Associazione Italiana dei Professori di Storia della Chiesa

Dizionario Storico Tematico La Chiesa in Italia
Dalle origini all'Unità Nazionale
Roma 2015
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Giornali, Riviste cattoliche - vol. I


Autore: Sergio Apruzzese

Inteso come comunicazione sociale di attualità e prodotto tipografico, il giornale vede i cattolici fra i massimi fautori della sua diffusione come strumento di modernizzazione culturale a partire da un ambiente assai limitato di lettori fino a diventare (soprattutto nel Novecento) mezzo ineludibile di influenza sociale e politica.

La prima iniziativa degna di rilievo sul piano storico risale al 28 gennaio 1668 quando l’abate bergamasco Francesco Nazari (1634-1714) responsabile della cattedra di filosofia presso l’Università della Sapienza in Roma, fonda e dirige Il Giornale de’ Letterati (conclusosi nel 1683), mensile giudicato il capostipite dei periodici dotti ed enciclopedici italiani e modello per omonime iniziative sorte nei decenni successivi nella Penisola, come fu il caso del parmense Giornale dei Letterati (1686-1690) dell’abate cassinese Benedetto Bacchini (1651-1721) e del carmelitano e bibliotecario ducale Gaudenzio Berti.

Ad inizio Settecento (dal 1701 al 1704) è don Giovanni Pellegrino Dandi (1664-?) a dar vita a Forlì al Gran Giornale dei Letterati suddiviso sostanzialmente in due parti: la prima dedicata a recensioni e notizie su libri vari; la seconda reca le notizie proprie delle Gazzette. Promotori di fogli di cultura per dotti, i cattolici si rivelano anche modelli essi stessi di professionalità giornalistica. Così spicca la figura del monaco camaldolese Angelo Calogierà (1699-1768): nato nel 1699 a Padova da famiglia originaria di Corfù a soli ventisei anni diventa il redattore più attivo del periodico veneziano Gran Giornale d’Europa. Ma non appena tale rivista muore, il giovane monaco comincia una intensa attività di fondazione e di direzioni di periodici a partire dalla Storia letteraria d’Europa, del quale escono sette fascicoli e che termina nel 1727. Ancora nel 1762 fonda con il benedettino Jacopo Rebellini La Minerva o sia Nuovo Giornale de’ Letterati d’Italia, mensile colto di orientamento conservatore, terminato nel 1767.

Nel 1766 sarà la volta a Pesaro della Biblioteca antica e moderna di storia letteraria ossia Giornale critico, ed istruttivo de’ libri…, guidato dal gesuita Anton Benedetto Zaccaria. Sempre di orientamento letterario è il Giornale ecclesiastico edito a Palermo nel 1772 con il fine della formazione tradizionale del giovane clero. A Napoli fra il 1760 e il 1762 sorge il Giornale gesuitico presenza nata anche per contrastare le voci giansenistiche emerse nella penisola e in particolare a Pesaro e a Pavia, e tra le quali occorre qui ricordare quella del vescovo Scipione de’ Ricci, che terrà il noto sinodo del 1786, e quelle degli abati Pietro Tamburini, Giuseppe Zola e Giambattista Guadagnini. Altro giornale sorto nella seconda metà del Settecento fu la bimensile Gazzetta ragionata della nuova Abdera (1773-1775) a Padova che presenta le osservazioni degli illuministi soltanto per confutarle «in nome della più ortodossa apologia del Cristianesimo». Non in questa chiave si svolse l’esperienza giornalistica della settimanale Gazzetta Ecclesiastica di Firenze diretta da Reginaldo Tanzini e favorita dal vescovo de’ Ricci, la quale propugna la riforma della Chiesa «a vantaggio della sana Dottrina, della Cristiana Morale, e della Santa Cattolica Religione». Il periodico, però, verrà soppresso dopo ventiquattro numeri dal Granduca, che intende compiacere alle richieste della Curia romana. Riformismo religioso di matrice giansenistica si ritrova anche in un altro periodico fiorentino nato nel 1780 per iniziativa dell’abate Luigi Semplici: si tratta del settimanale Annali Ecclesiastici che durerà fino al dicembre 1793.

Se sotto il dominio napoleonico si assiste mediante una serie di decreti repressivi a una drastica riduzione di giornali e tipografie, nel periodo della Restaurazione si assiste a una rinascita di iniziative pubblicistiche a cominciare da Il Conciliatore (1818-1819) dei cattolici moderati e patrioti Silvio Pellico e Giovanni Berchet. Ma sicuramente tra i periodici più significativi in questa fase così intensa nella storia d’Italia figurava L’Amico d’Italia fondato a Torino nel 1822 da Cesare D’Azeglio (1763-1830), animatore dell’«Amicizia Cattolica», un movimento laicale di rinascita religiosa promosso da padre Pio Brunone Lanteri. Il D’Azeglio non era nuovo a iniziative del genere; aveva infatti fondato a Firenze una rivista mensile L’Ape (1802). Per far meglio conoscere l’Amicizia Cattolica e le sue iniziative il D’Azeglio promosse la fondazione de L’Amico d’Italia e chiamò a collaborarvi illustri personalità tra le quali Antonio Rosmini, Alessandro Manzoni e Niccolò Tommaseo.

Di orientamento ultramontano l’Amico d’Italia condivideva questa impostazione con altri fogli tra i quali il Giornale di Roma (1825), le Memorie di Religione, di Morale e di Letteratura di Modena (1822), il Giornale degli Apologisti della Religione Cattolica di Firenze (1825), la Propaganda cattolica di Lucca (1828). Veste e periodicità più giornalistica ebbe La Voce della Verità di Modena; usciva infatti inizialmente due volte alla settimana; assunse poi, a partire dal n. 31, periodicità tri-settimanale: ne era direttore Cesare Galvani; infine l’Encilopedia Ecclesiastica e Morale fondata a Napoli nel 1821 dal padre teatino Gioacchino Ventura, tenace sostenitore delle dottrine di Felicité de Lamennais e dell’ultramontanismo più intransigente.

A Milano nel frattempo nel 1841 nasceva L’Amico Cattolico (conclusosi nel 1856), organo ufficioso della curia ambrosiana guidata dall’arcivescovo Gaetano Gaysruck e diretto principalmente all’aggiornamento culturale del clero, in ciò distinguendosi dalla maggioranza delle coeve riviste cattoliche più strettamente legate a una dimensione controversistica e apologetica. Sull’onda della concessione delle riforme liberali della prima parte del pontificato di Pio IX nasceva cosi alla fine del 1846 Il Contemporaneo, foglio di grande formato che assunse periodicità settimanale ed ebbe larga diffusione.

Filone importante della stampa primo ottocentesca fu quello della pedagogia cattolico-liberale toscana-piemontese che si manifestò in particolare attraverso la Guida dell’Educatore, pubblicata a Firenze dal Gabinetto scientifico e letterario di Giovan Pietro Viesseux e compilata da Raffaele Lambruschini; L’Educatore primario che cominciò ad uscire nel 1845 per opera del sacerdote biellese Agostino Fecia e che si avvalse della collaborazione di Niccolò Tommaseo e Ferrante Aporti; e infine L’Istitutore nato nel 1852 e diretto da Domenico Berti e coadiuvato per la parte didattica dal sacerdote e pedagogista Giovanni Lanza.

Il decennio cruciale per le sorti del Risorgimento italiano 1848-1958 fu altresì segnato dalla nascita e affermazione di due giornali di cui fra poco si dirà, la torinese Armonia della Religione con la Civiltà e la napoletana poi fiorentina e infine romana Civiltà Cattolica che delinearono a chiare tinte il quadro duramente intransigente e antiliberale con cui la Chiesa nella sua solenne veste gerarchica si apprestava ad accogliere il nascente fragile Stato di Cavour e della Destra storica. Ma in mezzo alla contrapposizione frontale fra liberali, cattolici moderati, legittimisti e temporalisti si presentarono sulla scena i giornali legati al pensiero dell’abate roveretano Antonio Rosmini, fautore soprattutto di una visione aperta, moderna e riformatrice della Chiesa in relazione ai «segni dei tempi».

Tra i periodici che a tale corrente riformista facevano riferimento si ricordano Il Subalpino (1836-1840) diretta da Massimo Cordero di Montezemolo (1807-1879) con la collaborazione prestigiosa della penna di Cesare Balbo; Il Propagatore religioso diretto dall’assistente al Museo egizio di Torino don Giovanni Baracco e pubblicato a partire dal 1836; il periodico scientifico-letterario L’Eridano nato nel 1841 e condotto da Giorgio Briano; le riviste dell’area antigesuitica e legate alla filosofia risorgimentale rosminiana e giobertiana: il settimanale Fede e Patria uscito nel biennio 1848-1849 e poi tramutatosi nel Florilegio cattolico e Il Conciliatore torinese (1848-1849), trisettimanale pubblicato dal teologo Lorenzo Gastaldi e fermo sostenitore dell’abate Vincenzo Gioberti. Alla vigilia dell’Unità è da segnalare la rivista antitemporalista torinese Il Conciliatore nata nel 1860 e proseguita dal 1863 dal Carroccio, di Giovanni Avignone e cui presero parte tra gli altri Antonio Stoppani e Luigi Vitali.

Tuttavia il rosminianesimo, soprattutto dalla svolta antiliberale e antirisorgimentale inferta da Pio IX alla Chiesa nel biennio 1848-1849, risultò essere una ipotesi di lavoro intellettuale sempre più impraticabile per il clero cattolico. L’Armonia della Religione con la Civiltà e la Civiltà Cattolica costituiscono da questo punto di vista le espressioni pubblicistiche più significative in questo senso. L’Armonia, sorta nel ’48, si fece assertrice dell’astensionismo cattolico alle elezioni politiche in Piemonte nel 1857 attraverso il celebre motto «Né eletti né elettori» attraverso la penna di don Giacomo Margotti (1823-1887).

Il 6 aprile 1850 usciva il primo numero della La Civiltà Cattolica, la più nota rivista della Compagnia di Gesù e che ebbe come fondatori padre Luigi Taparelli D’Azeglio (1793-1862, fratello del politico liberale Massimo e sostenitore inizialmente di una conciliazione fra Stato e Chiesa), Carlo Maria Curci (1810-1891; ne divenne il primo direttore), padre Antonio Bresciani (1798-1862, scrittore di romanzi a tinte reazionarie) e padre Matteo Liberatore (1810-1892, studioso della filosofia tomista destinata a diventare per decreto pontificio di Leone XIII la filosofia ufficiale della Chiesa cattolica tra Otto e Novecento). Il programma della rivista diffusa in migliaia di copie (in pochi mesi si arrivò a una tiratura di 8.000 copie) su tutto il territorio nazionale mirava alla riconquista della società ai principio di ordine e di autorità cattolica al di là dei contingenti regimi politici e contro il liberalismo rivoluzionario e usurpatore.

Tracciando un bilancio generale si può affermare la varietà di temi politici e culturali presenti nelle testate (una costante della storia del cattolicesimo culturale italiano) e insieme la sostanziale ristrettezza di lettori e di presenze giornalistiche (nel 1863 si contavano soltanto 53 giornali, di cui una decina erano i quotidiani).

 Fonti e Bibl. essenziale

D. Bertoni Jovine, I periodici popolari del Risorgimento, Milano 1959; S. Fontana, La controrivoluzione cattolica in Italia, Brescia 1968; F. Traniello, Cattolicesimo conciliatorista. Religione e cultura nella tradizione rosminiana lombardo-piemontese (1825-1870), Milano 1970; U. Bellocchi, Storia del giornalismo italiano, I-VI, Bologna 1974-1977; V. Castronovo – G. Ricuperati – C. Capra (a cura di), La stampa italiana dal Cinquecento all’Ottocento, Introduzione di N. Tranfaglia, Roma-Bari 1976; A. Galante Garrone, F. Della Peruta (a cura di), La stampa italiana del Risorgimento, Roma-Bari 1979; A. Majo, Storia della stampa cattolica. Lineamenti storici e orientamenti bibliografici, Milano 1984; G. Mucci, Carlo Maria Curci. Il fondatore della “Civiltà Cattolica”, Roma 1988; F. Dante, Storia della “Civiltà Cattolica” (1850-1891). Il laboratorio del Papa, Roma 1990; G. Sale, La “Civiltà Cattolica” nella crisi modernista (1900-1907), prefazione di P. Scoppola, Milano 2001; N. Raponi, Cattolicesimo liberale e modernità. Figure e aspetti di storia della cultura dal Risorgimento all’età giolittiana, Brescia 2002, 93-113; C. De Maria, Le riviste cattoliche/1: l’Ottocento, in A. Melloni (diretto da), Cristiani d’Italia. Chiesa, società, Stato, 1861-2011, II, Roma 2011, 1281-1294.


LEMMARIO




Giurisdizionalismo - vol. I


Autore: Carlo Fantappiè

Il termine giurisdizionalismo è di conio relativamente recente ed è tipicamente italiano come denominazione omnicomprensiva di quelle prerogative anteriormente chiamate «regia giurisdizione». Nel classificare i differenti sistemi di idee esposte alla Camera dei deputati per trovare una soluzione ai rapporti tra Stato e Chiesa in Italia, Francesco Scaduto distinse il sistema clericale, cattolico-liberale, giurisdizionalista e radicale (Santa Sede, in Il digesto italiano, XXXI, Torino 1891, 547 ss.). Altri studiosi di diritto ecclesiastico come Ruffini, Galante e Schiappoli recepirono il termine e lo inserirono nella manualistica italiana del primo Novecento.

Rispetto alla classificazione teorica dei rapporti tra Stato e Chiesa elaborata in Germania nel secondo Ottocento (P. Hinschius) e adattata dalla dottrina italiana, il giurisdizionalismo è qualificato come un sistema intermedio tra la “teocrazia” e il “cesaropapismo” e opposto al “separatismo”, in quanto presuppone la distinzione ma anche il coordinamento dei due poteri. Nel regime di tipo confessionale, esso si esplica nella reciproca concessione di particolari facoltà, in deroga al diritto comune dello Stato, a organi della Chiesa e della Chiesa a organi dello Stato. Nel regime laico si attua secondo il diritto comune dello Stato ma comporta un diritto unilaterale di vigilanza sulla Chiesa (Jemolo).

Come sistema politico-religioso funzionale all’affermazione dello Stato moderno in campi fino allora riservati alla competenza della Chiesa, il giurisdizionalismo si situa al punto di confluenza delle dottrine medievali e moderne sulla sovranità. Dall’universo medievale, trae il fondamento sacrale dello Stato e del sovrano come autorità indipendenti da ogni autorità umana, la concezione del sovrano tutore dello Stato e della Chiesa in quanto rappresentante il popolo e i fedeli, la prerogativa di esercitare il potere coattivo di cui dispone non solo a vantaggio dello Stato e della Chiesa ma anche per regolare, moderare e coordinare le attività di entrambi. Dall’universo moderno, il giurisdizionalismo deriva, invece, il principio della sovranità territoriale propria dello Stato in via di consolidamento. Distinguendo la Chiesa istituzione universale dalla Chiesa particolare, vede quest’ultima quale istituzione dello Stato e come tale non la considera né estranea né superiore ad esso.

Questa concezione, maturata in Francia già nel basso medioevo, sarà accentuata e codificata negli Stati protestanti mediante le teorie territorialiste. Quale signore del territorio, il sovrano si vedrà assegnare dalla scienza cameralistica tedesca (C. Thomasius) un complesso di diritti intorno alle cose sacre (iura maiestatica circa sacra) diretti a proteggere la Chiesa oppure a difendere lo Stato dalle pretese della Chiesa.

I primi consistono nel ius advocatiae o protectionis, che fa del principe il «custode e difensore dei canoni» e nel ius reformandi, ossia nella facoltà di intervenire nella vita della Chiesa particolare per migliorare il funzionamento dei suoi organi. Invece gli istituti creati per preservare la sovranità statuale contemplano: 1) ius inspectionis o diritto di vigilanza sulle attività e manifestazioni ecclesiastiche; 2) ius cavendi o diritto di controllo preventivo sulle leggi e decreti ecclesiastici mediante l’introduzione del regio placet e dell’exequatur per dare loro vigenza e dell’appello per abuso come facoltà dei fedeli-sudditi di ricorrere agli organi dello Stato per far valere i loro diritti contro ogni eccesso di potere; 3) ius exclusivae o riserva degli uffici ecclesiastici ai sudditi e a persone gradite; 4) ius dominii eminentis o superiore diritto degli Stati sul patrimonio ecclesiastico.

Mediante una così ampia e differenziata gamma di poteri d’intervento i sovrani potevano sovrapporre la giurisdizione dello Stato su quella della Chiesa e attuare un penetrante controllo non solo sulla legislazione e sull’organizzazione ecclesiastica «nazionale» (proprietà e benefici, clero secolare e regolare, ecc.), ma anche sulle dottrine teologiche, sull’amministrazione dei sacramenti nonché sull’emanazione delle censure canoniche.

Storicamente questo “sistema politico-giuridico” è il frutto di una costruzione dottrinale e sottintende una realtà assai variegata: non si afferma pienamente in un determinato momento o paese, bensì assume differenti modalità attuative, oltre che per gradi, per modelli nazionali, per epoche storiche, per contesti territoriali. Nella frammentata realtà politica degli Stati italiani, il giurisdizionalismo ha un deciso carattere confessionale e risente, a seconda del dominio di turno, del modello francese (gallicanesimo), spagnolo (regalismo), germanico (febronianesimo), austriaco (giuseppinismo) ma esperimenta anche forme proprie nel Regno di Sicilia, di Napoli, nella Repubblica di Venezia, nel Granducato di Toscana.

Anche con queste avvertenze resta comunque difficile isolare tali modelli nello sviluppo della concreta realtà storica. Il rischio è sempre quello di entificare due realtà (lo ‘Stato’ e la ‘Chiesa’) che non sono mai state del tutto separate specie nell’antico regime, e di presentarle come virtualmente antagoniste, quando invece l’indagine ci rende edotti del fatto che esse si sono costruite mediante un complesso intreccio di apparati, istituti, procedure che sottendono strategie e interessi il più delle volte convergenti. Sotto questo profilo la sintetica ricostruzione che segue andrebbe vista come il dispiegamento di tecniche di neutralizzazione, di negoziazione e di condizionamento reciproci. A ben vedere i processi di ‘confessionalizzazione’ e di ‘secolarizzazione’ dello Stato moderno sono uno la faccia rovesciata dell’altro. La tematica del giurisdizionalismo, legata alle polemiche risorgimentali, dovrebbe venire reimpostata alla luce di categorie più adeguate. Le controversie che vi sono solitamente ricomprese sono, infatti, parte essenziale del processo di costruzione, consolidamento e affermazione dello Stato moderno. Sotto questo riguardo si comprende quanto possano essere fuorvianti gli schematismi teorici dei giuristi del passato.

Un asse comune tra le vecchie e le nuove problematiche può comunque essere trovato attorno al nodo della «giurisdizione» come terreno comune alla costruzione dei due poteri. È essenziale cogliere il passaggio dalle controversie medievali per la delimitazione dei confini tra le due giurisdizioni, che avevano dato luogo nei singoli comuni alla creazione di apposite norme statutarie e all’istituzione di speciali magistrature onde evitare gli sconfinamenti dell’autorità ecclesiastica, al conflitto delle giurisdizioni che sorge in seguito alla strutturazione dello Stato moderno e della Chiesa tridentina come poteri centralizzati e tendenzialmente assoluti.

Il problema della ricezione nella legislazione degli Stati dei decreti tridentini e della bolla In Coena Domini (una summa delle prerogative pontificie ed ecclesiastiche seguìta dalle più gravi sanzioni canoniche) costituiscono la base preliminare delle future dispute.

Convenzionalmente si fa risalire al 1606-1607 la prima occasione di scontro tra le due giurisdizioni contendenti, allorché la Santa Sede lancia l’interdetto contro Venezia in seguito al diniego della Repubblica di abolire leggi che prevedevano soppressioni di beni ecclesiastici, imponevano la sottoposizione del clero all’autorità giudiziaria dello Stato e condizionavano l’erezione di nuove chiese e luoghi pii all’autorizzazione del governo.

Dopo questo episodio emblematico, l’ascesa del giurisdizionalismo confessionalista in Italia può essere ricostruita in scansioni successive, dalla metà del Cinquecento alla fine del Settecento. Un primo momento si attua nel Ducato di Savoia con la ricezione dei princìpi gallicani e l’introduzione, da parte di Emanuele Filiberto, nel 1560, dell’appello al futuro concilio per abuso come istituto irrinunciabile e imprescrittibile. Esso sarà difeso fino al re Vittorio Amedeo II, che lo estenderà alla Sardegna secondo il modello francese. Da allora la politica giurisdizionalista dei Savoia subirà una forte attenuazione fino all’improvvisa ripresa di tono, a metà Ottocento, con le leggi Siccardi.

Contribuisce a rinvigorire le aspirazioni gallicane e regaliste nell’intera penisola la controversia sulla diocesi di Lipari che si disputa nel Regno di Sicilia tra il 1712 e il 1728. Il suo svolgimento evidenzia la trasformazione dell’istituto privilegiario della legazia apostolica – in forza del quale i re di Sicilia si ritenevano fin dal 1098 «legati nati» del pontefice e quindi titolari della suprema istanza nelle cause ecclesiastiche –, in una lunga lotta della Santa Sede diretta a sopprimere le competenze del «Giudice della monarchia sicula» istituito da Filippo II nel 1579. La politica regalista dei Borboni mira a consolidare la legazia apostolica anche nel periodo seguente alla transazione con Benedetto XIII avvenuta del 1728. Solo quando tale istituto diventerà ininfluente e obsoleto, alle soglie della rivoluzione francese, essi cominceranno ad attaccare direttamente le immunità e i privilegi ecclesiastici.

Con la fine della fase concordataria (v. Concordati), negli Stati italiani si assiste, ai primi anni Sessanta, a una progressiva radicalizzazione delle politiche ecclesiastiche. Episodi premonitori si possono considerare la controversia sulla soppressione del patriarcato di Aquileia nella Repubblica Veneta, e la legge di ammortizzazione, ideata dal ministro della «regia giurisdizione» Giulio Rucellai, nel Granducato di Toscana. Il nuovo clima è attestato dalla estensione degli interventi statuali sulle materie ecclesiastiche anche nei due piccoli Ducati di Parma e di Modena (dove nel 1757 e nel 1765 sono istituiti il Magistrato di giurisdizione sovrana e la Real Giunta di giurisdizione) e dalla diffusione di opere di carattere riformista (nel 1768 escono le Riflessioni di un italiano sopra la Chiesa… di Carlantonio Pilati e La Chiesa e la repubblica dentro i loro limiti di Cosimo Amidei).

Nella penisola si vanno delineando due modelli fondamentali di riformismo ecclesiastico: quello borbonico-tanucciano rivolto «a rivendicare le prerogative politiche statali di fronte alla Chiesa, ma estraneo ai progetti di riforma e di intervento circa sacra» e quello del «riformismo ecclesiastico e religioso asburgico, nelle sue due versioni giuseppina e leopoldina» (M. Rosa). Entrambi sono accomunati dall’atteggiamento polemico contro la Curia romana e gli ordini religiosi; entrambi intendono affermare la giurisdizione statale in campi sinora riservati alla Chiesa: ma lo fanno in guise, con metodi e scopi differenti.

Nel Meridione, eredi della tradizione giannoniana, si è più aderenti alla concretezza giuridico-politica, si fa perno esclusivo sugli organi di governo, ci si muove in modo gradualistico e si mira ad attuare un’azione di contenimento delle forze e istituzioni della Chiesa. Nella Lombardia austriaca e nel Granducato di Toscana si elaborano veri e propri progetti di ristrutturazione degli assetti istituzionali e religiosi, si cerca l’adesione e la collaborazione dei vescovi (sollecitati anche dalle correnti episcopaliste dei gallicani, dei febroniani e dei giansenisti), si nutre l’ambizione di modificare la religiosità popolare e di dare vita a chiese nazionali.

Nel Regno di Napoli l’indirizzo giurisdizionalista guidato dal ministro Bernardo Tanucci ha un’accelerazione tra il 1761 e il 1777. Si introduce il regio placet per le bolle papali e i decreti sinodali; si fa valere il principio del dominio eminente del re sui benefici ecclesiastici, ivi comprese le mense vescovili, togliendo efficacia alle regole della cancelleria pontificia; si rivendica allo Stato la competenza sui matrimoni in base alla separazione tra contratto naturale e sacramento per accessione; si elimina il fòro ecclesiastico per le cause civili e penali del clero; si sopprime il tribunale dell’Inquisizione e si limita l’azione di quelli vescovili; si proibisce ai vescovi di comminare scomuniche e di negare i sacramenti a motivo di delitti non accertati dalla legge civile.

Gli anni Settanta e Ottanta sono caratterizzati nella Lombardia austriaca, nella Repubblica di Venezia, nei Ducati e in Toscana da una vera e propria offensiva contro la curia romana, gli ordini religiosi, la proprietà ecclesiastica, i privilegi del clero, gli organi pontifici di controllo e di rappresentanza (Inquisizione e Nunziatura). I primi provvedimenti soppressivi di conventi e monasteri rivestono un carattere sparso e datano tra la fine del 1768 e i primi mesi del 1772; ad essi fanno seguito, nei territori asburgici, fino al 1780 «piani di consistenza» dei conventi e monasteri che ammettono la possibilità di accordo con i superiori degli ordini, e nel decennio seguente «piani di soppressione» indiscriminata, secondo il modello statualistico di Giuseppe II (v. Soppressioni). Nel Granducato di Toscana si sperimenta una collaborazione tra il disegno politico di Pietro Leopoldo e il gruppo di vescovi riformatori capeggiato da Scipione de’ Ricci. Qui la soppressione degli ordini religiosi avviene secondo modalità più ponderate e in funzione del potenziamento della rete parrocchiale. Per eliminare le sperequazioni economiche nel clero e per elevare il ministero pastorale nelle diocesi di Pistoia e Prato viene decretata la confluenza dei benefici ecclesiastici in istituti di sostentamento del clero detti Patrimoni ecclesiastici diocesani.

La fine degli anni Ottanta segna nei vari Stati italiani, diversamente dalla Francia, la parabola discendente del giurisdizionalismo. La reazione popolare, il timore della rivoluzione, il mutamento politico e culturale (che sarà ancora più evidente nel periodo della Restaurazione), inducono i governi a revocare le misure più radicali e a cercare un compromesso con la Santa Sede.

Come anticipato all’inizio, nella storia italiana dell’Ottocento il giurisdizionalismo avrà una nuova esplosione dopo la legge delle guarentigie del 13 maggio 1871. Ma si tratterà di un nuovo giurisdizionalismo, laico o liberale e niente affatto confessionalista, il quale non considererà più la Chiesa un proprio organo peculiare, da tutelare e/o da riformare, ma un’associazione o un’istituzione da inquadrare nell’ambito del diritto pubblico generale. Del vecchio sistema di antico regime, il nuovo giurisdizionalismo mantiene nondimeno i controlli sulla Chiesa allo scopo di preservare la sovranità dello Stato.

Fonti e Bibl. essenziale

A.C. Jemolo, Stato e Chiesa negli scrittori politici del Seicento e del Settecento, Torino 1914 (Napoli 19722; P. Gismondi, Il nuovo giurisdizionalismo italiano, Milano 1946; M. Rosa, Riformatori e ribelli nel Settecento religioso italiano, Bari 1969; P.G. Caron, L’appello per abuso, Milano 1954; G. Tabacco, Andrea Tron (1712-1785) e la crisi dell’aristocrazia senatoria a Venezia, Trieste 1957; M. Condorelli, Momenti del riformismo ecclesiastico nella Sicilia borbonica, 1767-1850. Il problema della manomorta, Reggio Calabria 1971; G. Catalano, Studi sulla legazia apostolica di Sicilia, Reggio Calabria 1973; M. Rosa, Politica e religione nel ’700 europeo, Firenze 1974; F. Venturi, Settecento riformatore, voll. I-II, Torino 1969 e 1976; F. Trentafonte, Giurisdizionalismo, illuminismo e massoneria nel tramonto della Repubblica veneta, Venezia 1984; C. Fantappiè, Riforme ecclesiastiche e resistenze sociali. La sperimentazione istituzionale nella diocesi di Prato alla fine dell’antico regime, Bologna 1986; M.T. Silvestrini, La politica della religione. Il governo ecclesiastico nello stato sabaudo del XVIII secolo, Firenze 1997; M. Stolleis, Stato e ragion di Stato nella prima età moderna, Bologna 1998; La Legazia Apostolica. Chiesa, potere società in Sicilia in età medievale e moderna, a cura di S. Vacca, Caltanissetta-Roma 2000; A. Lupano, Verso il giurisdizionalismo subalpino: il De regimine ecclesiae  di Francesco Antonio Chionio nella cultura canonistica torinese del Settecento, Torino 2001; C. Latini, Il privilegio dell’immunità. Diritto d’asilo e giurisdizione nell’ordine giuridico dell’età moderna, Milano 2002; G. De Giudici, Il governo ecclesiastico nella Sardegna Sabauda (1720-1761), Napoli 2007; D. Edigati, L’abolizione della giurisdizione temporale della Chiesa in Toscana. Linee ricostruttive di una lunga e complessa riforma leopoldina (1776-1784), «Studi senesi», CCXI (2009), 281-336 e 455-517; P. Lo Iacono, Chiesa, Stato e popolo nel Mezzogiorno dei lumi. La legislazione ecclesiastica dei Borboni di Napoli e di Sicilia tra istanze regaliste e tutela dell’ordo spiritualis (1734-1789), Cosenza 2012; M.T. Napoli, La Regia Monarchia di Sicilia. «Ponere falcem in alienam messem», Napoli 2012; La prassi del giurisdizionalismo negli Stati italiani. Premesse, ricerche, discussioni, a cura di D. Edigati e L. Tanzini, Roma 2014; D. Edigati, Un altro giurisdizionalismo: libertà repubblicana e immunità ecclesiastica a Lucca fra Antico Regime e Restaurazione, Roma 2016; Giurisdizionalismi e politiche ecclesiastiche negli Stati minori della Penisola in età moderna, a cura di Daniele Edigati e Elio Tavilla, Roma 2018.


LEMMARIO




Giuspatronato - vol. I


Autore: Gaetano Greco

Il giuspatronato è il diritto di “patronato” sul beneficio ecclesiastico, riconosciuto giuridicamente dalla Chiesa e spettante a chi ha costituito la dote patrimoniale del beneficio al momento della sua fondazione o l’ha incrementata successivamente, nonché ai suoi successori legittimi. Questo diritto poteva essere ecclesiastico, se goduto da enti, corpi o persone ecclesiastiche (come un monastero maschile o femminile, un capitolo canonicale, un pievano etc.), oppure laicale. In quest’ultimo caso la tipologia dei possessori era assai vasta: sovrani, feudatari, città o comunità rurali, parrocchiani (gli abitanti stabili della parrocchia, oppure i proprietari dei beni posti nel suo distretto, o ancora gli usufruttuari di questi beni, secondo le tradizioni giuridiche locali), luoghi pii, associazioni (corporazioni di arti e mestieri, confraternite e compagnie devozionali), vicinie o vicinati (aggregati di residenti in prossimità del luogo sacro), famiglie (intese come corpi unitari, i cui patrimoni ed i cui diritti non erano trasmessi o ceduti a persone estranee al lignaggio), singoli privati (a carattere ereditario, sia per intero indiviso, sia per quote parti). Col passare dei secoli, poi, a seguito di successioni ereditarie, di donazioni e persino di vendite (giuridicamente vietate) divennero assai frequenti i patronati misti fra le famiglie, gli enti, i parrocchiani ecc. La stretta relazione, esistente fra la costituzione della dote beneficiale e il riconoscimento del giuspatronato, produceva un legame altrettanto stretto fra la proprietà della dote e il possesso del giuspatronato: spesso il giuspatronato seguiva il destino del patrimonio beneficiale come un diritto accessorio, goduto da chi deteneva i beni dotali del beneficio.

Il giuspatronato garantiva sostanzialmente ai suoi detentori tre diversi privilegi: l’onore, la pensione e la presentazione del rettore. L’onore consisteva nell’obbligo per i rettori di questi benefici di recitare preghiere particolari per la salute spirituale e per il benessere dei patroni e dei loro familiari, che fruivano di uno stallo chiuso, una panca o degli sgabelli propri dentro la chiesa. La pensione alimentare a favore dei patroni laici, ma solo se questi erano dei privati, gravava sulle rendite del beneficio in caso di loro miseria, valutata in relazione al tenore di vita ritenuto consono alla propria condizione sociale. Infine, la presentazione dei nuovi rettori doveva avvenire entro un tempo determinato (tre o quattro mesi per i laici, sei mesi per gli ecclesiastici) pena la decadenza dal godimento di questo diritto per quella volta. Di fatto, secondo il diritto civile consuetudinario il giuspatronato era una “cosa”: frazionabile in quote, era posseduto, ereditato, donato, venduto (anche se non formalmente, altrimenti si sarebbe trattato di simonia) e persino affittato (nei casi estremi, ma non rari, di nomina con riserva di pensione). Infine a questa forma di “patronato attivo” è da aggiungere l’esistenza di norme o pratiche di “patronato passivo”, cioè del diritto degli appartenenti ad una “nazione”, ad una comunità, ad una corporazione oppure ad una stirpe familiare ad essere eletti a preferenza di estranei. Con il passare dei secoli questo patronato passivo divenne sempre più determinante soprattutto in caso di contrasto fra più eletti, inducendo a preferire l’eletto ex sanguine patronorum anche a danno di candidati più e meglio qualificati.

Poiché le tradizioni giuridiche locali sulle modalità delle elezioni variavano da paese a paese, erano frequenti le contese per il possesso e l’esercizio di questi giuspatronati: quando non si ricorreva alla violenza fisica, le liti approdavano ai tribunali e sia le curie vescovili in prima istanza, sia la Sacra Rota di Roma in appello erano inondati da queste cause. Anzi, per i giuspatronati esclusivamente e sicuramente laicali non mancavano stati, anche in Italia, nei quali per tradizione i tribunali civili accampavano la propria competenza, in conflittuale concorrenza con il foro ecclesiastico. Un contenzioso così diffuso e acceso prova che anche in Italia una quota degli uffici ecclesiastici, compresi quelli residenziali, era di “pertinenza” dei laici, i quali controllavano e determinavano la scelta dei loro rettori. Fra questi laici una posizione importante era occupata dalle famiglie e dai singoli privati, che disponevano di un accesso facilitato agli uffici ecclesiastici in favore dei propri figli e parenti: costoro entravano nella Chiesa locale con le condizioni migliori (il “giusto titolo” beneficiale per l’ordinazione sacra) e potevano procedere nella carriera ecclesiastica, oppure erano liberi di godersi le rendite ed i privilegi della condizione ecclesiastica. Questa situazione vantaggiosa aveva incentivato le fondazioni dei benefici semplici, almeno in quei paesi, come il principato sabaudo o il granducato di Toscana, il ducato di Milano o la repubblica di Venezia, dove i diritti di patronato erano gelosamente protetti dalle autorità politiche: qui le famiglie benestanti potevano scorporare porzioni dei propri patrimoni domestici e impiegarle per fondare benefici ecclesiastici, poiché le loro rendite sarebbero servite nei secoli successivi per assicurare il mantenimento di propri familiari.

Nella prima età moderna, il godimento dei giuspatronati fu sconvolto dalla patologia delle “resignazioni” (→ beneficio) e i patroni laici corsero il rischio di essere espropriati d’ogni loro diritto nelle battute finali del Concilio di Trento. Qui fu presentato un progetto di Riforma dei Principi, che prevedeva di consolidare solo i diritti di patronato giustificati da quei documenti di fondazione e dotazione, che raramente erano ancora in possesso delle famiglie e delle comunità fondatrici. L’opposizione rigorosa del duca di Toscana Cosimo I impedì che il progetto andasse in porto: per i laici fu possibile sostituire la documentazione originale con «le molteplici presentazioni, ripetute per un periodo di tempo superiore alla memoria d’uomo», cioè per oltre trent’anni (Concilio di Trento, Sess. XXV, Decretum de reformatione, c. IX). Quanto, invece, alle ingerenze della Curia Romana (resignazioni, collazioni pontificie, imposizioni di pensioni ecc.), la situazione variava fra le diverse regioni italiane in relazione alla maggiore o minore difesa esercitata dai governi politici in favore delle pertinenze dei propri sudditi. Se questa difesa era considerata quasi inesistente nell’Italia Meridionale, al punto da scoraggiare la fondazione di benefici semplici di giuspatronato, l’opposto si verificò negli stati che si dotarono di appositi uffici per l’«Economato dei benefici vacanti». Esemplare, per la sua durata e per la sua efficienza, l’Economato del Granducato di Toscana, che garantì per tutta l’età moderna il pacifico godimento dei giuspatronati laicali non solo contro le pretese della Corte di Roma, ma persino contro le istanze riformatrici avanzate da alcuni vescovi toscani (come il “giansenista” Scipione Ricci), che in occasione dell’Assemblea dei vescovi del 1787 proposero la devoluzione di tutti i benefici diocesani alla collazione vescovile: proposta respinta nel nome della difesa dei sacri diritti della proprietà privata sulla “roba”. Tuttavia, nella temperie del riformismo regalista del Settecento non si salvarono i giuspatronati popolari: accusati di simonia dai funzionari civili e dalla gerarchia ecclesiastica per la rissosità delle loro riunioni elettorali, furono sottoposti a più rigorosi controlli governativi o persino espropriati dai sovrani illuminati come Pietro Leopoldo d’Asburgo Lorena, che avocò a sé tutti i giuspatronati pubblici, demandandone la gestione effettiva proprio ai vescovi locali.

La fine dei benefici di giuspatronato laicale privato parve arrivare durante l’occupazione francese, perché Napoleone concesse ai patroni la facoltà di rientrare in pieno possesso dei patrimoni beneficiali in occasione della prima vacanza, a condizione di versare alle casse statali una somma equivalente a un quarto del loro valore. A Napoli, Gioacchino Murat decise più sbrigativamente di trasferire le doti patrimoniali dei benefici non curati nelle mani dei loro patroni, facendo salvo il diritto dei rettori attuali a godere le rendite beneficiali per tutta la durata della loro vita. La breve durata dell’Impero napoleonico impedì il radicamento di simili provvedimenti, e nell’età della Restaurazione anche i diritti di patronato privato tornarono all’antico regime, ma solo per una quarantina d’anni. Prima con la legge 29 maggio 1855, n. 878 del Regno di Sardegna e, in seguito, con la legge 15 agosto 1867, n. 3848 del Regno d’Italia, ai patroni laici fu data la possibilità di redimere i beni concessi in dote ai benefici ecclesiastici, pagando allo Stato una tassa equivalente a un terzo del loro valore. In una società ormai in via di accelerata secolarizzazione, il provvedimento ottenne un gran successo, perché proprio i ceti sociali più elevati non destinavano più i propri figli alla carriera ecclesiastica, bensì alle professioni liberali, al servizio dello Stato liberale, all’imprenditoria. Né migliore sorte arrise ai patronati passivi: i capitoli e le collegiate furono soppressi e i loro patrimoni confluirono nel demanio pubblico. Soltanto in aree periferiche continuarono a sopravvivere antichi diritti di patronato popolare: regolamentati con maggior rigore dal Codex Iuris Canonici del 1917 (canoni 1448-1452), sparirono senza lasciare tracce dal nuovo Codice di diritto canonico, coinvolti tacitamente nella soppressione del concetto stesso di beneficio ecclesiastico.

Fonti e Bibl. essenziale

P. Bertolla, Il giuspatronato popolare nell’arcidiocesi di Udine, in «Atti dell’Accademia di Scienze, lettere e Arti di Udine», s. VII vol. I (1957-1960), 197-311; R. Cona, Il giuspatronato parrocchiale dei capifamiglia nel Veronese: andamento e sviluppi dal XVI al XX secolo, in ed. L. Billanovich, Studi in onore di Angelo Gambasin, Vicenza, Neri Pozza, 1982, 9-42; A. Ciuffreda, I benefici di giuspatronato nella diocesi di Oria tra XVI e XVII secolo, in «Quaderni Storici», XXIII (1988), n. 67, 37-71; G.B. De Luca, Summa sive Compendium Theatri Veritatis, et Iustitiae, sive decisivi discursus …. 13.1. De Iure Patronatus, Roma, Typis Bartholomaei Lupardi, 1679; A. Galante, Giuspatronato, voce in Enciclopedia giuridica italiana, Milano, Società Editrice Libraria, vol. VII, 1914, 1011-1037; A. Gambasin, Il giuspatronato del popolo a Pellestrina tra il 600 e il 700, in A. Cestaro ed., Studi di storia sociale e religiosa. Scritti in onore di Gabriele De Rosa, Napoli, Ferraro, 1980, 985-1073; G. Greco, I giuspatronati laicali nell’età moderna, in G. Chittolini – G. Miccoli edd., Storia d’Italia. Annali 9. La Chiesa e il potere politico dal Medioevo all’età contemporanea, Torino, Einaudi, 1986, 531-572; M. Lupi, Cosimo de’ Medici, Domenico Bonsi e la riforma della Chiesa a Trento, in «Rivista di Storia della Chiesa in Italia», XXXVI, 1982, 1-34; V. Naymo, Benefici laicali e giuspatronati nel circondario di Gerace: strategie economiche, sociali e familiari, in V. Naymo ed., Confraternite, ospedali e benefici nell’età moderna. II Colloquio di studi storici sulla Calabria Ultra. Atti, Roma, Polaris, 2010, 43-55; M. Rosa, «Nedum ad pietatem, sed etiam (et forte magis) ad ambitionem ac honorificentiam». Per la storia dei patronati privati nell’età moderna, in «Rivista di Storia e Letteratura Religiosa», XXI, 1995, 101-117; G. Viviani, Praxis iurispatronatus acquirendi conservandique illud, ac amittendi modo breviter continens (1620), Venezia, Bertani, 16704.


LEMMARIO




Grande Scisma - vol. I


Autore: Tommaso di Carpegna

Nel periodo compreso tra il 1378 e il 1417 si verificò il «Grande Scisma » o «Scisma d’Occidente», durante il quale due (in una fase anche tre) pontefici rivendicarono contemporaneamente la propria rispettiva legittimità, trovando ciascuno largo seguito nei paesi della Cristianità occidentale. Gregorio XI, che nel 1377 aveva riportato la Sede apostolica da Avignone a Roma, morì il 23 marzo 1378. Poiché la gran parte del Sacro Collegio era composta da cardinali francesi intenzionati a riportare il papato in Francia – e poiché ad Avignone ancora permanevano molti uffici di Curia – i romani, per assicurarsi la residenza del papa a Roma, chiesero a gran voce che il nuovo pontefice fosse romano, o “almanco” (almeno) italiano. Dietro le forti pressioni dei banderesi (i capi della Felice Società dei Balestrieri e dei Pavesati, cioè del partito popolare che governava Roma), l’8 aprile 1378 i sedici partecipanti al conclave (undici francesi, uno spagnolo e quattro italiani) elessero Bartolomeo Prignano – Urbano VI, che non era un cardinale ma l’arcivescovo di Bari. Avendo investito il Collegio cardinalizio di aspre critiche e avendo dichiarato di non voler più spostare la sede papale, nei mesi successivi Urbano VI si alienò il favore di quasi tutti (dodici su sedici) i cardinali che lo avevano eletto. Questi si riunirono a Fondi e, dichiarata l’elezione nulla in quanto avvenuta in un clima intimidatorio, il 20 settembre 1378 elessero papa il cardinale Roberto di Ginevra, che prese il nome di Clemente VII e che l’anno successivo si stabilì nuovamente ad Avignone con la propria Curia. Da allora si ebbero due “obbedienze” e due serie continuative di pontefici, uno residente a Roma (Urbano VI, Bonifacio IX, Innocenzo VII, Gregorio XII), l’altro ad Avignone (Clemente VII, Benedetto XIII). Una prima composizione dello scisma fu tentata nel Concilio di Pisa (1409), durante il quale i padri conciliari deposero i due pontefici contrapposti e i cardinali presenti, dissidenti di entrambi gli schieramenti e chiamati “unionisti”, ne elessero un terzo, Alessandro V. Di fatto, anziché risolversi la situazione divenne ancora più complessa e le obbedienze da due divennero tre. Il successore di Alessandro V, Giovanni XXIII, ottenne l’obbedienza della Scandinavia, dell’Ungheria e dell’Impero, tenne un concilio a Roma (1412-1413) e poi uno a Costanza (1414-1415). Poiché gli altri due papi non si erano presentati, a Costanza Giovanni XXIII si riteneva in condizione di vincere la contesa. Essendosi però disfatta la sua alleanza con Sigismondo re di Boemia, che era il vero promotore del Concilio e che considerava i tre papi su un piano di parità, Giovanni XXIII finì con l’essere deposto (29 maggio 1415). Il papa romano Gregorio XII inviò allora la sua dichiarazione di rinuncia al papato (4 luglio 1415), conferendo al Concilio l’autorità per porre termine allo scisma. Il papa avignonese Benedetto XIII, invece, non si piegò e venne formalmente deposto il 26 luglio 1417. Seguì, l’11 novembre, l’elezione di un nuovo papa, decisa da ventitre cardinali delle tre obbedienze: Martino V (Oddone Colonna, 1417-1431), che fu accettato da tutti tranne che da una minoranza ancora fedele a Benedetto XIII (eletto nel 1394, morto nel 1422).

L’obbedienza all’uno o all’altro pontefice rappresentò una componente essenziale del gioco politico tra i regni, largamente condizionato anche dalla contemporanea guerra dei Cento Anni. L’Inghilterra, i paesi scandinavi, l’Ungheria e la Polonia tennero per il papa di Roma, mentre la Francia, la Scozia, i regni spagnoli, il ducato di Savoia e la Sicilia furono di obbedienza avignonese; la Francia ritirò peraltro la propria obbedienza a Benedetto XIII nel periodo 1398-1404. L’Impero, invece, fu grossomodo diviso in due: romana la parte orientale, avignonese quella occidentale.

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Come in altre aree europee (Brabante, Paesi Bassi, Portogallo), estremamente composito e mobile fu il quadro delle obbedienze in Italia, dove «il pontefice era pure capo di uno stato italiano, sovrano tra sovrani» (Brezzi 1944, p. 397, saggio al quale si rimanda per la presentazione dell’articolata situazione politica). Nella penisola italiana, lo scisma provocò o peggiorò uno stato di guerra continua e la sua storia è compendiabile in numerose e distinte fasi.

Nella prima fase (1379-1384) i due contendenti si affrontano soprattutto in Italia centrale. Il 27 aprile 1379, per intercessione di Caterina da Siena, capitola Castel Sant’Angelo, fino ad allora in mano ai “clementini”, e il 30 aprile Alberico da Barbiano, al comando degli “urbanisti”, sbaraglia a Marino i mercenari bretoni. Nel frattempo, i cardinali rimasti neutrali, che sono tutti italiani, cercano di mediare e iniziano a proporre l’ipotesi di un concilio. Clemente VII, che molto deve alla casa di Francia, prospetta la creazione di un “regno di Adria” da conferire a Luigi d’Angiò, riservando al papato solamente Roma e il Lazio (Sabina, Patrimonio, Campagna e Marittima) e destando preoccupazione soprattutto a Firenze. Anni dopo, avendo rafforzato le proprie posizioni, il pontefice cambierà idea. Firenze, accarezzata da entrambe le parti, si risolve a favore di Urbano e viene attaccata da Enguerrand de Coucy. La campagna militare si volge a favore della repubblica, consentendole la definitiva conquista di Arezzo. Ma l’ago della bilancia e il luogo di maggior tensione è rappresentato, da allora, dal regno di Napoli, dove lo scisma assume rapidamente la forma di una contesa dinastica tra due rami della casa d’Angiò. La regina Giovanna alterna il proprio sostegno ai due contendenti e alla fine dichiara proprio erede Luigi d’Angiò, alleato di Clemente, mentre Urbano gli contrappone Carlo di Durazzo. Luigi, però, muore nel 1384.

La seconda fase (1385-1389) è quella di massima incertezza. Carlo di Durazzo entra in conflitto con Urbano VI e il partito di coloro che sostengono quest’ultimo si lacera. Firenze è nel dubbio se passare dalla parte di Clemente, ma poi desiste. Roma insorge sotto la guida di Francesco dei Prefetti di Vico, senza però abbracciare il partito clementino. Urbano VI giunge a chiedere aiuto a Carlo VI di Francia e ad allearsi con i baroni napoletani pur di allontanarli da Clemente VII. Carlo di Durazzo muore nel 1386 e lascia erede il piccolo Ladislao, di cui papa Urbano esige la tutela. I Visconti di Milano si mantengono in una posizione ambigua, come fanno anche altri signori italiani, i quali sfruttano l’una o l’altra obbedienza per il loro immediato tornaconto: per esempio Antonio di Montefeltro passa brevemente all’obbedienza di Clemente VII per forzare la mano a Urbano VI nella scelta del vescovo di Urbino. Di converso, i suoi avversari Malatesta sono fedeli del papa avignonese.

Terza fase (1389-1392): morto Urbano VI (15 ott. 1389), viene eletto il napoletano Bonifacio IX (Pietro Tomacelli), che porta avanti una strategia di ricompattamento della sua obbedienza. Egli riporta alla normalità i rapporti con Napoli facendo incoronare il giovanissimo Ladislao. Il papa romano riesce a garantirsi la fedeltà di tutti gli stati italiani, benché questi rimangano antagonisti l’uno contro l’altro, ed evita di inserirsi in posizione netta nella contesa tra Firenze e Milano.

Quarta fase (1392-1394): dopo avere a lungo assunto una politica ambigua, Gian Galeazzo Visconti, che è parente della casa reale di Francia e ha bisogno del sostegno di quel regno per portare avanti la sua politica espansiva, passa dalla parte di Clemente VII, che però risponde tiepidamente.

Quinta fase (1394-1398): Clemente muore il 16 settembre 1394 e gli succede Benedetto XIII, Pedro de Luna. Si verifica un rivolgimento delle alleanze: i Visconti, che ricevono il titolo di duca di Milano, passano dalla parte imperiale mentre Firenze si allea con la Francia, con l’impegno di cooperare per riportare l’unità della Chiesa, ma senza per questo disconoscere il papa romano. In generale, però, i politici fiorentini tendono a volere il papa a Roma, mentre i milanesi sono tendenzialmente alleati dei francesi.

Al principio del secolo XV – sesta fase – si ha un periodo di breve stabilità e di equilibrio tra i contendenti, dovuto anche al rafforzamento di Bonifacio IX, che nel 1398 ottiene la definitiva sottomissione del comune di Roma, e di Benedetto XIII, che rinsalda il proprio partito, cui nel 1406 aderisce anche la repubblica di Genova. Tuttavia, il papa romano è visto sempre più come un fantoccio del re di Napoli: anche Innocenzo VII, succeduto a Bonifacio IX nel 1404 e morto nel 1406, è originariamente un suddito napoletano. Di converso, il papa avignonese è ritenuto sempre più un emissario del re di Francia.

Per questo si fa sempre più strada (settima fase) l’idea – promossa in Italia soprattutto da Firenze – di accordarsi su un terzo candidato che permetta di governare autonomamente lo Stato della Chiesa consentendo il ristabilirsi dell’equilibrio nella penisola. I romani fanno sapere di non volere né un napoletano né un fiorentino. Viene eletto un veneziano, Angelo Correr – Gregorio XII (30 novembre 1406), proveniente da uno Stato che, benché in attrito per alcune questioni locali, ha sempre parteggiato per il papa romano. Le interrotte trattative tra i due pontefici riprendono, ma sono ostacolate da Ladislao re di Napoli.

Nel 1408-1409 – ottava fase – si apre la via conciliare, con un appello a entrambi i pontefici di rinunziare alla tiara promosso soprattutto dalla Francia. Firenze desidera ancora un terzo papa che sia distante dalla politica napoletana (poiché tale non si è rivelato Gregorio XII) e offre Pisa come luogo d’incontro tra i cardinali delle due obbedienze. Il 23 marzo 1409 ha inizio il Concilio di Pisa, dove il 26 giugno viene eletto Pietro Filargio – Alessandro V, proposto come figura di compromesso in quanto si tratta di un francescano che ha insegnato a Parigi ed è stato arcivescovo di Milano. Luigi II d’Angiò accetta il nuovo pontefice e così fanno Venezia e Firenze, mentre Ladislao di Durazzo, che in quel momento occupa Roma, ne contesta la legittimità. Dopo una guerra e un tentativo di intesa generale favorito da Venezia (1411), il nuovo papa Giovanni XXXIII, succeduto nel 1410 ad Alessandro V, alterna l’alleanza con i due contendenti al trono di Napoli Luigi d’Angiò e Ladislao di Durazzo. Convoca un concilio a Roma (1413), ma senza ottenere risultati.

Entra allora prepotentemente in scena (ultima fase) Sigismondo re di Boemia, che è avversario di Ladislao e intenzionato a chiudere definitivamente la disputa, ormai giunta a un grado di estenuazione. Viene dunque convocato un concilio a Costanza, in terra dell’Impero, fuori dall’Italia e dalla Francia. Sigismondo è visto con ostilità da Firenze, Napoli e Venezia, mentre nello Stato pontificio si ha un periodo di anarchia del quale si avvantaggia Braccio da Montone, che riesce a ritagliarsi un vasto dominio personale. Il Concilio di Costanza è, per gli stati italiani, un tempo di attesa, durante il quale il loro intervento diretto è limitato. Nella penisola tutti salutano con favore l’elezione di Martino V (1417), papa di antica famiglia romana che mette fine allo scisma.

La presenza durevole dello scisma è ritenuta una delle concause del turbamento spirituale dell’epoca, caratterizzata da forti attese escatologiche e apocalittiche, molto evidenti per esempio nelle predicazioni in volgare. L’incertezza su chi sia il vero pontefice investe tutti gli ambienti sociali. La morte improvvisa del giovane Gregorio XI a Roma viene da molti considerata una punizione divina per aver desiderato di riportare – sacrilegamente – il papato lontano dalla città apostolica. Nel 1389, papa Urbano VI decide di indire un giubileo per l’anno successivo (1390), ma Benedetto XIII lancia la scomunica sui pellegrini. Nel 1399-1400 si diffonde in tutta Italia il movimento dei Bianchi, pervaso di forti attese millenariste, e nel 1400 si celebra un giubileo spontaneo che segna la presenza a Roma di moltissimi pellegrini francesi. I papi delle diverse obbedienze sono identificati, dagli avversari, come l’Anticristo (cfr. il commento ai Vaticinia de summis pontificibus in Rusconi, 53-57), e le profezie escatologiche sono profondamente collegate con la propaganda politica. In realtà, i contendenti hanno larghe risorse per operare: il papa romano in quanto Roma è capitale dello Stato pontificio e luogo del pellegrinaggio ad limina; il papa francese in quanto Avignone e il contado Venassino permangono il centro di tutta l’immensa rete che amministra la fiscalità e i benefici ecclesiastici. Lo scisma si chiude con il consolidamento del pontefice in quanto sovrano di uno Stato regionale italiano, ma altresì con l’indebolimento ormai definitivo del papato inteso come istituzione universale. La stessa figura del pontefice perde il carattere “gregoriano” di detentore della plenitudo potestatis: il 6 aprile 1415 il Concilio di Costanza decreta la superiorità del concilio sul papa.

Benché gli storici abbiano dibattuto e dibattano ancora (soprattutto nella storiografia francese) sulla legittimità delle rispettive posizioni, in realtà la Chiesa cattolica riconosce oggi come legittima la sola successione romana cha va da Urbano VI a Martino V: tanto che nel secolo scorso Angelo Roncalli assunse nuovamente il nome di Giovanni XXIII. Senza pretendere di valutare la dimensione teologica, l’interpretazione storica non potrà mai uscire dall’impasse se, invece di continuare a parlare di volta in volta di papi e di antipapi, non si persuaderà a considerare l’intera vicenda come una storia di papi contrapposti.

Fonti e Bibl. essenziale

P. Brezzi, Lo scisma d’Occidente come problema italiano, «Archivio della R. Deputazione romana di storia patria», 67 (1944), 391-450; J. Favier, Les finances pontificales à l’époque du Grand Schisme d’Occident 1378-1409, de Boccard, Paris 1966; W. Ullmann, Origins of the Great Schism: a Study in Fourteenth-century Ecclesiastical History, Archon Books, Cambridge (Mass.) 1967; R. Rusconi, L’attesa della fine: crisi della società, profezia ed Apocalisse in Italia al tempo del grande scisma d’Occidente (1378-1417), Istituto storico italiano per il medio evo, Roma 1979; F. Delaruelle, P. Ourliac e E.-R. Labande, La Chiesa al tempo del grande scisma e della crisi conciliare: 1378-1449, SAIE, Torino 1981; H.-G. Beck, K.-A. Fink, J. Grazik, E. Iserloh, Tra Medioevo e Rinascimento. Avignone – Conciliarismo – Tentativi di riforma (XIV-XVI secolo), Jaka-Book, Milano 2002 (Storia della Chiesa diretta da H. Jedin, vol. V/2); S. Fodale, Alunni della perdizione. Chiesa e potere in Sicilia durante il Grande Scisma (1372-1416), Istituto storico italiano per il medio evo, Roma 2008; D. Williman, Schism within the Curia: the Twin Papal Elections of 1378, «Journal of Ecclesiastical History» 59 (2008), 29-47; H. Millet, L’Eglise du Grand Schisme: 1378-1417, Picard, Paris 2009; A. Rehberg, Le inchieste dei re d’Aragona e di Castiglia sulla validità dell’elezione di Urbano VI nei primi anni del Grande Scisma – alcune piste di ricerca, in A. Rigon – F. Veronese (edd.), L’età dei processi. Inchieste e condanne tra politica e ideologia nel ’300. Atti del convegno di studio svoltosi in occasione della XIX edizione del Premio internazionale Ascoli Piceno, Ascoli Piceno, Palazzo dei Capitani, 30 novembre-1 dicembre 2007, Istituto storico italiano per il medio evo, Roma 2009, 247-304; J. Rollo-Koster, Th. M. Izbickii (edd.), A Companion to the Great Western Schism (1378–1417), Brill, Leiden-Boston 2009; A. Jamme, J. Chiffoleau (edd.), La Papauté et le Grand Schisme (Avignon / Rome). Langages politiques, impacts institutionnels, ripostes sociales et culturelles, Actes du colloque internationa, Avignon, 13-15 nov. 2008, Collection de l’École française de Rome, Rome in corso di stampa [2013].


LEMMARIO




Guelfismo, Ghibellinismo - vol. I


Autore: Luigi Michele de Palma

Guelfismo e ghibellinismo sono gli appellativi antitetici di un fenomeno che ha interessato la vita politica e religiosa dell’Italia soprattutto durante i secoli XIII-XIV. All’origine delle denominazioni di “guelfi” e di “ghibellini” vi fu la lotta per l’ascesa al potere, dopo la morte dell’imperatore Enrico V (1125), delle due dinastie tedesche dei Welfen, duchi di Sassonia e di Baviera, e degli Hohenstaufen, duchi di Svevia. I rispettivi sostenitori erano detti guelfi (dal nome della famiglia) oppure ghibellini (da Waiblingen, un castello degli Svevi), ma dopo l’ascesa al trono di Federico I di Svevia (1153) le denominazioni delle opposte fazioni vennero usate per evocare le posizioni filopapali e filoimperiali nell’ambito della politica tedesca.

In Italia i due termini furono introdotti nella prima metà del Duecento, durante la lotta fra i comuni e Federico II di Svevia: erano ghibellini i seguaci dell’imperatore, mentre venivano detti guelfi coloro che gli si opponevano. Tuttavia l’adesione all’uno o all’altro schieramento era determinato più che da condivisioni ideologiche, da motivi politici contingenti e, alla fine, rifletteva le posizioni contrapposte preesistenti all’interno dei ceti dirigenti, laici ed ecclesiastici, che coinvolgevano anche le classi popolari. Atavici antagonismi famigliari e personali, interessi e odii di parte, lealismo e fedeltà alle tradizioni ereditate, nonché vendette, faide e alleanze marcarono sempre più le fazioni rivali, in lotta per la conquista o la conservazione del dominio.

In un primo tempo il papato rimase estraneo a queste controversie endemiche e viscerali, mentre sul piano religioso guelfi e ghibellini, l’uno rispetto all’altro, non mostrarono maggiore o minore senso di pietà. Ciò nonostante gli avversari del papato spesso simpatizzavano per i ghibellini e talvolta vennero assimilati agli eretici. Nello stesso tempo, però, l’evoluzione politica dei rapporti fra i comuni, insieme agli antichi campanilismi, e l’alternanza delle parti nell’ascesa al dominio comunale, provocarono la frequente oscillazione delle comunità civiche nell’adesione agli opposti schieramenti. Neppure la politica ecclesiastica restò immune dalla mancanza di coerenza per il contraddittorio atteggiamento dei governi municipali nei confronti della Chiesa. Parma, per esempio, sebbene ghibellina e poi guelfa (1247) perseverò nella severa politica contro i privilegi del clero.

Il declino del potere svevo in Italia e l’ascesa degli Angioini di Napoli contribuirono a definire il contenuto ideologico del ghibellinismo e del guelfismo italiani. Fu quest’ultimo a proporsi per primo come espressione del sostegno e dell’adesione alla politica egemonica della casa d’Angiò, finanziata dai banchieri fiorenti in alleanza col papato. Entrambi i termini diventarono etichette di parte, emancipandosi nel loro significato dall’antico motivo di contrasto fra sacerdotium e imperium, la lotta per le investiture laicali.

Dopo l’esilio dei Fiorentini nemici degli Svevi, sconfitti dalle truppe di Manfredi di Sicilia nella battaglia di Montaperti (4 settembre 1260) e la discesa di Carlo I d’Angiò, vicario papale, le città della Toscana si collocarono negli opposti schieramenti e, di riflesso, le medesime posizioni furono assunte dalle numerose città dell’Italia centro-settentrionale a seconda delle differenti alleanze e in forza delle tradizioni che alimentavano le conflittualità locali. Firenze, città guelfa, venne governata dai ghibellini dal 1248 al 1250. Così accadde per Genova fra il 1256-1270 e il 1317-1319, e per Lucca dal 1314 al 1328. Milano restò guelfa fino all’arrivo dei Visconti e Napoli fu ghibellina fino al 1266. Dal 1259 Lodi diventò guelfa sotto la signoria dei Torriani e dei Fissiraga, mentre la ghibellina Siena si fece guelfa dopo la sconfitta inflitta dai Fiorentini a Colle Val d’Elsa (1269). Dirsi guelfo significava essere sostenitore della casa d’Angiò, mentre il ghibellinismo – dopo la sconfitta di Manfredi a Benevento (1266) e la fine di Corradino (1268) – recise il legame con gli Svevi e diventò sinonimo di opposizione agli Angioini e alle loro mire espansionistiche. Perciò, accanto alla storia di Firenze, dei comuni toscani, umbri e lombardi, resta emblematica la vicenda dei vespri siciliani (1282), che dette origine alla ribellione antiangioina e alla secessione della Sicilia dal Regno, il maggiore organismo italiano politico e militare, vassallo del papato. L’ascesa degli Aragonesi sul trono di Palermo e la permanenza degli Angioini a Napoli radicalizzarono il persistente e ostile antagonismo del guelfismo e ghibellinismo italiani, diventandone il simbolo.

Il papato evitò per lungo tempo di usare questa duplice denominazione, invalsa nell’uso comune, e sebbene spesso non avesse esitato a schierarsi, intervenne ripetutamente in favore della pace e affinché la Parte guelfa e la Parte ghibellina raggiungessero un rapporto di coesistenza specialmente all’interno delle comunità civiche. Tuttavia lo scontro fra le parti lasciò tracce profonde nella storia delle Chiesa italiane. Del beato Jacopo da Varagine (1228-1298), arcivescovo di Genova, l’autore della Legenda aurea, sono noti i ripetuti interventi in favore della pacificazione fra le fazioni della città. Il medesimo spirito di riconciliazione fu diffuso da s. Margherita da Cortona (1247-1297), spesso chiamata a riappacificare gli animi del cittadini. Lodi, diventata ghibellina, nel 1243 venne colpita dall’interdetto, la sede vescovile fu soppressa e ristabilita nel 1252. In seguito, dopo il decesso del vescovo Egidio dell’Acqua (1307-1312), le fazioni guelfa e ghibellina si affrontarono in seno al Capitolo della cattedrale senza raggiungere un accordo ed elessero due candidati. Perciò la sede restò vacante fino al 1318. La diocesi di Cortona (smembrata da Arezzo) fu eretta nel 1325 da Giovanni XXII per premiare la fedeltà dei Cortonesi, mentre Guido Tarlati, vescovo della ghibellina Arezzo, fu scomunicato e deposto. Gli scontri e le violenze fra guelfi e ghibellini furono all’origine dell’interdetto scagliato dal vescovo Federico Cibo sulla città di Savona. Esso venne rimosso da Benedetto XII nel 1336, ma i contrasti non si sopirono affatto. Intensa fu l’opera dei predicatori, specialmente religiosi, per riportare la pace e l’ordine in seno alle comunità cittadine: un’attività che continuò ad intensificarsi anche durante l’età moderna. Il papato, in particolare, si preoccupò di riportare serenità e tranquillità fra le popolazioni di Bologna e della Romagna, frequentemente pervase dai contrasti fra guelfi e ghibellini. Folta è la lista dei legati papali incaricati di governare questi territori e di riportarli sotto il dominio papale. Non mancarono gli interventi diretti compiuti dai papi. Per esempio, Giulio II, passato da Forlì, riuscì ad imporre la pace fra la parte guelfa e quella ghibellina, anche se l’accordo raggiunto si rivelò alquanto effimero.

D’altro canto, dal Duecento in poi, gli assetti amministrativi e gli equilibri politici interni alle città si erano stabilizzati intorno a un sistema bipolare che raccoglieva e cristallizzava in una composizione interclassista le forze esistenti. La dialettica municipale era giunta ad istituzionalizzarsi con la duplice ripartizione dei ruoli, che si identificavano e si contrapponevano sulla base delle proprie tradizioni. Anche nelle relazioni intercomunali, fino ai primi secoli dell’età moderna, perdurarono le distinzioni ereditate dal passato, esse, però, non pregiudicavano i rapporti fra le comunità, gli scambi e le alleanze. Sebbene le parti, a riconoscimento di se stesse, continuassero ad evocare le tendenze filopapali o filoimperiali per nobilitare le proprie origini e giustificare le posizioni assunte, guelfismo e ghibellinismo diventarono espressioni di conformismo politico e servirono da copertura ai dissidi interni dei comuni e alla competizione fra le fazioni.

L’irriducibilità e l’inconciliabilità delle contrapposizioni politiche fra guelfismo e ghibellinismo tornarono in auge durante l’Ottocento e caratterizzarono il dibattito ideologico innervatosi in seno al Risorgimento, ma con contenuti del tutto differenti rispetto alle epoche precedenti. Il neoguelfismo fu un’espressione italiana del cattolicesimo liberale, di cui Vincenzo Gioberti (1801-1852) era il maggiore teorico, mentre oppositore delle tesi giobertiane fu Giovanni Battista Niccolini (1782-18612), esponente fortemente anticlericale del neoghibellinismo.

Fonti e Bibl. essenziale

R. Davidson, Storia di Firenze, II, Firenze 1972-1973; Storia d’Italia. Dalla caduta dell’Impero romano al secolo XVIII, I, a cura di R. Romano – C. Vivanti, Torino 1974; Storia d’Italia, IV, a cura di G. Galasso, Torino 1981; P. Herde, Guelfen und Neoguelfen: zur Geschichte einer nationalen Ideologie vom Mittelalter zum Risorgimento, Wiesbaden 1986; Guelfi e ghibellini nell’Italia del Rinascimento, a cura di M. Gentile, Roma 2005; G. Galasso, Storia del Regno di Napoli, I, Torino 2006; Le diocesi d’Italia, 3 vol., Cinisello Balsamo 2007-2008; S. Raveggi, L’Italia dei guelfi e dei ghibellini, Milano 2009.


LEMMARIO




Illuminismo, Aufklärung cattolica - vol. I


Autore: Giampaolo Venturi

Polisemantica tematica e cronologica del tema generale, alla luce delle interpretazioni filosofiche, di storia della Chiesa. Il moltiplicarsi degli studi negli ultimi decenni e nuove linee di indagine hanno ampliato il quadro delle interpretazioni, contenuti e figure; nella ricchezza dei dati acquisiti, d’accordo sugli anni Quaranta-Ottanta del XVIII sec., per autori e tematiche si sale ad inizio secolo (pre-illuminismo, a fine XVII; tardo-illuminismo, anni Venti del XIX). Kant, partecipe di quei principi, ma volto a superare le scuole del proprio tempo, sensibile, negli ultimi anni, al cambiamento in atto, è a metà strada fra l’Illuminismo e il poi. Nella relazione con altre nazioni, in primis la Francia, l’Italia è valutata in modi diversi, secondo la specificità e ampiezza delle caratteristiche indicate. La storiografia successiva, per la Rivoluzione, il Romanticismo, l’avvento di nuove scuole filosofiche; in Italia, per il Risorgimento (cfr. poi le proposte di lettura del XX secolo, da Hazard a Horkheimer e Adorno), ha talora assolutizzato certi aspetti, o notato solo quanto (sociale, politico, altro) “anticipava” eventi successivi, o visto solo la rottura, non la continuità; o solo un Paese al seguito di Gran Bretagna o Francia, con influssi tedeschi e asburgici. Oggi si assegna all’Italia un ruolo diverso; gli elementi indicati a livello europeo hanno pesato anche nella valutazione italiana, in particolare la presenza cattolica in ambito illuministico. Nello schema, specie filosofico, tradizionale, si guardava, per l’Italia, soprattutto alla volontà di riforma politica, su suggestioni francesi; anche, come presenza, in parte mossa da analoghe finalità, ma particolare, del Giansenismo, specie per S. de’ Ricci e il Sinodo di Pistoia; un’azione in ogni caso eterodossa; in tale prospettiva, non avrebbe avuto senso parlare di illuminismo cattolico. Quanto ai tentativi di riforma politica, data la frammentazione statuale, apparivano velleitari. In ambito ecclesiale ed ecclesiastico, la complessità di aspetti che la Chiesa europea affrontava (rinnovamento pastorale, difesa dalle nuove tendenze di libero pensiero, governi volti a emarginare la Chiesa, azione missionaria interna ed extra–europea e problemi connessi, dai riti alla schiavitù alle Riduzioni), non favoriva l’attenzione all’eventuale, minoritaria, linea intermedia. Di qui i dubbi davanti all’ipotesi di un terzo partito, categoria riferita ad una zona chiaroscurale propria della Aufklärung cattolica, in Europa e in Italia. L’ipotesi tuttavia, partendo dalla Storia della Chiesa, si è consolidata.

Marginalità e originalità della cultura e Chiesa italiana, tra variazioni del secolo, repubblica delle lettere europea e nuove proposte di spiritualità e devozione. Nazione da secoli, l’Italia del XVIII sec. è realtà statuale plurale; nei cfr. di altre (unita a metà sec. XIX), è stata considerata spesso solo nei limiti, in ogni campo (dalle lettere alla economia). Altri Stati (Francia, Austria) prevalgono per organizzazione e centralismo; in Italia, la stessa geografia, accanto a problemi oggettivi, moltiplica però la ricchezza di riferimenti: influenza francese, repubbliche, presenza austriaca, ducati, Stato Pontificio, Meridionale; aspetti, e loro esponenti, originali e di portata europea. Affiancano sollecitazioni culturali estere i tratti distintivi di lingua, cultura, generale appartenenza alla cattolicità, sostanziale identità spirituale e devozionale, riferimenti ad Ordini. Le proposte nei vari campi, dal diritto alle lettere, con specificità regionali, presentano figure elevate, da Cassini a L. Galvani a Volta. G.B. Vico, al di là del successo in vita e tardiva valorizzazione, è l’exemplar di ricerca fondata sulla ragione in termini altri da quelli francesi e inglesi (Descartes, Newton): attingendo alla cultura italiana, privilegiando la storia. La Chiesa presenta caratteri peculiari, legati a vicende storiche, civili e religiose, presenza pontificia, attuazione dei decreti tridentini, figure rilevanti: Borromeo, Paleotti e i loro imitatori; proposte di vita e santità anteriori, ma vive (Francesco, Domenico, Filippo, Camillo, i Teatini, i Gesuiti), e nuove: Passionisti, Lazzaristi, Redentoristi; nel sentire del tempo, popolari, via di diffusione, con grande seguito, di forme di spiritualità e devozione, vita sacramentale, liturgia (adorazione eucaristica, via Crucis…). Una nota a sé richiede il giansenismo: singoli, gruppi, specie ecclesiastici, un’ élite; da S. de’ Ricci, più noto, perché vescovo e per zelo di riforma, ai lombardi (Tamburini, Zola…; riforma del seminario) all’ Archetto, a Degola; legato ad olandesi e francesi, chiede l’ intervento statale, il cambiamento ecclesiale, diffonde periodici e libri; a fine secolo, appoggia in genere le nuove leggi, affini a proprie richieste.

Illuminismo / Aufklärung cattolico fra spinte diverse ecclesiali e statuali. I concetti di luce e illuminazione, di tradizione platonico–agostiniana, attraversano tutta la storia della filosofia e teologia; è tesi recente che anche l’ Illuminismo del XVIII secolo, pur con taglio inusuale, nell’ appello alla ragione, via di illuminazione, sia su questa linea; il contrasto Lumi – Cattolicesimo non verrebbe da tale richiamo, ma dall’auto–referenzialità; in tal senso, si parla oggi di altro Illuminismo. Se si accoglie l’esigenza illuministica di aggiornamento, semplificazione, si vede uno spazio possibile, reso meglio dal termine attivo (illuminazione; or.: Aufklärung); esso, specie da metà del secolo, è tramite fra esperienza ecclesiale ed esigenze valide dei Lumi, per un cristianesimo più cosciente e felice, fra spinte estreme e opposizione alle novità. Centrale è la volontà dello Stato: l’ esigenza di efficienza e produttività, fattori di felicità comune, di “philosophes” e sovrani, contrari alle autonomie, implica abolizione, o forte riduzione, della mano morta, improduttiva; soppressione, riconfigurazione, di diocesi; limitazione di numero e tipo di religiosi; nuova formazione del clero. I giansenisti vogliono l’ autonomia dei vescovi (anche, dei parroci), i prìncipi una Chiesa organica allo Stato; la soppressione della Compagnia rientra in questa politica. Uomini di studio, discussione, senso religioso, respiro europeo, gli aufklärer vogliono evitare scelte controproducenti, aprire se possibile (cfr. P. Lambertini); sempre: aufklaren; distinti da illuministi inclini al deismo, materialismo, avversi ad “oscurantismo” e “dispotismo” ecclesiastici. Studiano criticamente la storia ecclesiastica, la santità; ricusano sfarzosità barocche, devozioni ingiustificate, rischi di superstizione, estremismi, nuovi dogmi (per principio: Immacolata Concezione), devozioni frutto di rivelazioni private (S. Cuore); sono per una forte riforma (anche: riduzione) dei religiosi, diverse formazione del clero e scolastica; reinterpretano fede e vita religiosa; non puntano sulla sola propria ragione, né a staccarsi dalla Chiesa; la realtà storica, culturale, spirituale italiana, priva dei contrasti fra confessioni di altre nazioni (sostituiti dalla secolarizzazione?), li porta a una via media; posizioni variabili allora, nella valutazione oggi. Riconoscono il rinnovamento religioso in atto, le ragioni di chi combatte agnosticismo e libertinismo, l’autonomia della Chiesa. Gli zelanti difendono i beni ecclesiastici per origine e destinazione; rivendicano al magistero la decisione sulle forme di santificazione, pietà, associative, dei fedeli, le nomine di parroci e vescovi, l’estensione delle diocesi, la formazione del clero. Degli autori del tempo vedono gli aspetti a– e anti– cristiani; cfr. i filoni di pensiero (non solo empiristi: Toland, Mandeville…) che pensano la Rivelazione irrilevante o negativa per lo sviluppo umano e sociale (anche la scienza, in certe premesse, pare andare in tale direzione); talora (es., Roberti) concordano su limiti e difetti interni.

Figure significative e loro specificità. Definita la ricerca, e nella nuova valutazione positiva in ambito ecclesiale, molte nuove figure sono state assegnate all’area intermedia; diverse tra loro, accolte con vari motivi: da L. A. Muratori, figura centrale, studioso della regolata devozione e pubblica felicità, degli Italici Scriptores; ad A. Genovesi, vichiano, pedagogista, economista; da C. Goldoni, exemplar dell’epoca, per le commedie e le Memorie, a M. G. Agnesi, sensibile a spiritualità, scienze, illuminismo; cfr. R. G. Boscovich, filosofo, astronomo, matematico, fisico, e i gesuiti milanesi. Incerti, C. Beccaria (indubbi importanza ed effetto dell’opera) o A. Verri; più certi S. Maffei, o M. Gioia, dell’ “Alberoni”, di interessi umanistici e scientifici. Forse vicino all’Aufklärung cattolica, con simpatie gianseniste, il “Circolo dell’ Archetto». Per l’insegnamento, si v. F. Soave, autore di testi scolastici e di metodo usati ancora a metà XIX. Cfr. il card. A.M. Querini, OSB, F.A. Marcucci, di Ascoli P.I. Capizzi, di Palermo (si è detto, l’intero indirizzo del R. Collegio; fra i discepoli, N. Spedalieri); o D. De Rossi, di Foligno, l’erudito fiorentino D. M. Manni, l’ab. G.C. Amaduzzi, O. Diodati; si cfr. l’apertura culturale di P. Facchinei o il “pre-illuminismo” di P. M. Ricci. Un posto a sé spetta a Benedetto XIV: esperto di diritto (Cause dei Santi), universalmente stimato, mediatore di grande rilievo, suscitò speranze di aggiornamento ecclesiale; contrario al giansenismo, revocò il divieto all’ipotesi copernicana, evitò certe condanne di scritti, rinviò la decisione sulla devozione al S. Cuore; prudenza e mediazione diedero luogo a delusioni, oggi a valutazioni diverse. Elementi di “illuminismo” potevano trovarsi ovunque. Lascio autori, tra fine XVIII e metà XIX, come Manzoni, nei quali sono presenti elementi illuministici e cattolici.

Dispersione ed estremizzazione nel quadro degli avvenimenti di fine secolo. Comunque si valutino periodicità e ampiezza, l’impegno illuminista italiano, specie cattolico, termina sostanzialmente alla venuta in Italia degli eserciti rivoluzionari. Se il coinvolgimento dell’Italia porta al realizzarsi in parte di ipotesi formulate nei decenni precedenti, estremizzando le posizioni pone difficili, anche inaccettabili, scelte di campo. Le applicazioni delle nuove leggi, d’origine illuministica, appaiono ispirate alla parte anti–cristiana: libero pensiero, deismo, volterrianesimo …; confermano la negatività delle idee illuministiche e l’azione degli “zelanti”. L’estensione di leggi limitative e soppressive, l’azione anti-papale, tolgono spazio a una via intermedia. Se questi eventi risultano “chiarificatori”; se ora, più che mai, è evidente la necessità di aggiornamento, imposto, in Italia e altrove, in ben altri modi e uniformità rispetto al passato; se non vengono meno le ragioni della “illuminazione”, in senso filosofico e teologico, si impongono altre preoccupazioni e scelte. Anche in termini generazionali, tuttavia (e nel patrimonio di studi e ricerche), la “lezione” illuminista cattolica italiana non va perduta; dal lato storiografico, dovrà sottostare alle vicende del secolo seguente, e oltre, prima che la dimensione filosofica generale, la proposta particolare, le figure nel loro insieme, tornino alla generale attenzione e di attualità.

Fonti e Bibl. essenziale

E. Préclin – E. Jarry, Le lotte politiche e dottrinali nei secoli XVII e XVIII (1648-1789), SAIE, Torino, 1975 (vol. XIX/2 della “Storia della Chiesa” iniziata da A. Fliche e V. Martin), 3^ ed.; AAVV, La Chiesa nell’età dell’ assolutismo confessionale. Dal Concilio di Trento alla pace di Westfalia (1563-1648), a cura di L. Mezzadri, San Paolo, Cinisello Balsamo, 1995; H. Jedin (dir. da –), Storia della Chiesa, Jaca Book Milano, 1972 ss.; n. ed. it. di L. Mezzadri, 1994; in part., Vol. VII, La Chiesa all’epoca dell’Assolutismo e dell’Illuminismo (ed. it. a cura di E. Guerriero); H. Smolinsky, Storia della Chiesa, vol. 3, Epoca moderna I (ed. it. a cura di L. Mezzadri), Queriniana, Brescia, 1995; Storia del Cristianesimo / Religione – Politica – Cultura, direzione di J.M. Mayeur, Charles e Luce Pietri, A. Vauchez, M. Venard; vol. 9, L’età della ragione (1620/30-1750), a cura di M. Venard (ed. it. a cura di P. Vismara), Borla – Città Nuova, Roma, 2003; vol. 10, Le sfide della modernità (1750-1840), a cura di B. Plongeron (ed. it. a cura di B. Bocchini Camaiani), Idem, 2004; M. Rosa (a cura di), Cattolicesimo e lumi nel Settecento italiano, Roma, Herder, 1981 (Contributi italiani nell’ambito della 3. sessione del Congresso internazionale di storia ecclesiastica comparata tenuto a Varsavia nel 1978); P. Vismara, Cattolicesimi. Itinerari sei-settecenteschi, Milano, Edizioni Biblioteca Francescana, 2002; V. Ferrone – D. Roche (a cura di -), L’Illuminismo. Dizionario storico, Roma-Bari, Laterza, 1997; ed. anche in spagnolo, francese, russo [da cui: V. Ferrone – D. Roche, L’Illuminismo nella cultura contemporanea. Storia e storiografia, Roma-Bari, Laterza, 2002); cfr. anche, promosso da V. Ferrone, il programma inter–universitario di ricerca sul tema “diritti dell’uomo e di libertà dell’Illuminismo italiano ed europeo”; M. Rosa, Settecento religioso: politica della ragione e del cuore, Venezia, Marsilio, 1999; A. Prandi, Religiosità e cultura nel ‘700 italiano, Il Mulino, Bologna, 1966; L. Mezzadri, P. Vismara Chiappa, La Chiesa tra Rinascimento e Illuminismo, Città Nuova, Roma, 2006; Grande Antologia Filosofica, dir. da M.F. Sciacca, coord. da M. Schiavone, voll. XV e XVI, Marzorati, Milano, 1973 (aggiornamenti bibliografici, vol. XXXIV, 1985); G. Natali, Il Settecento, in Storia letteraria d’Italia, Vallardi, Milano, 1950, 3^ ed.; G. Capone Braga, La filosofia francese e italiana del Settecento, Parti I e II, Cedam, Padova, 1941, 1942.


LEMMARIO




Inquisizione (età medievale) - vol. I


Autore: Marina Benedetti

L’inquisitio haereticae pravitatis si sviluppa a partire dal papato di Gregorio IX e ha un inizio che potremmo definire policentrico. Spesso si indica nella Ad Abolendam (diversarum heresium pravitatem) del 1184 il momento in cui sarebbe nata l’inquisizione. In realtà, la Ad Abolendam rappresenta soltanto un presupposto teorico, ma non implica «inquisitores ab apostolica sede deputati» ovvero scelti dal papa in un rapporto di dipendenza istituzionale. Una serie di norme volte a colpire l’eresia precedono la nascita dell’inquisizione: a partire dal canone Sicut ait beatus Leo del Concilio Lateranense III del 1179 seguito dalla decretale Ad Abolendam emessa nel 1184 a Verona da Lucio III in occasione di un incontro con Federico I. La grande svolta si ha nel 1199 con la decretale Vergentis in senium in cui Innocenzo III equipara il crimine di eresia al crimen lesae maiestatis. Nel breve corso di vent’anni l’eresia viene definitivamente collocata in un ambito disciplinare e politico attraverso l’affinarsi della concezione teorico-giuridica del potere monarchico papale: Solo con Gregorio IX (1227-1241) nasce il negotium inquisitionis, o officium inquisitionis, o inquisitio haereticae pravitatis che, sostituendo le precedenti forme di inquisizione antiereticale demandate ai vescovi, impiegherà circa un secolo a concludere il proprio cammino di definizione istituzionale. Sempre durante il papato di Gregorio IX, il titulus «De Hereticis» trova spazio nel Liber Extra, la raccolta ufficiale di decretali pontificie extra Decretum vagantes raccolte dal frate Predicatore Raimondo da Peñaforte pubblicate dal papa nel 1234. La legislazione antiereticale entrava così a far parte del diritto canonico.

Nel 1254 con la Licet ex omnibus di Innocenzo IV (1243-1254) l’Italia viene divisa in due zone inquisitoriali: la Lombardiacon Bologna e Ferrara sino a Genova corrispondente alla giurisdizione dei frati Predicatori, e il vasto territorio della Marca Trevisana, della Romagna e della Marca d’Ancona affidato ai frati Minori. Tale organizzazione amministrativa è l’esito di una fase di sperimentazione dell’inquisizione in Italia che ebbe in Lombardialo spazio e nei frati Predicatori gli attori del proprio consolidamento. Immediatamente dopo l’elezione, il 29 aprile 1227, Gregorio IX scrive una lettera ai podestà e al popolo di Lombardia sui pericoli dell’haeretica pravitas. In una lettera del 3 novembre 1232, indirizzata ad un non meglio precisabile frate Predicatore Alberico, si riscontra la prima indicazione precisa del nome di un inquisitore e della definizione formale di «inquisitor haeretice pravitatis in Lombardia». Milano e la Lombardia rappresentano un’area privilegiata sia per la presenza di eretici (buoni cristiani dualisti, o catari, e poveri di Lione, o valdesi) sia per il conflitto tra papato e impero. Non a caso il vero rafforzamento propulsivo dell’officium fidei avrà luogo solo dopo la morte di Federico II, nel 1250, e l’uccisione del frate Predicatore e inquisitore Pietro da Verona avvenuta nel 1252. A entrambe le morti Innocenzo IV reagisce con una serie di lettere volte a rafforzare il ruolo e l’intervento degli inquisitori che, anche in questa fase, si caratterizzano per essere personalità d’eccezione con le quali il pontefice ha un contatto personale diretto. Ciò emerge in modo chiaro dalle numerose missive rivolte a frate Raniero da Piacenza, un ex cataro divenuto inquisitore, che mostrano il progressivo delinearsi delle competenze e delle mansioni degli inquisitori “sul campo”. Se nella concezione innocenziana della repressione frate Pietro da Verona, divenuto in tempi brevissimi san Pietro martire rappresenta la santità antiereticale militante, frate Raniero da Piacenza ne impersona il risvolto operativo sul territorio. In tale contesto i frati Predicatori diventano i protagonisti della repressione. Solo in seguito il ruolo dei frati Minori verrà rafforzato da Alessandro IV (1254-1261) – che, tra l’altro, era stato cardinale protettore di quell’Ordine – e le direzioni della repressione antiereticale si spostano verso l’Italia nord-orientale e centrale.

L’importanza strategica e sinergica dell’officium fidei di Lombardia, e in particolar modo della sede milanese in seguito all’uccisione di frate Pietro da Verona, si manifesta anche nella produzione di manuali di procedura e di trattati antiereticali di cui la Summa di frate Raniero da Piacenza rappresenta uno degli esempi più fortunati – se ne sono conservate oltre cinquanta copie coeve e successive – a cui vanno aggiunti la Summa di frate Moneta da Cremona e il Tractatus de hereticis di frate Anselmo d’Alessandria. Si tratta di manuali in cui le procedure inquisitoriali e l’operatività poliziesco-giudiziaria diventano impegno giuridico-normativo attraverso il supporto teologico-dottrinale. A queste due tipologie di fonti vanno affiancati i quaderni contabili degli inquisitori e gli atti dei procedimenti giudiziari i cui esemplari superstiti si collocano soprattutto verso la fine del XIII secolo: se i rendiconti finanziari hanno avuto una conservazione centralizzata (e attualmente si trovano presso la Camera Apostolica dell’Archivio Segreto Vaticano), per i documenti giudiziari si ha una conservazione eccentrica che ne ha determinato la dispersione e, assai spesso, la scomparsa. Non è caso che la maggior parte dei procedimenti giudiziari superstiti non sia stata rinvenuta nei cosiddetti archivi dell’inquisizione, di cui non si può propriamente parlare per il medioevo.

Nonostante la scarsità della documentazione prodotta (o, meglio, sopravvissuta), un quadro meno impressionista del rapporto, interno e esterno, tra inquisizione e Chiesa si precisa tra XIII e XIV secolo con gli interventi nevralgici di Bonifacio VIII (1294-1303). Controlli più attenti e centralizzati dei rendiconti della gestione dell’officium fidei da parte del camerlengo mostrano le anomalie di confische incontrollate di beni di eretici e conducono alla sospensione di alcuni inquisitori appartenenti, per lo più, all’Ordine dei frati Minori. Si tratta di un importante preludio alla progressiva vigilanza sulle questioni patrimoniali strettamente connesse al concreto svolgimento dell’officium fidei da parte dei funzionari della curia papale. Viene inaugurata così una stagione di inchieste, soprattutto di carattere finanziario-amministrativo, che proseguirà con Clemente V (1305-1314). Parallelamente procede l’inserimento delle norme antiereticali e inquisitoriali nel diritto canonico: nel 1298 viene pubblicato il Liber Sextus in cui nel titulus «De Hereticis» viene raccolta parte della normativa antiereticale precedentemente promulgata da Gregorio IX, Alessandro IV, Urbano IV, Clemente IV e, infine, le decretali dello stesso Bonifacio VIII. Specifica attenzione è rivolta al problema della collaborazione tra inquisitori e vescovi, una materia assai delicata che impegnerà in seguito Benedetto XI (Ex eoquod del 2 marzo 1304) e Clemente V (Multorum querela del concilio di Vienne del 1311 inserita, in seguito, nelle cosiddette Clementine).

Il 1300, l’anno del primo Giubileo della Chiesa cattolico-romana e momento promozionale del pontificato di Bonifacio VIII, coincide con la svolta risolutiva di alcuni procedimenti inquisitoriali condotti dall’officium fidei di Lombardia. È assai verosimile che la ricorrenza simbolica del primo Giubileo, il progressivo consolidamento dell’officium fidei e il rafforzamento di legami personali e professionali, soprattutto tra alcuni membri dell’Ordine dei frati Predicatori (in particolare con frate Niccolò di Boccassio, futuro Benedetto XI) e il vertice della Chiesa, abbiano contribuito in maniera convergente alle risoluzioni dei casi lombardi. Emergono gli elementi per confermare un coinvolgimento sempre maggiore di cardinali che, riuniti in apposite commissioni, sono impegnati a risolvere i casi più delicati e controversi. Con il papato di Bonifacio VIII ha luogo un’altra importante mutazione: si colgono i segnali dell’avvio di processi specificamente politici per eresia – di cui egli stesso sarà uno dei primi illustri imputati nei procedimenti intentati dal re di Francia Filippo il Bello in cui sono coinvolti anche i suoi cardinali in qualità di testimoni– giungendo fino alle aperte strumentalizzazioni del pontificato di Giovanni XXII (1316-1334).

Quando il 22 ottobre 1303, Niccolò di Boccassio diventa Benedetto XI (1303-1304) si completa la saldatura tra i vertici della Chiesa cattolico-romana e i frati Predicatori, di cui beneficiano gli inquisitori grazie a rapporti istituzionali e personali di lunga durata. Nonostante la brevità del suo pontificato, Benedetto XI emette provvedimenti importanti per il funzionamento dell’officium fidei nella giurisdizione di competenza dei suoi confratelli. Il 16 febbraio 1304 con la Ad perpetuam rei memoriam ratifica la decisione dei capitoli generali dei frati Predicatori di dividere la Provincia di Lombardia in due circoscrizioni (Lombardia superior e inferior) e di aumentare il numero degli inquisitori (nella Lombardia superior possono raggiungere il numero di sette e nella Lombardia inferior diventano tre). Il 2 marzo 1304 indirizza agli inquisitori di Lombardia la Ex eoquod, nella quale regola la collaborazione tra l’ordinario diocesano e i rappresentanti dell’officium fidei, ma affronta anche problemi patrimoniali e amministrativi frequentemente causa di dissidi all’interno e all’esterno dell’Ordine.

Con il pontificato di Clemente V aumentano le inchieste sull’operato amministrativo degli inquisitori, si intensifica la repressione contro i Templari, e si concludonole ampie indagini sugli inquisitori di Lombardia e della Marca Trevisana.Nel 1307ha luogo la crociata contro il più famoso eretico medievale italiano: frate Dolcino che, con i suoi Apostoli, si era ritirato sulle montagne della Val Sesia in attesa di una palingenesi spirituale e dei “tempi nuovi” dove venne attaccatoe imprigionato con alcuni compagni. Si tratta del caso più clamoroso – soprattutto per l’amplificazione dovuta alla fortuna dei versi nella Divina Commedia di Dante Alighieri (Inf. XXVIII, vv. 55-60) – di crociata interna alla cristianità in territorio italiano di cui abbiamo testimonianze certe. Condotti da inquisitori, gli interrogatori dei prigionieri assumono la forma di veri e propri processi inquisitoriali che, seppur perduti, sono stati riassunti nel trattato De secta illorum qui se dicunt esse de secta Apostolorum. Tale descrizione della dottrina e della vita religiosa degli Apostoli di frate Dolcino è convogliata nel più noto manuale medievale di dottrina e procedura inquisitoriale: la Practica haereticae pravitatis del frate inquisitore domenicano Bernard Gui.

Il passaggio della sede pontificia da Roma ad Avignone con Clemente V nel 1309 non muta la gestione, ormai consolidata, della repressione in Italia bensì le modalità. A causa degli eccessi del pontificato di Giovanni XXII si assiste al deflagrare degli equilibri tra Chiesa e Impero nello scontro con Ludovico il Bavaro, al quale si affianca l’ex ministro generale dei frati Minori Michele da Cesena. Ha luogo unacollisione ferocissimatra il pontefice e alcuni gruppi di frati Minori, dalle cui fila proviene l’antipapa Niccolò V. Tali conflitti assumeranno in Italia le dimensioni di un controllo sempre più diretto e personalmente coinvolto del papa con una ampiezza d’intervento senza precedenti contro i Visconti di Milano, gli Estensi di Ferrara, e i signori delle Marche, dell’Umbria e della Romagna, ovvero contro i cosiddetti ghibellini, i rebelles, a cui si aggiungono i frati Minori spirituali dell’Italia centrale. Con Giovanni XXII l’opposizione politica e religiosa è combattuta tramite l’accusa di eresia in grandi processi indubitabilmente politici– e per lo più in assenza degli imputati – dove non mancano le accuse di magia e di fornicazione, in un clima nutrito anche delle personali ossessioni, o debolezze, del pontefice. In tale contesto, assume dimensioni di grande rilevanza giuridica, pubblicistica e visiva la procedura di raggiungere e coinvolgere tutta la cristianità nell’azione repressiva della Chiesa attraverso l’invio delle sentenze dei processi contro i rebelles da leggere nelle chiese. La cosiddetta età dei processi si conclude con la revisione delle principali inchieste volute da Giovanni XXII da parte dei successori, Benedetto XII e Innocenzo VI, decretandone il sostanziale fallimento.

Con il successore Benedetto XII (1334-1342), il vescovo e co-inquisitore Jacques Fournier, è sempre più evidente il cambiamento di atteggiamento e di mentalità degli uomini al vertice della Chiesa verso l’inquisizione. Importanti e famose inchieste condotte da Jacques Fournier a Pamiers tra il 1317 e il 1325 sono riportate in un codice che nulla ha a che vedere con la tradizionale modalità di redazione di atti giudiziari: le testimonianze processuali si presentano con una inusuale scrittura su due colonne e con spazi bianchi destinati alle miniature mostrando come un testo giudiziario, per sua natura segreto, si fosse trasformato in elegante oggetto-libro, con cambiamento di funzioni e, quindi, di destinatari. A dimostrazione dell’anomalia si aggiunge il luogo di conservazione presso la biblioteca dei papi (ora Biblioteca Apostolica Vaticana) di cui rappresenta uno dei pochi registri inquisitoriali allogati in una istituzione che non mostra sensibilità conservativa verso questa tipologia di manoscritti.

Nel Trecento la Chiesa aveva definitivamente vinto la propria battaglia contro i buoni cristiani dualisti o catari dell’Italia centro-settentrionale, mentre continuerà la repressione contro i Poveri di Lione o Valdesi soprattutto del Piemonte (nel Cuneese, nel Saluzzese, del Pinerolese, del Chierese e delle valli del Sangone e di Susa) che nel 1487 si concretizzerà con una crociata interna alla cristianità voluta da Innocenzo VIII (1484-1492) diretta nell’alta valle del Chisone, detta val Pragelato, nel Piemonte occidentale (ma allora nel Delfinato). Nel corso del Quattrocento proprio nei confronti dei valdesi l’accusa di eresia è associata a quella stregoneria, tanto che il termine vauderie ne diventa sinonimo. È un fenomeno europeo di ampie dimensioni che però non ha né la fase sperimentale né il proprio consolidamento giudiziario in Italia.

Il territorio italiano è l’ambito geografico in cui la repressione degli eretici e il consolidamento dell’inquisizione hanno primariamente luogo (sebbene non vadano dimenticate la crociata e i processi contro i buoni cristiani dualisti, o albigesi, del Midi francese che rappresentarono una importante tappa operativo-organizzativa preliminare). Il fenomeno della caccia alle streghe non è concepito in modo mirato per l’Italia, bensì per i territori tedeschi. Se ne individuano i primordi nel Canon Episcopi inserito nel Decreto di Graziano degli anni Quaranta del XII secolo e aspetti più concreti in una lettera del inviata da Gregorio IX nel 1232 ai vescovi tedeschi invitandoli a procedere «ad exterminium» degli Stedinger accusati di dedicarsi al culto di Satana. Nel 1233, all’arcivescovo di Magonza, al vescovo di Hildesheim, a Corrado di Marburg, a Federico II e al figlio Enrico giunge la Vox in Rama, nella quale è descritta l’adorazione del demonio da parte di coloro che, di conseguenza, verranno chiamati Luciferani. Gli Stedinger che, lungi dall’essere adoratori del demonio, erano contadini che si erano ribellati alle autorità locali, verranno sterminati con una crociata. Tra i più antichi interventi papali circa le divinazioni e i sortilegi si devono ricordare due lettere di Alessandro IV del 1258 e del 1260, mentre risale al 1320, nel pieno corso delle lotte e dei processi contro i ghibellini italiani, una consultazione di Giovanni XXII – apparentemente senza conseguenze giurisprudenziali – sulla possibilità di considerare eretici coloro i quali vengono accusati di magia o di invocazione del demonio: si profilava così il trinomio eresia-magia-stregoneria.

Fonti e Bibl. essenziale

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LEMMARIO




Inquisizione (età moderna) - vol. I


Autore: Elena Bonora

La congregazione cardinalizia dell’I. o Sant’Ufficio fu istituita da papa Paolo III Farnese il 21 luglio 1542 con la bolla Licet ab initio. La bolla affidava la lotta contro l’eresia a un gruppo di cardinali nominati dal pontefice (in quell’occasione furono sei, ma il numero variò a seconda dei papi) attribuendo loro poteri giudiziari dirompenti per una società come quella di antico regime basata sulla diseguaglianza giuridica. I cardinali inquisitori e i loro delegati avevano infatti il potere di perseguire i crimini contro la fede senza tener conto di eventuali privilegi ed esenzioni degli imputati, si trattasse anche delle supreme autorità civili ed ecclesiastiche. Alla base del provvedimento papale c’era l’allarme per l’eresia diffusasi con la connivenza di principi, prelati e porporati in diverse aree della penisola italiana e in ogni strato sociale.

Il nuovo tribunale centrale utilizzò la preesistente rete medievale, ossia i tribunali inquisitoriali dislocati nei conventi degli ordini mendicanti francescano e soprattutto domenicano. Nel giro dei tre decenni dall’istituzione del Sant’Ufficio questa rete s’infittì (a metà Seicento si contavano 47 tribunali periferici nella penisola), ma soprattutto fu sottoposta a un duplice processo di gerarchizzazione e centralizzazione in base al quale i cardinali si arrogarono progressivamente la nomina degli inquisitori locali precedentemente designati dai superiori degli ordini e la scelta dei conventi dove installare i tribunali (quelli dei domenicani osservanti furono privilegiati a scapito del ramo conventuale), imponendo una crescente vigilanza sui processi celebrati dai tribunali periferici.

La corrispondenza tra i tribunali sparsi nella penisola italiana e quello centrale romano testimonia l’esistenza di un’organizzazione verticale dell’informazione. Se da Roma giungevano istruzioni sul modo di condurre i procedimenti più delicati, avocazioni dei processi, licenze di torturare gli imputati, liste di libri proibiti, etc., dalla periferia si inviavano relazioni sui procedimenti giudiziari, copie di sentenze e abiure, liste di libri confiscati, richieste di consigli e chiarimenti. Le lettere dei cardinali inquisitori ai tribunali locali avevano valore di decreti, alla pari delle decisioni assunte durante le sedute della congregazione che si tenevano il mercoledì alla presenza dei cardinali (feria quarta) e il giovedì davanti al papa (feria quinta) alle quali prendevano parte vari consultori, il Maestro del sacro palazzo e il commissario dell’I., entrambi frati domenicani. Questo apparato repressivo – eccezionale in antico regime per la sua capillarità – non funzionava tuttavia come un moderno apparato burocratico-amministrativo. Nelle comunicazioni tra centro e periferia i cardinali dell’I. preferivano infatti risolvere casi specifici piuttosto che trasmettere norme universali e responsi definitivi, che soli sarebbero stati in grado di scongiurare in modo permanente l’arbitrarietà degli interventi dei giudici locali.

Quella romana fu una delle tre inquisizioni operanti nell’Europa cattolica in età moderna insieme con quelle spagnola (1478) e portoghese (1547). In Francia, la giurisdizione dell’I. non fu mai riconosciuta dalla corona e dalle istituzioni civili del regno. Nonostante la pretesa universalità delle sue competenze, l’I. romana circoscrisse quindi l’esercizio dei suoi poteri alla penisola, cui occorre aggiungere le sedi fuori d’Italia (l’isola di Malta, Avignone, Besançon, Carcassonne, Tolosa e Colonia) nonché una breve e discontinua attività sulle coste balcaniche e in alcune isole del Mediterraneo orientale ai confini con il mondo musulmano.

La rete dei tribunali inquisitoriali si stendeva nella penisola secondo una geografia differenziata che escludeva la minuscola repubblica di Lucca mentre in Sicilia e in Sardegna vigeva l’inquisizione spagnola. Nel viceregno di Napoli i compiti inquisitoriali erano affidati ai vescovi e ai loro delegati ma il Sant’Ufficio operava egualmente anche se in modo sotterraneo per mezzo di un commissario suo delegato residente a Napoli. Gran parte dei tribunali erano concentrati nell’Italia centrosettentrionale, un’area cruciale attraversata dalle vie di collegamento con il mondo protestante, nella quale erano dislocati i maggiori centri di produzione culturale, in particolare le città sede di università e di una fiorente industria libraria. Si disegnavano così due spazi distinti: un’«Italia inquisitoriale» dove maggiore era l’incidenza degli apparati coercitivi e un’«Italia vescovile» costituita dal Mezzogiorno continentale dove i tribunali vescovili – eccetto quello napoletano – partecipavano della debolezza delle strutture episcopali meridionali.

Se le inquisizioni spagnola e portoghese, nate per iniziativa dei rispettivi sovrani, furono potenti strumenti del processo di consolidamento delle corone, in Italia il papa impose i tribunali inquisitoriali agli altri principi della penisola. Per i governanti degli stati regionali italiani (che dovevano garantire l’aiuto del braccio secolare nell’esecuzione delle sentenze capitali) accettare l’insediamento dell’I. significava dover tollerare, entro i propri domini, tribunali dipendenti da un’autorità esterna che potevano giudicare in tutta segretezza e punire i loro sudditi, nonché pretenderne la confisca dei beni e l’estradizione a Roma. Al fine di limitare l’autonomia dei giudici ecclesiastici, la repubblica di Venezia era riuscita a ottenere l’eccezionale privilegio che ai processi dell’I. partecipassero rappresentanti dello stato con funzioni di informazione e controllo.

Nonostante la convergenza stabilitasi dopo la metà del Cinquecento tra autorità civili ed ecclesiastiche nella lotta contro l’eresia avvertita come disobbedienza insieme politica e religiosa, i poteri degli inquisitori erano sostanzialmente lesivi della sovranità statale e perturbatori delle normali relazioni sociali, come dimostrano i conflitti con le autorità secolari, gli assalti da parte della popolazione ai conventi sede dei tribunali e la reiterata pubblicazione nel corso del Seicento della costituzione di Pio V Si de protegendis (1569) che stabiliva aspre sanzioni per quanti osassero violare persone e cose dell’I. Un altro fattore di turbamento dell’ordine sociale e di conflitto con le autorità secolari era il fenomeno dei patentati e familiari dell’I. che raggiunse dimensioni di grande rilievo nel Sei-Settecento. La moltiplicazione delle licenze di porto d’armi di cui godevano queste forze di polizia al servizio dei tribunali inquisitoriali si scontrava infatti con i tentativi dell’autorità statale di disarmare i propri sudditi, di combattere il banditismo e d’imporsi come unica titolare dell’uso legittimo della forza.

Se il decollo e il consolidamento della rete inquisitoriale periferica furono lenti e difficoltosi, a Roma nel giro di pochi anni il Sant’Ufficio riuscì a creare le condizioni istituzionali e politiche per influenzare le scelte di governo della Chiesa in base ai propri rigidi orientamenti non solo nei confronti del mondo protestante ma anche verso il dissenso religioso diffuso ai vertici dell’istituzione ecclesiastica, come dimostrano le inchieste e i processi degli anni quaranta e cinquanta del Cinquecento contro vescovi, prelati e prestigiosi cardinali come il milanese Giovanni Morone. Tra i mezzi insidiosi utilizzati per reprimere tale dissenso interno ci fu l’uso spregiudicato in conclave di incartamenti inquisitoriali e delle accuse d’eresia contro gli avversari al fine di impedirne l’elezione al soglio pontificio, anche in vista dell’ascesa al papato dei cardinali intransigenti membri dell’I.

Nel 1555 fu eletto il napoletano Paolo IV Carafa (1555-1559), a capo del Sant’Ufficio sin dalla sua creazione. Sotto il papa inquisitore s’intensificarono le persecuzioni di eretici e di minoranze religiose; le competenze dei tribunali dell’I. furono estese a bestemmiatori, sodomiti, simoniaci, ebrei e giudaizzanti, celebranti la messa senza ordinazione e ordini regolari di recente fondazione; fu promulgato dall’I. il devastante indice dei libri proibiti del 1558. Alla morte del pontefice la sua sede a Roma fu assalita e incendiata, i prigionieri liberati e gli inquisitori malmenati, ma il peso istituzionale conferito al Sant’Ufficio dalle costituzioni di Paolo IV si dimostrò capace di condizionarne durevolmente il ruolo ai vertici della Chiesa.

Con la bolla Cum ex apostolatus officio (1559) Paolo IV stabilì la deposizione immediata delle massime autorità pubbliche civili ed ecclesiastiche (principi, re, imperatori, vescovi, cardinali e papi) nel caso che, prima di assurgere alla loro carica, si fossero macchiate d’eresia. L’accusa d’eresia, già utilizzata durante i conclavi per scongiurare candidature avversate dall’I., trovò così formale legittimazione come strumento della lotta politica all’interno della Chiesa per bloccare carriere ecclesiastiche sgradite ai cardinali del Sant’Ufficio, e addirittura contro il pontefice per influenzarne le scelte, come si verificò sotto Pio IV, Clemente VIII, Innocenzo XI, ossia ogni volta che papi non provenienti dalle file dell’I. vollero prendere importanti decisioni per la Chiesa (la concessione del calice ai laici, l’assoluzione di Enrico IV di Francia, l’apertura verso il quietismo) in contrasto con gli orientamenti della potente congregazione, pronta a ergersi anche contro il papa a giudice dell’ortodossia.

Dopo la breve parentesi del pontificato di Pio IV (1560-1565) che convocò e concluse il Tridentino e tentò di contenere i poteri del Sant’Ufficio, il cardinale inquisitore e frate domenicano Michele Ghislieri, già insignito da Paolo IV della carica a vita di Inquisitor Maior e delle enormi prerogative ad essa connesse, fu eletto con il nome di Pio V (1566-1572). Il papa domenicano inquisitore e santo (fu canonizzato nel 1712) prendeva le decisioni più importanti non in concistoro con l’assistenza del Sacro collegio, ma durante le sedute dell’I. Oltre a scatenare nelle città italiane processi e roghi cui dovettero piegarsi i principi della penisola, Pio V promulgò la bolla Inter multiplices curas (1566) con la quale concedeva all’I. facoltà di riaprire i processi per eresia già conclusi con sentenze di assoluzione, persino nel caso che tali assoluzioni fossero state emanate dal concilio di Trento (da poco concluso) o dai pontefici suoi predecessori. La bolla sanciva così il principio che il ruolo di supremi giudici in materia di fede e il monopolio del controllo sull’ortodossia non spettavano né al concilio universale né al papa, ma ai cardinali inquisitori. Del resto, di lì a poco con la bolla In Coena Domini del 1568 Pio V abrogò la norma tridentina che affidava ai vescovi il potere d’assoluzione degli eretici occulti nel foro interiore, sancendo così contro quanto stabilito addirittura da una norma conciliare l’unicità della via giudiziale dei tribunali della fede nel condurre la lotta contro l’eresia.

In breve tempo il rischio derivante da un’accusa d’eresia davanti all’I. era diventato lo strumento per regolare i meccanismi d’accesso al papato e la distribuzione del potere ai vertici della Chiesa. I margini di autonomia e la posizione di preminenza acquisiti dall’I. furono sanciti da un altro papa inquisitore, il francescano Sisto V Peretti (1585-1590), che riorganizzò il sistema di congregazioni cardinalizie attribuendo al Sant’Ufficio la preminenza su tutte le altre (bolla Immensa Aeterni Dei, 1588). Negli ultimi tempi gli studi hanno messo in rilievo anche le valenze economiche del potere detenuto dall’I. al centro e in periferia.

Alla morte di Pio V, a trent’anni dalla creazione dell’I., ogni forma organizzata di dissenso era ormai cancellata nella penisola. L’I. e la rete periferica dei suoi tribunali, tuttavia, non cessarono di operare ma, sulla base della stretta connessione posta tra eresia e morale, estesero il loro raggio d’azione dalla lotta contro le deviazioni dottrinali al vasto universo dei disordini comportamentali diffusi nella società. Le implicazioni ereticali di pratiche magiche e superstiziose, malefici, culti incontrollati e simulata santità, bestemmie, sodomia, bigamia e poligamia giustificarono così l’intervento degli inquisitori nella sfera delle credenze, delle devozioni e dei comportamenti sessuali.

Alcuni di questi reati erano di misto foro, ossia di competenza non solo dei tribunali ecclesiastici ma anche di quelli civili. Occorre sottolineare però che, diversamente dagli inquisitori, i giudici secolari non volevano punire le opinioni e le convinzioni dell’imputato, ma le implicazioni sociali del reato e l’eventuale danno contro terzi. Nel caso della stregoneria, ad es., laddove i tribunali della fede erano principalmente interessati a verificare il patto con il diavolo e l’apostasia che ne costituivano le premesse, i giudici laici si preoccupavano piuttosto di accertare le conseguenze del maleficio e i danni che ne derivavano. Le sovrapposizioni di competenze si risolsero in modo differenziato a seconda del delitto, della sua rilevanza sociale, dei contesti istituzionali e dei rapporti di forza vigenti tra autorità secolari ed ecclesiastiche.

Alle ragioni di scontro con i poteri civili occorre affiancare i contrasti interni alla sfera ecclesiastica tra inquisitori e vescovi. L’autorità dei vescovi nel governo delle superstizioni e della morale dei fedeli era stata affermata dal concilio, per essere poi contrastata e progressivamente erosa dagli inquisitori. Inoltre, a livello locale autorità diocesane e inquisitori si scontravano su chi dovesse pubblicare gli editti, sull’ordine delle precedenze nelle cerimonie pubbliche, sul luogo in cui celebrare i processi cui avrebbero dovuto partecipare anche il vescovo o un suo rappresentante, sulla custodia dei processi. In generale, nel corso del Seicento, con il crescere dell’assenteismo dei vescovi aumentò la subordinazione del vicario episcopale all’inquisitore, rafforzata dalle istruzioni provenienti dal dicastero centrale.

A partire dal tardo Cinquecento, parallelamente a quello delle superstizioni, le autorità ecclesiastiche affrontarono il problema della santità e delle devozioni a essa connesse. Anche questo campo di cruciale importanza per la definizione del rapporto tra la società e il sacro fu sottoposto a un crescente controllo clericale e all’accentramento a Roma della selezione degli aspiranti santi a scapito delle proposte provenienti dai fedeli e dalle chiese locali. Entro tale contesto, l’I. conservò un ruolo decisivo nella definizione delle vie legali alla santità e nell’approvazione dei nuovi santi anche dopo l’istituzione della congregazione cardinalizia dei Riti (1588), mentre a partire dagli anni trenta del Seicento fu sancita la sua competenza esclusiva nella repressione dei fenomeni di santità «simulata» o «affettata».

Nel tardo Cinquecento, al processo ordinario si affiancò e consolidò l’istituto giuridico della spontanea comparizione, ossia dell’autodenuncia, che comportava una serie di vantaggi   per gli sponte comparentes (rito sommario, abiura privata, punizioni lievi, soluzione locale del caso) qualora fossero sinceramente pentiti dei loro reati e denunciassero eventuali complici. L’accresciuto controllo sulla società impose la necessità della vigilanza sui mediatori ecclesiastici. Di qui la definizione del reato di sollicitatio ad turpia, l’adescamento sessuale delle penitenti da parte del sacerdote durante la confessione sacramentale, incluso tra i crimini di pertinenza inquisitoriale da un decreto di Paolo IV del 1559 per la Spagna e solo nel 1622 affidato al Sant’Ufficio, con pene più severe e procedure speciali, in tutto il mondo cattolico (Gregorio XV, bolla Universi dominici gregis). La preoccupazione per gli abusi che potevano associarsi all’intenso sviluppo della pratica femminile della confessione si accompagnava anche a esigenze di tutela della reputazione e dell’onore del clero, cosicché molte delle scabrose vicende si arenarono o si scontrarono con mille difficoltà.

La preminenza conseguita dal Sant’Ufficio ai vertici curiali, l’ampiezza delle sue prerogative e la specificità delle sue procedure permisero ai cardinali inquisitori di mantenere – non senza contrasti e frizioni – un ruolo di rilievo anche entro la sfera di competenza propria di altri dicasteri romani istituiti successivamente, quali le congregazioni dell’Indice (1572), dei Riti (1588), e persino la potente congregazione De Propaganda Fide creata nel 1622 per il coordinamento e il governo dell’area vastissima costituita dalle terre di missione.

Per il periodo che va dalla seconda metà del Seicento a tutto il Settecento le ricerche sono ancora molte da fare soprattutto per quanto riguarda l’evoluzione e le dimensioni quantitative dell’attività giudiziaria dei tribunali periferici, che sembra in calo, ma non dovunque, mentre le sentenze capitali appaiono senz’altro in netta diminuzione. La formazione di una rete di Vicarie anche nei centri più piccoli dell’Italia centro-settentrionale, portò l’I. sin «ne’ boschi», trasformandola in un’istituzione sempre più capillare e pervasiva, che si occupava di «cose piccole», specie di pratiche magiche e bestemmie, e comminava per lo più penitenze salutari. Nello stesso tempo, però, il rogo di Giordano Bruno, le vicende di Tommaso Campanella e il caso Galilei mostrano che i cardinali inquisitori fronteggiarono con rigida determinazione le grandi sfide all’ortodossia via via poste dalla libertas philosophandi e dalla scienza moderna, nonché dal quietismo e dal giansenismo con le loro importanti diramazioni e aderenze all’interno della Chiesa.

Nel corso del Settecento la politica repressiva dell’I. ostacolò anche i tentativi di quanti, appartenenti ai ranghi ecclesiastici come l’abate Celestino Galiani, tentarono di instaurare un rapporto più aperto tra la Chiesa romana e la cultura contemporanea. Nel 1748 Pietro Giannone moriva nelle carceri dell’I. torinese; frattanto la lotta contro la cultura illuministica, la condanna della massoneria e l’accresciuto rigore contro gli ebrei aumentavano la distanza tra l’I. e una società che cambiava.

La critica dei Lumi contro l’intolleranza s’intrecciò anche in Italia con le sempre più decise politiche giurisdizionalistiche dei sovrani volte a ridurre le competenze e l’incidenza dei tribunali inquisitoriali nei loro domini, a cancellare i privilegi di cui godevano i patentati, ad avocare all’autorità statale gli interventi in materia di censura. Queste misure furono spesso premessa delle successive abolizioni dei tribunali inquisitoriali in diverse città e stati regionali italiani che avvennero secondo processi differenziati e talvolta graduali a Napoli (1746), Parma (1768), Milano (1774), Firenze (1782), Modena (1785), sino alle sistematiche soppressioni avvenute a seguito dell’invasione francese nel triennio giacobino e sotto i governi napoleonici. In questo periodo ebbe luogo la più grave dispersione nella storia dell’archivio centrale dell’I. che era stato trasferito a Parigi nel 1809: dopo la caduta dell’imperatore, gli inviati della Santa sede incaricati di riportare le carte a Roma ricevettero infatti l’ordine di rendere illeggibile e rivendere a salumieri e cartai gran parte della documentazione, tra cui i fascicoli processuali.

Con la Restaurazione la congregazione dell’I. e i tribunali periferici dello stato pontificio ripresero a funzionare sino all’unificazione della penisola italiana sotto i Savoia e alla caduta di Roma nel 1870. Una volta privata della rete dei tribunali periferici, l’I. romana (l’unica sopravvissuta delle tre inquisizioni dell’età moderna) mantenne il ruolo di tribunale supremo dell’ortodossia continuando a orientare con i suoi interventi la vita dei fedeli italiani e del clero, come dimostrano il decreto con cui nel 1886 confermava il Non expedit, ossia la disposizione per tramite della quale Pio IX aveva vietato la partecipazione dei cattolici italiani alle elezioni politiche, sino alla dura condanna del modernismo agli inizi del Novecento.

Fonti e Bibl. essenziale

A dieci anni dall’apertura dell’archivio della Congregazione per la Dottrina della Fede: storia e archivi dell’Inquisizione, Roma, Accademia dei Lincei, 2011; L’apertura degli archivi del Sant’Uffizio romano, Roma, Accademia Nazionale dei Lincei, 1998; E. Brambilla, La giustizia intollerante. Inquisizione e tribunali confessionali in Europa (secoli IV-XVIII), Roma, Carocci, 2006; A. Del Col, L’inquisizione in Italia dal XII al XXI secolo, Milano, Mondadori, 2006; Dizionario storico dell’Inquisizione, 4 voll., diretto da A. Prosperi, con la collaborazione di V. Lavenia e J. Tedeschi, Pisa, Edizioni della Normale, 2010; M. Firpo, La presa di potere dell’Inquisizione romana. 1550-1553, Roma-Bari, Laterza, 2014; L’inquisizione, a cura di A. Borromeo, Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana, 2003; L’Inquisizione e gli storici. Un cantiere aperto, Roma, Accademia Nazionale dei Lincei, 2000; Le Inquisizioni cristiane e gli ebrei, Roma, Accademia Nazionale dei Lincei, 2003; G. Maifreda, I denari dell’inquisitore. Affari e giustizia di fede nell’Italia moderna, Torino, Einaudi, 2014; Th. F. Mayer, The Roman Inquisition. A Papal Bureaucracy and Its Law in the Age of Galileo, Philadelphia, Pennsylvania U. P., 2013; A. Prosperi, Tribunali della coscienza. Inquisitori, confessori, missionari, Torino, Einaudi, 1996; G. Romeo, L’inquisizione nell’Italia moderna, Roma-Bari, Laterza, 2002; Id., L’Inquisizione romana e l’Italia nella più recente storiografia, CCXXV, fasc. 2, 2014, 188-206; J. Tedeschi, Il giudice e l’eretico. Studi sull’Inquisizione romana, Milano, Vita e Pensiero, 1997.


LEMMARIO




Islam - vol. I


Autore: Gianluca Padovan

Premesse

Dovendo trattare dei rapporti tra la Chiesa Cattolica e l’Islam in Italia sembra anzitutto necessario precisare i termini di questo impegno. Quanto alla Chiesa, si è scelto di considerarla nel suo senso più ampio, proiettando senza esitazione sull’intero percorso storico in esame la consapevolezza contemporanea che non restringe la qualifica di “Chiesa” soltanto al Magistero gerarchico, ma piuttosto la estende ad ogni battezzato. Non intendiamo quindi limitarci ad esaminare i documenti ufficiali e le scelte dei Papi e dei Cardinali più influenti, ma faremo il possibile per dare conto anche delle scelte di singoli pastori e di laici. Dovendo giungere ad una sintesi, tenteremo di selezionare tra queste esperienze quelle che ci sembreranno più rappresentative dei diversi approcci cattolici al confronto con l’Islam in Italia. Similmente estenderemo il termine Islam fino a fargli comprendere tutte le manifestazioni religiose e culturali legate alla fede musulmana, sia riferendoci agli atteggiamenti delle autorità politiche che si sono poste a guida delle diverse anime del mondo islamico, sia riferendo di eventi locali rimasti ai margini della “grande storia”. Infine daremo al termine “Italia” una connotazione prettamente geografica, intendendo quindi tutto ciò che accade dalle Alpi alla Sicilia e accostandoci alle vite di tutti quegli uomini che in questa ripartizione fisica sono nati o hanno operato avendo a che fare col nostro tema. Gli estremi cronologici di questa sezione, infine, sono dati dal primo contatto diretto fra abitanti della Sicilia e fedeli musulmani in territorio isolano da un lato, e dalla proclamazione ufficiale del Regno d’Italia dall’altro. Questa seconda data è considerata significativa, poiché da quel momento esistono confini politici ufficiali che contribuiscono a definire una chiesa “nazionale” in senso proprio.

Preludio e primo contatto

Il primo incontro fra Islam ed Italia fu, in effetti, uno scontro nel senso più proprio del termine. Protesa nel Mediterraneo, a pochi passi dalla costa tunisina, l’Italia è per sua natura un ponte naturale nonché il confine tra le due metà del mare, strategicamente necessaria per chiunque voglia dominarlo. In più Roma, al centro della Penisola, fin dalla sua nascita ha costituito una calamita potente per le ambizioni degli uomini, siano esse religiose, politiche od economiche, ed i Califfi non fecero eccezione. Dal 652 con Mu’awiya, futuro fondatore del califfato omayyade, al 1595 con Sinan Pasha, Gran Vizir ottomano e genovese convertito (Scipione Cicala alla nascita), molte volte ed in molti modi uomini tra loro diversissimi ed accomunati solo dalla generica dicitura di “musulmano” assalirono l’Italia per mare e per terra, avendo come meta ideale la Città Eterna. Dopo di loro i corsari barbareschi continuarono ad insidiare le navi e le coste dell’Italia meridionale fino agli inizi del XIX secolo. Ciò non poteva restare senza conseguenze per l’idea di Islam che la Chiesa Cattolica andava maturando, e viceversa. Che il primo terreno di confronto tra il Cristianesimo italiano e l’Islam dovesse essere il campo di battaglia era piuttosto prevedibile. Sul piano politico parte della Penisola apparteneva all’Impero Bizantino, in guerra con i Califfi dal 634, anno dell’invasione della Siria da parte di Abu Bakr, e dunque era da allora formalmente coinvolta nel susseguirsi di eventi bellici fra le due parti. Gli Arabi, poi, non ignoravano il valore di Roma per quella Cristianità che stavano rapidamente imparando a considerare come il loro principale avversario politico (ed in seguito dottrinale), anche se la conoscevano inizialmente soltanto come un nome e non di rado la confondevano con Costantinopoli. Non va dimenticato infatti come il termine “bizantino” sia stato coniato da Du Cange nel ‘600, mentre ai nemici arabi gli uomini di Bisanzio si presentavano come “romani”. Fin dall’inizio della storiografia e geografia islamica Roma ha un posto d’onore, al punto che su di essa vengono tessute descrizioni spesso fantasiose ricalcate sulla “seconda Roma” constantinopolitana, per gli Arabi assai più familiare. Infine il richiamo economico dell’Italia era molto forte nel Mediterraneo, e furono proprio le scorrerie finalizzate al saccheggio il primo approccio islamico alle sue coste. In tutto questo le tradizioni mitiche ed i racconti di guerra e di viaggio sulla città di Roma consegnarono al mondo musulmano stereotipi e pregiudizi sul Cristianesimo ed il Papato che durarono per secoli e lasciano tracce osservabili anche ai nostri giorni. Rispetto al nostro tema è anche necessario considerare anche la pre-comprensione dell’Islam da cui la Chiesa mosse i primi passi di questo difficile confronto. Dopo le frequenti e spesso tragiche esperienze di conflitto con numerose eresie, sulla scorta delle prime osservazioni di Giovanni Damasceno i pensatori cristiani identificano l’Islam come l’ennesima forma deviante di Cristianesimo. Non è possibile comprendere la natura complessa ed ambivalente dei legami politici ed economici formati nel Medioevo tra potenze cristiane e musulmane senza tenere conto di questo: sebbene non mancassero i distinguo teologici, fu a lungo opinione comune che gli islamici non fossero altro che cristiani eretici, seguaci di un eresiarca arabo del quale si ricamavano volentieri leggendari trascorsi nella gerarchia pontificia, o che poteva essere addirittura rappresentato come l’anti-cristo biblico.

Espansione musulmana in Italia meridionale, la Guerra Santa dei Cristiani e la controversia ereticale

Dal punto di vista islamico medioevale l’orizzonte italiano è prevalentemente occupato dalla Sicilia, parte del dar-al-Islam per circa due secoli. Come già detto fu Mu’awiya ibn Abi Sufyan, nel 652, ad armare la prima flotta musulmana per la pirateria ed il saccheggio della Sicilia bizantina, mentre il porto e l’arsenale marittimo di Tunisi furono approntati nel 698 principalmente per sostenere questa politica di aggressione. L’idea di un’occupazione stabile si sviluppa progressivamente e per tentativi, in particolare quello del 739/740 da parte del governatore d’Ifrikiya ‘Ubayd Allah b. Habhab, che viene però respinto dopo l’infruttuoso assedio di Siracusa. La doppia linea della pirateria e degli intensi contatti commerciali salda un rapporto altalenante di tensione e cordialità fra i Bizantini e gli emiri Aghlabidi d’Ifrikiya, fino alla rivolta del tumarca siracusano Eufemio contro l’Imperatore di Costantinopoli nell’827. Il generale ribelle chiede l’intervento islamico, e nel giugno di quell’anno un esercito aghlabita di 10.000 uomini, al comando del sessantottenne Abu ‘Abd Allah Asad ibn al Furat sbarca a Mazara del Vallo. Alcune note biografiche su questo generale possono essere di aiuto per comprendere lo spirito dell’impresa, vista anzitutto come una conquista intellettuale ed un’acquisizione culturale, che condizionò per certi versi l’approccio arabo all’isola anche sotto i successivi governanti. Egli era un famoso esperto di legge islamica, intellettuale molto rispettato, e pur facendo formalmente parte dei ranghi militari non aveva mai partecipato ad alcuna attività bellica. Egli stesso giustificò questa singolare situazione affermando che solo con la conoscenza maturata nella vita era possibile sperare nella vittoria sul campo. I fatti gli danno ragione, poiché nel giro di un mese le armate bizantine vengono sconfitte ed è posto l’assedio a Siracusa per circa un anno. Non la sconfitta vi mette fine ma una pestilenza scoppiata tra gli assedianti ed i musulmani si ritirano verso Mazara, riuscendo però a prendere Palermo nell’831. Solo nell’842 le posizioni arabe possono dirsi sicure e riprende l’offensiva con la conquista di Messina (843) e l’avanzata fino a Ragusa (848). Da notare come il successo contro i Bizantini sia dovuto anche all’alleanza con Napoli, che nell’835 si accorda con gli invasori e ne assoldai soldati come mercenari contro il principe longobardo di Benevento, Sicardo (che da parte sua fa lo stesso con altre fazioni musulmane), e nell’842 appoggia il tentativo islamico di conquistare Messina. Ormai proiettati all’espansione, nell’847 con il capo berbero Khalfun gli arabi assalgono e conquistano la città pugliese di Bari, stabilendovi il primo ed unico emirato della Penisola. Ancora una volta emergono alleanze interreligiose, con il nuovo principe di Benevento, Radelchi, che incoraggia l’iniziativa a spese dei suoi avversari salernitani. Gli emiri di Bari arrivano a sottomettere Oria, Matera e Taranto, organizzando scorrerie in buona parte della costa Adriatica, ma il loro regno è destinato avita breve: dopo soli trent’anni l’Imperatore carolingio Ludovico II, spronato anche dalle autorità ecclesiastiche, conduce una serrata campagna con la collaborazione dei Bizantini e dei feudatari dell’Italia meridionale, ed espugna la città nel Febbraio 871. Ma la linea di confine tra Islam e Cristianità non fu mai un tratto continuo. Enclavi musulmane, colonie, emirati di breve durata ed effimere moschee nascono e muoiono nel giro di pochi anni – o talvolta di qualche mese – lungo le coste italiane e della Francia meridionale. In questo periodo, nell’846, un esercito islamico sbarca nel Lazio e saccheggiala periferia di Roma e le basiliche extra-murarie di San Pietro e San Paolo, spingendo Papa Leone IV ad edificare le mura leonine a difesa del colle Vaticano tra l’848 e l’852. Essendo evidentemente insufficiente provvedere soltanto alla difesa, Leone avvia contatti diplomatici con le principali città costiere dell’Italia meridionale e sollecita l’allestimento di una flotta da opporre agli invasori. La sua strategia viene messa alla prova nell’849, quando al largo di Ostia, per la prima volta, gli Arabi vengono sconfitti dagli alleati italici; «per la prima volta un esercito composto da italici aveva vinto una grande battaglia e l’aveva fatto sotto la guida del Pontefice in una guerra a difesa del mondo occidentale. Da quel momento il vescovo di Roma si assunse il compito di condurre una battaglia diplomatica a tutto campo, sia per tessere alleanze antimusulmane sia per annullare ogni impium foedus esistente tra cristiani e infedeli». Ancora, nell’875, alla morte dell’Imperatore Ludovico II il giovane, è il Papa Giovanni VIII a farsi promotore e talvolta organizzatore della lotta contro i musulmani in Italia, d’intesa con il nuovo sovrano Carlo il Calvo. Del resto la situazione risultava preoccupante: nel Garigliano viene infatti fondata una colonia musulmana che resiste dall’881 al 915 e fa da base alle scorrerie in Lazio ed Umbria, sostenuta o almeno tollerata dai grandi feudatari del territorio in lotta col Papato per la propria indipendenza. Solo un’inedita e trasversale alleanza tra il Papa Giovanni X, l’Imperatrice bizantina Zoe, i principi del Meridione ed i Longobardi permetterà infine di cacciare gli invasori. Che la propensione italiana dell’Umma sia tutt’altro che spenta lo prova però il saccheggio di Genova nel 935; intanto la base arabo-andalusa di Fraxinetum in Provenza (nei pressi dell’odierna Saint-Tropez), dall’889 al 975 è all’origine di continue incursioni attraverso le Alpi nelle valli più occidentali del Piemonte (in provincia di Saluzzo si festeggia ancora ogni anno il Bahìo, o Baìo, “carnevale alpino” in cui gli uomini, travestiti, rievocano la definitiva sconfitta degli arabi); da ultimo la Sardegna viene in parte conquistata – ma abbandonata meno di un anno dopo – dal convertito spagnolo Mugiahid nel 1015.

Sintesi: Si è visto sin qui come la Cristianità, a cominciare dal Papato, tra il IX e l’XI secolo abbia avuto molti motivi ed occasioni per sviluppare una precisa identificazione dell’Islam come nemico temibile ed irriducibile, un problema anzitutto politico e militare da affrontare sul campo di battaglia, mettendo in gioco la sopravvivenza stessa della Chiesa e del mondo europeo. Dal punto di vista teologico per i Cristiani è sufficiente considerare i musulmani degli infedeli, uomini che hanno preferito seguire l’eresiarca Maometto piuttosto che il Vangelo. Gli scritti del Damasceno fanno scuola e, per il momento, il confronto teologico resta inquadrato tra le controversie ereticali.

Ascesa e declino dei musulmani in Sicilia, la reconquista normanna

Le battaglie di terraferma, condotte da capi locali e bande di briganti più o meno autonome, non hanno significative influenze sulla conquista araba della Sicilia orientale, che dopo i precedenti successi prosegue con la presa di Noto (864) e di altre località, oltre ad incursioni contro i principali centri della costa est. Infine, nell’878, dopo nove mesi di assedio cade Siracusa, e Taormina, l’ultima roccaforte bizantina, si arrende nell’agosto del 902. Al termine di 75 anni di scontri l’isola è pienamente inserita nel dar-al-Islam. Un dominio non esente da tensioni, come la rivolta di Taormina nel 961, oltre a scontri interni ai conquistatori per stabilire i limiti dell’autonomia dei governanti locali rispetto ai Fatimidi dell’Africa settentrionale, ma che nel complesso determina un’evidente fioritura economica e culturale. Soprattutto la prima metà del X secolo può essere considerata il punto culminante dell’incontro siciliano fra cultura araba e greca, fra Islam e Cristianesimo. Nell’insieme la popolazione rimane infatti cristiana, ottenendo il riconoscimento legale della condizione di dhimmicon l’obbligo della tassa per la libertà di culto ed alcune limitazioni in campo matrimoniale. Ai Cristiani non è permessa la pratica della propria fede negli spazi pubblici, tuttavia le funzioni religiose all’interno delle chiese restano regolari. I Cristiani devono portare sugli abiti un contrassegno, visibile anche sulle loro case, e sono interdetti dall’assumere quegli uffici pubblici che li metterebbero in condizione di superiorità rispetto al cittadino musulmano. È permesso il matrimonio tra una donna cristiana ed un musulmano ma non l’opposto. Ciò è comunque sufficiente a consentire una certa ibridazione tra la popolazione araba e quella italica. Oltre a queste altre limitazioni vengono di volta in volta aggiunte o rimosse dai governanti sia centrali che locali. Bisogna però notare che non sempre questa legislazione viene applicata, ed anzi la sua perfetta osservanza può considerarsi l’eccezione piuttosto che la regola, salvo la questione matrimoniale che risulta essere stata sempre strettamente normata. Il 900 arabo in Sicilia vede lo sviluppo di Palermo, che superando i 300.000 abitanti diviene per qualche tempo la città più popolosa della penisola italiana e tra le maggiori d’Europa, manifesto internazionale del successo politico e sociale dei conquistatori, la sola città a ricevere il nome arabo di al-Madina, omaggio alla Medina del Profeta. Le sorti politiche dell’isola sono quindi legate al regno aghlabita d’Ifriqiya, la cui conquista da parte dei Fatimidi nel 909 segna il passaggio del potere in nuove mani. Dal Cairo viene mandato nel 948 il governatore yemenita Hasan b. ‘Ali al-Kalbi, che sebbene formalmente dipendente dai Fatimidi ottiene da questi ultimi una sempre maggiore autonomia, politica condivisa dai suoi successori. Se questo consente un’elaborazione culturale e religiosa autonoma, caratterizzata anche da una certa apertura verso i sudditi Cristiani, segna però l’isolamento dell’emirato, precludendo interventi a suo sostegno dal resto del mondo islamico mediterraneo e favorendone infine la caduta nel 1053 per ribellioni interne, sia dei Cristiani che dei Musulmani berberi ostili ai reggenti di origine arabica. Ad essa seguono diversi anni di anarchia. La frantumazione del dominio islamico in piccoli emirati e le continue guerre tra questi spingono il conte normanno Ruggero d’Hauteville, vassallo del fratello Roberto, duca di Puglia e Calabria, a sbarcare una prima volta a Messina nel Febbraio 1061, rispondendo alla richiesta di aiuto dell’emiro di Siracusa Ibn al-Thumna suo alleato, ed una seconda volta nel 1071 puntando all’occupazione stabile di Palermo, conquistata l’anno seguente. Tra alterne vicende l’avanzata normanna incontra il suo unico oppositore credibile in Ibn ‘Abbad, emiro di Siracusa dal 1072 e noto ai Cristiani come Benavert, che cade in mare nel 1086 mentre tenta di rompere l’assedio della sua città e viene trascinato a fondo dalla pesante armatura. Venuto meno l’ultimo ostacolo, i Normanni completano la conquista prendendo Noto nel 1091 ed imponendo ai Saraceni di Malta un giuramento di fedeltà. Ruggero I di Sicilia regna fino al 1101, con una politica fortemente legata al Papato e preoccupata della tutela della religione cattolica. Nominato Gran Conte di Sicilia e Legato Apostolico da Papa Urbano II, con facoltà di trasmettere i titoli agli eredi, Ruggero I governa direttamente le diocesi latine ed è il primo sovrano a cui la Chiesa di Roma conceda giurisdizione sulle nomine episcopali. Inserita così nell’organico del governo siciliano, la Chiesa cattolica viene sostenuta e garantita nel suo rapido passaggio da minoranza a maggioranza egemone sul territorio, a scapito delle comunità islamiche e soprattutto delle ancora diffuse diocesi bizantine. Con il successore Ruggero II i Normanni continuano la loro “reconquista” arrivando a dominare le coste africane fra Tunisi e Tripoli fra il 1135 e il 1153. Un simile successo si spiega nell’ambito della più ampia pressione militare esercitata dalla Cristianità sul mondo islamico a partire dalla Prima Crociata del 1095, e proseguita con alterne vicende fino alla definitiva riconquista musulmana di San Giovanni d’Acri nel 1291. Nonostante il marcato appoggio alla (e dalla) Chiesa di Roma, i governanti normanni operano con grande pragmatismo, cercando l’integrazione della popolazione araba a tutti i livelli della società, anche incorporando reggimenti musulmani nell’esercito (è noto “l’entusiasmo” dei reggimenti saraceni contro le milizie germaniche di Lotario e quelle del Papa, che si scontrarono più volte con Ruggero II nel vano tentativo d’impedirgli l’annessione dei territori normanni in Calabria e Puglia). La riuscita di questo progetto è rilevabile anche dalla scelta di buona parte dei musulmani di non emigrare. La significativa componente araba ed islamica della popolazione siciliana contribuisce, nel corso del XII secolo, a strutturare la singolare cultura arabo-normanna che ancora oggi caratterizza l’isola (e per certi aspetti la Calabria e la Puglia) nella lingua, nei toponimi, nell’architettura, nelle abitudini quotidiane e nella religiosità popolare, oltre ad un’evidente traccia araba nella fisionomia di parte dei suoi abitanti. Nel corso del XII secolo la Sicilia è anche un importante centro di traduzione dall’Arabo al Latino, ma poiché il lavoro dei traduttori si concentra sulle opere scientifiche e filosofiche, specie quelle radicate nella tradizione greca,la cultura islamica viene divulgata in Occidente per lo più sotto questi aspetti, lasciando la sua dimensione religiosa alle fantasiose ipotesi di romanzieri e cantastorie. La società normanna mostra i primi segnali di crisi a partire dal 1161 per scontri dinastici tra i figli di Ruggero II. I musulmani, più deboli ed esposti, sono oggetto di saccheggi e violenze, e maturano così una forte disposizione alla ribellione, più volte tradotta in pratica e sempre soffocata nel sangue. Ciononostante il resoconto del pellegrino musulmano Ibn Gubayr, che mentre torna in Granada dalla Mecca fa naufragio a Messina e visita l’isola tra il Dicembre 1184 e il Gennaio 1185, riferisce di una situazione ancora relativamente pacifica e favorevole ai suoi correligionari sotto l’egida del re Guglielmo il Buono. Durante il suo regno, fra il 1153 e il 1189, essi sono per lo più salariati alle dipendenze dei Cristiani e tenuti a pagare una tassa specifica per la loro condizione (probabilmente viene ribaltata sic et simpliciter la normativa islamica sui dhimmi), ma possono possedere terreni e farsi strada nel commercio e nell’artigianato, hanno moschee e muezzin abilitati all’adhana pubblica e sono liberi di celebrare le proprie feste religiose ed osservare le purità alimentari. La loro presenza alla corte di Guglielmo II è riconosciuta ed apprezzata, i matrimoni misti permessi e non insoliti, ed alcuni costumi arabi vengono imitati anche dai Cristiani (forse l’autore esagera, ma riferisce di donne cristiane che nelle feste amano vestirsi e velarsi come le musulmane); l’Arabo è ancora una lingua praticata largamente da tutte le componenti della popolazione, e lo studio delle scienze e della filosofia islamica fa parte della formazione dei reali e della nobiltà. Unica nota negativa, secondo il nostro pellegrino, il problema della gestione della famiglia. Il ruolo forte del padre secondo la tradizione araba non viene riconosciuto dalla società normanna, e non sono pochi i casi di mogli e figli che chiedono il Battesimo per sfuggire all’autorità paterna, così che i padri musulmani sono “costretti” a più miti consigli ed impossibilitati al pieno esercizio del governo familiare concesso loro dall’Islam.

La fine dei Musulmani d’Italia nella colonia di Lucera

Dopo la morte improvvisa di Guglielmo II nel 1189, a soli 36 anni, l’instabilità politica riemerge con maggior vigore e laddove i musulmani sono maggioranza, o comunque possono contare su una forte presenza, scoppiano frequenti ribellioni verso i feudatari cristiani. In questo periodo diverse chiese, abbazie e cattedrali vengono saccheggiate e più di un vescovo viene fatto prigioniero e rilasciato dietro riscatto, determinando un’insanabile frattura fra il clero locale ed i musulmani. È Federico II di Svevia a riportare l’ordine in Sicilia, assumendo il potere effettivo nel 1208 e ricorrendo anche a mezzi estremi verso i dissidenti. Nel 1225, dopo avere sconfitto i musulmani di Iato ed Entella ribelli dal 1206, egli organizza una progressiva deportazione delle comunità islamiche dalla Sicilia alla Puglia, nella cittadina di Lucera, che nel 1239 viene a contare appena dodici abitanti cristiani a fronte di diverse migliaia di musulmani. Lì i fedeli dell’Islam hanno la possibilità di vivere in pace contribuendo al successo economico e culturale del territorio, spesso paragonato dai cronisti alla Cordova degli Omayyadi. Grati, i musulmani prestano servizio nell’esercito imperiale, anche come guardie personali dell’Imperatore a cui essi si riferiscono in arabo come “Sultano”, e restano fedeli alla casata sveva di Federico anche dopo la sua morte. Il tragico epilogo di Lucera si deve anche al diretto intervento del Papato. Nell’agosto del 1269 Clemente IV esorta Carlo I d’Angiò, succeduto agli Svevi nel controllo del Regno di Napoli, ad attaccare la città per liberarla dalla presenza musulmana, ma il sovrano non riesce a raggiungere una vittoria definitiva. Quando poi nel Luglio del 1300 i musulmani di Lucera si ribellano al successore Carlo II, pare per ragioni legate alla tassazione ritenuta iniqua, questi indice la cosiddetta “Crociata angioina”, che grazie alla partecipazione massiccia dei feudatari si conclude con la distruzione di Lucera e lo sterminio della popolazione araba. I superstiti fuggono nelle campagne, chi resta in città deve convertirsi. Lucera viene ribattezzata “Città di Santa Maria”, tutti gli edifici “islamici” vengono abbattuti, gli oggetti arabeggianti requisiti e fusi o distrutti e molti nuovi abitanti cristiani vengono fatti arrivare dalle altre regioni del regno. I musulmani latitanti restano comunque causa di continui attriti, rendendo necessario mantenere una grossa guarnigione, e ben vent’anni più tardi Roberto d’Angiò, già vicario pontificio per tutelare gli interessi papali in Italia, concorda con Papa Giovanni XXII l’invio in città del vescovo croato Agostino Kazotic (italianizzato in “Casotti”), domenicano, già pastore di Zagabria ed in esilio ad Avignone per tensioni con il suo sovrano. Considerando che il Papa aveva già inviato nel 1319 il Cardinale Bertrando del Poggetto a ripristinare l’autorità pontificia nell’Italia centrale, la preoccupazione di normalizzare l’appartenenza religiosa di Lucera sembra inserirsi bene nel quadro politico del tempo. Il nuovo vescovo riserverà però delle sorprese. Noto per la grande carità pastorale, il Casotti si dedica in particolare all’edificazione di strutture assistenziali ed all’evangelizzazione dei cittadini islamici, rifiutando l’uso della forza che pure gli era stata raccomandata dal re e dal Pontefice. Arrivato a Lucera nel 1322, in poco meno di un anno si guadagna la fama di uomo di dialogo e di pace, infaticabile tanto nella predicazione che nella visita pastorale degli abitanti, particolarmente attento alla ricerca dei musulmani ed alla frequentazione assidua dei loro luoghi di ritrovo. Questa insistenza e la ferma decisione di non avvalersi della guardia angioina lo espone ad un attentato da parte di un musulmano armato di ascia. Ferito ma vivo, egli continua la sua opera evangelizzatrice fino alla morte, probabilmente per infezione, il 3 agosto 1323. La sua esperienza, breve ma incisiva, resta purtroppo un caso isolato che non fa scuola nei rapporti tra la Chiesa e l’Islam. Rimane la speranza che possa oggi venire riscoperto come antesignano di un approccio disarmato, caritatevole e dialogante all’insegna della buona convivenza. Questo grande agente di conversione verso i musulmani fu beatificato nel 1702, pochi anni dopo il secondo assedio di Vienna e la vittoria cristiana della pace di Carlowitz (1699), che tra l’altro permise a Venezia di prendere agli Ottomani la Dalmazia da cui Kazotic era nativo e dove era oggetto di una discreta venerazione popolare.

Sintesi: Tentando una sintesi, è possibile notare come la caduta di un potere politico e militare islamico in Italia abbia di fatto condannato i musulmani rimasti sul territorio. La loro presenza diventa inevitabilmente un bene di scambio nel confronto politico tra il Papa, l’Imperatore e le casate sveva ed angioina. Quanti, come Federico II, riescono ad imporre la propria volontà sui Pontefici utilizzano i Musulmani come minaccia e deterrente; altri, come gli Angioini, intendono guadagnarsi il favore papale indossano volentieri l’egida dei crociati. Se però l’atteggiamento delle autorità tanto laiche quanto ecclesiastiche è nell’insieme coerentemente improntato alla lotta armata per sradicare l’Islam dall’Italia (e l’eccezione del Casotti non fa che ribadirlo), per contro la popolazione cristiana mostra atteggiamenti diversi. In Sicilia, almeno finché resistette un governo saldo capace di far valere le proprie leggi, Cristiani e Musulmani convivono senza attriti ed anzi si contaminano a vicenda nelle abitudini quotidiane, nella lingua, nella devozione religiosa. Persino nella situazione di cattività della colonia di Lucera i Musulmani trovano una collocazione pacifica nel territorio, intessendo lucrosi commerci con mercanti cristiani e diffondendo le proprie competenze artistiche e metallurgiche in un territorio che ancora oggi è in parte legato a questo comparto di artigianato. Ogni traccia di questa presenza viene però cancellata, gli stessi edifici musulmani non sono riutilizzati come accadde in altri luoghi ma abbattuti e del tutto eliminati, come anche gli oggetti di fattura islamica. Attualmente solo una pisside nel museo diocesano di Lucera testimonia dell’incontro fra culture e religioni che un tempo avvenne in quei luoghi.

La percezione popolare dell’Islam in Italia nel tardo Medioevo.

Poiché se ne è fatto cenno, è doveroso approfondire brevemente e sintetizzare la conoscenza che la cultura popolare italiana poteva avere dell’Islam fra il XII e il XIV secolo. Essa, maturata sullo sfondo degli scontri militari e delle tensioni politiche presentati finora, ha segnato profondamente anche i secoli successivi, ed a tutt’oggi se ne possono rintracciare alcuni elementi sopravvissuti all’approccio scientifico del 1800. Almeno a partire dalla prima metà dell’XI secolo è possibile individuare nella letteratura francese (Guiberto di Nogent e Galterius di Compiegne, ad esempio) dei testi che definiscono e diffondono un racconto leggendario della vita di Muhammad che circolò rapidamente. In Italia una recezione esemplare di queste idee si può ritrovare nel “Tesoro” di Brunetto Latini, maestro di Dante, a cavallo fra il XIII e il XIV secolo. Il Profeta dell’Islam viene descritto in questi racconti come un monaco africano, talvolta addirittura un cardinale, abile predicatore e versato nelle scienze, il quale ambiva al Papato al tempo dell’Imperatore Teodosio. Vistasi negata l’elezione, avrebbe comunque tentato di costituire un proprio dominio spirituale e temporale in Africa, dando luogo all’ennesima eresia cristiana. Cacciato dall’Impero, avrebbe diffuso le sue dottrine fra gli Arabi, generando così l’Islam. Definito con tratti come “l’uomo più malvagio mai vissuto”, del quale “si può dire ogni male senza timore di sbagliare”, la comprensione di Muhammad e quindi dell’Islam risulta chiaramente consona al clima di tensione bellica del tempo, alla minaccia incombente della Spagna musulmana sulla Francia, ai fantasiosi racconti di veri o presunti pellegrini e viaggiatori nelle terre dominate dai musulmani. Si struttura una vera e propria teologia popolare dell’Islam, visto come eresia ispirata dal Diavolo appoggiandosi ai peggiori istinti dell’animo umano; di qui alla Guerra Santa il tragitto è breve, e non mancheranno Papi e Re desiderosi di percorrerlo a grandi falcate. Va anche tenuta presente, tra il 1095 e il 1291, l’esperienza delle Crociate. Essa spinge inevitabilmente le due parti in campo a strutturare un opportuno linguaggio di propaganda per consolidare le proprie posizioni, sia in battaglia che nelle retrovie. È sorprendente, o forse al contrario è banalmente ovvio, constatare come il linguaggio cristiano e quello musulmano finiscano col convergere tanto nel definire le proprie motivazioni a favore della “guerra santa”, quanto nel dipingere i tratti del proprio nemico come nemico del proprio Dio. In circa due secoli, ma soprattutto fino al 1202 e alla famigerata IV Crociata dirottata su Bisanzio, viene definita nell’immaginario collettivo la certezza di un’inevitabile ed irriducibile opposizione tra Cristianità ed Umma, si salda il rapporto tra volontà di Dio e guerra all’infedele, emergono giustificazioni teologiche, filosofiche, politiche ed economiche per motivare la necessità del conflitto. Con tutto questo è doveroso dare conto anche di vicende alternative, come gli scambi di doni tra Salah al-Din (Saladino) e Riccardo I Cuor di Leone in occasione dei reciproci periodi di malattia, o la sorpresa del Sultano al-Malik al-Kamil nell’incontrare l’Imperatore Federico II che gli si rivolgeva in perfetto arabo, eventi che testimoniano il costruirsi di relazioni di mutuo rispetto anche nell’orizzonte di un’irriducibile opposizione bellica. Trova posto qui la singolare vicenda di san Francesco d’Assisi (1182-1226), che nel 1219 incontra proprio al-Malik a Damietta. L’episodio storico è stato sin dall’inizio oggetto di una forte polarizzazione interpretativa, così da rendere ormai impossibile la sua esatta ricostruzione. Negli scritti coevi e posteriori questo incontro viene utilizzato sia per sostenere la legittimità delle Crociate, a cui dunque Francesco si sarebbe associato, sia al contrario per condannarle e proporre il modello alternativo della disputa teologica e dell’annuncio del Vangelo con la predicazione e il martirio. Sarà questa seconda lettura a prevalere, infine, col mutare dell’orizzonte mediterraneo e dei rapporti politici al suo interno. Francesco, in ogni caso, ha certamente questa esperienza ben presente quando nel 1221 stende il capitolo 16 della sua regola non bollata, che ai versetti 5-7 delinea con sintetica chiarezza due modalità con cui i frati possono vivere in un contesto musulmano: «I frati poi che vanno fra gli infedeli, possono comportarsi spiritualmente in mezzo a loro in due modi. Un modo è che non facciano liti o dispute, ma siano soggetti ad ogni creatura umana per amore di Dio (1Pt 2,13) e confessino di essere cristiani. L’altro modo è che, quando vedranno che piace al Signore, annunzino la parola di Dio perché essi credano in Dio onnipotente Padre e Figlio e Spirito Santo, Creatore di tutte le cose, e nel Figlio Redentore e Salvatore, e siano battezzati, e si facciano cristiani, poiché, se uno non sarà rinato per acqua e Spirito Santo non può entrare nel regno di Dio (Gv 3,5)». Tenendo presente il contesto della Crociata di Innocenzo III e la teologia dei Sacramenti e della Salvezza in vigore al tempo, è possibile apprezzare il peso di ognuna delle parole scelte dal santo di Assisi, e non sembra improprio rintracciare in queste sue posizioni una delle radici di quell’intento missionario pacifico, dialogante e attento alla cura dell’uomo che in diverse occasioni la Chiesa Cattolica ha saputo esprimere.

La scoperta delle fonti arabe e l’opzione del dibattito filosofico

La complessità di queste relazioni, che superano la dimensione puramente oppositiva maturata fra l’VII e il XII secolo, si radica in un più ampio mutamento di prospettiva della Cristianità tardo-medioevale rispetto all’Islam che si farà lentamente strada ed emergerà soprattutto a partire dal 1300, ma il cui inizio effettivo va forse individuato nel viaggio in Spagna di Pietro il Venerabile, abate di Cluny, nel 1141. Egli sembra essere il primo sinceramente preoccupato di risalire alle fonti arabe originali, specie per una corretta traduzione del testo coranico, così da maturare una reale conoscenza della religione islamica e poter offrire ai musulmani una presentazione del Cristianesimo capace di persuaderli. Dopo l’opzione militare, si sviluppa così nella Cristianità una corrente apologetica e controversistica, attenta alla migliore conoscenza possibile della religione e della cultura islamica, tutta protesa alla volontà di argomentare in modo convincente la superiorità del Cristianesimo per suscitare la conversione. In ambito italiano si registra così la disposizione di Papa Clemente V nel 1311, che istituisce la cattedra di lingue orientali (arabo, greco, ebraico e caldaico) in alcune università europee, tra le quali Roma e Bologna. Frattanto nella prima metà del 1200 in Inghilterra, ragionando sui possibili approcci della predicazione agli infedeli,Ruggero Bacone teorizza la necessità di abbandonare la Bibbia per la Filosofia, unico terreno valido per un confronto con i musulmani ed efficace preparatio evangelica, poiché essi mostrano competenza ed interesse nella materia. Ma Bacone mostra di ridurre l’Islam alle posizioni di filosofi come al-Farabi, Avicenna ed Averroè, che in realtà esprimevano una minoranza destinata a non avere seguito. Ancora una volta la Cristianità cerca di ricondurre il mondo musulmano ad una identità monolitica e definita, ed inevitabilmente se ne costruisce un’immagine non adeguata alla realtà. Sempre nella seconda metà del ‘200 si colloca l’opera di san Tommaso d’Aquino, a contatto col mondo islamico fin dai primi studi (’39-’44) a Napoli, nello studium fondato da Federico II. Dal ‘48 al ‘52 l’Aquinate studia alla scuola di sant’Alberto Magno a Colonia, il quale lo introduce alle traduzioni latine dei grandi commenti arabi ad Aristotele: i già citati Avicenna/Ibn Sina ed al-Farabi da parte musulmana, Avecenbrol e Maimonide da quella ebraica. Assieme ad Averroè/Ibn Rusd questi autori entreranno fra le auctoritates ricorrenti nelle sue opere, con le quali l’Aquinate si troverà talvolta concorde e talvolta in disaccordo. Dal ‘59 al ‘65 vive ad Orvieto, dove conclude la Summa contra gentiles iniziata in Francia nel ‘58. Attorno a quest’opera si coagula la reazione intellettuale dell’intera Cristianità europea alla civiltà islamica. Dopo le Crociate, la riconquista dell’Italia meridionale, i decisivi progressi in Spagna con la caduta degli Almohadi di Cordova ed il piccolo regno Nasride di Granada ridotto ad innocua periferia, il mondo islamico non è più visto soltanto come un’incombente minaccia militare. Ora c’è spazio per apprezzarne la ricchezza culturale ed il rigore scientifico e filosofico, ed il suo innegabile fascino è una provocazione che deve essere raccolta dall’apologetica cattolica chiamata a rendere ragione della dottrina. Tommaso introduce per primo una distinzione tra i non cattolici: con gli eretici è possibile dibattere a partire dalla Bibbia cristiana, con gli Ebrei soltanto dall’AT, con i musulmani ed i pagani non restano che le evidenze della ragione, e quindi la filosofia. Inizia timidamente un processo di superamento della concezione dell’Islam come eresia cristiana, sebbene l’idea resti corrente ancora a lungo e sia in pratica adottata anche dallo stesso Tommaso. Non è poi fuori luogo ricordare come, anche nel dibattito contemporaneo sul dialogo islamo-cristiano, resti centrale il problema della possibilità di un confronto teologico oltre che culturale, secondo una distinzione che già sembra indicata dal Dottore Angelico. Nel suo insieme l’opera di Tommaso, al di là dei singoli punti d’incontro o di presa di distanza, “sdogana” definitivamente i filosofi musulmani come interlocutori dei pensatori cristiani e li pone sullo stesso piano di autorità pagane come Platone ed Aristotele. L’Islam non è solo il nemico dei Cristiani: esso costituisce una civiltà avanzata con la quale è necessario confrontarsi senza pregiudizi, capace sia di fornire utili argomentazioni per rafforzare alcune posizioni dottrinali che di proporre sfide utili a stimolare una risposta ed una più profonda affermazione della fede della Chiesa (si pensi al dibattito con Avicenna, che sosteneva la non-libertà della Creazione rispetto a Dio, oppure la critica dell’idea islamica per cui non esiste causalità riferibile alle creature ma ogni cosa consegue da un diretto e puntuale intervento di Dio). Il confronto è però sempre in ambito filosofico, specie con quei pensatori che appartenevano alla corrente filosofica ellenistica dell’Islam, minoritaria ed abbandonata rapidamente. Le poche affermazioni dell’Angelico in campo prettamente teologico rispetto all’Islam sono nella linea dell’eresia, ed egli mostra di considerare la dottrina di Muhammad nulla più di una distorsione delle principali verità cristiane. A margine di queste considerazioni sulla vicenda dell’Aquinate, bisogna annotare la scarsità di studi da parte islamica su di lui, o quantomeno la difficoltà di reperire materiale in lingue occidentali, così da rendere impossibile tracciare un quadro della percezione del suo lavoro in ambito musulmano sia antico che recente. Mentre l’Europa cominciava così a scoprire la ricchezza del mondo arabo e, sia pure con fatica ed errori, perseguiva la via di una sua conoscenza più approfondita, la cultura islamica ha già intrapreso la via del declino. Nella seconda metà del XIV secolo le note geo-politiche di Sihab al-Din al-Umari, letterato presso la corte mamelucca del Cairo e viaggiatore nel Mediterraneo, offrono una descrizione di Roma ancora del tutto fantasiosa, come di una città sulla riva del mare ricalcata sulle fattezze di Costantinopoli, e propongono un’immagine singolare del Papato: esso sarebbe il vertice sia religioso che politico della Cristianità, capace di esercitare un’autorità diretta ed immediata su ogni credente e su tutti i principi e gli stati cristiani, così che i singoli e le nazioni si accordano ed agiscono secondo la sua volontà; un “Califfo cattolico”, per così dire.

L’Italia rinascimentale e l’Islam

I secoli XIV e XV sono ben poco attestati nelle fonti di nostro interesse. Una volta conclusa l’esperienza di Lucera il territorio italiano non ha più alcun contatto diretto con i fedeli dell’Islam, e la maggior parte degli stati che lo occupano rivolgono le proprie attenzioni al contesto europeo e cristiano piuttosto che alla sponda musulmana del Mediterraneo. La frammentazione e la debolezza dei regni islamici in questo periodo contribuisce ad allontanare la percezione di una minaccia da parte loro. La Chiesa stessa è assorbita prevalentemente dalle vicende dell’Impero e delle emergenti gradi monarchie, contemplando soddisfatta i buoni esiti della Reconquista spagnola, il relativo equilibrio della situazione nei Balcani all’ultimo tramonto dell’esangue Bisanzio, e solo rimpiangendo il fallimento delle Crociate che non avevano assicurato quel dominio cristiano sui luoghi santi per cui inizialmente erano state bandite. La “scoperta” delle Americhe allontana ulteriormente l’attenzione europea dal mondo arabo-islamico, sempre più ridotto a periferia. Conviene dunque procedere nell’analisi adottando una lente diversa, che metta a fuoco le situazioni particolari di alcuni centri italiani di rilievo, nei quali la realtà civile e l’istituzione ecclesiastica presero posizione rispetto all’Islam. Nel fare questo dovremo abbandonare la perfetta successione cronologica, ed ogni sezione ripercorrerà gli eventi evidenziando ciò che la riguarda.

– Venezia

Oltre alla Serenissima anche Pisa, Genova, Napoli, Bari ed altre città marinare fra il 1100 e il 1400 hanno importanti rapporti commerciali con l’Africa e il Medio Oriente musulmani. Ci concentriamo su Venezia, convinti che possa fungere da utile paradigma per comprendere la situazione storica ed i contatti tra politica, economia ed autorità religiose nei contesti segnati dalla preminenza dei commerci con l’oriente musulmano. In primo luogo va segnalato, poiché non sempre noto, come il commercio fra Occidente ed Oriente fosse bilaterale: l’Italia importa soprattutto spezie, legname e metalli, e per contro esporta nel mondo arabo i suoi tessuti, le lavorazioni vetrarie e più in generale oggetti d’arte e d’uso quotidiano. Già dalla fine dell’XI secolo Venezia è presente nei mercati di Alessandria, Damietta, Acri e Tiro, ed i suoi commerci sono tutelati e regolati dalle autorità musulmane che si impegnano a contribuire alla lotta contro la pirateria. Dal XII secolo si afferma il modello dei fondachi e dei quartieri franchi nei principali porti islamici, ovvero settori della città riservati a comunità stabili di mercanti europei, nei quali viene applicata una legislazione riservata dal carattere generalmente assai liberale. Nella stessa Venezia, dal 1631 al 1732, è attivo il “Fondaco dei Turchi”, che garantisce ai mercanti ottomani un luogo dove conservare le merci e vivere nel rispetto dei propri costumi, anche dal punto di vista religioso. Di seguito, in breve, una rassegna dei principali eventi che segnano i rapporti tra il mondo veneziano e quello islamico, annotando il contributo dei contesti allo sviluppo del confronto tra Cristiani e Musulmani. È del 1462 il primo “trattato di amicizia e di commercio” con l’Egitto musulmano, ed i rapporti tra i due stati saranno così buoni e forieri di profitto per entrambi da portare, nel 1501, ad un accordo per lo scavo di un canale tra il Mediterraneo e il Mar Rosso. Il progetto fallisce per insormontabili problemi tecnici, ma è significativa la disponibilità delle parti ad un tale impegno economico che si sarebbe comunque protratto per anni. Ma la disponibilità veneziana ad allearsi con i musulmani non era limitata ad accordi di tipo commerciale. Nel 1509 la battaglia di Diu, al largo del Mare Arabico in direzione della costa indiana, vede i Portoghesi scontrarsi con una flotta partecipata dal Sultano Turco, quello di Calcutta e la Repubblica di San Marco. Le tre potenze erano andate oltre le tensioni storiche che le contrapponevano per tentare di imporre la propria supremazia sui commerci marittimi verso l’Estremo Oriente. Vengono sconfitte e questo contribuisce al declino del commercio nel Mediterraneo Orientale a favore delle rotte atlantiche per l’India e le Americhe. Nonostante questa irrecuperabile perdita, nel resto del ‘500 le attività commerciali veneziane nel Vicino Oriente restano fiorenti fino a che l’espansione ottomana nei Balcani e le mire sulle isole e gli scali veneziani incrinano il fragile equilibrio raggiunto. I rapporti commerciali di Venezia si spostano così decisamente verso il Maghreb, e la Repubblica tratterà prevalentemente con Egitto, Tunisia e Marocco fino alla fine della propria storia, imitata dalla Toscana e dal Regno delle Due Sicilie. All’interno di questo quadro tutt’altro che monolitico, nel corso di vicende che hanno visto i Veneziani appoggiarsi sia economicamente che militarmente ad alleanze e compromessi con popolazioni islamiche, non deve sorprendere l’interesse culturale e religioso per quel mondo negli ambienti colti della Serenissima. Così nel 1537 i fratelli Paganino e Alessandro Paganini danno a alle stampe quella che è forse la prima edizione completa del testo arabo del Corano, di cui oggi sopravvive una copia conservata presso la biblioteca di San Francesco della Vigna. Nemmeno la guerra di Cipro (1570-1573) e la battaglia di Lepanto del 1571 saranno eventi tali da rompere definitivamente la lunga tradizione di confronto, dialogo ed accordi fra il Doge e il Sultano. Anzi, già nel 1575 a Venezia è aperto il fondaco ottomano presso Rialto, spostato nel 1621 sul Canal Grande in una sede capace di ospitare fino a 300 mercanti con le loro merci. In quel periodo è nota la presenza di macellai musulmani in città per garantire il rispetto della ritualità islamica, così come un apposito cimitero accanto a quelli giudaico e protestante. Per contro il Sultano permetteva ai Veneziani, e solo a loro, di spostarsi a cavallo nel suo Impero e di vestire come i turchi, risultando dunque impossibili da identificare immediatamente come stranieri e non musulmani. Veneziani ed Ottomani intervennero diverse volte, sia su convocazione che spontaneamente, a reciproco sostegno contro Austria e Spagna. Ciò non era apprezzato dalla Chiesa romana, a sua volta considerata con sospetto dai Veneziani in quanto concorrente nel controllo della costa emiliana. Va segnalata l’azione dei Cappuccini, che ordinariamente garantivano il servizio spirituale agli eserciti veneti, e che in più occasioni si adoperarono per convertire gli alleati ed i mercenari musulmani assoldati dalla Serenissima anche contro il parere dei comandanti militari. Bisogna poi ricordare che nel 1606 Venezia venne colpita dall’Interdetto e non mancarono figure, come il Servita Paolo Sarpi o i Dogi Leonardo Donà e Nicolò Contarini, che affermarono pubblicamente di “ritenere più leali, liberali e progrediti i Turchi che i Papisti, i Gesuiti e gli Spagnoli”. Non manca, nella Venezia del primo ‘600, una genuina ammirazione per la struttura politica e militare della Sublime Porta, e la Serenissima promuove pure lo studio della lingua e della religione islamica per meglio comprendere i suoi interlocutori; nella metà del secolo, del resto, i commerci veneziani con il mondo islamico conoscono una seconda e redditizia primavera, ed i rappresentanti della Repubblica in terra turca inviano frequenti e puntuali notazioni sul mondo islamico, considerandone limiti e pregi dal punto di vista socio-politico, militare, economico e religioso. Gli autori veneziani del tempo, anche non esperti in questioni teologiche, mostrano di saper distinguere le diverse forme di Islam praticate nell’Impero turco e negli altri regni musulmani, come pure di considerare diverse la religione musulmana e la superstizione che talvolta ad essa si accompagna; non sono poi rari i tentativi di mettere a confronto i diversi approcci alla figura di Gesù, o le somiglianze tra pratiche come il Ramadan e la Quaresima. In questo contesto si radica l’opera del Marracci, al quale dedicheremo il paragrafo conclusivo di questa parte. Il definitivo tramonto di ogni collaborazione turco-veneziana avvenne nel 1645, quando gli Ottomani pretesero la vendita di Creta e, al rifiuto veneziano, iniziarono l’invasione dell’isola per riuscire faticosamente a conquistarla nel 1669. In questo tempo di belligeranza i Cappuccini, espulsi dalla Repubblica assieme agli altri religiosi durante l’Interdetto, tornarono in forze per assistere gli eserciti e si fecero portatori della ben diversa prospettiva sull’Islam adottata dai Papi a partire dalla sacralizzazione di Lepanto. Il cambiamento a Venezia è evidente, e nella Repubblica di San Marco, ora in aperto conflitto con il mondo islamico, prendono a circolare storie e leggende sulla ferocia, la crudeltà e l’immoralità dei Turchi, tanto che alcuni capitani, mercanti e ambasciatori veneziani operativi lungo i confini, al rientro in laguna lasciano scritti pieni di stupore per i grossolani errori dei propri concittadini nel giudicare i musulmani. In particolare il bailo Giovanni Battista Donà prende a cuore la causa ed organizza una scuola di lingua araba. Così il vescovo di Padova Gregorio Barbarigo avvia dal 1680 l’insegnamento dell’arabo nel suo seminario, e le due istituzioni, civile ed ecclesiale, gareggiano nella produzione di opuscoli e trattati sul mondo arabo. Questa attività non si ferma nemmeno durante la guerra del 1684-1699, che vede la riconquista veneziana del Peloponneso. Anche a questi instancabili operatori culturali si deve l’ultima conversione veneziana, che nel ‘700 torna a subire il fascino della Sublime Porta. Non più di quella vera, però, ma delle Mille e una notte, dei Sette veli, dei caffè nelle calli ammobiliati alla turca e delle opere teatrali e liriche in cui l’Islam appare trasfigurato in una favola esotica: «I sogni degli europei non erano più popolati dal feroce Saladino, che faceva strage di cristiani, bensì da indolenti musulmani, felici poligami e padroni di esotici harem, oggetti di derisione e forse anche di sottaciuta invidia».

Sintesi: Nell’insieme l’esperienza veneziana si pone come un caso particolare nel panorama italiano, in cui uomini e donne cristiani hanno dovuto e potuto confrontarsi con l’Islam a partire dalle necessità di conviverci, da un rapporto paritario segnato dall’uguaglianza tra contraenti tipica delle trattive commerciali, dalla distanza politica ed intellettuale rispetto agli ambienti della Curia romana, che a Venezia era spesso considerata un pericoloso rivale. Il forte carattere laico dello stato veneziano imprime al dialogo islamo-cristiano i caratteri della convenienza economica e politica. Non sorprende che questo abbia permesso anche di coltivare un approccio maggiormente scientifico alla conoscenza della religione musulmana, favorito dalle notizie di prima mano che i mercanti e gli ambasciatori potevano riportare, oltre che dalla possibilità per i veneziani di intraprendere viaggi e soggiornare senza pericolo in diversi luoghi del dar-al-Islam.

– Roma

Fin dal trionfo organizzato in città il 4 Dicembre 1571 per accogliere la vittoriosa armata pontificia di ritorno da Lepanto, il Papato investe molte energie nella celebrazione di questo evento come festa della fede. Il rapido processo di canonizzazione di Pio V, che aveva dedicato e quindi implicitamente attribuito la vittoria alla Vergine, sancisce la scelta che verrà scrupolosamente seguita dai successori. La conquista delle Americhe, la lotta all’eresia protestante e l’inizio del contrattacco contro i Turchi si saldano in un unico movimento di espansione e trionfo della Chiesa Cattolica, che fino all’800 inoltrato resterà convinta dell’ormai prossima ed inevitabile conversione di tutte le genti all’unica vera fede. Il modello che si va imponendo è quello della missione colorata di tinte apocalittiche, per cui la storia è prossima al suo compimento ed i Cristiani devono affrettarne la fine col dono della propria vita per la conversione degli infedeli. Dopo Lepanto ogni grande vittoria militare viene celebrata nell’Urbe con atti pubblici come segno della Provvidenza divina, sempre legata al culto mariano: non a caso si diffonde l’immagine dell’Immacolata con la Mezzaluna turca sotto i piedi, adattamento della più antica immagine devozionale. Non sfugga che così si associa il Turco al Serpente della Genesi, destinato ad avere il capo schiacciato dalla Donna secondo il diffuso fraintendimento di quell’immagine biblica, riferita in realtà a Cristo. Cresce assieme a questa anche la devozione a San Michele Arcangelo, e non mancano nuovi santi e beati che hanno ricevuto il martirio ad opera dei perfidi musulmani. Infine va menzionato l’onore reso nelle chiese agli stendardi ottomani catturati nelle diverse vittorie, esposti e spesso trasformati in oggetti liturgici come vesti e baldacchini, vere reliquie dei campi di battaglia, assicurazioni della divina benedizione e quindi della certezza che, ormai, l’Islam non è più una minaccia e la Chiesa può adempiere, libera e vittoriosa, alla sua vocazione di conquistare il mondo a Cristo. Bisognerà attendere il trauma della Rivoluzione Francese e il crollo del regime coloniale europeo perché questa opzione torni ad essere messa in questione. Lo slancio missionario ha per conseguenza, nel corso del ‘600, l’abbondante reflusso di scritti che i missionari compilavano durante il loro soggiorno e spedivano in patria, coordinati dalla neonata Congregazione De Propaganda Fide a partire dal 1622. Sono racconti in buona parte dal tono fortemente apologetico, in cui ad esempio il sopravvivere di una comunità cristiana in terra islamica non è mai considerato prova di tolleranza dei musulmani, ma segno della loro debolezza oppure di eccessivi compromessi da parte dei cristiani locali. Raccontano poi volentieri di prodigi avvenuti nei luoghi santi della Cristianità a danno degli infedeli che hanno osato avventurarvisi, e calcano la mano sui vizi e gli errori che vedono o credono di vedere. Nasce così una percezione del mondo islamico per molti versi opposta a quella perdurata fino al XV secolo: esso non è più la sede di una raffinata ed evoluta civiltà, ma una società in declino, che miete le conseguenze della sua infedeltà ed è ormai prossima a collassare. Il mito della superiorità dell’Europa e della sua vocazione di guida e maestra si affaccia all’orizzonte; religione cristiana e civilizzazione sono presentati come direttamente conseguenti ed assimilabili. Anche le inevitabili esperienze positive di accoglienza ed ascolto vengono collocate in questo orizzonte. I missionari onestamente si stupiscono delle virtù che osservano e che attribuiscono a doni di Dio che precedono l’errore teologico e morale degli infedeli, e sono pertanto ancor più scandalizzati per la seria devozione islamica al confronto con lo scarso impegno dei Cristiani. Ogni differenza culturale, in breve, è stigmatizzata come inferiorità intellettuale, se non come immoralità o persino empietà, utile in definitiva a confermare l’identità del missionario e il divino imperativo cui obbedisce nel dover persuadere l’infedele. Ancora una volta temi e vocabolario richiamano la polemica anti-protestante. Bisogna dare comunque conto anche di esperienze diverse, come le scuole dei francescani riformati a San Pietro in Montorio (1622) e dei Carmelitani scalzi a Santa Maria delle Grazie (1626), dove all’insegnamento della lingua araba si accompagnava un’introduzione alla polemica controversistica e apologetica con i musulmani. Pur condividendo la prospettiva dello scontro ereticale, in queste sedi si cerca anche una concreta comprensione della realtà islamica a partire dall’esperienza diretta di missionari richiamati come docenti. Né va dimenticata la presenza di una stabile comunità di maroniti arabofoni nell’Urbe, che diedero il proprio contributo sia a Propagande che al Sant’Uffizio nel giudicare questioni legate al mondo arabo e all’Islam.

Sintesi: Nell’800 le scienze illuministe sottraggono ai religiosi il monopolio dell’Orientalismo e di fatto si perdono le tracce di una lettura teologica prettamente cattolica dell’Islam che solo in epoca recente torna ad occupare la Chiesa, con prospettive ben diverse. Il Papato rinascimentale, in conclusione, continua a trattare l’Islam come avversario politico prima che teologico, e sviluppa la propria attrezzatura polemica allo scopo di mostrare gli errori, le contraddizioni e i fallimenti della religione musulmana. Tutto questo si salda con l’imperativo di dare invece risalto al Papato e alla Chiesa di Roma, impegnata nel riscattarsi dagli scismi del Nord Europa e nell’affermare il primato cattolico nell’evangelizzazione del Nuovo Mondo e dell’Africa.

– Milano

Nella prima parte del ‘600 il Cardinale di Milano Federico Borromeo, che aveva dalla sua una elementare conoscenza dell’Arabo, si adoperò per dotare la Biblioteca Ambrosiana di un fondo in questa lingua. Oltre ad opere cristiane si procurò anche diverse copie del Corano e molti scritti islamici di scienza e filosofia. Di lui abbiamo anche un manoscritto, intitolato “Lux matutina”, nel quale immagina di dover spiegare le essenziali verità del Cristianesimo ad un musulmano persiano. Altro fattore peculiare del territorio ambrosiano, fra il XV e il XVIII secolo, sono le Confraternite dedite al riscatto degli schiavi cristiani prigionieri dei musulmani. Queste esistevano in tutto il mondo cattolico, ma nel Milanese vedono una fioritura tale da poter risultare paradigmatiche per la nostra sintesi. Gestite da ordini religiosi, queste istituzioni vivevano delle offerte raccolte per la causa e delle indulgenze che potevano offrire in cambio. Ogni qual volta un gruppo di cristiani veniva affrancato e portato in città si organizzavano fastose cerimonie e processioni, durante le quali era uso drammatizzare la condizione vissuta dagli schiavi nei paesi islamici ed accostarla alla Passione di Cristo. L’Islam era così presentato come l’Inferno in terra, che alla sofferenza fisica univa la tentazione dell’apostasia dietro laute ricompense. Difficile non considerare quantomeno assai colorite molte delle descrizioni pervenute fino a noi, e non avvertire in esse un fine propagandistico che si mescola al genuino slancio devozionale. Da notare che mai veniva data ai liberati la possibilità di raccontare con proprie parole l’esperienza vissuta; la regia delle celebrazioni era appannaggio di teologi che di solito non avevano mai messo piede in terra islamica. Altra fonte d’informazioni per le popolazione dell’Italia nord-occidentale sono i resoconti dei viaggi missionari dei Frati Minori francescani, che soprattutto nel XVIII secolo percorrono le regioni balcaniche e gli stati del Mediterraneo orientale in cerca di occasioni di predicazione e di martirio. Nelle loro testimonianze si rintracciano due opposte percezioni, da un lato quanti hanno trovato nelle autorità turche una difesa contro l’intransigenza ed il fondamentalismo religioso della popolazione musulmana locale, dall’altro invece chi ha assistito al martirio di confratelli e quindi racconta di crudeltà e barbare torture. Va riconosciuto come i frati, pur impegnati in una dichiarata propaganda sia della fede cristiana che delle virtù del proprio Ordine, abbiano saputo accostare con una certa onestà il mondo islamico in cui spesso trascorrevano più decenni della loro vita, riuscendo a comporre il rifiuto della fede musulmana con la genuina meraviglia per molte acquisizioni morali, scientifiche e sociali di quelle popolazioni, fino ad una seria autocritica come quella di frà Timoteo Canevese. Egli, dopo essere stato missionario, prigioniero, ospite ed amico dei musulmani, ammonisce: «La republica christiana non deve divenire scandalo per gli infedeli, appresso de quali non v’ha chi possa corromper la giustizia, che con essi non vale quell’assioma, chi ha denari ed amicitia non teme la giustizia!». Agli scritti dei missionari milanesi va riconosciuta un’attenzione all’obiettività senz’altro superiore rispetto ad altri testi dello stesso periodo.

– Toscana

Sin dall’XI secolo Pisa ha stabili relazioni commerciali con il mondo musulmano, specie con l’Emirato di Tunisia. Nel 1133 un trattato con l’Emiro del Marocco e nel 1264 con l’emiro di Tunisi aprono ai mercanti toscani i regni islamici del Mediterraneo occidentale. Negli ambienti accademici della città era noto l’Arabo e nel XII secolo furono tradotti diversi testi arabi in Latino. Leonardo Fibonacci, grande matematico del XIII secolo, apprende tale scienza nella colonia di Bugia (Algeria) e svolge molte delle sue ricerche alla corte di Federico II di Svevia. La pittura toscana dal ‘300 in poi rappresenta frequentemente tessuti e tappeti di fattura araba, ed usa le lettere della calligrafia islamica come elemento decorativo, specie nei quadri dedicati alla Vergine, di cui era già noto il comune renderle onore. Non mancano ipotesi sulla relazione tra la Commedia dantesca e il Miraj di Muhammad (soprattutto col racconto del “Libro della Scala”, tradotto dall’arabo in spagnolo e latino a Toledo da Bonaventura da Siena). Dante stesso, del resto, se mette Muhammad in bocca a Lucifero riconosce invece Averroè tra i grandi sapienti del Limbo. Anche la grande fucina culturale toscana, dunque, beneficiando di conoscenze di prima mano dai suoi mercanti, custodisce uno sguardo quantomeno plurale verso l’Islam, fatto di rifiuto e insieme di fascinazione.

Il ‘700 italiano e il crollo del mondo islamico di fronte al colonialismo europeo

La pace di Carlowitz del 1717, cui si è già accennato, costituisce il definitivo arresto della spinta espansionistica ottomana grazie all’alleanza tra l’Austria e Venezia. Secondo alcuni autori questo momento chiude una lunga fase della storia mediterranea e segna un radicale cambiamento nella posizione della Chiesa Cattolica rispetto alla realtà politica europea. Così sintetizza il Leoni: «Quel giorno si concludeva un’intera epoca: la minaccia ottomana, incombente sull’Europa per più di tre secoli, era finita per sempre. […] Il vincitore in questione era la Chiesa Cattolica che, fin dalla metà del XIV secolo, si era adoperata instancabilmente per tessere alleanze e finanziare eserciti che stornassero la minaccia musulmana sull’Europa. Un flusso incalcolabile di danaro era confluito nelle casse vaticane per distribuirsi fra gli Stati che avevano deciso di resistere contro quello che sembrava un destino ineluttabile. […] Scomparsa l’emergenza del Turco, anche il ruolo politico della Chiesa venne meno, iniziò il rapido declino degli ordini militari di Malta e Santo Stefano ed ebbe inizio la grande partita tra i sovrani assoluti nelle guerre di successione polacca e austriaca». Di certo la storia delle transazioni finanziarie che fecero della Santa Sede un potente sostenitore ed organizzatore della resistenza anti musulmana può offrire contributi interessanti alla nostra ricerca, ma allo stato attuale i contributi sembrano scarsi. Ad ogni modo, il fatto che dal ‘700 in avanti non vi siano più nazioni musulmane percepite come una minaccia per l’Europa e la Cristianità consente di innescare nella Chiesa Cattolica un cambiamento di prospettiva, che attraversando l’epoca coloniale vedrà maturare nuovi approcci all’Islam. La prima e forse maggiore novità è la ricerca minuziosa ed accurata dei fatti storici e delle posizioni teologiche del mondo islamico, che trova il suo esponente esemplare in Ludovico Marracci (1612-1700). Egli porta a termine la prima traduzione latina completa del Corano a Padova nel 1698, con testo originale integrale a fronte. Con lui nasce l’Islamologia in senso moderno, basata sullo studio delle fonti in lingua originale. Membro dei Chierici regolari della Madre di Dio di Lucca, il Marracci dedica allo studio dell’Islam e in particolare alla traduzione critica del Corano buona parte della sua vita accademica. Buon conoscitore della lingua araba, la insegna alla Sapienza di Roma e contribuisce alla traduzione della Bibbia. Nell’orizzonte accademico del tempo si inserisce perfettamente nella linea controversistica cui già abbiamo accennato. Egli si adopera per «Una traduzione del Corano integrale, che segua criteri scientifici, con spirito antiriformista, e i criteri pastorali-pedagogici della Chiesa Cattolica». Il suo lavoro sul Corano si divide in due parti: la prima viene pubblicata a Roma nel 1691 e tratta della vita di Muhammad e dei fondamenti teologici dell’Islam, tutti accompagnati da puntuale confutazione. La seconda parte, con la traduzione del testo coranico, non può essere pubblicata a causa della messa all’Indice di ogni testo che contenesse citazioni dirette del Corano. La scelta di pubblicare a Padova si deve alla protezione accordata dal Vescovo Barbarigo, di cui diremo più avanti. Nella sintesi di Rizzi: «Acquisizione fondamentale di quest’opera è dunque l’intento di una conoscenza obiettiva dell’Islam nella sua interezza, facendo riferimento alle fonti stesse; altra prospettiva interessante è quella della presa in considerazione sia pratica che teorica del problema dell’evangelizzazione dei musulmani. Inoltre è significativo il tentativo di elaborare un’istanza teologica nella lettura dell’Islam». Tutto questo senza tradire lo spirito apologetico del tempo, ma cercando una fondazione accademica alla confutazione dell’eresia islamica. Quanto ancora fosse forte l’antica tradizione teologica, già del Damasceno, di considerare l’Islam un’eresia giudeo-cristiana lo attesta sant’Alfonso Maria de’ Liguori, che nel 1768 dedica due articoli della sua “Storia delle eresie” alla “setta di Maometto”. Il Dottore della Chiesa considera il Profeta dell’Islam il maggior eresiarca del VII secolo, in quanto avrebbe composto il suo Corano con l’aiuto di “un certo monaco chiamato Sergio” mescolando elementi della tradizione giudaica e cristiana ed inserendovi poi credenze arabe. Sant’Alfonso riprende la confutazione dell’Islam nelle “Verità della fede”. In particolare evidenzia come incompatibili con la vita cristiana gli eccessi carnali e il compiacimento dei sensi che invece il Corano mostra di stimare, in quanto descrive persino il paradiso in termini di diletto corporale. La poligamia è un altro elemento di scontro, ed infine le discrepanze sulla storia di Gesù e la sua identità. Curiosamente, invece, viene detto che Maometto avrebbe aderito al dogma trinitario. Sant’Alfonso mostra di conoscere la varietà delle scuole di diritto e teologia del mondo islamico, le diverse convinzioni sulla realtà creata o increata del Corano, le discrepanze nel riportare i testi coranici più controversi, ed usa questa conoscenza per presentarlo come diviso in se stesso. Rileva anche la frattura fra l’interpretazione allegorica proposta da Avicenna ed il letteralismo che aveva poi avuto il sopravvento nella grande maggioranza dell’Islam. Non manca di dare conto delle controversie sulla natura di Cristo, citando quei passi in cui egli viene talvolta descritto come uomo e profeta, talaltra come Spirito di Dio. Maometto resta un nemico della verità, un uomo astuto e dedito ai piaceri sensuali, il cui solo scopo è confezionare una religione che giustifichi la sua condotta contraria alla buona vita cristiana. Di tanto in tanto emergono apprezzamenti per istituti come l’elemosina rituale, la preghiera quotidiana e il digiuno prolungato, sui quali però l’Autore non si sofferma.

Sintesi: La fine del ‘700 italiano vede così affermarsi un’apologetica dotta ed una ripresa iniziativa missionaria verso le popolazioni islamiche, considerate spesso moralmente inferiori ed inclini alla sensualità e alla brutalità. In questo senso lo sguardo ecclesiale è organico all’orizzonte culturale europeo delle imprese coloniali, cui presto parteciperà anche l’Italia post-unitaria.

Fonti e Bibl. essenziale

Vedi al termine del lemma corrispondente nel volume II


LEMMARIO




Laicità, Laicismo - vol. I


Autore: Antonio Trampus

Con questi termini si indicano generalmente vari atteggiamenti riconducibili all’emancipazione della sfera pubblica e culturale dalla religione positiva. Si tratta tuttavia di due concetti sostanzialmente diversi sia per origine sia per significati. Laicità è, più propriamente, la condizione del laico e con questo significato è attestata nella lingua italiana a partire dal 1869 e affonda le sue radici nella differenza, tipica del giudaismo e della Chiesa cristiana, fra chierici e laici. Si tratta di una distinzione sancita dal IV secolo in poi, che ha riservato il termine laico e la condizione di laicità al battezzato che non è chierico, perché non ha ricevuto gli ordini, e non è nemmeno religioso (perché non ha professato voti) come confermato anche dalla enciclica Lumen gentium (1964, n. 31). Solo nel corso del XX secolo l’espressione laicità venne assumendo un carattere di eufemismo per indicare non solo il non battezzato ma anche l’anticlericale, in quanto ateo, marxista o liberale, e in questo senso compare negli scritti di Pio XII e nei suoi riferimenti alla “legittima sana laicità dello Stato”. Laicismo è invece termine invalso a partire dal 1863 e documentato da Giosuè Carducci che, opponendolo alla chieresia, lo definì come un “atteggiamento ideologico di chi sostiene l’indipendenza del pensiero e dell’azione politica dei cittadini dall’autorità ecclesiastica”. Entrambi i concetti attingono alle correnti di pensiero che a partire dal XVII secolo approfondirono i processi di secolarizzazione affermando il primato della ragione sui misteri e la libera ricerca della verità. In seguito si nutrirono anche delle esperienze del giurisdizionalismo settecentesco e dei dibattiti che ribadivano la distinzione fra Chiesa docente e popolo discente e la separazione politica e giuridica fra la Chiesa e lo Stato nella loro reciproca autonomia. In questo senso, laicità e laicismo sono contrapponendosi al clericalismo, cioè alla necessità che il clero avesse responsabilità politiche e istituzionali nella vita civile. L’idea di laicità e di conseguenza anche il laicismo presuppongono inoltre che anche la Chiesa, così come la società civile, consista essenzialmente in una associazione volontaria di uomini, secondo una concezione diffusa a partire dalla cultura puritana inglese del Seicento e poi confluita negli scritti di John Milton e di John Locke sulla libertà religiosa e sulla tolleranza. Il principio della separazione Chiesa e Stato o comunità politica laica e perciò della distinzione tra religione e politica era stato poi sviluppato particolarmente da Locke nella Epistola de tolerantia, divenuta un altro pilastro del pensiero laico e del laicismo, in cui si affermava che il potere politico non ha competenza in materia di fede e non deve dare giudizi sulla religione, così come la Chiesa con le sue leggi non deve occuparsi della vita e dei beni terreni ma solo della vita eterna attraverso il culto di Dio.

L’idea dell’autonomia della religione e della politica si ritrova sovente nella cultura dell’Illuminismo europeo e del pensiero liberale dell’Ottocento. In Italia una tappa importante di questo percorso è rappresentata dal saggio di Cosimo Amidei, La chiesa e la repubblica dentro i loro limiti (1767); successivamente lo sviluppo e la diffusione dell’idea di laicità e del laicismo si accompagnarono allo sviluppo delle vicende risorgimentali, allorché la politica di separazione fra Stato e Chiesa portò alla progressiva rinuncia allo strumento dei concordati, tipicamente settecentesco. L’aver posto la fine del governo temporale dei Papi come condizione necessaria per il compimento dell’unità nazionale determinò un deciso riorientamento della politica in senso laicista, riassunto nell’espressione utilizzata da Cavour nel primo discorso al parlamento dopo la proclamazione del Regno d’Italia, il 27 marzo 1861 (e ripresa da Charles de Montalembert, Ecclesia libera in libera patria, circa 1841) con la quale si prefigurava Roma quale futura capitale del Regno. L’affermazione cavouriana della libertà della Chiesa nello Stato e della libertà dello Stato dalla Chiesa diede avvio alla politica di ispirazione laicista condotta dalla Destra storica, che portò tra l’altro all’introduzione del matrimonio civile (1865) e alla liquidazione dell’asse ecclesiastico, fino alla legge delle Guarentigie (1871). In questo senso i concetti di laicità e del laicismo sono poi confluiti nella Costituzione della Repubblica italiana (1948) laddove i princìpi fondamentali delineano i caratteri dello Stato laico attraverso l’irrilevanza delle convinzioni religiose dei singoli (art. 3), l’indipendenza e la sovranità dello Stato e della Chiesa ciascuno nel rispettivo ordine (art. 7) e la pluralità delle confessioni religiose con eguale libertà (art. 8).

Al dibattito sulla laicità e sul laicismo si è aggiunta più recentemente la cosiddetta “questione del crocifisso” e cioè la critica alla normativa che introdusse fra gli arredi di ogni aula scolastica il crocifisso (R.D. 15.9.1860, art. 140; R.D. 30.4.1924 art. 118), ritenuta da una parte dell’opinione pubblica e anche indirettamente da alcune pronunce giurisprudenziali contraria al principio costituzionale di laicità dello Stato. Il Consiglio di Stato, investito della questione in quanto le affissioni derivano da atti amministrativi delle autorità scolastiche, ha tuttavia emesso due pareri nel 1988 e nel 2006 pronunciandosi in favore della presenza del crocifisso.

Fonti e Bibl. essenziale

A.C. Jemolo, Chiesa e Stato in Italia dall’unificazione a Giovanni XXIII, Einaudi, Torino 1965; M. Ferraboschi, Laici, in Enciclopedia del diritto, vol. XXIII, Giuffrè, Milano 1973, 273-283; V. Zanone, Laicismo, in N. Bobbio – N. Matteucci – G. Pasquino (edd.) – Dizionario di politica, Tea-Utet, Torino 19902, 547-550; S. Pivato, Clericalismo e laicismo nella cultura popolare italiana, Milano 1990; F. Traniello, Clericalismo e laicismo nell’età contemporanea (1977), in Id., Città dell’uomo. Cattolici, partito e Stato nella storia d’Italia, Bologna 1990, 15-48; E. Tortarolo, Il laicismo, Laterza, Roma Bari 1998; P. Cavana, La questione del crocifisso in Italia (2007), www.olir.it/areetematiche/75/…/Cavana_questionedelcrocifisso.pdf.


LEMMARIO