Associazione Italiana dei Professori di Storia della Chiesa

Dizionario Storico Tematico La Chiesa in Italia
Dalle origini all'Unità Nazionale
Roma 2015
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Episcopato - vol. I


Autore: Antonio Menniti Ippolito

Nel codice di diritto canonico vigente dei vescovi si dice che essi, “per divina istituzione sono successori degli Apostoli, mediante lo Spirito Santo che è stato loro donato, sono costituiti Pastori della Chiesa, perché siano anch’essi maestri di dottrina, sacerdoti del sacro culto e ministri del governo. […]. Con la stessa consacrazione episcopale i Vescovi ricevono, con l’ufficio di santificare, anche gli uffici di insegnare e governare, i quali tuttavia, per loro natura, non possono essere esercitati se non nella comunione gerarchica col Capo e con le membra del Collegio”. Nel codice del 1917, si detta invece che i vescovi, sempre quali “successori degli Apostoli”, sono preposti per istituzione divina al governo delle diocesi, ossia delle Chiese particolari, di cui sono amministratori sotto l’autorità del pontefice romano, ciò anche quando essi sono designati, presentati o eletti da altri soggetti, ecclesiastici o civili. Già questa evoluzione della definizione dimostra come il ruolo e la funzione dei vescovi si siano venuti a formare e a trasformare nella storia in una continua e mai scontata dinamica che non si è di fatto mai esaurita.

Le origini. Il termine vescovo (dal greco, in senso letterale: guardiano, controllore, protettore) corrisponde a sopraintendente, ispettore, ed in tal senso fu utilizzato in età antica per identificare funzioni anche non attinenti alla dimensione ecclesiastica (governatori, prefetti, magistrati, ecc.). Nel Nuovo Testamento la parola ricorre quattro volte quale sinonimo di presbiteri e in una evenienza viene accostata a Cristo. Dall’inizio del II sec. la letteratura patristica prende invece a denominare comunemente vescovi i capi delle comunità cristiane differenziandoli dai presbiteri e dai diaconi. Non senza ambiguità: ad esempio a Roma, dove il primo documento che attesti con sicurezza l’esistenza di una comunità cristiana è costituito dalla lettera con cui Paolo annunciò nel 57 il suo arrivo nell’Urbe, l’effettivo governo della comunità è sì definito col termine di episkopè, ma resta fino al termine del II sec. affidato non a un capo monarchico, ma al collegio dei presbiteri. Altrove, come ad Antiochia ma anche in molti altri luoghi (non però ad Alessandria), le comunità cristiane erano invece stabilmente rette da vescovi assistiti dal collegio dei presbiteri e dai diaconi. A Roma insomma un vescovo s’impose più tardi che in molti altri centri della cristianità. Ciò avvenne con ogni probabilità soprattutto per la natura cosmopolitica dell’Urbe: il Collegio dei presbiteri assicurava rappresentanza a ciascuna componente “nazionale” della comunità cristiana e conteneva con ciò tendenze centrifughe testimoniate peraltro in vario modo dalle fonti.

È verso la fine del II sec. che Ireneo compilò una prima lista dei vescovi di Roma: un elenco che solleva molti interrogativi. Stante la forma di governo fondata sull’organizzazione presbiterale si può ipotizzare che ad essere lì indicati quali vescovi siano stati personaggi di rilievo della comunità, probabilmente proprio appartenenti al Collegio dei presbiteri. Oltre a tutto ciò, va considerato come il primo dei nomi indicati da Ireneo ad avere effettivo spessore storico sia Pio, che venne eletto nel 142 e che morì nel 152. Gli studiosi concordano oggi sul fatto che primo effettivo vescovo monarchico della comunità romana, ovvero primo papa in senso proprio, sia stato Vittore, africano di lingua latina, eletto nel 189, e primo pastore di Roma non di origine orientale (ciò indica il venir meno della prevalenza degli orientali nella comunità cristiana di Roma, la cui lingua ufficiale era rimasta peraltro a lungo il greco).

Procedure elettive. I vescovi, si è detto, sono gli amministratori delle Chiese particolari e queste, dopo alcune esitazioni – ad esempio sia in Oriente che in Occidente (qui ancora nel XII sec.) vennero inizialmente definite parrocchie – presero il nome di diocesi, termine che presso i romani definiva il territorio amministrato da una città, ma anche le province governate da legati o grandi divisioni territoriali comprendenti più province. È con Gregorio IX (1227-1239) che il termine diocesi si affermò definitivamente nell’uso ecclesiastico. Le diocesi vennero in parte a formarsi sovrapponendosi alle divisioni amministrative e territoriali esistenti, ma in altri casi per la capacità d’attrazione di una località sede di una comunità cristiana e di un potere vescovile su territori più o meno allargati, per volontà politica o per i motivi più vari, diversi luogo per luogo. Come venivano nominati i vescovi? Le procedure erano svariate. Potevano essere i vescovi vicini alla diocesi resasi vacante a designarli, col concorso del clero e del popolo (che poteva esprimersi in forme diverse ed avere più o meno peso), e la nomina doveva poi essere confermata dal metropolita, ossia dal vescovo che era a capo della metropoli, ossia la città matrice o principale della diocesi e che godeva di prerogative di controllo sui vescovi comprovinciali, poi detti, dal sec. VIII, suffraganei (così come si dettò a Nicea, 325, e fu confermato da una decretale di Innocenzo I nel 404, che specificava però che nella Provincia romana serviva la conferma del papa). Con i carolingi e all’interno della rinnovata struttura imperiale le forme d’intervento del potere politico nella designazione dei vescovi si fecero via via più invasive e ciò portò alla nascita della “guerra delle investiture” che avrebbe animato i rapporti tra papato e impero per un lungo periodo a cavallo del I millennio. Il concordato di Worms pose fine nel 1122 alla questione riconoscendo il potere di eleggere i vescovi ai capitoli delle cattedrali: gli eletti avrebbero poi dovuto essere consacrati dagli arcivescovi, mentre agli imperatori rimaneva in tutto ciò il solo compito di conferire il possesso temporale della diocesi. Nella prima Italia comunale i vescovi potevano essere eletti dal clero col concorso delle autorità municipali, ma dagli inizi del Duecento anche qui i capitoli delle cattedrali presero a rivendicare un ruolo esclusivo in tali elezioni. Nel tardo Medioevo poi, in molti centri, ad esempio Firenze, ad evitare che il titolo vescovile divenisse appannaggio di potentati locali, si provvide a nominare alla guida delle diocesi solo forestieri. Una grande varietà di metodi elettivi, come si vede, che anche mutava di tempo in tempo e di luogo in luogo. È comunque dal XIV sec. che il diritto di confermare i vescovi eletti passò gradualmente ai papi che riuscirono altresì a riservarsi talvolta anche il diritto di nomina: ciò avvenne in linea di massima nel nuovo quadro dello stato regionale (questo ovviamente nell’Italia centro-settentrionale), che vide i papi impegnati a confrontarsi non più con una moltitudine di voci locali, ma con un solo principe espressione di una stabile famiglia regnante. Si pensi ad esempio all’indulto concesso da Niccolò V a Francesco Sforza nel 1450: il papa si impegnava con esso a conferire i benefici ecclesiastici nel Dominio di Milano alle personalità indicate dal duca purché avessero i requisiti canonici di base.

Nel corso del XV sec., con l’esaurirsi del Grande Scisma e a partire dal concilio di Costanza, il papato prese a stipulare concordati prima con le nationes presenti a Costanza e poi, dopo che il re di Francia nel 1438 con la Prammatica sanzione di Bourges si era unilateralmente arrogato funzioni di controllo totale sulla chiesa di Francia e si era espresso per di più in maniera esplicita in favore delle istanze conciliariste, anche con ciascuno dei singoli stati europei. Con la stipulazione di questi atti, la Santa Sede concedeva per privilegio, teoricamente revocabile, quello che poteri sempre più forti e aggressivi minacciavano di attribuirsi in proprio schierandosi peraltro, così come il monarca transalpino, per il concilio. I sovrani acquisirono così il controllo delle realtà ecclesiastiche dei loro Regni, e in cambio accettavano di prestare un’obbedienza sempre solo più formale al pontefice romano. La realtà di queste Chiese assoggettate a principi che si comportavano da “papi” all’interno dei loro territori e che designavano vescovi che erano di fatto loro funzionari, costituiva ancora nel sec. XIX per Antonio Rosmini una delle cinque piaghe che affliggevano la Chiesa. Nei fatti ancora agli inizi del sec. successivo solo undici paesi non interferivano con i poteri di nomina dei vescovi da parte del papa pur descritti nella normativa canonistica e infine riproposti con più efficacia nel codice di diritto canonico del 1917 (che fornì alla Chiesa di Roma quei presupposti di uniformità normativa che le avrebbero concesso di rivendicare gradualmente autorità su Chiese nazionali ciascuna rivendicante una tradizione normativa propria). Nel concilio Vaticano II si ribadì che la giurisdizione sui vescovi spettava al papa ma non si poté fare altro che raccomandare ai poteri civili che ancora rivendicavano autorità in materia di cedere tali loro prerogative. Nel codice di diritto canonico del 1983 fu infine specificato che tali prerogative non sarebbero state più concesse ad alcun potere civile.

Un caso eloquente. La nomina del vescovo di Roma. Ma sono le stesse norme di elezione dei papi nel corso del primo millennio a testimoniare, per quel che riguarda la nomina dei vescovi, una varietà infinita di procedure oltre ad una costante pressione del potere imperiale (ma non solo, perché in taluni momenti forte fu anche la pressione dei potentati dell’Urbe). In un quadro in cui la nomina del vescovo di Roma andava necessariamente confermata dall’imperatore d’Oriente, si affermò una procedura che voleva che il capo della comunità cristiana dell’Urbe venisse prescelto (fino al IX sec. tra i soli ecclesiastici della diocesi, senza eccezioni) grazie al concorso del clero e popolo romano. Papa Simmaco (498-514) provò a forzare la norma e convocò nel 499 un sinodo in San Pietro per decretare che per evitare patteggiamenti, scambi di voti, ecc, che solevano caratterizzare le elezioni, la designazione del nuovo papa sarebbe stata compito di quello in carica. Solo se questo fosse venuto a mancare senza aver provvisto all’incombenza, la scelta sarebbe spettata al clero romano. Tale mandato non fu rispettato, indice della volontà degli elettori tradizionali di non voler perdere tale prerogativa, ma tentativi nel senso dettato da Simmaco, o continue variazioni delle procedure, caratterizzarono ogni elezione, ciascuna delle quali, in pratica, ebbe caratteri peculiari. Una svolta significativa si presentò nel 757. Quando papa Stefano II parve giunto sul punto di morire, la popolazione si spaccò tra i sostenitori dell’arcidiacono Teofilatto e quelli del fratello del morente, Paolo. Fu questi a prevalere, all’insegna di una forzatura – mai si era verificata la trasmissione diretta in famiglia del titolo papale – che favorì alla morte di Paolo II una serie di torbidi e l’acclamazione a papa di un laico, Costantino, poi costretto a fuggire per la reazione alla designazione di potenti componenti della Chiesa romana. La crisi generatasi da questi eventi portò alla creazione di un nuovo antipapa, Filippo e, infine, il 31 luglio 768, nell’antica sede del Senato romano, tutte le componenti della cittadinanza si riunirono per eleggere regolarmente papa Stefano III. Questi, nell’aprile 769, convocò in Laterano un concilio che rivoluzionò la forma delle elezioni papali. Sarebbe stato solo il clero a provvedere ora alle nomine, potendo eleggere esclusivamente ecclesiastici mentre al popolo dei laici, nelle sue varie componenti, rimaneva il compito di riconoscere l’eletto una volta che questi avesse preso possesso del Laterano. L’aristocrazia laica di Roma vedeva così ridimensionate le proprie possibilità di determinare le elezioni dei papi. Vi furono poi eccezioni, anche significative, quale quella della nomina a papa del diciottenne Giovanni XII nel 955 voluta dal padre, Alberico II, uomo potente di Roma, per unire alla potestà politica sull’Urbe da parte dei conti di Tuscolo anche la giurisdizione sulla Chiesa, ma tutto poi si stabilizzò con la creazione a metà dell’XI secolo del collegio cardinalizio (e con le successive modifiche: creazione del conclave e le diverse riforme dello stesso, la più rilevante delle quali in età moderna fu quella voluta da Gregorio XV). Tutto ciò per significare che se le elezioni dei papi stessi furono soggette a tali mutazioni, anche quelle dei vescovi delle Chiese particolari dovettero assumere nel tempo forme diverse e del tutto particolari.

Il papa e i vescovi. Con un papato fortemente condizionato dal potere imperiale la costruzione della Chiesa italiana venne all’inizio caratterizzata dal processo di formazione della provincia ecclesiastica del vescovo di Roma che comprese tutta la penisola fino a quando, verso la metà del IV sec. venne a costituirsi attorno a Milano una nuova provincia. All’interno dell’area a lui direttamente soggetta, il papa confermava i vescovi eletti dal clero e popolo locali che qualche volta poteva direttamente nominare o deporre. Dalla provincia di Milano si sarebbe poi venuta creare quella di Aquileia, mentre dalla provincia romana si staccò poi quella di Ravenna, dove si stabilì la sede del potere bizantino fino al 750 quando la città fu presa dai Longobardi. Nel mentre, rimanendo al papato un ruolo nell’armonizzare e regolare le questioni concernenti la fede, venivano oltralpe a crearsi le Chiese nazionali che caratterizzarono, ciascuna a suo modo, la formazione dell’Occidente romano-barbarico.

Le vicende politiche avrebbero poi portato all’ampliamento del Patrimonium Sancti Petri (con la donazione imposta ai longobardi dai carolingi del 754), alla sua trasformazione in Stato della Chiesa e al recupero della giurisdizione sull’intera penisola – per quel che concerneva le cose di Chiesa – da parte del vescovo di Roma. La Chiesa italiana restò così, fino al XIX sec. la vera Chiesa del papa, la sola dove il vescovo di Roma godeva di autonomia sostanziale in materia di interventi sulle diocesi, sui vescovi, sul patrimonio delle Chiese locali e quindi sui benefici ecclesiastici e sulla tassazione. Naturalmente fino al 1861 (o, per dir meglio, fino al 1870), la penisola restò frammentata in una serie di diverse realtà statuali e tutto questo venne a creare in Italia una particolarissima situazione basata su una straordinaria proliferazione di sedi vescovili: se Lanzoni ipotizza l’esistenza di circa 250 diocesi agli inizi del VII sec., esse sono all’incirca nello stesso numero nel XV sec., ma la loro quantità crebbe, arrivando a circa 300 nel tempo successivo. Ciò a fronte, e basti solo questo esempio, delle poco più di 50 diocesi ch’ebbe la Spagna in età moderna. Questo venne a determinarsi per una serie complessa di ragioni: per venire incontro alle esigenze determinate da una storia antica che aveva visto proliferare in misura straordinaria significative realtà cittadine, ognuna delle quali in sostanza finì con l’ospitare un vescovo; in virtù di compromessi che il papato si trovò ad accettare per soddisfare le richieste di rendite e status provenienti dalle élites locali; per disporre di una schiera cospicua di vescovi “fedeli” capaci di fronteggiare anche e soprattutto sul mero piano dei numeri i vescovi d’altra nazionalità, ed obbedienza, in occasione di concili, ecc. A questa proliferazione corrispondeva una realtà di diocesi povere, che poco e male sopperivano al compito di sostenere il loro pastore; a tale ampiezza corrispondeva un’inquietudine, una serie di problematiche che la Santa Sede cercò con impegno, e non infrequentemente con scarsi esiti, di affrontare. La Congregazione dei vescovi e regolari che ebbe a partire dalla fine del ‘500 ampia giurisdizione sulla realtà ecclesiastica generale si occupò nella quasi totalità dei casi della sola Italia (con punte del 98% degli interventi sul totale). Diocesi irrequiete, dunque, e dei motivi e caratteristiche di ciò in parte si dirà poco sotto, e di norma, come detto, scarse di rendite: per fare un solo esempio, in Toscana, oltre ai tre arcivescovati, solo otto dei quindici vescovati potevano essere gravati di pensioni (prelievi sui redditi della mensa vescovile a beneficio di prelati di Curia) data la loro povertà.

I vescovi in Italia. Chi erano i vescovi? Impossibile generalizzare. Anzitutto c’è da dire che il Concilio di Trento, almeno in Italia, cambiò tutto. L’assemblea vietò il cumulo dei benefici, raccomandò il dovere di risiedere nella propria diocesi, impose dei requisiti per selezionare i titolari di diocesi: primo tra tutti quello di vantare già l’ordinazione in sacris, il che pose almeno un limite alla pratica di nominare a vescovati dei laici, magari anche solo adolescenti, di fatto solo dei percettori di rendite, in qualità, appunto, di vescovi “eletti”, che delegavano all’esercizio delle funzioni pastorali dei “titolari” che avevano le carte in regola, perché già consacrati vescovi in sedi in partibus infidelium o in sedi che rimandavano solo ad antiche, magari gloriose, ma superate memorie storiche (al concilio di Trento il papato chiamò a partecipare sia gli “eletti” che i “titolari” per meglio fronteggiare le insidie che potevano presentarsi). Una seconda distinzione generale che può essere proposta è quella che riguarda le diocesi più ricche e quelle dotate di minori risorse. A capo delle prime nella quasi totalità dei casi si trovarono o i maggiori esponenti della Curia romana, cardinali in primo luogo, o rappresentanti delle elites italiane – i patrizi veneziani furono ad esempio con rarissime eccezioni titolari delle diocesi più ricche del dominio di San Marco. Al contrario invece, non poche volte nelle diocesi povere si faticava a rinvenire gli ecclesiastici che potessero divenirne titolari: da qui spesso derivava la necessità di derogare ai requisiti dettati dal concilio. Altro elemento determinato, indirettamente, dal concilio tridentino, l’opera di taluni vescovi – quasi inutile ricordare san Carlo Borromeo e il suo magistero a Milano, ma anche quelli di Gabriele Paleotti a Bologna, di Agostino Valier a Verona… –, che col loro esempio dettarono il modello ideale di pastore.

Al di là di questi casi, però, la realtà era assai più mediocre e non solo perché quella dei vescovi nelle diocesi continuava ad essere piuttosto una assenza che una presenza (e ciò sia per il fatto che l’obbligo di residenza veniva frequentissimamente disatteso, ma anche perché non sempre i vescovi, rivelano le stesse carte della Congregazione dei vescovi e regolari, si mostravano zelanti nell’esercizio delle loro funzioni). La realtà era più mediocre soprattutto perché ai titolari di diocesi venivano richiesti compiti assai particolari. Si veda ad esempio come Giovan Battista de Luca, in un manoscritto vaticano, il Discorso sopra il modo da tenersi nell’esame de’ vescovi (Biblioteca Apostolica Vaticana, Ottob. Lat. 1945, «Manoscritti diversi», cc. 228 ss.), descrisse le funzioni del vescovo nello stato e nella chiesa d’antico regime in una riflessione imperniata appunto sul tema della verifica delle qualità dei candidati vescovi. Per de Luca l’esame, introdotto a fine 500 e che si svolgeva dinnanzi al papa, era singolare perché verteva su materie – teologia morale, teologia scolastica, diritto canonico – in gran parte inutili per le funzioni che i vescovi avrebbero poi dovuto soddisfare. Ma soprattutto tale esame si conduceva solo per i vescovati italiani, per alcune diocesi di Dalmazia e dell’Arcipelago Egeo (sottoposte al dominio veneto) e in altre poche di collazione papale. Solo in Italia, dunque, notava de Luca, i vescovi non erano considerati da subito idonei, mentre quelli proposti da re, principi, eletti da capitoli di cattedrali o per quelli indicati dalla Congregazione di Propaganda Fide non venivan sottoposti ad alcuna prova o esaminati da nessuno. Ciò poneva quei pastori in condizioni di inferiorità rispetto agli altri e in condizioni di inferiorità tale esame poneva anche il papa che paradossalmente, per procedere alle nomine per questi benefici, era costretto a procedure più complesse di quelle che riguardavano i poteri laici. De Luca spiegava ciò in vario modo, ma soprattutto col fatto che rispetto agli altri territori europei e non solo, in Italia non era più presente l’eresia e il rischio del dissenso religioso era assai contenuto. Da ciò conseguiva che i vescovi non avessero più di fatto alcun obbligo di cura d’anime, che non amministrassero più direttamente i sacramenti, in specie quello della confessione, e che delegassero questi compiti da un lato al clero minore, parroci in primo luogo, e dall’altra al Sant’Uffizio e al suo efficace ruolo di repressione e prevenzione delle eresie e di ogni forma di deviazione. La cura d’anime spettava dunque insomma ai parroci, ma chiunque, ormai, chierico o secolare o anche «idiota» grazie al Catechismo e altre opere analoghe, era in grado di educare alla dottrina cristiana. Insomma, i vescovi non predicavano, non catechizzavano e neppure confessavano più. Cosa facevano dunque allora i titolari di diocesi? Un vescovo in Italia, scriveva, amministrava il «governo politico e civile spirituale della diocesi» e la giustizia ed era chiamato insomma a governare i corpi più che le anime, a controllare semmai chi, parroci in primo luogo, era chiamato a vivere tra i fedeli (e gli studi sulla assai relativa alfabetizzazione del clero di base in età moderna mostrano come tale compito fosse delicatissimo). Cosa serviva perciò interrogarlo in teologia? L’esame avrebbe dovuto essere concepito in modo tale da accertare se i candidati ad un vescovato sarebbero stati in grado di provvedere alle vacanze dei parroci; distinguere i benefici liberi da quelli soggetti a patronato e d’individuare quelli sottoposti a riserve (di pensioni, ad esempio); impedire che le Chiese libere divenissero «serve»; accertare le esenzioni dei Regolari; controllare con prudenza la vita dei monasteri nonché quella che si svolgeva nei luoghi pii governati da secolari (spesso fonti di disordini e scandali); gestire le cause specialmente criminali «quando si possa ingerire con secolari»; sorvegliare i beni delle Chiese perché non venissero alienati.

Cosa emerge da ciò? Una realtà tipica dello Stato d’Antico Regime, che vedeva i vescovi soprattutto impegnati a districarsi, a lungo con scarsi esiti, in diocesi egemonizzate da potenti ceti dirigenti locali che conservavano voce in capitolo anche in materia di pertinenza dell’ordinario diocesano, animate da ordini regolari e/o da istituzioni laiche ed ecclesiastiche quali ospedali, monti di pietà, confraternite, capitoli di cattedrali, collegiate che condussero battaglie per tenersi il più possibile immuni dalla giurisdizione dei vescovi. Solo verso la fine del Seicento si verificò un cambiamento di tendenza e i vescovi presero almeno a cercare di imporsi sui particolarismi all’interno delle loro diocesi: ciò non solo acuì i contrasti all’interno delle stesse, ma contribuì pure ad esacerbare i contrasti tra autorità ecclesiastiche e civili in un tempo non solo segnato dal mutamento significativo degli equilibri italiani dove agli Asburgo di Spagna vennero a sostituirsi quelli di Vienna e soprattutto i Borbone, ma anche dal diffondersi del “contagio” illuminista, il quale peraltro non ispirò solo sentimenti anticristiani o la polemica anticattolica, ma anche un nuovo tipo di pietà, un’ondata missionaria, il riformismo muratoriano, che contribuirono allo sforzo su indicato di riconquista delle diocesi che vide impegnati molti vescovi.

Fino a questo tempo, però, i vescovi erano stati più amministratori che pastori e spesso applicatori assai timidi di molte innovazioni tridentine. Gli obblighi di residenza erano, come già affermato, largamente aggirati; quello delle visite periodiche ad limina apostolorum o dell’istituzione dei seminari atti ad formare il clero anche, così come quello della convocazione dei sinodi diocesani e provinciali raccomandata a Trento: di questi se ne celebrarono solo il 2% di quelli che avrebbero dovuto tenersi. Si è detto poco sopra di una trasformazione del ruolo dei vescovi entro le loro diocesi a partire dalla fine del XVII sec. Ad essa contribuì la spinta innovativa – celebrata dalla storiografia quale “svolta innocenziana” – che ispirò l’opera di un pontefice come Innocenzo XI, che non a caso istituì già nel 1676 una congregazione che avrebbe dovuto occuparsi di esaminare le qualità dei candidati ai vescovati (che poi sarebbero stati comunque sottoposti all’esame su descritto). Il ruolo centrale dei titolari delle diocesi venne ribadito con forza da altri pontefici, quali Benedetto XIII, che convocò il controverso “concilio” romano nel 1725 proprio per cercare, senza molto successo, di ribadire il proprio specifico ruolo di vescovo di una provincia ecclesiastica (quella romana) oltre a quello di papa, e, tra gli altri, Benedetto XIV (non a caso, per ribadire la propria vocazione pastorale, questi due pontefici mantennero il titolo delle Chiese, nell’ordine Benevento e Bologna, di cui erano titolari al momento della nomina a papa). Papa Lambertini dovette tuttavia frenare il proprio slancio non solo per l’emergere di tendenze episcopaliste, ma anche per il diffondersi del giansenismo, che rischiavano, in quel complesso clima generale caratterizzato dalla sempre più minacciosa invadenza dei poteri civili anche nelle cose di Chiesa, di innescare processi centrifughi e pericolose ricerche di autonomia da Roma. Non sempre infatti i vescovi si concentravano sulle attività che Benedetto XIV soprattutto raccomandava loro di curare: garantire la disciplina del clero e l’istruzione religiosa del gregge loro affidato. Gli eventi legati al dilagare in Italia delle truppe francesi e al diffondersi dei principi rivoluzionari colpirono duramente la Chiesa, che poté risorgere però, e consolidarsi, nell’età della Restaurazione. Si imposero allora nuovi modelli religiosi, assai più austeri, e si provvide ad una più accurata selezione del clero, che si ridusse sostanzialmente di numero, esigenza questa che era stata continuamente sollevata, senza mai trovare soluzione, nei secoli precedenti che avevano visto soprattutto nell’Italia meridionale una inflazione in primo luogo di chierici ordinati in minoribus (in alcune situazioni essi costituivano il 70% del corpo ecclesiastico), il più delle volte solo per far conseguire a chi riceveva l’ordinazione privilegi di foro o di natura fiscale. Se nel Settecento vi era un prete ogni 50/60 abitanti, verso la metà dell’Ottocento la media passò ad un ecclesiastico ogni 250 abitanti e i chierici provenivano adesso in modo assai più marcato dai ceti popolari e da aree rurali più che da quelle urbane. Per quel che riguardò i vescovi, la cura pastorale divenne ora la loro maggiore occupazione, potendo tralasciare la varietà dei compiti diversi che aveva caratterizzato il loro operato nella Chiesa d’Antico regime ospitata nelle strutture dello Stato d’Antico regime. Una trasformazione questa che si rivelò decisiva per l’episcopato italiano, e non solo per questo.

Fonti e Bibl. essenziale

P. Batiffol, La Chiesa nascente e il cattolicesimo, Firenze 1915; F. Lanzoni, Le diocesi d’Italia dalle origini al principio del secolo VII (an. 604), I-II, Faenza 1927; F. Claeys-Bouuaert, Diocèse, in Dictionnaire de Droit canonique, IV, Paris 1949, 1258-1267; Id., éveque, ibid., V, Paris 1953, 570-590; Enciclopedia cattolica, XII, Firenze 1954, sv Vescovo; A. Mercati-A. Pelzer, Dizionario ecclesiastico, III, Torino 1958, sv Vescovo; D. Hay, La Chiesa nell’Italia rinascimentale, Roma-Bari, Laterza, 1979; A. Prosperi, La figura del vescovo fra Quattro e Cinquecento: persistenze, disagi, novità, in Storia d’Italia, Annali 9, La Chiesa e il potere politico dal Medioevo all’età contemporanea, a cura di G. Chittolini – G. Miccoli, Einaudi, Torino 1986, 217-262; C. Donati, La Chiesa di Roma tra Antico Regime e riforme settecentesche (1675-1760), ibid., 721-766; C. Donati, Vescovi e diocesi d’Italia dall’età post-tridentina alla caduta dell’antico regime, in Clero e società nell’Italia moderna, a cura di Mario Rosa, Laterza, Roma-Bari 1992; M. Guasco, Storia del clero in Italia dall’Ottocento a oggi, Roma-Bari, Laterza, 1997; G. Greco, La Chiesa in Italia nell’età moderna, Laterza, Roma-Bari 1999; M. Simonetti, L’età antica, in Enciclopedia dei papi, I, Istituto della Enciclopedia Italiana, Roma 2000, 5-46; G. Arnaldi, L’età medievale, ibid., 47-90.


LEMMARIO




Eremitismo - vol. I


Autore: Mariano Dell’Omo

Le origini. La vita anacoretica nata e praticata in Oriente (Antonio, Ammonio, Macario, Evagrio) giunge in Occidente, in particolare in Italia, attraverso la mediazione di testimoni e scrittori d’eccezione come Girolamo, Rufino, Cassiano, la cui letteratura per l’intera vita religiosa conserverà per molti secoli una primaria funzione didattica e spirituale. Già conosciuta a Roma nel sec. IV, a partire da questo momento la straordinaria e quasi leggendaria esperienza dei deserti d’Egitto è rivissuta qua e là in Italia e nelle isole adiacenti. Del resto lo stesso s. Martino di Tours fra il 356 e il 360 soggiorna in un eremo sull’isola Gallinaria nei pressi della città di Albenga (Savona). Ma la più significativa testimonianza circa la pratica della vita eremitica sul territorio italico, in particolare sull’isola di Capraia nell’arcipelago toscano, deriva da uno degli ultimi esponenti della tradizione classica, il poeta Rutilio Namaziano, che nel De reditu suo (I, 439-446), descrivendo il ritorno da Roma nella sua Gallia devastata dai barbari, scrive: «L’isola è spoglia, piena di uomini che fuggono la luce. Da sé si chiamano, con parola greca, “monaci” perché desiderano vivere soli, senza che alcuno li veda. Nutrono timore per i doni della fortuna, mentre ne paventano i danni… Ma che specie di furiosa pazzia e di stoltezza – che può far presa solo in cervelli stravolti –, non essere capaci di accogliere le cose buone per paura di possibili mali!».

Prevale dunque in quegli anni l’ideale antico della fuga mundi che resterà vitale almeno fino a s. Benedetto (ca. 480-ca. 547), del resto egli pure giovane eremita nello speco sublacense prima di fondare il cenobio cassinese, già forte di qualche esperienza anacoretica nella sua Umbria, in quella Val Castoriana presso Norcia ove dimorarono i santi monaci Spes e Florenzo. Nella stessa regione a Monteluco, sull’altura che domina Spoleto, si insedia un movimento eremitico che durerà per oltre un millennio, e che deve la sua origine a Isacco Siro (†ca. 552), il quale insieme ad altri compagni provenienti dall’Oriente praticò un tipo di vita che dovette ispirarsi alle tradizioni anacoretiche di Siria (separazione dalla società, rigidezza, attività manuale, orazione, assenza di una regola formale), organizzandosi come una laura di eremiti indipendenti, riuniti intorno ad un maestro spirituale.

La svolta medievale. Se il monachesimo antico si era caratterizzato per la ricerca del deserto, quello medievale, profondamente segnato dalla netta prevalenza della Regola cenobitica di s. Benedetto – che pure non esclude il passaggio all’eremo –, tende ad armonizzarsi con la dimensione sociale e culturale, di cui è testimonianza la rinascita carolingia insieme alla grande stagione cluniacense. Nondimeno a partire dalla fine del X e specialmente tra XI e XII sec., in un contesto religioso percorso da fremiti di rinnovamento evangelico oltre che da intense attese escatologiche, alla crisi del cenobitismo tradizionale corrisponde una rinnovata stagione di vita eremitica sia in forme libere e individuali, sia mediante veri e propri Ordines destinati ad inquadrare e disciplinare tale fenomeno, senza che manchi altresì un approfondimento dottrinale di tale genere di vita grazie a quel cantore dell’eremitismo che fu s. Pier Damiani, non a caso biografo di s. Romualdo. La congregazione da quest’ultimo fondata e in seguito approvata da papa Pasquale II nel 1113, avente come superiore lo stesso priore del sacro eremo di Camaldoli in Toscana (Poppi, Arezzo), tra gli eremi più rilevanti oltre a quest’ultimo, contava anche quello di Fonte Avellana sul Monte Catria (Serra Sant’Abbondio, Pesaro) in diocesi di Gubbio.

Ugualmente la vicenda di Bruno di Colonia, canonico di Reims, poi solitario alla Chartreuse grazie ad Ugo vescovo di Grenoble, riflette questa nuova tendenza ad una vita di isolamento. Venuto a Roma nel 1090, Bruno si ritirò poi in Calabria a S. Maria della Torre (Serra San Bruno), ove concluse la sua vita (1101). Con i suoi compagni dando vita all’Ordine certosino egli testimoniava un tipo di monachesimo essenzialmente eremitico, seppure non privo di caratteri comunitari, come la preghiera liturgica del mattino e della sera ogni giorno, e la celebrazione della Messa e il pasto in comune la domenica e i giorni festivi. L’influsso della tendenza eremitica fu a tal punto determinante che Ordini religiosi destinati a giungere fino a noi, come Frati Minori, Carmelitani, Agostiniani, Minimi di s. Francesco di Paola, Cappuccini, almeno al loro esordio abbracciarono l’ideale dell’eremo per poi trasformarsi in Ordini comunitari. Fu in particolare la già menzionata esperienza eremitica originaria di Monteluco che ispirò altri simili progetti in Umbria, come quello del Subasio, il cui fascino si rifletté sullo stesso s. Francesco. Dal connubio fra tradizione eremitica di Monteluco e francescanesimo trasse vita un ampio movimento ascetico di genere femminile che esercitava la penitenza volontaria al pari delle beghine in ambito fiammingo. Lo stesso Monteluco e Montefalco furono i centri principali dove si insediarono comunità di “recluse”, pur prive di una struttura monastica vera e propria.

I secc. XII-XIX. Tra le fondazioni più rilevanti del sec. XII, la cui identità di Ordine eremitico rimase inalterata, è da annoverare quella dei Guglielmiti, sorti a Malavalle presso Castiglione della Pescaia in diocesi di Grosseto intorno al 1160 ad opera di Alberto da Siena, discepolo di s. Guglielmo, cavaliere franco vissuto come eremita in quello stesso luogo. Molte furono poi le fondazioni eremitiche in Italia fra XIII e XVI sec., tra le quali si segnalano specialmente quelle illustrate qui di seguito nei loro connotati essenziali, mentre diverse presunte congregazioni di eremiti confluiti nel 1256 per volontà di papa Alessandro IV nell’Ordine degli Agostiniani, in realtà non sono mai esistite se non come singoli romitaggi, come quelli di Torre di Palme (Fermo, Ascoli Piceno), S. Maria di Murceto (Pisa), S. Giacomo di Monilio (Moriglione, presso Lucca).

Tra le congregazioni eremitiche che prendono avvio nel sec. XIII si distinguono: gli eremiti di Vincareto, località in diocesi di Bertinoro (Forlì); gli eremiti di Monte Favale (Pesaro) che goderono della protezione di papa Onorio III (1225), ottenendo l’autorizzazione ad adottare la “regola di s. Guglielmo” e quindi il modello di vita dei Guglielmiti. In particolare gli eremiti di Giovanni Bono furono da quest’ultimo fondati forse nel 1217 a Botriolo presso Cesena, dopo che egli in un primo tempo si era dato a vita solitaria a Bertinoro; gli inizi furono eremitici e privi di una struttura formale, ma in ossequio alle disposizioni del Concilio Lateranense IV i frati riunitisi intorno al Bono ottennero di seguire la Regola di s. Agostino sicuramente dal 1231, sebbene fino alla morte del fondatore (1249) il loro ideale religioso più che dall’ispirazione agostiniana rimase improntato dalla pratica dell’austerità e della penitenza vissute nell’abbandono al Signore. Al sec. XIV risale l’origine degli eremiti del Monte Segestere (Genova, Costa di Sestri Ponente), cui diede inizio un certo Lorenzo spagnolo († forse 1351); agli stessi anni appartengono gli eremiti di Pietro Gambacorta da Pisa (1355-1435), la cui lunga storia ha termine con la soppressione decretata nel 1933. Nel sec. XV al nome di Girolamo sono dedicate diverse fondazioni eremitiche, come quelle degli eremiti di S. Girolamo, di Beltramo da Ferrara, poi unitisi agli eremiti di Pietro Gambacorta da Pisa (1439); e ancora si annoverano gli eremiti di S. Girolamo, di Nicola da Forca Palena, al quale si deve tra l’altro l’acquisto nel 1434 di S. Onofrio al Gianicolo in Roma; gli eremiti di S. Girolamo, di Pietro Malerba, sacerdote veneziano vicino all’ambiente canonicale di S. Giorgio in Alga, la cui presenza è documentata verso il 1430 nei romitori di S. Pancrazio di Bassano del Grappa e di S. Felicita di Romano d’Ezzelino (Vicenza); infine gli eremiti di San Girolamo, di Fiesole, fondati nel 1404 da Carlo Guidi da Montegranelli, la cui regola fu poi quella agostiniana, che li configurava come un Ordine eremitico-cenobitico. A testimoniare quanto resti vivo anche nel corso del sec. XVI l’ideale anacoretico, è il ristabilimento sul finire del ‘500 all’interno dell’Ordine dei Servi di Maria, della vita solitaria a Monte Senario, mentre altri gruppi eremitici fioriscono qua e là, come gli eremiti di S. Francesco, di Monte Pellegrino a Palermo, quelli di S. Maria, di Colloreto nel territorio di Morano Calabro, gli eremiti di Porta Angelica, fondati a Borgo Pio in Roma da Albenzio Rossi da Cetraro e approvati da Sisto V nel 1587.

Ma il fatto più significativo in questo secolo è la fondazione da parte del veneziano Paolo Giustiniani della Compagnia di eremiti di S. Romualdo, detti poi eremiti camaldolesi di Monte Corona, resisi infine completamente autonomi dall’Ordine nel 1525. Nel sec. XVII in particolare la congregazione camaldolese di Piemonte, il cui primo eremo fu quello di Superga (1602), modellatasi sin dall’inizio sulle consuetudini dei Coronesi più che degli eremiti di Toscana, fu unita a quella di Monte Corona nel 1634, condividendone il destino fino allo scioglimento dell’unione decretata da Clemente IX nel 1667. L’ideale romualdino, tradottosi nei secoli in una feconda dialettica tra solitudine e comunità, nel sec. XVIII è vissuto dai Camaldolesi tra la “rusticitas” degli eremiti e l’erudizione dei cenobiti, mentre nel secolo successivo, come in altri Ordini, tra i pericoli delle soppressioni e le speranze di nuove restaurazioni.

 Fonti e Bibl. essenziale

L’eremitismo in Occidente nei secoli XI e XII. Atti della seconda settimana internazionale di studio, Mendola, 30 agosto-6 settembre 1962, Vita e Pensiero, Milano 1965; H. Leyser, Hermits and the New Monasticism. A Study of Religious Communities in Western Europe 1000-1150, Macmillan, London 1984; G.M. Croce, I Camaldolesi nel Settecento: tra la “rusticitas” degli eremiti e l’erudizione dei cenobiti, in G. Farnedi – G. Spinelli (edd.), Settecento monastico italiano. Atti del I convegno di studi storici sull’Italia Benedettina, Cesena, 9-12 settembre 1986 (Italia Benedettina 9), Centro Storico Benedettino Italiano, Cesena 1990, 203-270; Id., Monaci ed eremiti camaldolesi in Italia dal Settecento all’Ottocento. Tra soppressioni e restaurazioni (1769-1830), in F.G.B. Trolese (ed.), Il monachesimo italiano dalle riforme illuministiche all’unità nazionale (1768-1870). Atti del II convegno di studi storici sull’Italia benedettina, Abbazia di Rodengo (Brescia), 6-9 settembre 1989 (Italia Benedettina 11), Centro Storico Benedettino Italiano, Cesena 1992, 199-306; A. Vauchez (ed.), Ermites de France et d’Italie (XIe-XVe siècles). Actes du colloque organisé par l’École française de Rome à la Certosa di Pontignano (5-7 mai 2000) avec le patronage de l’Université de Sienne (Collection de l’École française de Rome 313), École française de Rome, Rome 2003; F.A. Dal Pino, Eremitismo libero e organizzato nel secolo della grande crisi, in G. Picasso – M. Tagliabue (edd.), Il monachesimo italiano nel secolo della grande crisi. Atti del V Convegno di studi storici sull’Italia benedettina, Abbazia di Monte Oliveto Maggiore (Siena), 2-4 settembre 1998 (Italia Benedettina 21), Centro Storico Benedettino Italiano, Cesena 2004, 377-431; A. Vangelista, Il beato Paolo Giustiniani. Un eremita tra Umanesimo e Riforma, Rivista di ascetica e mistica, 75 (2006), 545-575.


LEMMARIO




Eterodossia, Eresia - vol. I


Autore: Stefano Cavallotto

Il concetto di eterodossia/eresia sotto il profilo storiografico si presenta problematico, poiché viene riferito ad una persona/movimento religioso e alle sue dottrine in quanto “devianti” rispetto ad un altro movimento/istituzione magisteriale della medesima tradizione religiosa. Ciò significa assumere come criterio di lettura di un fenomeno storico una categoria squisitamente teologica o valoriale (nel senso di un punto di vista relativo ad una struttura consolidata di valori, credenze, dogmi), qual è appunto quella dell’ortodossia rivendicata in definitiva dalla parte religiosa dominante o vincente rispetto a ciò che essa giudica eterodosso/eretico. Peraltro, nell’accezione negativa, il termine è usato in maniera interscambiabile: nel conflitto sulla fedeltà alla dottrina ogni parte in causa ritiene la propria interpretazione corretta/ortodossa, che altri all’opposto stigmatizzano come eretica, e viceversa eterodossa quella degli avversari (così i cattolici vedevano nel protestantesimo un’eresia, mentre i riformatori bollavano il cattolicesimo come tradimento della dottrina evangelica). Qui opteremo per una posizione storiografica per così dire “tradizionale”, astenendoci ovviamente da ogni giudizio di valore, ed indicheremo come eterodossi/ereticali quei movimenti cristiani che l’istituzione ecclesiastica “superiore” (concili, papi, gerarchia cattolica) ha additato come tali, condannato con sanzioni ecclesiastiche e combattuto perfino con l’impiego di mezzi coercitivi statali, inclusa la pena di morte. Ancora un limite di questa rassegna è dover operare una scelta in un arco di tempo fin troppo vasto (secc. II-XIX) tra pochi movimenti e figure maggiormente rappresentativi e con un’attenzione quasi esclusiva a quelli legati al territorio “italico”. Ovviamente saranno lasciati fuori anche quei fenomeni di natura puramente scismatica in quanto attinenti più alla disciplina ecclesiastica che non alla dottrina. C’è da rilevare infine come nella stessa comunità dei discepoli di Cristo il concetto di haìresis subisce lungo la storia modifiche non marginali in senso negativo e spregiativo in concomitanza con lo sviluppo del termine ekklesia, a cui viene abitualmente contrapposto (Schlier), dando vita ad un sistema di provvedimenti sempre più marginalizzanti e punitivi, dall’ oportet et haereses …esse di 1 Cor 11,19 fino al reato sociale di eresia, previsto dalla legislazione statale post-costantiniana e di “Ancien Régime”.

Nei primi secoli della storia cristiana è in particolare Roma il luogo dove si sviluppano movimenti eterodossi. Così nel II secolo si fa strada lo gnosticismo dell’egiziano Valentino (†154-160 ca.). Nei quasi vent’anni di permanenza nella capitale dell’impero questi, a servizio come diacono dei pontefici Igino, Pio e Aniceto e aspirante persino all’episcopato, vi fonda un’originale e importante scuola, in cui insegna a rileggere i dati della fede cristiana alla luce di una speculazione teosofica a sfondo mitico. C’è da dire che non è facile stabilire il pensiero di Valentino per i pochi frammenti rimastici dei suoi scritti, ma anche per l’evoluzione/modificazione a cui è stato sottoposto ad opera dei discepoli. Personalmente sembra interessato in prevalenza per il destino privilegiato degli «spirituali» e per la loro redenzione operata dal Logos. I suoi seguaci, divisi in “scuola italica” e “scuola orientale” e forniti di grande acribia teologica, sono fautori della continuità dell’economia della salvezza, dalla creazione all’escatologia, dell’inconoscibilità di Dio, del dualismo tra mondo spirituale e mondo materiale, risultato quest’ultimo della degradazione di un essere divino (Sofia), della triplice divisione (non scelta da loro) degli uomini in materiali, psichici, spirituali, e dell’attesa di uno o più redentori capaci di illuminare gli gnostici sulla loro identità divina. Una concezione, in cui teologia, cosmogonia e antropologia si fondono e che ben presto suscita le preoccupazioni della gerarchia: Valentino viene scomunicato più volte prima di lasciare Roma per Cipro. Contro i valentiniani si rivolgerà soprattutto l’attacco polemico di Ireneo di Lione (†202).

Negli stessi anni è attivo nella capitale un altro capo-scuola, l’orientale Marcione (†160 ca.). Già scomunicato dal padre, vescovo di Sinope, nel 144 entra in conflitto con la chiesa romana sull’interpretazione di Paolo e la dottrina dei due déi, uno vendicativo dell’AT (da rigettare assieme alla bibbia vetero-testamentaria) e l’altro buono e misericordioso del NT. A suo giudizio il canone neotestamentario va ristretto al solo vangelo di Luca e alle Lettere paoline, in cui scorge la novità liberatrice dalla Legge mosaica. In Cristo, poi, non c’è alcuna unione sostanziale tra persona divina e natura umana, essendo quest’ultima corruttibile e causa del male. La morale marcionita è basata su un’ascesi molto rigorosa e sul disprezzo del piacere carnale fino alla rinuncia del matrimonio e della procreazione, onde evitare la continuazione del mondo decaduto. Alla dottrina di Marcione si oppongono bene presto gli autori dei Prologhi ai Vangeli, l’apologista Giustino (†165), il dotto e pugnace presbitero romano Ippolito († II-III sec.), Rodone l’Asiano e nel III secolo Tertulliano († II-III sec.). Nonostante tali confutazioni, la corrente marcionita continua a sopravvivere per qualche tempo affiancata da una nuova tendenza carismatica e rigorista costituita dal Montanismo, condannato a sua volta da papa Zefirino (†217).

Tra II e III secolo sempre nell’«Urbe reale», divenuta crogiuolo di controversie dottrinali, si diffonde ad opera di Prassea (†II-III sec.) la dottrina del “monarchianismo”, il cui primo esponente conosciuto è Noeto di Smirne, vescovo di una città dell’Asia Minore, condannato da un sinodo locale. Alla sua base c’è l’unità («monarchia») del concetto di Dio che, di conseguenza, comporta la negazione della Trinità (per i «Patripassiani» e i «modalisti» è il Padre a soffrire sulla croce sotto il nome del Figlio, essendo questi nomi dei semplici epiteti o «modi» che servono a qualificare Dio a seconda delle circostanze) e della natura divina di Cristo. Gli stessi papi Zefirino e Callisto (†222) vi aderiscono, ma con prudenza. Proprio perciò il dibattito fra i «monarchiani» e i loro avversari, come Giustino (†162/168), definiti i «teologi del Logos» e accusati dai primi di «subordinazianismo» (il Figlio è subordinato al Padre, e lo Spirito santo ad ambedue), conosce nella capitale una grande effervescenza fino a coinvolgere l’intero orbe cristiano. Dibattito che provoca un contrasto tra Ippolito, futuro martire nel 235, e il presbitero Callisto, che nel 217 verrà eletto papa, dagli effetti rovinosi per la comunità romana. Ad ogni buon conto, non risulta che Prassea abbia subìto alcuna persecuzione o condanna da parte dei pontefici Vittore I (†199) o Zefirino. Occorre dire che contro di lui, anti-montanista convinto e ispiratore della scomunica papale contro il «profeta dello Spirito», si scaglia in maniera non sempre obiettiva Tertulliano (Adversus Praxean), accusandolo di anti-trinarismo. Per confutare le posizioni «monarchiane» si mobilita col trattato De Trinitate anche Novaziano (†258), un dotto presbitero romano che nel 251 dà origine ad uno scisma nella chiesa della capitale (contro l’elezione di papa Cornelio si fa consacrare vescovo di Roma) all’insegna di un rigorismo di origine stoica contrario alla riammissione nella chiesa degli apostati e dei lapsi pentiti. Lo scopo ultimo della “setta” novaziana è di costituire una chiesa rigidamente fatta di “santi” e di “puri” (katharoi).

Più ampio è lo scenario “italico” in cui tra il IV e V secolo si svolge la vicenda dell’arianesimo. Nel quadro del dibattito sui rapporti tra Padre e Verbo incarnato, Ario (†336) sostiene una cristologia ispirata al medioplatonismo e orientata verso una sorta di «adozionismo» e «subordinazionismo»: il Figlio ha un inizio, è la prima creatura di Dio, è mutevole ed alterabile, di conseguenza non ha un natura divina come il Padre né può godere degli attributi divini, quali l’eternità e l’essere ex-Deo. Ben presto simile concezione si diffonde soprattutto ad Alessandria e nella zona medio-orientale dell’impero, provocando tensioni e controversie tra le stesse gerarchie locali (alcuni vescovi si schierano a favore di Ario) al punto che Costantino (†337), fallita ogni possibile ricomposizione, nel 325 affida ad un concilio ecumenico la soluzione della controversia: a Nicea la dottrina di Ario viene condannata ed è approvato un “simbolo di fede” che definisce il Figlio homoousios (della stessa sostanza) col Padre. L’arianesimo però continua ad avere difensori influenti, come il vescovo di Nicomedia Eusebio (†341) e soprattutto l’imperatore Costanzo II (†361), ma anche a fare vittime illustri tra gli oppositori, basti ricordare Atanasio (†373), inflessibile sostenitore della fede nicena. Un secondo concilio ecumenico nel 381 sotto Teodosio I (†395), celebrato a Costantinopoli, conferma il simbolo e la condanna nicena, ma senza per questo riuscire a debellare l’arianesimo, che anzi sopravvive tra le tribù germaniche e per un certo periodo nella stessa capitale della corte imperiale occidentale. A Milano, infatti, già dal 355 col sostegno dell’imperatrice Giustina è vescovo il filo-ariano Aussenzio (†374), il cui potere non viene scalfito neppure dalla scomunica del 369, fulminatagli da papa Damaso (†384). Cinque anni prima contro la sua doppiezza si è scagliato pubblicamente Ilario di Poitiers (†367) nel Liber contra Auxentium. La presenza ariana a Milano non cessa neppure con la morte del vescovo, ma diventa al contrario più aggressiva sotto l’episcopato ambrosiano. Strenuo difensore della fede nicena, Ambrogio (†397) deve scontrarsi più volte con i seguaci di Aussenzio. Il successo definitivo verrà con le delibere dei sinodi anti-ariani di Aquileia (381) e Roma (382), convocati sotto la sua regia dall’imperatore Graziano (†383), e più tardi con l’intervento risolutivo di Valentiniano II (†392), passato dall’arianesimo alla fede ortodossa.

Di minore impatto è la presenza del manicheismo in Italia. Occorre dire che al tempo del lungo pontificato di papa Damaso (†367) nell’Urbe pullulano diversi movimenti settari: ci sono i seguaci dell’antipapa Ursino e poi quelli orientati alla gnosi e ancora i fautori di nuove controversie disciplinari, come il gruppo rigorista legato al vescovo Lucifero di Cagliari (detti «luciferiani», contro cui Girolamo scrive l’ Altercatio Luciferiani et Orthodoxi). Ci sono pure due comunità, guidate ciascuna da un proprio vescovo e ispirate all’intransigenza e alla severità, quella dei donatisti e l’altra dei manichei. Di quest’ultima è Episcopus alla fine del IV secolo Fausto di Milevi, autore di un’apologia del manicheismo duramente attaccata da Agostino (†430) nel ponderoso Contra Faustum Manicheum libri 33. Fondata dal persiano Mani (†277) tale corrente religiosa si era presentata nell’Occidente cristiano come una sorta di sincretismo di dottrine giudeocristiane e indoiraniche. Il suo fondamento teorico era un rigido dualismo, che non ammette nessun rapporto tra bene e male, tra il Dio della luce e il non-dio delle tenebre; nel mondo questi due princìpi si trovano insieme in una mescolanza nefasta dei contrari perennemente in lotta tra loro. L’organizzazione, caratterizzata da una forte gerarchizzazione dei membri (uditori, eletti, anziani, vescovi, ecc.), presentava uno schema di gradi da percorrere nel cammino della redenzione con esigenze crescenti. Condannato varie volte dalle autorità ecclesiastiche come setta “dualistica”, il manicheismo è bandito dall’impero nel 382 da Teodosio I su sollecitazione di papa Siricio (†399).

Nel novero delle “deviazioni” dottrinali occorre includere, seguendo la lettura polemica datane da Agostino, quella che fa capo a Pelagio (†420 ca.), un monaco, oriundo della Britannia ma a lungo residente nella capitale. Divenuto maestro di vita cristiana molto ascoltato negli ambienti colti ed aristocratici, insegna a riconoscere il bonum naturae (possibilità naturale di evitare il male e compiere il bene) e ad apprezzare come grandi doni di Dio la ragione e il libero arbitrio, fondamento necessario della vita morale. L’apporto della rivelazione (Legge mosaica ed esempio di Cristo) consiste a suo giudizio solamente nel facilitare la realizzazione del bene e il raggiungimento della perfezione. La discussione causata da queste posizioni si accende oltremisura anche per i numerosi interventi del vescovo di Ippona sulla questione della grazia, trascinando nello scontro personalità illustri. Pur non mancando di sostenitori tra l’episcopato italico, Pelagio è costretto dapprima ad emigrare e quindi a subire gli anatemi dei Sinodi di Cartagine e Milevi (416) e dei papi Innocenzo I (417) e Zosimo (418). Contro i pelagiani arriva nel 431 la condanna per eresia del Concilio ecumenico di Efeso e si scatena la persecuzione dell’imperatore Teodosio II (†450), che bene presto porterà alla loro scomparsa.

Tra VIII e IX secolo si accende soprattutto nell’Oriente bizantino un’offensiva contro le immagini sacre (iconoclastia), nata per motivi politico-culturali e ben presto sfociata nell’eresia. Nel 730 Leone III Isaurico (†741) ordina la distruzione delle icone e la impone con editto imperiale come dottrina ufficiale, provocando così una prima condanna del sinodo romano convocato da papa Gregorio III nel 731. Ma è con i decreti di Ieria (Calcedonia) del 754, sottoscritti da un gran numero di vescovi fedeli alla politica di Costantino V Copronimo (†775) e giustificati sulla base delle proibizione vetero-testamentarie e di rare invettive patristiche contro l’abuso delle immagini, che l’iconoclastia divampa, scatenando atti di vandalismo e cruente persecuzioni in particolare contro i monaci iconofili; decreti iconoclasti che l’imperatrice Irene (†802) riesce a fare annullare e condannare in quanto fautori di una “perniciosa eresia” dal II Concilio ecumenico di Nicea del 787: qui i vescovi dichiarano all’unanimità dottrinalmente legittimo il culto delle immagini, mettendo però in guardia dal rendere loro la latria dovuta soltanto a Dio. Papa Adriano I (†795) approva la dottrina di Nicea e la difende in Occidente contro gli attacchi dei teologi di Carlo Magno. Ancora un rigurgito dell’eresia iconoclasta si scatena con Leone V l’Armeno (†820) nell’815, quando un sinodo da questi riunito a Santa Sofia approva una serie di decisioni contro la venerazione delle immagini e contro gli iconofili (vescovi e monaci), costretti perciò ad andare in esilio. La rabbia iconoclasta giunge al suo parossismo sotto il patriarcato costantinopolitano di Giovanni il Grammatico, maestro dell’imperatore Teofilio (†842). Con Teodora Armena (†867), però, un sinodo locale torna a legittimare il culto delle immagini e ad anatemizzare i suoi avversari (a perenne ricordo di tale avvenimento viene istituita la «grande festa dell’ortodossia» tuttora celebrata nella I domenica di Quaresima). Il tema dell’iconoclastia ha il suo epilogo nel quadro della controversia foziana con ripetute condanne, in particolare al concilio romano (canone VI) dell’863 e al concilio ecumenico Costantinopolitano IV (869/70) (canone III). Il problema si riproporrà in Occidente nel XVI secolo a causa degli attacchi dei riformatori protestanti contro il culto delle immagini, specialmente in seno al Calvinismo, ai quali risponde il concilio di Trento, approvando nel 1563 il decreto De invocatione, veneratione et reliquiis sanctorum et de sacris imaginibus.

Sempre in epoca carolingia inizia in Occidente con Pascasio Radberto (†850) (Liber de corpore et sanguine Domini), Rabano Mauro (†856) e Ratramno (†868 ca) un’altra controversia dottrinale relativa all’eucarestia, che nel XI secolo porterà alla vicenda di Berengario di Tours (†1088 ca). Questi, in un momento di estrema confusione nel linguaggio teologico e facendo leva sulla dialettica, difende contro ogni forma di realismo una concezione simbolica del sacramento dell’altare (le due specie eucaristiche sono «non il vero corpo e il vero sangue, bensì figura ed immagine [similitudo]»), attirandosi per questo le condanne di vari sinodi locali (Parigi [1051], Tours [1055], Roma [1059], Poitiers [10575]) e contravvenendo così alla formula romana da lui firmata nel 1079. In tale data, infatti, un concilio riunito a Roma da Gregorio VII (†1085) definisce per la prima volta il concetto di transustanziazione come spiegazione dottrinale del mistero eucaristico («il pane e il vino sull’altare, grazie al mistero della preghiera santa e delle parole del nostro Salvatore, vengono sostanzialmente trasformati nel corpo e nel sangue del Signore Gesù Cristo»). Quasi a conferma di tale spiegazione le cronache locali registrano in Italia alcuni eventi prodigiosi intorno alla presenza reale di Cristo nelle specie consacrate, basti ricordare i miracoli eucaristici di Lanciano (750), di Ferrara (1171), di Alatri (1228), di Bolsena-Orvieto (1263). Una dottrina della transustanziazione, a cui l’incipiente teologia scolastica dà una formulazione definitiva e un fondamento decisivo, ma che nel XVI secolo troverà una radicale contestazione nella Riforma protestante. Così Lutero (†1546) la rigetta come non biblica e mera opinione delle scuole, pur continuando a credere nella presenza “reale” di Cristo nel pane e nel vino della S. Cena e prendendo su questo le distanze nel Colloquio di Marburg del 1529 dall’interpretazione simbolica di Zwingli (†1531); interpretazione simbolica che di fatto è sostenuta anche da Calvino (†1564) e dalle altre comunità evangeliche. Parimenti sulla messa intesa come sacrifico il rifiuto dei protestanti è netto ed univoco: per essi è un «abuso idolatrico» che trasforma il memoriale dell’unico sacrificio di Cristo in una «vergognosa nuova crocifissione». Contro tali posizioni giudicate eterodosse si pronuncia il concilio di Trento nel decreto De sanctissimo eucharestiae sacramento (sessione XIII, 1551) e in quello relativo al sacrifico della messa (sessione XXII, 1562) con i rispettivi canoni di anatema sit: si torna a ribadire la dottrina della transustanziazione per spiegare la presenza reale e quella sulla natura sacrificale propria della messa da considerare non come un nuovo sacrifico ma rinnovazione incruenta dell’unico sacrifico di Cristo sulla croce ad opera delle parole consacratorie pronunciate dal sacerdote in persona Christi.

Correnti eterodosse sorgono anche nell’Italia medievale, diverse tra loro ma con elementi comuni e nuovi rispetto all’evo antico, quali il carattere popolare e laicale (in opposizione alla chiesa clericale), la forte vocazione alla profezia e alla predicazione itinerante, l’impegno per un radicale ritorno della chiesa al modello apostolico e all’Evangelo del Cristo povero sulla base di idee religiose non sempre conformi al sistema dottrinale consolidato e sovversive rispetto all’assetto politico-religioso della societas christiana post-costantiniana. In quest’ottica nasce poco dopo la metà dell’XI secolo in seno alla diocesi di Milano un movimento detto spregiativamente la Pataria (patè=straccione?) con l’obiettivo di combattere la simonia e il concubinato del clero attraverso una riforma morale e disciplinare e di instaurare una chiesa più fedele alla forma evangelii in linea con la riforma già portata avanti dai cluniacensi (si ricordi il sinodo riformatore celebrato in Laterano nel 1059 dal cluniacense papa Nicolò II). Accanto ai fratelli Landolfo ed Erlembaldo Cotta, appartenenti a famiglia feudale e responsabili dell’assetto politico militare dei gruppi patarinici, promotore principale della Pataria è il diacono Arialdo (†1066): il suo attacco violento a preti e vescovi concubini e simoniaci (stigmatizza la simonia come la più perniciosa «eresia» della chiesa milanese) è all’origine di una prima insurrezione popolare nel 1057 contro la nomina imperiale – giudicata frutto di compra-vendita – a vescovo della sede ambrosiana di Guido di Velata, seguita dalla più vasta rivolta del 1066 estesa alle altre città dell’Itala settentrionale. Un forte impulso al movimento patarinico è dato nel 1061 dall’elezione a papa col nome di Alessandro II di un suo simpatizzante, Anselmo da Baggio. E tuttavia nel 1066 Erlembaldo e Arialdo sono trucidati dai sostenitori del clero ambrosiano filo-imperiale (e da quel momento venerati dai patarini come santi martiri), mentre dopo l’elezione di Gregorio VII (†1085) il conflitto, che in Lombardia si è trasformato in guerra civile, si ricompone confluendo nel più vasto orizzonte della lotta per le investiture. C’è da dire che solo più tardi il termine patarino diventerà sinonimo di eretico – ad attestare come l’assestamento della riforma porti con se l’eliminazione di ogni radicalismo religioso – forse anche per assonanza tra pataro e cataro («Cathari seu Paterini»). Un movimento, questo dei catari, presente tra XI-XIII secolo con gruppi e comunità nell’Europa centrale ed occidentale (Albigesi), strettamente legato ai Bogomili della Tracia e ancor prima al manicheismo tardo-antico con una forte connotazione pauperistica. Il loro sforzo di vivere rationabiliter la legge del Vangelo li porta a leggere le Scritture neotestamentarie secondo il principio dualistico di Mani (bene/male; luce/tenebre; Dio/Mammona), seppure con una visione morale fondata sul volontarismo e non sul determinismo manicheo. Organizzati in chiese composte da due ceti distinti, i perfecti (obbligati ai doveri morali e ascetici) e i credentes (sciolti da questo obbligo), e con una propria gerarchia, sono radicalmente nemici della «Babilonia romana». Comunità catare e albigesi operano nell’Italia settentrionale e centrale già a partire dagli inizi del secolo XI e fino al secolo XIII, quando su di loro si abbattono, oltre alle crociate del 1209 e del 1229, i decreti di condanna di papa Lucio III (1184) e del concilio Lateranense IV (1215) e la repressione dell’Inquisizione (1230-1255). Il medesimo anatema conciliare del 1215 è scagliato anche contro i Valdesi – un altro movimento pauperistico e anti-istituzionale con forte propensione alla predicazione itinerante, originato dal commerciante lionese Valdo, ben diverso però dal catarismo ancorché ad esso erroneamente assimilato dalla censura romana –, e nei confronti degli «errori» trinitari dell’abate calabrese Gioacchino da Fiore (†1202), profeta della «terza età dello Spirito» e di una «palingenesi» spirituale. Le attese escatologiche gioachimite e le interiorizzazioni spirituali di fronte alla mondanità e corruzione della chiesa gerarchica si fanno sempre più vive specialmente nel mondo dei «mendicanti», convinti come sono di essere il segno della «pienezza dei tempi». Ed è in particolare la fraternità francescana degli «spirituali» tra XIII e XIV secolo con Pietro di Giovanni Olivi (†1298), Ubertino da Casale (†1330) e Angelo Clareno (†1337), per ricordare solo alcuni nomi della folta schiera, ad alimentarle e veicolarle nei vari territori e comunità ecclesiali dalla Francia meridionale al Sud-Italia. Una fraternità dal cui interno si sviluppano anche posizioni ancor più estremiste, accusate e condannate con severità dalla gerarchia ecclesiastica per eresia, immoralità e sedizione, come il movimento dei Fraticelli e degli Apostolici/Dolciniani. I primi, diversamente dagli «spirituali» rimasti nella chiesa, sono gruppi separati di francescani presenti in alcune parti dell’Italia e in Provenza, che per le loro aspre critiche alla «carnalità» della chiesa clericale si attirano l’inesorabile persecuzione e scomunica (1323) di Giovanni XXII e pur di rimanere fedeli all’ideale della povertà radicale, da estendersi a loro giudizio alla stessa dirigenza ecclesiastica (papa, curia, vescovi), arrivano a ripudiare l’autorità dei superiori e della gerarchia. Sempre sulla questione della povertà e della vita comune si è consumato qualche decennio prima il destino degli Apostolici guidati inizialmente da fra Gerardo Sigarelli di Parma e dopo la sua morte da fra Dolcino. I fratres et sorores apostolicae vitae sono intenzionati a rinnovare la vita francescana riproducendo il genere di vita degli apostoli quanto a predicazione, abito e libertà spirituale, ma al di fuori di ogni schema e di ogni struttura. Gli abusi e le stranezze conseguenti a tale impostazione “libertaria” anche a riguardo della sessualità allarmano il vescovo locale che alla fine li condanna e mette al rogo il suo fondatore, Gerardo. La medesima sorte tocca a Dolcino, arso vivo a Vercelli nel 1307 come eretico in quanto predicatore appassionato, in linea con la profezia gioachimita, dell’avvento dell’età nuova dello Spirito, che avrebbe portato alla sconfitta di Bonifacio VIII e alla propria elezione a pontefice (il «papa spirituale»). All’ideale del “liberismo” evangelico si indirizza pure la corrente dei Fratelli del libero spirito, nata nelle Fiandre e nella Renania e diffusasi anche nel Settentrione d’Italia e soprattutto in Umbria ad opera del francescano Bentivenga da Gubbio (†1319/33). Molto vicina alla dottrina di Almarico di Béne (†1206/7) («almariciani») già condannata da Innocenzo III (†1216), la «comunità del libero spirito» rivendica l’indipendenza dall’autorità ecclesiastica e la possibilità di vivere secondo una vita apostolica (comunanza di beni, fraternità, ugualitarismo) in forza dell’effusione dello Spirito ricevuta. Concretamente proclama che il credente, una volta raggiunto lo stadio dello «spirito libero» attraverso rinunce e penitenze, venga affrancato da ogni legge morale e dalla stessa possibilità di peccare. A tale filone “dissidente” appartiene la mistica beghina Margherita Porete, bruciata a Parigi nel 1310 come eretica assieme al suo libro Le miroir des simples âmes. L’anno dopo la “setta” dei Fratelli è condannata da Clemente V e Rainerio, vescovo di Cremona, è nominato inquisitore nella valle di Spoleto al fine di estirpare l’eresia.

Nel Quattrocento e soprattutto nel Cinquecento l’eterodossia si collega in modo quasi esclusivo a correnti di pensiero e a movimenti ecclesiali paladini di una reformatio ecclesiae in capite et in membris secondo l’Evangelo “nuovamente riscoperto” e sfociati in parte nella contestazione radicale e persino nel rifiuto dell’assetto istituzionale della chiesa “papista”. Possiamo menzionare in proposito l’ecclesiologia “rovesciata” di Marsilio da Padova (†1342), le cui tesi del Defensor pacis antitetiche alla ierocrazia papale dell’Unam sanctam di Bonifacio VIII sono condannate da Giovanni XXII, e inoltre le cosiddette “eresie nazionali” di John Wycliff (†1383) e Jan Hus (†1415), apostoli di un’ecclesia spiritualis o congregatio praedestinatorum senza clero, senza papato e fondata unicamente sulla Scrittura e per questo anatemizzati dal Concilio di Costanza (Hus è bruciato nella città conciliare nel 1415) e ancora le invettive di Girolamo Savonarola (†1498) contro Alessandro VI che perciò lo scomunica nel 1497 e l’anno dopo lo lascia impiccare e bruciare sul rogo in piazza della Signoria a Firenze come «eretico, scismatico e per aver predicato cose nuove». Anche la [→] Riforma protestante di Lutero (†1546), Zwingli (1531), Calvino (†1564), Bucer (†1551), che pure parte dall’assunto della giustificazione per fede (sola fide, sola gratia, solus Christus) e dal sola Scriptura come principio di verità, finisce per contestare la pretesa inerranza del magistero ecclesiastico solenne (papa e concili) e negare sostanzialmente la natura gerarchica della chiesa e la sua dimensione di istituzione visibile e giuridica a favore di un’ecclesia spiritualis quale congregatio sanctorum (o praedestinatorum), in qua evangelium pure docetur et recte administrantur sacramenta e per la cui unità è sufficiente l’accordo sull’insegnamento del Vangelo e l’amministrazione dei sacramenti (Confessio Augustana VII); una chiesa, in ultima analisi, che non si identifica con il “regno visibile” del papa-Anticristo. A ben vedere, è per l’impossibilità di un accordo sulla dottrina ecclesiologica che di fatto falliscono tutti i tentativi di riunificazione messi in atto da Carlo V (Colloqui di Religione 1539-41), anche se il concilio di Trento (1545-1563) pronuncerà l’anatema sulle singole “eresie” dei “novatores”. Lo stesso evangelismo dei circoli valdesiani e del riformismo cattolico, attivo in Italia assieme alle varie esperienze collegate alla Riforma protestante d’Oltralpe a cominciare dai Valdesi, propone un’“interiorizzazione” cristocentrica della vita cristiana ed una implicita riforma istituzionale della chiesa, ugualmente condannate dall’Inquisizione romana. Il controllo sempre più ferreo in materia dottrinale da parte del Sant’Uffizio post-tridentino, oltre a ridurre i pochi spazi rimasti al libero pensiero e a rafforzare una massiccia opera di “disciplinamento”, dà vigore ad una prassi di sospetti generalizzati di eterodossia con lo scopo di tenere sotto scacco gli indiziati, assoggettandoli a volte persino con la violenza. Sotto la sua azione censoria cadono nel XVII secolo personaggi illustri dell’orizzonte culturale italiano, come Galileo Galilei (†1633), Giordano Bruno (†1600), Tommaso Campanella (†1639), assieme a movimenti che dal loro pensiero prendono origine. La nota vicenda del processo e della condanna dell’astronomo pisano, incolpato di mettere in dubbio la verità della Scrittura perché favorevole alla teoria eliocentrica, si conclude nel 1633 con un’abiura forzata. Più drammatica è la sorte del domenicano di Nola messo al rogo a Campo de’ Fiori nel 1600. Giordano Bruno, ammiratore di Copernico e della teoria sull’infinità dell’universo, è accusato da cattolici, calvinisti e anglicani di attentare alla concezione di un Dio creatore e personale (in sostanza di cadere nel panteismo), di considerare la conoscenza pura illuminazione e trasporto amoroso e non invece frutto della ragione e della scienza, di ridicolizzare il cristianesimo come religione rivelata, riducendolo a freno morale del popolo, e in ultima analisi di disprezzare l’«autorità dei Santi Padri».

Tra Sei-Settecento è il giansenismo ad essere colpito dalla censura romana con la bolla di Clemente XI Unigenitus del 1713; un movimento in verità molto complesso, perché dottrinale, politico ed ecclesiastico, diffuso in gran parte dell’Europa e con sostenitori di primo piano nel panorama cattolico del tempo (oltre al vescovo Cornelius Jansen, Saint-Cyran, il monastero cistercense di Port-Royal, gli Arnauld, Pascal, Quesnel), che, professando un agostinismo radicale, riafferma la totale soggezione dell’uomo alla concupiscenza dopo il peccato originale (solo la grazia divina gli permette di compiere opere buone) e predica una morale rigoristica ed elitaria (la grazia diventa vincente solo con una rinuncia totale di sé ed una perfetta conformità alla volontà di Dio). La sua influenza in Italia è abbastanza limitata. Per promuoverlo Pietro Tamburi (†1827) e Scipione de’ Ricci (†1810), vescovo di Prato-Pistoia, col sostegno del granduca Pietro Leopoldo nel 1786 riescono ad organizzare il Sinodo di Pistoia, condannato da Pio VI cinque anni dopo con la bolla Auctorem fidei.

Di pensatori e movimenti “non conformisti” è attraversata l’Europa particolarmente con l’avvento della stagione illuministica, basti richiamare il Deismo di Antony Collins (†1729), Herman Samuel Reimarus (†1768) e Gotthold Ephraim Lessing (†1781) e l’“anti-cristianesimo” di Bayle (†1706), Diderot (†1784) e Voltaire (†1788), aspramente attaccati da un’apologetica cattolica chiusa in difesa e in alcuni casi dagli interventi punitivi del Sant’Uffizio e dell’Indice. Ma il “dissenso” attraversa anche le fila dei cattolici intransigenti: Félicité de Lamennais (†1854), passato dall’ultramontanismo ad un vago socialismo cristiano, difende i principi del liberalismo religioso e politico, ivi compresa la libertà di coscienza, e sostiene la necessità di una riforma della chiesa, ma viene raggiunto dalla condanna della Mirari vos (1832) di Gregorio XVI, per cui decide di uscire definitivamente dalla chiesa e dare inizio ad un’opera di democratizzazione del cristianesimo a sfondo sociale basato sul carattere razionale-filosofico della religione. In Italia nel 1849 sono posti all’Indice per sospetto di errori dottrinali, ma in realtà per ragioni politiche (cinque anni dopo saranno «dimessi» alla lettura del pubblico), due scritti di Antonio Rosmini-Serbinati (†1855): Delle cinque piaghe della Chiesa e La costituzione secondo la giustizia sociale. L’impegno del teologo di Rovereto, in realtà molto apprezzato dai papi del tempo, è rivolto certo alla riforma della chiesa (liturgia, formazione sacerdotale, unità dei vescovi e loro nomina), ma soprattutto a contrastare l’illuminismo anticristiano attraverso il «risanamento della ragione» (progetta un’Enciclopedia cristiana da opporre a quella francese) e la rigenerazione della teologia riportata ad una maggiore visione unitaria. I sospetti sulla sua ortodossia, tuttavia, ritornano dopo la sua morte e Rosmini è nuovamente «condannato, riprovato e proscritto» dall’Inquisizione romana nel 1887 (il suo pensiero sarà rivalutato e lui sarà beatificato nel 2007). Nelle prime decadi del secolo XX toccherà al modernismo essere oggetto di censura e di persecuzione da parte del Sant’Uffizio.

In definitiva, la possibilità di errori dottrinali e la necessità di individuarli e debellarli sono in un certo senso connaturali al cristianesimo inserito nella storia. C’è da dire, però, che dopo il Vaticano II (1962-65) l’organismo preposto a questa funzione, la Sacra Congregazione per la dottrina della fede, non ha più il compito di “perseguire le eresie e … reprimere i delitti contro la fede” secondo lo statuto del 1542, ma più positivamente di “difendere la fede” promuovendo la dottrina “in modo che, mentre si correggono gli errori e soavemente si richiamano al bene gli erranti, gli araldi del vangelo riprendono nuove forze”.

Fonti e Bibl. essenziale

K. Rahner, Che cos’è l’eresia, Paideia, Brescia 1964; L. Cristiani, Breve storia delle eresie, Milano 1960; AA. VV., Eresia ed eresiologia nella Chiesa antica, Roma 1985; M. Simonetti, Ortodossia ed eresia tra I e II secolo, Soneria Mannelli (Cz) 1995; G. Filoramo, L’attesa della fine. Storia della gnosi, Laterza, Roma-Bari 1993; M. Simonetti, La crisi ariana del IV secolo, Roma 1975; U. Bianchi, Antropologia e dottrina della salvezza nella religione dei Manichei, Roma 1987; R.F. Evans, Pelagius: Inquiries and Reappraisals, New York-London 1968; G.G. Merlo, Eretici ed eresie medievali, Il Mulino, Bologna 1989; P. Golinelli (a cura di), La Pataria. Lotte religiose e sociali nella Milano dell’XI secolo, Milano 1984; G. Rottenwöhrer, Der Katharismus, 2 Bde., 4 T., Bad Honnef 1982; N.D. Power, Il mistero eucaristico: infondere nuova vita alla tradizione, Queriniana, Brescia 1997; R. Iaria, I miracoli eucaristici in Italia, Ed. Paoline, Milano 2005; A. Besançon,  The Forbidden Image: An Intellectual History of Iconoclasm, Chicago 2009; E. Iserloh, Compendio di storia e teologia della Riforma, Morcelliana, Brescia 1990; P. Zovatto, Introduzione al Giansenismo italiano (appunti dottrinali e critico bibliografici), Trieste 1970; A. Giordano, Rosmini e Lamennais. Fede e politica, Stresa 1989.


LEMMARIO




Europa - vol. I


Autore: Elena Valeri

L’Europa è un territorio che comprende numerosi Stati, caratterizzati da regimi politici, assetti   economici e sociali, lingue, confessioni religiose, tradizioni e costumi diversi tra loro. Accanto a tale varietà, però, l’Europa presenta anche una pronunciata omogeneità culturale e civile che è maturata attraverso prove plurisecolari e che accomuna le differenti popolazioni stanziate in quelle regioni.

Se di una “coscienza europea” si può parlare a partire dall’età moderna, l’idea che l’Europa fosse una unità geografica e storica affonda le sue radici nel pensiero greco, e non solo perché la denominazione del continente discende da un personaggio della mitologia ellenica. Le opere di Erodoto, Isocrate, Aristotele rappresentano una fase di elaborazione fondamentale di alcuni dei concetti e dei valori destinati a rimanere più a lungo connessi con questa idea. Nella contrapposizione che segnò la storia dei rapporti tra le poleis greche e l’impero persiano, e successivamente nell’età di Alessandro Magno, si andò affermando il senso di uno scontro dai connotati politico-culturali, oltre che militari, nonostante la Grecia avesse un’estensione territoriale a cavallo tra l’Europa, che presso i geografi greci aveva limiti mutevoli e non chiaramente definiti, e l’Asia, paese del sol levante. Al modello greco delle città-stato si oppone quello dei regimi dispotici asiatici, i cui sudditi vengono rappresentati come moralmente deboli, destinati a soccombere dinanzi alla forza d’urto degli impetuosi eserciti ellenici. Il mondo romano eredita sostanzialmente questa visione di un’opposizione tra Occidente e Oriente, le leggi contro l’arbitrio, la civiltà contro il disordine, nonostante in età ellenistica le ragioni di tale antitesi si fossero attenuate e avesse finito per prevalere una concezione ecumenica. Quando Roma assume chiaramente il ruolo di centro politico, evidenziando una nuova distanza con l’Asia, l’idea d’Europa, che nella cultura latina ha per lo più un significato geografico o amministrativo (si pensi alla provincia d’Europa in Tracia), recupera appieno la pregnanza simbolica che aveva per i greci in età prellenistica arricchita di quella che l’Occidente aveva presso i Romani.

Tra il IV e il V secolo d.C. Agostino d’Ippona delinea una ripartizione occidentale e orientale del globo: «Si in duas partes orbem dividas, Orienti et Occidentis, Asia erit una, in altera vero Europa et Africa» (De civitate Dei, XVI, 17). Tuttavia, l’Occidente non appare solo come una regione del mondo, ma un luogo di civiltà in un’ottica di contrapposizione tra i barbari e quanti non lo sono, cioè i romani. Prima di cadere sotto i colpi delle invasioni dei popoli germanici, gli abitanti dell’impero romano erano stati in gran parte convertiti al cristianesimo. Dinanzi alla frammentazione politica dell’impero, la Chiesa si presenta come la sola istituzione unitaria per i popoli che vivono in Europa. Sebbene Carlo Magno, rex pater Europae, avesse tentato l’impresa di ricostituire l’impero romano difendendo l’unità religiosa dell’Europa anche contro l’espansionismo islamico a nord dei Pirenei, è il papato medievale a offrire alla cristianità l’unità religiosa e culturale venuta meno sul piano politico. Quando, nell’XI secolo, in seguito al Grande Scisma, si spezza l’unità religiosa tra Oriente e Occidente, i limiti geografici della christianitas assumono i contorni di un’area sostanzialmente europea – quella che per Dante Alighieri accoglie l’humanum genus – le cui strade sono rischiarate dalla luce di due soli, i poteri supremi, l’uno temporale, l’impero, e l’altro spirituale, il papato. Alcuni significativi riferimenti all’Europa nell’opera dantesca definiscono, in maniera non sempre coincidente, un ambito geografico – da Costantinopoli, «lo stremo d’Europa» (Paradiso, VI, 5) alle colonne d’Ercole, dalle plaghe nordiche al Mediterraneo – e uno storico-culturale, al cui centro è situata l’Italia.

Sulla scorta dell’identificazione tra Europa e christianitas che si afferma dal XIII secolo, è significativo che, alle origini della prima formulazione in senso moderno dell’idea d’Europa, si trovi un ecclesiastico, Enea Silvio Piccolomini, divenuto papa nel 1458 col nome di Pio II. La sua partecipazione al concilio di Basilea (1431-1449) e i numerosi viaggi come legato – in Boemia, Scozia, Borgogna – gli consentono di raccogliere una messe di notizie e di materiali che successivamente confluiscono in alcune opere storico-geografiche tra cui il De Europa stampato più volte nel corso del XVI secolo, a partire dal 1501. Nelle opere di Piccolomini, che fu anche un insigne umanista, l’appartenenza geografica all’Europa, lacerata nel 1453 dalla conquista turca di Costantinopoli, indica anche una relazione storico-culturale basata sulla contrapposizione con gli “altri” – i persiani, i barbari, gli infedeli – e rafforzata dall’idea della crociata di tutto l’Occidente contro la minaccia musulmana. Una coincidenza, quella tra Europa e Respublica christiana, avvalorata anche da molti umanisti del XVI secolo che, dinanzi al susseguirsi delle lotte intestine nel continente, invocano il principio cristiano della pace: da Erasmo da Rotterdam (Querela pacis, Institutio principis christiani, De bello Turcis inferendo) a Juan Luis Vives (De Europae statu ac tumultibus, sotto forma di lettera al papa Adriano VI nel 1522 e De Europae dissidiis et de bello turcico del 1526), ad Andrés Laguna (Europa heautontimorumene, 1543).

La riflessione di Niccolò Machiavelli (Principe, IV) individua nel tipo di reggimento politico un ulteriore discrimine dell’Europa che, «piena di repubbliche e di principati» (Arte della guerra, II) si distingue anche per questo dai regimi dispotici orientali. La caratterizzazione politica, introdotta da Machiavelli, è destinata a rimanere un punto fermo nella storia dell’idea d’Europa nei secoli successivi. Parallelamente a una maggiore messa a punto cartografica – basti pensare all’impresa di Gerardo Mercatore (1554) – e all’affermazione, in seguito alla scoperta dell’America, di una nuova contrapposizione culturale, si assiste alla stesura e in molti casi alla pubblicazione delle prime storie d’Europa: la Istoria d’Europa (1566) di Pier Francesco Giambullari; la Ex universa historia rerum Europae (1571) di Uberto Foglietta. Alla fine del XVI secolo, nelle Relazioni universali di Giovanni Botero (1596, prima edizione completa) l’Europa appare chiaramente come uno spazio geopolitico e non soltanto come una sommatoria di Stati: «Questo si può ben dire hoggi dell’Europa cioè ch’ella sia piena, e quasi pregna di Dominij, e di Regni […] ella si è divisa in molti principati con tal contrapeso di forza, che non vi è potenza, che se non ha signoria fuor di Europa avanzi immoderatamente l’altre parte» (Delle Relazioni Universali, Venezia 1618, parte seconda, libro I, p. 1).

Queste due idee d’Europa, l’una, già presente nei testi di Enea Silvio Piccolomini, che valorizza gli elementi religiosi e culturali comuni (anche in un confronto continuo con l’Asia), e l’altra di un’Europa come corpo politico, sono destinate a protrarsi sino al Settecento, allorquando, nelle opere dei pensatori illuministi, l’Europa si afferma sempre più come entità civile e morale, distaccandosi dalla concezione della Respublica christiana e dei suoi fondamenti religiosi. Al XVIII secolo risale la prima formulazione di una federazione europea, il Projet de traité pour rendre la paix perpetuelle en Europe dato alle stampe dall’abate Charles de Saint-Pierre tra il 1712 e il 1717, ripreso da Rousseau nel 1758 e successivamente da Kant (Per la pace perpetua, 1795). Tra il 1828 e il 1830 François Guizot (Histoire de la civilisation en Europe) ripercorre nel dettaglio la storia della civiltà europea, già messa a punto nel secolo precedente, individuando gli apporti dei diversi popoli, ma sottolineando il contributo della Francia che ne avrebbe rappresentato l’espressione più alta. Successivamente il Romanticismo recupera l’ideale della cristianità (Novalis), suffragando la tesi che la civiltà europea affondi le sue radici nell’età medievale. Nel XIX secolo una visione dell’Europa come corpo politico nel suo insieme, fondato sull’equilibrio tra gli Stati (Metternich), si confronta e si scontra con la crescente aspirazione a una connessione molto stretta tra patria, nazione ed Europa (Mazzini), nonostante il dilagare dei moti nazionalistici. Dopo una lunga fase di guerre e dopo due conflitti mondiali scatenati dalle politiche imperialiste nasce il Movimento federalista europeo presieduto, tra gli altri, dal politico italiano Alcide de Gasperi. Si torna a discutere dell’idea d’Europa (basti pensare al contributo di Ernesto Rossi e di Altiero Spinelli) che, insieme con nuovi tentativi di formare una federazione politica europea, sopravvive alla fine della guerra fredda e della divisione del mondo in due blocchi contrapposti, e torna, dopo il 1989, a essere oggetto di riflessione e di ripensamenti, «un’avventura millenaria e insieme inconclusa», come ebbe a scrivere proprio in quell’anno lo storico Fernand Braudel.

Fonti e Bibl. essenziale

Bloch, Problèmes d’Europe, in «Annales. Histoire economique et sociale», 7 (1935), 471-479; F. Braudel (a cura di), Europa: Bausteine seiner Geschichte, Frankfurt am Main, 1989, 12; F. Chabod, Storia dell’idea d’Europa, Bari, Laterza, 1961 (I ed.); C. Curcio, Europa. Storia di un’idea, Firenze, Vallecchi, 1958; J.-B. Duroselle, L’idée d’Europe dans l’Histoire, Paris. 1965; L’Europa delle carte: dal XV al XIX secolo, autoritratti di un Continente, a cura di M. Milanesi, Milano, Mazzotta, 1990; Europa sacra: raccolte agiografiche e identità politiche in Europa tra Medioevo ed Età moderna, a cura di S. Boesch Gajano e R. Michetti, Roma, Carocci, 2002; L. Febvre, L’Europa. Storia di una civiltà, Roma, Donzelli, 1999; G. Galasso, Alle origini delle “storie d’Europa”. L’Istoria del Giambullari, in Le radici storiche dell’Europa. L’età moderna, a cura di M.A. Visceglia, Roma, Viella, 2009, 161-186; J. Hale, La civiltà del Rinascimento in Europa (1450-1620), Milano, Mondadori, 1994; M. af Malmborg, B. Strath (ed.), The meaning of Europe. Variety and Contention within and among Nations, Berg, Oxford-New-York, 2002; H. Mikkeli, Europa. Storia di un’idea e di un’identità, Bologna, il Mulino, 2002; A. Momigliano, L’Europa come concetto politico presso Isocrate e gli Isocratei, in «Rivista di filologia e di istruzione classica», n.s. XI, 1933, 477-487; ristampato in Id., Terzo contributo alla storia degli studi classici, Roma, Edizioni di storia e letteratura, 1966, 489-497; C. Morandi, L’idea dell’unità politica d’Europa nel XIX e XX secolo, Milano, Marzorati, 1948; R. Morghen, L’idea di Europa, Torino, ERI, 1960; E. Morin, Pensare l’Europa, Milano, Feltrinelli, 1990 (Paris, 1987); A. Pagden, The Idea of Europe. From Antiquity to the European Union, Cambridge, Cambridge University Press, 2002; R. Romeo, Le scoperte americane nella coscienza italiana del Cinquecento, Roma-Bari, Laterza, 1989; M. Verga, Storie d’Europa. Secoli XVIII-XXI, Roma, Carocci, 2004; L. Wolff, Inventing Eastern Europe: The Map of Civilization on the Mind of the Enlightenment, Stanford University Press, 1994.


LEMMARIO




Evangelizzazione - vol. I


Autore: Gianni Colzani

La storia dell’evangelizzazione dell’Italia è la storia della trasmissione della fede cristiana, cioè del suo arrivo in questo paese e della sua trasmissione secondo forme adatte a interpretare la vita ed a dialogare con i problemi ed i cammini storici di questo paese. La prima cosa da dire è che il cristianesimo non è nato in Italia ma in Palestina: i primi cristiani erano ebrei e appartenevano ad un popolo che conosceva bene le scritture, seguiva le norme della legge mosaica ed attendeva un Messia che avrebbe ricostituito il regno di Israele. Questa loro origine porta in primo piano una prospettiva culturale e delle priorità che modellavano inevitabilmente le loro domande, anche a proposito della religione e della salvezza.

Il superamento del cristianesimo giudaico è il primo passo dell’evangelizzazione. Anche se Mt 28,18-20 e Mc 16,15 presentano teologicamente il fatto legandolo ad un comando del Risorto, storicamente non avvenne così: avvenne sulla base della persecuzione del gruppo di Stefano: At 11,19-21. Nonostante il dibattito e l’approvazione che At 15 fa risalire alla Chiesa di Gerusalemme, si trattò di una scelta non priva di contrasti e rappresenta un passaggio decisivo. La decisione che non è necessario diventare giudei per essere cristiani rappresenta quello che A. Walls indicherà come indigenizing principle: si tratta di fare di ogni chiesa un luogo dove le persone si sentano a casa loro. Lo stesso Walls integra questo criterio con un pilgrim principle. Per quanto vissuta in una cultura particolare, il vangelo associa i credenti ad una prospettiva universale che va oltre ogni tipo di barriera: come Dio si è chinato su di loro scegliendoli gratuitamente, così essi devono aprire mente e cuore a tutte le persone. Come dirà Paolo in 2Cor 5,17, il cristianesimo delinea una nuova figura di persona: la comunione con Cristo rende “creature nuove”. Su questo sfondo possiamo affrontare l’arrivo del cristianesimo in Italia.

Ingresso e diffusione del cristianesimo in Italia. Non sappiamo bene come e quando il cristianesimo sia entrato in Italia. Probabilmente è avvenuto sulla base dei rapporti che il mondo giudaico manteneva con Roma: erano rapporti mercantili e culturali ma anche religiosi. Basta pensare ai pellegrini ed al rientro di ebrei della diaspora; in effetti, a Gerusalemme esistevano sinagoghe per loro. Un ruolo particolare devono poi aver avuto le persecuzioni che avevano sparpagliato prima il gruppo di Stefano (At 8,1-4) e colpito poi quello giudeo-cristiano (At 12,1-2); quelle persecuzioni possono aver convinto dei credenti a riprendere la strada di casa, diventando così principio di nuove comunità.

Di fatto le scritture ricordano la presenza al discorso tenuto da Pietro a Pentecoste (At 2,10) di stranieri provenienti da Roma e fanno presente che in quella città, prima ancora che Paolo potesse arrivarvi, vivevano un gruppo di persone a lui ben note per il loro impegno apostolico (Rm 16, 1-15). È presumibile che questi primi credenti fossero nella loro maggioranza di origine ebraica; almeno per il primo secolo d. Ch. È difficile pensare il contrario. Il testo di At 28,12-16, che narra il viaggio di Paolo da Malta verso Roma dopo il naufragio, ricorda una sosta a Siracusa e a Reggio, dove la presenza di comunità cristiane è sostenuta da tradizioni locali e da dati archeologici; ricorda anche due comunità non paoline che, a Pozzuoli ed a Roma, vanno incontro a Paolo.

Nonostante queste indicazioni, nel primo secolo non abbiamo notizie confermate su una presenza di comunità cristiane al di fuori di Roma per quanto sia probabile che ve ne fossero vicino a Roma, in Campania e in Sicilia; le uniche conferme – soggette però a diversità di interpretazioni – riguardano l’archeologia che sembra indicare la presenza di simboli cristiani a Pompei ed Ercolano, le due città distrutte dal Vesuvio.

Per il primo secolo, le notizie non abbondano nemmeno su Roma. Autori che avrebbero dovuto esserne bene informati – come Clemente Romano, Ignazio di Antiochia e Papia – non hanno notizie precise sull’origine di quella comunità. Solo sommando la notizia di Svetonio (De Vita Caesarum 25), secondo il quale Claudio nel 49 d. Ch. cacciò da Roma i giudei che tumultuavano impulsore Chresto, con quella dell’Ambrosiastro (Commentaria in Epistolam ad Romanos, Prol 2-3) secondo il quale Paolo loda la fede dei romani perché credono senza aver visto «né segni, né miracoli né alcuno degli apostoli», si può ritenere che l’origine della Chiesa di Roma sia dovuta a viaggiatori o mercanti giunti a Roma da Gerusalemme e appartenenti al mondo giudeo-cristiano. Tacito e Svetonio concordano poi nel riportare il martirio dei cristiani quando, nel 64, furono falsamente accusati dell’incendio di Roma.

Notizie più precise risalgono al secondo secolo e riguardano Roma, Ravenna e l’Italia meridionale; sul finire del secolo anche la Lombardia e il Veneto conobbero il vangelo e videro il costituirsi delle prime comunità. In pratica, l’evangelizzazione dell’Italia si svolse nei primi due secoli e, con il terzo, doveva aver già raggiunto una buona diffusione se, nel 313, Costantino pubblicava a Milano quell’editto di tolleranza che mirava ad evitare che l’impero fosse disgregato dalle tensioni tra i culti tradizionali e la nuova fede cristiana.

È di certo utile interrogarsi sulle modalità di questa prima cristianizzazione. Molti temi sono noti: tra questi vi sono le persecuzioni e i martiri, le eresie e il primo organizzarsi del papato, la struttura del catecumenato e le prime articolazioni delle comunità; meno conosciuta è la problematica dell’incontro culturale tra il mondo romano-ellenistico e la fede cristiana. A. D. Nock ha riportato il successo della fede cristiana alla corrispondenza tra la sensibilità culturale del tempo e le caratteristiche della nuova religione. Secondo Nock, quel mondo era un mundus senescens, un mondo in attesa di qualcosa e in cerca di risposte all’altezza dei tempi che né le divinità dell’Olimpo né la religione civile dell’impero erano in grado di offrire. Il discorso di Paolo all’Areopago di Atene (At 17,22-31), con la sua valorizzazione della ricerca umana e la presentazione di un “Dio ignoto”, rappresentava già un programma di evangelizzazione che la Chiesa svilupperà con sapienza pedagogica cristiana come passaggio dal “Dio ignoto” al “Dio di Gesù”. La fede pasquale e il sacramentalismo – inteso come via e come pedagogia – saranno i cardini di una fede che è in grado di offrire risposte ai bisogni identitari e religiosi delle persone.

L’unificazione romana del Mediterraneo rappresentava una possibilità di cammino verso il cuore dell’impero sia per il cristianesimo sia per le altre religioni orientali ma queste, una volta tolte dal loro contesto originario, avrebbero mostrato molti limiti e perso la loro incisività. Di fatto, mentre la curiosità intellettuale e l’impostazione metafisica avevano guidato il mondo greco ad una ricerca sul significato dell’universo, l’imporsi di un potere imperiale porta i circoli intellettuali a rinchiudersi al proprio interno in una personale ricerca di verità e in una esperienza di rettitudine. Come splendidamente ha scritto Agostino in Soliloquia I,2,7, il cristianesimo offrirà a questa ricerca la conoscenza e la comunione con Dio e individuerà l’anima come l’ambito di quel cammino che introduce alla veritas e alla beatitudo divina.

R.L. Wilken ha integrato questo quadro indicando nell’incontro e nella polemica tra cristiani e tradizionalisti il punto critico dell’incontro di due modelli di religione: quella essenzialmente civica dei romani e quella personale dei cristiani. Indagare il confronto tra questi due modelli di religione – quello romano di tipo sociale-civico e quello cristiano legato alla libertà ed alla dignità personale – permette di approfondire meglio il ruolo sociale giocato dalle due tipologie religiose; la semplice contrapposizione tra apologisti cristiani e intellettuali pagani come Celso o Porfirio non è sufficiente. La religione civica doveva legittimare religiosamente tutti gli aspetti della vita personale e sociale tanto da rappresentare il fondamento dei doveri civici delle persone e la legittimazione della loro convivenza: in questa direzione comprendeva una coscienza della provvidenza divina ed una pietas che sapeva sviluppare una sincera adesione ed una sua forza emotiva; per contro la fede cristiana metteva al centro la dignità personale scaturente dalla comunione con Dio ed il cammino di libertà che la portava a pienezza.

Il confronto tra le due tipologie religiose ha permesso di intrecciare a fondo la componente personale e quella civica evitando così una riduzione privatista della fede. Kwame Bediako coglie in questo nesso tra il modo di porre e sviluppare le questioni teologiche e la autocomprensione che il cristianesimo ne ricava un dato di fondo valido per ogni tempo; nel dibattito tra fede e cultura degli apologisti del II secolo – sia nella forma di continuità propria di Giustino e Clemente Alessandrino, sia in quella di discontinuità più nitida in Taziano e Tertulliano – si esprime in modo diverso una stessa volontà, quella cioè di voler essere ad un tempo fedeli alla propria identità cristiana e partecipi della cultura del proprio tempo. Una simile coscienza è il fondamento dell’incontro tra il cristianesimo e le forze spirituali e religiose dell’epoca.

Le migrazioni dei popoli germanici e la risposta monastica. La fine del periodo romano-ellenistico è marcata da una progressiva separazione linguistica, culturale, politica e religiosa tra Roma e Costantinopoli ma è caratterizzata soprattutto dalle migrazioni dei popoli germanici che determinano una nuova geografia politica e religiosa; prima i Goti di Teodorico poi i Longobardi di Alboino occupano l’Italia riaprendo così il tema dell’evangelizzazione: pur cristiani, erano però ariani. Più tardi, sul finire dell’ottavo secolo e soprattutto nel nono, si avrà una impressionante espansione del mondo arabo-islamico che sottomette tutto il sud del Mediterraneo ed occupa parzialmente la Spagna e la Sicilia; si impone così un nuovo contesto culturale e religioso che chiederà alla Chiesa di rideterminare la sua posizione in ordine a questi cambiamenti. Si tratta di una prospettiva che non riguarda solo l’Italia ma tutta l’Europa occidentale: il rapporto con i popoli germanici sarà il nuovo campo di evangelizzazione.

La conversione di questi popoli al cattolicesimo non era scontata. Erano popoli guerrieri, dediti all’allevamento e con una singolare capacità di lavorazione del ferro; l’arianesimo marcava la loro identità impedendo l’integrazione con un popolo sottomesso che, al contrario, era per lo più agricoltore e senza uguali nell’arte della costruzione. Inoltre la situazione sociale era marcata da migrazioni, latifondismo, corruzione sociale e da una diffusa pratica di violenza che avevano generato un regresso di vita cristiana ed una rinascita di culti pagani. Il soggetto dell’evangelizzazione di questi popoli il monachesimo itinerante, di origine iro-scozzese; ad esso si deve l’evangelizzazione di questi popoli. La loro spiritualità aveva le sue radici in un ascetismo penitenziale che aveva trovato sbocco in una vita austera che era, insieme, coltivazione della terra e coltivazione delle anime. La fama dei monasteri, luoghi di preghiera e di austerità, attirerà molti giovani mentre la pietà liturgica, l’ideale di santità e la concezione ascetico-penitenziale della vita, tipica di quei luoghi, plasmeranno la coscienza di molti credenti.

A caratterizzare questo monachesimo in senso missionario sarà la peregrinatio pro Christo. Mentre i primi eremiti si rifugiavano nel deserto e la regola di Benedetto chiedeva la stabilitas loci, questi monaci praticano la peregrinatio: il senso di questo farsi pellegrini per il regno si fonda sulla volontà di rivivere l’esperienza del distacco e della fede del patriarca Abramo: l’itineranza diventa la ragione di una vita che si pensa come segnata da un anelito e da una tensione alla patria celeste e vive la vita terrena da pellegrini e ospiti in cerca della vera meta della propria esistenza. Tra questi monaci si possono ricordare Agostino di Canterbury (534-604), Colombano (540?-615), Bonifacio (672?-754) e i due santi fratelli Cirillo (826-869) e Metodio (815-885); tra i monasteri spicca indubbiamente Bobbio, fondato nel 614 da Colombano che vi morirà.

Questi monasteri sono centri di evangelizzazione: mirano alla conversione dei capi e del popolo ed opereranno l’integrazione dei due popoli, quello germanico e quello romano conferendo così unità sociale, culturale e religiosa ai nuovi regni. Non mancavano dei limiti: la rinuncia alla stabilitas loci e la mancanza di una regola comune – i monasteri erano allora retti da una trentina di regole diverse – favoriva l’autonomia di ogni monastero ma facilitava pure l’introdursi di diversi abusi nella regolarità della vita monastica. Localismo e individualismo erano i limiti di un monachesimo che non aveva collegamenti precisi né tra i leaders monastici né tra i monasteri; questo spiega la diversità del monachesimo anglosassone – proprio del secolo VIII – ed i cambiamenti che introdurrà: la romanitas e la regola benedettina diverranno strumento di unificazione di questo monachesimo e di questa evangelizzazione. Winfrid di York, più noto con il nome di Bonifacio (+754), sarà così alla base di una riforma monastica in senso anti-irlandese. Il Capitulare Monasticum di Aquisgrana dell’817, ispirato da Benedetto di Aniane, imporrà la regola benedettina a tutti i monasteri franco-germanici.

Il risultato di questa missione monastica, per quanto non organizzata né centralizzata, sarà notevole; mossi dall’amore di Cristo e dalla passione per la diffusione del vangelo, questi monaci perseguiranno la conversione dei capi e la loro opera rappresenterà la base del successivo progetto carolingio di una unificazione culturale e religiosa dell’Europa occidentale. L’interpretazione che, da Agostino in poi, veniva fatta del compelle intrare di Lc 14,2 finirà per legittimare l’uso della forza per ottenere la conversione: la Capitulatio de partibus Saxoniae (772) comminava la pena capitale a chi offendeva la fede cristiana e i suoi sacerdoti. Legata alla politica di repressione della rivolta sassone guidata da Viduchindo, la Capitulatio legittimerà il massacro di Verden (784); per quanto abrogata nel 797 e sostituita dal Capitulare Saxonicum elaborato con la partecipazione dei Sassoni e meno impositivo, resta una pagina triste. L’unificazione carolingia perseguita dall’impero e dal papato porterà ad un problematico nesso tra politica e religione; i popoli germanici erano affidati ai predicatori ed il battesimo diventava, insieme, un segno di fede e di sudditanza e di obbedienza al vincitore.

La sfida del mondo mercantile: testimoniare il vangelo in una vita di povertà. Il periodo che qui interessa è quello che comincia dopo il mille, a partire dal secolo XII. La fine dell’impero carolingio ed, in genere, la scomparsa del feudalesimo e la nascita della civiltà comunale creeranno una nuova condizione sociale: vi è un rifiorire delle città, una forte rinascita dei commerci e l’imporsi di una nuova cultura legata alla coscienza del valore delle persone e della loro partecipazione dopo secoli di sudditanza feudale. Come ha magistralmente indicato M.D. Chenu, vi è una rinascita evangelica ed un diverso equilibrio tra natura e grazia. Ne viene una nuova temperie sociale, spirituale e apostolica che, investendo monaci, canonici e laici, accentua la ricerca di una spiritualità caratterizzata da un ritorno alla Chiesa delle origini ed al suo modello di comunità e di povertà. Questa rinascita si traduce in una esigenza di vita ed in un movimento apostolico che, per i suoi orizzonti di comunione e di povertà, non poteva trovare accoglienza in una vita monastica, austera forse sotto il profilo personale ma vissuta ormai in un quadro di ricchezza e di potenza. Nemmeno il desiderio di fraternità e di comunione era pienamente realizzabile in monasteri caratterizzati dall’obbedienza e dalla disciplina.

Sorgeranno così gruppi con visioni nuove in ricerca di una crescita ed una maturazione umana e cristiana: la Francia del sud e l’Italia del centro-nord saranno il loro ambito di maggiore sviluppo. Lontani dalla gerarchia ma vicini alla gente, questi gruppi avevano il loro riferimento nei vangeli e nella vita della prima comunità cristiana: la predicazione del vangelo, la rinuncia alla proprietà fino a vivere di questua, la continua peregrinazione e la ricerca di comunione e fraternità caratterizzavano questi gruppi che apparivano ed erano portatori di un nuovo progetto di vita cristiana e di riforma ecclesiale. Raramente sostenuti da una adeguata base teologica, la loro vita e i loro comportamenti conobbero momenti di esaltazione spirituale e di esagerazione accompagnati anche da deviazioni dottrinali.

Sotto il profilo dogmatico-concettuale della fede si possono ricordare in proposito diverse condanne: il concilio di Verona (1184), la lettera di Innocenzo III al vescovo di Tarragona (1208) sulla predicazione, la bolla di Bonifacio VIII Saepe sanctam Ecclesiam (1303) che condanna i Fratelli del libero Spirito, la bolla Cum inter nonnullos (1323) di Giovanni XXII che condanna gli spirituali francescani. Se guardiamo invece queste realtà come espressione di esigenze sociali e denuncia della distanza tra il vangelo e la vita della Chiesa, allora i pauperes Christi lasciano intravvedere una profonda esigenza di rinnovamento morale e spirituale. Di fatto patarini, valdesi, arnaldisti, umiliati, circoncisi, adamiti, fratelli apostolici, leonisti, speronisti e altri ancora trovavano una certa diffusione; la loro contestazione della ricchezza della chiesa e dei costumi di vita degli ecclesiastici esigevano una testimonianza di vita evangelica prima che una condanna dottrinale.

La Chiesa riuscirà ad esprimere questa svolta tra il concilio Lateranense III (1179) e l’approvazione degli Statuti comunali di Brescia (1230), ben presto presi a modello di quelli di Padova, Verona, Bologna, Ferrara; lo farà mettendo in campo una vita religiosa esemplare ed un insieme di strumenti giuridici, politici e organizzativi che arrivarono ad isolare i movimenti eretici togliendo loro ogni spazio sociale. L’esempio di Brescia e i moti dell’Alleluia (1233) furono tra le ragioni principali di questa svolta; un peso non piccolo lo ebbe anche l’inquisizione e la condanna giuridica dell’eresia, considerata come un attentato alla “pace di Dio” ed alla convivenza tra gli uomini. Il contributo più grande verrà però dagli ordini mendicanti; con una vita evangelica lontana dal lusso e dalla ricchezza e segnata da fraternità e povertà, saranno la militia Christi che porrà le basi di un nuovo consenso sociale tra la Chiesa e il popolo italiano.

Francesco d’Assisi (1181-1226) e Domenico di Guzman (1170-1221), con i loro frati, saranno i cardini di questa risposta ecclesiale. Entrambi i movimenti iniziano con la volontà di vivere una piena rinuncia ad ogni forma di possesso praticando la questua; tuttavia il loro modo di intendere la povertà resta diverso: mentre per i francescani è il centro di ogni impegno apostolico, per i domenicani è condizione necessaria per una predicazione apostolica. In effetti, all’inizio, il movimento francescano si presenta come itineranza penitenziale ed evangelica ma, ben presto, i “penitenti di Assisi” assumeranno il nome di “frati minori” iniziando quel percorso che porterà questo movimento ad assumere forme ascetiche, liturgiche ma anche giuridiche e pedagogiche più precise. Domenico, invece, pensava ad una società religiosa che, pur abbracciando pienamente la vita apostolica, non si ponesse sotto l’autorità di un vescovo o di un abate, ma sotto la giurisdizione diretta del romano Pontefice; i suoi frati dovevano essere disposti alla predicazione del vangelo e alla difesa della fede dovunque i papa ritenesse di inviarli.

In questa sede interessa notare che l’evangelizzazione dell’Italia è un continuum, un impegno continuamente riproposto sotto l’incalzare di problemi diversi. Ne è prova la differenza nella continuità tra l’evangelizzazione monastica e quella degli Ordini mendicanti: la prima mira alla conversione dei capi e di un popolo trascinato dal loro esempio mentre la seconda riporta in primo piano l’ideale evangelico ed opera per portare a tutti la buona novella. Superando il ripiegamento della cristianità su se stessa, gli ordini mendicanti mostreranno come l’apertura a chi non crede sia basilare per la stessa fede. Nel 1209, Francesco d’Assisi coglie nel testo di Mt 10, 7-12 la sintesi della sua vocazione: predicare il vangelo e la penitenza secondo uno stile evangelico di povertà.

Al centro del suo pensiero, non vi è la penitenza ma il desiderio che Cristo sia conosciuto e amato. Di conseguenza, per tre volte, Francesco cercherà di partire per la missione; come lui anche i suoi frati, dopo l’esperienza negativa del 1217, daranno inizio alla missione già nel 1219. Documenti significativi di questa svolta sarà la regola francescana: il capitolo XVI della Regola non bollata (1221), sostanzialmente ripetuto nel capitolo XI della Regola Bollata (1223), ne sarà la prima testimonianza. Esigendo totale fedeltà alla chiesa e piena sottomissione al papa e alla gerarchia, la Regola scrive: vadano con il permesso del loro ministro… se vedrà che sono idonei. A sua volta, questi sarà garante dell’essere sempre sudditi e soggetti ai piedi della medesima santa chiesa, stabili nella fede cattolica. L’evangelizzazione non sopraggiunge alla vita conventuale come un di più ma ne rappresenta piuttosto la ragion d’essere; vita evangelica e annuncio apostolico appaiono i cardini di un progetto di vita che arriva fino al martirio.

Il risultato di queste prospettive sarà la nascita di un doppio impegno: una missione ad intra ed una ad extra, due forme che dicono la sensibilità per una difesa della fede all’interno e alla proclamazione del vangelo all’esterno. In questo contesto è la prima ad interessarci; appoggiandosi all’agostinismo politico, la prima pensa l’evangelizzazione nel quadro di una società cristiana secondo uno stretto intreccio tra esigenze religiose e motivi politici, avendo di mira la difesa della fede. Due gruppi in particolare venivano al centro di questa attenzione: gli ebrei e gli eretici. La Distinctio 45 caput 3 del Decretum Gratiani annota che «non asperis sed blandis verbis ad fidem sunt aliqui provocandi», una indicazione che si può riassumere in una “non-costrizione” più che in una tolleranza. Per rinforzare questa prospettiva, il Decretum ricorda il can. 56 del IV concilio di Toledo, presieduto nel 633 da Isidoro di Siviglia. Non sempre però queste indicazioni basteranno a garantire il rispetto di questi gruppi.

La posizione degli ebrei è teoreticamente chiara: hanno il diritto di seguire le loro usanze perché la loro eventuale conversione dev’essere libera e non violenta. Le Decretales di Gregorio IX dedicano il libro III, titolo XXXIII alla condizione della minoranza giudea e alle situazioni nuove create dalle crociate, attenendosi alle idee richiamate sopra. Con la sua abituale chiarezza, Tommaso (IIa IIae, q. 10, art. 11) dirà che i riti dei giudei sono tollerabili perché, come figure della fede cristiana, offrono – in una certa misura – una testimonianza a suo favore e perché evitano scandali e mali peggiori che si avrebbero se fossero impediti. L’articolo 9 della medesima quaestio affronterà tanto i loro riti quanto le comunicazioni con loro risolvendo entrambe le questioni allo stesso modo: vanno tollerati per lo scandalo che si avrebbe con la loro soppressione e nella speranza di una loro futura conversione. Occorrerà però evitare ogni familiarità non necessaria. Il tema del matrimonio è qui lo sfondo di regolamentazioni che, in ogni caso, mirano più alla difesa della fede che alla sua espansione. In pratica abbiamo una regolamentazione di una minoranza religiosa che troverà soluzione solo in seguito.

Diversa da quella degli ebrei è la condizione degli eretici. L’intreccio tra difesa della fede e coesione dello stato porterà a sentire l’attacco alla fede come un attacco alla vita dello stato ed a mettere la sua forza al servizio della difesa della chiesa. Ci imbattiamo qui nel nodo dell’Inquisizione e nella giustificazione dell’uso della forza. Va detto che l’Inquisizione medioevale era profondamente diversa da quella rinascimentale e spagnola; grossomodo si può dire che il processo inquisitorio per motivi religiosi non era diverso dalla prassi giuridica dell’epoca e dalle modalità che l’accompagnavano, quando non era meglio. La giustificazione dell’uso della forza si rifà ad Agostino ed al suo commento al compelle intrare di Lc 14,23: la necessità di sfuggire alla dannazione permetteva un qualche uso della forza. Ma, mentre Agostino pensava a delle multe, alla confisca dei beni od all’esilio, la realtà si spinse fino alla mutilazione ed alla pena di morte. La gestione di una società cristiana si rivela qui inadeguata ad affrontare la questione delle minoranze e dei non-cristiani.

La Riforma cattolica e l’impegno per una pastorale apostolica. Le scoperte geografiche – dalla seconda metà del XV secolo in poi – spalancano all’Europa un mondo nuovo ma segnano anche una obiettiva emarginazione del Mediterraneo, e dell’Italia in particolare, dal tessuto vivo della storia. Dopo il periodo iberico, le potenze dominanti saranno ben presto l’Inghilterra, la Francia e l’Olanda. Tagliata fuori dalle dinamiche europee, l’Italia si suddivide in ducati, signorie, repubbliche, regni e stato pontificio; la stessa missione si rivolge ad gentes dando per scontata la vita cristiana del popolo italiano.

Per ritrovare il filo dell’evangelizzazione si può partire dal concilio di Trento che, di fronte alle sfide dell’umanesimo e della riforma, pone al centro della sua strategia la proclamazione del vangelo. Già nella quarta sessione del 08.04.1546, dedicata al Decreto de libris sacris et de traditionibus recipiendis, il concilio ritiene suo dovere il «conservare la purezza del vangelo nella Chiesa» e di intenderlo «quale fonte di ogni verità salvifica e di ogni norma morale». Il 17 giugno 1546, poi, la quinta sessione approverà il decreto super lectione et praedicatione; il n. 10 poi indicherà il ministero della predicazione del vangelo come compito da esercitare per la salvezza. Questo compito, infatti, obbliga ad «insegnare ciò che tutti devono sapere per essere salvi» ed a «denunciare […]i vizi da fuggire e le virtù da praticare per evitare la pena eterna e conseguire la gloria celeste». Questa esaltazione della predicazione del vangelo ha certo il fine di consolidare la vita cristiana dei fedeli e di aiutare chi l’ha persa a recuperarla ma tratteggia anche un clima spirituale ed un orizzonte pastorale che è alla base di una nuova strategia apostolica: il vangelo come fons omnis et salutaris veritatis et morum disciplinae e la sua comprensione ecclesiale, Evangelium in Ecclesia, diventano criteri decisivi della vita cristiana e di quella apostolica.

L’enfasi tridentina sul ministero della Parola è il frutto di un rinnovato clima ecclesiale; la riforma cattolica vi riconoscerà il cammino per un ritorno ad una autentica vita cristiana ed apostolica. Una singolare espressione di questa strategia apostolica saranno i catechismi. Il più importante è il Catechismus Romanus seu Catechismus ex decreto concilii Tridentini ad parochos Pii Quinti Pont. Max. iussu editus che offre una guida autorevole a presbiteri chiamati ad essere il perno del rinnovamento pastorale tramite il ministerium verbi et sacramentorum. Di rilievo è anche l’organizzazione di questo Catechismo che, rifacendosi ad una tradizione patristica, organizza il suo materiale attorno al simbolo della fede o Credo, ai sacramenti, al decalogo ed al Padre nostro.

Il “catechismo” si imporrà come un genere letterario decisivo per la comunicazione della fede; per quanto ne esistessero già in precedenza come il Libretto della dottrina cristiana (1473) attribuito a Sant’Antonino di Firenze, sarà il periodo post-tridentino a dare ampia diffusione a questo genere di comunicazione della fede. Per quanto riguarda l’Italia, i testi di R. Bellarmino – Dottrina cristiana breve (1597) e Dichiarazione più copiosa della dottrina cristiana (1598), composti su richiesta di papa Clemente VIII – saranno tra i più usati. Ricordo anche il Compendio della dottrina cristiana (1765) di Mons. M. Casati, vescovo di Mondovì. I catechismi hanno svolto un grande compito di evangelizzazione sia per l’istruzione cristiana che per la formazione morale; non diffondono solo un contenuto ma impongono anche una metodologia dell’azione catechistica che D. Guzman, Modo per insegnar con frutto la dottrina cristiana del P. Diego Gosman (1585) fa risalire alla missione della Chiesa e D. de Ledesma, Modo per insegnar la dottrina cristiana (1573) riconduce addirittura a Gesù Cristo e agli apostoli. Nasceranno così le scuole della dottrina cristiana, le confraternite della dottrina cristiana che contribuiranno al cammino formativo delle comunità.

Questi testi e questa prassi è alla base di un vivace rinnovamento pastorale, di una vera e propria rievangelizzazione del popolo italiano. In effetti non sono tanto sistemi dottrinali ma compendi delle dinamiche e degli atteggiamenti indispensabili per la vita cristiana; ne viene una prassi che porta in primo piano la fede, la traduce in vita con i sacramenti ed i comandamenti e fa del “Padre nostro” il fondamento della preghiera e della speranza escatologica. Questo schema, voluto dal Catechismo Romano fa della fede e della vita sacramentaria il fondamento di una ecclesiologia che sospinge i credenti ad una vita guidata dalla preghiera e dall’impegno morale e animata dalla speranza escatologica.

Assieme ai catechismi, vanno ricordate le missioni popolari, momenti fondamentali di quella pastorale parrocchiale che doveva affiancarle e prolungarle. Queste missioni ad intra erano forme organizzate e metodiche di predicazione straordinaria tenute da “missionari” con il consenso dell’Ordinario; il loro scopo era il rinnovamento della vita cristiana perseguito attraverso l’esposizione delle principali verità della fede ed il ricorso a celebrazioni liturgiche e devozionali. In questo modo chiamano ad una sincera conversione del cuore, ad un rinnovato impegno morale, ad una seria ricezione dei sacramenti della Riconciliazione e della Eucaristia e ad un migliore esercizio delle opere di carità. Il costituirsi di “confraternite” e “asso­ciazioni” ne sarà il frutto e dovrà favorire la perseveranza di questo cammino.

Sorte nella seconda metà del ’500, hanno una origine non del tutto chiara. Alcuni ne vedono l’inizio negli Esercizi di Ignazio di Loyola e indicano P. Silvestro Landini (†1554) come il primo ad averli utilizzati come metodo per le missioni popolari; altri ne indicano l’origine nelle Quarantore che i cappuccini diffondevano in Europa negli ultimi decenni del cinquecento; altri ancora ne indicano l’autore in Vincenzo de’ Paoli (†1660). Due cose sono sicure. La prima è la loro diversità dalla missione itinerante degli ordini mendicanti che si rifacevano alla missio data loro dai papi; la seconda riguarda la loro collocazione sullo sfondo del rinnovamento e della cura pastorale nata nel solco della Riforma cattolica dopo Trento. Mentre la predicazione francescana era una predicazione evangelica, spesso a sfondo etico, le “missioni popolari” affrontano in modo altrettanto semplice i temi del peccato e della grazia, del senso della vita e dei novissimi, dei sacramenti e delle opere caritative.

Comunemente note come “missioni ad intra” o “missioni popolari”, saranno sostenute da gesuiti, cappuccini, lazzaristi e dagli Oblati di Sant’Ambrogio, fondati a Milano (1578) da S. Carlo Borromeo proprio per questo. Erano predicazioni accompagnate da processioni penitenziali e gesti di riconciliazione, da roghi di libri riprovevoli e di simboli magici chiusi dal bacio riparatore al crocifisso, da confessioni e comunioni generali che davano alla predicazione un tono emotivo e drammatico che mirava a rendere le persone partecipi del loro cammino di conversione. Tra i più noti predicatori di queste missioni, si possono ricordare Pietro Antonio Spinelli (+1615), Francesco Pavone (+1637), Pietro Gravita (+1658), Paolo Segneri senior (+1694), Giovanni Pietro Pinamonti (+1703), Francesco de Geronimo (+1716). Le figure più note sono però tre santi: san Leonardo da Porto Maurizio (+1751), san Paolo della Croce (+1775), e sant’Alfonso M. de’ Liguori (+1787). Alcuni testi, come Il zelo apostolico nelle sante missioni (1720) di Amedeo di Castrovillari o Il cristiano instruito nella sua legge. Ragionamenti morali (1687) di P. Segneri ci permettono di comprenderle a fondo.

Se la diffusione delle idee della rivoluzione francese rappresentò un periodo di stasi, le missioni popolari ripresero con rinnovato vigore dopo il Congresso di Vienna (1816). Ne è indice la letteratura che riprende copiosa. Basta richiamare al riguardo il Metodo delle Sante Missioni (1819) di Gaspare del Bufalo, il Direttorio sacro per uso delle Sante Missioni (1835) a cura dei Padri Passionisti, il Metodo pratico degli esercizi di missione per uso della Congregazione del SS. Redentore (1856) di C.M. Berruti e La Missione o temi facili e popolari dettati negli esercizi e nelle missioni (1885) di F. Giordano.

Il primo Ottocento: la risposta religiosa della carità. La riforma tridentina mantiene un ruolo anche nell’Ottocento, prima dell’unità d’Italia e non cessa nemmeno la sua influenza con il Vaticano I. Resta il fatto che l’ottocento conosce un complesso movimento sociale e culturale di reazione agli eccessi giacobini della rivoluzione francese che mira a restaurare l’ordine precedente sulla base dei principi tradizionali. È appunto la Restaurazione. Lo sforzo per superare lo choc della rivoluzione ed i suoi disastrosi effetti sull’impianto tradizionale dei governi e della società si esprime nel ritorno ai modelli passati, nella ripresa di ciò che si era mantenuto saldo fino ad allora: è un atteggiamento difensivo, la cui posta in gioco è l’accoglienza o il rifiuto della Weltanschauung moderna. Oggi siamo in grado di formulare una critica più puntuale delle tesi illuministiche; allora non era così. L’illuminismo appariva una concezione globale della vita contrapposta alla fede; là dove la coscienza era l’unica origine del sapere e della scienza, non vi era spazio per la fede: andava relegata nel mito.

Possiamo parlare di una triplice sfida: culturale, sociale e teologica. La sfida culturale è legata alla contrapposizione tra le forme indiscusse della vita ecclesiale e sociale del passato e le nuove linee dinamiche che spingono verso una vita orientata in base alla razionalità e alla libertà. In pratica è qui sottesa una nuova antropologia, generatrice di una nuova società. Una risposta di pura riaffermazione di principi era destinata ad essere inutile; solo una nuova, diversa identità religiosa poteva pensare di riproporsi come esperienza viva e ricca di significati. La sfida sociale non chiede solo scuole, ospedali, ricoveri ed iniziative simili ma esige di sapere se queste permangono all’interno di un quadro autoritario e paternalistico o se riescono a rendere ragione al clima di emancipazione mostrando nella responsabilità delle persone il criterio ultimo di ogni obbligatorietà sociale. La sfida teologica poi vedeva come fosse la stessa Chiesa ad essere in gioco. La lotta al gallicanesimo ed all’ultramontanismo aveva rafforzato l’unità della chiesa ma l’avevano fatto in termini giuridici e istituzionali, ponendo la questione dei limiti propri del centralismo ecclesiastico e delle legittime autonomie delle chiese; la lotta al giansenismo aveva riproposto la tematica della vera interiorità cristiana e del senso dei sacramenti.

Nel 1848 usciva il lavoro di Rosmini Delle cinque piaghe della Santa Chiesa: a fondamento del suo riformismo, l’autore non poneva una astratta religione interiore ma la realtà del popolo cristiano che Rosmini radicava profondamente nei sacramenti e nella comunione di culto e di vita con i suoi pastori. Nella stessa direzione andrà il pensiero della scuola romana, il cui frutto più autorevole sarà la Costitutio De Ecclesia Christi secunda: Tametsi Deus presentata come base di discussione ai padri del concilio Vaticano I; attraverso l’immagine del Corpo mistico, questa insisteva sulla connessione organica tra i membri della chiesa ed indicava la logica ultima della vita ecclesiale in una prospettiva di vicendevole servizio. Questa saldezza interna, spirituale e disciplinare, permette di impostare su basi nuove sia la problematica dell’unità sia quella del rapporto tra Chiesa e stato, stretto tra le forme tradizionali del giurisdizionalismo che sopravvivevano nel giuseppinismo austriaco e facevano perno su uno stato confessionale e quel liberalismo che, al contrario, separava radicalmente chiesa e stato.

La risposta più pertinente verrà dalla vita religiosa. Dopo il Congresso di Vienna, gli stati cercavano una certa collaborazione con la chiesa subordinandone però l’intera struttura alle preminenti esigenze statali: il placet statale alle nomine ecclesiastiche, il compito assegnato alle parrocchie in vista di una formazione etica di base, la riduzione degli ordini religiosi sulla base della utilità sociale, l’inquadratura statale delle iniziative caritative ed assistenziali; questa logica tendeva a far coincidere doveri religiosi e doveri civili così da portare in primo piano il valore civile e sociale della religione e non il suo significato soprannaturale. Questa dimenticanza del carattere integrale e profondo della persona valorizzava sì l’aspetto sociale e pubblico della fede ma, al di là di alcuni immediati vantaggi, non sapeva rendere ragione né della autonomia spirituale della chiesa e della sua vitalità interiore né del valore della coscienza e della sua libera scelta di credere.

In questo contesto si deve valorizzare la risposta della vita religiosa. La nascita di istituti maschili e femminili è in questo periodo sorprendente ma quello che interessa è il suo volto nuovo: pur mantenendosi nel solco del passato, persegue una migliore corrispondenza ai bisogni sociali, una maggiore apertura alle classi povere. Quello che emerge è la capacità di servire Dio nel bisognoso, è una diversa concezione della santità che si pensa come contributo creativo per una società che non si vuole abbandonare a forze non-cristiane. Abbiamo così una singolare immersione nel sociale; al di là delle tranquille relazioni conventuali, è nel ritmo della scuola e nel complesso dell’assistenza che va arrischiato l’esercizio dell’amore di Dio e del prossimo. La santità assume il volto del rifiuto di una religiosità puramente interiore; rinasce una spinta evangelizzatrice che rifugge dal farsi pigrizia ripetitiva per arrischiarsi con tutta la propria profetica novità dentro le questioni quotidiane e domestiche della vita della gente. La vicinanza al popolo è, insieme, proclamazione dei valori di sempre e rifiuto di abbandonare la fede ad una rassegnata subalternità a modelli esistenziali altrui. Non si tratta di filantropia ma di un modo diverso, cristiano e apostolico, di collocarsi nel sociale; in questa prospettiva prenderà singolare rilevanza la figura cristiana e religiosa della donna: è una donna che esce di casa, che esce dalle mura domestiche o da quelle sicure della clausura e dei conventi per rivendicare il diritto e l’onere di vivere e di servire il vangelo.

Conclusioni. Alcune conclusioni si impongono. Per un verso risulta evidente che l’evangelizzazione dell’Italia è un continuum mai esaurito: appartiene alla responsabilità di ogni generazione cristiana; appartiene alla responsabilità di ogni generazione trovare i metodi per comunicare il vangelo e renderlo significativo nelle diverse problematiche. In questo impegno il nesso rivelazione-fede non si esaurisce nei termini intellettuali di una comprensione di verità soprannaturali e dogmatiche ma chiede di essere ripensato in rapporto alla realtà storica del vivere umano; l’evento della rivelazione si dà in una storia ed è effettivo solo là dove illumina e determina l’interlocutore a cui si rivolge. La storia dell’evangelizzazione dell’Italia rende ancora più evidente la nostra responsabilità di cristiani di questa terra.

Fonti e Bibl. essenziale

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LEMMARIO




Famiglia - vol. I


Autore: Daniela Lombardi

«Tutti sanno – o credono di sapere – cos’è la famiglia. Questa è inscritta in modo talmente forte nella nostra pratica quotidiana da apparire a ciascuno di noi come un fatto naturale e, per estensione, universale». Così scrive l’antropologa Françoise Héritier alla voce Famiglia dell’Enciclopedia Einaudi. Effettivamente il bisogno di vivere sotto lo stesso tetto e formare un’unione socialmente approvata, per condividere affetti, interessi, cura ed educazione dei figli, sembra essere un fenomeno universale. Trasmettere la vita e i beni per vivere: ovunque appare come la funzione prevalente del gruppo familiare. Ma le ricerche di antropologi, storici e demografi hanno dimostrato che la famiglia ha assunto forme e funzioni variabili nel tempo e nello spazio. La sua straordinaria diversità rende dunque difficile considerarla come un fatto di natura.

La stessa definizione di famiglia cambia nel tempo e nello spazio. Nell’Europa occidentale la famiglia come gruppo di persone legate da stretti vincoli di sangue è relativamente recente: appare, sporadicamente, in qualche dizionario francese di fine Seicento, e tende ad affermarsi solo nel corso dell’Ottocento. Anche la Sacra Famiglia è stata a lungo rappresentata come famiglia allargata comprendente san Giovanni e sua madre e talvolta altri personaggi. Con significative eccezioni nell’ambito della rappresentazione figurativa: il Tondo Doni di Michelangelo è assurto a simbolo del ristretto nucleo familiare composto da genitori e figli. Ma è interessante notare che per designare questo nucleo nel Cinquecento si dovette far ricorso al termine “trinità”: una trinità in terra, parallela alla trinità in cielo (I. Noye, Famille, coll. 85-86). Le prime invocazioni e devozioni a Gesù, Maria e Giuseppe nacquero in quel periodo, ma non sotto il nome di “famiglia”. La “famiglia” di Gesù era quella composta dalle persone che vivevano attorno a lui: aveva dunque un significato di comunità, più che di nucleo familiare. Non è un caso che la diffusione degli istituti religiosi intitolati alla Sacra Famiglia risalga all’Ottocento, quando, appunto, si afferma l’accezione di famiglia come nucleo di genitori e figli.

Fino a quel secolo per famiglia si intendeva comunemente tutti coloro che vivevano sotto lo stesso tetto, compresi servitori, schiavi, garzoni: era la coresidenza, più che il legame di sangue, a definire la famiglia. Questa definizione aveva origine nel diritto romano. Il pater familias, in quanto capo della casa, esercitava la patria potestas su tutte le persone che in quella casa abitavano. Si trattava di un potere squisitamente maschile, che si tramandava di padre in figlio. La filiazione è un elemento chiave della famiglia romana (ma anche delle famiglie della maggior parte dei popoli): dato che la paternità, a differenza della maternità, non è mai certa, è necessario che, attraverso un’unione legale distinta dalle unioni occasionali, i figli siano collocati in un rapporto di paternità. Il matrimonio è l’istituzione che sancisce un rapporto di filiazione legittima e assicura il controllo sulla riproduzione dei gruppi. Il diritto romano ha puntualmente codificato l’asimmetria tra filiazione dal padre e filiazione dalla madre, definendo la prima come un “legame di diritto”, capace di assicurare la continuità della patria potestas in una linea maschile ininterrotta, superiore al “legame di natura” creato dalla maternità, che non consentiva alle donne di esercitare nessuna forma di dominio sui propri figli. Le figlie non erano escluse dall’eredità del padre, ma non potevano possedere né trasmettere la patria potestas. In età tardo-medievale le figlie hanno cominciato a perdere anche il diritto all’eredità. Gli statuti delle città comunali centro-settentrionali hanno via via inserito norme tese a rafforzare la dimensione patrilineare della parentela, a tutto svantaggio delle donne. L’esclusione dalla successione venne compensata con la dote, che i padri avevano l’obbligo di assegnare alle figlie al momento del loro matrimonio o della loro monacazione.

Questa costruzione giuridica ha avuto ripercussioni di lunghissima durata sulla cultura dell’Europa occidentale, perché ha garantito per tutta l’età medievale e moderna la trasmissione del nome e del patrimonio per linea esclusivamente maschile. Diritti e doveri patrimoniali hanno modellato e influenzato pesantemente le relazioni all’interno delle famiglie, non solo delle élites ma anche dei ceti medio-bassi.

Ciò non significa che i legami di parentela acquisiti attraverso i matrimoni delle donne (parentela cognatica) non avessero importanza rispetto alla centralità della parentela agnatica che univa i maschi di una famiglia in una linea ininterrotta. Tutt’altro. I matrimoni erano uno strumento essenziale per costruire alleanze con altre famiglie, portare la pace laddove c’era la guerra, conciliare le fazioni in lotta. La Chiesa costruì la dottrina degli impedimenti al matrimonio sulla base di questa concezione, che nel V secolo sant’Agostino aveva efficacemente sintetizzato nell’espressione matrimonium seminarium est caritatis. La legge della carità imponeva ai cristiani di stringere alleanze matrimoniali con chi non era legato loro da vincoli di parentela, per poter entrare in comunicazione con vicini che non appartenessero allo stesso sangue ed estendere il più possibile i legami di affetto e di amicizia.

Intorno al matrimonio fu quindi costruita una fitta rete di impedimenti, che non si limitava ai consanguinei, ma si allargava agli affini (imparentati dal vincolo matrimoniale) e ai parenti spirituali (legati dal vincolo di padrinaggio). A partire dal XII secolo il modello cristiano di matrimonio – monogamo, indissolubile, esogamico, fondato sul consenso degli sposi – si affermò rapidamente nell’Europa occidentale. L’inserimento tra i sette sacramenti, oltre a giustificarne l’indissolubilità, lo sottopose alla giurisdizione della Chiesa.

Proprio perché il matrimonio era un’alleanza tra famiglie e costituiva la base del vivere sociale che, attraverso il controllo della sessualità femminile, assicurava la legittimità dei figli e la trasmissione del patrimonio, non poteva essere considerato una questione privata. Sia i gruppi sociali che le autorità istituzionali avevano interesse a sottoporlo a regole.

Per lunghi secoli, nell’Europa occidentale fu la Chiesa di Roma a dettare le regole e a giudicare le controversie matrimoniali nelle aule dei suoi tribunali. Molte di queste norme rappresentarono una rottura significativa con la tradizione precedente. A cominciare dall’indissolubilità: tutte le legislazioni antiche avevano difatti ammesso il divorzio. Anche il principio consensualistico – secondo il quale bastava il consenso dei partner per rendere valido il matrimonio – che pur aveva le sue radici nel diritto romano, presentava rilevanti novità. A differenza del consenso romano, che doveva essere rinnovato continuamente per far sussistere il matrimonio, nella dottrina cristiana il consenso, una volta dato, sfugge alla volontà dei coniugi, che non possono farlo cessare. Inoltre, il loro consenso è libero da qualsiasi imposizione familiare.

Il principio consensualistico poneva tuttavia dei problemi. Dal momento che non richiedeva alcuna forma specifica di celebrazione del matrimonio, che ne garantisse la pubblicità e la conoscenza al di là della coppia, era difficile stabilire l’esistenza o meno del vincolo coniugale. In caso di contestazioni da parte di uno dei coniugi (che poteva sostenere di non aver dato il suo consenso al matrimonio, per ottenerne l’annullamento), come potevano i giudici ecclesiastici accertare la validità o nullità di un legame, se non c’erano stati testimoni al momento dello scambio del consenso? Come potevano distinguere il consenso per verba de praesenti – io ti prendo per moglie/marito – da quello per verba de futuro – io ti prenderò per moglie/marito? Secondo la dottrina elaborata dal teologo Pietro Lombardo alla metà del XII secolo, solo il consenso al presente costituiva il vincolo coniugale, sacramentale e indissolubile. La Chiesa cercò di introdurre delle misure a favore della pubblicizzazione delle nozze, ma fino al Concilio di Trento non le considerò condizioni di validità del vincolo. Quindi i matrimoni senza pubblicità – allora definiti clandestini – erano validi a tutti gli effetti.

Per cautelarsi dalle incertezze provocate dai matrimoni clandestini – che incidevano ovviamente sulle questioni di successione e legittimità dei figli – il mondo laico aveva elaborato un insieme più o meno complesso di rituali, diversi a seconda del luogo e del ceto sociale, che scandivano le varie fasi del lungo processo di formazione della coppia e ne rendevano pubblici i momenti più importanti. “Cominciare” e “finire” il matrimonio erano espressioni consuete tra i fedeli. Un momento importante del percorso matrimoniale era lo scambio della promessa, in cui i due partner – ma più frequentemente lo sposo e il padre della sposa – si promettevano di prendersi per marito e moglie e si toccavano la mano o facevano un gesto analogo in segno di conferma dell’accordo raggiunto. La promessa non era però un semplice progetto per il futuro (come sarà il fidanzamento a partire dal XIX secolo), ma molto di più: era il momento in cui si mettevano per iscritto gli scambi patrimoniali tra le due famiglie; in altre parole, in cui si stabiliva una nuova alleanza, la cui rottura avrebbe scatenato inimicizie e odi. La promessa, dunque, dava avvio a un nuovo rapporto di coppia. Il diritto canonico riconosceva esplicitamente il carattere vincolante della promessa (o sponsali): se non c’erano impedimenti al matrimonio e se era stata contratta liberamente, la promessa andava mantenuta. Poteva essere sciolta solo su autorizzazione dell’autorità ecclesiastica. Inoltre prevedeva l’istituto del matrimonium praesumptum: una promessa seguita dal rapporto sessuale faceva presumere l’esistenza di uno scambio del consenso al tempo presente e quindi si trasformava automaticamente in matrimonio. Di fatto, la distinzione tra promessa e matrimonio non era così netta come nella dottrina elaborata da Pietro Lombardo, rendendo sovente arduo il riconoscimento del vincolo coniugale indissolubile.

Nel XVI secolo, dopo la rottura dell’unità religiosa, sia i protestanti che i cattolici diedero avvio a una riforma del matrimonio per trasformarlo in un evento pubblico e sacro, celebrato in forma solenne, registrato con esattezza in modo da conservarne la memoria scritta. I padri riuniti al Concilio di Trento (1545-1563) imposero come condizione di validità del matrimonio la presenza del parroco e di due o tre testimoni. Il consenso non bastava più. Non introdussero, tuttavia, l’obbligo del consenso paterno – come fecero i protestanti – ma riaffermarono la centralità del consenso degli sposi. Di fronte alla chiesa (al suo interno solo dopo il Rituale romano del 1614), il parroco, dopo aver annunciato il matrimonio in gestazione per tre giorni festivi, durante la messa, doveva interrogare gli sposi per accertarsi del loro vicendevole consenso e pronunciare le parole Ego vos in matrimonium coniungo…, o altre simili, secondo la consuetudine del luogo. Era inoltre tenuto a registrare l’avvenuto matrimonio nel libro parrocchiale.

La celebrazione del matrimonio fu così per la prima volta interamente sottoposta alle autorità ecclesiastiche e sottratta alla gestione familiare e comunitaria. La scelta del parroco come figura di primo piano nello svolgimento della cerimonia era in linea con il suo ruolo di curatore d’anime che i decreti conciliariUomini e donne acquisirono presto la consapevolezza che, per sposarsi, era a lui che bisognava rivolgersi. Evidentemente, la nuova cerimonia rispondeva a una esigenza di certezza e stabilità che le consuetudini non riuscivano a soddisfare, soprattutto nel caso dei ceti medio-bassi, i quali non sempre disponevano di tempo e denaro sufficiente per sobbarcarsi il costo dei festeggiamenti nuziali. Per questi ceti, il fatto che il parroco, specie se di campagna, già svolgesse molteplici funzioni all’interno della comunità, grazie al suo livello di istruzione, facilitò il passaggio dai vecchi ai nuovi rituali

La dottrina che considerava ministri del matrimonio gli sposi stessi però restò in vigore. Ciò implicava che la presenza del parroco era sì necessaria, ma non erano necessarie le parole che avrebbe dovuto pronunciare. Perciò le coppie che si presentavano all’improvviso in chiesa o in sacrestia di fronte a un parroco ignaro, portandosi dietro un paio di persone come testimoni, e lì si scambiavano le parole del loro reciproco consenso, contraevano dei matrimoni a tutti gli effetti validi. Erano i cosiddetti matrimoni di sorpresa. Essi consentivano ai figli ribelli di sottrarsi alle strategie familiari e sposare la persona scelta anche se i padri si opponevano. Erano però considerati un peccato grave e potevano essere puniti per aver trasgredito gli ordini della Chiesa.

La libertà di scelta dei figli, sulla quale il decreto di riforma – noto come Tametsi dall’avverbio latino con cui iniziava – aveva posto l’accento, comportava il ridimensionamento dei poteri dei padri di famiglia, particolarmente pesanti nei confronti delle figlie, che, se di ceto elevato, erano spesso destinate a diventare spose appena adolescenti. Alcuni giudici ecclesiastici, più attenti e sensibili alle novità introdotte dal Concilio, si impegnarono a convincere giovani promesse spose ad aprire il loro animo ed esprimere liberamente la propria volontà. Una norma del diritto canonico prevedeva che il giudice dovesse interrogare in un luogo sicuro, al riparo dalle coercizioni familiari, le giovani di cui si temesse che non avessero dato il libero consenso al matrimonio. A Venezia fu applicata fin dal XV secolo (C. Cristellon, La carità e l’eros, 135-142, 168-174 ); a Firenze, gli interrogatori di queste giovani si infittiscono proprio negli anni successivi al Concilio di Trento. Per alcune di loro, che venivano temporaneamente trasferite in monastero per riflettere in solitudine, lontane dalle pressioni familiari, gli interrogatori rappresentarono uno stimolo all’introspezione e alla consapevolezza della scelta che stavano compiendo. Quelle domande incalzanti consentirono talvolta di superare paure e minacce e di scegliere autonomamente (D. Lombardi, Matrimoni di antico regime, 249-259).

Imporre una forma pubblica di celebrazione al matrimonio significava distinguerlo più chiaramente dal momento della promessa. Su questo istituto il decreto Tametsi non si pronunciò. Ciononostante la promessa continuò a rappresentare un momento cruciale della costruzione di un rapporto di coppia. Ne abbiamo una conferma dal fatto che nei tribunali diocesani la conflittualità si spostò dal matrimonio alla promessa. Prima del Concilio di Trento prevalevano le cause finalizzate a ottenere la conferma o la nullità di un matrimonio che era stato celebrato senza alcuna forma di pubblicità. Esse cominciano a diminuire dagli ultimi decenni del XVI secolo: i margini di incertezza sulla validità o nullità del vincolo si erano ridotti drasticamente, rendendo inutile il ricorso al tribunale, che ormai poteva servirsi di prove certe per stabilire se una coppia era legittimamente sposata. Aumentano, invece, le cause per ottenere l’adempimento o, più raramente, lo scioglimento della promessa di matrimonio. Uomini e donne che precedentemente avevano rivendicato lo stato di marito o di moglie, pretendendo di aver stipulato un matrimonio clandestino oppure un matrimonio presunto, nelle nuove circostanze non potevano che appellarsi a una promessa e rivendicarne il carattere vincolante nei confronti di un partner che non voleva più convolare a nozze. L’esito era però più incerto, perché non si poteva “forzarlo”, ma solo convincerlo, a mantenere la promessa data. Le donne persero così un importante strumento di tutela giuridica. Erano state soprattutto loro a utilizzare l’istituto del matrimonio presunto per regolarizzare relazioni ambigue, ottenendo di essere riconosciute come legittime spose. In alternativa, ora dovevano accontentarsi di una somma di denaro che avrebbe comunque consentito loro di sposare un altro partner. I giudici ecclesiastici preferivano difatti condannare il presunto promesso sposo a dotare la donna, se costui si ostinava a rifiutare il matrimonio. Quindi per molte donne continuò a essere vantaggioso rivolgersi al foro ecclesiastico, pur in un contesto di minore protezione giuridica.

Nei conflitti matrimoniali i tribunali diocesani dell’età moderna svolsero un ruolo importante di sostegno del genere femminile. Non è un caso che a domandare la separazione dal coniuge fossero prevalentemente le mogli. Il motivo più frequente era la violenza che erano costrette a subire dai loro mariti. Costoro si difendevano appellandosi al diritto-dovere alla correzione, che l’istituto della patria potestas riconosceva loro. Fino a che punto potesse spingersi la correzione era materia di discussione e contrattazione continua. Così come in merito al concetto di violenza (saevitiae) le interpretazioni di giudici e giuristi potevano essere più o meno restrittive. Perciò poteva essere comunque utile rivolgersi al tribunale. Nei casi meno gravi l’obiettivo non era necessariamente di giungere alla separazione, quanto di migliorare il rapporto coniugale. Ai mariti violenti i giudici chiedevano di impegnarsi a trattare bene le proprie mogli oppure imponevano un periodo di separazione che placasse rancori e dissensi. Il diritto canonico considerava la separazione come una misura temporanea finalizzata alla riunificazione della coppia. In effetti le carte processuali rivelano che nella vita di una coppia di ceto medio-basso separazioni e riconciliazioni sovente si susseguivano. In questi conflitti erano coinvolti parenti, amici, vicini, che consideravano un loro dovere quello di intervenire per mettere pace. La casa non era considerata uno spazio privato: le liti di una coppia interessavano l’intera comunità, dalle rispettive famiglie d’origine fino al vicinato, che a vario titolo intervenivano per ristabilire l’ordine. Va anche detto che, ai fini processuali, era essenziale che i conflitti coniugali fossero di pubblico dominio, perché solo le deposizioni dei vicini e dei parenti potevano corroborare le istanze di separazione.

I rapporti di parentela sono stati a lungo trascurati da storici e demografi, più interessati ad analizzare le forme della coresidenza che le reti di relazione esterne al ménage familiare. Le ricerche più recenti hanno invece documentato l’importanza che hanno avuto i legami di parentela nel determinare i modi stessi dell’abitare, che si dilatavano o si restringevano a seconda delle esigenze del ciclo di vita familiare, delle migrazioni, delle necessità lavorative, accogliendo o respingendo parenti giovani in cerca di lavoro, anziani e inabili non più in grado di lavorare, donne e bambini rimasti soli. La solidarietà nei confronti dei parenti in difficoltà non sempre però era un gesto spontaneo che scaturiva dai legami di affetto. In alcuni casi poteva essere necessario imporla. Il diritto agli alimenti previsto dal codice di Giustiniano del 529, che continuò a rappresentare un punto di riferimento in materia, obbligava i membri della parentela a provvedere ai bisogni di vedove e orfani, oltre che dei figli e dei genitori anziani. Gli obblighi dei padri nei confronti dei figli erano circoscritti ai solo legittimi. Il diritto canonico, invece, fin dal XII secolo attribuì ai padri il dovere di provvedere a tutti i figli, senza distinzioni tra legittimi e illegittimi (G. Arrivo, Legami di sangue, legami di diritto). Dal Cinquecento questo principio fu accolto anche dal diritto civile e restò in vigore fino al XIX secolo, quando i codici ottocenteschi, sul modello del codice civile di Napoleone del 1804, stabilirono una rigida demarcazione tra famiglia legittima e illegittima.

I rapporti tra Chiesa e Stati italiani furono a lungo sotto il segno della concorrenzialità. Il Concilio di Trento aveva riaffermato la giurisdizione ecclesiastica sul matrimonio, che i poteri secolari non misero in discussione, pur continuando a legiferare e giudicare sui comportamenti sessuali trasgressivi. Le cose cambiarono nel corso del XVIII secolo. Alcuni sovrani “illuminati” intervennero nel Regno di Napoli, nel Ducato di Modena, nel Regno sabaudo, nel Ducato di Milano e nel Granducato di Toscana per imporre il consenso paterno agli sponsali e ai matrimoni e, soprattutto nella Lombardia austriaca di Giuseppe II, avocare a sé alcune competenze della Chiesa in materia. La rottura, come è noto, si ebbe con la Rivoluzione francese, che introdusse il matrimonio civile, celebrato di fronte a un pubblico ufficiale, scioglibile col divorzio e sottoposto all’esclusiva competenza dello Stato. Fu il codice civile di Napoleone a esportarlo in molti paesi europei. Nonostante vi fossero stati recepiti alcuni importanti principi di uguaglianza, come quello del diritto delle figlie di succedere all’eredità paterna al pari dei fratelli, dal codice scaturiva un modello di famiglia fortemente gerarchico, in cui il capofamiglia esercitava un potere considerevole non solo sui figli, ma anche sulla moglie. Dopo la Restaurazione, a quel codice si ispirarono le legislazioni ottocentesche di numerosi Stati.

In Italia il codice Pisanelli del 1865, pur riconoscendo il carattere laico del matrimonio, riaffermò l’indissolubilità del vincolo: il divorzio venne perciò respinto. Un ampio dibattito sul divorzio precedette e seguì la promulgazione del codice. La questione del matrimonio religioso, che per il nuovo Stato unitario non aveva più alcun effetto civile, rappresentò un altro forte motivo di scontro ed ebbe ricadute significative sulla vita dei fedeli. Molti di loro continuarono a sposarsi davanti al parroco, senza preoccuparsi di contrarre il vincolo anche civilmente. Ma questi matrimoni creavano situazioni di grave incertezza giuridica, dal momento che equivalevano a delle unioni di fatto senza effetti civili ed erano facilmente scioglibili. Perciò nel mondo cattolico finirono con il prevalere le preoccupazioni per assicurare un ordinato vivere civile: fu così proibito ai parroci di celebrare un matrimonio se non c’era la prova del già avvenuto rito civile o l’assicurazione che sarebbe immediatamente seguito. Sul divorzio, invece, lo scontro perdurò a lungo.

Fonti e Bibl. essenziale

G. Arrivo, Legami di sangue, legami di diritto (Pisa, secc. XVI-XVIII), Ricerche storiche, 27 (1997), 231-261; M. Barbagli, Sotto lo stesso tetto. Mutamenti della famiglia in Italia dal XV al XX secolo, Bologna, Il Mulino, 1984; M. Barbagli – D.I. Kertzer (edd), Storia della famiglia in Europa. Dal Cinquecento alla Rivoluzione francese, Roma-Bari, Laterza, 2001 –, Storia della famiglia in Europa. Il lungo Ottocento, Roma-Bari, Laterza, 2002; J.M. Blanquet – G. Rocca, Sacra Famiglia, in G. Pelliccia e G. Rocca (edd), Dizionario degli istituti di perfezione, VIII, Roma, Edizioni Paoline, 1988, coll. 97-102; J. Bossy, L’Occidente cristiano, 1400-1700, Torino, Einaudi, 1990 (ed. or. Oxford 1985); M. Cavina, Il giudice spodestato. L’autorità paterna dall’antichità a oggi, Roma-Bari, Laterza, 2007; C. Cristellon, La carità e l’eros. Il matrimonio, la Chiesa, i suoi giudici nella Venezia del Rinascimento (1420-1545), Bologna, Il Mulino, 2010; A. Esmein, Le mariage en droit canonique, 2 voll., Paris, L. Laroce et Forcel, 1891; J.-L. Flandrin, La famiglia: parentela, casa, sessualità nella società preindustriale, Milano, Edizioni di Comunità, 1979 (ed. or. Paris 1976); J. Gaudemet, Il matrimonio in Occidente, Torino, Sei, 1989 (ed. or. Paris 1987); F. Héritier, Famiglia, in Enciclopedia, VI, Torino, Einaudi, 1979, 3-16; H. Jedin, Storia del Concilio di Trento, 4 voll., Brescia, Morcelliana, 1973-1981 (ed. or. Freiburg 1949-1970); Jemolo, A.C., Stato e Chiesa negli scrittori politici italiani del Seicento e del Settecento, Torino, Bocca, 1914; –, Il matrimonio nel diritto canonico, Milano, Vallardi, 1941; C. Klapisch-Zuber, La famiglia e le donne nel Rinascimento italiano, Roma-Bari, Laterza, 1988; C. La Rocca, Tra moglie e marito. Matrimoni e separazioni nel Settecento a Livorno, Bologna, Il Mulino, 2009; G. Le Bras, Mariage, in Dictionnaire de Théologie Catholique, IX, t. II, Paris, Letouzey et Ané, 1927, coll. 2123-2317; D. Lombardi, Matrimoni di antico regime, Bologna, Il Mulino, 2001; –, Storia del matrimonio. Dal Medioevo a oggi, Bologna, Il Mulino, 2008; P. Moneta, Introduzione al diritto canonico, Torino, Giappichelli, 2007; I. Noye, Famille (Dévotion à la Sainte Famille), in Dictionnaire de Spiritualité, V, Paris, Beauchesne, 1964, coll. 84-93; P. Prodi (ed), Disciplina dell’anima, disciplina del corpo e disciplina della società tra medioevo ed età moderna, Bologna, Il Mulino, 1994; S. Seidel Menchi – D. Quaglioni (edd), Coniugi nemici. La separazione in Italia dal XII al XVIII secolo, Bologna, Il Mulino, 2000; –, Matrimoni in dubbio. Unioni controverse e nozze clandestine in Italia dal XIV al XVIII secolo, Bologna, Il Mulino, 2001; –, Trasgressioni. Seduzione, concubinato, adulterio, bigamia (XIV-XVIII secolo), Bologna, Il Mulino, 2004; –, I tribunali del matrimonio (secoli XV-XVIII), Bologna, Il Mulino, 2006; Y. Thomas, La divisione dei sessi nel diritto romano, in P. Schmitt Pantel (ed), Storia delle donne in Occidente, I: L’Antichità, Roma-Bari, Laterza, 1990, 103-176; P. Ungari, Storia del diritto di famiglia in Italia (1796-1942), Bologna, Il Mulino, 1974; G. Zarri, Recinti. Donne, clausura e matrimonio nella prima età moderna, Bologna, Il Mulino, 2000.


LEMMARIO




Feudalità ecclesiastica - vol. I


Autore: Tommaso di Carpegna

A questo concetto è possibile attribuire un duplice significato. Da una parte, la feudalità ecclesiastica comprende il novero di quei più o meno grandi signori territoriali (vescovati, monasteri, canoniche) che derivavano parte del loro potere e delle loro giurisdizioni pubbliche dalla fedeltà vassallatica giurata al sovrano in quanto loro signore feudale (in tempi e luoghi differenti l’imperatore e re del regno italico, il pontefice romano, il re di Sicilia). Dall’altra parte, il medesimo concetto comprende anche il vastissimo ambito di coloro che – laici o ecclesiastici – si qualificavano a loro volta come vassalli di signori ecclesiastici: come per esempio i detentori di diritti sulle pievi o su altri enti, le clientele armate ovvero i milites dei monasteri e dei vescovati. Il sistema vassallatico-beneficiale, clientelare e del dominio fondiario e signorile viene spesso interpretato in senso omnicomprensivo come “feudale”, ma in realtà esso va riferito a quadri molto più articolati, non organici e non omogenei, mancando, fino all’inoltrato XII secolo, una nozione chiara e finanche l’esistenza di un vero e proprio “sistema feudale” (ovvero, come si sarebbe detto nell’Ottocento, di una “piramide feudale”). Il vassallo ecclesiastico di un sovrano, così come il vassallo di un signore ecclesiastico, non erano sostanzialmente differenti rispetto alla controparte puramente “laica” e svilupparono forme analoghe di dominio e controllo del territorio e degli uomini che lo abitavano. Tuttavia, la realtà italiana pone soprattutto il caso dei vescovi in una prospettiva peculiare. Ciò accade innanzitutto per una ragione di ordine istituzionale, in quanto i vescovi erano già stati investiti, in età basso-imperiale, di una pubblica autorità che poteva affiancarsi e che poi andò sostituendosi a quella dei magistrati imperiali. In secondo luogo, i vescovi italiani esercitavano forme di dominio su sistemi abitativi di tipo urbano, i quali, mantenendosi in Italia, mancano invece in gran parte del resto dell’Europa altomedievale. Dunque il vescovo italiano, pur essendo anche un funzionario regio o imperiale e pur derivando parte della propria autorità dalla relazione con il sovrano, ebbe sempre la città come centro direzionale e i cittadini – che lo eleggevano e i cui ottimati costituivano la sua clientela – come suoi referenti obbligati. Di converso e di conseguenza, i vassalli vescovili potevano essere non solo i signori del territorio circostante, ma anche i cittadini: specchio di una realtà socio-politica che in Italia rimase sempre complessa e non inquadrabile in modo semplicistico, anche riguardo al vincolo feudale, nel rapporto città-campagna ipostatizzato come carattere fondamentale del medioevo europeo.

È quasi impossibile proporre un elenco anche solo approssimativo degli enti ecclesiastici che, nel corso del medioevo, esercitarono il potere pubblico in Italia e intrattennero vincoli vassallatici ascendenti – con i sovrani – e discendenti, con i loro fideles. Infatti, praticamente ogni ente ecclesiastico medievale provvisto di beni fondiari ebbe giurisdizione temporale – spesso ma non sempre delegata dal potere sovrano – e si servì a sua volta del sistema della concessione di benefici per amministrare e governare i propri domini. È tuttavia certo che il grado di incidenza di questi enti nel quadro della gestione del potere in Italia fu analogo a quanto accade di riscontrare nella rimanente Europa, sebbene l’estensione molto ridotta delle diocesi dell’Italia meridionale rendesse il potere di quei vescovi in genere meno forte rispetto a quanto accadeva nel nord della penisola. Grandissimi signori territoriali furono l’arcivescovo di Milano, forse il principale di tutta l’Italia settentrionale; l’arcivescovo di Ravenna, il quale fondava la propria autorità nella successione dall’esarca bizantino; il vescovo di Roma, che costruì un vero e proprio stato sovrano durato fino al 1870 e che in una fase matura fu signore feudale (almeno nominalmente) di una lunga serie di regni europei tra cui, in Italia, il Regno di Sicilia (1130). Tra le abbazie, occorre ricordare almeno Nonantola, Farfa, Montecassino e Cava dei Tirreni, tutte investite di domini transregionali.

La conquista del regno longobardo da parte dei franchi (774) portò in Italia centro-settentrionale a una rapida diffusione del vassallaggio, già in piena espansione Oltralpe. Durante il periodo carolingio, vescovi, abati e badesse di quelle regioni, già insigniti di incarichi pubblici legati alla loro funzione, rinsaldarono il proprio vincolo di fedeli del re ricevendo in beneficio ingenti quantità di terre. Al declinare delle fortune dell’Impero carolingio e nei primi decenni dopo la sua scomparsa (anni terminali del IX secolo, prima metà del X secolo), il loro peso come vassalli e il peso delle loro rispettive clientele andò vieppiù aumentando. Strumenti giuridici principali di questa evoluzione furono l’immunità, cioè il diritto di poter esercitare la giurisdizione sulle proprie terre in modo autonomo, in quanto era fatto divieto agli ufficiali pubblici di entrarvi, e il districtus, cioè il potere di comandare gli abitanti della città e della terra intorno alla cinta fortificata, che in qualche caso fu esteso all’intera diocesi. Elemento fattuale fu invece l’indebolimento dell’autorità regia a fronte della capacità di esercizio del dominio da parte di coloro che lo detenevano concretamente.

Una seconda fase di sviluppo e consolidamento della feudalità ecclesiastica si inaugura sotto il dominio degli Ottoni (962-1002) e perdura fino al regno di Enrico IV (1056-1105). Durante questo periodo, la Chiesa imperiale (Reichskirche) andò a costituire il principale strumento di amministrazione in Italia e in Germania. Tuttavia, le modalità di questo sistema di governo, nuovo soltanto in parte, vanno chiarite. Una interpretazione storiografica inaugurata da Ludovico Antonio Muratori e ancora presente come vulgata in alcuni manuali scolastici, sostiene infatti che gli Ottoni avrebbero adottato il sistema dei cosiddetti “vescovi-conti” preferendo questi ultimi ai conti laici. Questo sarebbe accaduto sia per ragioni ideologiche, sia soprattutto in quanto il dominio vescovile, non essendo ereditario perché i vescovi non potevano avere discendenza legittima, sarebbe ritornato alla corona con la morte del prelato, assicurando dunque all’imperatore la disponibilità del bene. Lo stereotipo dei “vescovi-conti”, pensato come un sistema escogitato per arginare la dinastizzazione delle cariche, è stato completamente rivisitato dalle ricerche degli ultimi decenni, le quali hanno mostrato come in realtà l’azione degli Ottoni non fosse propositiva ma responsiva. Gli Ottoni si trovarono a riconoscere formalmente l’enorme potere che i vescovi avevano accumulato di fatto nelle fasi finali dell’Impero carolingio e durante la prima metà del X secolo. Come accadde spesso nel medioevo, il sovrano non era sufficientemente saldo e non disponeva di apparati di controllo tali da poter imporre azioni di governo altro che saltuarie. Al contrario, egli esercitava funzioni di coordinamento e supervisione e affermava la propria autorità attraverso la mediazione, il compromesso e il riconoscimento di situazioni di fatto. Questa interpretazione, che pone l’esercizio concreto del potere al primo posto nella scala dei valori, supera il preconcetto tipico dell’interpretazione modernistica del feudalesimo, secondo la quale, in ogni caso, il rapporto tra i vari detentori di potere dovesse essere di tipo giuridico e dunque regolato sul piano del diritto. Si tratta di una rivoluzione concettuale che vede la prassi come il fattore determinante dei processi storici e che dunque supera la visione del medioevo come un periodo semplicemente “feudale” e formalizzato nella cosiddetta “piramide”, sostituendo ad essa la visione di un medioevo “signorile”, nel quale il sistema vassallatico-beneficiale è solo una parte di forme di governo e gestione dei patrimoni molto articolate e non sempre definite in modo ufficiale. Insomma, il processo di trasmissione del potere non avveniva solo dall’alto in basso, e neppure esclusivamente dal basso in alto, ma era legato a singoli luoghi e vicende, a territori governati, a signori e signorie, alla disponibilità di clientele armate, di contadini, di boschi e campi coltivati. In questo discorso, anche la “feudalità ecclesiastica” trova una collocazione perfetta, sia quando si ha a che fare con signori territoriali che detengono parte del loro dominio per delega pubblica (ma che hanno altresì forti basi di potere nelle proprietà allodiali, nelle clientele armate, nel vincolo familiare con i parenti), sia con signori territoriali i quali concedono in beneficio – è il caso per esempio del papato – quote del loro “stato” in senso lato, ma che debbono giocoforza esercitare forme compromissorie di gestione del dominio.

Il periodo della Lotta per le investiture (1076-1122) rappresentò una fase di snodo fondamentale. Mentre l’imperatore intendeva continuare nella linea tradizionale (riservandosi dunque anche il diritto di investire i vescovi del loro ruolo pubblico e, ovviamente, di renderli suoi fedeli con un vincolo di tipo feudale), il papato riformatore, in nome dell’esigenza di una completa alterità fra Regnum e Sacerdotium, intese scardinare questo stato di cose e di fatto, almeno per l’Italia, vi riuscì in buona misura. La conseguenza di questo lungo e complesso periodo di turbolenza non fu, peraltro, il passaggio da un controllo imperiale a un controllo pontificio, bensì la rottura del sistema, proprio in relazione alla feudalità, in quanto produsse una crisi generale degli assetti tradizionali di governo. La già ricordata, forte incidenza delle città nella conformazione dell’abitato, unita anche a una crisi di valori in parte legata anche alle istanze di riforma (è il caso della Pataria milanese) e a una sempre più forte crescita economica e demografica, videro in tutta l’Italia una sostanziale riduzione del peso politico dei vescovi e delle loro clientele feudali e l’instaurarsi di nuovi sistemi di governo – i comuni – che prescindevano dal potere vescovile, rivendicavano anch’essi un’autorità di tipo pubblicistico e facevano ampio uso dei legami vassallatici, soprattutto in relazione con il contado. Fra XII e XIII secolo, le nuove e sempre più salde forme di potere secolare (costruzione delle monarchie feudali, instaurarsi di solide identità familiari aristocratiche, trasmissione dei patrimoni per via agnatizia), unite a una generalizzata crisi della rendita agraria e del monachesimo tradizionale, avrebbero portato anche alla notevolissima riduzione, in termini di ampiezza territoriale e di peso politico, delle antiche signorie monastiche.

Fonti e Bibl. essenziale

V. Fumagalli, Il Regno italico, UTET, Torino 1978 (Storia d’Italia diretta da G. Galasso, vol. 2); C.G. Mor, H. Schmidinger (edd.), I poteri territoriali dei vescovi in Italia e in Germania nel Medioevo, il Mulino, Bologna 1979; G. Tabacco, Egemonie sociali e strutture del potere nel medioevo italiano, Einaudi, Torino 1982; Chiesa e mondo feudale nei secoli X-XII. Atti della dodicesima settimana internazionale di studio, Mendola, 24-28 agosto 1992, Vita e Pensiero, Milano 1992; C. Violante (ed.), Nobiltà, chiese e altri saggi. Studi in onore di Gerd G. Tellenbach, Jouvence, Roma 1993; G. Tabacco, Sperimentazioni del potere nell’alto medioevo, Einaudi, Torino 1993; F. Prinz, Clero e guerra nell’alto medioevo, Einaudi, Torino 1994; G. Sergi, Intraprendenza religiosa delle aristocrazie nell’Italia medievale, in Id., L’aristocrazia della preghiera. Politica e scelte religiose nel medioevo italiano, Donzelli, Roma 1994, 3-29; H. Keller, Signori e vassalli nell’Italia delle città: secoli IX-XII, UTET, Torino 1995; C. Violante, “Chiesa feudale” e riforme in Occidente (secc. X-XII). Introduzione a un tema storiografico, CISAM, Spoleto 1999; G. Albertoni, L. Provero, Il feudalesimo in Italia, Carocci, Roma 2003; S. Reynolds, Feudi e Vassalli, Jouvence, Roma 2004.


LEMMARIO




Filosofia - vol. I


Autore: Stefania Pietroforte

L’identità di un popolo è spesso incarnata da personaggi della storia politica o culturale che esprimono caratteri salienti della sua vicenda. Dante Alighieri è probabilmente la figura di intellettuale che meglio risponde al bisogno di rappresentare le origini e le radici della cultura italiana: l’altezza dell’ingegno poetico e la sventurata sorte politica sembrano riassumere il contrasto frequente nella nostra storia tra superba capacità creativa e miseria delle condizioni politiche e sociali. Difficile, quindi, non citare Dante anche a proposito della filosofia italiana, tanto più che il suo lavoro poetico e letterario si sostanzia di materia filosofica elaborata in maniera originale sia nella Divina Commedia, dove esplicita è la questione del ruolo della filosofia nella vita dell’uomo e nella missione della sua salvazione, sia nella Monarchia, con la teoria dei due soli, dove egli mette a tema il problema della autonomia della ragione rispetto alla Rivelazione e alla fede. Non a caso nella prima metà del Novecento storici della filosofia di prima grandezza come Bruno Nardi si sono impegnati a mettere in luce la ricchezza delle fonti filosofiche di Dante e ne hanno rimarcato l’originalità, scoprendo una figura non assorbita, come si era creduto a lungo, nell’orizzonte categoriale del tomismo, ma sensibile invece a correnti spirituali che avevano percorso gli ultimi secoli del Medioevo e facevano sentire la loro voce ancora nella Firenze del Trecento.

Tuttavia la concezione filosofica di Dante restava saldamente inquadrata in una visione teologica che fu di fatto scalzata dall’Umanesimo, il movimento di idee che fra Trecento e Quattrocento irruppe con forza nei principali paesi europei. Nell’Italia dei comuni e del particolarismo politico esso diede vita a un rinnovamento culturale e concettuale di vastissima portata che è stato, per certi versi, uno dei motivi peculiari dell’età moderna. Nota dominante dell’Umanesimo era appunto la centralità dell’uomo nel mondo e il conseguente convergere dell’attenzione filosofica su questo soggetto ora diversamente considerato. Questo fatto è sembrato spesso un rovesciamento del sentiment medievale, un capovolgimento da cielo a terra, da Dio all’uomo, dalla teologia alla letteratura. Ma i personaggi che lo hanno rappresentato in maniera eminente dimostrano che la questione era più complessa. Petrarca, Bruni, Salutati, Bracciolini,Valla guardavano all’antichità greco-romana come riferimento fondamentale. Il richiamo al mondo antico non era fuga dalla realtà, ma attingimento di una vita più vera, di una forma umana originaria che accomunava gli spiriti al di là del tempo. L’individuo si ritraeva dal mondo naturale che lo circondava, “moriva” al mondo per trovare, in un discorso interiore dell’anima, il legame con la comunità spirituale di tutti i tempi e fruire, grazie alle opere di uomini di elevato sentire, del pregio dell’essere umano, della sua più vera natura. Quel richiamo, che assumeva accenti anche assai diversi, non era allontanamento ascetico dal mondo, ma ricerca di una dimensione culturale più aderente all’uomo, più in contatto con la sua esperienza di vita, individuale e sociale, anche dolorosa, anche difficile, ma tanto più ricca di valore morale quanto più essenzialmente ed esclusivamente sua. L’anelito di Petrarca a fuggire il sentiero e le orme di altri era non solo desiderio di solitudine ma anche interiorizzazione, dialogo dell’anima con se stessa e, in questo discorrere, ritrovamento di un motivo comune fondamentale con tutti gli uomini. Era distacco necessario per rintracciare quell’identica natura umana che l’antichità aveva espresso quasi in una purezza ideale. E se Petrarca viveva ancora con tensione tormentosa l’affermazione di questo bisogno, perché avvertiva come irrisolto il contrasto tra l’ideale cristiano e quello pagano degli antichi, Bruni non lo sentì come un problema. Traduttore dal greco di Platone e soprattutto dell’Etica Nicomachea e della Politica di Aristotele, Bruni ne prendeva forza per sostenere che propriamente umana è solo la vita civile, la vita della polis e che l’individuo dispiega la sua natura solo nel concerto civile. Non c’era dissidio tra pensiero classico e Cristianesimo: se per i cristiani il fine era in un’altra vita mentre per gli antichi la virtù era il fine supremo della vita terrena, gli uni e gli altri sostenevano però le stesse cose sulla giustizia, la temperanza, la fortezza, la liberalità e le altre virtù e vizi ad esse contrari. Negli antichi e nei moderni, secondo Bruni, parlava la stessa verità, lo stesso Dio; per questo bisognava ascoltarli e andare a scuola da loro. Ecco allora che la traduzione degli autori latini e greci assumeva il significato di mettere in auge la verità e non di proiettarla nel passato, di portare la cultura fuori dalla panne della logica disancorata dalla sostanza della vita reale. La polemica con l’assetto scientifico medievale si faceva, per questo aspetto, molto sentita: è l’universo delle lettere, che indaga il mondo morale dell’uomo, l’ambito in cui la verità va ricercata; è per il tramite della parola poetica e letteraria che si scopre l’esperienza intima e spirituale dell’uomo; è grazie allo studio di queste opere che si risale alle scaturigini del pensiero che un animo incrudelito ha costretto nei termini sterili della logica aristotelica. La grammatica si sostituiva così alla logica come strumento con cui entrare in contatto con la vera essenza della vita umana. In questo modo l’Umanesimo si configurava come contestazione e rifiuto di una razionalità fuorviante e senza esito e come ricerca di nuovi modi e nuovi contenuti di sapere. Con decisione perciò Valla polemizzò con il metodo dei dialettici e lo spirito sistematico, per affermare invece che la valenza grammaticale del linguaggio era la chiave di volta per lo studio del pensiero.

Le critiche degli Umanisti, per quanto radicali fossero, anche quando accolsero motivi filosofici ritenuti irreligiosi come l’epicureismo non abbandonarono il convincimento della sostanziale spiritualità del reale e di una vita universale che circola nel tutto, dove Dio è presente e l’uomo trova il suo posto. Proprio il forte accento sulla spiritualità e l’idea di una umanità unita come in blocco metafisico che attraversa il tempo e lo spazio dovevano servire d’appoggio al più grande filosofo del Quattrocento, quel Ficino, stimato dai dotti di tutto il mondo, che fece di Firenze il polo di riferimento dell’universo umanistico.

Se una era l’umanità, uno doveva essere il suo spirito, unica e antichissima la sapienza, che Ficino rintracciava nei Libri ermetici e negli scritti di Platone, documenti di una pia philosophia appartenente ai saggi di tutti i tempi. Il rapporto con l’antico aveva, in questo caso, una valenza spiccatamente religiosa: quella sapienza era infatti frutto di una eterna rivelazione che la docta religio scopriva quando, rientrata l’anima dentro di sé allontanandosi dai sensi, si lasciava investire dalla luce divina. La mens riceveva così la verità che poteva essere comunicata ad altri. La conoscenza si configurava come esperienza religiosa di cui i grandi pensatori della storia erano stati protagonisti, primo fra tutti Platone che Ficino indicava come un profeta. Questo il significato dei testi platonici e neoplatonici che Ficino tradusse rendendoli accessibili come fonti della vera filosofia. Se ad un capo di essa si trovava Platone, al termine c’era il Cristianesimo, di cui il filosofo greco era precursore. Lui per primo aveva indicato la via del distacco dalle cose del mondo, scoprendo in quest’autonomia il carattere fondamentale della conoscenza umana. Aristotele era, per questo verso, lontano dal vero. Ma Ficino (e dopo di lui anche Pico della Mirandola con l’ideale della concordia dei filosofi) lo recuperava con la teoria dell’anima. Infatti, come l’intelletto agente aristotelico, l’anima era attività ma, diversamente che in Aristotele, era anche sostanza separata e moltiplicabile per ciascun individuo, immortale. Così, però, l’anima non era più forma del corpo: di Aristotele Ficino recuperava in realtà l’elemento platonico.

I motivi dell’aristotelismo erano invece tutt’altro che dimenticati a Padova, dove il più importante aristotelico del Cinquecento, Pietro Pomponazzi, indagando la natura umana la concepiva come punto mediano tra mortalità e immortalità. Egli però intendeva l’immortalità solo come un’ aspirazione, un’ansia. L’uomo in effetti era un grado della natura e questa a sua volta era un continuum. La conoscenza, quindi, non poteva prescindere dal fantasma. La filosofia di Pomponazzi era scaturita dalle dispute sull’anima; essa si presentava come la risoluzione della lacerazione tra intelletto trascendente e separato e intelletto mortale a favore di quest’ultimo. Senza alcun timore, il filosofo aristotelico sosteneva che l’anima era legata al corpo e moriva con esso, che la religione non aveva valore conoscitivo ma pratico, infine che la teologia inficiava i rapporti tra fede e scienza. Questa doveva conoscere la natura iuxta propria principia. Dall’identità di religione e filosofia di Ficino si passava qui alla loro netta separazione, negando ogni trascendenza. Era l’aristotelismo declinato seguendo la sua vena più antiplatonica. Un forte senso dell’autonomia della scienza esprimeva pure Bernardino Telesio che criticava la filosofia aristotelica come ricettacolo nascosto della trascendenza platonica: la sua polemica contro “forme” colpiva l’incapacità di questa filosofia di dar conto del mutamento. Il sapere doveva seguire il processo naturale senza sfigurarlo con la creazione di entità immaginarie. Indagare la natura iuxta propria principia era il motto anche del naturalismo telesiano.

Ma il Cinquecento fu ricco anche di altre esigenze, metafisiche, di riforma morale e politica. Una potenza infinita non può produrre un effetto finito; dunque il mondo creato da Dio è un universo infinito. Così per esempio Giordano Bruno si poneva in rotta di collisione sia con la fede cristiana che con la fisica aristotelica, e si incontrava invece con la teoria di Copernico che, infrante le barriere del mondo, consentiva di concepire infiniti spazi e quindi una visione di Dio e delle cose più elevata. Ma Bruno faceva poi fatica a distinguere Dio dal mondo e sconfinava in un panteismo non privo di contraddizioni e risucchiante ogni rilevanza dell’individuo. Fortissima fu la spinta riformatrice, sia religiosa che politica, di Campanella. Ma il pensiero che più sconvolse e lasciò un segno profondo fu quello di Machiavelli, per il quale l’uomo, che nella sua essenza è natura, era stretto nella morsa di fortuna e virtù. La virtù non era che la capacità di accettare la necessità che ci circonda, quella espressa appunto dalla fortuna. Nell’Italia delle signorie e dei conflitti sanguinosi, il primo bene era la pace. Per ottenerla occorreva conoscere senza pregiudizi la natura umana. L’analisi di Machiavelli la vide dibattersi nelle spire di una sorte già assegnata, come già segnato era pure l’andamento della storia civile. Naturalismo arricchito di cultura umanistica fu quello di Machiavelli, nel quale la trascendenza non aveva alcun ruolo. Giudicato immorale e condannato, costituì un riferimento imprescindibile per il pensiero politico dei secoli a venire.

La spinta dell’Umanesimo, la ripresa di Platone e lo sviluppo in senso naturalistico di una parte della filosofia peripatetica rappresentavano gli elementi del panorama filosofico italiano che non si era confrontato con la Riforma protestante. Essi ebbero effetti importanti sul Concilio di Trento che, chiamato a rispondere soprattutto al problema dell’antitesi tra grazia divina e libertà umana, mostrò di non essere insensibile al portato dell’Umanesimo. Infatti il compromesso che si trovò per la soluzione del problema riconosceva la collaborazione umana con l’opera di Dio: la grazia restava dono gratuito, ma l’uomo era libero di aderirvi o meno. Era l’ammissione dell’importanza dell’uomo, del suo protagonismo, forse impensabile senza l’esperienza umanistica che andava ad arricchire un aspetto della teologia cristiana. Ma il Concilio non fu solo questo. Fu anche deciso richiamo alla tradizione e all’autorità, spesso interpretato come autoritarismo. E’ ben noto che questo fatto portò la Chiesa a un conflitto con i risultati di quel sapere naturalistico-scientifico di cui Galilei era figura emblematica e la cui condanna (1616) assunse valore altamente simbolico.

Anche per Galilei la conoscenza cominciava con l’esperienza e la natura doveva essere indagata iuxta propria principia. Il mondo, però, era scritto in caratteri matematici, gli stessi con i quali Dio lo aveva creato, e che erano conosciuti propriamente dalla ragione. Dal mondo sensibile si passava quindi all’indagine razionale, per tornare solo dopo alla verifica sperimentale. Matematica e ragione erano perfettamente affini e della stessa natura era pure la mente divina. La verità era l’incontro della mente umana con quella divina sul piano della matematica esperita nel mondo. La differenza tra il sapere divino e quello umano era solo di grado. L’intero sistema dell’universo creato e increato era il luogo in cui si rispecchiava una assoluta razionalità. La fiducia nella divinità della mente umana, nella struttura matematica del reale, nella creazione di un simile mondo ad opera di Dio erano evidentemente presupposti filosofici di chiara ascendenza rinascimentale, e da quel ceppo discendeva il robusto platonismo che ora costituiva l’intelaiatura della scienza naturale. Le propaggini del platonismo messo in auge dal ritorno agli antichi dettato dall’Umanesimo toccavano qui una meta impensabile per Ficino, mentre il richiamo all’esperienza, che tanto doveva ad Aristotele, si svolgeva in funzione della distruzione definitiva della sua visione del mondo. L’impostazione filosofica di Galilei, condivisa da molti scienziati dell’epoca, era una concezione metafisica che non poteva essere derubricata a ipotesi senza perderne il valore. La condanna, malgrado l’abiura, non valse a scalfirla.

Il timore di un ritorno alla tradizione fu uno dei motivi che, nel Seicento, favorì l’ingresso in Italia della filosofia di Cartesio. Il filosofo francese fu visto come campione dell’antiautoritarismo. Il suo metodo sollecitava una indagine sgombra dai pregiudizi. La sua concezione scientifica poteva facilmente essere accostata a quella di Galilei, andando così a rafforzare la schiera di coloro che perseguivano l’ideale di una conoscenza scientifica del tutto indipendente da interferenze religiose. Cartesio venne associato anche a Gassendi e alla dottrina atomistica, con la quale sembrava che il meccanicismo potesse declinarsi, con il risultato di spingere alcuni pensatori (Borrelli, Valletta, Grimaldi) a posizioni ritenute del tutto in contrasto con la fede e quindi condannate. Questo uso di Cartesio era possibile, però, solo se si scindeva la sua fisica dalla metafisica. Vi fu chi invece, come Fardella, potenziò quel legame e non solo negò l’esito atomistico ma, tenendo fermo alla centralità della matematica, mise in questione la sostanza materiale, l’evidenza delle cose, la natura matematica del punto come struttura della realtà; dubbi che rafforzavano il bisogno della veracità divina, perché fosse scongiurato lo scetticismo. Insomma il cartesianesimo era tirato da due parti: per un verso per giustificare una scienza che tendeva al materialismo, per l’altro era utile per indagare più a fondo gli esiti di un platonismo cresciuto e trasformato nei secoli che, risolvendo importanti problemi, non di meno gravi ne mostrava. In entrambi i casi la filosofia di Cartesio era accolta come un baluardo contro tentazioni retrive. Era l’arma in più che consentiva di contrastare l’autoritarismo della Chiesa, spesso in difficoltà di fronte al nuovo. Lo disse senza più alcun timore Giannone che nella sua Istoria civile condannò il potere temporale della Chiesa, con argomenti e sentimento ormai illuministici.

I problemi irrisolti della filosofia cartesiana erano però molti e grandi: anzitutto quello che si annidava nel divario tra mente divina e mente umana, rimarcato proprio dal cogito, che era certezza, sì, ma non atto creativo. Come era possibile allora la conoscenza se, come dimostrava la matematica, vero è solo ciò che l’uomo fa, ciò che la mente umana costruisce da sé? Una risposta originale venne offerta da Vico. Tenendo fermo al principio che il vero e il fatto convertuntur e che questo è propriamente scire per causas, scoprì nella storia e nel linguaggio il regno nel quale davvero l’uomo era creatore. All’origine delle parole vi erano forme spirituali, non concetti. Esse si sono manifestate e determinate storicamente. Quei valori, immanenti alle loro stesse manifestazioni, costituivano la mappa dello spirito umano ricostruibile solo a partire dalla storia che le aveva viste svolgersi e attuarsi. La storia, dunque, rivelava la natura creativa dell’uomo e il ripetersi secondo modalità che ne facevano un ciclo eterno. L’essenza che la filosofia aveva cercato nella trascendenza doveva ora essere rintracciata nelle creazioni della fantasia, del linguaggio, del pensiero. La verità non era un’idea separata ma qualcosa che si era fatto e doveva ancora farsi. Gli uomini vivevano e progredivano fino al punto in cui questo perfezionamento tornava indietro per riprendere circolarmente il suo andamento. Nessuna età dell’oro, perché eternità e storia coincidevano. Questa ciclicità infinita era vista da Vico come il segnale che una Sapienza più alta governava l’ordine del mondo: la Provvidenza divina era l’anima del processo universale. Ma questa idea era difficilmente compatibile con quella di una religione rivelata. La risposta di Vico a Cartesio raccoglieva la potenza creativa del razionalismo trasformandola completamente, ma non andava d’accordo, però, con la fede cristiana.

L’influenza del pensiero francese in Italia non si limitò a Cartesio. Nel Settecento furono letti e apprezzati gli Enciclopedisti (Voltaire, d’Holbac, Maupertuis, Montesquieu) e Condillac insegnò a Piacenza lasciando un’impronta indelebile nel collegio Alberoni (Gioia, Romagnosi). Rafforzato ulteriormente dalla filosofia di Locke, l’Illuminismo promuoveva l’idea di una ragione universale, appartenente a tutti gli uomini, fondamento di diritto naturale; insisteva non solo sul valore dell’esperienza, ma sul fatto che scopo della filosofia dovesse essere ciò che è utile alla vita umana e alla felicità. Proprio per questo la filosofia illuministica era particolarmente interessante per un popolo che soffriva di arretratezza sociale, economica e culturale e che, soprattutto nel meridione, sentiva la mancanza di educazione alla vita civile. Così, malgrado la contraddittorietà di dottrine che si basavano su un concetto di ragione e natura eterne e professavano poi la necessità del progresso, filosofie come quella di Filangeri a Napoli poterono rappresentare un vessillo di emancipazione umana e sociale per genti dispoticamente assoggettate, mentre a Milano i fratelli Verri e Beccaria esaltarono la cultura e il progresso e proclamarono che anche il patto sociale trovava un limite nel diritto umano al rispetto della persona. Forte strumento di emancipazione sociale e politica, debole invece sul piano gnoseologico, l’Illuminismo trovò un critico di valore in Gerdil, che ne confutò con decisione la tendenza materialistica. La materia non attinge l’universale, diceva Gerdil. L’anima lo conosce direttamente nella sua assolutezza. Ma quella prima essenza che essa conosce, non è altro che l’azione diretta di Dio sull’uomo. Questa azione è il vero fondamento della conoscenza. In questo modo, in pieno Settecento, il Platonismo saliva ancora in cattedra e mostrava il suo valore: l’idea separata era ciò a cui bisognava ricorrere per spiegare il nostro stesso pensiero. Ma insieme al suo valore il Platonismo portava con sé una seria difficoltà: il contatto diretto con Dio, oggetto immediato dell’intelletto, era questione spinosissima per una filosofia che volesse osservare i dettami del Cristianesimo rivelato. Fu il problema che si sarebbe trovato ad affrontare anche Rosmini.

Le dispute sull’intelletto, la natura matematica dell’universo, le tendenze materialistiche, l’innatismo e il sensismo, tutto sembrò rifluire in quel pensiero di prima grandezza rappresentato dal criticismo di Kant, di cui ai primi dell’Ottocento si ebbe notizia in Italia. Il più importante filosofo italiano di quel secolo, definito da Spaventa “il Kant italiano”, ne accolse l’istanza principale. Prima di considerare qualunque altra domanda filosofica, era necessario anzitutto rispondere a quella che chiedeva come fosse possibile la conoscenza; questo riteneva Rosmini in perfetto accordo con Kant. Ma la sua soluzione si discostava a tal punto da quella del filosofo di Koenigsberg, che mentre questi rinunciava a ogni metafisica dichiarandola impossibile, Rosmini fece della sua dottrina gnoseologica la base d’appoggio di una nuova ontologia. Punto di gravitazione di tutto il sistema era l’idea dell’essere, oggetto ideale assoluto il cui intuito era la potenza stesso del pensiero umano che da quel contatto traeva ogni forza e garanzia. Questa idea, rivendicata dal filosofo di Rovereto come antitetica ai concetti apriori del trascendentalismo che Rosmini riteneva psicologici e soggettivi, era il modello stesso con cui Dio aveva creato il mondo. Proprio perciò essa rappresentava il punto di contatto tra Dio, uomo e mondo. Proprio in quanto l’idea dell’essere era il fulcro del suo pensiero, essa costituì il bersaglio di due grandi polemiche, con Gioberti e con i Neotomisti, i quali ultimi ebbero nel Roveretano un avversario anche sul piano politico. Mentre in campo filosofico i Neotomisti italiani puntavano sulla riproposizione del pensiero di S. Tommaso, quasi scudo ideologico per la Chiesa, rimarcando una posizione difensiva di reazione alle vicende connesse con la rivoluzione dell’89 e con le idee anticlericali che l’avevano accompagnata; sul piano politico si scontravano con un Rosmini che concepiva riforma della Chiesa e riforma politica come strettamente connesse e sosteneva vivacemente il progetto dell’unificazione nazionale. La diatriba portò infine alla condanna di Rosmini e alla sua messa all’Indice, ma il suo pensiero attraversò il secolo incontrandosi, tra l’altro, con quello di Gentile, autore insieme a Croce della più importante rinascita filosofica del Novecento. Intanto, a pochi anni dalla morte di Rosmini, si sarebbe realizzata l’unità d’Italia che avrebbe inferto un colpo definitivo al potere secolare della Chiesa, problema che unì coscienze tra di loro molto distanti e che era destinato a lasciare un segno duraturo nella storia del Paese e della sua cultura.

Fonti e Bibl. essenziale

E. Garin, Storia della filosofia italiana, voll. I-III, Torino 1966; E. Garin, Rinascite e rivoluzioni. Movimenti culturali dal XIV al XVIII secolo, Roma-Bari 1975; B. Nardi, Dante e la cultura medievale, Roma-Bari 1985 2° ed; B. Nardi, Saggi di filosofia dantesca, Firenze 1967 2° ed; J. Hankins, Plato in the Italian Renaissance, Leiden 1990; C. Vasoli, Quid sit Deus. Studi su Marsilio Ficino, Lecce 1999; C. Vasoli, Filosofia e religione nella cultura del Rinascimento, Napoli 1988; Canone E., Il dorso e il grembo dell’eterno. Percorsi della filosofia di Giordano Bruno, Pisa 2003; G. Ernst, Il carcere, il politico, il profeta. Saggi su Tommaso Campanella, Pisa 2003; Enciclopedia bruniana e campanelliana, a cura di E. Canone e G. Ernst, vol. I Pisa-Roma 2006; vol. II Pisa-Roma 2010; G. Sasso, Niccolò Machiavelli, Bologna 1993, voll. 2, nuova edizione; G. Sasso, Machiavelli e gli antichi e altri saggi, Milano-Napoli 1987-88; G. Belgioioso, Cultura a Napoli e cartesianesimo. Scritti su G. Gimma, P. M. Doria, C. Corminale, Galatina 1992; G. De Liguori, La reazione a Cartesio nella Napoli del Seicento. Giovambattista De Benedictis, “Giornale critico della filosofia italiana”, a LXXVIII, 1996; Badaloni N., Introduzione a Vico, 2° ed. aggiornata Roma-Bari 1988; W. Rother, La maggiore felicità possibile. Untersuchungen zur Philosophie der Aufklärung in Nord- und Mittelitalien, Basel 2005; L. Malusa, Neotomismo e intransigentismo cattolico, 2 voll, Milano 1986-1989; P. Prini, Introduzione a Rosmini, Roma-Bari, 1997; AA.VV., Sulla ragione. Rosmini e la filosofia tedesca, a cura di M. Krienke, Soveria Mannelli 2008; M. Mustè, La scienza ideale. Filosofia e politica in Vincenzo Gioberti, Soveria Mannelli 2000.


LEMMARIO




Folclore - vol. I


Autore: Stefano Brancatelli

Premessa. Parlare di folclore è impresa difficile per lo storico. Avendo per dominio l’insieme delle “persistenze”, ossia le tradizioni antiche e persino arcaiche tramandate mediante scrittura, oralità e ritualità, esso è divenuto oggetto di studio dell’antropologia e dell’etnologia e solo raramente (a partire dall’école des Annales) della scienza storica che diffida del comparativismo, metodo pseudoinduttivo non poggiante sulle basi stabili delle fonti, ma solo sull’apparente similitudine di epifenomeni, sincronicamente o diacronicamente attestati. Riguardo ad alcune forme di f. la mancanza di fonti non consente di individuare eventuali continuità col passato, anche se le similitudini sono evidenti: si pensi, ad esempio, alle processioni siciliane con rami di alloro in onore dei santi, evocanti le dafneforie pagane. Anche se ciò fosse, il diverso linguaggio religioso ha comunque determinato nel corso dei secoli non solo variazioni esterne, ma soprattutto una transignificazione interiore, per cui riti apparentemente simili in contesti religiosi diversi esprimono significati polivalenti.

Principali forme di folclore. Individuiamo, senza pretesa di esaustività, tre cicli festivi: settimana santa, mezz’estate, tempo natalizio.

Settimana Santa. All’origine della molteplicità di questi riti vi è il teatro sacro, che a sua volta trae genesi nello spirito devoto medievale atto in tutt’Europa a compensare la sempre meno compresa ritualità liturgica. La drammatizzazione della Settimana Santa generò così due gemelli: il rito liturgico e il dramma sacro extraliturgico che nel XII secolo ebbe rapida diffusione e laicizzazione uscendo dalle mura monastiche. La visitatio Sepulchri nacque in ambito monastico inglese dapprima come tropo intraliturgico e nel X secolo come scena dialogata extraliturgica posta fra la depositio e l’elevatio crucis (et hostiae). In Italia, dentro i possedimenti spagnoli, nel XVII secolo si accentuò questa teatralità, generando abusi e provocando la reazione di alcuni sinodi post-tridentini: l’uso di mettere all’asta la chiave del “Sepolcro” il Giovedì Santo (Sinodo di Messina, 1621) o il denarium crucis (la prima moneta offerta dal Capitolo alla Croce) il Venerdì Santo o i tizzoni del fuoco nuovo la veglia pasquale (Melfi, 1635), rischiava di avallare credenze scaramantiche. Il teatro religioso ebbe il suo apogeo nelle Sacre Rappresentazioni del XVI secolo coi Gesuiti che, fra i tanti, privilegiarono soprattutto il tema della Passione. Nel 1750 si diffuse in tutta la Sicilia l’opera teatrale di Filippo Orioles “Riscatto di Adamo nella morte di Gesù Cristo” o “Mortorio di Cristo”: la ricchezza di riti folcloristici per la Settimana Santa è data dalla frantumazione e dispersione di questo dramma sacro rappresentato lungo i sette giorni o solo parzialmente. È il caso delle deposizioni dalla croce della statua del Cristo morto nel sepolcro, o delle cene parlanti, come quella ancor oggi posta in essere il giovedì Santo nella Chiesa di S. Fratello (ME) in Sicilia, col sacerdote nei panni di Cristo. In diversi luoghi il Venerdì Santo è inscenato il funerale di Cristo, al pari dell’Entierro spagnolo, mediante processioni “penitenziali” (alla presenza di penitenti incappucciati detti babbaluti o di flagellanti detti vattienti) e/o “drammatiche” con gruppi statuari (Misteri) o viventi. Diffusissime sono la notte di Pasqua la “calata del telone” dinanzi alla statua del Risorto, che ben rende l’evento epifanico della Risurrezione, e il giorno dopo la rappresentazione della cerca e dell’incontro della Madonna, avvolta nel velo nero del lutto, col Figlio sinché, al cadere del manto, lo riconosce Risorto: il dramma sacro ha così il suo epilogo. A Prizzi (PA), sempre in Sicilia, tale rappresentazione è accompagnata dall’abballu di li diavuli: alcuni uomini in rosso (i demoni) ed uno in giallo (la morte) tentano di frapporsi per tre volte all’incontro della Madonna col Risorto sino a che, alla fine, vengono uccisi dalle spade degli angeli. E’ evidente l’allusione allegorica al peccato ed alla morte sconfitti dal Risorto, retaggio della sacra rappresentazione detta Diavolata ed Angelicata scritta nel 1752 da Anselmo Laudani. Ancor più originale a San Fratello (ME) è la festa dei Giudei: centinaia di uomini incappucciati e vestiti con una giubba giallo-rossa disturbano i riti devoti dei fedeli col suono di trombe. Lo stesso folclorista G. Pitré, nel descrivere questa manifestazione, la giudicava con disprezzo: in realtà, lungi da essere carnascialesca, essa è una sorta di “canone inverso”, di adynaton tra due forme, quella orante e quella di disturbo, ad evocare il binomio rifiuto-accoglienza del mistero di Cristo da entrambe rappresentato.

Mezz’estate. Il 24 giugno, solstizio di estate, presenta tradizioni arcaiche, alcune delle quali inculturate cristianamente con la festa del Battista, altre combattute come superstiziose in epoca post-tridentina. I rituali, diffusi in tutta Europa, erano di svariato tipo e legati al comparatico, ai fuochi notturni, ai bagni rituali, alla raccolta della rugiada (Sinodo di Ferrara, 1612 etc.) da utilizzare per l’impasto del pane ricavato dalle spighe mietute quel giorno (Crema, 1590) o per impregnare i panni contro le tarme (Urbino, 1678) e, ancora, alla ricerca di erbe (Napoli, 1576; Gerace, 1651 etc.), al suono ininterrotto notturno delle campane (Treviso 1581; Vicenza, 1647; Pinerolo, 1714 etc.), agli auspici di matrimonio (Montalcino, 1675; Otranto, 1641 etc.). In Piemonte, diversi sinodi condannarono l’usanza di cospargersi di rugiada, di praticarsi il salasso (Vercelli, 1576) e di preparare infusi di noci. In Sicilia ad Alcara li Fusi (ME) caratteristica è la festa del “Muzzuni”: la notte di S. Giovanni, dopo la processione della testa del Battista, ogni quartiere prepara un “altarino” con una brocca mozzata (muzzuni) riempita di spighe ed adorna di gioielli. Davanti ad essa si canta per tutta la notte e ci si lega col comparatico (ossia lo scambio di promesse, di fiori e di confetti), alla cui pratica, a mio avviso, ancor più che a presunti culti di fertilità precristiana, tale rito è legato. Pitré (Spettacoli e feste, 297) descrive l’uso allora presente a Caccamo (PA) ma oramai scomparso, per cui da due brocche rotte, dette muzzuni, una per gli uomini ed una per le donne, si estraevano i nomi delle coppie di compari e comari. Qualcosa di simile avveniva in Sardegna, come attesta il gesuita A. Bresciani (Dei costumi dell’isola di Sardegna comparati con gli antichissimi popoli orientali, Uffizio della Civiltà Cattolica, Napoli 1850, 270-271): le giovani a cui gli uomini avevano chiesto di diventare comari per tutto l’anno, alla fine di maggio piantavano grano o orzo in vasi di sughero, detti Erme o Nenneri, riempiti di terra, fatti fermentare nel buio e rotti il 24 giugno contro la porta della chiesa a suggellare la promessa di comparanza. Ad Ozieri (SS) l’erma, ornata di nastri, veniva posta sul davanzale rivestito di drappi colorati. Il Bresciani stesso collega questi vasi di germogli di frumento eziolato – in molti paesi del meridione collocati il giovedì santo presso gli altari della Reposizione e che ad Alcara corredono il Muzzuni – al rito precristiano dei cosiddetti “giardini di Adone”.

Tempo natalizio. Oltre l’antica usanza di accendere fuochi, diffusa è la preparazione alla solennità del Natale mediante nove giorni di celebrazioni in chiesa, spesso accompagnate da manifestazioni esterne. A questa dimensione extraliturgica si prestarono novene cantate, aventi diverse tipologie (Pastorali, Ninnenanne etc.): sono i cosiddetti “canti degli orbi”, canzoni popolari a sfondo religioso attestate nel 1661 a Palermo allorché i cantastorie ciechi si riunirono nella congregazione dell’Immacolata Concezione sotto la guida dei Gesuiti. Un originalissimo tipo di novena che si diffuse in tutta la Sicilia a partire dal XVIII secolo, ed ancora presente in numerosi centri, è il “Viaggio doloroso di Maria Santissima e del patriarca S. Giuseppe” di Biniditto Annolero, pseudonimo anagrammatico di Antonino Diliberto di Monreale: Pitré (Notizie sulle rappresentazioni in Sicilia, in “Archivio storico siciliano” (1876) 176-177) riporta che per nove giorni per strada questi cantastorie cantavano alternamente la leggenda poetica delle vicende del viaggio dei genitori di Gesù da Nazaret a Betlemme, prestando voce uno a San Giuseppe, l’altro a Maria o al narratore. Non è mai stata effettuata una ricerca storica sulla fonte da cui avrebbe attinto Annolero: se ne è ipotizzata l’origine nelle laudi medievali, nelle “omelie dialogate” bizantine, nei “misteri medievali” (F. Conigliaro – A. Lipari – C. Scordato, Narrazione, teologia, spiritualità del Natale, San Martino delle Scale 2004, 35). In realtà, il testo è collegato all’ambito francescano del Seicento, con evidenti assonanze tematiche e lessicali con “La mistica città di Dio” di Suor Maria di Gesù di Agreda, testo diffuso nel regno di Napoli e nei possedimenti aragonesi latino-americani. Annolero quindi trasformò in canto questo scritto: si noti come in Messico una simile ritualità per le strade sia ancor oggi legata alle festività natalizie mediante la rinomata Posada, mentre in Colombia il testo della suora venne trasformato anch’esso in novena, ma stavolta recitata in chiesa. Concludiamo questa elencazione di usanze con una pratica oggi scomparsa ma un tempo diffusissima in tutta Europa e soprattutto in Germania ed in Francia il 28 dicembre per la festa dei Santi Innocenti: consisteva nel vestire con paramenti episcopali (mitria, croce pettorale, pastorale etc.) un ragazzo detto nel Canavese Abate degli Innocenti ed altrove Episcopello o Vescovello. Deplorata sin dal Concilio di Cognac (o copriniacense) del 1260 e da quello di Basilea del 1431 al canone 21, l’usanza è ancora in Italia condannata (De episcopello tollendo) da alcuni sinodi siciliani (Patti, 1537; Catania, 1668), piemontesi (Torino, 1547 etc.), pugliesi (Trani e Salpi, 1589). Pitré (Spettacoli e feste, 137) dice che già dai vespri del 27 sino al 28 dicembre di ogni anno, l’episcopello, assistito da altri coetanei, parodiava in chiesa il ministero episcopale, proclamando il Vangelo e predicando, sino a percorrere poi le principali strade cittadine benedicendo la folla. Fortemente osteggiata, tale consuetudine perdurò a Palermo sino alla seconda metà del XVI secolo e a Catania sino al 1736. Ultimamente è stata ripristinata in centri della Spagna ed in particolare della Catalogna.

Conclusioni. Se è soprattutto a partire dal periodo controriformistico che si è iniziato a guardare con sospetto a forme di f. sino ad allora tollerate se non apprezzate, per radicare la fede in contesti popolari, oggi in ambito ecclesiale si è ricompreso come esse, quando non cadono nell’esperienza del magismo o della superstizione, non è detto che indulgano al folclore (in senso dispregiativo) o che contaminano la fede che esprimono, bensì al contrario raccontano il modo stesso con cui la fede si è incarnata in un determinato territorio e, come tali, oltre che come facenti parte del patrimonio culturale di un popolo, debbano essere tutelate e valorizzate.

Fonti e Bibl. essenziale

G. Di Marzo (ed.), Drammatiche rappresentazioni in Sicilia e poesie di autori siciliani dal secolo XVI al XVII, in Biblioteca storica e letteraria di Sicilia, I, Palermo 1876; G. Pitré, Spettacoli e feste popolari siciliane, in Biblioteca delle tradizioni popolari siciliane, XII, L. Pedone Lauriel, Palermo 1881 (ristampato da Forni, Bologna 1980); I. Carini, L’episcopello nel Medio Evo, Tip. Sociale, Roma 1887; B. Rubino, Folklore di San Fratello, A. Reber, Palermo 1914; Id., La lavanda dei piedi à San Fratello: ultime sacre rappresentazioni in Sicilia, in “Il folklore italiano” 1 (1925); C. Corrain – P. Zampini, Documenti etnografici e folkloristici nei Sinodi Diocesani italiani, Forni editore, Bologna 1970 (ristampa anastatica di interventi in “La palestra del clero” dal 1964 al 1967); E. Guggino, I canti degli orbi. I cantastorie ciechi a Palermo in I quaderni di Zu Rusalinu, I-II-III, Palermo 1980-1981-1988; S. Mangione (ed.), La coena Domini a S. Fratello. Dalla tradizione orale un testo poetico e misterioso, Coop. Regina Adelaide, Troina 1984; A. Plumari, Le espressioni di religiosità popolare della Settimana Santa in Sicilia, Città aperta, Troina 2009; Discografia: E. Guggino – G. Garofalo (edd.), I cantastorie ciechi a Palermo, disco Albatros VPA 8491, Milano 1987; M. Sarica – N. Lo Castro (edd.), A cantata di li pasturi, CD Ethnica TA008, Firenze 1993, 20002.


LEMMARIO




Giansenismo - vol. I


Autore: Mario Rosa

La condanna dell’Augustinus di Giansenio con la bolla Cum occasione (1653) e gli interventi che seguirono da parte di Roma per imporne l’accettazione non suscitarono in Italia particolari reazioni, al di là degli ambienti curiali e di taluni settori ecclesiastici legati agli Ordini regolari, come quello agostiniano. Tuttavia, a partire dalla seconda metà del ‘600, presero a diffondersi anche in ambienti laici, tra gli scritti più significativi del giansenismo francese, in originale e in traduzione, le Lettres provinciales di Pascal e gli Essais de morale di Nicole, destinati a perpetuare l’eredità di Port-Royal tra le generazioni dei giansenisti della Penisola sino ai primi decenni dell’800.

Un salto di qualità compirà il giansenismo in Italia dopo la promulgazione della bolla Unigenitus (1713), che proibiva le Réflexions morales sul Nuovo Testamento dell’oratoriano Quesnel, espressione del giansenismo ecclesiale, interiorizzato e devoto francese di fine ‘600. Sebbene non accolta negli ordinamenti politici giusisdizionalisti da parte di alcuni Stati italiani, come il Piemonte, Venezia e la Toscana, essa provocherà interesse e discussioni, in una sempre più larga rete di relazioni e nella complicità sotterranea di carteggi e di contatti personali, tra quanti in senso anticuriale e antigesuitico, o per motivazioni religiose più profonde, simpatizzavano con il movimento, che prenderà ad orientarsi nei successivi decenni verso due direzioni sostanziali. La prima, inizialmente moderata e caratterizzata dalla preoccupazione di mediare il conflitto con Roma attraverso una “spiegazione” della Unigenitus, rappresentata in particolare dal gruppo giansenista romano, darà le sue prove più consistenti durante i pontificati di Benedetto XIV (1740-58) e di Clemente XIV (1769-74), sino a sfociare, una volta tramontate le speranze di una “pace nella Chiesa”, in un più radicale disegno di “riforma giansenista” della stessa Chiesa. La seconda, non disgiunta dalla precedente, ma sin da subito più avanzata nelle sue istanze riformatrici, ispirate dalla visione ecclesiale dell’opera di Quesnel, diversa da quella romana nei rapporti tra la gerarchia e i fedeli, e perciò non già verticistica e autoritaria, ma “orizzontale” e comunitaria, si aprirà presto più facilmente alle spinte episcopaliste e parrochiste che connoteranno lo scorcio del secolo.

Il pontificato di Benedetto XIV, segnato soprattutto nel primo decennio dal messaggio culturale e religioso della “regolata devozione” di Ludivico Antonio Muratori, e dalla tollerante disponibilità del pontefice nei confronti delle forze anche contrastanti all’interno del cattolicesimo, consentirà al giansenismo italiano di assumere quel carattere policentrico che lo caratterizzerà sino alla sua conclusione: a Roma come a Napoli, in Piemonte come nell’area veneta, più tardi in Toscana, in Lombardia e in Liguria. Ma, nella cerniera tra la prima e la seconda metà del secolo, l’età benedettina aprirà due nuovi fronti su cui prenderà a misurarsi il giansenismo italiano: la prospettiva di una pacificazione tra la Sede romana e la Chiesa giansenista “scismatica” di Utrecht, e il rapporto con la cultura illuministica.

Sul primo fronte, tentativi di composizione dello scisma utrettino, apertosi dai primi anni del ‘700 nell’ambito del giansenismo dei Paesi Bassi in opposizione alla prassi della missione gesuitica d’Olanda, furono avviati nel corso degli anni ’40, per essere definitivamente compromessi quando quella Chiesa metropolitana si espresse nel suo secondo sinodo provinciale del 1763: con la conseguenza però di presentare all’intero giansenismo europeo l’immagine idealizzata di una primitiva comunità cristiana e di raccogliere anche dall’Italia, da parte di numerosi esponenti del movimento, rinnovate simpatie e “lettere di comunione”, a riconoscimento di una realtà istituzionale e religiosa che poteva agire da paradigma di quella Chiesa dispersa e invisibile, vagheggiata dai giansenisti, alla ricerca della “vera” Chiesa dopo una lunga età di oscurità e di decadenza. Sul secondo fronte, parallelamente al tramonto del progetto di “pace nella Chiesa”, matura sempre più nel giansenismo italiano, negli anni ’60, la convinzione che comunque le fratture nella Chiesa cattolica rappresentassero un forte elemento di instabilità all’interno, e di fragilità verso l’esterno, nei confronti di quel che, nel linguaggio polemico coevo, veniva indicato come “l’attacco dell’empietà”. In questa direzione, secondo i giansenisti italiani, la risposta non poteva derivare solo da una serie di opere apologetiche, che pure non mancarono, o dallo sviluppo, che pure raggiunse livelli notevoli, mediante traduzioni bibliche, edizioni e commenti di opere patristiche e di scritti di pietà, di un orientamento dottrinale, ispirato da sant’Agostino, e di una pratica religiosa più severa, l’uno e l’altra contrapposti al molinismo e al facile devozionismo della Compagnia di Gesù. Essa doveva scaturire soprattutto da una solenne definizione da parte di Roma della dottrina cattolica sulla natura dell’uomo nei suoi rapporti col disegno divino, sui grandi temi, cioè, della grazia e del libero arbitrio, intesi naturalmente in senso giansenistico.

Nel quadro di questo ambizioso disegno apologetico, che segna l’ultima speranza dei giansenisti italiani nei confronti della Sede romana, e che, prima della definitiva frattura, ne costituisce un significativo carattere originale rispetto ai prevalenti aspetti ribelli del giansenismo francese e olandese, due tentativi vennero concretamente avviati, a distanza di un decennio l’uno dall’altro. Il primo, nel 1759, in concomitanza con la condanna dell’Encyclopédie, si fermò ad un abbozzo di bolla papale di condanna generale della cultura illuministica, elaborata dal giansenista napoletano Simioli, teologo del cardinale “zelante” Spinelli; il secondo, più consistente, perseguito tra il 1769-71 dal gruppo giansenista romano nel corso di una missione ufficiosa a Roma di un autorevole portavoce del giansenismo francese, Augustin-Jean-Charles Clément, si arenò anch’esso rapidamente nel calore delle polemiche che portarono alla soppressione della Compagnia di Gesù.

Questi tentativi apriranno però la strada non solo alla produzione biblica, patristica e devota, cui si è accennato, ma ad un impegno più “moderno” da parte del movimento, non legato unicamente alla nostalgia del ritorno alla primitiva Chiesa cristiana e alla tradizione dei Padri, ma sempre più sensibile, sul piano dell’attività pastorale, diocesana e parrocchiale, all’uso nuovo di strumenti di formazione e di propaganda, come i giornali e i catechismi, e, sia pure con dosaggi strumentali, alle sollecitazioni della stessa cultura contemporanea, della quale era espressione sin dai primi decenni del secolo, ad opera di alcuni gruppi di “cattolici illuminati”, un particolare orientamento culturale e religioso, destinato ad assumere tra gli anni ’70-’80 tratti più definibili e coerenti in un movimento di Aufklärung cattolica e/o cristiana, alla ricerca a livello europeo di un possibile dialogo col mondo dei Lumi.

È con gli anni ’60-’70 che le violente polemiche, che porteranno alla soppressione della Compagnia di Gesù (1773), e alle quali i giansenisti italiani parteciperanno attivamente, faranno maturare le condizioni di un decisivo sbocco politico da parte del movimento, dapprima attraverso l’opera di fiancheggiamento dei provvedimenti di espulsione della Compagnia dai regni iberici e dai regni di Napoli e di Sicilia, poi attraverso l’attenzione prestata alle prime riforme realizzate in Italia dai sovrani asburgici e borbonici. È in questo clima che si rafforzerà con gli anni ’80 la concezione già diffusa che le verità nella Chiesa fossero “oscurate” e che rimedio improcrastinabile fosse unicamente la spinta rischiaratrice delle riforme: della riforma della Chiesa, anzitutto, ma nel quadro ormai operativo del riformismo politico dei sovrani. È questo un punto che ben contrassegna un altro dei caratteri peculiari del giansenismo italiano rispetto a quello francese parlamentare e “appellante” al futuro Concilio, fortemente ostile lungo la sua storia al potere monarchico assoluto. Un carattere che verrà alimentato soprattutto dalle esperienze del giansenismo toscano e di quello lombardo: nel primo caso dalle riforme ricciano-leopoldine nelle diocesi di Pistoia e Prato, nel secondo caso dagli interventi giuseppini a Pavia; a Pistoia e Prato, dopo la nomina episcopale del Ricci nel 1781, con le riforme istituzionali e liturgiche avviate dal presule in accordo col granduca Pietro Leopoldo, sino al sinodo pistoiese del 1786; a Pavia, con l’organizzazione giuseppina dell’Università, e poi, dal 1786, con l’istituzione del seminario generale, nel quadro delle riforme ecclesiastiche imperiali, alle quali portarono un sostanziale contributo docenti come il Tamburini, lo Zola, il Natali e l’Alpruni.

Ma, con gli anni ’80, al di là di questi due nuclei essenziali, si è forse al momento più alto della diffusione del giansenismo nella penisola. Si consolidano i gruppi operanti in Piemonte con le loro preoccupazioni pastorali e morali, sotto l’ombra protettrice di vescovi simpatizzanti del movimento da Novara ad Asti, a Pinerolo; sono attivi nella Lombardia veneziana, tra Brescia e Bergamo, dotti monaci benedettini e preti dell’Oratorio, impegnati in traduzioni ed edizioni di testi, insieme con combattivi parroci rurali, come il Guadagnini e il Cornaro, che esaltano le prerogative del clero di secondo ordine, e con vivaci circoli laici, impregnati di antigesuitismo; si configura più nettamente il nucleo genovese, che annovera nelle sue file oratoriani e scolopi, come il Palmieri e il Molinelli, e tra i sacerdoti secolari il Degola; e mentre il gruppo romano continua a gestire una larga rete di rapporti, si arricchisce notevolmente il gruppo napoletano con i fratelli Cestari e l’abate Troisi, che collegano l’episcopalismo giansenista e febroniano dei vescovi di Reggio Calabria, di Taranto e di Potenza al giurisdizionalismo e all’anticurialismo della politica ecclesiastica borbonica.

S’insiste ora attraverso un periodico come gli «Annali ecclesiastici» di Firenze (dal 1780), o attraverso la Raccolta di opuscoli interessanti la religione (1783-90), patrocinata dal Ricci, o talune opere del Tamburini come la Vera idea della Santa Sede (1784), nel colpire le alterazioni intervenute, nel tempo, nelle strutture della Chiesa, con l’ampliamento dei poteri papali e curiali a danno delle Chiese locali, l’abnorme proliferazione degli Ordini regolari, il trionfalismo barocco delle confraternite, la pompa oratoria della predicazione, la dannosa esteriorità della pratica religiosa, incrementata dalle indulgenze e dalle devozioni popolari più diffuse, come quella antica della Via Crucis, che viene riproposta in forme più consone alla meditazione dei fedeli, o quella “nuova”, gesuitica, al Sacro Cuore, il cui carattere “farisaico” sarà denunciato dal Ricci in una famosa pastorale del 1781. Accanto a queste denunzie tuttavia, alla luce della dottrina agostiniana e di un rigorismo morale, che si cerca di consolidare nella formazione del clero, non tanto nei seminari tradizionali, ma in Accademie ecclesiastiche, che si istituiscono in diverse diocesi toscane per l’impulso congiunto dei vescovi e del granduca, e nel seminario generale di Pavia, va definendosi meglio una pastorale popolare giansenista, alternativa a pie opinioni correnti, come quella della sorte degli infanti morti senza battesimo, e una pratica sacramentale giansenista in riferimento alla penitenza e alla eucarestia, contrastando le tendenze, ritenute lassiste, delle facili assoluzioni da parte dei confessori e della consuetudine della comunione frequente da parte dei fedeli. Orientamenti, questi, difficili riguardo ad atti essenziali della vita cristiana, che ci fanno comprendere almeno in parte la reazione “benignista”, che già avviata nel ‘700 da Alfonso Maria de Liguori, finirà per trionfare, sulle sue orme, nel corso dell’800.

In questo contesto di tensioni, due momenti salienti connoteranno i rapporti tra il giansenismo e il potere politico, la tolleranza religiosa e la pietà illuminata. Il primo rinvigorito dalla patente giuseppina del 1781, il secondo espresso dai Cinquantasette punti ecclesiastici, sottoposti dal granduca Pietro Leopoldo ai vescovi toscani, come avvio di un più ampio progetto di riforma della Chiesa nazionale: due momenti nei quali possiamo cogliere emblematicamente la complessità di un dibattito interno al movimento e il divario tra gli orientamenti giansenisti e quelli politico-statalisti dei governi riformatori. Quanto al primo ne sono riprova due articoli degli «Annali ecclesiastici» di Firenze del 1782, che da una iniziale e piena accettazione della tolleranza ecclesiastica giuseppina passeranno ad una posizione non priva di talune riserve riguardo al riconoscimento e alla praticabilità di fatto della tolleranza cristiana. Un punto sostanziale questo, tuttavia, che verrà ripreso e sviluppato, nel clima più aperto delle riforme giuseppine in Lombardia, dal De tolerantia ecclesiastica et civili (1783) di Tamburini e Zola, per giungere al decreto di apertura del sinodo di Pistoia del 1786, che si esprimerà in una convinta professione di tolleranza religiosa intraecclesiale e nel rifiuto di ogni forma di violenza e di sopraffazione politico-religiosa, e più tardi alle posizioni di taluni giansenisti a favore della libertà religiosa nel corso dei dibattiti costituzionali della Repubblica Cisalpina.

Più marcato il divario nel caso della pietà illuminata, che si era sviluppata radicalizzando tra gli anni ’70-’80 anche elementi della “regolata devozione”, trovando la sua formulazione più ampia in una serie di disposizioni del governo giuseppino e nei già ricordati Cinquantasette punti leopoldini. Anche con durezza si interviene ora nei confronti di ogni manifestazione religiosa che fosse “irragionevole o sproporzionata”, dagli “eccessi” devozionali nel culto dei santi alla “superstiziosa” venerazione delle immagini velate – particolarmente diffuse, queste, in Toscana –, per accentrare nelle istituzioni parrocchiali e nell’opera utile del “buon parroco” i risultati di un nuovo modo di intedere e praticare nella società la vita religiosa individuale e comunitaria. Ma con questa differenza tra i motivi ispiratori, che guidavano l’opera dei governi, e quelli che garantivano l’adesione e l’appoggio da parte del movimento giansenista: che, mentre per il riformismo laico, una volta che si fossero diradate le tenebre della superstizione per effetto della Ragione, si sarebbe consolidata la collocazione di sudditi ossequienti nelle strutture dello Stato, per i giansenisti la cancellazione di ogni oscurità dal volto della Chiesa avrebbe favorito il ritorno dei fedeli alla Scrittura e alla tradizione dei Padri e il loro approdo ad una nuova interiorità.

Il sinodo di Pistoia del 1786, più volte menzionato, intese essere non solo la sanzione del riformismo ecclesiastico ricciano in armonia col riformismo di Pietro Leopoldo, ma il culmine di un processo più largo, che avrebbe dovuto investire dall’esempio pistoiese l’intera Chiesa toscana, chiamata ad un futuro concilio nazionale – una prospettiva dissoltasi con la vittoria dello schieramento moderato nell’assemblea preparatoria del 1787 – per sfociare poi, secondo un progetto che attraversava l’intero giansenismo europeo, in una Chiesa profondamente riformata. Ma il sinodo pistoiese, che rappresentò il punto massimo d una convergenza, accelerò al tempo stesso l’insanabile frattura che era all’interno del fronte riformatore, tra la logica autonoma dell’azione statale, ormai molto avanzata attraverso l’opera riformatrice, e la concezione giansenista della Chiesa come corpo privilegiato all’interno dello Stato, una concezione legata ad una visione del potere monarchico di diritto divino e ad una rilegittimazione dello stesso potere politico dei sovrani assoluti. Al di là della crisi più generale del riformismo illuminato sulla soglia degli anni ’90, la frattura era perciò nelle cose: da parte del potere politico, nella necessità di sviluppare in senso laico e secolarizzato le premesse insite nelle riforme; da parte del giansenismo, nell’impossibilità di superare di colpo i fondamenti ideali e religiosi della società di antico regime e di sviluppare sino in fondo quelle spinte liberatorie che pure agivano all’interno della sua visione ecclesiale.

Condannato il sinodo di Pistoia da Roma con la bolla Auctorem fidei del 1794, mentre si accentuava una violenta campagna antigiansenista soprattutto da parte di scrittori ex gesuiti e da parte del «Giornale ecclesiastico di Roma», dal 1785 organo delle posizioni curiali più intransigenti, gli anni della Rivoluzione segnano un altro spartiacque tra le file del movimento, presto colpito dalla facile accusa di “giacobinismo” da parte del fronte reazionario. Già tra il 1791-92 la crisi si era approfondita per l’adesione del Ricci e del Degola alla costituzione civile del clero varata nella prima fase rivoluzionaria francese, che aveva sancito da un lato la loro clamorosa rottura con chi, come il giansenista ligure Del Mare, aveva contestato la legittimità da parte di un’assemblea laica di «costituirsi despota della Chiesa», e dall’altro il silenzioso ripiegamento di chi, come il senese de Vecchi e il veneto Pujati, pure erano stati attivi compagni di fede giansenista. Sarà comunque il Tamburini delle Lettere teologico-politiche (1794), prima della discesa delle armate francesi in Italia, ad elaborare una nuova piattaforma concettuale per il movimento e a definire con cautela, accanto alla tradizionale accettazione dell’investitura divina dell’autorità, talune forme di garanzie costituzionali all’interno di essa, con il richiamo all’origine contrattualistica dei governi; e sarà il lento sviluppo, e poi il prevalere di questa componente contrattualistica, a permettere ai giansenisti italiani di misurarsi con le novità del Triennio rivoluzionario, soprattutto riguardo al tema della libertà religiosa.

In effetti, se il Degola e i giansenisti liguri si impegnarono a Genova in un’accurata opera di pedagogia rivoluzionaria e nel tentativo di dar vita ad una costituzione civile del clero sul modello di quella francese, e poi nell’elaborazione della costituzione della Repubblica Ligure, anche altri esponenti di spicco del movimento daranno un contributo fondamentale ai dibattiti politico-costituzionali in atto, in particolare nella Repubblica Cisalpina: il Tamburini e lo Zola a Pavia, ancora legati, pur nel riconoscimento di una nuova situazione di fatto, alla passata esperienza del riformismo giuseppino; il Giudici e l’Alpruni a Milano, più sensibili nei confronti delle repentine trasformazioni democratiche. Ma, se si escludono il Giudici, più tardi amico di Alessandro Manzoni, e forse l’Alpruni, ben pochi dei giansenisti italiani accetteranno pienamente, nel corso delle discussioni e dell’approvazione dei nuovi progetti costituzionali, il principio della libertà religiosa. Essi rimasero in larga maggioranza convinti assertori di una libertà di culto che mantenesse al cattolicesimo, ben inteso ancora una volta purificato in senso giansenista, il suo carattere di religione dominante, come verrà affermato esplicitamente nella costituzione della Repubblica Ligure, consentendo alle altre confessioni la libertà di «private opinioni», a conferma della difesa, pur nel travaglio rivoluzionario, di una Chiesa ancora tutelata dallo Stato.

Al momento del trapasso dai mutamenti democratici all’autoritarismo napoleonico, due erano le strade che il giansenismo, esauritasi la sua più diretta funzione riformatrice, era destinato a percorrere. Da un lato, quella che porterà alla sua dissoluzione, come avverrà con l’Alpruni, in una religiosità laica e razionale, che configurerà la fisionomia di quei “cristiani senza Chiesa” così numerosi nell’800; dall’altro, quella della sua proiezione in una futura “rigenerazione” religiosa, arricchita da tensioni apocalittiche e millenaristiche, come avverrà col Degola, che intravvederà, nel disegno provvidenziale di una nuova Chiesa, con l’innesto, sul cammino dei veri credenti, i giansenisti, del nuovo virgulto degli ebrei convertiti, di derivazione paolina (Rom. 11), l’orizzonte di una ecumene in cui si sarebbe riprodotta la perfezione delle origini. Tra questi due estremi, tuttavia, illimpidite dagli elementi politici più strettamente connessi al periodo rivoluzionario, del giansenismo dovevano mantenersi vive nel corso dell’800 alcune idee di fondo che esso aveva così a lungo proclamato: l’autonomia della coscienza religiosa individuale, il collegamento della politica alla vita morale e questa ad una mai intermessa aspirazione alla riforma religiosa, un retaggio che ha trovato più di altre correnti politiche, culturali e religiose non a caso uno spazio così largo e duraturo nella società e nella cultura italiana. Ne sono testimonianze storiche nel corso dell’800 l’esperienza del cattolicesimo liberale e taluni aspetti e momenti significativi del processo risorgimentale e post-unitario italiano, così come più tardi l’attenzione che la storiografia ha dedicato al movimento sino ai giorni nostri.

Fonti e Bibl. essenziale

Per una rassegna storiografica sul giansenismo italiano sino al 1986, cfr. C. Fantappiè, Riforme ecclesiastiche e resistenze sociali. La sperimentazione istituzionale nella diocesi di Prato alla fine dell’antico regime, Bologna 1986, 11-42, dove sono indicate le numerose ricerche con tagli interpretativi diversi e le edizioni di fonti apparse tra ‘800 e ‘900. Tra le ricerche cfr. in particolare: E. Passerin d’Entrèves, La riforma “giansenista” della Chiesa e la lotta anticuriale in Italia nela seconda metà del Settecento, in «Rivista storica italiana», LXXI (1959), 209-234; Id., Scipione de’ Ricci dalla formazione giovanile all’esperienza sinodale. Rileggendo le sue Memorie, in Il Sinodo di Pistoia del 1786, Atti del Convegno internazionale per il secondo centenario Pistoia-Prato 25-27 settembre 1986, a cura di C. Lamioni, Roma 1991, 65-149 (ma il volume è nel suo complesso un punto di riferimento essenziale sul giansenismo settecentesco). Si veda inoltre: M. Rosa, Riformatori e ribelli nel Settecento religioso italiano, Bari 1969; Id., Il Giansenismo, in Storia dell’Italia religiosa, 2, L’età moderna, a cura di G. De Rosa, T. Gregory, A. Vauchez, Roma-Bari 1994, 231-269; Id., Settecento religioso. Politica della Ragione e religione del cuore, Venezia 1999. A P. Stella, oltre alla pubblicazione di numerosi saggi e all’edizione commentata degli Atti e decreti del Concilio diocesano di Pistoia dell’anno 1786, voll. 2, Firenze 1986, si deve il fondamentale lavoro Il giansenismo in Italia, voll. 3, Roma 2006. Si veda anche M. Rosa, Il giansenismo nell’Italia del Settecento. Dalla riforma della Chiesa alla democrazia rivoluzionaria, Carocci, Roma 2014.


LEMMARIO