Associazione Italiana dei Professori di Storia della Chiesa

Dizionario Storico Tematico La Chiesa in Italia
Dalle origini all'Unità Nazionale
Roma 2015
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Crociate - vol. I


Autore: Luigi Michele de Palma

Il passaggio dei pellegrini diretti in Terra Santa lungo la penisola italiana è attestato nei testi odeporici a partire dal IV sec. La rete viaria romana aveva facilitato il raggiungimento dei luoghi santi d’oltremare e nello stesso tempo consentiva l’afflusso dei devoti, provenienti anche dalle località più lontane d’oltralpe, verso le mete santuariali altrettanto ambite: i limina Apostolorum a Roma e poi il santuario micaelico del Gargano. L’XI sec., con il ripristino delle vie di comunicazione, aveva favorito la ripresa dei traffici, fra cui anche i pellegrinaggi verso gli antichi santuari d’Italia e la Terra Santa, complice il sistema penitenziale di matrice irlandese.

Nel frattempo Urbano II aveva iniziato (1094) un lungo viaggio attraverso i territori dell’Italia centro-settentrionale e del sud-est francese con lo scopo di rinsaldare la propria autorità e raccogliere maggiori consensi alla sua politica e al suo indirizzo di riforma ecclesiastica. Durante il concilio di Piacenza (marzo 1095), il papa ricevette gli ambasciatori greci, con i quali, molto verosimilmente, trattò della riconciliazione con la Chiesa bizantina dopo la crisi del 1054. Per l’occasione, sembra che ad Urbano II sia stata presentata una richiesta di aiuto militare contro i Turchi. Alcuni mesi dopo, a conclusione del concilio di Clermont-Ferrand in Alvernia (novembre 1095), il papa pronunciò un discorso con cui esortava gli esponenti della feudalità europea ad intraprendere un pellegrinaggio penitenziale, per mezzo del quale essi sarebbero stati purificati dalle sanguinose guerre fratricide di cui si erano resi responsabili e attori principali. L’auspicato transfert di violenza si sarebbe trasformato in un significativo rinforzo occidentale agli eserciti di Alessio I Comneno, imperatore di Costantinopoli, impegnati contro i Turchi in Anatolia, e nello stesso tempo, avrebbe rinsaldato i rapporti con l’Oriente bizantino.

Da questo appello papale ebbe origine il movimento dei crucesignati che dette inizio alla storia delle crociate (termine coniato nel XVIII sec.) e vide coinvolte le aristocrazie europee insieme a larghe fasce della popolazione. Tuttavia gli sviluppi del movimento – dovuti ad un complesso di cause e di condizioni – trascesero le indicazioni contenute nell’allocuzione papale e travalicarono la moderazione imposta dalla disciplina ecclesiastica. Nel corso della loro storia, le crociate si trasformarono in spedizioni armate che non ebbero più come meta soltanto Gerusalemme, né restarono guerre di difesa e di liberazione dei cristiani dalla soggezione agli infedeli, ma finirono col diventare guerre condotte contro i nemici della Chiesa e del papato: infedeli, eretici e ribelli.

Nel 1096 l’Italia venne attraversata da alcuni gruppi di crucesignati diretti in Terra Santa. Due contingenti – capeggiati rispettivamente da Ugo di Vermandois, fratello del re di Francia e Boemondo d’Altalvilla, principe di Taranto e figlio di Roberto il Guiscardo – attraversarono l’Adriatico partendo dalle coste pugliesi, mentre un terzo contingente guidato dal conte di Tolosa Raimondo di Saint-Gilles, insieme al legato pontificio Ademaro vescovo di Le Puy, percorse le regioni settentrionali per poi proseguire lungo il litorale balcanico. L’ultimo contingente, al seguito di Roberto di Normandia, di Roberto di Fiandra e di Stefano di Blois, scese lungo la penisola, fece tappa a Roma e da Bari si imbarcò per Durazzo. A differenza di quanto avvenne oltralpe, lungo i tragitti italiani non si verificarono episodi antiebraici.

La storiografia recente ha superato il giudizio riduttivo di alcuni medievisti, secondo cui gli Italiani furono coinvolti nel movimento crociato soltanto per la posizione centrale della penisola nel Mediterraneo e perché esse era sede del papato, nonché per gli interessi economici legati ai traffici marittimi, di cui le città marinare era le principali protagoniste. I nuovi studi, invece, pur riconoscendo la modesta diffusione della predicazione della crociata e la sua esigua incisività, hanno messo in evidenza i motivi religiosi che animarono i crociati italiani, per esempio, focalizzando l’attenzione sulla personalità e sul ruolo di Daiberto, arcivescovo di Pisa e primo patriarca latino di Gerusalemme (1100), oppure sulla spedizione genovese di Guglielmo Embriago (1099), col quale s’imbarcò il card. Maurizio, vescovo di Ostia e nuovo legato apostolico per la Terra Santa. Significativa fu l’attività di Anselmo di Bovisio, arcivescovo di Milano, in favore della partecipazione dei Lombardi alla crociata. Di fatto, fu rilevante il contributo delle città italiane, marittime e mercantili, offerto alle crociate tramite il trasporto degli uomini d’arme, dei pellegrini aggregati e di materie prime, e grazie alla superiorità delle loro flotte rispetto alle forze navali dei musulmani. Nel 1100 i crociati italiani si concentrarono a Costantinopoli, la flotta veneziana sbarcò a Giaffa, mentre i Genovesi occuparono Arsuf e Cesarea e i Veneziani Sidone. La presa di Acri (1104) fu supportata dalla flotta genovese e la conquista di Beyruth (1109) venne sostenuta da Pisani e Genovesi. I crociati veneziani conquistarono Tiro (1123).

Tuttavia la crociata rimaneva un’esperienza religiosa, perciò i crociati, ritornati in patria, serbavano il ricordo di essa e, così come facevano gli altri pellegrini, ne perpetuarono la memoria. In particolare, l’Italia si arricchì di reliquie, di immagini, di culti dedicati a santi orientali, di luoghi di culto, di monumenti e di santuari che imitavano i prototipi d’oltremare e ne trasferivano la sacralità. Esempi di topomimesi continuarono a diffondersi sul territorio della penisola e sono riconducibili non soltanto alla presenza dei numerosi insediamenti degli ordini religiosi militari e di quello canonicale del S. Sepolcro, ma anche a personaggi legati alla crociata. Per Boemondo d’Altavilla, uno fra i protagonisti della prima crociata, venne edificato a Canosa un mausoleo, le cui forme architettoniche replicavano le fattezze dell’edicola del S. Sepolcro di Gerusalemme. A Brindisi, inoltre, fu costruita la chiesa del S. Sepolcro, probabile sepoltura monumentale del conte normanno Goffredo, nuovo signore della città e artefice della sua ricostruzione. La pianta dell’edificio imitava la rotonda dell’Anastasis gerosolimitana. Sempre in Puglia, regione più ad est della penisola e ricca di attracchi marittimi verso l’Oriente, nel 1162, presso Molfetta, fu fondata una cappella funeraria sul sito della sepoltura di alcuni pellegrini naufragati durante il viaggio d’oltremare. La cappella venne dedicata alla Vergine Maria e ai “santi martiri”. Accostata da uno xenodochio, essa si trasformò in un santuario-simbolo della Terra Santa, mentre i pellegrini “martiri di Cristo” vennero identificati con i crociati.

L’Italia e gli Italiani continuarono ad essere coinvolti nel movimento dei crucesignati durante la 2a crociata (1146/7), sebbene l’imperatore bizantino Manuele I Comneno avesse imposto ai sovrani d’occidente di non accettare la partecipazione dei Normanni di Sicilia. Tuttavia agli eserciti crociati si associarono le truppe di Amedeo III di Savoia e di Guglielmo V di Monferrato. Al termine dell’impresa Luigi VII tornò in Francia facendo tappa in Sicilia. Dopo la caduta di Gerusalemme (1175), all’appello per la nuova crociata, bandita da Gregorio VIII (1187), Guglielmo II di Sicilia rispose inviando una flotta in Siria. Con le sue truppe Filippo II partì da Genova (1190) e i crociati franco-inglesi s’incontrarono a Messina per poi ripartire alla volta di S. Giovanni d’Acri (1191).

Le conquiste della 2a e della 3a crociata si rivelarono effimere, perciò Innocenzo III progettò una nuova spedizione (1198), ma la 4a crociata tradì il suo scopo originario. Principali protagonisti della deviazione furono i Veneziani, i quali stipularono con i crociati un accordo economico (1201) per assicurare il supporto della flotta. La dilazione dei pagamenti ottenne in contraccambio l’apporto dei crucesignati per ristabilire l’autorità della repubblica di S. Marco su Zara, sotto il comando del doge Enrico Dandolo. Nonostante le reazioni opposte all’iniziativa e la condanna di Innocenzo III, la crociata, guidata da Bonifacio, marchese di Monferrato, rispose alla richiesta d’aiuto, formulata dal principe Alessio per rimettere sul trono di Costantinopoli suo padre Isacco II, tenuto prigioniero dall’usurpatore Alessio III. Conquistata la capitale dell’impero d’Oriente, i tre partiti crociati (Veneziani, Francesi e Monferrini) costituirono l’impero latino d’Oriente ed elessero imperatore Baldovino di Fiandra. I Veneziani, inoltre, ottennero il diritto di nomina del patriarca, molte isole e le coste greche dello Ionio. A Bonifacio di Monferrato fu assegnato il regno di Tessalonica.

La degenerazione degli ideali e degli scopi della crociata, insieme alla strumentalizzazione compiuta dai Veneziani, indussero Innocenzo III a bandirne un’altra (1215), ma il progetto venne realizzato dai suoi successori. Tuttavia, l’atteggiamento di Federico II, partito da Brindisi e subito fermatosi ad Otranto (1227) a causa di un’epidemia che colpì la flotta, provocò la scomunica comminata contro di lui da Gregorio IX. Per due volte l’imperatore “spergiuro” fu scomunicato, mentre venne sconfessato il trattato stipulato a Giaffa (4 febbraio 1229) con il sultano d’Egitto al-Kamil: la soluzione diplomatica fu intesa come un ulteriore tradimento dell’ideale crociato, perciò in Italia venne bandita una crociata contro l’imperatore scomunicato. Questi, entrato pacificamente nella Città Santa, s’incoronò re di Gerusalemme presso il S. Sepolcro (7 marzo 1229), avendo acquisito il titolo regale tramite il matrimonio con Isabella di Brienne (1212-1228), sua seconda moglie. La prospettiva “politica”, e non militare, entro cui si era mossa l’iniziativa federiciana peccava di eccessiva modernità. Il papato non poteva accettare l’idea di una coesistenza pacifica fra cristiani, musulmani ed ebrei in Terra Santa. Questa condizione, invece, si era realizzata in Sicilia ed era stata mantenuta dai sovrani normanni e svevi, perciò l’isola era stata appellata “terra senza crociati”. Successivamente, Gregorio IX ratificò (1231) il trattato di Giaffa e Riccardo Filangeri guidò la rappresentanza occidentale incaricata di far rispettare la tregua decennale stipulata da Federico II.

Alla novità dell’indirizzo politico federiciano corrispose, in ambito ecclesiastico, un ripensamento dell’idea e dei fini della crociata. Dinanzi ai risultati poco duraturi delle spedizioni armate, maturò l’idea di coniugare la crociata con l’attività missionaria. Ferma restando la volontà di liberare la Terra Santa dal dominio dei musulmani, l’espansione dell’annuncio evangelico rigettava l’uso della violenza e mirava alla conversione degli infedeli attraverso il confronto sul piano religioso. Emblematica, ma anch’essa deludente nei risultati, fu la vicenda di s. Francesco d’Assisi, il quale, da crociato, raggiunse le truppe occidentali e si recò a predicare il vangelo nell’accampamento avversario alla presenza del sultano al-Kamil. È probabile che il Santo cercasse il martirio – compreso nell’ideale crociato –, ma venne risparmiato dal sultano. D’altra parte, nel 1220, cinque frati Minori – Bernardo, Otone, Pietro, Accursio e Adiuto –, sull’esempio di Francesco, partirono per la Spagna, dove predicarono nelle moschee. Deportati in Marocco, per ordine del sultano vennero decapitati. Sette anni dopo, a Ceuta (Marocco), la medesima sorte subirono i loro confratelli Daniele di Calabria, Angelo, Samuele, Donnolo, Leone, Nicola e Ugolino. Ciò nonostante, i Minori introdussero nella regola l’impegno missionario fra gli infedeli e continuarono a questuare per finanziare la crociata.

Fino alla caduta di S. Giovanni d’Acri (1291), l’Italia venne interessata al flusso dei crucesignati, ma fu anche teatro della crociata antifedericiana: esempio di distorsione dell’originale ideale crociato più volte rinnovatosi sotto altre forme. Nel frattempo, però, andava svanendo la speranza di riconquistare la Terra Santa e fra Trecento e Cinquecento furono numerosi i progetti di crociata elaborati e rimasti irrealizzati. Fino alla riscossa musulmana della fine del XV sec. le potenze marinare italiane mantennero la supremazia sul Mediterraneo ed estesero le proprie propaggini al Mar Nero e alla Cina. Al seguito di esploratori, mercanti e coloni i missionari italiani penetrarono nelle terre più lontane. E comunque, l’appello alla crociata e la sua predicazione rimasero presenti nell’animo di molti Italiani, ad esempio Caterina da Siena, Giacomo della Marca, Cristoforo Colombo. Giovanni da Capestrano predicò la crociata quando essa si presentava trasformata in guerra contro l’espansione turca in Europa, succeduta alla conquista di Costantinopoli (1453). L’appello di un papa italiano, Pio II, per una nuova crociata (Mantova 1459) restò inascoltato e a dimostrazione del generale disinteresse subentrato fra i principi cristiani nei confronti della Terra Santa valsero le parole di Erasmo da Rotterdam, secondo cui la guerra contro i Turchi era diventata un argomento largamente sfruttato per suscitare l’ilarità della gente, insieme agli oroscopi e alle adulazioni dei cortigiani (dedica del Moriae encomium).

Malgrado gli esiti negativi delle imprese militari e l’evanescenza di molteplici progetti di riconquista dei luoghi santi, una presenza “crociata”, inerme e per buona parte italiana, fu favorita dai sovrani di Sicilia Roberto d’Angiò e Sancia di Maiorca, i quali acquistarono (1333) dal sultano al-Naser Mohammad il Cenacolo di Gerusalemme e lo donarono ai Frati Minori. I Francescani si insediarono nell’area del Monte Sion e in seguito diventarono anche custodi e comproprietari del S. Sepolcro. D’allora, con alcuni privilegi concessi da Clemente VI (1342) e l’acquisizione di altri beni e santuari cristiani, si sviluppò la nuova struttura della Custodia di Terra Santa. Essa mantenne e incrementò l’esigua rappresentanza della Chiesa latina (ritornata nei luoghi santi dopo il 1291) e pose in atto – senza soluzione di continuità – il connubio crociata-missione secondo lo spirito di S. Francesco.

Fonti e Bibl. essenziale

I Comuni italiani nel Regno crociato di Gerusalemme. Atti del colloquio “The italian communes in the crusading Kingdom of Jerusalem, Jerusalem May 24-May 28, 1984, a cura di G. Airaldi – B.Z. Kedar, Genova 1986; M.-L. Favreau-Lilie, Die Italiener im Heiligen Land vom ersten Kreuzzug bis zum Tode Heinrichs von Champagne, 1098-1197, Amsterdam 1989; F. Cardini, Gerusalemme d’oro, di rame, di luce. Pellegrini, crociati, sognatori d’Oriente fra XI e XV secolo, Milano 1991, Id., Studi sulla storia e sull’idea di crociata, Roma 19932; B.Z. Kedar, Crociate e missione. L’Europa incontro all’Islam, Roma 1991; Il concilio di Piacenza e le crociate, Piacenza 1996; L.M. de Palma, Pellegrini martiri di Cristo? Storia e leggenda di un culto medievale sulla costa pugliese, «Rivista di Storia della Chiesa in Italia», LIII (1999), 17-38; G. Musca, Il Vangelo e la Torah. Cristiani ed ebrei nella prima crociata, Bari 1999; Verso Gerusalemme. II convegno internazionale nel IX centenario della I crociata (1099-1999) (Bari, 11-13 gennaio 1999), a cura di F. Cardini – M. Belloli – B. Vetere, Galatina 1999; La Terrasanta e il crepuscolo della crociata. Oltre Federico II e dopo la caduta di Acri. Atti del I convegno internazionale di studio (Bari-Matera-Barletta, 19-22 maggio 1994), a cura di M.S. Calò Mariani, Bari 2001; Il cammino di Gerusalemme. Atti del II Convegno Internazionale di Studio (Bari-Brindisi-Trani, 18-22 maggio 1999), a cura di M.S. Calò Mariani, Bari 2002; Il Mezzogiorno normanno-svevo e le Crociate. Atti delle quattordicesime giornate normanno-sveve. Bari, 17-20 ottobre 2000, a cura di G. Musca, Bari 2002; G. Ricci, I Turchi alle porte, Bologna 2008; A. Demurger, Crociate e crociati nel medioevo, Milano 2010; A. Musarra, In partibus ultramarinis. I Genovesi, la crociata e la Terrasanta (secc. XII-XIII), Roma 2017; L. Russo, I crociati in Terrasanta. Una nuova storia (1095-1291), Roma 2018.


LEMMARIO




Culto e devozioni - vol. I


 

Autore: Giovanni Liccardo1

L’importanza delle devozioni popolari. Le recenti canonizzazioni di Giovanni Paolo II e di Giovanni XXIII e la risposta estesa di masse di fedeli a vari eventi ecclesiali ripropongono l’importanza delle devozioni popolari nella società contemporanea. Tali fenomeni si ricollegano ad una forte persistenza di forme di devozione popolare che attraversano l’Italia (ma anche altre aree europee) e che non solo non diminuiscono di intensità, ma si mantengono paralleli ai livelli di crescita (economica e organizzativa) delle collettività locali che li animano. Le più diffuse devozioni, intese come la totalità delle pratiche religiose e dei rituali, nel corso della storia hanno caratterizzato «la ricerca di Dio da parte degli uomini […] espressa in molteplici modi, attraverso le loro credenze ed i loro comportamenti religiosi (preghiere, sacrifici, culti, meditazioni, ecc)» (Catechismo della Chiesa Cattolica, n. 28). E come registrò il Direttorio su pietà popolare e liturgia, edito nel 2002 dalla Congregazione per il culto divino e la disciplina dei sacramenti, la pietà popolare è un dato di fatto nella vita della Chiesa; pertanto va valorizzata ed educata in quanto strumento prezioso di esperienza e di interiorizzazione del mistero rivelato, e luogo di inculturazione della fede.

Le manifestazioni tardo antiche. Tra le prime manifestazioni cultuali furono quelle a favore dei defunti, in de­terminati giorni dopo la sepoltura. Almeno nell’età più antica, si diffuse la consuetudine del refrigerium; il rito consisteva in un pasto funebre collegato alla morte, cioè cristianamente al riposo eterno, nel giorno anniversario dei defunti (dies natalis) o dei santi: lo scopo principale era di portare giovamento all’anima del morto, tanto che Paolino di Nola riferisce espressamente che il popolo credeva che i defunti godessero realmente quando venivano bagnati dal vino (Carme 27, 563-567). Durante il rito si consumavano vino, latte e miele, a cui venivano aggiunti veri e propri pasti; allo scopo si costruivano luoghi appositi per il servizio funebre (cellae). Tollerato inizialmente, dal V secolo a causa di degenerazioni il culto fu avversato apertamente dai vescovi, come indicano le note di Ambrogio ed Ennodio di Pavia e specialmente di Agostino (Confessioni, 6, 2).2

A parte il refrigerio, speciale riguardo fu dedicato alla salma, sulla quale si spargevano balsami e fiori; talvolta, accanto alla testa dei defunti si deponevano delle corone di alloro che dovevano assicurare ai defunti la pace nella tomba. Non poche volte nelle sepolture più antiche sono state scoperte delle monete nella bocca dei morti, con esplicita allusione alla tradizione classica. Di sicuro, ciò che sempre contraddistinse il funerale dei cristiani fu la preghiera. Tertulliano (Sull’anima, 51) menziona le litanie che il sacerdote recitava all’atto della sepoltura, mentre il V capitolo degli Atti del martirio di Cipriano registra con precisione la processione che «con ceri e torce» accompagnò la salma del santo al luogo della sepoltura. Ma è Agostino a fornire la più eloquente rievocazione di una funzione funebre, che comprendeva certamente anche il sacrificio della messa, quando racconta la deposizione della madre (Confessioni, 9, 12).

Molto particolare fu la devozione verso i santi, considerati come “compagni fedeli e invisibili”: «Dammi un compagno, Signore», canta Sinesio di Cirene nel 4 Inno, «un amico, un sacro messaggero di sacro potere, un sacro ambasciatore di preghiera illuminata dalla luce divina, un compagno, un dispensatore di nobili doni, un custode della mia anima, un custode della mia vita, che vigili sulle mie preghiere, che vigili sulle mie azioni». Il fedele al cospetto del martire doveva compiere alcune azioni: vedere, con gli occhi della fede, pregare, per richiedere o ringra­ziare, compiere un voto, cioè eseguire la penitenza che gli era stata chiesta, ottenere un favore, tra i quali era primariamente la guarigione. Prima di ogni altra cosa il fedele doveva «toccare» e «baciare» il santo, come spiega, per esempio, Gregorio di Nissa (Encomio di San Teodoro, 7).

Il bacio delle reliquie del santo significava riverenza e venerazione, ma anche era simbolo di riconciliazione, di unione spirituale e di richiesta di protezione. Soprattutto ba­ciando le spoglie del martire il fedele dichiarava la sua sottomissione, come nel diritto feudale il vassallo era tenuto a baciare la mano del suo signore. Il cristiano bacia la tomba del santo, bacia gli og­getti che vi sono sopra, bacia i libri sacri, bacia la mano del sacerdote in­caricato delle cerimonie; più di ogni altra cosa, il fedele bacia l’altare eretto sul sepolcro del martire: tomba e altare vengono «abbracciate», per­ché sopra l’altare ha sede colui che si è offerto per tutti, invece sotto l’altare si tro­vano quanti sono stati redenti dal suo sacrificio. Roma, innanzitutto, fu il modello di una eccezionale esplosione di culti che segna, con affini dinamiche di insediamento e di evoluzione e con alcune logiche variabili temporali, lo straordinario radicalizzarsi del cristianesimo in tutti i centri abitati, urbani o rurali, grandi e piccoli, dell’Orbis Christianus.3

Presso le tombe dei martiri, davanti alle quali ardevano perennemente ceri, lucerne e candele, mentre intorno si spargeva il profumo degli aromi che i fedeli versavano, diventate luoghi privilegiati delle liturgie e dei riti, soprattutto a Roma, alcuni testi fanno ritenere sicura la pratica della “incubazione”, prassi derivata dal paganesimo. Nonostante la condanna da parte degli scrittori cristiani, questa antica usanza venne praticata a Napoli, per esempio, presso il cubicolo di S. Gennaro, nell’oratorio di S. Agrippino, forse anche in prossimità del sepolcro del vescovo Severo e della tomba di S. Gaudioso; infine, nel recinto di altre chiese e sepolture importanti all’interno delle mura.

Più in generale, il culto delle reliquie è stato uno dei segni più rappresentativi della religiosità cristiana dei primi secoli. Oltre ai resti di ossa, di denti, di capelli, di indumenti o di quant’altro era appartenuto al santo, i fedeli hanno cercato anche i ceri dipinti, i candelabri, l’olio delle lucerne che ardevano presso i loro sepolcri; o i fiori e le foglie che abbellivano le loro tombe. Le reliquie autentiche sono state sempre le più richieste, tuttavia, fu più comune la consuetudine di mettere a contatto delle tombe venerate oggetti di ogni tipo, specie stoffe e fazzoletti, che diventavano per induzione “preziose” e “valide” reliquie.

Gli ex voto. Una forma di devozione è rappresentata dall’offerta a Dio, alla Madonna, ai santi, in particolare al santo protettore, per grazia ricevuta o in adempimento di una promessa fatta, indipendentemente dal risultato sperato di ex voto, ellissi di ex voto suscepto. Circa le origini del fenomeno, già verso la fine del VI secolo vi erano numerosi ex voto sulla croce del Golgota e nella grotta di Betlemme, ornata con oro e argento. Nella tradizione medioevale il segno ex voto si definisce prima sotto forma di ceri e candele di varia grandezza, poi sotto forma di pani o altri cibi, fino ad altre forme, anche di animali ed oggetti di vario tipo; più tardi, superando certe interdizioni ecclesiastiche che vi riscontravano permanenze pagane, sotto forma di rappresentazioni anatomiche delle parti del corpo graziato. Oggi la tipologia è molto varia: dai cosiddetti ex voto anatomici (braccia, gambe, cuori, organi) eseguiti in argento, oro e altro metallo agli attrezzi ortopedici; dalle tavolette dipinte con la scena del miracolo ai ricami e agli abiti da sposa e di battesimo, alle fotografie; dalle orme dei soldati scampati alla morte in guerra agli oggetti in oro. Tali prodotti caratterizzano certi ambienti dei santuari, esprimendo con spontaneità e semplicità l’intervento divino nel quotidiano.

Il culto eucaristico. Il culto eucaristico è il complesso degli atti della venerazione rivolti al sacramento eucaristico durante la celebrazione della messa o fuori di essa. La Chiesa ha dimostrato sempre verso questa funzione una particolare attenzione (come dimostrano l’enciclica Mysterium fides di Paolo VI, l’istruzione Eucharisticum my­sterium della Sacra Congregazione dei riti e la parte del nuovo Rituale romano intitolata De sacra communione et de cultu mysterii eucharistici extra missam, pub­blicata dalla Sacra Congregazione per il cul­to divino e alla quale, nella versione italiana curata dalla CEI, è stato dato il titolo Rito del­la comunione fuori della messa e culto eucari­stico).

L’origine del culto (espressa con genuflessioni, incensazioni, accensione di lampade, ecc.) è assai antica; nondimeno, la negazione della presenza reale di Cristo nell’eucaristia da parte di Berengario, diede avvio come reazione alla nascita e allo sviluppo della devozione che, a partire dal XII secolo, si affermò diffusamente, trovando nel contemporaneo emergere del devozionismo, uno strumento di divulgazione straordinario. Il culto eucaristico diede vita a varie espressioni rituali durante la consacrazione della messa, tra le quali l’elevazione dell’ostia (XII secolo) e del calice del vino (XIII secolo); la festa del Corpus Domini nel 1264 ad opera di papa Urbano IV (con conseguente affermazione della pratica dell’esposizione eucaristica durante la messa e fuori di essa, quale dilatazione dell’elevazione durante la consacrazione della messa, al fine di favorirne l’adorazione devozionale dei fedeli); l’introduzione, nella struttura dell’altare, del tabernacolo/sepolcro per la custodia permanente dell’eucaristia che venne collocato al centro di esso, sormontato da un tronetto per collocare l’ostensorio per l’esposizione eucaristica; l’esposizione eucaristica delle Quarantore; la reposizione del SS. Sacramento nel repositorio specificamente predisposto il giovedì santo dopo la messa in Caena Domini.

In particolare, le radici della pratica delle Quarantore affondano nella consuetudine del digiuno e dell’astinenza praticati negli ultimi giorni della settimana santa, con l’adorazione della croce e poi del crocifisso da parte del vescovo, del clero e dei fedeli: azioni a cui si aggiunsero veglie di preghiera che iniziavano la sera del giovedì santo e si concludevano a mezzogiorno del sabato, nel pensiero del sepolcro in cui Gesù, secondo il computo fatto da Agostino, rimase quarantore. Il passaggio da questa forma liturgico-devozionale locale e particolare alla nota e classica forma dell’adorazione che lentamente prese un carattere più popolare e universale con l’ininterrotta esposizione per quarantore del sacramento, avvenne a Milano nel decennio 1527-1537 ed assunse la fisionomia che, salvo alcune particolarità, dura fino ad oggi.

La festa del Corpus Domini, invece, fu istituita dal vescovo di Liegi Roberto di Torote in segui­to alla rivelazione fatta alla mo­naca agostiniana Giuliana del lebbrosario di Mont­ Cornillon e celebrata per la prima volta nel 1246 a Fosses (Na­mur). Urbano IV, già arcidiacono di Liegi, con bolla Transiturus de hoc mundo dell’11 agosto 1264 la estese alla Chiesa universale; in seguito, commissionò a Tomma­so d’Aquino di comporre la messa e l’ufficio, utilizzando antifone, responsori e le­zioni già in uso presso alcune chiese particolari. Il consenso dei fedeli verso la celebrazione si consolidò dopo il Concilio di Trento; quindi, si diffusero le processioni eucaristiche e le adorazioni prolungate che manifestano pubblicamente la fede del popolo cristiano verso l’eucaristia.4

Il culto mariano. L’esortazione apostolica Marialis cultus di Paolo VI (1974) si presenta ancora oggi come la più efficace sintesi delle motivazioni teologiche del culto verso la Vergine, capace di leggere nell’essenziale alcune caratteristiche devozionali. Nel ricordare che la Chiesa venera con particolare amore Maria Santissima, Madre di Dio, il pontefice sottolinea nell’Introduzione che «la storia della pietà dimostra come le varie forme di devozione verso la Madre di Dio, che la Chiesa ha approvato entro i limiti della sana e ortodossa dottrina si sviluppino in armonica subordinazione al culto che si presta a Cristo e intorno ad esso gravitino come a loro naturale e necessario punto di riferimento». È un modo per ricordare che, nonostante l’importanza del culto e della devozione mariana, il centro non può mai distogliersi dalla Trinità e dalla figura di Cristo, su cui la Chiesa è fondata. Il Vaticano II, poi, ha precisato che la vera devozione non ha niente a che fare con la curiosità, la vana credulità, il miracolismo, il superficiale sentimentalismo e il formalismo delle pratiche esteriori; consiste piuttosto nel riconoscere la singolare dignità di Maria, nel rivolgersi a lei con fiducia e amore filiale, nell’imitare le sue virtù, per seguire Cristo insieme con lei (cf. Lumen Gentium, 67).

Durante il medioevo la pietà mariana, liturgica e privata, si diffonde in ogni circolo vitale del tessuto ecclesiale: da abbazie e cattedrali, da chiese in città e in campagna, risuona concordemente la venerazione per la Madre di Dio e Regina di misericordia. La pietà non è testimoniata soltanto dalle preghiere comunitarie e private: l’architettura, la pittura, la scultura, le vetrate, il mosaico, la miniatura, la melodia, gli inni, la poesia e la prosa in latino e in volgare, contribuiscono a plasmare la fisionomia della venerazione mariana, risultando un tipo di espressione il riflesso dell’altra.

Nell’età moderna Maria è l’Ancilla Domini partecipe alla sua redenzione (Concilio di Trento); la devozione mariana diviene molto popolare e si incentra sulla comprensione del mistero di Cristo. Nell’età contemporanea, infine, le apparizioni della Madonna a Caterina Labourè (1830) e a Bernadette Soubirous a Lourdes (1858) accompagnano la formulazione del dogma dell’Immacolata Concezione (1854) stabilito da Pio IX con tutti i vescovi del mondo. La grande diffusione del culto mariano culmina nel dogma dell’Assunzione di Maria stabilito da Pio XII nel 1950.

Tipica forma della devozione mariana è la recita del rosario, una preghiera a carattere litanico che prevede la sequenza di dieci Ave Maria unite alla meditazione dei “misteri” (eventi, momenti o episodi significativi) della vita di Cristo e di Maria. Con la lettera apostolica Rosarium Virginis Mariae (ottobre del 2002) Giovanni Paolo II ne ha esortato la recita, come avevano fatto prima di lui Leone XIII e Paolo VI nelle encicliche Supremi apostolatus officio e Marialis Cultus; nella lettera il papa, accanto ai tradizionali misteri gaudiosi, dolorosi e gloriosi, ha introdotto una quarta contemplazione, quella dei misteri luminosi. Questa pratica fu resa popolare da San Domenico che secondo la tradizione ricevette nel 1214 il primo rosario nella prima di una serie di apparizioni come un mezzo per la conversione dei non credenti e dei peccatori.

Collegata alla recita del rosario è la supplica alla Madonna di Pompei, ovvero preghiera recitata l’8 maggio e la prima domenica di ottobre davanti all’immagine mariana conservata in quel santuario, una raffigurazione seicentesca (attribuita alla scuola di Luca Giordano) divenuta estremamente popolare; la grande espansione di questo culto, introdotto da Bartolo Longo, ha indotto la Santa Sede a creare nella cittadina campana una prelatura territoriale.5

Il culto della croce, la Via Crucis e il Sacro Cuore di Gesù. Se la fede cristiana comprese fin da subito la centralità della croce, nei primi secoli questo segno non fu facilmente rappresentato né tanto meno ostentato. A partire dal II secolo gli autori cristiani meditano sul senso della croce, fino a elevare ad essa canti e inni: Giustino, Origene, Cipriano trovano in quella figura una simbolica della vita, della comunicazione tra cielo e terra, della congiunzione tra principio maschile e femminile. Con la svolta costantiniana si diffusero le feste e la devozione, legate al ritrovamento leggendario delle sue reliquie. Storicamente la liturgia dell’Exaltatio precede quella dell’Inventio; l’origine deve ricercarsi nell’annuale celebrazione a Gerusalemme della dedicazione (avvenuta il 13 e 14 settembre 335) delle basiliche costantiniane dell’Anastasis e del Martyrion, di cui parla minuziosamente la Peregrinatio Aetheriae. Da Gerusalemme la solennità si radicò in molte chiese orientali, specie in quelle che possedevano una reliquia della croce, come a Costantinopoli e ad Alessandria; in occidente, invece, la più antica testimonianza della celebrazione si trova nella biografia di Sergio I (687-701). Tra il VII e l’VIII secolo si diffuse la festa della Inventionis Sanctae Crucis stabilita al 3 maggio. Oggi la celebrazione prende su di sé un significato più alto del leggendario ritrovamento; la glorificazione di Cristo passa attraverso il supplizio della croce e l’antitesi sofferenza-glorificazione diventa indispensabile nella storia della salvezza: Cristo, incarnato nella sua realtà concreta umano-divina, si sottomette liberamente all’umiliante condizione di schiavo e l’infamante supplizio viene trasformato in gloria perenne, pertanto la croce diventa il simbolo e il compendio della religione cristiana.

La Via Crucis è simbolo di un’esperienza universale di dolore e di morte, di fede e di speranza; commemora l’ultimo tratto del cammino percorso da Gesù durante la sua vita terrena: da quando uscì con i discepoli verso il Monte degli Ulivi fino a quando, sopportando il patibulum, fu condotto al “luogo del Golgota” dove fu crocifisso e inumato in un sepolcro nuovo, scavato nella roccia di un giardino limitrofo. Tracce originarie della pratica sono state identificate nella processione che si snodava fra gli edifici sacri eretti sulla cima del Golgota – l’Anastasis, la chiesetta ad Crucem e la chiesa del Martyrium – e nella via sacra, un cammino attraverso i santuari di Gerusalemme che si desume dalle varie “cronache di viaggio” dei pellegrini dei secoli V e VI. La forma attuale si determinò nel clima delle crociate e del rifiorire dei pellegrinaggi a partire dal secolo XII, specialmente per la presenza stabile dei francescani nei “luoghi santi” che suscitarono nei pellegrini il desiderio di riprodurre quel rito nelle loro terre d’origine. Nella seconda metà del ‘900 Paolo VI è stato il maggior promotore dell’esercizio della Via Crucis allorquando nel 1965 volle cominciare a presiedere personalmente la pratica al Colosseo il venerdì santo.

Al cuore di Gesù, infine, la Chiesa cattolica rende culto onorando sia uno degli organi della sua umanità, sia l’amore del Salvatore per gli uomini, di cui è simbolo il suo cuore. L’istituzione della festa, estesa a tutta la Chiesa da Pio IX nel 1856 con l’enciclica Haurietis Aquas, ha conosciuto un travagliato cammino protrattosi per più di due secoli, e segnato – specialmente nel XVII e XVIII secolo – da forti polemiche. I primi impulsi alla devozione del Sacro Cuore di Gesù provengono dalla mistica tedesca del tardo medioevo, ma un grande impulso al culto si ebbe nel corso del XVII secolo, specialmente per le rivelazioni di Margherita Maria Alacoque, propagate da Claude La Colombière (1641-1682) e dai suoi confratelli gesuiti.

Fonti e Bibl. essenziale

B. Bordin, Il Sacro Cuore di Gesù: storia e dottrina, culto liturgico, devozioni e pii esercizi, Messaggero, Padova 1992; L. Mezzadri (a cura di), Giubilei e anni santi: storia, significato e devozioni, San Paolo, Cinisello Balsamo 1999; G. Moioli, Il mistero dell’Eucaristia, Glossa, Milano 2002; Profili istituzionali della santità medioevale: culti importati, culti esportati e culti autoctoni nella Toscana occidentale e nella circolazione mediterranea ed europea, a cura di C. Alzati – G. Rossetti, GISEM-ETS, Pisa 2010; M. Sordi, L’impero romano-cristiano al tempo di Ambrogio, Jaca Book, Milano 2000; V. Sorce, Inculturazione e fede, SEI, Torino 1996; P. Toschi, Bibliografia degli ex voto italiani, Olschki, Firenze 1970; C. Valenziano, Liturgia e antropologia, EDB, Bologna 1997; M. Walsh, Il grande libro delle devozioni popolari, Piemme, Casale Monferrato 2000; D. Zardin, La “religione popolare”: interpretazioni storiografiche e ipotesi di ricerca, in «Memorandum», 1 (2001), 41-60.

Immagini:

1) Roma, Catacombe di San Callisto, Pittura raffigurante un banchetto (III secolo); 2) Hans Memling, dal Dittico di San Giovanni Battista e la Veronica – Santa Veronica, National Gallery of Art, Washington (1433); 3) Siena, Basilica di San Domenico, Teca delle reliquie; 4) Pittore lombardo, Madonna con bambino. Comune di Trezzo sull’Adda (fine ‘400 – inizio ‘500); Giovanni Maria Morandi, Alessandro VII Chigi alla processione del Corpus Domini del 27 maggio 1655, Musée des Beaux-Arts, Nancy.

Sitografia:

http://www.cisam.org/ (sito del Centro italiano di studi sull’alto medioevo); http://www.reginamundi.info/ (sito dedicato alla Vergine Maria Regina del Mondo e Madre dell’umanità, con notizie storiche e liturgiche); http://www.iconecristiane.it/ (sito dedicato particolarmente ad esplorare il culto delle immagini); http://www.mirabileydio.it/ (sito dedicato alla devozione delle immagini, con speciale attenzione alla loro ideazione).


LEMMARIO




Diaconato - vol. I


Autore: Paolo Siniscalco

Sotto il lemma ‘diaconato’ sono indicate realtà e funzioni diverse svolte nella Chiesa durante i secoli fino ad oggi. L’argomento è vasto e complesso anche in relazione al tempo in cui lo si può considerare. Si indica qui qualche primo elemento orientativo, rimandando ai riferimenti bibliografici per ogni approfondimento.

Può essere conveniente considerare in primo luogo quale sia la radice del diaconato, segnalare qualche sviluppo che l’istituzione ha avuto nei primi secoli in speciale modo a Roma e che ne è oggi del diaconato, dopo il Concilio Vaticano II. Già nel greco classico si incontrano il termine diakonia con il senso di ‘servizio’ o ‘azione del servire’ o ‘azione di compiere i propri doveri’, e pure diakonos con il senso di ‘colui che è al servizio’, ‘servitore’. Il latino cristiano antico, con un prestito formale dal greco, forgia un nuovo termine, diaconus, un vero e proprio grecismo, (insieme ad una serie di altre parole, sostantivi o aggettivi, aventi la stessa radice: diaconia, diaconatus, diaconalis, diaconicum). L’idea della diaconia nasce dal servizio che Gesù rende ai ‘piccoli’ e anche ai discepoli (cf. Mc 10, 42-45 e par.).

Si sa che Luca in Atti degli Apostoli (cf.6, 1-6) parla di ‘diaconi’. L’episodio è noto. Nella prima comunità di Gerusalemme sorge un malcontento degli Ellenisti verso gli Ebrei perché le loro vedove vengono trascurate nel servizio quotidiano. Allora i dodici convocano l’assemblea dei discepoli e dicono agli Ellenisti di scegliere sette uomini da proporre a questo incarico. L’assemblea elegge sette uomini, tra i quali Stefano, li presenta agli apostoli, che impongono loro le mani. Numerosi sono i problemi posti da questo passo; su di essi non ci si può attardare in questa sede (cf. infra, la bibliografia). Basterà notare che per lungo tempo si è ritenuto che la narrazione lucana si riferisse all’istituzione del diaconato – così già afferma Ireneo di Lione (cf. Adu. haer.I, 26, 3; IV, 15, 1) – e che i sette siano stati i primi diaconi della Chiesa. Una serie di difficoltà consiglia prudenza interpretativa. A prova del fatto che inizialmente la gerarchia ecclesiastica non fosse ancora ben definita, si possono ricordare le espressioni paoline della lettera ai Filippesi, ove si indica il legame tra i ‘diaconi’ e gli ‘episcopi’; mentre la prima lettera a Timoteo (cf. 3, 8-13) segnala quali debbano essere le qualità dei diaconi, aggiungendo che, se svolgono bene il loro compito, possono parlare con sicurezza della fede in Gesù Cristo.

Nel II secolo e poi nel III si stagliano, accanto a quella del ‘diacono’, altri uffici destinati a compiere nelle comunità cristiane servizi specifici. Successivamente saranno chiamati ‘ordini minori’: i lettori’, i suddiaconi’, gli ‘accoliti’, gli ‘esorcisti’, gli ‘ostiari’ (li menzionano Tertulliano e Ippolito). Anche le donne offrono all’interno della vita della Chiesa ‘servizi’ nei primi secoli. Paolo in un passo discusso della lettera ai Romani (16,1) menziona una diaconessa della Chiesa di Cencre, ma, in questo caso, non è possibile stabilire il ruolo che avrebbe svolto. Una voce pagana, quella di Plinio il Giovane, in una lettera all’Imperatore Traiano, parla di due ministrae cristiane sottoposte a tortura per estorcere loro notizie sui cristiani. In varia forma, di donne che collaborano al ministero degli apostoli parlano Clemente di Alessandria e (Strom. III, 6, 53) e Origene (Comm. in Rom. 10, 17). Più esaurienti sono le notizie contenute nella Didascalia apostolorum (II, 26, 4-6), risalente alla prima metà del III secolo, ove si legge che le diaconesse assistono al battesimo delle donne, visitano e curano le ammalate. Tuttavia non è loro consentito di insegnare e di amministrare il battesimo (si vedano pure in proposito le Constitutiones apostolicae III, 6, 1-2).

Dal IV secolo le testimonianze sulle diaconesse si fanno più frequenti in Oriente: esse hanno ruolo e considerazione a parte, ben distinguendosi dalle vergini e dalle vedove. I critici esprimono pareri discordanti sul fatto di attribuire al diaconato femminile un valore sacramentale. Significativo è il cenno che si può fare alle diaconie romane, il Cronografo del 354 (cf. Liber Pontificalis I, 148) afferma che papa Fabiano intorno alla metà del III secolo avrebbe assegnato a sette diaconi, coadiuvati da sette suddiaconi, le 14 regioni della città con compiti di amministrazione e di assistenza (più sicuramente l’istituzione delle sette diaconie è attestata dal V secolo). Pochi anni dopo Sisto II (257-258), secondo una notizia di Cipriano di Cartagine (Epist. 80, 1,4), subisce la morte insieme a quattro diaconi, a causa del secondo editto di Valeriano che prescriveva l’esecuzione di vescovi, presbiteri e diaconi. I diaconi, dunque, erano collaboratori stretti dei vescovi e avevano un ruolo non trascurabile nella gerarchia ecclesiastica. Per molte ragioni l’istituzione in secoli successivi declina. Di recente la Lumen gentium (29), costituzione dogmatica sulla Chiesa dopo avere parlato dei sacerdoti, aggiunge che in un grado inferiore della gerarchia stanno i diaconi, ai quali sono imposte le mani “non per il sacerdozio, ma per il ministero”. A loro è demandato, fra l’altro, l’ufficio di amministrare il battesimo, conservare e distribuire l’Eucarestia, leggere la Sacra Scrittura, istruire e esortare il popolo, amministrare i sacramenti. Con il Concilio Vaticano II, nella Chiesa cattolica di rito latino è così stato ripristinato il diaconato come grado proprio e permanente della Gerarchia. La riforma di Paolo VI (1972) ha abolito il suddiaconato e gli ‘ordini minori’, sostituendoli con due ‘ministeri’, il lettorato e l’accolitato.

Fonti e Bibl. essenziale

Th. Klauser, in RAC, Hiersemann Verlags, Stuttgart 1957, 888-903, s.v. Diakon; J. Colson, La fonction diaconale aux origines de l’Église, Bruges 1960; P. Sorci, Diaconato e altri ministeri liturgici della donna, in U. Mattioli (ed.), La donna nel pensiero cristiano antico, Marietti, Genova 1992, 331-364; E. Cattaneo (ed.), I ministeri della Chiesa antica. Testi patristici tre primi tre secoli, Paoline, Milano 1997 (ivi si trova una ricchissima bibliografia sui ministeri dei vescovi, dei presbiteri, dei diaconi, sui ministeri minori, sulle diaconesse; bibliografia che è corredata da una ampia serie di testi antichi; Diakonia, diakoniae, diaconato); Semantica e storia nei Padri della Chiesa. XXXVIII Incontro di Studiosi dell’Antichità Cristiana, Roma 7-9 maggio 2009, Studia Ephemeridis Augustiniana, 117, Roma 2010 (vasto e utilissimo panorama sul ministero in argomento).


LEMMARIO




Diritto Canonico - vol. I


Autore: Carlo Fantappiè

Nel corso del XII secolo la distinzione del diritto canonico dalla teologia e la ricezione del diritto romano da parte della Chiesa, hanno costituito le premesse della costruzione dell’edificio canonistico classico. L’Italia è stata la culla della scienza canonistica, i canonisti italiani hanno detenuto un primato indiscusso negli studi in Europa per buona parte del medioevo, l’Università di Bologna e la Curia romana ne sono stati, a differente titolo, i maggiori centri propulsivi.

A Bologna avviene la fondazione scientifica del diritto canonico ad opera del maestro Graziano ricordato da Dante nel Paradiso (X, 103-105). Tra il 1139 e il 1145 egli redige, per uso degli studenti, due redazioni della Concordia discordantium canonum, poi denominata Decretum. L’impresa culturale di Graziano – che costituirà la prima pietra su cui verrà innalzato nel corso dei due secoli successivi, l’edificio normativo del Corpus iuris canonici – consiste nel raccogliere le principali fonti autoritative della disciplina ecclesiastica del primo millennio, assai composite e talora contraddittorie per la varietà dei tempi e dei luoghi (decreti conciliari, decretali papali, massime patristiche, tariffari penitenziali, ecc.) e nel tentare di armonizzarle mediante l’impiego di princìpi ermeneutici presi a prestito dalla nascente teologia scolastica.

Sempre a Bologna si compie, lungo il secolo successivo, l’edificazione della scienza canonistica attorno al Decretum, seguendo metodi e fasi che vanno considerate paradigmatiche per lo studio del diritto. Un primo livello, esegetico, si forma a cominciare dalle glossae, apposte dagli studenti su indicazione dei maestri, fino agli apparati di glosse, che chiosano, precisano, specificano e applicano le soluzioni dottrinali date da Graziano (i c.d. dicta). Seguono le summae, a metà strada tra gli apparati e l’esposizione sistematica, nonché altri generi letterari minori, come i brocarda, le quaestiones, i consilia. A questo lavoro ermeneutico si dedicano tre generazioni di «decretisti» italiani: Paucapàlea, o meglio Pocapaglia (1140-1148), e il maestro Rolando, i primi a aggiungere norme del diritto romano; Rufìno (1157-1159), che offre un’esegesi quasi completa, e Giovanni di Faenza (dopo il 1171), la cui somma sarà molto diffusa; Simone di Bisignano (1171-1179) e Uguccione di Pisa (1188), l’esponente più elevato della Scuola bolognese dei decretisti ma pure esperto di diritto romano e di teologia.

Nell’età dei grandi papi-giuristi (da Alessandro III a Innocenzo III) la Curia romana diviene l’officina giuridica in cui si avvia la produzione seriale delle decretali. In questo periodo decisivo per la fissazione dell’ordinamento canonico, nella scienza canonistica si attua il passaggio dalla «decretistica», centrata sull’analisi del Decretum, alla «decretalistica», rivolta all’interpretazione e al commento delle norme pontificie. Bernardo Baldi di Pavia la inaugura nel 1190 ca. fissando la futura sistematica delle collezioni ufficiali (Liber Extra di Gregorio IX nel 1234, Liber Sextus di Bonifacio VIII nel 1298, Clementinae di Giovanni XXII nel 1317).

Con la fine del XII secolo si aprono nuovi studia o università in Italia, Francia e Spagna, ma la Scuola di Bologna mantiene il suo primato culturale anche per l’innesto del diritto romano nel diritto canonico. Il legame, contrastato, fra i due diritti (utrumque ius) è assai sviluppato nelle Summae di due canonisti del Duecento, Goffredo da Trani († 1245) e Enrico da Susa, dal titolo cardinalizio detto l’Ostiense († 1271). Entrambi sentono l’insufficienza del livello esegetico e sviluppano tecniche che guardano verso il nuovo genere del commentario. Alla costruzione di apparati di glosse delle decretali gregoriane si dedicano, con notevoli risultati sul terreno dottrinale, tanto l’Ostiense, la cui opera si ispira al principio dell’aequitas canonica, quanto Sinibaldo dei Fieschi (futuro Innocenzo IV), anticipatore della teoria della «persona giuridica». Il coronamento e la conclusione dell’attività scientifica dei decretalisti si ha nella Glossa ordinaria di Bernando da Parma (1266).

Nella prima metà del XIV sec. la scienza canonistica italiana si concentra sul nuovo genere del commentario, esposizione del significato e non della lettera del testo delle decretali, e sul trattato, costruzione tenzialmente sistematica di un singolo istituto o materia. Le figure più eminenti per cultura non solo giuridica ma anche filosofica e teologica sono il mugellano Giovanni d’Andrea († 1348), il perugino Baldo degli Ubaldi († 1400), allievo di Bartolo da Sassoferrato, Pietro d’Ancarano († 1416), Francesco Zabarella († 1417), Antonio da Butrio († 1408). La stagione post-classica della scienza canonistica, convenzionalmente fatta coincidere con la «cattività» avignonese del papato, si conclude con l’opera di Niccolò Tedeschi († 1445), spesso citato col semplice epiteto di Panormitano.

Seppure appartenenti a epoche diverse, i canonisti dell’età classica e post-classica presentano caratteri comuni che li differenziano rispetto ai loro successori. Rappresentano una classe di studiosi che attua al proprio interno un processo di professionalizzazione, essendo destinati a ricoprire cattedre universitarie o uffici ecclesiastici elevati; pur provenendo la più parte dall’Università di Bologna vanno ad insegnare anche in altri atenei in Italia e in Europa; in genere coltivano, anche se con diversa intensità entrambi i rami del diritto canonico e civile; in maggioranza sono ecclesiastici ma non mancano laici, specialmente nella serie dei docenti bolognesi dell’intero Trecento.

Nel complesso il contributo culturale dei canonisti italiani alla scienza giuridica europea è enorme e risalta per acume, autonomia e originalità. Benché legati al testo normativo, fedeli alla tradizione e rispettosi dell’autorità dei dottori, essi si sentono interpreti creativi, esprimono con libertà le loro opinioni sulle questioni più delicate della Chiesa, sviluppano conciliazioni, sistemazioni e ipotesi giuridiche anche ardite. Alla base del loro atteggiamento v’è una grande fiducia nella dialettica delle opinioni e nella ricerca comune della verità (la communis opinio doctorum è, con qualche eccezione, un criterio ermeneutico). La gerarchia è del resto consapevole dell’aiuto indispensabile che essi recano alla Chiesa e alla società.

Il paesaggio e il clima sono destinati a mutare con la crisi tardo-medievale del papato e della Chiesa nell’età moderna. La necessità di difendere l’unità dell’organizzazione ecclesiastica dalle tendenze autonomistiche delle Chiese nazionali e dagli scismi religiosi nel XVI secolo conduce, è noto, alla centralizzazione romana e curiale. Il divieto di interpretare i decreti tridentini, i controlli sulla produzione del sapere nelle Università, i sospetti sull’ortodossia dei docenti, sono fattori che modificano la dinamica della scienza canonistica. Dal Seicento in avanti cambiano sedi e orientamenti di studio, scompaiono gli autori laici, si indebolisce l’autonomia della ricerca e si afferma la tendenza ad uniformarsi alle direttive della Curia. La dottrina assume il compito non più di adattare bensì di riprodurre il sistema canonistico; per questo si elaborano nuove metodiche didattiche con le Institutiones di Giovan Paolo Lancellotti († 1590). L’oggetto degli studi diviene la prassi amministrativa e giudiziaria delle Congregazioni e dei Tribunali della Curia.

Il centro degli studi canonistici si sposta in Spagna, dove fiorisce la Scuola di Salamanca, poi in Francia, dove si congiunge con le tendenze gallicane, quindi in Germania, dove riceve nuovo impulso nei collegi degli ordini religiosi, infine passa a Roma. I più importanti esponenti italiani del Seicento sono alti funzionari della Curia o dello Stato pontificio: il marchigiano Prospero Fagnani († 1678), segretario della Congregazione del Concilio, commentatore delle Decretali, e il venosino Giovan Battista De Luca († 1683), cui si deve la sistemazione del tardo diritto comune sulla base della giurisprudenza, in special modo della Rota romana (Theatrum veritatis et iustitiae, 1669-1673), un’analisi organica dei profili giuridici dei vari status personali nella Chiesa (opere sul religioso, sul vescovo, sul cardinale, sul principe cristiano, 1675-1680), provvedimenti di riforma amministrativa diretti ad attuare una più razionale divisione delle competenze spirituali e temporali del papato.

I caratteri tipici del XVIII secolo si riscontrano anche in alcune grandi opere canonistiche italiane: la nota enciclopedia giuridica Prompta bibliotheca canonica, iuridica, moralis, theologica nec non ascetica, polemica, rubricistica, historica (1746) del francescano piemontese Lucio Ferrari († 1763) e i due fondamentali trattati del bolognese Prospero Lambertini, futuro Benedetto XIV, il De servorum Dei beatificatione et beatorum canonizatione (1734-1738) e il De synodo dioecesana (1748). Vanno poi ricordati gli scritti eruditi del proposto modenese Ludovico Antonio Muratori († 1750), dei fratelli veronesi Pietro († 1769) e Girolamo Ballerini († 1781) e del gesuita Francesco Antonio Zaccaria († 1795), oppositore delle teorie di Hontheim.

I canonisti alimentano i contrasti giuridico-politici tra la Santa Sede e gli Stati. All’Università di Torino si forma una scuola di tendenza gallicana e giurisdizionalista che, partendo dallo scolopio torinese Carlo Sebastiano Berardi († 1786) arriva fino a Giovanni Nepomuceno Nuytz († 1874), la cui opera è condannata nel 1851. A Roma si concentra, sul finire del Settecento, una Scuola canonistica di tendenza apologetica ma scientificamente solida facente capo a religiosi quali Tommaso Maria Mamachi († 1792), Gian Vincenzo Bolgeni († 1811) e Mauro Cappellari (futuro Gregorio XVI), che intende rivendicare il primato papale contro le varie forme di giurisdizionalismo, di regalismo e di giansenismo riformatore. Su questa tradizione si innesta l’opera canonistica, di tipo didattico e scientifico, di Giovanni Devoti († 1820) che unisce l’impronta romana ad una solida erudizione storica. In Sicilia fiorisce una scuola canonistica tendente ad ammodernare il tradizionale regalismo con l’episcopalismo e il giurisdizionalismo: il maggiore rappresentante è Stefano Di Chiara († 1837).

Dopo le vaste soppressioni di conventi, monasteri, facoltà e seminari decretate nel periodo illuministico-riformatore e napoleonico, occorre attendere il secondo Ottocento per assistere ad una ripresa della scienza canonistica italiana nelle facoltà e nei seminari pontifici di Roma. Si tratta perlopiù di un sapere giuridico-pratico finalizzato alla creazione dei funzionari ecclesiastici della Curia e delle diocesi del mondo cattolico. Al Seminario romano dell’Apollinare appartengono Giuseppe De Camillis, autore di un innovativo manuale di Istituzioni canoniche (1868), e i due maestri del cardinale Pietro Gasparri e di altri canonisti di spicco, Filippo De Angelis († 1881) e Francesco Santi († 1885).

Tra le Università statali, Torino resta l’unico centro di trasmissione delle dottrine giurisdizionaliste del Settecento. Nel clima di contrasto risorgimentale tra Stato e Chiesa il canonista Giovanni Nepomuceno Nuytz († 1874) è condannato da Pio IX per la negazione del potere temporale e della potestà coattiva della Chiesa.

Fonti e Bibl. essenziale

J.F. Schulte, Die Geschichte der Quellen und Literatur des canonischen Rechts von Gratian bis auf die Gegenwart, voll. I-III, Stuttgart 1875-80, rist. an. Graz 1956; F. Ruffini, Lo studio e il concetto odierno del diritto ecclesiastico (1892), ora in Id., Scritti giuridici minori, vol. I, Milano 1936, 5-45; E. Cortese, Il diritto nella storia medievale, voll. I-II, Roma 1995; P. Grossi, L’ordine giuridico medievale, n. ed. Bari-Roma 2006; C. Fantappiè, Chiesa romana e modernità giuridica, 2 voll., Milano 2008; L. Sinisi, Oltre il Corpus iuris canonici. Iniziative manualistiche e progetti di nuove compilazioni in età post-tridentina, Soveria Mannelli 2009; K. Pennington – W. Müller, The Decretists: The Italian School, in History of medieval Canon Law in the classical Period, 1140-1234. From Gratian to the Decretals of Pope Gregory IX edited by W. Hartmann and K. Pennington, Washington 2008, 121-173; C. Fantappiè, Storia del diritto canonico e delle istituzioni della Chiesa, Bologna 2011; Enciclopedia Italiana di Scienze, Lettere ed Arti, Il contributo italiano alla storia del pensiero, Ottava Appendice, Diritto, a cura di P. Cappellini, P. Costa, M.  Fioravanti, B. Sordi, Roma 2012; Diccionario general de derecho canónico, obra dirigida y coordinada por J. Otaduy, A. Viana, J. Sedano, voll. I-VII, Cizur Menor (Navarra) 2012; Dizionario biografico dei giuristi italiani (XII-XX secolo), diretto da I. Birocchi, E. Cortese, A. Mattone, M.N. Miletti, voll. I-II, Bologna 2013.


LEMMARIO




Ebrei - vol. I


Autore: Anna Foa

Nel vasto mosaico di popoli e religioni che costituiva l’Impero romano alle soglie della sua cristianizzazione, gli ebrei – presenti in numerose comunità fin da prima del 70 d.C., la data della distruzione del Tempio di Gerusalemme da cui si fa iniziare la diaspora, e a Roma già dal II secolo a.C. – erano cittadini al pari degli altri, un diritto che Caracalla aveva concesso a tutti gli abitanti del territorio imperiale nel 212 d.C. Le restrizioni a questa piena cittadinanza iniziarono subito dopo la vittoria del Cristianesimo: già sotto Costantino furono proibite le conversioni al giudaismo e vennero introdotte limitazioni al possesso di schiavi cristiani. La prima norma di proibizione del matrimonio fra ebrei e cristiani è del 388. Tutta questa sparsa legislazione confluì nel codice teodosiano della metà del IV secolo e divenne ulteriormente restrittiva nel codice giustinianeo del VI secolo. Nonostante queste limitazioni, tuttavia, il codice teodosiano manteneva la religione ebraica come una religio licita, principio che servì a garantire dal punto di vista giuridico la presenza ebraica nell’Occidente dell’alto Medioevo, impedendo che l’ebraismo fosse considerato come un’eresia e che agli ebrei fosse tolto ogni stato giuridico. Nelle zone dove sopravvisse il diritto romano, essi restarono cittadini, sia pur dimidiati.

Queste formulazioni giuridiche si saldarono con le teorizzazioni fatte dalla Chiesa sulla base tanto della tradizione teologica paolina e agostiniana quanto di vere e proprie opzioni politiche. Sotto Gregorio Magno, alla fine del VI secolo, la scelta del mantenimento della presenza ebraica nella società cristiana, sia pur in uno statuto di inferiorità e subordinazione, è ormai netta, e va di pari passo con il rifiuto della Chiesa delle conversioni forzate. Nel 1121 il papa Callisto III sancirà nella Bolla Sicut Iudaeis, più volte ripubblicata e ripresa nel diritto canonico, questa sorta di contratto tra gli ebrei e la società circostante, mentre nel 1205 la Bolla di Innocenzo III Etsi Iudaeos definirà lo status giuridico dell’ebreo come quello di una “perpetua servitus”, una servitù però da intendersi in senso teologico e non giuridico. Queste formulazioni confluirono nel secolo XII nel corpo del diritto canonico, a teorizzare il ruolo degli ebrei nella società cristiana e i limiti della loro presenza.

Il senso ultimo di questa teorizzazione era evidentemente quello di mantenere un equilibrio tra l’inferiorità degli ebrei e la loro permanenza “necessaria” nel mondo cristiano come testimoni della verità della fede. Restavano tuttavia aperti molti spazi per una ridefinizione di questa politica in tutti i sensi, ad ogni oscillazione del pendolo che reggeva questo difficile equilibrio e ad ogni mutamento del contesto storico.

Il secondo millennio si apriva con pesanti sconvolgimenti nel rapporto degli ebrei con la società cristiana che, se pur non toccavano direttamente il rapporto con la Chiesa, non potevano non avere conseguenze su di esso. Gli attacchi alle comunità ebraiche renane ai margini della prima crociata, nel 1096, le conversioni forzate che si verificarono e che posero per la prima volta alla Chiesa il problema del ritorno all’ebraismo dei convertiti a forza, la diffidenza instauratasi fra i due mondi in seguito a questi massacri cominciarono a aprire crepe visibili nell’edificio costruito dalla Chiesa nei primi secoli del cristianesimo. Le accuse agli ebrei di omicidio rituale e di sacrilegio dell’ostia, con la loro scia di esecuzioni e morti, si susseguono a partire dal XII secolo, nonostante l’atteggiamento della Chiesa si mostri subito contrario a queste mitologie persecutorie. Nel 1247, Innocenzo IV le dichiara false in una Bolla, la Lachrymabilem Iudaeorum. Inutilmente, tanto forte è la pressione dei sovrani secolari, del basso clero e del popolo. A partire dal XIII secolo, il peggioramento delle condizioni degli ebrei è netto e costante, anche se sono soprattutto le monarchie nazionali a mettere in atto strategie di uniformizzazione religiosa: nel 1290 gli ebrei sono espulsi dall’Inghilterra, nel corso del Trecento dalla Francia. Nonostante nel 1215 il Concilio Laterano IV avesse varato norme peggiorative nei confronti degli ebrei, tra cui fondamentali quella, da loro fortemente avversata, del segno distintivo, e una regolamentazione del prestito ebraico attraverso la proibizione delle usure “gravi e immoderate”, la Chiesa continuava tuttavia a mantenere la presenza ebraica nel suo seno, anche se al suo interno si facevano avanti spinte fortemente antiebraiche. All’avanguardia, sono i nuovi ordini mendicanti, in particolare i francescani. Immediatamente partecipi dell’attività della nuova istituzione creata nel 1231 per combattere l’eresia, l’Inquisizione, i mendicanti cercano di allargare la giurisdizione inquisitoriale fino a comprendervi gli ebrei, che il diritto canonico definiva non eretici, ma appartenenti ad una religione consentita. Il risultato sarà quello della costruzione di una nuova eresia, quella dei giudaizzanti, in cui rientravano i convertiti che tentavano di rientrare in seno all’ebraismo. La sancisce una Bolla di Clemente IV del 1267 Turbato corde, gravida di conseguenze sul rapporto con il mondo ebraico. I predicatori francescani, spesso in contrasto con le direttive di Curia, sollevano il popolo contro la presenza dei prestatori ebrei nelle città dell’Italia centrale e settentrionale, collegando questa agitazione alla creazione dei Monti di Pietà, mentre si moltiplicano gli appelli alla conversione, su cui Roma si mantiene tuttavia abbastanza prudente. L’attacco al Talmud, partito dalla corona francese e non da Roma, lasciò i papi oscillanti, dal momento che la Chiesa, fino al XVI secolo, resta incline più alla sua correzione che alla sua soppressione, alla censura cioè delle parti del testo ebraico considerate blasfeme. Anche quando Roma farà sua la politica antitalmudica, con il rogo del Talmud del 1553, la sua proibizione, e infine la sua inclusione nell’Indice dei libri proibiti nel 1559, il mondo cattolico continuerà a dibattere sulle ambigue valenze della letteratura rabbinica.

Quanto alla formulazione del decreto del Concilio Laterano del 1215 sulle usure immoderate, esso non fu una decisa restrizione posta al prestito ebraico, ma piuttosto un compromesso fra i canonisti più rigidi, decisi a proibire radicalmente il prestito, e l’ala legata alla politica papale, assai più elastica e possibilista. Fu quest’ultima di fatto a prevalere, almeno fino al XVI-XVII secolo, anche se a partire dal Quattrocento la Chiesa ebbe sempre maggiori difficoltà nel contenere la predicazione francescana e le violenze da essa suscitate. A Roma, dove il controllo sul clero mendicante era più stretto, i banchi ebraici furono proibiti solo nel 1682. Un segnale inquietante di crisi fu nel 1475 la vicenda di Simonino da Trento, in cui l’intera comunità ebraica trentina fu sottoposta a processo sotto l’accusa di aver ucciso ritualmente un bambino cristiano, il piccolo Simonino, e in cui la Chiesa sembrò attenuare, sotto la spinta delle motivazioni politiche, il rigore del suo tradizionale rifiuto delle accuse di omicidio rituale.

La svolta che introduce nella linea della Chiesa elementi di radicale innovazione si verifica però solo nel XVI secolo, con l’introduzione dei ghetti e con l’assunzione in prima persona, da parte della Chiesa, di quella spinta conversionistica che fino a quel momento era stato fatto proprio solo dalle istanze ecclesiastiche inferiori e che ora diventava un obiettivo privilegiato del papato. Molti i fattori che portano a questa svolta: le tensioni riformatrici della Chiesa, che vedevano nella tolleranza degli ebrei un fattore di corruzione mondana della Chiesa; le spinte repressive dell’eresia, che spingevano alla chiusura verso ogni diversità; il fervore escatologico, che vedeva nella conversione totale degli ebrei il preludio necessario alla fine dei tempi storici; il modello dell’espulsione degli ebrei dalla Spagna del 1492, che si faceva sentire pesantemente in un’Italia in cui metà della penisola era sotto il diretto dominio della Spagna e il resto ne era comunque fortemente dipendente.

Nonostante la scelta dell’espulsione non manchi questa volta, e per la prima volta nei secoli, di essere sollevata anche a Roma l’opzione non è tuttavia quella spagnola dell’espulsione, ma un compromesso, che mantiene la presenza pur appesantendo fortemente e progressivamente l’inferiorità: il ghetto, cioè la chiusura degli ebrei in una o più strade separate da quelle dei cristiani e chiuse da mura e portoni, aperti al passaggio solo nelle ore del giorno. Una specie, cioè, di semiprigionia, volta a rendere sempre più pesanti le condizioni degli ebrei e a spingerli nelle braccia aperte della Chiesa. L’ istituzione dei ghetti fu varata da Paolo IV Carafa nel 1555, appena assurto al pontificato, con la Bolla Cum nimis absurdum. L’istituzione del ghetto era accompagnata da norme che limitavano fortemente i mestieri consentiti agli ebrei e da altre restrizioni. Il primo ghetto era in realtà stato già creato dalla Repubblica di Venezia nel 1516, ma era rivolto esclusivamente alla separazione, e mancava di quelle motivazioni teologiche, in primis la conversione, che caratterizzano invece l’attività di creazione dei ghetti dopo il 1555, patrocinata esclusivamente dalla Chiesa, spesso in conflitto con i sovrani e i principi secolari. L’Italia del Cinque Seicento costruisce progressivamente ghetti in tutte le località in cui esistono ebrei. Solo nello Stato della Chiesa la ghettizzazione si accompagna ad un’espulsione: all’interno del ghetto e non all’esterno, però. Due Bolle, una di Pio V nel 1569, la Hebraeorum gens, e l’altra di Clemente VIII nel 1598, la Caeca et obdurata, espellono gli ebrei dello Stato pontificio da tutte le località dove ancora erano presenti, per concentrarli nei ghetti di Roma, Ancona ed Avignone. Più tardi, ghetti furono creati a Ferrara, Cento e Lugo, passati nel 1598 sotto il dominio della Chiesa. Con la creazione del ghetto, la Chiesa riafferma ancora una volta la necessità della presenza ebraica nel suo seno, subordinandola in maniera ancora più netta all’esaltazione della verità cristiana. Il ghetto finisce così per divenire il maggiore strumento della politica conversionistica tentata dalla Chiesa della Controriforma e volta non a convertire un numero più alto di ebrei, ma a risolvere una volta per tutte, attraverso la conversione, il problema ebraico. Un obiettivo fallito in quanto tale, anche se il numero delle conversioni fu, nell’età dei ghetti, consistente e la suggestione del battesimo influenzò profondamente la vita degli ebrei tra le mura del ghetto, rendendola precaria ed insicura.

La predica forzata, istituzionalizzata dalla Chiesa nel 1584, rappresentò l’aspetto più teatrale, ed anche quello meno efficace, della politica conversionistica. Obbligati ad ascoltare una predica tutti i sabati, un terzo della comunità a turno, gli ebrei reagivano con ogni possibile resistenza, dai tappi nelle orecchie al sonno, mentre i cristiani dalle tribune guardavano lo spettacolo. Maggiori risultati si ottennero con la Casa dei Catecumeni. Fondata sotto l’impulso di Ignazio di Loyola nel 1542, essa era destinata ad accogliere, per istruirli nella dottrina cristiana, gli ebrei e gli altri infedeli. Nel 1562 fu fondata una Casa per donne, nel 1577 il Collegio dei neofiti, destinato a creare predicatori, ebraisti, studiosi. Nel corso del Seicento, e ancor più nel Settecento, la Casa dei Catecumeni si aprì ad accogliere forzatamente quanti avessero sia pur lontanamente manifestato un’intensione di conversione, mentre si faceva sempre più difficile il problema dei battesimi dei bambini, spesso “offerti”, cioè consegnati affinché si convertissero, alla Casa dei Catecumeni da parenti già convertiti, e non dai genitori che godevano della patria potestà. Si giunse così, soprattutto nel caso dei bambini, nonostante le proibizioni canoniche, ad usare la forza nella conversione o perlomeno ad andarvi assai vicino.

A parte la questione dei battesimi invitis parentibus, e a parte la chiusura dei Banchi del 1672, che ebbe l’effetto di impoverire fortemente la Comunità romana, i secoli del ghetto, tra il Cinque e l’Ottocento, non assistono a rotture significative nella linea della politica della Chiesa verso gli ebrei. Il clima tuttavia sembra mutare a metà del Settecento, con il crescere dei timori del papato per la secolarizzazione dilagante. La svolta può esser fatta risalire al papato di papa Lambertini, Benedetto XIV, un papa in fama di pontefice “liberale”, che però sulla questione ebraica irrigidisce ulteriormente le posizioni antiebraiche della Chiesa, e a quello del suo successore, Pio VI, papa Braschi, che emanò nel 1775 un editto che colpiva pesantemente gli ebrei del ghetto, moltiplicando i divieti e le imposizioni. Si moltiplicano, in questi anni, i casi di battesimi forzati di bambini, si riconsidera la questione dell’accusa di omicidio rituale, si inizia a vedere negli ebrei i fautori della modernità e della secolarizzazione e nella tolleranza della loro diversità, sia pur da secoli sancita dalla chiesa, un rischio di fronte all’affacciarsi della modernità. E’ il preludio alla dura polemica contro l’emancipazione che accompagnerà da parte della Chiesa gli anni della Rivoluzione francese, che concede, ricordiamolo, la piena emancipazione agli ebrei nel 1791, poi del dominio napoleonico, anch’esso accompagnato dall’abbattimento dei ghetti e dall’emancipazione degli ebrei. E’ quella che viene chiamata prima emancipazione, seguita durante la Restaurazione dalla rimessa in funzione dei ghetti e della ripresa delle disabilità imposte agli ebrei. A partire da quegli anni, mentre il dibattito sull’emancipazione ferve sia in campo ebraico che in quello non ebraico, in particolare nel Piemonte sabaudo, gli ebrei si identificano con il processo risorgimentale e con la costruzione dell’Unità italiana, partecipano ai moti del 1820-21 e del 1830-31, alla Repubblica romana, conquistando l’emancipazione con il progredire del processo unitario, fino al 1870 e alla caduta, insieme al potere temporale della Chiesa, dell’ultimo ghetto. Durissima la battaglia della Chiesa contro l’emancipazione, che era, per un lato, parte della battaglia contro la secolarizzazione e la modernità, ma era anche la presa di coscienza che l’emancipazione aveva rotto per sempre, facendo pendere la bilancia dalla parte degli ebrei, l’equilibrio secolare che condizionava, nel mondo cattolico, la presenza degli ebrei alla loro subordinazione ed inferiorità. In quanto tale, l’uguaglianza degli ebrei apparve alla Chiesa come un sovvertimento mostruoso dell’ordine religioso.

Non da tutta la Chiesa, però. Numerosi e convinti furono nel 1815 gli sforzi portati avanti dal segretario di Stato card. Consalvi contro il ristabilimento dei ghetto. Nel biennio cattolico-liberale, molte e illustri furono le voci che si pronunciarono a favore dell’Emancipazione, tanto che si può parlare di un’occasione mancata: quella della Chiesa di porsi alla guida del processo risorgimentale ma anche, insieme, quella di Pio IX di emancipare gli ebrei ed aprire il ghetto, come le sue prime misure, forse a torto, facevano pensare. Il rapporto tra emancipazione delle minoranze, e degli ebrei in particolare, e sviluppo del processo risorgimentale, è sottolineato fortemente da molti degli stessi cattolici liberali fautori dell’emancipazione ebraica. E non si trattava solo di personaggi noti come Gioberti e Lambruschini, ma di figure che talvolta escono dall’oscurità solo in questa occasione, come il canonico di Santa Maria in Trastevere a Roma, Ambrogio Ambrosoli, l’unico ad aver predicato pubblicamente a Roma nel 1848 l’emancipazione ebraica. Qualunque siano state le intenzioni di Pio IX, una prima volontà di cambiamento seguita dal timore e dalla reazione agli eventi della Repubblica Romana oppure una originaria ostilità all’emancipazione, offuscata da riforme marginali, resta il fatto che una presa di posizione favorevole all’emancipazione da parte della Chiesa di Pio IX nel 1848 avrebbe probabilmente reso diversa la storia dell’Italia e non solo quella degli ebrei d’Italia. Invece, il ghetto di Roma continuò a sopravvivere, privo ormai di mura e portoni ma non per questo meno oppressivo e degradato, fino al 1870 e alla breccia di Porta Pia. E il raggiungimento dell’emancipazione per tutti gli ebrei italiani coincise con la designazione di Roma a capitale del Regno d’Italia.

Fonti e Bibl. essenziale

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LEMMARIO




Ecclesiologia - vol. I


Autore: Dario Vitali

Questioni preliminari. Due questioni preliminari: a) se si possa parlare, nello specifico, di un’ecclesiologia italiana prima dell’unità d’Italia; b) dove fissare, in termini più generali, il terminus a quo per parlare di tale ecclesiologia.

Per quanto riguarda il punto a), è del tutto evidente che l’Italia prima dello Stato unitario, lungi dall’essere una mera “espressione geografica”, ha costituito un ambiente con tratti di grande omogeneità fin dalle origini cristiane. Pur nel mutare delle situazioni storiche e politiche, è sempre stato chiaro cosa fosse l’Italia e quali i suoi confini naturali, trattandosi di una penisola definita al nord dalla catena montuosa delle Alpi. Vale qui la distinzione tra stato e nazione: se l’Italia non avesse avuto la coscienza di essere nazione, per comunanza di lingua, cultura e storia, non sarebbe stata possibile la formazione dello stato nazionale.

Naturalmente, non vanno esagerati gli elementi comuni. La frammentazione della penisola in diversi stati ha radicalizzato le differenze nella popolazione, costituita da almeno tre ceppi: greco al sud, latino al centro, celtico al nord. Si tratta di tre mondi che hanno caratteristiche proprie, anche in ragione di configurazioni territoriali e vicissitudini storiche divaricanti, che hanno indebolito l’originaria unità. Roma, prima con il patrimonio di San Pietro e poi con lo stato pontificio, occupa quasi tutta l’Italia centrale, ad eccezione della Toscana, che, dopo l’età dei comuni e delle signorie, si configurò in granducato. Il sud, segnato da una lunga dominazione bizantina, e poi da una forte presenza araba, soprattutto in Sicilia, divenne un regno unitario con i Normanni e, pur nel variare delle corone, conservò stabilmente tale assetto, che finì per conferire un’unità territoriale e politica ben definita da Ruggero II di Sicilia a Francesco II di Borbone, ultimo re di Napoli. Il nord, più facilmente esposto alle invasioni d’Oltralpe, conobbe alterne vicende, legate alle trasformazioni in atto ai confini dell’impero romano. Così si passò da un’Italia longobarda a un’Italia franca, a un’Italia dei Comuni, a un’Italia delle signorie. Le continue lotte, alimentate dalla Francia e dall’impero che avevano mire egemoniche sull’Italia, portarono alla creazione di tre poli maggiori, con alcuni territori satelliti: il ducato dei Savoia che assorbì anche la repubblica di Genova, con la creazione del regno di Sardegna; il ducato di Milano; la repubblica di Venezia. Dopo la conquista napoleonica e il congresso di Vienna (1815), l’Italia del Nord fu divisa in due grandi territori: il Regno di Sardegna, sotto i Savoia, e il Regno lombardo-veneto, sotto il diretto controllo dell’Austria.

Tali differenze, però, non bastarono a spezzare un sentimento di unità nazionale, che portò alla formazione dello stato unitario, né riuscirono a disperdere un patrimonio comune, legato soprattutto all’identità cattolica. Si tratta di elementi non marginali nella determinazione di un’identità, e quindi di una visione particolare di Chiesa.

Per quanto riguarda il punto b), convenzionalmente si fissa l’inizio della riflessione ecclesiologica con il De regimine christiano di Jacopo da Viterbo (1302), trattandosi del primo testo dedicato interamente al tema della Chiesa. A partire da quel momento diventa usuale in teologia il Tractatus de Ecclesia. I contenuti e il metodo del trattato dipendono dal particolare sviluppo della storia della Chiesa, che dalla Riforma gregoriana in poi ha conosciuto una polarizzazione intorno alla figura e alle funzioni del papa: affermate nel Dictatus papae di Gregorio VII (1075-1085), dispiegate in tutta la loro forza nel pontificato di Innocenzo III (1198-1216), trovano una strenua difesa nella bolla Unam sanctam di Bonifacio VIII (1294-1303). Più che un trattato teologico, il de Ecclesia è una sequenza di temi apologetici, argomentati più con il diritto canonico che con la sacra Scrittura, che si arricchiscono con le vicende drammatiche che affliggeranno la Chiesa: il conciliarismo come risposta alla decadenza del papato; la questione della vera Chiesa, in risposta alle contestazioni della Riforma; l’idea della Chiesa come societas perfecta, contro le pretese degli stati moderni di interferire sull’organizzazione esterna della Chiesa; l’affermazione del Magistero infallibile del papa contro il relativismo razionalista. Il punto di arrivo fu il tractatus de Ecclesia dell’apologetica pre-conciliare, funzionale alla dimostrazione del modello piramidale della Chiesa.

Tuttavia, della Chiesa si è obiettivamente parlato anche prima di questa letteratura a carattere prevalentemente giuridico. Tanto i Padri quanto i teologi medioevali hanno pagine illuminanti sulla Chiesa, che ne fondano la comprensione teologica: il concilio Vaticano II riprenderà con abbondanza dalle loro pagine per sviluppare la visione misterica della Chiesa proposta in particolare dalla Lumen Gentium. Anche per questa ragione, è il caso di ripercorrere tutta la storia della Chiesa, riascoltando le voci sulla Chiesa dalla prima evangelizzazione della penisola alla proclamazione del Regno d’Italia, il 17 marzo 1961.

I padri della Chiesa. L’Italia imperiale ha conosciuto protagonisti di primo piano del pensiero cristiano, che hanno contribuito alla formulazione della dottrina sulla Chiesa. Non si tratta, naturalmente, di trattazioni ecclesiologiche; si può parlare di pagine, in un certo senso di frammenti, che tuttavia hanno una grande importanza sia sul piano teologico, inquadrando la Chiesa nel piano divino della salvezza, sia sul piano pratico, con testimonianza dello sviluppo delle sue istituzioni.

Il centro che più ha espresso figure di rilievo è naturalmente Roma, per essere, come diceva Ignazio di Antiochia, la «Chiesa che presiede nell’amore». Alcuni dei suoi vescovi, successori sulla cattedra di Pietro e Paolo, hanno segnato un progresso sensibile nella dottrina sulla Chiesa. In termini comprensivi si possono ricordare i due nomi che aprono e chiudono il periodo patristico: Clemente romano (†97?) e Gregorio Magno (540-604).

Il primo è autore di una famosa lettera alla comunità di Corinto, nella quale, riecheggiando le lettere di Paolo a quella Chiesa, ammonisce a superare le divisioni e a sottomettersi ai presbiteri che la guidano. Da rimarcare soprattutto l’esordio, in cui Clemente scrive a nome della «Chiesa di Dio che è in Roma alla Chiesa di Dio che è in Corinto». La lettera mostra quindi la sollecitudine di Roma per le altre Chiese, anche se pare eccessivo leggere in questo un’attestazione dell’esercizio del primato. La Chiesa è vista come porzione che Dio ha eletto per sé, un popolo scelto tra le genti, applicando alla Chiesa quanto si dice di Israele come popolo di Dio (cfr 29,1); la Chiesa è ancora vista come il corpo di Cristo, nel quale le membra hanno funzioni diverse (cfr 37). La gerarchia è composta da presbiteri (che sono vigilanti/vescovi) e da diaconi e di istituzione divina (44,1-2). Gregorio Magno fu grande sia nell’azione pastorale che nella riflessione teologica. Lo studio della prima attraverso l’imponente carteggio mostrerebbe non solo uno sviluppo nell’esercizio del primato, con una sollecitudine per tutte le Chiese, ma anche una spinta verso una organizzazione meno frammentata della Chiesa; dal punto di vista della dottrina, si deve ricordare almeno la Regula pastoralis, che ha per oggetto i doveri dei pastori, tra i quali è particolarmente sottolineata la predicazione. In mezzo la lunga lista dei vescovi che si sono succeduti sulla cattedra di Pietro, contribuendo allo sviluppo del primato petrino: su tutti Leone Magno (440-461), da ricordare non solo per la Epistula ad Flavianum sulla dottrina cristologica, ma per la strenua affermazione dei diritti del papa: «Per mezzo di Pietro, beato principe degli Apostoli, la Chiesa romana possiede il principatus sopra tutte le altre Chiese della terra» (Ep 65,2).

Ma la Chiesa di Roma ha espresso anche altri autori significativi, che hanno avuto un ruolo rilevante nelle vicende di quella Chiesa; pur nella difficoltà di attribuzione, va ricordata almeno La Tradizione apostolica, scritto di inizio III secolo che sarebbe espressione della Chiesa di Roma, in cui l’autore espone «l’essenza della tradizione su cui la Chiesa deve basarsi» (§1). Dalle istruzioni a volte minuziose, emerge il quadro di una Chiesa ancora ricca di funzioni (vescovo, presbiteri, diaconi, ma anche lettori, confessori, vedove, vergini, membri della comunità che esercitavano il dono delle guarigioni) attenta al cammino di iniziazione dei catecumeni.

Nella penisola durante il periodo dei Padri hanno agito altre figure di grande rilievo, come Eusebio di Vercelli, Rufino di Concordia, Gaudenzio di Brescia, Zeno di Verona, Massimo di Torino; per quanto non nativi della penisola, si potrebbero rammentare anche Paolino di Nola e Girolamo. Su tutti spicca la figura di Ambrogio, vescovo di Milano (334-397). Della produzione vastissima di questo Padre della Chiesa si possono ricordare, per valore ecclesiologico, la Explanatio in Symboli, ma anche i tre libri del De officiis ministrorum, il De mysteriis e il più ampio De sacramentis in sei libri, da cui emerge il profilo della Chiesa di Milano, con le sue istituzioni e la sua prassi, soprattutto liturgica.

Sul finire dell’epoca patristica vanno ricordati almeno tre autori che costituiscono, a diverso titolo, un vero e proprio ponte verso l’epoca successiva. Anzitutto Benedetto da Norcia (480-547?), padre del monachesimo occidentale: la Regula sancti Benedicti ha avuto un tale influsso sulla vita ecclesiale da doverla indicare tra i testi che più hanno segnato la vita della Chiesa. Gli altri due, Severino Boezio (480-524) e Cassiodoro (490ca.- 583ca.), sono testimoni e protagonisti di quel trapasso dal mondo classico, dopo la rovina dell’Impero romano d’Occidente, a un nuovo ordine che faticosamente stava imponendosi. Il primo è famoso soprattutto per la Philosophiae consolatio,il secondo per la Historia gothica, ma anche per le Institutiones divinarum et saecularium litterarum, manuale per i monaci di Vivarium, monastero da lui fondato nei pressi di Squillace, che divenne modello dei monasteri come centri non solo di fede, ma anche di cultura.

Il Medioevo. Difficile ricostruire un panorama relativo alla penisola durante il Medioevo: il Sacro Romano impero non ha più il suo centro di gravità a Roma, a Ravenna o a Milano, ma ad Aquisgrana. Si possono ricordare in questo periodo Paolino di Aquileia (730-802), Attone di Vercelli (885-961), Raterio di Verona (890-974), nelle cui opere si delinea il tema della decadenza ecclesiastica a causa delle ingerenze del potere laico, ma anche la dura condanna del clero, accusato di simonia. Né si poteva andare oltre questi rudimenti, se si pensa al basso livello di conoscenze di questo periodo.

Una stagione più feconda per l’ecclesiologia è invece la Riforma gregoriana: un movimento che, a partire soprattutto dai monasteri, si diffonde come esigenza di moralizzazione di tutto il corpo ecclesiale. Si possono distinguere due periodi di questa azione riformatrice: prima e dopo l’elezione al soglio pontificio di Ildebrando di Soana con il nome di Gregorio VII (1073-1085). All’interno dell’ampio materiale documentario di questo papa spicca il cosiddetto Dictatus papae, un insieme di 27 sentenze che affermano il primato del vescovo di Roma sulla Chiesa, condannando chi si opponga, sia esso imperatore o vescovo. La durezza di queste affermazioni, che gli avversari di Gregorio bollavano come contrarie alla Tradizione, ha condizionato il giudizio sull’ecclesiologia del periodo, ritenuta di scarso interesse perché declinata sui registri giuridici del diritto.

In realtà, è possibile cogliere all’interno del vasto movimento della riforma gregoriana una linea di pensiero che afferisce proprio all’ecclesiologia, pensata in termini mistici più che giuridici. Due nomi su tutti: Pier Damiani (1007-1072) e Bruno di Segni (1049-1123). Naturalmente, esistono anche altri grandi autori, nativi della penisola, che non hanno trattato però i temi ecclesiologici in termini rilevanti: il caso di Lanfranco di Pavia (1010ca.-1089) e quello ancora più famoso di Anselmo di Aosta (1033/34-1109) dimostrano come non basti il criterio geografico per specificare una teologia: l’unità culturale e religiosa dell’Europa rendeva secondario il luogo di nascita, essendo possibile che un uomo, da Pavia o da Aosta, potesse diventare abate del monastero del Bec, in Normandia, e poi arcivescovo di Canterbury.

Nel primo periodo della riforma, che va dal pontificato di Leone IX (Brunone di Toul: 1049-1054) alla elezione di Gregorio VII al soglio pontificio (1073), la figura di spicco è quella di Pier Damiani. Egli si scaglia contro il clero simoniaco, domandando soprattutto a Enrico III, il christianissumus rex, un intervento di riforma che allontani d’autorità i lupi dalla Chiesa. La sua ecclesiologia è fondata soprattutto sulle immagini bibliche del corpo e della sposa di Cristo. Tale è la sua idea dell’unità, che nel famoso opuscolo Dominus vobiscum, Pier Damiani forza l’immagine paolina del corpo, affermando che la Chiesa è «et in pluribus una et in singulis per mysterium tota» (Lettera 28,1); «la santa Chiesa è al tempo stesso una in tutti e tutta in ognuno [in omnibus una et in singulis tota]; semplice nella pluralità per l’unità della fede, molteplice nei singoli mediante il vincolo della carità e la varietà dei carismi: quia enim ex uno omnes, omnes unum» (Lettera 28,11).

Medesima insistenza alla Chiesa sposa di Cristo si trova in Bruno di Asti, vescovo di Segni, abate di Montecassino, protagonista della Riforma che entra in scena nella disputa con Berengario, nel 1079: uomo di Gregorio VII e poi di Urbano II, egli commenta in chiave ecclesiologica il Cantico dei Cantici identificando la sposa con la Chiesa (cfr PL 164, 1233-1288). Nel suo trattato teologico maggiore, le Sententiae, dei sei libri dedica i primi due alla Chiesa, vista nelle sue figure (Libro I: De figuris Ecclesiae: il paradiso, l’arca di Noè, il tabernacolo dell’Alleanza, il tempio di Salomone, la donna forte, la città santa di Gerusalemme, le basiliche, i vangeli) e nei suoi ornamenti, i gioielli della Sposa (Libro II: De ornamentis Ecclesiae: la fede, la speranza, la carità, le virtù cardinali, l’umiltà, la misericordia, la pace, la pazienza, la castità, l’obbedienza, l’astinenza); anche il libro può essere inteso in una prospettiva ecclesiologica, perché tratta – si direbbe oggi – del Regno di Dio a cui la Chiesa è destinata: il mondo nuovo, i cieli nuovi, le nubi, i monti, i fiumi nuovi (cfr PL 165, 875-974).

Questo trattato dimostra come la Chiesa fosse argomento ben presente agli autori medioevali anche prima della data convenzionale del 1302, quando Jacopo da Viterbo scrive il suo De regimine christiano; e che, peraltro, la trattazione fosse più teologica che giuridica. L’approccio teologico fu mantenuto dai grandi Scolastici, benché il Decretum Gratiani (la famosa Concordantia discordantium canonum) che il grande canonista compose intorno al 1140, fosse uno dei testi più letti e applicati del tempo. Il tema della Chiesa, pur non conoscendo una trattazione specifica, riveste in Tommaso d’Aquino e Bonaventura di Bagnoregio un’importanza decisiva. Del primo basta ricordare la collocazione strategica del tema nella struttura della Summa Theologiae: prima di dedicarsi alla trattazione dei sacramenti, nella tertia pars l’Aquinate conclude la sezione cristologica con la quaestio 8 sulla gratia Christi secundum quod est caput Ecclesiae. Trova qui il suo punto di appoggio l’idea della gratia capitis, che costituisce il criterio fondamentale per spiegare teologicamente la vita della Chiesa e delle sue membra. Né ha particolare valore dire che si tratta di una sola questio: la sua collocazione è di tale importanza che, senza questo passaggio, tutta la tertia pars perderebbe la sua giustificazione teologica. Anche le pagine di Bonaventura sulla Chiesa, per quanto ispirate a cautela per il problema della presenza degli Spirituali nell’ordine francescano, parla della Chiesa come il corpo di Cristo, la convocatio fidelium che lo Spirito santifica, la sancta mater Ecclesia per Spiritum sanctificata (Collationes de septem donis Spiritus Sancti,3,10).

Il basso Medioevo. I riferimenti piuttosto laconici di Tommaso d’Aquino e Bonaventura alla Chiesa potrebbero dipendere in parte anche dall’assenza del tema dai IV libri Sententiarum di Pietro Lombardo (1100 ca.-1160, originario della Lomellina, Magister per antonomasia a Parigi), articolati sulla sequenza: Dio (I), creazione-peccato (II), Incarnazione-redenzione (III). sacramenti e compimento escatologico (IV). Ma la cautela era imposta anche dal diffondersi nella Chiesa delle teorie di Gioacchino da Fiore (1125 ca.-1202). L’abate florense, nelle sue opere – su tutte l’Expositio in Apocalypsim e il Liber figurarum – aveva immaginato la storia divisa in tre età: quella del Padre, corrispondente all’Antico Testamento, alla Legge mosaica e alla sinagoga; quella del Figlio, corrispondente al Nuovo Testamento, al Vangelo e alla Ecclesia affidata a Pietro; quella dello Spirito, attesa come imminente, guidata da Giovanni, che supera e compie le altre due nella Ecclesia spiritualis, ricolma dello Spirito e dei suoi doni.

Quanto questa teologia della storia diventerà corrosiva, lo si vedrà da subito, quando i movimenti spirituali radicalizzeranno la contrapposizione tra Ecclesia spiritualis e Ecclesia carnalis, che alla fine del XIII sec. era identificata tout court con il papato, soprattutto per le vicende che accompagneranno Celestino V (1294) e Bonifacio VIII (1294-1303). La cattività avignonese parve una conferma di questa corruzione della Chiesa gerarchica, in particolare del papato, con Roma paragonata a Babilonia. Il corpo ecclesiale fu attraversato da una frattura insanabile. In Italia la contrapposizione tra Chiesa carnale e spirituale fu alimentata soprattutto dagli Spirituali, i quali, nel nome dell’originario ideale francescano di povertà, portarono al centro della discussione teologica la questione della povertà di Cristo, che doveva tradursi nella necessaria povertà della Chiesa. La loro contestazione riprendeva le teorie gioachimite rilette da Pietro Giovanni Olivi (1248 ca.-1298), sull’imminente venuta dell’Anticristo, identificato con il papa stesso. Da ricordare soprattutto Ubertino da Casale (1259-1328) e Angelo Clareno (? -1337).

Fino a quale profondità della coscienza ecclesiale fosse arrivata la frattura lo si può cogliere nella Divina Commedia di Dante, non solo per i giudizi su Celestino V (1294) e Bonifacio VIII (1294-1303), ma per la sua visione della Chiesa che emerge soprattutto nei tratti femminili di Piccarda, Beatrice, soprattutto di Maria. Peraltro, in quel contesto la realtà ha davvero superato l’immaginazione del poeta, perché nei secoli XIII-XIV trova feconda espressione una «Chiesa al femminile» che, soprattutto nell’Italia centrale, vedrà protagoniste donne di statura eccezionale, illetterate eppure capaci di un pensiero profondo su Dio, sull’uomo, sulla Chiesa a partire dalle loro esperienze mistiche: Margherita da Cortona (1247-1297), Chiara da Montefalco (1268-1308), Angela da Foligno (1248-1309), Caterina da Siena (1347-1380), per ricordare solo le più grandi.

Una situazione del genere ha favorito lo sviluppo dell’ecclesiologia in chiave apologetica, che difende l’istituzione ecclesiastica sia ad intra, contro gli attacchi dei movimenti pauperistici, sia ad extra, contro le insofferenze sempre più evidenti di re e principi contro la teocrazia papale. Il manifesto di questi nuovi orientamenti è il Defensor pacis di Marsilio da Padova (1280-1342) che teorizza una rigida distinzione tra potere civile e spirituale, attribuendo alla Chiesa il solo compito di annunciare il Regno celeste, e attribuendo allo stato il potere di esercitare ogni potere per il bene della società. È in tale contesto che vede la luce tutta una serie di testi ecclesiologici a difesa delle prerogative del papa, prodotti soprattutto in ambiente agostiniano. L’iniziatore è Egidio Romano (1234-1316), il quale nel De ecclesiastica potestate sviluppa l’idea della plenitudo potestatis del papa, tradotta nella logica del regnum Christi, di cui il papa è vicario universale. A lui si possono associare, in una vera e propria scuola, Jacopo da Viterbo (1255-1307 ca.), famoso per il suo De regimine christiano, indicato convenzionalmente come il primo trattato di ecclesiologia, e Agostino Trionfo (1243-1328), autore di una Summa de potestate ecclesiastica, che sviluppa ulteriormente la plenitudo potestatis del papa in chiave di giurisdizione universale, nella linea della bolla Unam sanctam di Bonifacio VIII.

La logica della contrapposizione spiega anche la stagione del conciliarismo, conseguente allo scisma d’Occidente (1378-1417), che aveva gettato la Chiesa in una divisione istituzionale, con il corpo ecclesiale legato a due e poi a tre obbedienze prima della ricomposizione al concilio di Costanza (1413-1418). La rivendicazione dell’autorità suprema attribuita al concilio e non al papa nasce dall’affermazione che la Chiesa è la universitas fidelium, rappresentata nel concilio, che ha anche il potere di condannare e deporre un papa indegno o a fide devius. Tra i tanti che sostennero questa posizione soprattutto in Francia (Pierre d’Ailly e Jean Gerson in particolare) e Germania (su tutti, Nicola di Cusa), si possono ricordare anche autori italiani che contribuirono allo sviluppo delle idee, in particolare Francesco Zabarella (1360-1417) che difese il primato del papa sulla Chiesa e sul concilio.

Dalla Riforma al concilio Vaticano I. La ricomposizione dello scisma d’Occidente non diede soluzione alla drammatica frattura tra Chiesa istituzionale e Chiese spirituale. Le condanne di Hus e Wyclif a Costanza inasprirono il risentimento contro la Chiesa gerarchica ed ebbero come esito di alimentare la disaffezione verso Roma, accusata di essere il centro e la causa della decadenza della Chiesa, soprattutto per tre piaghe del tempo: il nepotismo papale, la vessazione fiscale, la vendita delle indulgenze. La Riforma protestante può essere considerata il punto di non ritorno di questo scontro, che radicalizza l’alternativa tra Chiesa visibile e invisibile, tra Chiesa istituzionale e Chiesa spirituale.

Anche in Italia non mancarono casi di contestazione: il più famoso è senz’altro quello di Savonarola (1462-1498), fustigatore di costumi nella Firenze dei Medici, messo al rogo per ragioni più politiche che dottrinali. Ma l’idea di riforma assunse nella penisola forme più composte, che videro protagonisti movimenti di rinnovamento della vita cristiana – su tutti, quello del Divino Amore – ma anche gli ordini religiosi: sia i grandi ordini – camaldolesi, domenicani, francescani, agostiniani, carmelitani – con le riforme proposte dalle congregazioni dell’Osservanza, sia i nuovi ordini – gesuiti, cappuccini, teatini, barnabiti, somaschi, oratoriani, chierici della Madre di Dio – che svolgeranno un’azione di profondo rinnovamento del corpo ecclesiale. Non si può parlare, però, in questo periodo, di uno sviluppo dell’ecclesiologia, e di autori che offrano contributi significativi. D’altronde, lo stesso concilio di Trento (1545-1563), che affronta molte questioni dogmatiche e disciplinari, preferì non entrare sul terreno della disputa ecclesiologica.

Solo dopo il concilio diventa centrale nella riflessione teologica la questione della «vera Chiesa»: accanto ai grandi studi di storia della Chiesa, condotti soprattutto da Cesare Baronio (1538-1607) e Paolo Sarpi (1552-1623), si sviluppa una linea ecclesiologica che ha in Roberto Bellarmino (1542-1621) il principale teorico. Contro la tesi della Chiesa invisibile della Riforma, secondo cui solo lo Spirito conosce i suoi, il magister controversiarum, difende la natura visibile, istituzionale e gerarchica della “vera” Chiesa di Cristo, identificata con «un ceto di uomini unito dalla professione della medesima fede, dalla comunione degli stessi sacramenti, sotto la guida dei legittimi pastori, in particolare del Romano Pontefice, vicario di Cristo» (De Controversiis III,3).

Nei secoli successivi la teologia non farà altro che ripetere, nel mutare dei contesti socio-culturali, le affermazioni bellarminiane. D’altronde, la controversistica post-tridentina tenderà a strutturarsi secondo schemi consolidati, che insistono sulle medesime argomentazioni, dovunque vengano formulate, se in Francia, in Spagna, in Germania o in Italia. Lo si vede, ad esempio, nel periodo dell’Ancien régime, quando lo stato tende a limitare la giurisdizione della Santa Sede sulla Chiesa francese. La diffusione del gallicanesimo in tutta Europa, con le varianti del febronianesimo, del giuseppinismo, del Kulturkampf, porta alla polarizzazione dell’ecclesiologia sulle prerogative del Sommo Pontefice. Anche in Italia si registrano posizioni a favore del gallicanesimo, come quella di Pietro Tamburini (1737-1827) che contesta l’infallibilità del papa; ma in genere le posizioni sono piuttosto orientate al montanismo, sia nel campo dell’apologetica, ad esempio con Pio Brunone Lanteri (1759-1830), sia nel campo del diritto, ad esempio con Mauro Alberto Cappellari (1765-1846) e il suo Trionfo della Santa Sede e della Chiesa contro gli assalti dei novatori, combattuti e respinti con le loro stesse armi (Venezia 1799).

L’ecclesiologia in genere si attesterà sullo schema della societas perfecta: rispetto alle società civili, la Chiesa è superiore per la sua legge (la Rivelazione), per i beni che comunica ai suoi sudditi (i sacramenti), per la sua forma di governo (la gerarchia, in particolare il papato, istituito da Cristo stesso). Questo schema si può ritrovare nel fondatore della Scuola Romana, Giovanni Perrone (1794-1876), teologo di fiducia di Pio IX, il quale propone nelle sue Praelectione Theologicae, 1835-1842, un’apologetica centrata sulla dimensione istituzionale della Chiesa. Da questa impostazione si distacca profondamente un altro rappresentante della Scuola Romana, Carlo Passaglia (1812-1887), il quale sviluppò in modo originale nel suo De Ecclesia, 1853-1856, le tesi della Scuola di Tubinga, con una proposta ecclesiologica legata all’immagine della Chiesa-corpo di Cristo, con una forte caratterizzazione pneumatologica.

Non sarebbe completo il quadro di una storia dell’ecclesiologia in Italia prima dell’unità se non si menzionasse Antonio Rosmini Serbati (1797-1855), uno dei più grandi ingegni che il pensiero cristiano abbia avuto. Nell’opera Delle cinque piaghe della Chiesa, 1847, che suscitò scalpore e fu messa all’Indice, stigmatizza lo stato in cui versa la Chiesa a causa della divisione del popolo dal clero nel culto pubblico, della insufficiente preparazione del clero, della disunione dei vescovi, della nomina dei vescovi abbandonata al potere laico, della servitù dei beni ecclesiastici. Ma, più in positivo, nelle sue opere di antropologia soprannaturale, egli sviluppa una teologia della grazia fondata sull’azione dello Spirito, principio di unità e santificazione della Chiesa.

Conclusioni. Il lungo excursus che copre quasi due millenni di storia dell’Italia non ha permesso di approfondire le dottrine ecclesiologiche dei tanti autori menzionati. Gli accenni al loro pensiero bastano però a disegnare uno sviluppo interessante delle idee ecclesiologiche, che offrono un criterio interessante anche per l’interpretazione delle vicende storiche che hanno riguardato l’Italia nei due millenni di cristianesimo.

Non si può parlare naturalmente di ecclesiologia italiana: troppo frammentata è stata la storia della penisola per immaginare uno sviluppo unitario delle idee. L’elemento di unità e di continuità sembra dato unicamente dalla presenza sul territorio italiano di Roma, e quindi del papa, con tutto il carico di questioni che ha accompagnato lo sviluppo della sua funzione universale. A ben vedere, questa presenza funziona da freno e stimolo insieme per un’ecclesiologia che ha dovuto misurarsi via via con gli sviluppi di una funzione che giunge alla più solenne affermazione di sé in coincidenza con la formazione dello stato unitario e la proclamazione di Roma come capitale del Regno d’Italia.

La galleria degli autori che hanno impresso una spinta significativa alla riflessione ecclesiologica è di tutto rispetto: l’antichità soprattutto con Ambrogio e Gregorio Magno; il Medioevo con Per Damiani e Bruno di Segni, con Tommaso e Bonaventura, e poi l’inizio dei trattati di ecclesiologia, con la scuola agostiniana, ma anche le visioni di Gioacchino da Fiore e le provocazioni degli Spirituali; dopo il concilio di Trento, l’ecclesiologia di Roberto Bellarmino e poi quella della Scuola romana, ma anche la visione ecclesiologica di Rosmini. Si tratta di autori che hanno affondato le loro radici nel vissuto di una Chiesa viva, per quanto attraversata da situazioni drammatiche, spesso causate o aggravate da chi in verità doveva risolverle. Soprattutto fino al Medioevo, quando l’ecclesiologia era espressione di un vissuto e non giustificazione teorica dell’istituzione e delle sue strutture gerarchiche, si coglie una circolarità profonda tra esperienza e interpretazione, in cui le vicende storiche certamente orientano a una determinata comprensione della Chiesa, ma questa, a sua volta, orienta le scelte concrete della Chiesa nella storia. In tale ottica, il quadro dell’ecclesiologia in Italia dalle origini del cristianesimo fino alla formazione dello stato unitario costituisce un contributo non marginale alla comprensione della storia della Chiesa in Italia ma anche dell’Italia stessa.

Fonti e Bibl. essenziale

Non è possibile presentare un repertorio bibliografico per ogni autore. Per una ricostruzione degli sviluppi dell’ecclesiologia in Italia, è il caso di consultare dizionari oppure opere di storia della teologia. Accanto al Dizionario biografico degli Italiani, o alla Enciclopedia biografica universale, si possono consultare utilmente strumenti come Lexicon. Dizionario dei teologi, Casale M. (Al) 1998, o opere di storia della teologia come A. Di Berardino-B. Studer (dirr.), Storia della teologia, I, Casale M. (Al) 1993; G. D’Onofrio (dir.), Storia della teologia nel Medievo, I-III, Casale M. (Al) 1996; G. D’Onofrio (dir.), Storia della teologia, III, Casale M. (Al) 1995. La miglior opera sull’evoluzione storica delle idee ecclesiologiche rimane A. Antón, El misterio de la Iglesia. Evolución historica de las ideas eclesiológicas, I-II, 1986-1987.


LEMMARIO




Ecumenismo - vol. I


Autore: Stefano Cavallotto

L’ecumenismo si è precisato soprattutto a partire del XX secolo come movimento plurale di riavvicinamento tra le chiese cristiane, divise lungo la storia bimillenaria, per ristabilire quell’unità che il Signore ha voluto per i suoi discepoli e per la quale ha pregato. La preistoria del movimento ecumenico ha radici profonde. Per limitarci al secondo millennio basti ricordare i concili di Lione (1274) e di Basilea-Ferrara-Firenze-Roma (1431- 1445) impegnati, ma invano, a sanare la frattura dell’XI secolo fra Chiesa ortodossa e Chiesa romana e i tentativi della prima metà del XVI secolo, andati a vuoto, per ricucire lo strappo provocato nell’Europa occidentale dal radicarsi della Riforma protestante. Nonostante l’acuirsi dei conflitti confessionali e delle guerre di religione nei secoli XVII-XVIII l’esigenza ecumenica ha trovato sempre nelle varie chiese fautori e pionieri convinti, ancorché inascoltati e minoritari, capaci di tracciare percorsi di un possibile dialogo e mantenere vivo nella compagine cristiana, nonostante tutto, un forte anelito verso l’unità. Ma è con il XIX secolo che consistenti movimenti di riavvicinamento muovono i primi passi innanzitutto in area protestante. A metà dell’800 si costituiscono l’Alleanza Evangelica (Londra 1846) e l’Associazione Cristiana dei Giovani e delle Giovani (Inghilterra 1844 e 1854): la prima, benché circoscritta alle comunità protestanti ed espressione di individui più che di chiese, è una palestra di confronto e preghiera a partire da una confessione di fede comune; anche la seconda pone l’accento su una basilare e condivisa fede in Cristo, invitando i membri delle varie confessioni (episcopaliani, metodisti, battisti, congregazionalisti, ecc.) ad unirsi nello sforzo dell’evangelizzazione del mondo.

Fonti e Bibl. essenziale

R. Rouse – S. C. Neill (edd.), A History of the Ecumenical Movement, London 1967 [ed. it.: Storia del movimento ecumenico dal 1517 al 1948, vol. I: Dalla Riforma agli inizi dell’Ottocento, Bologna 1973; vol. II: Dagli inizi dell’Ottocento alla conferenza di Edimburgo, Bologna 1973; vol. III: Dalla Conferenza di Edimburgo (1910) all’Assemblea Ecumenica di Amsterdam (1948), Bologna 1982; vol. IV (ed. H. E. Fey): L’avanzata ecumenica (1948-1968), Bologna 1982]; G. Cereti, L’ecumenismo cristiano, in G. Filoramo – D. Menozzi (a cura di), Storia del Cristianesimo, vol. IV: L’età contemporanea, Laterza, Roma 1997, 353-396 (con bibl.); P. Ricca, Il movimento ecumenico, in G. Filoramo (a cura di), Cristianesimo, Laterza, Roma 1995, 563-561 (con bibl.); W. A. Visser’t Hooft, The Genesis and formation of the World Council of Churches, Geneva 1982. R. Burigana, Una straordinaria avventura – Storia del movimento ecumenico in Italia (1910-2010), Bologna 2013; L’ortodossia in Italia: le sfide di un incontro, a cura di Gino Battaglia, Bologna 2011; F.T. Rossi, Manuale di ecumenismo, Brescia 2012.


LEMMARIO




Editoria - vol. I


Autore: Fulvio De Giorgi

Dopo l’apostolato per la buona stampa, di impronta controrivoluzionaria, dovuto al movimento delle Amicizie nell’Italia settentrionale di primo Ottocento, tra la fine degli anni ’30 e la prima metà degli anni ’40 del secolo nasceva l’editoria cattolica in senso contemporaneo, in relazione al rinnovamento della cultura teologica e civile di orientamento cattolico. Tipico era il caso di Milano, in cui significative imprese tipografiche furono quelle di Giuditta Pogliani, Francesco Pirotta, Chiusi e Valentini, in cui sempre più si manifestava l’influenza di Rosmini. Notevole era pure l’attenzione di tipo ‘educativo’: nel 1835 la “Società fiorentina dell’istruzione elementare” premiava il Giannetto di Luigi Alessandro Parravicini, libro di lettura per l’infanzia destinato a una grande fortuna, per tutto il corso del XIX secolo (e oltre); nel 1836 Cesare Cantù avviava le sue pubblicazioni di carattere popolare e di grande diffusione, tra le quali, nel 1838, il romanzo Margherita Pusterla.

Il 1848 ebbe un rilievo decisivo nell’evoluzione della stampa cattolica. Nel Regno di Sardegna vi fu il Regio Editto di Carlo Alberto sulla stampa del 26 marzo 1848, n. 695 (poi integrato dalle leggi 26 febbraio 1852 e 30 giugno 1858) che sanciva la libertà di “manifestazione del pensiero per mezzo della stampa” (art. 1), abolendo la censura preventiva: ciò diede spazio ad un protagonismo nuovo dei protestanti italiani, che a sua volta, come si vedrà, fu un potente stimolo ad una maggiore e rinnovata presenza dei cattolici.

Negli anni successivi al 1849, ancora fedeli ad un certo cattolicesimo liberale e conciliatorista e, insieme, molto attenti alle necessità di una scrittura per il popolo furono Niccolò Tommaseo, Cesare Cantù, Pietro Thouar. Peraltro, dal lato del cattolicesimo più intransigente, si ebbe nel 1850 la nascita della rivista gesuitica “La Civiltà Cattolica” e dell’omonima editrice.

Tuttavia, sul piano più generale, l’editoria cattolica era ancora localmente molto dispersa. Essa inoltre dipendeva o dall’azione di qualche ecclesiastico o religioso che, con il suo zelo, il suo impegno e naturalmente le sue vedute, promuoveva pubblicazioni o dall’attività di lavoro di stampatori e tipografi vicini al mondo cattolico. Ciò portava, anche, alla nascita di Collezioni, cioè di pubblicazioni in serie (o, almeno, avviate come tali): questo dava l’idea di uno sviluppo che cercava, se non di superare, di affiancare alle tante pubblicazioni episodiche, un qualche embrione di progetto editoriale. A Napoli, dal 1850 al 1856, si pubblicava la serie “Tesoro cattolico”. Nel 1854 lo Stabilimento Ligustico pubblicava “Associazione cattolica di Genova”. A Milano si aveva, tra il 1856 e il 1860, la “Biblioteca cattolica popolare”, dello stampatore Carlo Turati.

Vi erano poi, abbastanza spesso, casi in cui la stessa Collezione passava da uno stampatore ad un altro (segno o di una mente progettuale che cercava le tipografie più consone o di un ‘marchio’ che poteva essere commercialmente utile rilevare e mantenere). È appena il caso di osservare che l’iniziativa più importante e fortunata (e che costituì a lungo un modello di ispirazione e di imitazione per altri) fu quella delle “Letture cattoliche”, avviate a Torino da Don Giovanni Bosco. Nelle sue Memorie dell’Oratorio, il prete piemontese avrebbe collegato l’avvio dell’iniziativa alla libertà di stampa, frutto del 1848, all’emancipazione degli ebrei e al fervore propagandistico dei protestanti in Piemonte (i quali avviarono la pubblicazione di alcuni periodici), nuove realtà che richiedevano una rinnovata presenza cattolica nell’ambito della stampa popolare. Progressivamente si sarebbero distinti tre generi prevalenti di pubblicazioni: le letture amene, le istruzioni morali, le storie a sfondo religioso cattolico. Inizialmente le tirature delle “Letture cattoliche” furono di tremila copie, ma l’immediato successo portò presto ad aumentare la tiratura a diecimila: nei primi otto anni si stamparono circa due milioni di fascicoli. Naturalmente l’attività di Don Bosco prima e della Congregazione Salesiana, da lui fondata, poi fu molto ampia e articolata, nell’ambito dell’editoria cattolica e della diffusione della “buona stampa”.

Fonti e Bibl. essenziale

F. De Giorgi, L’attività editoriale cattolica e l’opera degli Artigianelli Pavoniani tra Otto e Novecento, in E. Bandolini (a cura di), L’eredità del beato Ludovico Pavoni. Storia e sviluppo della sua fondazione nel periodo 1849-1949, Milano, Pavoniani, 2009, 227-277; A. Gigli Marchetti – L. Finocchi, Editori e piccoli lettori tra Otto e Novecento, Milano, Angeli, 2004; F. Traniello, L’editoria cattolica tra libri e riviste, in G. Turi (a cura di), Storia dell’editoria nell’Italia contemporanea, Firenze, Giunti, 1997, 299-319; A. Zambarbieri (a cura di), Storia dell’editoria cattolica in Italia, Brescia, Morcelliana, 20122.


LEMMARIO




Educazione - vol. I


Autore: Rachele Lanfranchi

Educazione come fatto umano e categoria della vita. L’educazione è un fatto tipicamente umano perché con essa l’adulto aiuta il fanciullo ad apprendere gradualmente il mestiere d’uomo, a divenire ciò che è: persona umana, che si possiede per mezzo dell’intelligenza e della volontà. Inoltre la società propone alla nuova generazione i valori e le tecniche che caratterizzano la sua cultura. Si può allora dire che «l’educazione è categoria della vita; ma altrettanto fondatamente si può dire che la vita è categoria dell’educazione» (G. Flores D’Arcais, Orizzonti della pedagogia, Pisa, Giardini 1989, 91).

La maggior parte delle persone considera l’educazione cosa facile, mentre è un’arte difficile, un’attività complessae articolata perché rivolta alla totalità dell’essere umano, che è sempre persona concreta, situata in un luogo, un tempo, un contesto, in una storia familiare, sociale, culturale, politica, entro istituzioni più o meno stabili, entro il fluire di eventi, capace d’interrogarsi, di pensare, di decidersi per ciò che la struttura come persona umana.

L’educazione nei primi secoli del cristianesimo. La nascita di Gesù è un evento importante della storia. Egli, con la vita e le parole, annuncia la piena verità sull’uomo e sul cosmo, rivela il vero volto di Dio. Ciò fa supporre che i primi cristiani aprano scuole per assicurare alle nuove generazioni una cultura impregnata dei valoriportati da Cristo. Nulla di tutto ciò.

Fino al iv sec. d. C. i figli dei cristiani frequentano regolarmente la scuola classica come l’istituzione più idonea per apprendere a leggere, scrivere, far di conto, commentare gli autori classici. Si accetta la scuola classica perché fornisce gli strumenti per la formazione culturale, ma non se ne accettano i contenuti.

L’educazione è assicurata dalla famiglia e dalla comunità ecclesiale, luoghi privilegiati per trasmettere non solo il messaggio evangelico, ma una mentalità, un modo d’essere e di agire così da testimoniare con la vita il Cristo. Perciò l’esempio dei genitori e la partecipazione alle assemblee liturgiche costituiscono per i fanciulli cristiani il metodo più appropriato per far esperienza dei contenuti e dei valori del cristianesimo. Il catecumenato, che prende forma definitiva a Roma verso il 180, èl’istituzione espressamente educativa per preparare quanti aspirano a far parte della Chiesa.

L’impegno educativo è costante nell’azione della Chiesa, perché si tratta di far maturare nel cristiano la piena consapevolezza del dono ricevuto con il battesimo e degli impegni che esso comporta. Tutti i Padri della Chiesas’interessano di educazione anche se non in maniera esplicita e diretta. Girolamo ed Agostino con la loro attività di scrittori, educatori e pastori d’anime, mostrano la validità di una formazione culturale fondata sull’istruzione classica come strumento idoneo per la comprensione e spiegazione dei testi sacri e per l’impostazione di un sapere cristiano.

San Girolamo (347-419) è noto per la traduzione della Bibbia, la Vulgata, per la “scuola di alti studi biblici” inaugurata a Roma presso le comunità delle matrone Marcella e Paola. Si ignora, per lo più, la sua sensibilità nei confronti della donna e alcune significative lettere per l’educazione cristiana delle fanciulle: Lettera a Leta e Lettera a Pacatula. In esse Girolamo, oltre ad indicare come educare una fanciulla cristiana, coglie le esigenze psicologiche dell’infanzia e della fanciullezza ed esorta a lasciar giocare la bambina, a non tediarla con uno studio prolungato, a darle qualche dolce, lodarla e mostrarle affetto quando impara le prime parole, a creare intorno alla bambina un ambiente sereno e sano.

Sant’Agostino (354-430) le cui vicende sono mirabilmente scritte ne Le confessioni, svolge un’intensa attività di pastore e scrittore. Le sue opere pedagogiche più note sono il De Magistro (Il Maestro) e De catechizandis rudibus (La catechesi dei principianti). Nel De Magistro pone uno dei problemi centrali della pedagogia: il rapporto del discepolo conil maestrodal quale nasce la domanda se debba considerarsi maestro colui che ammaestra attraverso il linguaggio o colui che ammaestra interiormente attraverso la verità. La soluzione del problema è data dalla priorità del Maestro interiore. Il ruolo del maestro umano consiste nel purificare l’intelligenza del discepolo da tutto ciò che gl’impedisce di camminare verso il possesso del vero e della beatitudine, nell’insegnargli il metodo per cercare la verità. Nel De catechizandis rudibus Agostino risponde alle domande postegli dal diacono Deograzia incaricato d’insegnare ai catecumeni. L’operetta ha valore pedagogico perché con essa s’inizia la riflessione metodologica sull’atto dell’insegnare e sul processo di apprendimento in generale. Nell’educazione alla fede protagonista non è il maestro bensì il catechizzando visto nella totalità del suo essere, con le sue istanze psicologiche, gli influssi ambientali, sociali, culturali. L’amore diviene legge fondamentale di ogni rapporto educativo. San Girolamo e Sant’Agostino con la loro vita e i loro scritti esercitano un grande influsso sugli uomini del loro tempo e nella formazione dell’Europa cristiana.

Gli ideali educativi del Medioevo. Il Medioevo non elabora significative dottrine pedagogiche, mapropone vari ideali educativi, che rispecchiano la tensione di singoli e comunità per incarnare i valori cristiani nei vari stati di vita.

– L’ideale monastico nasce e si sviluppa nel periodo delle invasioni barbariche e dell’assorbimento dei nuovi popoli nell’ambito della cultura e civiltà romano-cristiana. L’ideale del monaco è l’imitazione di Cristo attraverso la preghiera, lettura della Bibbia, costante controllo di sé. In ogni monastero c’è una scuola per la formazione dei futuri monaci il cui scopo principale è la formazione morale e del carattere. L’apprendimento della lettura e scrittura è obbligatorio per tutti perché i monaci devono pregare con i Salmi, leggere la Bibbia, trascrivere manoscritti e codici. Quest’obbligo vale anche per i monasteri femminili. La disciplina monastica è sensibile alle esigenze dei fanciulli e nella Regola di san Benedetto si trovano molti richiami, che esortano il monaco adulto ad avere un atteggiamento benevolo e comprensivo nei confronti dei giovani.

– L’ideale religioso nasce agli inizi del xiii sec. come risposta alle istanze dei nuovi tempi, alle mutate esigenze religiose ed è realizzato da Francescani e Domenicani. L’ideale educativo religioso è l’imitazione di Cristo come per l’ideale monastico, ma cambiano le modalità di attuarlo. Francescani e Domenicani aspirano a vivere il Vangelo e a predicarlo: con l’esempio, l’umiltà, la letizia i primi; con la parola, lo studio, l’insegnamento i secondi.

– L’ideale scolastico, che pervade tutto il Medioevo per l’esistenza di scuole monastiche, episcopali, abbaziali, parrocchiali, ha il suo apogeo nel xiii sec. quando sorgono e si affermano le Università. Il sapere è visto come perfezione dell’uomo, per cui la cultura costituisce un ideale di vita, un mezzo per avvicinarsi a Dio. Si può quindi fare del sapere una professione divenendo Magister.

– L’ideale cavalleresco nasce nell’xi secolo e culmina al tempo delle Crociate. L’educazione del futuro cavaliere richiede parecchi anni non solo per l’addestramento nella pratica del combattere a cavallo, ma più ancora per acquisire quell’insieme di virtù che lo devono contraddistinguere: moderazione e dominio di sé; senso dell’onore e del dovere; fedeltà alla parola data e veracità; amore verso Dio; difesa della Chiesa e dei più deboli; amore rispettoso della dama; coraggio e misericordia; cortesia in tutto ciò che fa e dice.

– L’ideale mercantile si afferma nei secoli xiii-xv, quando la borghesia va acquisendo potere non solo nel campo economico e sociale, ma anche politico. Il mercante è descritto come persona amante del lavoro, operoso, tenace.Le scuole, nelle quali i figli dei mercanti imparano dapprima a leggere, scrivere e far di conto, danno importanza alle scienze applicate. Il mercante ha una sua cultura, diversa da quella dell’ecclesiastico e dell’uomo di lettere, ma non c’è contrapposizione tra cultura umanistica e scientifica: esse convivono e preannunciano il clima culturale dell’Umanesimo e del Rinascimento.

L’educazione nell’Umanesimo-Rinascimento. L’Umanesimo e il Rinascimento sono due aspetti di un complesso fenomeno culturale iniziato in Italia nella seconda metà del Trecento e durato fino a tutto il Cinquecento. I suoi tratti più rilevanti – centralità dell’uomo, scoperta dei classici, rinascita delle lettere, interesse per la natura – influenzano le esperienze educative, specie la scuola. Tra l’istruzione elementare e le università si fa strada un tipo di istituzione scolastica il cui programma di studi umanistici è all’origine del moderno insegnamento secondario classico. Rinomate sono la scuola di Guarino Guarini e la “Ca’ giocosa” di Vittorino da Feltre. La fondazione di scuole e l’elaborazione di precisi piani di studio si coniugano con puntuali riflessioni sopra diversi temi e questioni pedagogiche: educazione del principe (Vergerio, Filelfo, Piccolomini), della donna (Bruni, Alberti), dei figli (Vegio), del cortigiano (Castiglione).

L’educazione è caratterizzata dalla centralità dell’educando, considerato nella sua unicità e in tutti i suoi aspetti; dal rifiuto dei castighi corporali; dalla gradualità. L’ideale cui si mira è la persona matura dal punto di vista umano e cristiano.

Il Concilio di Trento e la pedagogia della Riforma cattolica. Le nuove Congregazioni religiose e la loro azione educativa.

Il discorso antropologico sviluppato dal Concilio per giustificare e difendere la libertà della persona umana, offre i fondamenti per il discorso pedagogico, che promuove la formazione dell’uomo cristiano in tutte le età, dall’infanzia all’età adulta, e in qualsiasi stato di vita. Si hanno così trattati pedagogici per la formazione umano-cristiana del figlio, dello studente, dell’universitario, del principe, del cittadino, del soldato, del lavoratore, del coniuge. Tutta la pedagogia della Riforma cattolica è pervasa dal concetto di prevenzione e di protezione nei confronti dell’educando. In essa assume importanza la formazione di buone abitudini e il rispetto per l’autorità. Il trattato pedagogico più completo e significativo di questo periodo è Dell’educazione cristiana de’ figlioli (1584), scritto da Silvio Antoniano su richiesta di san Carlo Borromeo.

Sant’Angela Merici (1474-1540) a Brescia fonda la Congregazione delle Orsoline, con lo scopo di educare e aiutare le ragazze attraverso un rapporto basato sulla fiducia, l’amicizia, con visite alle loro case e l’apertura di scuole-collegi. È convinta che la riforma della Chiesa inizia con la riforma della famiglia la cui moralità è allora alquanto precaria. È quindi urgenteche la giovane donna venga preparata al matrimonio e venga elevato il suo grado di cultura. Ben presto le Orsoline si orientano verso la scuola-collegio, come l’istituzione educativa che offre maggior continuità e sicurezza nell’educazione. Le scuole sono gratuite per le ragazze povere, a pagamento per quelle benestanti.

Santa Rosa Venerini (1656-1728) concepisce e realizza per prima il progetto di aprire scuole pubbliche per ragazze del popolo in Italia; si impegna con coraggio a favore dell’elevazione spirituale e dell’autentica emancipazione delle giovani donne del suo tempo.

Più numerose sono le Congregazioni religiose maschili, che si dedicano all’educazione dei ragazzi. Tra esse quella dei Somaschi, fondata nel 1534 da san Girolamo Emiliani (1486-1537), si occupa dei ragazzi orfani, poveri e abbandonati allora numerosi per le continue lotte a cui era sottoposta l’Italia. Aprono i primi orfanatrofi con lo scopo di dare una un’educazione integrale ai giovani che accolgono attraversola formazione intellettuale, professionale, religiosa. In seguito i Somaschi accettano la direzione di scuole per ceti superiori.

La Congregazione dei Barnabiti, fondata a Milano nel 1530 dal cremonese sant’Antonio Maria Zaccaria (1502-1539), ha lo scopo principale di riformare il clero e il popolo attraverso la predicazione, la direzione spirituale, l’assistenza ai malati. Solo più tardi essi accettano di aprire scuole per ragazzi: un’attività che diventerà per loro primaria nel xviii sec. in seguito alla soppressione dei Gesuiti.

Sempre a Milano è intensa l’attività del cardinal Carlo Borromeo (1538-1584), che crea e diffonde le Scuole domenicali della Dottrina cristiana. Fonda scuole gratuite, apre convitti per studenti universitari e per ragazze in pericolo.Decisivo è il suo influsso per la conclusione e l’applicazione del Concilio di Trento. Dà un notevole contributo nella redazione del Catechismo romano.

A Roma, in favore dell’educazione popolare e in particolare deigiovani, opera san Filippo Neri (1515-1595), che fonda la Congregazione dei Preti dell’Oratorio. Sua caratteristica è il tatto pedagogico con cui accosta i ragazzi e accetta il loro modo d’essere per portarli a un’autentica maturità umana e cristiana. Più tardi, sempre a Roma, san Giuseppe Calasanzio (1556-1648) fonda gli Scolopi (i religiosi delle Scuole Pie). Egli, prete spagnolo venuto a Roma, rimane colpito dalle condizioni in cui vivono i ragazzi di Trastevere. Per essi istituisce una scuola elementare, popolare, graduale, gratuita. Ricorda ai maestri la loro responsabilità nella formazione degli alunni; l’efficacia dell’esempio; l’importanza di trattare tutti con benevolenza e senza parzialità.

La congregazione religiosa che più di altre esercita un ruolo importante nel campo educativo e culturale è la Compagnia di Gesù, che sant’Ignazio di Loyola (1491-1556) fonda nel 1540. Per la formazione dei giovani apre collegi, che hanno un’espansione rapida in tutta Europa. Il primo di essi, che fa da modello a tutti gli altri, è quello di Messina (1548), seguito da quello romano (1550). La diffusione rapida e su vasta scala dei collegi fa sorgere l’esigenza di organizzarli adeguatamente, di avere un orientamento unitario, perché sia mantenuto l’obiettivo dell’educazione più volte ripetuto da sant’Ignazio: «virtù e lettere» e perché sia rispettato il principio di flessibilità e di realismo che tien conto della «diversità dei paesi e dei tempi», delle «circostanze di luoghi e di persone». Inizia così l’elaborazione della Ratio studiorum, nella quale confluiscono i raffronti con i regolamenti delle maggiori università d’Europa, specie quella di Parigi, l’esperienza dei più noti collegi, la conoscenza dei trattati pedagogici dell’Umanesimo, degli scritti del Vives, di Erasmo da Rotterdam, nonché i suggerimenti didattici di Quintiliano. Le linee direttrici della Ratios’incentrano sull’ordine e sul metodo, che diventeranno le note caratterizzanti la pedagogia del Seicento.La Ratio studiorum rimane per molto tempo un punto di riferimento per istituzioni educative religiose e laiche.

Le Congregazioni religiose – sia quelle nate in Italia come altre nate all’estero e ivi chiamate da uomini di Chiesa e non – costituiranno l’asse portante dell’educazione per tutto il Seicento e il Settecento contrastando, in particolare, la mentalità illuminista, che riduceva l’educazione a puro problema politico, sociale ed economico, facendo dello Stato il detentore assoluto di essa ignorando la capacità educativa della famiglia e della Chiesa.

L’educazione nel periodo risorgimentale. Il Risorgimento è un periodo storico complesso, dove s’intrecciano molteplici fattori che portano l’Italia, divisa e sottoposta a potenze straniere, all’unità e indipendenza nazionale.

Tra i molti problemi presenti nella prima metà dell’Ottocento quello dell’istruzione ed educazione popolare acquista sempre maggiore importanza, quasi chiave di volta per approdare all’unità e indipendenza. L’educazione del popolo diventa, perciò, il punto di convergenza delle istituzioni educative, delle riflessioni di pedagogisti e dell’attività di educatori.

Vincenzo Cuoco (1770-1823)è il pedagogista politico del primo destarsi della coscienza nazionale; Giuseppe Mazzini (1805-1872) l’araldo dell’educazione nazionale per un’Italia unita, indipendente, repubblicana; Aporti (1791-1858),svolge un’azione in favore dell’educazione popolare, particolarmente dell’infanzia, con uno spiccata sensibilità preventiva; Gino Capponi (1792-1876) è l’uomo colto, sostenitore di ogni iniziativa pedagogica a favore del popolo, strenuo difensore della forza degli affetti nel processo educativo contro la sterile “arte” di educatori pedanti; Raffaello Lambruschini (1788-1873) è il pedagogista e educatore che più di ogni altro intesse rapporti epistolari e personali con quanti hanno a cuore il problema dell’educazione popolare e studia come armonizzare autorità e libertà nell’azione educativa. Antonio Rosmini-Serbati (1797-1855) affronta il problema dell’unità dell’educazione e del metodo didattico su basi filosofiche perché la sua indagine sul sapere implica sia l’aspetto filosofico che pedagogico. Anzi, si può dire che in Rosmini la filosofia ha valenza pedagogica e la pedagogia si iscrive nella filosofia. Giovanni A. Rayneri (1810-1867) accoglie le istanze più valide della pedagogia del Risorgimento e contribuisce attivamente alla loro diffusione. Don Giovanni Bosco (1815-1888), uomo d’azione, creatore di numerose opere per i giovani dei ceti popolari, è convinto assertore del sistema preventivo e dei metodi educativi ispirati all’“amorevolezza” e al clima di famiglia.

Il xix secolo, dal suo inizio fino alla proclamazione dell’unità nazionale, manifesta un intenso interesse per il problema educativo. Tale interesse, anche da parte del potere politico, si radica nel clima romantico e, in particolare, nella conoscenza dei maggiori rappresentanti della pedagogia d’oltralpe, specie francese e svizzera: Rousseau, Pestalozzi, Girard, Necker de Saussure, Fröbel e di realizzazioni scolastiche (scuola di mutuo insegnamento, infant school).

Le esperienze scolastiche ed educativemesse in atto da personeo associazioni private sono accompagnate, nella prima metà del xix secolo, dagli interventi statali e particolarmente dalle iniziative ecclesiastiche.

Gli ordinamenti legali mirano a mettere ordine nell’ambito delle istituzioni scolastiche. Nel Regno Sardo le due prime leggi organiche dell’istruzione sono quella del 1848 (legge Boncompagni) e quella del 1859 (legge Casati); quest’ultima, estesa alle altre regioni italiane dopo l’unità nazionale, resta sostanzialmente in vigore fino alla Riforma Gentile del 1923.

Dopo i tumultuosi anni della Rivoluzione francese e l’avventura napoleonica, la Chiesa si fa più attivamente presente nell’ambito dell’educazione e della scuola. I principali protagonisti di questo impegno sono gli istituti religiosi dediti all’insegnamento e all’educazione. Nei primi decenni del xix secolo sono ripristinati quelli soppressi dalla Rivoluzione e sorgono nuove congregazioni insegnanti. «Complessivamente, sono oltre 140 gli istituti maschili e femminili sorti tra il 1800 e il 1860. La maggior parte (oltre 120) erano femminili e circa 2/3 di essi erano legati con il problema dell’educazione» (G. Rocca, Aspetti istituzionali e linee operative nell’attività dei nuovi istituti religiosi, in L. Pazzaglia (a cura di), Chiesa e prospettive educative 1994,173). Basti ricordare, fra i molti, i fratelli Cavanis: Antonio Angelo (1772-1858), Marcantonio (1774-1853) e la Congregazione delle scuole di Carità, Lodovico Pavoni (1784-1849)e i Figli dell’Immacolata, Nicola Mazza (1790-1865) con due Congregazioni (maschile e femminile), Rosmini con l’Istituto della Carità e le Suore della Provvidenza, don Bosco e la Società di S. Francesco di Sales, Maddalena di Canossa (1774-1835) e l’Istituto delle Figlie della Carità, Teresa Verzeri (1801-1852) e le Figlie del Sacro Cuore di Gesù, Caterina Gerosa (1784-1847), Bartolomea Capitanio (1807-1833) e le Suore di Maria Bambina. Inoltre: le Figlie di Gesù di Verona (1812), le Orsoline di Maria Immacolata (Orsoline di Gandino, 1818), Suore di S. Anna (1834), Marcelline (1838), Maestre Pie dell’Addolorata (1839), Maestre di S. Dorotea (1840), Dorotee di Cemmo (1842).

Pur con lentezze e ambiguità lo Stato comincia a occuparsi anche delle scuole di arti e mestieri e della formazione tecnica e professionale. Ma, ancora una volta, bisogna mettere in risalto l’opera dei privati (il marchese Ridolfi) e dei fondatori di istituti religiosi (don Bosco, il teol. Murialdo).

Gli Istituti Religiosi, come si è detto, hanno dato un apporto fondamentale all’educazione, specie quella popolare. Anche se la loro opera è ispirata essenzialmente da motivazioni di carità e non da esigenze di giustizia sociale, con de Giorgi si può dire che essi «si posero in modo dialetticamente creativo di fronte ai processi di modernizzazione, almeno da quattro punti di vista: svilupparono un’acuta sensibilità spirituale, pastorale e caritativa verso le nuove povertà, i nuovi bisogni, le nuove piaghe sociali prodotte dalla rivoluzione industriale, dall’urbanesimo, dalle trasformazioni sociali ed economiche; pur con una cultura talvolta diffidente se – non ostile verso la “modernità” –, istituirono opere, specialmente nei campi educativo e socio-sanitario, che si ponevano in maniera nuova e più adeguata rispetto al contesto sociale, innovando metodi, strumenti, modalità operative; furono comunque costretti, a causa della vita di tali loro opere nel quadro legislativo e normativo moderno, ad acquisire una conoscenza specifica e puntuale – non fosse altro per motivi di contenzioso giudiziario o, al contrario, per evitarlo in via preventiva – dei meccanismi istituzionali statali e degli ingranaggi amministrativi e burocratici; diedero un contributo reale, specialmente in alcuni settori o in alcune particolari aree geografiche, alla modernizzazione della società italiana» (De Giorgi, L’immagine dei religiosi nella storiografia italiana contemporanea, in Annali di Scienze Religiose 7 [2002] 339).

Fonti e Bibl. essenziale

H.I. Marrou, Storia dell’educazione nell’antichità, tr. it. U. Massi, Studium, Roma 2008. Capitolo IX: Il cristianesimo e l’educazione classica e X: L’apparizione delle scuole cristiane di tipo medievale; V. Milazzo, Educare una vergine. Precetti e modelli in Ambrogio e Girolamo, Tip. Universitaria, Catania 2002; J.A. Galindo Rodrigo, Pedagogía de San Augustín, Augustinus, Madrid 2002; L’Enfance, l’École, l’Église en Occident Ve-XVe siècles, in Histoire de l’Éducation (1991) n. 50, 5-117; C. Xodo Cegolon, Cultura e pedagogia nel monachesimo alto medioevale. «Divinae vacare lectioni», La Scuola, Brescia 1980; C. Xodo Cegolon, Educazione cavalleresca, in Enciclopedia pedagogica diretta da M. Laeng, vol. ii Brescia, La Scuola 1989; L. Pellegrini, L’incontro tra due «invenzioni» medievali: università e ordini mendicanti, Liguori, Napoli 2003; A. Galino, La educación de artesanos, in B. Delgado (ed.), Historia de la educación, vol. i, 1992, 516-525; G. Belloni-R. Drusi (Edd.), Il Rinascimento italiano e l’Europa. 2. Umanesimo ed educazione, Colla, Vicenza 2007; G. Zago, Vittorino da Feltre e la rinascita dell’educazione, Pensa Multimedia, Lecce 2008. Per le Congregazioni insegnanti femminili e maschili vedere Dizionario degli Istituti di Perfezione, (a cura di G. Pelliccia- G. Rocca), 10 voll., San Paolo, Roma 1974-2004; L. Pazzaglia (a cura di), Chiesa e prospettive educative in Italia tra Restaurazione e Unificazione. La Scuola, Brescia 1994.


LEMMARIO




Emigrazione, Immigrazione - vol. I


Autore: Matteo Sanfilippo

L’emigrazione italiana ha dimensioni di tutto rispetto già nel Basso medioevo. Sin dal Tre-Quattrocento sono infatti usuali: 1) le migrazioni agricole, stagionali e a medio-lungo periodo: da Toscana e Liguria alla Provenza oppure dal Triveneto alle terre imperiali; 2) l’ambulantato commerciale e artigianale: dal Piemonte in Francia e Svizzera; 3) l’esodo ciclico e per varia durata di lavoratori specializzati – in particolari edili – da Lombardia e dal Piemonte ai paesi oltre le Alpi. A questa mobilità tradizionale si aggiunge quella indotta dallo sviluppo commerciale: Milano, Venezia, Genova, Firenze e Lucca acquistano un peso sempre maggiore negli scambi continentali e inviano stabilmente propri rappresentanti nelle capitali europee o nei luoghi dove si tengono fiere internazionali e tali inviati divengono il nucleo di comunità emigrate.

Contemporaneamente la Penisola attrae popolazioni dal di fuori. Per tutto il medioevo, questo era avvenuto grazie alle “invasioni”, dai barbari agli arabi, ai normanni e agli svevi, trasformatesi in vettori immigratori. Contemporaneamente arrivano popolazioni balcaniche in fuga davanti alle ondate prima barbariche e poi islamiche, culminate nella conquista turca del Quattro-Cinquecenteo. Nel Due-Trecento entrano in gioco nuovi fattori, quale, per esempio, il grande sviluppo dell’università bolognese che attira docenti e discenti di ogni contrada europea. Tali arrivi richiamano artigiani stranieri, pronti a lavorare per una clientela trasferitasi dai loro stessi luoghi di partenza, ma anche per una città in piena fioritura. Non bisogna inoltre sottovalutare le migrazioni a breve raggio, che hanno un forte rilievo numerico e aprono la strada a successivi spostamenti: così il trasferimento di lombardi nell’entroterra di Venezia li porta in un secondo tempo in Friuli e qui offre loro la possibilità di proseguire oltre le Alpi, mentre quello dalla Calabria alla Sicilia ispira successivi salti nell’ambito dei domini aragonesi e in genere la presenza nei domini spagnoli in Italia facilita successivamente il passaggio ai domini spagnoli in Europa o in America.

Di fronte alla crescente mobilità migratoria, la Chiesa di Roma sfrutta inizialmente la presenza di religiosi corregionali o connazionali dei migranti. In particolare ricorre all’opera di regolari provenienti dall’Italia per gli italiani fuori dei confini peninsulari o di regolari provenienti da fuori Italia per chi si trasferisce nella Penisola. Tali interventi, spesso “volanti” come tante missioni fra gli immigrati di fine Ottocento, cessano quando gli emigrati italiani fuori della Penisola e quelli europei in Italia chiedono o costruiscono proprie chiese. Nasce allora il fenomeno delle chiese o delle cappelle nazionali presenti in diversi luoghi del Vecchio Mondo tra Quattro e Cinquecento, spesso affiancata da altre istituzioni e sempre servito da un clero, regolare o secolare della stessa provenienza dei migranti. Nel Quattrocento esistono chiese italiane a Parigi e Ginevra, mentre nel secolo successivo troviamo una cappella e un ospedale “de los Italianos” a Madrid, una chiesa e un ospedale a Praga, istituzioni analoghe a Lisbona e a Londra. Allo stesso tempo Roma attrae una crescente popolazione europea (i censimenti di inizio Cinquecento indicano percentuali non lontane da quelle di inizi Duemila) e vede nascere un reticolo di chiese nazionali. Nella città queste sono d’altronde una tradizione antichissima: tra il 724 e il 726 Ina, re del Wessex, nelle vicinanze della basilica di S. Pietro fonda la Scuola sassone, cioè un complesso di edifici, che comprende una chiesa, un ospizio, un albergo e talvolta persino un ospedale e un cimitero, presto imitato da frisoni, franchi, longobardi, alamanni, burgundi, bavari e ungari. Dal Trecento l’afflusso di immigrati, che restano per lungo tempo o addirittura per sempre e che servono da appoggio ai pellegrini e ai diplomatici del loro paese, porta alla fondazione di confraternite e ospizi, secondo un meccanismo non lontano da quello delle scholae, e stimola la fondazione di chiese nazionali. Proprio in quel secolo S. Antonio dei Portoghesi diviene il centro della comunità lusitana e accanto alla chiesa sorge un ospedale. S. Ivo dei Brettoni nasce dalla ristrutturazione di una chiesa più antica donata da Nicolò V ai bretoni: la concessione è ratificata da Callisto III e accanto alla chiesa sorgono l’ospizio e l’ospedale. S. Maria dell’Anima è ricostruita nel 1500-1523 sul luogo della cappella e dell’ospizio per pellegrini di area germanica (cioè tedeschi, austriaci, fiamminghi e olandesi) fondati secondo la tradizione da Giovanni di Pietro da Dordrecht alla metà del Trecento e riorganizzati nel 1410. S. Girolamo degli Illirici (oggi dei Croati) è eretta sotto Sisto IV, al posto di una chiesetta concessa da Nicolò V: a essa sono annessi un ospizio e un ospedale. S. Giacomo degli Spagnoli (ora Nostra Signora del S. Cuore a piazza Navona) è ristrutturata in occasione del giubileo del 1450, ma forse era già sosta per i pellegrini ispanici. La costruzione di S. Pietro in Montorio è voluta da un gruppo di francescani spagnoli e finanziata da Ferdinando e Isabella di Spagna; sarà in seguito aiutata da Carlo V, Filippo III e Filippo IV. S. Luigi dei Francesi è iniziata nel 1518, ma la fondazione è preceduta da quella della confraternita omonima eretta nel 1478, che acquista alcune chiese del rione Regola e un ospedale in rovina, presto ricostruito. S. Maria in Monserrato è iniziata sempre nel 1518 per gli aragonesi, i catalani e i valenziani: nello stesso luogo esisteva un ospizio dei catalani e Alessandro VI, le cui spoglie vi sono deposte assieme a quelle di Callisto III, vi fonda una confraternita per i suoi conterranei. S. Stanislao dei Polacchi in via delle Botteghe Oscure è concessa nel 1578 al cardinale Stanislao Hozjusz, che costruisce anche l’ospizio e l’ospedale. S. Andrea degli Scozzesi a via delle Quattro Fontane è costruita per i cattolici di quella nazione nel 1592, mentre nel secolo precedente essi utilizzavano la chiesa di S. Andrea delle Fratte. S. Isidoro a via degli Artisti è pensata per i francescani spagnoli nel 1622, ma tre anni dopo è dei francescani irlandesi. S. Nicola dei Lorenesi è ricostruita nel 1635-1636 per volontà della confraternita lorenese, mentre SS. Andrea e Claudio dei Borgognoni è edificata nella seconda metà Seicento.

In tutti questi edifici sacri, come in quelli per gli italiani fuori della Penisola, un clero migrante, che segue i propri connazionali, garantisce l’assistenza nella lingua di partenza. Mentre aumentano le chiese nazionali a Roma e nelle altre grandi città europee, l’unità della cristianità s’infrange e al problema dell’assistenza degli immigrati si abbina quello di controllare chi non appartiene alla Chiesa del luogo di insediamento. La progressiva estensione dei territori protestanti e la paura della penetrazione della Riforma nella Penisola porta a un irrigidimento dei controlli religiosi, dei quali fanno le spese anche le comunità di rito orientale di lontano (i greci) o di vicino insediamento (gli albanesi). Per quanto riguarda gli emigrati di origine italiana, sappiamo che le loro chiese di Ginevra e di Londra passano rispettivamente sotto i calvinisti e gli anglicani. Grazie alla documentazione del Sant’Uffizio scopriamo inoltre che gli stranieri in Italia sono sottoposti a un continuo “screening” religioso e che al contempo le autorità romane non vorrebbero italiani nelle terre degli “eretici”. Tuttavia i mercanti della Penisola non accettano tali esortazioni e continuano a operare in piazze come Norimberga. Proprio in quest’ultimala comunità emigrata non disdegna le cerimonie luterane, ma allo stesso tempo mantiene un missionario cattolico per assicurare il proseguimento della tradizionale adesione religiosa. Altre forme di adattamento, in genere deprecate da Roma, si trovano in Inghilterra, in Polonia e in Olanda.

D’altra parte lo stesso potere pontificio non si oppone a forme striscianti di adattamento per quanto riguarda i protestanti in Italia. Questi sono in genere controllati e talvolta spinti alla conversione, ma in genere quest’ultima è limitata a persone chi si è mosso verso la Penisola proprio a tal scopo. La pressione sui protestanti stranieri in Italia diviene una questione di opportunità politico-economica: non si perseguono le comunità che appartengono a Stati con saldi legami commerciali con la Penisola, né chi appartiene al clan degli Stuart approdato nella città dei papi. Anzi a questi ultimi sono offerti privilegi straordinari, per esempio un apposito cimitero presto aperto a tutti i non cattolici. Di conseguenza la Città Eterna attira ancora di più i protestanti, soprattutto inglesi, e questi, divenendo più numerosi, ottengono nel corso del Sette-Ottocento ulteriori riconoscimenti, ivi compresa la possibilità di far venire membri del proprio clero, purché celebrino le funzioni religiose soltanto nelle abitazioni private. Nel 1816 è addirittura inaugurata una cappellania informale a via del Babuino, dove sarà più tardi eretta la chiesa anglicana di Ognissanti.

Nel corso dell’Ottocento l’emigrazione italiana assume dimensioni sempre maggiori. Inoltre gli italiani non si recano prevalentemente in Francia, Spagna, Austria-Ungheria e l’America Latina, ma optano per Gran Bretagna e Germania, Stati Uniti e Canada. La Santa Sede comprende che potrebbe perdere quelle anime, come d’altronde può ormai accadere anche nell’ecumene cattolico: anticlericalismo e movimenti nazionali rendono infatti la Francia o l’America Latina altrettanto pericolose di un paese protestante. Allo stesso tempo l’arrivo nelle Americhe e in Francia di cattolici di varie nazionalità e soprattutto di diversi idiomi obbliga la chiesa a ristrutturare la propria organizzazione. Non è infatti semplice accogliere i nuovi arrivati nelle parrocchie territoriali, dove si parla soltanto la lingua del luogo.

Negli anni 1840 la nunziatura apostolica in Brasile affronta contemporaneamente i due problemi. Da un lato, cerca di controllare la propaganda antipontificia degli esuli italiani. Dall’altro, l’internunzio Gaetano Bedini si occupa degli emigrati per ragioni economiche e richiede sacerdoti per seguire i nuovi arrivati. Nel 1853-1854, nuovamente diretto in Brasile, si ferma negli Stati Uniti e nel Canada e redige numerose lettere sugli europei che varcano l’Atlantico, la loro integrazione e la necessità di assisterli. In tale occasione rileva come il pericolo non sia più la propaganda protestante, quanto quella dei movimenti anti-emigrati e degli esuli del 1848, tanto più che i due fronti si saldano proprio per contestare il suo viaggio. A questo punto la difesa della presenza cattolica nelle Americhe e della fede degli emigrati si lega, per Bedini, a quella dei diritti del pontefice. Secondo lui, il futuro di Roma si gioca su tanti fronti e uno di questi è quello americano, dove un aspetto importante della lotta è la disputa per il controllo degli immigrati. Gli spunti del nunzio sono meditati dalla burocrazia romana per decenni, tanto più che Bedini ascende ai vertici della gerarchia cattolica come influentissimo segretario di Propaganda Fide e cardinale arcivescovo di Viterbo.

Durante l’attività di Bedini, gli ordini missionari iniziano a occuparsi sul campo degli emigranti, italiani e non. Barnabiti, cappuccini, domenicani, francescani, gesuiti, redentoristi e serviti annoverano religiosi in grado di badare a fedeli di più nazionalità e quindi si fanno carico dell’assistenza dei migranti. Il loro intervento non è, però, sufficiente ed essi non vogliono dedicarsi alla cura degli immigrati. Intervengono allora istituti di nuova fondazione: nel 1844, per esempio, Vincenzo Pallotti affida gli italiani di Londra a Raffaele Melia e questi fonda la parrocchia di S. Pietro, perché ritiene che i connazionali abbiano bisogno di un proprio tempio. Nei decenni seguenti i pallottini estendono il loro sforzo e sbarcano infine oltre Atlantico (nel 1884 a Brooklyn e New York, nel 1886 nel Rio Grande do Sul).

Fonti e Bibl. essenziale

The Protestant Cemetery in Rome. The “Parte Antica”, a cura di A. Menniti Ippolito e Paolo Vian, Roma, Unione Internazionale degli Istituti di Archeologia Storia e Storia dell’Arte in Roma, 1989; Roma, la città del papa, a cura di L. Fiorani – A. Prosperi, Storia d’Italia, Annali, 16, Torino, Einaudi, 2000; G. Pizzorusso – M. Sanfilippo, Dagli indiani agli emigranti. L’attenzione della Chiesa romana al Nuovo Mondo, 1492-1908, Viterbo, Sette Città, 2005; I. Fosi, Stranieri in Italia: mobilità, controllo, tolleranza, in Studi storici dedicati a Orazio Cancila, a cura di A. Giuffrida, F. D’Avenia – D. Palermo, Palermo, Mediterranea 2011, 531-556, e Convertire lo straniero. Forestieri e Inquisizione a Roma in età moderna, Roma, Viella, 2011; M. Sanfilippo, Faccia da italiano, Roma, Salerno Editrice, 2011; P. Corti – M. Sanfilippo, L’Italia e le migrazioni, Roma-Bari, Laterza, 2012; Ad ultimos usque terrarum terminos in fide proganda. Roma fra promozione e difesa della fede in età moderna, a cura di M. Ghilardi, G. Sabatini, M. Sanfilippo e D. Strangio, Viterbo, Sette Città, 2014; A. Menniti Ippolito, Il Cimitero acattolico di Roma. La presenza protestante nella città del papa, Roma, Viella, 2014; Chiese e nationes a Roma: dalla Scandinavia ai Balcani, a cura di A. Molnár, G. Pizzorusso e M. Sanfilippo, Roma, Viella, 2017.


LEMMARIO