prudenziali, non devianti però dal senso, ovvero dalla ragione de’ sacri canoni e de’ concilii, e con le notizie e informazioni anche occulte, così richiedendo la qualità de’ negozi, molti de’ quali, o per sostenere la dignità episcopale, o la riputazione delle religioni, o de’ monasteri, non conviene di mettere in pubblico […], sicché comple di governarli con una pia ecclesiastica politica». La Congregazione doveva insomma solo ispirarsi alle norme giuridiche, ma le sue deliberazioni dovevano essere improntate a duttilità e prudenza e adattarsi alle realtà che s’incontravano. Da qui una procedura lenta, attenta, complessa. I memoriali che venivano spediti o direttamente ai padri della Congregazione o al papa, e che contenevano denunce contro comportamenti illeciti o comunque critici di ecclesiastici, richieste d’autorizzazione per alienare o tramutare benefici ecclesiastici o relative a riti, vacanze, conflitti di giurisdizione, ecc., venivano in analizzati in prima battuta dai membri del dicastero e poi, assai di frequente, rispediti al vescovo o ad altri che potevano ragionevolmente esprimersi sulle tematiche presentate, con richieste di approfondimento. Non di rado, e soprattutto quando lo stesso ordinario era coinvolto nel quesito, erano rivolte invece ad altri prelati o vescovi vicini. Tutto, come detto, con metodi extragiudiziali e con metodo «prudenziale», «ad uso di principe più che di giudice». Le richieste di fatto sistematiche di approfondimento rendevano lunghissima la trattazione delle cause, che si trascinavano solitamente per anni: ciò era soprattutto dovuto alla natura dei memoriali presentati alla Congregazione, che erano atti di parte, composti per sostenere (presunti) diritti, per difendersi da accuse, per denunciare qualcuno o qualcosa e a tal fine spesso artificiosamente, se non maliziosamente, caricati di elementi impropri. Al memoriale iniziale seguiva poi tra l’altro spesso un contro-memoriale altrettanto poco oggettivo, oppure omissivo, o, ancora, ugualmente caratterizzato da una spiccata tendenza a drammatizzare, ad esagerare ogni elemento.

In sintesi, alla Congregazione venivano sottoposte tutte le denunce riguardanti ordinari, prelati minori e regolari d’ogni Ordine o Religione. Per quel che riguardava i vescovi i temi trattati nei memoriali possono essere raccolti in sei gruppi. 1) Questioni beneficiarie e patrimoniali, legate ad esempio all’amministrazione di proprietà ecclesiastiche infruttuose, magari ricevute grazie a donazioni o lasciti testamentari, oppure alla possibilità di utilizzare rendite destinate ad uno scopo per un’altra funzione. 2) Questioni legate ai chierici, al loro numero spesso eccessivo, e, più di rado, insufficiente. Erano soprattutto i chierici coniugati e quelli «selvatici» o «vaganti» a costituire un problema, spesso grave. 3) Casi legati a vacanze beneficiarie, a elezioni, contestate o non, ad esempio dei vicari capitolari in tempo di sede vacante. 4) Quesiti relativi a riti e cerimoniali: norme ad esempio sui funerali e su quanto poteva essere richiesto per il loro svolgimento, questioni legate a processioni, predicatori, ecc. 5) Contenziosi tra chierici e comunità, tra chierici e autorità civili, tra chierici e chierici. 6) Questioni legate all’amministrazione della giustizia penale, oppure disciplinari e d’ordine pubblico in generale. All’interno di tali casi si presentavano anche, e spesso, conflitti di giurisdizione che coinvolgevano i vescovi con i loro tribunali, i Nunzi e le autorità civili con le loro proprie strutture. Nello specifico, quando le cause riguardavano i vescovi, gli ordinari inquisiti potevano essere convocati a Roma o essere sottoposti al vaglio di un Vicario apostolico o di altre figure speciali rappresentanti l’ufficio romano. La Congregazione poteva spedire un Vicario Apostolico qualora il vescovo si trovasse inabile al servizio per questioni di salute o per altro, oppure quando fossero insorti in sede di vacanza dell’ordinario dissidi all’interno dei Capitoli per l’elezione del Vicario capitolare (dissidi, va sottolineato, molto comuni), o qualora i Capitoli esitassero troppo per qualsiasi ragione all’elezione del detto Vicario. Quanto ai regolari, la Congregazione decideva sulle fondazioni di nuovi monasteri o conventi; sul passaggio di religiosi da un monastero ad un altro, sulle domande di fuoriuscita dal Chiostro. Decideva poi sulle richieste di licenza presentate perché «fanciulle» potessero essere educate in specifici monasteri o per introdurre in detti luoghi servitù utile ad assistere le monache; prendeva posizione sulle pretese di aumentare o di ridurre in certe circostanze le doti necessarie per entrare nei monasteri; risolveva questioni legate alla elezione dei superiori decidendo se erogare dispense; autorizzava la scelta di confessori straordinari; decideva se autorizzare l’abbandono di un luogo religioso per entrare in un altro; accordava i «gradi religiosi»; stabiliva la legittimità di «gravami imposti da’ Prelati agli stessi regolari». La Congregazione aveva poi diritto di disporre ispezioni per verificare le elezioni a cariche compiute in ogni monastero o convento o di autorizzare alienazioni di beni compiute senza preventiva autorizzazione romana. Anche quando le cause riguardavano i regolari le procedure erano lunghe e ispirate a grande prudenza. Le richieste tese ad ottenere chiarimenti e ulteriori informazioni erano sistematiche (e non di rado erano rivolte a regolari che vivevano fuori dell’Europa) e a volte, quando le pratiche erano costituire da ricorsi di religiosi contro i superiori, esse venivano rimesse al Generale della religione, se presente in Curia, o al Procuratore generale della stessa.

L’attività della Congregazione. Il poderoso fondo dell’Archivio Segreto Vaticano che testimonia dell’attività della Congregazione dei vescovi e regolari costituisce una fonte primaria per lo studio della Chiesa soprattutto italiana. Le cause che vi sono descritte riguardano infatti in primo luogo la Chiesa della penisola, che di fatto costituiva la Provincia religiosa del papa. Sondaggi hanno dimostrato che la Congregazione si occupava di Italia per il 98% dei casi e che l’80% di questa quasi totalità di cause italiane riguardava le terre sottoposte al dominio diretto del pontefice romano e l’Italia meridionale continentale, terra questa caratterizzata da un numero straordinario di diocesi, da una debole sovranità – per largo tratto dell’età moderna esercitata da un vicerè spagnolo – anche caratterizzata dalla forte presenza baronale, da una organizzazione ecclesiastica ricca di elementi peculiari, basti pensare al sistema delle chiese ricettizie. Nel XVIII sec., quando nel Meridione d’Italia agli Asburgo di Spagna si sostituirono prima quelli d’Austria e poi i Borbone, che acquisirono un più che sostanziale controllo della Chiesa meridionale soprattutto con il concordato con la Santa Sede del 1741, l’afflusso, verrebbe da dire il diluvio, di memoriali meridionali si esaurì e a venir trattate dalla Congregazione furono quasi esclusivamente cause relative allo Stato pontificio. Nell’area centro settentrionale della penisola, nei diversi domini in cui essa si trovava divisa, furono istituzioni statali più solide e interessate ad accrescere il controllo sulle Chiese locali ad intercettare naturalmente i memoriali che altrove venivano inviati a Roma. C’è anche da notare come queste aree fossero assai più stabili, relativamente più compatte e meno inquiete di quelle meridionali e con un corpo più disciplinato di chierici e di ordinari.

Per quel che riguarda i contenuti dei memoriali v’è da notare come a redigerli fossero soprattutto soggetti laici, singoli o comunità, che denunciavano comportamenti impropri, storture, inadempienze. Dalle denunce di gravi crimini (omicidi, reati sessuali, ruberie, abusi compiuti da chierici) o anche solo inadempienze (magari relative alla cattiva gestione del seminario), erano insomma attori laici a chiedere non solo genericamente comportamenti corretti, ad esempio che i chierici vestissero da chierici o svolgessero almeno qualcuna delle funzioni legate al loro ruolo, ma anche a richiamare all’attenzione dei membri della Congregazione dei vescovi e regolari le norme del Concilio tridentino che quei comportamenti e abusi già avrebbero potuto impedire o reprimere. E però, come detto, la Congregazione si regolava altrimenti. Per fare un esempio concreto, nei riguardi di uno dei problemi maggiori della Chiesa del tempo, quello dell’eccessivo numero dei chierici esclusivamente ordinati in minoribus (e si denunciava come ciò avvenisse per il desiderio di costoro di godere delle immunità, fiscali e giudiziarie, legate allo status), per tutta l’età moderna la Congregazione rispose alle continue denunce provenienti dal mondo dei laici solo con generiche raccomandazioni ai vescovi o vicari da cui il fenomeno dipendeva. I canoni tridentini descrivevano invece con precisione i requisiti necessari per divenire chierici e gli obblighi a ciò legati, ma nella realtà d’antico regime, in specie quella del Meridione continentale italiano, non v’era evidentemente modo di applicarli e bisognava agire, ricordando de Luca, politicamente, come un principe e non come un giudice. Una difficoltà che non riguardava peraltro la sola Congregazione dei vescovi e regolari: anche quella del Sant’Uffizio infatti, quando veniva chiamata ad occuparsi delle medesime tematiche riguardanti i comportamenti del mondo dei chierici, agiva allo stesso modo e ricordo come sistematicamente alcuni dei suoi componenti partecipassero del resto anche all’attività dell’altra Congregazione.

La Congregazione dei vescovi e regolari attiva nelle forme fin qui descritte fu soppressa nel 1908 da Pio X che devolse le sue competenze in parte alla Congregazione Concistoriale in parte alla Congregazione dei religiosi. Oggidì la giurisdizione sui patriarcati, arcidiocesi e diocesi, prelature e abbazie territoriali, ecc. spetta a tre diversi organi: alla Congregazione dei Vescovi e a quelle per le Chiese orientali e per l’Evangelizzazione dei popoli.

Fonti e Bibl. essenziale

G.B. de Luca, Theatrum Veritatis et Iustitiae […], XV, Napoli 1678; Id., Il Dottor volgare ovvero il compendio di tutta la legge civile, canonica, feudale e municipale […], IV, Firenze 1843; C. Donati, Vescovi e diocesi d’Italia dall’età post-tridentina alla caduta dell’Antico regime, in Clero e società nell’Italia moderna, a cura di M. Rosa, Laterza, Roma-Bari 1992, 321-389; N. Del Re, La Curia romana. Lineamenti storico-giuridici, IV ediz., Città del Vaticano 1998; G. Romeo, La Congregazione dei Vescovi e Regolari e i visitatori apostolici nell’Italia post-tridentina: un primo bilancio, in Per il Cinquecento religioso italiano. Clero, cultura e società, a cura di M. Sangalli, II, Edizioni dell’Ateneo, Roma 2003, 607-614; A. Menniti Ippolito, 1664. Un anno della Chiesa universale. Saggio sull’italianità del papato in età moderna, Roma, Viella 2011.


LEMMARIO




Congregazione del Sant'Uffizio - vol. I


Autore: Francesco Castelli

Con la bolla Licet ab initio il 21 luglio 1542 Paolo III istituì una commissione cardinalizia deputata a giudicare e perseguire in tutto il mondo cattolico i reati contro la fede. La denominazione dello speciale organismo, scelta dagli stessi cardinali membri, fu Congregatio Sanctae Inquisitionis haereticae pravitatis ma negli anni successivi entrarono nell’uso comune espressioni quali «S. Congregazione del Sant’Uffizio dell’Inquisizione», «Inquisizione Romana», o più genericamente «Sant’Uffizio».

La Congregazione era composta da sei cardinali «super negotio fidei commissarios et inquisitores generales et generalissimos», coadiuvati nelle loro mansioni da cinque teologi consultori, dal maestro generale dei domenicani, dal maestro dei Sacri Palazzi e da un teologo con funzioni di commissario. Più tardi sarebbe stata introdotta la figura dell’assessore, alle dipendenze del commissario. Era presente anche un avvocato fiscale con funzioni di pubblica accusa. Ben presto la Congregazione aumentò i suoi componenti e i suoi uffici, disponendo anche di sedi periferiche, collocate in prevalenza nell’Italia centro-settentrionale. Nel frattempo, nel 1550, Giulio III disponeva che il tribunale dovesse occuparsi in particolare della penisola italiana e della sua vita religiosa. Le sedi periferiche sopravvissero per un arco di tempo limitato. I singoli stati italiani, gelosi custodi della propria giurisdizione, abolirono unilateralmente i tribunali locali dell’Inquisizione e con l’inizio del XIX secolo non rimase in piedi alcuna sede giudiziaria tranne che nello Stato Pontificio. Con l’unificazione italiana, infine, cessarono di sopravvivere anche queste ultime. Da allora rimase in funzione unicamente la sede centrale nel palazzo del Sant’Uffizio che continuò a svolgere le sue funzioni anche se la massa di lavoro si ridusse in modo considerevole.

 

Fonti e Bibl. essenziale

Sulla Congregazione del Sant’Uffizio la bibliografia aumenta costantemente. Tra le opere più significative si veda: Inquisizione romana e Controriforma. Studi sul cardinal Giovanni Morone (1509-1580) e il suo processo d’eresia, ed. rivista e ampliata, Brescia 2005; A. Prosperi, Tribunali della coscienza. Inquisitori, confessori, missionari, Einaudi, Torino 1996; J. Tedeschi, Il giudice e l’eretico. Studi sull’Inquisizione romana, Vita e Pensiero, Milano 1997.


LEMMARIO




Congregazioni religiose femminili - vol. I


Autore: Gaetano Greco

Con il termine congregazione religiosa femminile si designa un istituto religioso, i cui membri sono dediti alla vita attiva nella società e sono vincolati all’osservanza di voti semplici, perpetui o temporanei, con esclusione del voto della clausura. A proposito di queste famiglie si è parlato di un «terzo stato» femminile. Con questo paradigma s’intende una condizione della donna diversa sia dal matrimonio (caratterizzato, secondo la tradizione cattolica, dalla vita domestica e dalla funzione procreatrice), sia dal monachesimo (a sua volta caratterizzato dalla vita claustrale e dalla funzione contemplativa): una condizione attiva, incentrata su una vita non vincolata dalle mura del chiostro e dedita all’assistenza, all’educazione, all’insegnamento, al lavoro. Né sono mai mancate, nel corso dei secoli, donne che hanno scelto un’ulteriore strada: la consacrazione, in forma pubblica o anche solo privata, ad una vita religiosa, nella preghiera e nella carità verso il prossimo, conducendo individualmente ma in una dimensione spirituale e materiale ascetica e rigorosa, una vita o da recluse carcerate o dedicandosi alla cura di un edificio sacro. Sono note, a proposito si questa scelta, alcune esperienze medievali dell’Italia centro-settentrionale, come le “devotae” (per esempio s. Bona da Pisa, nella seconda metà del sec. XII) o le “mulieres incarceratae” o “cellane” (si pensi alla beata Verdiana da Castelfiorentino, morta nel 1241). Con aspetti meno radicali, ma con maggior successo, invece, si presenta il fenomeno delle cosiddette “monache di casa” dell’Italia meridionale e insulare, che dimoravano nelle abitazioni familiari e vivevano singolarmente o con i loro parenti, sotto la direzione spirituale di sacerdoti diocesani o, forse più spesso, di regolari. Si tratta di un universo femminile magmatico, dalla diffusione e dalle caratteristiche non sempre definibili: un fenomeno che che è emerso in ambito storiografico come problema di una densa consistenza a proposito dell’epoca moderna e ancora oggi è presente, sotto il manto – allora come ore – di differenti denominazioni.

Venendo più propriamente al terzo stato, già nel Medioevo, oltre alle monache dei chiostri femminili legati agli ordini monastici e mendicanti erano presenti altre figure di religiose, con esperienze di vita a carattere comunitario, come le «ospedaliere», le «oblate», le «pinzochere», le «beghine» ed altre ancora. Oblate e ospedaliere prestavano la loro assistenza negli ospizi e negli ospedali. In parte erano vedove o zitelle, che si offrivano individualmente per servire in questi luoghi pii, ai quali donavano i loro beni in cambio del mantenimento a vita. Come nel resto dell’Europa cristiana, vi erano anche delle comunità femminili più istituzionalizzate: comunità che hanno avuto la capacità di durare nel tempo, nonostante i mutamenti normativi, come le Oblate Ospedaliere Terziarie Francescane di Santa Chiara, al servizio – ancora oggi – dell’Ospedale di S. Chiara di Pisa sorto alla metà del Duecento, o le Oblate Ospedaliere di Santa Maria Nuova, sorte a Firenze fra il 1284 ed il 1288 su ispirazione di una povera serva, Monna Tessa, per assistere gratuitamente le povere inferme. Un istituto contemplativo, ma aperto anche ad iniziative sociali, a partire dall’educazione, fu anche quello delle Oblate del Monastero di Tor de’ Specchi, fondato a Roma nel 1433 da suor Francesca Romana. Né mancarono in Italia esperienze assimilabili al grande movimento europeo del beghinaggio, come dimostra la vicenda delle Umiliate in Lombardia, le cui case talora furono legate ai conventi dei Mendicanti per motivi di opportunità.

Nella società del Basso Medioevo sorsero numerose anche le case del movimento del Terz’ordine regolare (→ voce) femminile degli Ordini Mendicanti. Esemplare, in questo senso, fu il caso della beata Angela da Corvaro, che dal 1397 creò delle case di Terziarie nella cittadina di Foligno. A partire dalla fine del Trecento furono riconosciute formalmente e nel 1428 papa Martino V concesse a ciascuna di queste case il diritto di eleggere una propria superiora, che avesse la facoltà di accogliere le novizie e di accettare le nuove professioni. La mancanza dell’obbligo della clausura consentiva a queste comunità e alle loro sorelle di dedicarsi più facilmente alle attività assistenziali; ma vennero anche sottoposte ad una forte pressione – soprattutto da parte degli Osservanti – per trasformarle in veri e propri monasteri, con la professione dei tre voti (compresa una rigida povertà e la vita in comune) e con l’adozione della clausura. Nel 1487 con il breve Dudum papa Innocenzo VIII dichiarò facoltativa l’accettazione della clausura da parte delle comunità di terziarie: su questa linea si mossero gli organi di governo delle varie congregazioni religiose. Tuttavia, nell’ultimo quarto del XVI secolo anche le terziarie furono costrette a trasformarsi in monache, almeno dove trovarono le risorse finanziarie e i locali adatti per la nuova disciplina a loro imposta; in caso contrario, queste antiche comunità furono condannate all’estinzione (→ Ordini monastici femminili).

Un destino analogo colpì, in Italia e fuori d’Italia, alcuni nuovi istituti femminili, che nel clima della «Riforma cattolica» presero ispirazione dalle nuove famiglie dei chierici regolari per coniugare la vita comunitaria con l’impegno apostolico ed assistenziale nella società. Le Angeliche, la cui nascita intorno al 1530 si deve al barnabita Antonio Maria Zaccaria e a Ludovica Torelli contessa di Guastalla, nonché alla guida spirituale della «divina madre» Paola Antonia Negri, poterono dedicarsi per una quarantina d’anni alle loro opere di apostolato esterno, finché negli anni Settanta non subirono l’imposizione della clausura e della vita contemplativa, al punto che sul finire del Settecento caddero sotto i colpi della soppressione giuseppina dei monasteri femminili giudicati privi di utilità sociale. Estinte nel 1849, risorgeranno secondo l’ispirazione dei loro fondatori solo nel 1879, in un contesto politico, sociale e religioso lontanissimo da quello delle origini. A loro volta, anche le Orsoline, fondate a Brescia da Angela Merici nel 1535 come “luogo pio” dedito all’assistenza delle “incurabili”, non avevano adottato la clausura e, addirittura, molte di loro vivevano presso le rispettive famiglie; tuttavia, nei decenni successivi la gerarchia ecclesiastica riuscì a imporre prima il passaggio del governo delle case dalle vedove alle vergini e, dopo la diffusione della compagnia anche in Francia, la sua trasformazione in un vero ordine monastico femminile, con i voti solenni e la clausura.

Questi fallimenti non devono far dimenticare che, nonostante il trionfo della disciplina claustrale di Pio V e di Gregorio XIII e sebbene fossero degradati a semplici associazioni religiose, anche nella società italiana della Controriforma e dell’Antico Regime da una parte sopravvissero istituti di oblate dedite all’assistenza ospedaliera e alla cura delle fanciulle, dall’altra nacquero nuovi istituti religiosi, che furono coronati da un grande successo, ancorché troppo spesso oscurato nella memoria storica. Come in altre regioni dell’Europa occidentale, queste famiglie avevano alcuni caratteri, che li distinguevano nettamente dagli ordini monastici, tanto sul piano della disciplina, quanto sul piano dell’impegno esistenziale delle religiose. Quest’ultime, infatti, si limitavano a pronunciare voti semplici, talora solo temporanei (persino anno per anno), e non erano vincolate al rigore della clausura, perché le loro attività imponevano di vivere nella società o, almeno, l’apertura delle loro case alla società: l’accoglimento, la cura e l’educazione gratuita delle bambine e fanciulle povere, e talora anche dei bambini orfani, l’istruzione delle ragazze dei ceti più elevati, il recupero di donne “traviate”, l’assistenza ai malati e ai vecchi presso gli ospedali o nei loro stessi domicili. Come nei secoli precedenti, queste comunità si presentavano con un carattere “semi-religioso”: vivevano in comunità, che però non osservavano la clausura (oppure adottavano una sorta di clausura “aperta” per le ospiti ricoverate nelle loro case) e che non di rado contavano pochi membri; pronunciavano voti semplici, talora a carattere temporaneo; mettevano in comunione i beni dotali delle consorelle, privilegiavano il lavoro (anche quello manuale, per mantenere se stesse e i loro assistiti) rispetto alla vita contemplativa e alla preghiera, che, pur presenti, non dovevano ostacolare l’impegno nelle loro varie attività; tendevano a riconoscere il magistero carismatico delle loro fondatrici e delle loro superiori. Certo, le norme adottate da papa Pio V impedivano che fossero riconosciuti come “religiose” le donne che operavano in quegli istituti, le cui regole non prevedessero la professione dei voti solenni e l’adozione della clausura, ma le Congregazioni romane praticavano nei confronti di questi istituti una certa tolleranza, finché papa Benedetto XIII abrogò gli impedimenti formali fra il 1724 e il 1730. Le disposizioni di questo pontefice, poi, furono confermate dalla costituzione apostolica Quamvis justo del 30 aprile 1749 di Benedetto XIV, che, pur essendo rivolta all’istituto delle Dame Inglesi (chiamate anche “Gesuitesse”) di Mary Ward, costituì in seguito il riferimento normativo per le altre analoghe iniziative.

Maggior fortuna conobbero, invece, le Dimesse della Madonna, nate a Vicenza sullo scorcio degli anni Settanta del Cinquecento; tuttavia, si trattava di una compagnia di secolari, che pur conducendo una vita comunitaria, si dedicavano alle opere caritative ed all’insegnamento del catechismo, senza emettere i voti: solo agli inizi del Novecento si trasformeranno in una congregazione religiosa. Un discorso analogo può farsi per le Suore Medee o Suore di S. Giovanni Battista e di S. Caterina da Siena, sorte a Genova nel 1594. Probabilmente, in Italia la prima congregazione religiosa femminile finalizzata all’educazione delle fanciulle povere fu fondata a Firenze nel 1630 da Eleonora Ramirez di Montalvo, con la collaborazione del gesuita Cosimo Pazzi: quelle Ancelle della Santissima Vergine della Divina Incarnazione, che riuscirono a superare indenni la bufera suscitata dagli scandali che di lì a poco travolsero la comunità femminile fondata da Faustina Mainardi. Altre comunità sorsero nei decenni successivi, dalla Pianura Padana alla Sicilia: le compagnie venete di Dimesse della Madonna (da Tiene a Feltre, da Padova a Bergamo, da Verona a Udine), le Brignoline e le Maestre Pie Franzoniane a Genova (rispettivamente nel 1631 e nel 1754), le Oblate Agostiniane del Santo Bambino Gesù (Roma, 1640 c.), le Oblate Sacramentine (Avellino, 1654), le Convittrici del Bambino Gesù a Roma (1662), le Suore Francescane Missionarie d’Assisi (1700), le Oblate di S. Francesco di Sales (inizi del XVIII secolo, a Firenze), le Suore della Beata Vergine Maria del Rosario (Udine, 1705), le Oblate Cistercensi della Carità (Anagni, 1713), le Oblate di Gesù e Maria (Albano Laziale, 1714-1727), le Suore Collegine di Frascati, le Oblate di San Francesco Saverio ad Ariano Irpino (1732), le Figlie della Carità del padre Filippone (Palermo, 1727), ed altre ancora, a lungo trascurate da una storiografia più attenta ai grandi ordini regolari e ai loro rami femminili. Un accenno particolare meritano le Maestre Pie, fondate da Rosa Venerini a Viterbo nel 1685 e introdotte anche a Roma agli inizi del Settecento dalla sua allieva Lucia Filippini, per la loro capacità di irradiarsi anche nei piccoli centri rurali del Lazio e della Toscana in decine e decine di piccole “scuole pie” (ciascuna con soltanto due-tre maestre) dedite all’educazione religiosa ed all’istruzione delle fanciulle povere: la loro diffusione fra le comunità della Maremma ha prodotto in quell’area un tasso di alfabetizzazione femminile relativamente alto già alle soglie della Rivoluzione Nazionale.

Queste piccole, e meno nobili (almeno rispetto ai monasteri di clausura), comunità di vita attiva riuscirono a sopravvivere alla Rivoluzione e a Napoleone, e decollarono definitivamente nei decenni della Restaurazione con la loro risposta vincente alle molteplici esigenze della società italiana: non solo la vasta gamma delle attività assistenziali necessarie per alleviare le sofferenze di quegli anni di accelerazione dei processi di trasformazione e di rivoluzione degli assetti sociali tradizionali, ma anche il recupero e la rieducazione delle donne dimesse dal carcere (come nel caso delle Figlie di Gesù Buon Pastore fondate nel 1823 a Torino da Giulia Faletti di Barolo o le Ancelle dell’Immacolata Concezione di Maria, fondate a Parma nel 1857 da Anna Maria Adorni) e persino il sostegno alle vocazioni sacerdotali dei giovinetti nelle scuole preparatorie ai seminari (nel caso delle Ancelle del Divin Prigioniero, sorte a Sondrio nel 1826, o delle Suore di Carità dell’Immacolata Concezione di Ivrea). Anzi, sulla loro scia nacquero, persino in piena età napoleonica e poi con maggiore spinta nei lunghi decenni della Restaurazione, nuove famiglie di religiose come le Clarisse Sacramentarie (Venezia, 1806), le Suore di Carità dell’Immacolata Concezione o Suore d’Ivrea (dal 1806/1828) le Figlie della Carità o Canossiane (Verona, 1808), le Figlie del Cuore di Gesù (Verona, 1810), le Oblate di S. Luigi Gonzaga (Alba, 1815), le Oblate di S. Francesco di Sales (1816 a Città di Castello e 1818 a Cortona), le nuove famiglie di Maestre Pie a Forlì, a Roma, a Sestri Levante e a Genova, le Dorotee di Venezia (1821) e Vicenza (1836) e di Genova (1834, ad opera di Paola Frassinetti), le Figlie Francescane della Carità di Faenza (1824), le Figlie di Nostra Signora al Monte Calvario (Roma, 1827, quale filiazione dell’omonimo istituto genovese), le Povere Figlie della Provvidenza (1827, negli Stati estensi, per assistere ed educare le sordomute), le Giannelline di Chiavari (Figlie di Maria Santissima dell’Orto, 1829), le Ministre degli Infermi di S. Camillo di Maria Domenica Brun Barbantini a Lucca (1829-1841), le Figlie di Maria Immacolata (Verona, 1830), le Figlie del Sacro Cuore (Bergamo, 1831), le Suore di Maria Bambina (Lovere di Brescia, 1832), le Figlie della Divina Provvidenza di Roma (1832), le Suore della Provvidenza o Rosminiane (Domodossola, 1832), le Adoratrici del Sangue di Cristo (Frosinone, 1834), le Suore della Provvidenza di S. Gaetano da Thiene (Udine, 1837), le Figlie di Nostra Signora della Misericordia di Savona (1837), le Marcelline di Milano (1837-1838), le Ancelle della Carità (Brescia, 1840), la Compagnia di Maria per l’educazione delle sordomute di Verona (1841), le Povere Figlie delle Sacre Stimmate di S. Francesco (Firenze, 1850), le Ancelle dell’Immacolata Concezione di Maria (Parma, 1857), le Figlie di Gesù a Modena ed a Verona. A tutte queste, e a tante altre ancora, vanno aggiunte le congregazioni femminili estere, che s’insediarono nel nostro paese, come la Società del Sacro Cuore di Gesù o le Figlie della Carità di san Vincenzo de Paoli: queste ultime, anzi, furono fra le poche famiglie di vita attiva, che riuscirono a svilupparsi prima dell’Unità anche nell’Italia meridionale, dove ancora prevaleva il modello femminile della vita contemplativa. Se l’operosa carità nei confronti del prossimo e in tutti gli ambienti e situazioni sociali caratterizza la loro poliedrica attività, questi istituti presentano una grande innovazione sul piano organizzativo, pur conservando il principio della vita comunitaria: la tendenza a centralizzare il governo delle singole case sotto l’autorità di un superiore generale, ma anche spesso di una superiora generale. Non sfugga la duplice novità di quest’ultima aspirazione, che pure collideva apertamente con la mentalità diffusa nelle gerarchie maschili del tempo, che ancora guardava con forte sospetto – o condannava apertamente – le donne in movimento e non recluse fra quattro mura, che ancora giudicava le donne incapaci di governare sistemi complessi sul piano organizzativo-istituzionale, come su quello economico-finanziario. Pur fra tanti ostacoli, come in Francia anche in Italia in quei decenni furono gettate le basi di un “nuovo cattolicesimo sociale […] in cui le donne divennero un esercito professionale di infermiere, insegnanti e assistenti sociali” (Hufton, p. 329). Né si può trascurare la diversa composizione sociale rispetto al modello classico del monachesimo femminile: nelle nuove congregazioni l’iniziativa, il governo e l’impegno nei ruoli di primo piano non erano prerogativa esclusiva delle affiliate di estrazione sociale superiore, ma anche di quelle del ceto medio basso o persino di umili origini. Con le leggi di soppressione del 1855-1866, che pure disgregarono l’universo monastico femminile, queste famiglie religiose uscirono pressoché indenni, anzi rafforzate sul piano sociale, sia perché le loro forme di aggregazione e di attività nella vita sociale dimostrarono una piena corrispondenza alle nuove emergenze civili e religiose, a partire dall’impegno nella catechesi per i ceti più umili, accettando di confrontarsi con le problematiche di «classe» della società italiana liberale, investita da processi inediti, innestati dal capitalismo nelle attività produttive agrarie e industriali (come nel caso dell’occupazione femminile giovanile nelle fabbriche tessili, per esempio).

Fonti e Bibl. essenziale

A parte le numerosissime voci dedicate dal Dizionario degli Istituti di Perfezione (Roma, Edizioni Paoline, 1974-2003) alle singole congregazioni religiose femminili, si vedano: P.R. Baernstein, A Convent Tale. A Century of Sisterhood in Spanish Milan, New York – London, Routledge, 2002; G. Boccadamo, Le bizzoche a Napoli tra ’600 e ’700, in La Santa dei Quartieri. Aspetti della vita religiosa a Napoli nel Settecento. Studi in occasione del II centenario della morte di S. Maria Francesca delle Cinque Piaghe, 1791-1991, «Campania Sacra», XXII (1991), 351-39; M. Caffiero, Femminile/popolare. La femminilizzazione religiosa nel Settecento tra nuove congregazioni e nuove devozioni, in «Dimensioni e problemi della ricerca storica», II (1994), 235-245; M. Campanelli, Monasteri di provincia (Capua secoli XVI-XIX), Milano, Franco Angeli, 2012; L. Pazzaglia ed., Chiesa e prospettive educative in Italia tra Restaurazione e Unificazione, Brescia, La Scuola, 1994; E. Colagiovanni, Le religiose italiane. Ricerca sociografica, Roma, Centro Studi U.S.M.I. 1976; G. Galasso – A. Valerio edd., Donne e religione a Napoli. Secoli XVI-XVIII, Milano, Franco Angeli, 2001; M. Farina, Donne consacrate oggi. Di generazione in generazione alla sequela di Gesù, Milano, Figlie di S. Paolo, 1997; Donne e fede, G. Zarri – L. Scaraffia edd., Bari, Laterza, 1994; O. Hufton, Destini femminili. Storia delle donne in Europa, 1500-1800, Milano, Mondadori, 1996; M.C. Nazzari, Rona Venerini 1656-1728. La «fedeltà al popolo» come educazione femminile, Tesi di Laurea in Pedagogia Generale, relatore prof. Nicola Siciliani de Cumis, Università «La Sapienza» di Roma, 2002 (“TFO-SWIFT”, www.swif.it/tfo); R. Fusco – G. Rocca edd., Nuove forme di vita consacrata, Roma, Urbaniana University Press, 2010; M. Palazzi, Donne sole. Storia dell’altra faccia dell’Italia tra antico regime e società contemporanea, Milano, Mondadori, 1997; N. Raponi, Congregazioni religiose e movimento cattolico, in Dizionario storico del Movimento Cattolico in Italia. Aggiornamento, 1997, 82-96; G. Rocca, Donne religiose. Contributo a una storia della condizione femminile in Italia nei secoli XIX-XX, Roma, Edizioni Paoline, 1992; G. Rocca, Gesuiti, gesuitesse e l’educazione femminile, in «Annali di storia dell’educazione e delle istituzioni scolastiche», XIV, 2007, 65-75; M. Sensi, «Mulieres in Ecclesia». Storie di monache e bizzoche, Spoleto, Centro Italiano sull’Alto Medioevo, 2010; G. Tardio, Donne eremite, bizzoche e monache di casa nel Gargano occidentale, San Marco in Lamis (FG), Edizioni SMiL, 2007; M.E. Wiesner, Le donne nell’Europa moderna 1500-1750, Torino, Einaudi, 2003.


LEMMARIO




Congregazioni religiose maschili - vol. I


Autore: Flavio Rurale

Esperienze di vita solitaria e ascetica nella forma estrema dell’anacoretismo (il cui più noto esponente fu sant’Antonio) o in quella del cenobitismo (caratterizzata da momenti di perfetta solitudine alternati ad altri di vita comune: pasti, preghiera, più tardi anche il lavoro) segnarono fin dalle origini la società cristiana. Sorsero a partire dal IV secolo come risposta ai bisogni di singoli individui o di minoranze di fedeli desiderosi di vivere con radicalità il messaggio evangelico, in luoghi appartati «lontano dalle cure del mondo, a guisa di angeli» (S. Pricoco, Da Costantino, 385-386). Dall’oriente (Egitto, Palestina, Siria), loro terra d’origine, tali esperienze si diffusero in Europa e in Italia, dove maturarono particolarmente nel VI secolo «episodi di […] forte e creativo rinnovamento» con l’opera e le fondazioni sublacensi di s. Benedetto da Norcia (ibid., 424).

La vita monastica introdusse un modello di «appartenenza volontaria […] a regole e voti esclusivi di purità» che comportavano durissime rinunzie – «il rifiuto del sesso, del sangue e del denaro» – destinati a improntare l’organizzazione dei futuri ordini regolari (E. Brambilla, Alle origini, 63-65). Tali “religioni private” o sette, come furono chiamate, ebbero molto spesso carattere di spontaneità (come peraltro tante nuove fondazioni dei secoli successivi), e solo in un secondo momento, seguendo percorsi non sempre lineari, raggiunsero un assetto stabile, venendo riconosciute e istituzionalizzate dalle autorità ecclesiastiche o laiche (papa, vescovi, re, principi). Lo stile di vita dei monaci si presentava dunque come alternativo a quello del clero secolare urbano: «il loro modello non era la chiesa stabile dei vescovi e delle diocesi, […] ma quella degli Atti degli apostoli, l’attività carismatica e profetica di missionari mobili» (ibid., 67-78). Condizione, va detto, che permise loro in congiunture drammatiche di infrangere l’isolamento e di intervenire come veri e propri “sgherri di Dio”, anche saccheggiando, uccidendo e fomentando rivolte, contro le sopravvivenze della religione politeista (P. Chuvin, Cronaca degli ultimi pagani, Paideia Editrice, Brescia 2012, 83). Soggetti a norme sempre più rigide, nello spazio immune dei loro monasteri i monaci sperimentarono un regime di ammende e punizioni che si tradusse in un vero e proprio sistema di giustizia penale, che contribuì a definire pratiche di perdono pubbliche (riti di confessione e di grazia, indulgenze) destinate anche ai fedeli esterni e a diventare più tardi concorrenziali con la giustizia dei tribunali laici ed ecclesiastici (vescovili e inquisitoriali).

Occorre sottolineare, «insieme con la genuina spinta religiosa», il forte significato sociale e politico che l’opera del clero regolare (con gli abati) e di quello secolare (coi vescovi) ebbe nel favorire la riorganizzazione dell’Europa cristiana dopo la caduta dell’impero e le invasione barbariche (G. Sergi, Vescovi, monasteri, 79). L’incontro tra il processo di ricostruzione degli organismi di governo territoriale e le forme organizzative che la Chiesa andò approntando a livello locale e a Roma favorì la progressiva sovrapposizione di funzioni temporali e religiose, tra “regno e sacerdozio”. Ne uscì definito un ceto ecclesiastico con forti connotati politico-militari: nelle comunità abbaziali, non semplici comunità di preghiera ma microcosmi culturali, economici, giurisdizionali, nonché strutture di difesa, «si realizzò una simbiosi di funzioni […] destinata a durare secoli, […] di stretta collaborazione politico-ecclesiastica», con esponenti dell’elite (appartenenti alle casate fondatrici dei monasteri stessi) ivi educati e pronti a occupare poi incarichi di rilievo nelle strutture di governo urbano e rurale (ibid., 75-77; S. Pricoco, Da Costantino, 411, 413).

La storia degli ordini religiosi, a partire dalle originarie esperienze di tipo contemplativo, seguì nel corso del primo e secondo millennio traiettorie dagli esiti molto differenti. Si attenuò il divario tra vita nel secolo ed eremitismo, e riacquistarono centralità sia la vocazione sacerdotale, di per sé inizialmente estranea alla spiritualità monacale, sia l’interesse per la cultura (attraverso l’opera di trasmissione e conservazione della tradizione manoscritta e una fiorente creazione artistica). Si trattò di sviluppi i cui esiti furono del tutto evidenti nelle trasformazioni, per certi aspetti radicali, che attraversarono il variegato mondo dei religiosi: dalle comunità monacali del primo millennio si passò, attraverso l’esperienza dei canonici regolari, a quelle mendicanti del XIII secolo e infine ai chierici regolari (teatini, barnabiti, gesuiti, ecc.) cinquecenteschi.

Molto si è scritto del percorso quasi ciclico di fondazione, crisi, morte e/o rinnovamento proprio di tante comunità periodicamente soggette, dopo l’iniziale fase di affermazione, a processi di decadenza e conseguenti interventi di riforma (quando non addirittura a divisioni o a vere e proprie soppressioni, C. Fantappiè, Les ordres religieux entre histoire, droit et sociologie, Revue historique de droit français et étranger, LXXIII, 1995, 501-520). Fu in effetti proprio delle comunità regolari procedere per «rifondazioni, per separazione volontaria» (E. Brambilla, Alle origini, 64), per filiazione, quasi per partenogenesi, e certamente ciò avvenne in molti casi in conseguenza del bisogno di recuperare la coerenza perduta, la regola originaria, ovvero di sperimentare più originali forme di spiritualità e ascesi.

Ma monasteri e conventi, come detto, non furono mai solo uno spazio religioso (aperti com’erano a interessi di vario genere), né furono sempre capaci i loro superiori di impedire l’ingresso a soggetti inabili alla disciplina o, privi di una sincera vocazione, semplicemente interessati a riciclarsi (ex militari) e a garantirsi una carriera curiale (R.L. Guidi, Il dibattito sull’uomo nel Quattrocento, TielleMedia, Roma 1998, cap. IV). La profonda compenetrazione tra le due dimensioni (temporale e religiosa) fu di nuovo evidente nelle urgenze spirituali e devozionali (all’origine dell’esperienza mendicante) nate in risposta alle trasformazioni economiche e politiche che in Italia segnarono il passaggio prima alle città-stato poi ai principati regionali.

Dunque alle comunità (di cluniacensi, vallombrosiani, certosini, cistercensi, olivetani, camaldolesi, ecc.) che adottarono nelle grandi abbazie italiane ed europee le regole ispirate ai testi di s. Basilio, Pacomio, sant’Agostino, s. Benedetto si affiancarono nel ‘200 francescani e domenicani. Spinti da bisogni personali e collettivi, i frati mendicanti aderirono a un modello di vita comunitaria improntato a nuove regole (di s. Francesco, di s. Domenico), espressione di una diversa concezione dell’impegno religioso e della vita di perfezione: non più lontani dal resto dei fedeli, in una solitudine contemplativa, ma inseriti nella società urbana, secondo uno stile austero e di assoluta povertà. Come predicatori, missionari, confessori, veri e propri mediatori e pacieri nel dirimere liti e querelle di ambito cittadino su materie economico-finanziarie e politiche, i mendicanti, arricchitisi di nuove famiglie (agostiniani, serviti, carmelitani), assunsero funzioni di grande rilevanza sociale. Tra gli impegni di maggiore responsabilità vi fu quello di commissari nei tribunali inquisitoriali sorti per combattere l’eresia, incarico ricoperto anche dopo la riorganizzazione cinquecentesca del Sant’Uffizio. Non meno rilevante fu il loro contributo teorico e pratico nel dibattito emerso sulle nuove pratiche economico finanziarie (prestito a interesse) della società basso-medioevale.

Concomitante con l’affermazione dei mendicanti, la crisi trecentesca delle abbazie benedettine trovò sbocco da un lato nell’istituzione della commenda, vano tentativo di rinnovare materialmente e nello stile di vita i comportamenti dei religiosi, che poco o nulla modificò la situazione di abuso e degrado, finendo unicamente per salvaguardare gli interessi e le rendite dei cardinali romani (abati commendatari); dall’altro nella formazione di reti di raccordo tra comunità originariamente autonome e indipendenti per costituzioni e regole ora invece riunite nell’obbedienza a un’abbazia madre riformata (come nel caso padovano di inizio Quattrocento della congregazione benedettina di santa Giustina, divenuta un secolo più tardi congregazione cassinese).

Anche gli ordini mendicanti conobbero ben presto, sulla scia delle lunghe e violente polemiche sull’obbligo di povertà assoluta dei singoli frati e delle loro comunità, l’esigenza di un ripensamento interno che riportasse a una più rigorosa osservanza della regola stabilita dai fondatori. Nacquero, a fianco dei cosiddetti conventuali, le comunità osservanti, inclini a una maggiore coerenza con la spiritualità, gli impegni e lo stile di vita originari, eppure pronti allo scontro, anche armato, magari supportati da principi e patroni, pur di prevalere sulle comunità contrarie alla riforma e impossessarsi dei loro beni. Nel clima quattrocentesco, impregnato di ostilità verso la presenza degli ebrei nella società cristiana, l’impegno sociale dei frati (francescani osservanti) sfociò nella predicazione antigiudaica, che portò all’istituzione di strumenti finanziari, i Monti di Pietà, alternativi ai banchi ebraici e di sostegno al piccolo credito (monetario e in beni naturali) dei ceti medio bassi.

Né fu quello dell’osservanza l’ultimo esempio del procedere dei mendicanti (e dei regolari) tra crisi e rinascite: nel ‘500 i cappuccini rappresentarono un’ulteriore tappa nella progressiva frammentazione dell’ordine dei minori, non rimanendo peraltro immuni, come del resto avvenne per altre congregazioni vecchie e nuove, da divisioni e conflitti dottrinali, che portarono a fughe, espulsioni e processi, e in alcuni casi all’adesione alla riforma luterana (il generale Bernardino Ochino decise di lasciar l’Italia per Ginevra). Tale sviluppo accompagnò una fase di sperimentazione interna al mondo regolare molto complessa, in cui agli aspetti propriamente religiosi (per esempio la ricerca di nuove forme di spiritualità da parte dei laici e tra questi la presenza di figure femminili – si pensi a Paola Antonia Negri – poi direttamente coinvolte sia nella riforma dei vecchi istituti sia nell’istituzione dei nuovi) si sovrapposero gli interessi economici e politici delle grandi casate principesche e di facoltosi patroni.

Nell’ambito della polemica verso il clero regolare che segnò la cultura umanistica (erasmiana) e fu fatta propria non solo dalla riforma luterana ma anche da alcuni ambienti curiali romani (Consilium de emendanda ecclesia, 1537) divampando poi nel concilio di Trento (dove gli ordini religiosi vennero additati come la causa delle deviazioni eretiche), ampio interesse suscitò la discussione sulla necessità di rivedere ruolo e privilegi di monaci e frati, a favore della centralità del clero vescovile e parrocchiale: ma alla fine non produsse i risultati da molti sperati.

Gli ordini mendicanti, al pari delle congregazioni da poco istituite dei chierici regolari, continuarono infatti a conservare per tutta l’età moderna una funzione insostituibile nella Chiesa e nella società cristiana, godendo di ampie autonomie a livello locale (non erano soggetti alla giurisdizione vescovile) e talora anche nei confronti di Roma. Importante fu l’impegno profuso in ambito pastorale (non senza peraltro suscitare preoccupazioni, proteste e interventi censori da parte del clero diocesano): venne infatti spesso loro affidata la stessa cura d’anime, oltre alla semplice amministrazione del sacramento della confessione, alla direzione spirituale e alla predicazione dentro e fuori le loro chiese durante i cicli quaresimali e dell’avvento.

Particolarmente efficace fu il loro intervento anche nell’organizzare la popolazione laica, tanto in città come nelle campagne, attraverso le confraternite dedicate al culto del santissimo sacramento, della vergine, dei santi protettori, spazi non solo di devozione religiosa e di commissione artistica, ma anche di mutuo soccorso e, nelle aree economicamente meno avanzate, occasione per mettere a disposizione del ceto contadino piccole quote di credito. Insostituibile fu il ruolo degli Ordini sia contro l’ignoranza delle plebi e la sopravvivenza di forme cultuali paganeggianti, sia nella ricattolicizzazione delle popolazioni convertite alle fedi riformate, sia nell’attività missionaria nel continente americano, in Africa e in Asia. La loro opera rimase centrale anche in ambito culturale, dove soddisfecero il bisogno di formazione dell’antica aristocrazia e della nuova nobiltà, dei ceti medio-bassi e del clero (con l’insegnamento impartito nei collegi dagli ordini cosiddetti insegnanti: gesuiti, barnabiti, somaschi e scolopi, e con la gestione loro affidata dei seminari vescovili), continuando nel contempo a fare parte, coi loro membri più in vista, della repubblica delle lettere e rimanendo dunque protagonisti del dibattito filosofico e scientifico sei-settecentesco.

Irrisolti, sul lungo periodo, rimasero alcuni aspetti della loro organizzazione: iterati abusi (incapacità di controllo degli ingressi, mobilità indisciplinata, inosservanza delle regole, eccessiva mondanità) e nuovi problemi, come quelli connessi a quell’elite religiosa (confessori, precettori, teologi di corte) sottratta al controllo romano, fortemente dipendente da principi e sovrani, capace di operare in larga autonomia sul palcoscenico della politica europea nella fase di costruzione della moderna statualità. La curia papale, consapevole di dover arginare l’autonomia dei regolari già sottratti all’autorità vescovile, cercò di esercitare uno stretto controllo sulle singole comunità e i loro superiori generali: costoro vennero affiancati nel governo dai cardinali protettori (e dalle congregazioni cardinalizie deputate a risolvere i problemi legati alla vita regolare), furono chiamati a risiedere a Roma con la loro curia generalizia (questione che suscitò non poche polemiche in ordine geograficamente più connotati, come i “milanesi” barnabiti), e periodicamente videro minacciate le loro comunità da interventi di modifica di regole e costituzioni (per imporre ad esempio il generalato temporaneo o una convocazione più frequente dei capitoli generali). Furono in parte questi i contenuti del decreto papale di cui si vociferò a Parigi nel 1642, con il quale Urbano VIII comandava «che per l’avenire tutti li generali di qualunque religione siano per un triennio solo et che la perpetuità sia abrogata». Il papa aveva toccato con mano «che li generali di S. Domenico e dei gesuiti, per la longa durata, vogliono essere padroni assoluti delle religioni, et che pretendono di non riconoscere in una certa misura né il papa né i cardinali» (R. P. Mortier, Histoire des maîtres généraux de l’ordre de frères précheurs, VI, 1589-1650, Alfons Picard et Fils, Paris 1913, 464).

Se durante l’interdetto su Venezia del 1606 l’espulsione dei gesuiti dalla Serenissima per circa mezzo secolo costituì un esempio di dedizione al papato, in molti altri casi i religiosi, come confessori e teologi dei sovrani cattolici e dei loro ministri, si dimostrarono ben disponibili a difendere la giurisdizione secolare mettendo a rischio autorità e interessi della curia papale: occorreva, questa ormai era la convinzione di molti a metà Seicento, assicurare la loro fedeltà alla causa romana con gli stessi strumenti utilizzati dai principi, attraverso cioè una vera e propria opera di reclutamento che riconoscesse ai singoli padri coinvolti (e ai loro parenti) stipendi, rendite, cattedre universitarie, uffici curiali (anche le mense vescovili se necessario).

Pontefici e curie generalizie intervennero a più riprese nel tentativo di ristabilire obbedienza, disciplina e più adeguati processi di selezione e formazione, ma con risultati poco soddisfacenti. L’inchiesta sullo stato dei regolari di metà ‘600, peraltro motivata da preoccupazioni di carattere materiale (patrimoniali e giuridiche), indicò nella soppressione dei cosiddetti conventini la via da seguire per uscire dalla condizione di decadenza: eppure dovette scontrarsi (e di fatto ne uscì ridimensionata) con le esigenze di vescovi e principi contrari a privarsi dell’opera pastorale delle pur piccole e inadeguate (al di sotto delle 12 unità) residenze regolari presenti sul loro territorio.

Il clima culturale di fine Seicento, attraversato da nuove sensibilità religiose, dall’affermazione di nuovi ordini dediti all’opera missionaria (come i lazzaristi, la congregazione delle missioni apostoliche, più tardi i redentoristi di Alfonso Maria de Liguori) e pronto ad accogliere le sollecitazioni anticuriali del radicalismo illuminista e del giurisdizionalismo politico, aprì infine la strada alla tempesta che colpì gli Ordini religiosi nel Settecento, nel passaggio dalle riforme asburgiche, alla rivoluzione francese e infine alla conquista napoleonica dell’Italia.

La penisola, ancora divisa nei suo Antichi Stati, accolse allora, erano gli anni Cinquanta del Settecento, gli inviti provenienti da Portogallo, Spagna, Francia e Impero: un moto anticuriale (e anti-gesuitico) convogliò “le terre italiane […] nella polemica sui beni della Chiesa, […] sulla doverosa povertà degli ecclesiastici, […] sull’autorità del clero, […] sulle scuole, le università” (Venturi, Settecento riformatore, 65). Non mancarono intellettuali di spicco, come Carlantonio Pilati (Di una riforma d’Italia, 1767) e Cosimo Amidei (La chiesa e la repubblica dentro i loro limiti, 1768), a indicare la necessità di porre finalmente confini precisi nei rapporti tra stato e chiesa, mettendo fine al potere temporale del papa e limitando la presenza di quel clero regolare “mal diretto e regolato”, causa dei malanni “onde l’Italia viene da gran tempo travagliata” (Venturi, Settecento riformatore, 261). La svolta non fu radicale, il “processo di declericalizzazione” non produsse affatto in Italia risultati sotto questo profilo “irreversibili” (Venturi, Settecento riformatore, xi, 342). Ma gli esiti immediati furono drammatici: espulsione della Compagnia di Gesù dagli stati borbonici (seguita nel 1773 dalla sua abolizione addirittura per decisione del pontefice Clemente XIV, il frate Giovanni Vincenzo Ganganelli), soppressione dei piccoli conventi e degli ordini contemplativi, incameramento dei beni, controllo degli stati sulle modalità di reclutamento, infine soppressione generale di tutti gli ordini regolari per ordine di Napoleone nel 1810 (R. Rusconi, Gli ordini religiosi, 270-272).

La ricostituzione delle comunità colpite dalla bufera settecentesca e rivoluzionaria dovette fare inevitabilmente i conti a inizio ’800 con le esigenze delle autorità secolari, disposte a riconoscere gli istituti caratterizzati da attività utili alla società (istruzione, assistenza, interventi di carattere sociale), ma nello stesso tempo consapevoli di non dover rinunciare alle conquiste settecentesche. Ovviamente le strategie adottate variarono a seconda delle realtà geografiche e dei governi – la storiografia ha individuato percorsi e modelli diversi, da quello “separatista” piemontese-italiano a quello giurisdizionalista lombardo-veneto, a quello “sanfedista” meridionale (il più lontano dalle conquiste settecentesche) – ma è possibile delineare tratti comuni nelle decisioni prese all’indomani della restaurazione, significativamente contrassegnata dalla rifondazione papale dell’ordine ignaziano (1814, caso unico nella storia della Chiesa), sopravvissuto fino allora, proprio contro gli ordini romani, nella Russia di Caterina (Pavone, Una strana alleanza) e destinato a essere protagonista nell’Otto-Novecento della battaglia contro i processi di laicizzazione e secolarizzazione della civiltà moderna. La scelta di Pio VII non mancò di suscitare anche nel clero reazioni contrastanti: a Milano, per esempio, l’arcivescovo Karl Gaetan Gaysruck ne impedì il rientro privilegiando i barnabiti (De Giorgi, Cattolici ed educazione, 41).

Il caso toscano, con il primo concordato (1815) firmato dalla santa sede dopo le traumatiche vicende napoleoniche (quando vennero chiusi 214 conventi maschili, venduti i loro beni e mandati in pensione i singoli religiosi), può essere preso a esempio delle questioni allora oggetto di negoziazione, perlomeno per quella parte d’Italia incline ad atteggiamenti più concilianti verso Roma, come saranno del resto, nonostante il radicalismo iniziale, le disposizioni piemontesi (De Giorgi, Cattolici ed educazione, 39, 55-60). In discussione nel Granducato furono anche i decreti settecenteschi di Pietro Leopoldo (del 1751 e 1769): il controllo giurisdizionale allora imposto alla chiesa, l’incameramento e l’alienazione dei suoi beni e la volontà di “livellare” le terre rimaste invendute pur assicurando entrate certe ai religiosi. Il prevalere delle correnti ecclesiologiche che avevano posto al centro della vita dei fedeli il clero secolare condizionò la discussione e le decisioni, indirizzate a una forte selezione degli ordini da ristabilire (vennero potenziati scolopi e barnabiti per il loro impiego nella pubblica istruzione), alla loro subordinazione ai vescovi (la dipendenza dai superiori generali rischiava di pregiudicare l’autorità principesca), alla diminuzione in ogni caso dei loro insediamenti, alla regolamentazione degli ingressi per limitarne il numero (essendo ancora appetita la vita monastica da uomini di condizione vile con il solo scopo di una “vita comoda”). Quanto ai loro beni, Ferdinando III e i suoi ministri, attenti a una più razionale organizzazione del settore agrario, auspicavano la concessione in enfiteusi delle terre non ancora alienate assicurando ai religiosi il solo dominio diretto e una rendita fissa e sicura: ma dovettero venire a patti con Pio VII rinunciando di fatto a questo obiettivo. Modello anche per gli accordi tra Roma e il regno delle Due Sicilie del 1818, quello toscano fu l’unico concordato riguardante gli ordini religiosi: “il loro ristabilimento avvenne nella maggioranza degli stati attraverso singoli provvedimenti dei sovrani e fu molto più lento e meno sistematico” (G. Paolini, Il concordato toscano del 1815 sugli ordini religiosi, 40).

Le difficoltà a ripristinare dal nulla le antiche strutture organizzative comportarono scelte talora affrettate e contraddittorie, facendo riemergere abusi e incoerenze ben prima della seconda tempesta, quella che a partire dagli anni Quaranta fino all’unità d’Italia portò alle cosiddette leggi eversive (con nuove soppressioni e abolizioni). L’elenco dei motivi della crisi, ricordati da Giuseppe Martina accanto a vicende esemplari per dedizione e impegno pastorale (“una persistente crisi degli istituti nel loro complesso” si affiancò a “una fioritura di iniziative costruttive”: sintesi efficace di un “contrasto abituale” nella storia della chiesa, Martina, La situazione degli istituti religiosi, 194, 196), riproduce in maniera emblematica molti dei nodi già emersi e rimasti insoluti nel corso del Sei-Settecento, su cui i governi avevano tentato di intervenire dopo il fallimento di iterati provvedimenti pontifici: mancanza di una severa selezione e di un’accurata formazione teologica dei candidati, ricercata indipendenza non solo nei confronti degli ordinari diocesani («non senza provocare i sospetti e le opposizioni di alcuni fra essi, come capitò a don Giovanni Bosco con due arcivescovi di Torino», G. Martina, La situazione degli istituti religiosi, p. 198), ma anche dalla curia papale (opponendosi, come nel caso del ramo napoletano della congregazione del SS. Redentore, al trasferimento a Roma della curia generalizia), persistenza di comunità ridotte a un numero esiguo di membri, discordie dovute al prevalere di fazioni su base familiare e clientelare, dissensi interni anche a causa di differenze regionali e contrapposizioni politiche (soprattutto dopo che i moti liberali del 1848 posero una di fronte all’altra la parte intransigente e quella filo-liberale, ora spalleggiate ora combattute dai poteri politici), abbandono degli istituti senza dispensa proprio in seguito al nuovo fervore risorgimentale. Fino a rendere necessario “il drastico provvedimento” della Congregazione dei vescovi e regolari del novembre 1849, che proibì “a tutti gli istituti esistenti in Sicilia di ammettere novizi alla professione” (Ibidem, 202-209).

Il processo di unificazione dell’Italia introdusse, a partire dal regno sabaudo, misure sempre più restrittive – i gesuiti, già espulsi nel 1848, vennero nuovamente soppressi nel 1855 – e provvedimenti intesi a privare le congregazioni religiose del riconoscimento giuridico necessario per il loro operare (G. Rocca, Istituti religiosi, 225-226) e a incamerarne i beni a favore dello stato. Ciò avvenne in assenza di un’uniformità legislativa – di difficile realizzazione anche nel passaggio al Regno d’Italia – e dunque in condizioni di forte discriminazione «fra ordini colpiti e tollerati» (G. Martina, La situazione degli istituti religiosi, 221). L’obiettivo, di nuovo, fu la riduzione delle comunità contemplative e di quelle ancora improntate a un regime economico basato sulla questua, ritenuta anacronistica e «contraria allo spirito del tempo» (G. Rocca, Istituti religiosi, 229), salvaguardando le corporazioni dedite alla predicazione, all’istruzione e all’assistenza e non coinvolte con i poteri assolutistici pre-unitari. Infine arrivò la legge del 1866, che «non faceva alcuna distinzione” tra congregazioni utili e inutili “e colpiva tutti gli istituti» indistintamente (G. Martina, La situazione degli istituti religiosi, 223). La sua applicazione, tuttavia, elastica e benevola, favorì negli ultimi decenni del secolo il superamento della crisi e “un generale sviluppo degli istituti religiosi in termini di vocazioni e di fondazioni” (De Giorgi, Cattolici ed educazione, 52).

Il confronto con gli apparati dello Stato e con i mutamenti socio-culturali dell’epoca caratterizzò, tra scontri e polemiche, arroccamenti e adattamenti, anche l’azione delle congregazioni fondate nel corso dell’Ottocento. Ben 23 furono i nuovi sodalizi maschili: molti rimasero a lungo non formalizzati canonicamente e furono riconosciuti dalla Chiesa entro lo status regolare solo agli inizi del Novecento (De Giorgi, Cattolici ed educazione, 10-11, 22). Di fronte a cambiamenti epocali e a urgenze sempre più pressanti, fiorirono nel XIX secolo istituzioni dedite soprattutto all’istruzione e all’assistenza (nel 1855 nacquero i salesiani) e caratterizzate da “un’acuta sensibilità pastorale e caritativa verso le nuove piaghe sociali prodotte dalla rivoluzione industriale”. Nel confronto con i problemi della modernizzazione, al cospetto di esiti non sempre felici e sovente contraddittori, fu il loro forse il lascito più significativo, capace sul lungo periodo di rendere disponibili forze e strumenti (ospedali, mense, ricoveri) per la quotidiana battaglia contro le nuove povertà. La conferma ulteriore della “obiettiva importanza” delle congregazioni religiose quale struttura organizzativa e culturale che ha attraversato “con influenza durevole le pieghe della società italiana” (Rosa, Introduzione, 8).

Fonti e Bibl. essenziale

G. Penco, Storia del monachesimo in Italia nell’epoca moderna, Edizioni Paoline, Roma 1968; G. Martina, La situazione degli istituti religiosi in Italia intorno al 1870, in Chiesa e religiosità in Italia dopo l’Unità (1861-1878), Atti del quarto Convegno di Storia della Chiesa, La Mendola 31 agosto – 5 settembre 1971, 4 voll., Vita e Pensiero, Milano 1973, I, Relazioni, 194-335; F. Venturi, Settecento riformatore. La chiesa e la repubblica dentro i loro limiti, Einaudi, Torino, 1976; G. Sergi, Vescovi, monasteri, aristocrazia militare, in G. Chittolini – G. Miccoli (edd.), Storia d’Italia, Annali, 9, La Chiesa e il potere politico, Einaudi, Torino 1986, 73-98; L. Châtellier, L’Europa dei devoti, Garzanti, Milano 1988; M. Pacaut, Monaci e religiosi nel Medioevo, Il Mulino, Bologna 1989; M. Rosa, Introduzione, in Idem, Clero e società nell’Italia contemporanea, Laterza, Roma-Bari, 1992, 5-41; G. Fragnito, Gli ordini religiosi tra riforma e controriforma, in M. Rosa (ed.), Clero e società nell’Italia moderna, Laterza, Roma-Bari 1992, 115-205; R. Rusconi, Gli ordini religiosi maschili dalla controriforma alle soppressioni settecentesche. Cultura, predicazione, missioni, in M. Rosa (ed.), Clero e società nell’Italia moderna, Laterza, Roma-Bari 1992, 207-274; G. Rocca, Istituti religiosi in Italia tra Otto e Novecento, in M. Rosa (ed.), Clero e società nell’Italia contemporanea, Laterza, Roma-Bari 1992, 207-256; S. Pricoco, Da Costantino a Gregorio Magno, in G. Filoramo – D. Menozzi (edd.), Storia del cristianesimo. L’antichità, Laterza, Roma-Bari 1997, 273-442; F. De Giorgi, Cattolici ed educazione fra restaurazione e risorgimento. Ordini religiosi, antigesuitismo e pedagogia nei processi di modernizzazione, Università Cattolica, Milano, 1999; G.G. Merlo, Nel nome di san Francesco: storia dei frati minori e del francescanesimo sino agli inizi del XVI secolo, EFR, Padova 2003; A. Barzazi, Gli affanni dell’erudizione. Studi e organizzazione culturale degli ordini religiosi a Venezia tra Sei e Settecento, Istituto veneto di scienze lettere ed arti, Venezia 2004; F. Landi, Storia economica del clero in Europa. Secoli XV-XIX, Carocci, Roma 2005; G. Pizzorusso, La Congregazione de Propaganda fide e gli ordini religiosi: conflittualità nel mondo delle missioni del XVII secolo, “Cheiron”, 43-44 (2006), 197-240; Libri, biblioteche e cultura degli ordini regolari nell’Italia moderna attraverso la documentazione della Congregazione dell’Indice, a cura di R.M. Borraccini e R. Rusconi, Biblioteca Apostolica Vaticana, Città del Vaticano 2006; G. Paolini, Il concordato toscano del 1815 sugli ordini religiosi. Documenti inediti, Le Monnier, Firenze, 2006; S. Pavone, Una strana alleanza. La Compagnia di Gesù in Russia dal 1772 al 1820, Bibliopolis, Napoli, 2008.


LEMMARIO




Conservatori – vol. I


Autore: Ferri Giacomo

 

Per noi oggi i conservatori indicano le scuole superiori di musica. Tuttavia, anche se il loro significato si è evoluto nel susseguirsi delle epoche storiche, con scopi anche per la formazione musicale, fino all’epoca recente i conservatori sono stati una delle configurazioni più caratteristiche dell’offerta assistenziale e caritativa in Italia. Essi sorgono inizialmente come istituti di internamento assistenziale destinati ad accogliere bambine e bambini orfani o abbandonati, con il compito di conservarne la virtù. Questi luoghi indicano, verso la fine del medioevo, gli orfanotrofi e gli istituti per i giovani pericolanti, di entrambi i sessi, ove i bambini sono «conservati», ovvero internati, con il fine di crescerli in un ambiente protetto. Tali istituti sono sostenuti ordinariamente da alcune confraternite, da benefattori: sia membri del clero, vescovi protettori, che da ricchi nobili.

I conservatori e strutture assistenziali di questo tipo si sviluppano nei secoli, con una grande affermazione nel periodo post-tridentino, che accentua la preoccupazione etico-religiosa della salvezza, rinvigorendo gli ideali di carità, fino alla fine dell’Ottocento, quando cesseranno di esistere.

Tra Seicento e Settecento, si ha il maggiore periodo di attenzione alle opere di carità, si attua dunque, il perfezionamento di pie opere, quali ospedali, confraternite, ospizi, istituti scolastici, carceri, secondo il sistema di stretta e controllo sociale degli Stati di Antico Regime. In questo determinato contesto, i conservatori assumono una funzionalità perlopiù in favore del genere femminile, dal momento che la separazione sociale, in base al sesso, comprende, non solo il lavoro, ma anche l’assistenza caritativa. La donna all’interno della società è considerata essenzialmente figlia, moglie, madre e sorella, all’interno di un ambiente famigliare il cui governo spetta prevalentemente all’uomo, se non per alcune mansioni domestiche. La seconda alternativa per la donna è la vita monastica, soprattutto di vita claustrale, che diventa obbligatoria con le imposizioni tridentine. Il Concilio di Trento, con le disposizioni sulla clausura, determina la nascita dei «monasteri aperti», che non accettano la clausura (Devote, Oblate, Pinzochere, Case sante, Beghine, Stabilite), ma che si identificano nell’istituto, tollerato dai canoni, denominato comunemente «conservatorio». La presenza di questo tipo di istituti permette la sopravvivenza dei carismi – non claustrali – della vita religiosa, all’interno del più ampio insieme dell’assistenza, e dell’integrazione della donna nella società.

La nascita dei conservatori è legata alla necessità di togliere dalla strada e dalla povertà le cosiddette donne “pericolanti”. Il Piazza, alla fine del Seicento, descrive così i conservatori: «Tra’ l’altre Opere di segnalata Pietà esercitata in Roma, spicca a meraviglia quella di conservar l’onestà nelle povere Zitelle abbandonate da ogni umano aiuto; peroché se li altri istituti servono per sanar le ferite, e per nodrire i corpi, e sostentarli; questo conserva l’innocenza de’ corpi, e dell’anime, e le assicura dalla preda de’ tristi». Il cardinale Morichini, nel suo studio dell’assistenza caritativa in Roma nell’Ottocento afferma: «I conservatori furono eretti, perché ponessero in salvo l’onestà delle fanciulle, dessero loro una cristiana educazione, ed abilitandole ai lavori donneschi e alle faccende domestiche, le preparassero a diventar buone madri di famiglia». La povertà rende pericolosi tutti i soggetti sociali, ma ancor più la donna è minacciata dall’uomo, per questo sorge la necessità di proteggerla. Allo stesso tempo l’instabilità sociale della donna, simbolicamente identifica il disordine morale, mentre la condizione degli uomini, diversamente potrebbe essere soprattutto causa di un pericolo di tipo criminale. Infatti, se per gli uomini il soccorso comporta l’inserimento nel mondo del lavoro e la scolarizzazione, per evitare il vagabondaggio e la delinquenza, nei confronti della donna il soccorso si propone di tenerle lontane dalla prostituzione. Di qui interventi preventivi o riparativi tesi a soccorrere – tramite reclusione – esposte, orfane, ragazze pericolanti, donne pentite, malmaritate e vedove con l’intenzione di avviarle ai destini femminili secondo l’ordine sociale del tempo: il matrimonio, o la monacazione.

Il soccorso alle «zitelle» – come venivano chiamate le nubili, con un accento non ancora spregiativo – ha lo scopo di salvaguardare – conservare – l’onore femminile in pericolo.

In vista di questo obiettivo, questi luoghi non si limitano ad ottemperare ai bisogni primari, ma si caratterizzano come luoghi deputati a mantenere intatta la virtù delle donne in vista della realizzazione del loro destino. Tuttavia, mentre per gli uomini l’assistenza può durare un periodo determinato, per le donne la reclusione può durare anche tutta la vita, visto che coincide con il loro destino, la realizzazione di ogni donna come sposa, o come monaca.

Le donne sono educate su un’impronta propria basata sulla costruzione di una femminilità identificata sui i modi e sugli stili di una educazione di genere, preparando buone madri e mogli destinate a lavorare in ambiente esclusivamente domestico.

I conservatori nascono originariamente per povere e orfane, ma poi finiscono per accogliere ragazze appartenenti ai ceti medio-bassi che godevano di una qualche disponibilità economica o raccomandazione privata. Nel corso degli anni denaro, protezione di padroni e benefattori, raccomandazioni divengono chiave di volta attorno a cui si organizza il sistema di accesso in istituti tesi, più che a soccorrere la miseria, ad aiutare classi particolarmente protette, per esempio le figlie di dipendenti statali. Così all’interno della società, figure di benefattori e protettori, molti di essi cardinali di curia, attraverso rapporti di patronage cercano di amministrare i propri fondi caritativi secondo regole di prestigio familiare e di consolidamento delle proprie clientele, al fine di ottenere l’ascesa nelle istituzioni ecclesiastiche.

L’esperienza dei conservatori è particolarmente caratteristica del panorama italiano. La Roma pontificia, in particolare è il luogo dove i conservatori sono più numerosi all’interno del suo grande sistema di beneficienza, ma anche nel Regno delle due Sicilie. Nel Granducato di Toscana, invece, dopo la strutturazione leopoldina del 1785, i conservatori hanno più la connotazione di educandati e scuole, assumendo una conformazione propria. Nel resto dell’Italia si notano: la fondazione di Carlo Borromeo, il Conservatorio di Santa Sofia fondato a Milano nel 1572; il conservatorio delle Sapelline a Torino, il conservatorio delle Maestre Pie dell’Addolorata a Coriano; il conservatorio Franceschini a Palestrina; il conservatorio delle Clarisse della SS.ma Annunziata a Porto Maurizio.

I principali conservatori funzionanti a Roma fino al XIX secolo sono quello delle Proiette del Santo Spirito e quello delle Neofite, per convertite ed ebree esposte; Santa Caterina dei Funari, il più antico, fondato alle metà del ՚500 e quello di S. Eufemia, aperto nel 1595; il conservatorio delle Mendicanti (1650), quello dell’Immacolata Concezione di Maria detto delle Viperesche (1668); il conservatorio della Divina Provvidenza, noto anche come Ripetta (1672), il conservatorio di San Giovanni in Laterano (1692-93), connesso con l’ospizio apostolico di Ripa, dove sarà trasferito nel 1797; quello di SS. Clemente e Crescentino, detto delle Zoccolette (1698). Nel corso del ՚700 vengono aperti S. Maria del Rifugio del padre Bussi, noto poi come S. Onofrio (1703), S. Pasquale Baylon (1737), il conservatorio Pio (1775), quello della Santissima Trinità in S. Paolo primo eremita (1786), il conservatorio Borromeo (1787), il conservatorio della SS.ma Addolorata detto delle Pericolanti (1788), il conservatorio o ritiro della SS. Croce in S. Francesca Romana (1793). Di fondazione ottocentesca sono il conservatorio del Rifugio di S. Maria in Trastevere (1806), il conservatorio dell’Addolorata o della Sagra famiglia (1820), il conservatorio Pallotta (1836), destinato in seguito al ricovero delle orfane del colera del 1837, e il conservatorio Torlonia (1841). Sempre nell’800 vengono rilanciate, sotto il governo delle religiose del Buon Pastore, due istituzioni che erano state fondate rispettivamente nel ՚600 e nel ՚700: S. Croce della penitenza alla Lungara e il conservatorio del Rifugio della Lauretana. Molti altri conservatori sorti nell’arco di questi secoli finirono per estinguersi o confluirono in istituzioni di più forte tenuta.

Il cambiamento nella composizione sociale delle assistite, il dilatarsi dei tempi di permanenza e il problema degli esiti delle ricoverate – nel quadro di una più generale critica dell’abbandono dello spirito di fondazione – sono i temi che più visibilmente emergono nel corso riformatore dell’800. La Rivoluzione Francese e la dominazione napoleonica, su queste basi, cercano di riformare il sistema assistenziale. In questa fase, si propone la riforma e la ricostituzione degli ordini religiosi, insistendo affinché i conventi femminili siano accessibili a vedove, nubili, malmaritate e divorziate, per risolvere il problema sociale delle donne sole e in difficoltà.

Il fenomeno che determina il maggiore cambiamento è il passaggio da strutture per fanciulle bisognose ad educandati femminili per fanciulle di famiglie oneste e civili. Un indicatore indicativo di questo passaggio è il progressivo aumento in percentuale delle ricoverate che al momento dell’ammissione hanno entrambi i genitori viventi. Le motivazioni dei cambiamenti sono soprattutto di carattere finanziario. I conservatori sono nati quasi sempre su iniziativa di singoli individui o gruppi ristretti di privati che hanno donato beni e una somma circoscritta al fine di mantenere una determinata fondazione. Nella fase successiva, ogni luogo ha bisogno di consolidarsi con aiuti più stabili e protezioni più influenti. A tal scopo si assiste ad una serie continua di aggiustamenti dei progetti iniziali, rimodellati secondo linee di fattibilità in cui risultano rilevanti le risorse economiche e umane che si attivano intorno ad ogni singolo istituto. Una volta finiti i proventi dai benefattori della fondazione, l’istituto non può più assistere in modo indiscriminato fanciulle povere. La presa d’atto del carattere limitato dell’offerta assistenziale impone un’obbligata selezione delle ricoverate. Un’altra ragione del progressivo cambiamento dei conservatori è l’offerta delle doti che ogni istituto detiene per il destino delle proprie fanciulle. I conservatori diventano una sede intermedia tra le famiglie di origine e l’eventuale nuova famiglia, religiosa o laica delle giovani recluse. Per tale ragione, la carità delle origini, pian piano viene sostituita da rapporti dove contano logiche di potere e reti clientelari. Si assiste, anche, nel corso dell’Ottocento, ad un invecchiamento progressivo dell’assistite. Ciò è causato dalla sempre maggiore importanza data dall’istituto alla riuscita del matrimonio o della monacazione della ragazza assistita. Infatti, la dimissione di un istituto di una giovane, senza che abbia ottenuto il suo destino, ne avrebbe decretato il fallimento. Il ristagno delle ricoverate e l’obbligo a contenere il numero dei nuovi ingressi, imposto dai problemi economici, rischia di annullare l’efficacia e la credibilità sociale del progetto dei conservatori con una sempre maggiore diminuzione delle assistite. Inoltre, il mantenimento degli istituti sempre più costoso determina il cambio delle mansioni delle giovani, verso un lavoro di tipo manifatturiero.

Nell’Ottocento, la mancanza di ricambio delle giovani assistite e il progressivo invecchiamento, dovuto ad una perdita di fiducia negli istituti, è per la società dimostrazione dell’insuccesso dei conservatori, identificati, oramai, come luoghi tesi a riprodurre se stessi, e sempre mento un veicolo di mediazione e di integrazione. Il risultato sarà il progressivo snaturamento dei conservatori, e la loro trasformazione, pur mantenendone il nome, in educandati e scuole professionali. Le questioni riguardanti la nuova fisionomia dei conservatori portano lo Stato Pontificio a riorganizzare i regolamenti di questi istituti, a seguito della visita apostolica ordinata da Leone XII nel 1825. Nell’organizzazione dei conservatori, tentata nel 1826, si cerca di ottemperare al problema alla permanenza delle ospiti, oltre i limiti del bisogno assistenziale, a quello di migliorare la conduzione degli istituti, per mezzo della formazione delle reggenti e a quello di valutare il profitto dei lavori manifatturieri delle donne recluse, non sempre compatibili con l’istruzione e l’educazione delle ospiti per farne buone madri, o monache. Questa riorganizzazione non è mai stata portata a termine, sebbene anche Pio IX abbia proposto di limitare la permanenza nell’istituto ad un massimo di 25 anni di età.

Alla fine dell’Ottocento conservatorio ed educandato tendono verso una certa simbiosi, sì da essere quasi sinonimi. I conservatori cambiano il personale dirigente e si assiste sempre più al passaggio di numerosi conservatori nelle mani dei nuovi istituti religiosi che trasformano progressivamente le antiche istituzioni o in orfanotrofi, o in scuole, abbandonando le manifatture e limitando la permanenza delle alunne, in accordo con il nuovo Stato Unitario.

Per quanto riguarda i conservatori intesi come “non monasteri”, la Santa Sede riconosce il carattere religioso, con la Conditae a Christo del 1900, prima, e poi in maniera definitiva con il Codice di diritto canonico del 1917. In questo modo è accettato definitivamente come religioso un «terzo stato» che si pone a metà tra il monastero e il matrimonio. La Chiesa ha accettato la temporaneità dei voti fino alla fine dell’Ottocento, ma poi gradatamente ha chiesto la perpetuità anche agli istituti di voti semplici come condizione per essere approvati. A questo punto il termine conservatorio non è stato più utilizzato, uscendo dall’uso abituale canonico. I conservatori sono ormai trasformati definitivamente in congregazioni religiose centralizzate, o in istituti nuovi.

Fonti e Bibl. Essenziale

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LEMMARIO




Conversioni - vol. I


Autore: Irene Fosi

Il significato del termine conversione (conversio) per la Chiesa cattolica indica il ritorno di un’anima traviata a Dio e il suo passaggio dal peccato allo stato di grazia. Nella storia culturale e religiosa il termine indica anche la scelta che una persona compie aderendo a un nuovo credo lasciando la precedente confessione, come l’abbandono dell’ateismo per abbracciare una verità religiosa. Il concetto di conversione appare comunque difficile da definire per la complessa e molteplice presenza di fattori che la determinano sia a livello religioso che culturale, politico e sociale nei diversi periodi storici. Nel Cristianesimo, la conversione ha avuto principalmente due modelli forgiati sulle vicende degli apostoli Pietro e Paolo: la conversione folgorante e immediata di Saulo/Paolo e il lento percorso conversionistico di Pietro, che proprio per le sue drammatiche contraddizioni, ha stimolato ricerche più approfondite sia in ambito storico che antropologico. Anche gli studi, soprattutto i più recenti, sulle conversioni riflettono la pluralità di interpretazioni del tema: non solo sono stati analizzati i motiva conversionis, le cause, i diversi percorsi e le fasi individuali dal punto di vista psicologico, teologico, culturale, ma la sociologia della religione e l’antropologia hanno considerato anche i fenomeni di acculturazione, costruzione identitaria, assimilazione legati alla conversione. Nell’Europa dell’età moderna il problema delle conversioni è strettamente collegato alle vicende politiche e, nelle differenziazioni geografiche e cronologiche, si declina in relazione al giudaismo, alla diffusione della Riforma protestante e al fiorire di confessioni riformate, alla presenza musulmana nel Mediterraneo e nei Balcani, oltre che in relazione alle scoperte geografiche, all’azione missionaria nelle Americhe e nell’Estremo Oriente. Anche in Italia fra Cinquecento e Settecento la conversione riguardò ebrei, musulmani – per lo più schiavi turchi, ma anche mercanti – uomini e donne provenienti da paesi europei dove si erano diffuse le confessioni riformate.

Ebrei. La conversione degli ebrei, il battesimo forzato rappresentano costanti all’interno del Cristianesimo e della storia della Chiesa, alimentate anche dall’idea, presente nei Padri e in particolare in Agostino, che la fine dei tempi sarebbe giunta con la conversione di tutti gli infedeli e degli ebrei. Tuttavia, il giudizio cristiano riguardo agli ebrei non fu univoco né uguale nel tempo, ma nel corso del Medio Evo si fece più forte in seno al corpo cristiano il timore di deviazioni e complotti che individuarono spesso negli ebrei il capro espiatorio di un’ansietà diffusa nella società. L’espulsione dalla Spagna (1492) e la conversione forzata in Portogallo (1493) condussero molti ebrei in Italia, sia per un periodo limitato, in attesa di spostarsi in altre parti d’Europa o nell’impero ottomano, sia per stabilirvisi definitivamente. Dal 1542, anno della sua istituzione, l’Inquisizione romana si occupò anche degli ebrei che non ricadevano sotto la sua giurisdizione in quanto infideles, ma potevano essere perseguiti come giudaizzanti – gli ebrei convertiti, battezzati, che ritornavano all’antica religione o ne seguivano di nascosto le pratiche – sia per aver commesso atti o pronunziato parole contro la religione cristiana. La politica conversionistica nei confronti degli ebrei, già sottoposti a limitazioni con l’istituzione dei ghetti e a espulsioni, pur diretta dalle norme inquisitoriali e dalle bolle pontificie – in particolare la Cum nimis absurdum (1555) di Paolo IV che istituiva il ghetto a Roma, la Hebreorum gens (1569) di Pio V, la Antiqua Iudeorum improbitas (1581) e le bolle Cum Hebreorum malitia e Caeca et obdurata (1593) di Clemente VIII – assunse carattere diverso negli stati italiani e nel corso dei secoli. Fra ‘600 e l’inizio del ‘700 non cambiò sostanzialmente la politica di conversioni né mutarono gli strumenti usati per realizzarla: dalla creazione dei ghetti, all’istituzione di collegi per neofiti, alle prediche coatte alle quali era costretto a partecipare di sabato un certo numero di ebrei. Il proselitismo della Chiesa oscillò fra la volontà di segregazione e di conversione, tuttavia non mancarono contatti e strategie per aggirare i divieti imposti dalle normative e se da un lato si arginarono, almeno in parte, forme di violenza rituale, dall’altro divenne più radicato e diffuso il pregiudizio antiebraico. Roma si propose come il centro e l’esempio della volontà conversionistica della Chiesa cattolica. Nel 1543 Paolo III istituì la Casa dei Catecumeni e dei Neofiti che doveva guidare alla conversione, spontanea o forzata ma anche disgregare al suo interno la comunità ebraica. Queste istituzioni si diffusero, pur con caratteristiche diverse, in molte città italiane: da Firenze a Ferrara, da Venezia a Torino. Fra il 1614 ed il 1797 a Roma furono convertiti al cristianesimo in questa istituzione 1959 ebrei e 1086 musulmani. Il battesimo con la scelta del nome, spesso in onore di padrini e madrine, segnava il definitivo mutamento identitario oltre a sanzionare la scelta di fede. Non è facile conoscere i motivi di individuali conversioni spontanee: le condizioni materiali, la volontà di rompere l’isolamento e di facilitare l’inserimento nella società, la possibilità di contrarre matrimonio con cristiani, di ottenere privilegi come la cittadinanza, esenzioni fiscali, facilitazioni nei traffici commerciali possono essere indicate come alcune cause. Più drammatiche furono le vicende delle conversioni forzate, dei battesimi imposti soprattutto a donne e a bambini contro la volontà dei genitori, resa più incisiva dagli anni ’30 del Settecento e sotto il pontificato di Benedetto XIV, quando l’intransigenza antiebraica, alimentata da fattori economici, si saldò con la lotta contro il diffondersi delle idee illuministe. Non mancarono le reazioni da parte degli appartenenti alle comunità ebraiche di fronte a questa violenta strategia conversionistica, controllata dalle autorità ecclesiastiche, guidata e avallata dall’Inquisizione. Nel corso del Settecento le conversioni se divennero meno numerose, continuarono tuttavia a rivestire un forte significato simbolico, saldandosi, nei diversi stati italiani, a livello propagandistico con la difesa della Chiesa di fronte al potere statale, come si evince dalla pubblicistica e dalla propaganda che esaltavano figure di neofiti divenuti zelanti difensori della nuova fede fra i loro ex correligionari.

Musulmani. La presenza, negli stati italiani di islamici è da ascriversi a fattori legati alla posizione geografica delle città, alle vicende politiche che segnarono, in età moderna, i rapporti con l’impero ottomano. Porti franchi, come Ancona, città come Venezia, Napoli, Genova ospitarono costantemente comunità di mercanti musulmani rendendo assai difficile il controllo delle autorità ecclesiastiche su di esse e limitando, quindi, il problema conversionistico. Diversa la situazione degli islamici – turchi, «mori», «negri», come venivano genericamente indicati – fatti schiavi in seguito alla cattura durante operazioni militari condotte nel Mediterraneo sia per mare che per terra, sia giunti nelle città italiane tramite scambi commerciali. La schiavitù era legittima anche per la Chiesa: una bolla di Paolo III (1548) aveva stabilito la liceità di tenere schiavi per «publico utile e bene» sia da parte di singole persone che di istituzioni. Ospizi e collegi per catecumeni, come quelli citati, servivano per preparare alla conversione anche individui di fede islamica che avrebbero poi ricevuto il battesimo e assunto un nuovo nome, spesso in onore di padrini e madrine, comunque segno di un cambiamento identitario e dell’ingresso nella comunità cristiana. Questo sacramento, tuttavia, non cancellava la condizione di schiavitù – come era stato ribadito anche dal cardinal De Luca (1673) – ma, percepito come espressione di docilità e disponibilità alla sottomissione, poteva favorirne l’integrazione presso i padroni che, di solito, continuavano a servire. Le conversioni di musulmani alla fede cristiana, minori numericamente rispetto a quelle di ebrei, sembrano essere state condotte con minore rigore e durezza da parte delle autorità ecclesiastiche. Una particolare ‘conversione’ era poi quella dei rinnegati, cristiani che, catturati da navi turche, erano stati costretti a convertirsi all’Islam per paura o per violenze subite. Riscattati da ordini religiosi come i Trinitari o Mercedari, chiedevano di rientrare nel grembo della Chiesa. Le loro storie, che narrano avventurosi e tragici percorsi di vita, mostrano un atteggiamento indulgente da parte delle autorità cattoliche, specie del Sant’Uffizio, che doveva sincerarsi del pentimento, riconoscere la conversione, reinserire il penitente nella comunità cristiana.

Eretici. La mobilità nell’Europa di età moderna non fu frenata dalle divisioni confessionali: mercanti, viaggiatori, soldati varcavano in continuazione confini, non solo geografici ma anche confessionali. Dopo la Riforma, bolle pontificie – prima di tutte la bolla In Coena Domini, integrata dalla Cum sicut di Clemente VIII e Romani Pontificis di Gregorio XV (1622) – proibivano l’ingresso e la permanenza di stranieri eretici come di apostati in Italia. Chi fosse scoperto doveva essere allontanato e, in caso di rifiuto, condotto davanti al tribunale della fede per convertirsi. In realtà, il controllo si mostrò assai difficile e molte città attuarono una politica di protezione attraverso salvacondotti e privilegi nei confronti di mercanti stranieri eretici, studenti, viaggiatori. Tuttavia, la rete inquisitoriale periferica esercitò a lungo controlli, giungendo in non rari casi al sequestro di beni se famiglie di mercanti rifiutavano di allontanarsi o di convertirsi. Non mancarono conflitti con le autorità statali che sempre meno tolleravano la pressione conversionistica inquisitoriale. Molti stranieri eretici riuscivano a evitare i controlli del tribunale della fede con un accorto nicodemismo; altri, abbastanza numerosi come dimostrano fonti inquisitoriali, si presentavano spontaneamente al Sant’Uffizio (sponte comparentes) mostrando di volersi convertire. L’abiura veniva di solito preceduta da un periodo di indottrinamento nella fede cattolica, condotto, di solito, presso conventi di ordini religiosi o presso istituzioni destinate a questa missione, come ad esempio l’Ospizio dei Convertendi, fondato a Roma nel 1673. Trattandosi, per lo più di appartenenti a confessioni cristiane riformate, i convertiti non venivano di nuovo battezzati: questo avveniva solo in alcuni casi, sub condicione, quando si nutrivano dubbi sulla correttezza e quindi sulla validità del sacramento ricevuto per mano di «ministri eretici» o in circostanze non chiare. Il neocattolico veniva sostenuto economicamente, sia da privati, di solito nobili o ecclesiastici di rango, sia da confraternite, attraverso elemosine per facilitare la sua integrazione nella società ospite ed evitare la caduta in uno stato di miseria che potesse fargli rimpiangere la sua condizione e la fede precedenti. Le motivazioni che spingevano alla conversione sono, anche in questi casi, molteplici e di difficile definizione, intrecciandosi con elementi di natura economica, volontà di integrazione nella società, opportunità di carriera, libertà di movimento nei territori cattolici. L’intensa propaganda che, in età moderna, si sviluppò attorno alle conversioni, soprattutto di personaggi illustri, non aiuta a penetrare nella scelta soggettiva di fede, ma piuttosto a cogliere il significato che le conversioni rivestirono nell’Europa confessionalmente divisa.

 

Fonti e Bibl. essenziale

A. Räss, Die Convertiten seit der Reformation nach ihrem Leben und aus ihren Schriften, 10 Bde, Freiburg i. B., Herder, 1866-1875; Gli Ebrei in Italia, Annali 11, 2, Dall’emancipazione a oggi, a cura di C. Vivanti, Torino, Einaudi, 1997; A. Foa, Ebrei in Europa. Dalla peste nera all’emancipazione XIV-XVIII secolo, Roma-Bari, Laterza, 2001; M. Caffiero, Battesimi forzati. Storia di ebrei, cristiani e convertiti nella Roma dei papi, Roma, Viella, 2004; Schiavitù e conversioni nel Mediterraneo, a cura di G. Fiume, in «Quaderni Storici», 126, 2007; G. Fiume, Schiavitù mediterranee. Corsari, rinnegati e santi di età moderna, Milano, Bruno Mondadori, 2009; Les modes de la conversion confessionelle à l’époque moderne. Autobiographie, alterité et construction des identités religieuses, a cura di M.C. Pitassi e D. Solfaroli Camillocci, Firenze, Olschki, 2010; I. Fosi, Convertire lo straniero. Forestieri e Inquisizione a Roma in età moderna, Roma, Viella, 2011; R. Matheus, Konversionen in Rom in der frühen Neuzeit. Das “Ospizio dei Convertendi” 1673-1750, Berlin-New York, De Gruyter, 2012; P. Mazur, The New Christians of Spanish Naples, 1528-1671: A Fragile Elite, Basingstoke, Palgrave Macmillan 2013; B. Pomara Saverino, Una presenza silenziosa. I moriscos di fronte al Sant’Uffizio romano (1610-1636), in «Quaderni Storici», 144, 2013, 715-744; Introduction: Conversion Narratives in the Early Modern World, ed. by. P. Mazur and A. Shinn, in «Journal of Early Modern History», 17, 2013.


LEMMARIO




Credo - vol. I


Autore: Paolo Siniscalco

Con il termine “Credo” si intende quella formula che riassume per i cristiani gli articoli essenziali della loro fede, l’aspetto oggettivo della verità rivelata. Esso presenta una storia lunga e complessa che, dalle espressioni più semplici, si sviluppa fino alle più complesse stabilite in particolare dai primi grandi concili. In questa esposizione, forzatamente breve, pare opportuno considerare alcuni momenti importanti dell’evoluzione del “Credo”, se si vuole, del “Simbolo di fede” o, con una espressione latina, della Regula fidei. Fin dal Nuovo Testamento si incontrano formule concise che esprimono la fede di chi le pronuncia. Così nelle epistole paoline (cf. Rom 10, 9; 1, 3-4; 8, 34; 1 Cor 12, 3; Fil 2, 11; 1 Tim 3, 16) o nelle epistole pastorali (cf. 1 Gv 4, 15, 5, 5). Esse sono molto spesso di carattere cristologico, e se ne capisce la ragione: la verità inaudita stava nel riconoscere “Gesù il Figlio di Dio”, ”Gesù il Cristo”, “Gesù il Signore”, il Kurios, il Dominus. Compaiono pure formule binarie (cf. 1 Cor 8,6; Rom 4, 24; 1 Pt 123, 21) e trinitarie (cf. 2 Cor 1, 21 s.; 12, 4; 1 Pt 1,2). È probabile che esse fossero legate all’esercizio della liturgia e, a cominciare dal II secolo, alla catechesi. In tale senso sono particolarmente interessanti le espressioni che si leggono negli Acta martyrum e poi nelle Passiones martyrum in quanto riflettono quella che doveva essere, per dire così, la cultura religiosa dei semplici fedeli, uomini o donne che fossero, che, condotti nei tribunali e interrogati, dovevano rendere conto di ciò in cui credevano (cf. Eusebio di Cesarea, Hist. Eccles. 5, 1, 3 ss., ove è riportato il testo della Lettera delle Chiese di Lione e di Vienna nella quale si narra la persecuzione subita subito prima del 180 d.C.).

Negli Acta Iustini (2, 5) e negli Acta Cypriani (1,2) si leggono vere e proprie professioni di fede, ma non è improbabile che tali documenti abbiano subito rielaborazioni successive. Non si può d’altra parte dimenticare che fin dal II secolo e poi nei successivi si diffondono dottrine (gnosticismo, marcionismo, ecc.), respinte dalla Grande Chiesa che sente l’esigenza di meglio definire il contenuto dottrinale proposto. Nel III secolo, con l’aumento del numero dei fedeli, si perfeziona l’istruzione per i catecumeni e comincia ad essere praticato l’uso della traditio e della redditio Simboli, di modo che i catecumeni stessi possano recitare la formula loro consegnata durante il rito del battesimo. Il “Simbolo romano”, che comincia ad avere una fisionomia complessa, si diffonde tra la fine del II e l’inizio del III secolo; è uno dei più antichi e diviene parte essenziale nella liturgia battesimale della Chiesa appunto di Roma. Ippolito nella Traditio Apostolica (inizio III secolo) riferisce di una professione corrispondente in sostanza a quelle riportate più tardi, in greco, da Marcello di Ancira e, in latino, da Rufino di Aquileia. Queste ultime testimonianze danno a vedere che la forma si sta definitivamente fissando e le aggiunte delle epoche successive intendono precisare ciò che sinteticamente è stato espresso.

Con i grandi Concili del IV e del V secolo) i simboli di carattere locale fino ad allora diffusi, lasciano il posto a sommari di fede riconosciti come ortodossi. Con il Concilio ecumenico di Nicea del 325, riunito da Costantino per definire la questione sollevata da Ario, tutti i partecipanti sottoscrivono una unica formula, che sarà ampliata, in rapporto alle discussioni avvenute sullo Spirito Santo, nel Concilio di Costantinopoli del 381. Il Simbolo cosiddetto niceno-costantinopolitano è così destinato a imporsi gradualmente in Oriente e in Occidente e ad essere universalmente riconosciuto come unico “Credo” dalla cristianità e tale rimanere fino ad oggi. All’inizio del VI esso è introdotto dalle Chiese orientali nella liturgia battesimale e nella celebrazione eucaristica. Tra il VI e l’inizio del IX si afferma nella liturgia delle Chiese occidentali. Con Fozio, Patriarca di Costantinopoli, si apre sul “Credo”una controversia con la Chiesa di Roma, controversia ancora viva attualmente. Forse fin dal VI secolo, dapprima in Spagna e poi in altri luoghi, era invalso l’uso, nel punto del Simbolo in cui si recita «Credo nello Spirito Santo che procede dal Padre», di aggiungere «e dal Figlio» in latino Filioque –. La formula fu adottata dalla chiesa di Roma solamente nell’XI secolo. Ma, ben prima, essa fu usata dai missionari romani di Bulgaria. Cosa che provocò la reazione della Chiesa costantinopolitana, che ritenne l’aggiunta teologicamente errata. Si trattò di una disputa sottile, nata anche per difficoltà terminologiche: i latini insistevano sulla substantia, principio di unità nella Trinità; i greci sulla distinzione tra le tre Persone. Il professare che lo Spirito procede dal Padre e dal Figlio sacrificava, secondo il loro punto di vista, la monarchia del Padre.

Fonti e Bibl. essenziale

Ancora fondamentale rimane l’opera di G.N.D. Kelly, Early Christian Creeds, pubblicata a Londra nel 1972. In trad. ital. è uscita di recente una nuova edizione riveduta e corretta (sulla III ed. inglese del 1987), Dehoniane, Bologna 2009; G.L. Dossetti, Il Simbolo di Nicea e di Costantinopoli, Roma 1967; S. Sabugal, Io credo La fede della Chiesa:. Il Simbolo della fede, storia e interpretazione, Dehoniane, Bologna 1990; Gennadios, Metropolita di Sassima, Il “filioque” rimane ancora un motivo idi conflitto tra l’Occidente e l’Oriente nel dialogo ecumenico?, Udine 1998; B. Studer, in NDPAC, vol. II, (ed.), Marietti, Genova-Milano 2007, 1944-1945, s.v. Filioque; A.E. Siecienski, The Filioque. History of a doctrinal controversy, Oxford University Press, Oxford 2010. Vd. pure: http://www.Cathopedia.org.


LEMMARIO