Associazione Italiana dei Professori di Storia della Chiesa

Dizionario Storico Tematico La Chiesa in Italia
Dalle origini all'Unità Nazionale
Roma 2015
Copyright © 2015

Laico, Laicato - vol. I


Autore: Stefano Tessaglia

Le origini. Gli scritti del Nuovo Testamento non conoscono una separazione netta tra chierici e laici e, di conseguenza, non approntano neppure la terminologia necessaria alla distinzione. Saranno gli scritti immediatamente successivi all’epoca apostolica (ad esempio, nel I sec., la Lettera di Clemente Romano ai Corinzi XL,5) a definire il laico (da laós, popolo) come la persona facente parte della comunità dei credenti non rivestita delle funzioni proprie del clero. In questo senso il termine sarà usato da Clemente Alessandrino e da Origene; a partire da Tertulliano sarà definitivamente fissato in opposizione al clero (plebs, popolo e ordo, ministri ordinati).

Le Lettere paoline, gli Atti degli Apostoli e le opere posteriori testimoniano una chiesa che concepisce se stessa come “l’insieme dei credenti”, famiglia che vive la comune appartenenza scaturita dal battesimo, differenziata e costruita all’interno da diversi carismi e ministeri, manifestazioni di un unico Spirito per il bene comune (1 Cor 12-14).

È all’interno di quest’unica dinamica di coinvolgimento comunitario che s’inserisce il ruolo dei laici, uomini e donne (vergini, sposate o vedove) che, secondo la testimonianza della Lettera a Diogneto (II sec.) non si distinguono dagli altri uomini e donne del tempo: vivono nel mondo ma si sentono partecipi di una realtà superiore. Sono queste le persone che spesso sostengono economicamente le chiese e i ministri, mettono a disposizione le loro case per il culto liturgico (si pensi alle antiche domus ecclesiae e ai tituli della chiesa romana) ed esercitano la carità verso i più poveri.

Con Costantino († 337), dopo il lungo periodo delle persecuzioni, che ha visto la testimonianza con la vita di molti cristiani laici, la chiesa, ormai libera e dotata di crescente rilevanza sociale, tende a strutturare gerarchicamente le proprie funzioni e ad attribuire al sacerdozio ministeriale il controllo su tutte le espressioni della sfera religiosa.

I fedeli comuni, via via messi al margine delle responsabilità, saranno tuttavia partecipi della vita della chiesa, seppure secondo una logica di progressiva separazione (anche fisica, come testimoniano negli edifici di culto l’innalzamento del presbiterio e la sua delimitazione con balaustre) e di suddivisione della società in “ordini”. I pastori della chiesa, pur zelanti come Giovanni Crisostomo e Agostino (IV sec.), tendono così sempre più a considerare i laici come “oggetto” di cure pastorali (nella liturgia essi avranno soltanto più un ruolo passivo di ascoltatori e non sarà loro più permesso l’annuncio del Vangelo) piuttosto che “soggetto attivo” della crescita della comunità cristiana.

Il Medioevo. L’“età di mezzo” vede approfondirsi le distanze tra i differenti stati di vita cristiana (come in generale accade in tutta la società medievale, di cui la chiesa è specchio fedele) ed un elemento acquisisce importanza rilevante: l’accesso alla cultura. Caduto il governo unitario dell’impero romano e venuto meno il sistema educativo classico, il clero, nei monasteri soprattutto, diviene custode principale e depositario del patrimonio culturale antico, della lingua latina, del pensiero filosofico. In questo contesto il laico verrà sempre più e semplicemente concepito come l’illetterato, posto dal diritto nell’ordine inferiore della società, quello “secolare”, legato allo “schiamazzo delle realtà temporali” (Decretum Gratiani, XII sec.) e all’uso dei beni terreni: il possesso di cose materiali e il matrimonio.

Inoltre l’autorità, il peso politico della chiesa, rimasta unico elemento unificatore nell’Europa frammentata, e i grandi sistemi giuridici e teologico-politici del XII-XIII sec., conducono ad una esaltazione delle gerarchie ecclesiastiche – in specie del ruolo papato – mentre l’arricchimento e la pericolosa osmosi col potere civile causano spesso il rilassamento della disciplina ecclesiastica (simonia e nicolaismo) e situazioni contraddittorie.

Accade così che, insieme all’inusitata canonizzazione del mercante e padre di famiglia cremonese Omobono Tucenghi († 1197) da parte di papa Innocenzo III (1160-1216), che propone la figura di questo laico come modello di vita santa nel mondo e nell’apostolato della carità, si assista anche al richiamo del concilio Lateranense IV (1215), che giunge a prescrivere l’obbligo della confessione e della comunione eucaristica almeno una volta l’anno, tanto si era diradata la frequenza media alle celebrazioni religiose.

In quest’epoca, dominata da un diffuso senso d’insicurezza e di precarietà del vivere, di fronte ad un futuro incerto, con la prospettiva di una morte incombente a causa di guerre, epidemie e carestie, sorgono dal basso numerosi movimenti laicali, animati da istanze di religiosità più viva. Una maggiore aderenza allo spirito del Vangelo, e particolarmente un radicale senso della povertà e della dignità del lavoro manuale, proprio in contrasto con gli eccessi e i privilegi di certa gerarchia, dominano l’orizzonte di questi movimenti.

Distanti dal clero e immersi in un clima religioso tendente all’abbandono, molti cristiani finiscono così polarizzati attorno a figure di grande carisma (Valdo, lo stesso Francesco d’Assisi), in gruppi cui ci si unisce per libera aggregazione, caratterizzati da uno stile laicale e comunitario e dall’itineranza di villaggio in villaggio per invitare alla penitenza. Tali forme spontanee di vita cristiana, diffuse soprattutto in Francia meridionale ed Italia centro-settentrionale (ossia le aree in cui si verifica un maggiore sviluppo economico e culturale), si dimostrano affatto esenti dal pericolo di derive eretiche (catari, patarini, valdesi, umiliati), ma anche particolarmente vicine al vissuto popolare e capaci di coinvolgere in maniera efficace gli strati della popolazione più disagiati o più lontani dalla struttura istituzionale della chiesa.

Non più soltanto monaci e chierici si dedicano alla lettura della Sacra Scrittura, ma anche semplici laici, che desiderano imparare a conoscere la vita di Cristo e degli apostoli e si riuniscono in piccoli gruppi per ricevere insegnamenti morali, spiegazioni dal testo sacro e per pregare grazie a florilegi di salmi e raccolte di preghiere.

Anche la scelta iniziale di Francesco d’Assisi (1182-1226) e dei suoi primi compagni è assimilabile a quella dei gruppi di “penitenti”, laici che iniziavano spontaneamente e in piccoli gruppi una vita di conversione, rinunciando ai propri beni o alle attività redditizie, per assumere una vita povera e continente. Sarà papa Innocenzo III a prospettare a Francesco la necessità di assumere le caratteristiche di un ordine di chierici (ricevendo la tonsura), per potere legittimamente intraprendere l’attività di predicazione (vietata ai laici da papa Lucio III con la decretale Ad abolendam del 1184) e mettersi al servizio delle chiesa.

Soltanto gli ordini mendicanti, francescani e domenicani, riusciranno ad incanalare nell’alveo della chiesa – sotto il rigido controllo dei papi – alcune delle spinte di risveglio e, a questo scopo, si costituiranno nuove forme di aggregazione laicale come le confraternite e i terz’ordini secolari. A queste esperienze si associano presto elementi tipici di devozione e pratiche come la via crucis, il culto della Vergine Maria, dei santi patroni, delle reliquie e il rosario, che pur divenendo un surrogato della liturgia, sempre più difficilmente comprensibile per il popolo, riconoscono una specifica spiritualità alla portata dei laici, ne favoriscono l’inserimento nella comunità cristiana e la crescita spirituale.

Un non trascurabile ruolo nell’integrazione dei laici nella vita della chiesa hanno, nel medioevo, anche le crociate, in cui convivono ispirazioni fondamentalmente religiose insieme con l’affermazione del papato romano e forti componenti di impeto cavalleresco e spirito di riconquista.

Di questo vasto movimento di laicato saranno anche le donne a trarre beneficio, con una maggiore considerazione del loro ruolo e l’affermarsi di figure come Brigida di Svezia (1303-1373) e le italiane Caterina da Siena (1347-1380) e Francesca Romana (1384-1440), donne spirituali di grande carisma, inserite a pieno nel loro tempo e capaci di influire fortemente sul tessuto sociale ed ecclesiale.

L’Età Moderna. I movimenti di riforma riprendono alcune delle tematiche care ai medievali, soprattutto nel senso di un maggior coinvolgimento dei fedeli nel governo della chiesa, e di una migliore istruzione religiosa, alimentata soprattutto dalla lettura e dal commento della Sacra Scrittura. La spiritualità del tempo vede affermarsi nuove tendenze, comunemente conosciute come “devotio moderna”. Si tratta di un vasto movimento spirituale, originario del Nord Europa e dal rapido successo, che chiama ogni cristiano a condurre una vita di fede profonda, basata su una devozione personale interiore ed affettiva, non senza qualche eccesso di sentimentalismo. Questo nuovo genere di devozione prevede inoltre un programma pratico e metodico di atti di preghiera, di meditazione e di lettura della Bibbia.

In quest’epoca, gli scritti e le opere di riformatori come Marsilio da Padova (1275-1342), John Wyclif (1330-1384) e Jan Hus (1370-1415), preparano il terreno ad una rivalutazione del laicato, mentre Martin Lutero (1483-1546), padre della riforma protestante, giunge a porre in discussione la struttura gerarchica stessa della chiesa e sottolinea la dignità dei laici e il sacerdozio di tutti i fedeli, derivati dal comune battesimo. Lutero conferma tuttavia l’esistenza di diversi ministeri: pur essendo tutti sacerdoti, i cristiani non sono tutti ministri ma, per diventarlo, occorre essere chiamati e scelti dalla chiesa.

Nello spirito di contrapposizione religiosa dell’Europa del XVI sec. la riforma cattolica, condizionata dalle affermazioni dei protestanti, si trova ad escludere a priori l’acquisizione di alcune pur giuste aperture di quei movimenti e imposta una dottrina (ecclesiologia, sacramentaria, morale) e una prassi pastorale legate piuttosto al controllo e al disciplinamento di tutti gli aspetti della vita dei fedeli.

Dopo il concilio di Trento (1545-1563) e il suo significativo impegno per la ripresa di una cura d’anime sistematica e capillare, il laicato cattolico risulta ancora ridimensionato nella sua rilevanza ecclesiale. I fedeli rimangono componente passiva della Chiesa, distanti dal clero – divenuto il fulcro vero su cui poggia l’intera realtà della chiesa – e legati a prescrizioni e pratiche che tendono, paradossalmente, alla “perfezione” rappresentata dalla vita consacrata. Questa tendenza continuerà per lungo tempo e si dovrà attendere forse il concilio Vaticano II (1962-1965) per assistere ad una piena affermazione del ruolo e della dignità dei laici nella chiesa.

Non mancano tuttavia, in questa temperie, esperienze e forme di vita laicale capaci di valorizzare il ruolo e la spiritualità dei fedeli, specie nell’ambito dell’assistenza e delle opere di carità. Parallelamente all’organizzazione sul territorio delle parrocchie, fioriscono numerose in tutta Italia le confraternite (del Santissimo Sacramento, del Rosario: proprio ad affermare la devozione verso l’Eucarestia e la Vergine Maria, messe in discussione dai protestanti), che assumono una rilevanza fondamentale nell’organizzazione sociale delle città, nelle grandi dimostrazioni pubbliche di culto (Corpus Domini) e nell’organizzazione dell’assistenza di malati e pellegrini.

Nascono nuove forme di pastorale legate agli ordini mendicanti, come le missioni popolari, e nuovi gruppi come gli Oratori del Divino Amore, per l’assistenza dei malati incurabili; le scuole della Dottrina cristiana, che si impegnano sul terreno della formazione catechistica; l’Oratorio romano di Filippo Neri (1515-1595), innovativa istituzione che promuove una seria crescita personale e il senso comunitario anche nei laici.

Figure simili di ecclesiastici, attenti alla formazione dei fedeli e alla maturazione di nuovi modi per la vita cristiana, sono inoltre Francesco di Sales (1567-1622), convinto che «pretendere di eliminare la vita devota dalla caserma del soldato, dalla bottega dell’artigiano, dalla corte del principe, dall’intimità degli sposi è un errore, anzi un’eresia» (Introduzione alla vita devota I,3) e Alfonso de’ Liguori (1696-1787), che con i loro scritti offrono un nutrimento per la vita interiore di intere generazioni di laici e insegnano al clero un modello per la direzione spirituale dei cristiani inseriti nella vita del mondo.

Nel secolo XVIII il diffondersi delle idee dell’illuminismo e della secolarizzazione, che si afferma decisamente dopo la Rivoluzione Francese (1789), portano a teorizzare la distinzione/separazione tra Stato e chiesa: questa, identificata tout court con gli orientamenti più oscurantisti e avversi al “progresso” e al benessere, è da combattere e neutralizzare con le armi fornite dalla ragione.

Tale situazione porta ad un certo risveglio e, specie dopo il trauma della legislazione antiecclesiastica rivoluzionaria, si assiste a una “chiamata alle armi” del laicato cattolico, interpellato ad entrare in campo e impegnarsi (pur sempre come truppa di riserva) nella difesa dei diritti della chiesa (e del papa).

A partire da queste circostanze inedite, la chiesa getterà le basi di una sorta di programma di “riconquista” della società, che vedrà impegnati anche i laici cattolici con una loro posizione sociale, loro organi di stampa, e, in seguito, di partecipazione politica.

Così, negli anni della Restaurazione e dei moti liberali si assiste alla nascita di circoli e riviste, di ordini femminili dedicati all’assistenza e nuove organizzazioni laicali come la “Società di san Vincenzo de’ Paoli”, fondata a Parigi da Federico Ozanam (1813-1853) e impegnata sul fronte dell’assistenza dei più poveri. Identica situazione si verifica anche nell’Italia della questione risorgimentale e romana, con svariate associazioni e gruppi, tra i quali spicca la “Società della gioventù cattolica italiana” (nucleo originario dell’Azione cattolica), fondata a Bologna nel 1867 dai due studenti universitari Mario Fani e Giovanni Acquaderni.

Si afferma così, ancora una volta, l’ambito caratteristico e proprio dell’azione del laico cristiano: quello della dimensione sociale e assistenziale, insieme con la tutela della chiesa nella società secolare, secondo l’ottica tipica dell’intransigentismo dell’epoca.

Fonti e Bibl. essenziale

Y.M. Congar, Per una teologia del laicato, Morcelliana, Brescia 1966 (con ampia ricostruzione storica); AA.VV., I laici nella “societas christiana” dei secoli XI e XII. Atti della terza settimana internazionale di studio, Vita e Pensiero, Milano 1968; J. Le Goff, Tempo della chiesa e tempo del mercante, Einaudi, Torino 1977; G. Picasso, Laici e laicità nel medioevo, in AA.VV., Laicità: problemi e prospettive. Atti del XLVII corso di aggiornamento culturale dell’Università cattolica, Vita e Pensiero, Milano 1977, 84-99; G. Angelozzi, Le confraternite laicali. Un’esperienza cristiana tra medioevo e età moderna, Queriniana, Brescia 1978; G.G. Meersemann – G. P. Pacini, Le confraternite laicali in Italia dal quattrocento al seicento, in AA.VV., Problemi di storia della chiesa nei secoli XV-XVII, Ed. Dehoniane, Napoli 1979, 109-136; A. Faivre, I laici alle origini della Chiesa, Paoline, Cinisello Balsamo 1986; P. Siniscalco, Laici e laicità. Un profilo storico, Ave, Roma 1986; P. Vanzan (ed.), Il laicato nella Bibbia e nella storia, Ave, Roma 1987; A. Vauchez, Les laïcs au moyen age. Pratiques et expériences religieuses, Ed. du Cerf, Paris 1987; G. Canobbio, Laici o cristiani? Elementi storico-sistematici per una descrizione del cristiano laico, Morcelliana, Brescia 1992; A. Vauchez, Comparsa e affermazione di una religiosità laica (XII secolo-inizio XIV secolo), in G. De Rosa – T. Gregory – A. Vauchez (edd.), Storia dell’Italia religiosa, vol. I, Ed. Laterza, Roma-Bari 1993, 397-425; E. Dal Covolo – F. Bergamelli – E. Zocca – M.G. Bianco (edd.), Laici e laicità nei primi secoli della Chiesa, Ed. Paoline, Milano 1995; E. Preziosi, Una lunga storia, in E. Preziosi – M. Ronconi, La dignità dei laici, Ed. San Paolo, Milano 2010, 13-33.


LEMMARIO




Liberalismo - vol. I


Autore: Gennaro Cassiani

Il liberalismo, le matrici filosofiche del quale si riconoscono nelle tradizioni giusnaturaliste e contrattualiste e nella dottrina della divisione e dell’equilibrio dei poteri dello Stato, può dirsi una dottrina dei limiti del potere civile, tutrice dei diritti naturali e delle libertà individuali.

Alla fine del Settecento, nella cornice dell’Illuminismo e della fioritura degli ideali di tolleranza, libertà ed eguaglianza, i paradigmi del liberalismo promossero le rivendicazioni del terzo stato e ispirarono l’erosione dei secolari privilegi delle aristocrazie e del clero, inducendo il tramonto dell’edificio politico-istituzionale di antico regime. Contrapposto all’assolutismo dinastico rinato dalle sue ceneri e fortemente critico rispetto all’esperienza della democrazia giacobina, il movimento liberale ispirò i moti insurrezionali tesi a ottenere garanzie giuridiche e costituzionali da parte dei sovrani della Restaurazione. Dall’ispirazione a coniugare cristianesimo, libertà individuale e democrazia parlamentare, trasse alimento la corrente di pensiero del cattolicesimo-liberale, che ha in Hugues-Félicité Robert de Lamennais, il suo più significativo esponente.

Caratterizzati da un consenso più o meno ampio verso le dottrine socio-politiche del liberalismo, gli assunti del cattolicesimo liberale (libertà di coscienza, di culto, di insegnamento, di stampa, di associazione; allargamento del diritto di voto; decentramento amministrativo; difesa del principio di nazionalità rispetto al legittimismo), accolti con entusiasmo in ristretti circoli del clero e del milieu politico-culturale transalpino, ma osteggiati dalla maggior parte dell’episcopato e degli stessi fedeli francesi, incontrarono le solenni censure di Gregorio XVI, nell’enciclica Mirari vos (1832). Il pontefice sconfessò la necessità di un rinnovamento della Chiesa; riaffermò l’indissolubilità del matrimonio e il celibato ecclesiastico; condannò l’indifferentismo religioso che negava il principio «Extra Ecclesiam nulla salus»; sanzionò le pretese della libertà di coscienza, di pensiero e di stampa. Censurò altresì la teoria del separatismo, in base al quale l’ordine politico-civile-temporale e l’ordine spirituale-religioso-soprannaturale sono del tutto separati e Stato e Chiesa sono chiamati a convivere nei termini della formula coniata da Montalembert «Ecclesia libera in libera patria». La Mirari vos ribadì inoltre il dovere di sottomissione dei sudditi ai legittimi sovrani e l’obbligo degli Stati di proteggere la Chiesa.

Rispetto a quello francese, al cattolicesimo liberale italiano appartenne un carattere più composito, dalle intonazioni diverse, contraddistinto dal connubio tra passione patriottica e fede cristiana, componente organica del paradigma d’identità nazionale che echeggia nella manzoniana «una d’arme, di lingua, d’altare, di memorie, di sangue, di cor». Il cattolicesimo liberale italiano espresse l’anelito a conciliare fede e libertà e giustizia sociale in nome di una religiosità autentica. Il movimento si mosse, almeno inizialmente, su un terreno letterario e storico (Troya, Cantù, Manzoni): si mantenne su posizione prudenti, pur respingendo la strumentalizzazione politica della religione e l’alleanza fra trono e altare. In un secondo momento, a valle della maturazione della coscienza nazionale di una parte considerevole della borghesia e dell’aristocrazia progressista, passò invece alla riflessione più esplicitamente politica.

Nell’alveo del cattolicismo liberale italiano è inscritto il neoguelfismo giobertiano che, attraversato dalla polemica con la Compagnia di Gesù, identificata come primario avversario della conciliazione fra liberalismo e Santa Sede, anela a una confederazione di Stati italiani sotto l’egida del papa. Parimenti partecipe della prospettiva cattolico-liberale è la visione antidogmatica, nutrita dall’aspirazione a una profonda riforma della Chiesa e tesa a una sintesi tra cattolicesimo e libertà che permea il pensiero di Raffaele Lambruschini. Istanze, sia pur più generiche, di riforma dell’istituto ecclesiastico, di correzione di abusi, di purificazione del culto e di distacco dal temporalismo traspaiono altresì nella produzione di Nicolò Tommaseo, raro esponente italiano di un cattolicesimo dalle venature radicali e socialisteggianti, vagheggiatore di una libertà conquistata per iniziativa popolare e in nome di una fede tornata alle origini evangeliche.

Sia in Lambruschini che in Antonio Rosmini, l’idea che l’Italia dovesse al papato la sua funzione preminente nella civiltà europea del Medioevo, una missione di civiltà da rilanciare attraverso una sintesi fra i valori religiosi e i principi di libertà e di progresso civile, si intreccia con l’aspirazione a una riforma delle istituzioni ecclesiastiche. Se però Lambruschini, nella sua pietà sentimentale, si limitò ad aspirare a un minimalismo dogmatico che liberasse la Chiesa dai pesi del formalismo e del temporalismo, nell’analisi di Rosmini spiccano giudizi severi e prospettive riformatrici assai nette. Nel volume Delle Cinque piaghe della Santa Chiesa (1848), il roveretano invoca una Chiesa profondamente rinnovata in senso religioso e giuridico; liberata dai vincoli contratti nei secoli dell’antico regime e che condividesse sino in fondo la condizione dei poveri e degli esclusi. Rosmini si spinge sino ad auspicare il ritorno al metodo della prima cristianità che eleggeva i vescovi; la restituzione ai fedeli dei poteri di controllo sull’amministrazione dei beni ecclesiastici e la destinazione delle rendite di questi ultimi a finalità caritative. In Rosmini, il principio di carità è in relazione con la vita religiosa come il principio di libertà con la vita politica.

Nel 1850 – a valle del soffocamento della Repubblica romana per mano francese – con l’avvio della reazione nello Stato della Chiesa e l’esaurimento della mitologia di Pio IX pontefice liberale ed antiaustriaco, sull’aspirazione cattolico-liberale a un connubio tra patria e religione calò il sipario. Svanita l’illusione di saldare il programma nazionale con gli ideali del cattolicesimo tradizionalista, il lascito dell’idea neoguelfa favorì il superamento dell’inerzia delle forze che ambivano a una rinascita civile pur rifiutando la prospettiva della rivoluzione. Ne guadagnarono in coesione le tendenze riformiste riconducibili ad esempio, nell’area toscana, ad aristocratici come Capponi, Ridolfi e Ricasoli o, in ambito piemontese, a D’Azeglio e a Balbo, i quali si collocavano sulla scia del pensiero di Gioberti, pur non riconoscendosi del tutto nelle tesi dell’abate.

Nel corso degli anni decisivi in vista del completamento del processo di unificazione nazionale, la contrapposizione fra Stato e Chiesa coniugata al rovello della Questione romana, alimentò l’antagonismo tra il liberalismo e l’intransigentismo prevalente nella gerarchia ecclesiastica in tutto il periodo risorgimentale. Il clima dei rapporti tra Stato liberale e Santa Sede, segnato dalla nota del conflitto e del risentimento, ingenerò una profonda lacerazione, destinata a una lunga durata, tra la coscienza patriottica e la coscienza religiosa degli italiani. La Chiesa patì la perdita per mano piemontese della sovranità temporale sulle Legazioni, le Marche e l’Umbria (1860); sofferse la diffusione di testi demistificanti quali la Vita di Gesù (1863) di Renan; subì una serie di interventi legislativi di stampo giurisdizionalistico che, già perseguiti dal Regno di Sardegna, sfociarono nelle leggi eversive dell’asse ecclesiastico (1866-1867). Quelle misure, nel 1890, furono completate dalla legge sulle opere pie, la quale stabilì la conversione dei beni dei sodalizi confraternali, mentre già un’altra serie di provvedimenti aveva condotto all’esclusione dell’insegnamento religioso dalla scuola, alla soppressione delle facoltà di teologia, alla cessazione della giurisdizione ecclesiastica sui cimiteri, all’estensione del servizio militare ai chierici.

Sull’altro versante, subito dopo la proclamazione dell’unità, il disappunto dei liberali verso la Chiesa, ben più che dalle scomuniche comminate dal pontefice ai protagonisti del Risorgimento, trasse argomento della sdegnosa opposizione di Pio IX verso ogni prospettiva di rinuncia al potere temporale (il «Non possumus» del 19 gennaio 1860, nella cornice dell’enciclica Nullis verte verbi) e di riconciliazione con lo Stato liberale, espressione – nelle parole pronunciate dal papa nell’allocuzione del 17 marzo 1861 – della civiltà moderna, «madre e propagatrice di infiniti errori e di massime opposte alla fede cattolica». Di quegli «errori» offrì puntigliosa elencazione e solenne riprovazione il Syllabus complectens praecipuos nostrae aetatis errores allegato all’enciclica Quanta cura (1864) ma, a differenza di quest’ultima, non di diretta paternità di Pio IX.

Silloge di già esposti pronunciamenti papali rispetto ai più pericolosi errori moderni, il Sillabo, del quale tanto il governo italiano quanto quello francese proibirono la lettura pubblica, censurò panteismo, naturalismo e razionalismo assoluto e moderato. Così pure: indifferentismo, latitudinarismo, socialismo, comunismo, società segrete, società bibliche, società clerico-liberali. Il documento prosegue col sanzionare le dottrine limitative dei diritti e dei privilegi tradizionali della Chiesa; le dottrine sull’autonomia della società civile quale unica fonte del diritto; quelle relative all’etica naturale e cristiana; quelle che osteggiavano il matrimonio religioso; le dottrine negazioniste della sovranità temporale pontificia. Infine, il Sillabo condannò il liberalismo moderno, le dottrine della sovranità popolare, quelle separatiste e quelle inerenti l’uguaglianza di tutte le fedi dinanzi alla legge.

Apparso tre mesi dopo la stipula della Convenzione di settembre tra Italia e Francia, che riaccendeva la determinazione dei garibaldini a portare a compimento manu militari la Questione romana, il Sillabo vibrò un colpo definitivo al cattolicesimo liberale e allargò, anche fra i politici e gli intellettuali cattolici, i consensi verso la formula «Libera Chiesa in libero Stato» tante volte rilanciata da Cavour, la più solennemente il 27 marzo 1861, nella cornice del discorso tenuto nel parlamento subalpino a sostegno dell’ordine del giorno Boncompagni che proclamava Roma capitale d’Italia.

Significativa è l’adesione all’orientamento separatista da parte del bolognese Marco Minghetti, il quale, già ministro di Pio IX, nel 1859, dopo i moti popolari e la seconda guerra di indipendenza, assunse il dicastero degli Interni del Regno con Cavour e Ricasoli, poi quello delle Finanze con Farini, infine, nel 1863-64 e tra il 1873 e il 1876, fu presidente del Consiglio. Ancor più significativo appare il percorso intellettuale e politico di Carlo Passaglia. Già gesuita e docente presso il Collegio romano, avvicinatosi a Cavour, nel 1861, Passaglia dette alle stampe l’anonimo Pro causa italica ad episcopos catholicos, nel quale invitava il pontefice a rinunciare al potere temporale. Successivamente, docente di filosofia morale a Torino, Passaglia continuò a battersi contro il potere temporale pontificio; divenne figura di primo piano fra le file del clero liberale italiano; pubblicò, anonimi o con lo pseudonimo di Ernesto Filalete, altri opuscoli; fondò i periodici «Il mediatore» (1862-66) e « La pace» (1863-64), ancora una volta intenti a ricercare la conciliazione fra la Santa Sede e la nuova Italia. Infine, depose l’abito ecclesiastico e, nel 1864, fu eletto deputato.

La via del compromesso era assai stretta. E di certo la proclamazione del dogma dell’infallibilità del papa in materia di fede e di morale sancita il 18 luglio 1870, non facilitò il suo dispiegamento. Settimane più tardi, maturarono le circostanze politico-diplomatiche ideali per la conquista militare di Roma da parte italiana. Episodio culminante di un decennio contrassegnato da contrapposizione frontale, l’evento del 20 settembre 1870 innalzò uno “storico steccato” fra cultura liberale e cultura cattolica che, perdurato nei decenni seguenti, avrebbe avuto profonde ripercussioni nella vita civile del Paese.

L’ottantenne e affaticato Pio IX si dichiarò prigioniero in Vaticano. Il papa spodestato e privato con la forza dei suoi diritti temporali, ne uscì solo in feretro, nel 1878, dopo otto anni di esilio volontario dalla città e dal mondo vissuti nella condizione di ostaggio degli usurpatori e delle loro sedicenti Guarentigie (13 maggio 1871) sdegnosamente respinte nel loro carattere unilaterale nell’enciclica Ubi nos arcano (15 maggio 1871).

Fonti e Bibl. essenziale

P. Bernard, Libéralisme catholique, in Dictionnaire de théologie catholique, IX-1, Paris, 1926, coll. 506-630; U. Spirito, Liberalismo, in Enciclopedia Italiana, XXI, Roma, 1934, 36-40; G. Bozzetti, Liberalismo, in Enciclopedia cattolica, VII, Firenze, 1951, coll. 1253-1258; S. Valitutti, Liberalismo, in Enciclopedia del diritto, XXIV, Milano, 1974, 206-14; Id., Liberalismo, in Dizionario delle idee, Firenze, 1977, 604-608; N. Matteucci, Liberalismo, in Dizionario di politica, dir. da N. Bobbio – N. Matteucci – G. Pasquino, Torino, 1976, 529-546; F.A. von Hayek, Liberalismo, in Enciclopedia del Novecento, III, Roma 1978, 982-993; J.P.T. Bury, Liberalismo, in Enciclopedia Europea, VI, Milano, 1978, 863-864; L. Villari, Liberalismo italiano, ivi, 864-865; B. Mondin, Liberalismo, in Dizionario enciclopedico di filosofia, teologia e morale, a cura di B. Mondin, Milano, 1989, 422-423; F. Conti, Liberalismo, in Dizionario di storiografia, Varese, 1996, 608-610; S. G. Huegel, Liberalismo, in Dizionario di dottrina sociale della Chiesa. Scienze sociali e Magistero, a cura del Centro di ricerche per lo studio della dottrina sociale della Chiesa, Milano, 2004, 406-411; P. Ferrari da Passano, Chiesa e Stato, ivi, 183-187; A. Salini, Chiesa e liberalismo (1849-1918), ivi, 663-689; Dizionario del liberalismo italiano, I, Soveria Mannelli, 2011. Si segnalano inoltre: G. de Ruggiero, Storia del liberalismo europeo, Prefazione di E. Garin, Milano, 1962; G. Martina, Il liberalismo cattolico ed il Sillabo, Roma, 1959; Id., La Chiesa nell’età dell’assolutismo, del liberalismo, del totalitarismo, III (La Chiesa nell’età del liberalismo), Brescia, 19866; Id., Osservazioni sulle varie redazioni del “Sillabo”, inChiesa e Stato nell’Ottocento, II, Padova, 1962,419-524; G. D’amelio, Stato e Chiesa. La legislazione ecclesiastica fino al 1867, Milano, 1961; A.C. Jemolo, Chiesa e Stato in Italia dalla unificazione a Giovanni XXIII, Torino, 1965; R. Mori, La Questione romana (1861-1865), Firenze, 1963; Id., Il tramonto del potere temporale. 1866-1870, Roma, 1967; G. Verucci, I cattolici e il liberalismo. Dalle «amicizie cristiane» al modernismo. Ricerche e note critiche, Padova, Liviana, 1966; Id., L’Italia laica prima e dopo l’Unità. 1848-1876, Roma-Bari, 1981; R. Romeo, Cavour e il suo tempo, Bari, 1969-84, 3 voll.; F. Venturi, Utopia e riforma nell’Illuminismo, Torino, 1969; Id., Settecento riformatore, II: La chiesa e la repubblica dentro i loro limiti (1758-1774), Torino, 1976; V. Zanone, Il liberalismo moderno, in Storia delle idee politiche, economiche e sociali, II, Torino, 1972, 191-248; Chiesa e religiosità in Italia dopo l’Unità (1861-1878), Atti del quarto Convegno di Storia della Chiesa (La Mendola, 31 agosto – 5 settembre 1971), Milano, 1973, 4 voll.; R. Romanelli, L’Italia liberale (1861-1900), Bologna, 1979; F. Bolgiani, Chiesa e società moderna. Il problema della scristianizzazione, in La Storia, a cura di n. Tranfaglia – M. Firpo¸Torino, 1987, 733-793; P. Manet, Histoire intellectuelle du liberalisme. Dix lecons, Paris, 1987; L. Spinelli, Lo Stato e la Chiesa. Venti secoli di relazioni, Torino, 1988; S. Pivato, Clericalismo e laicismo nella cultura popolare italiana, Milano, 1990; N. Bobbio, Profilo ideologico del Novecento, Milano, 1995, 24-45 (§ 2.- I cattolici e il mondo moderno); G. Leziroli, Relazioni tra Chiesa cattolica e potere politico. La religione come limite del potere. Cenni storici), Torino, 1996; P.P. Portinaro, Profilo del liberalismo, in B. Constant,La libertà degli antichi, paragonata a quella dei moderni, a cura di G. Paoletti, Torino, 2001, 37-158; L. Prenna, Fede e liberalismo, in «Studium», 1 (2002), 79-87; N. Matteucci, Il liberalismo, Bologna, 2005; Storia del liberalismo in Europa, a cura di Ph. Nemo – J. Petitot, Soveria Mannelli, 2013.


LEMMARIO




Libertinismo - vol. I


Autore: Federico Barbierato

Il complesso rapporto fra Chiesa e libertinismo si manifestò innanzitutto nella difficoltà da parte delle istituzioni nel dare una definizione del fenomeno. Quella di libertinismo fu sin dall’inizio e sempre più finì con l’assumere i connotati di una categoria sfaccettata e multiforme, chiamata in causa per indicare un vasto spettro di idee, comportamenti e sensibilità percepite come eterodosse e spesso restie a rientrare pienamente nelle consuete griglie del dissenso religioso. Se etimologicamente deriva da libertus, lo schiavo affrancato, il termine già nell’alto Medioevo comincia ad assumere una connotazione negativa che troverà una prima formulazione compiuta in Calvino, nel 1544, il quale utilizza il termine libertin in francese per designare colui la cui fede non è soggetta alla parola di Dio e che pertanto si abbandona senza remore ai piaceri. Nella trattatistica seicentesca il libertino è ormai stabilmente diventato il miscredente dissimulatore, il libero spirito che indulge senza remore e anzi con compiacimento alla sfrenata soddisfazione dei sensi. L’etichetta pertanto viene costituita dall’apologetica cristiana per identificare tanto l’amoralità dei comportamenti, quanto la giustificazione teorica di tale amoralità attraverso il pensiero. Un’idea che viene pienamente formalizzata nelle opere di padre François Garasse che arriva a fornire una sorta di paradigma tipologico del libertino, delle sue letture, inserendo in modo esplicito fra le caratteristiche di quest’ultimo anche l’ateismo. Non va quindi dimenticato che lo stesso termine fu originalmente elaborato e utilizzato in chiave accusatoria e solo nell’Ottocento proposto come categoria storiografica.

L’etichetta di libertino comincia quindi nel Seicento a essere estesa a un numero e a una tipologia di dissensi molto vasti, definiti talvolta sulla base di comportamenti caratterizzati da una mancata adesione ai precetti morali religiosi. Da qui l’oscillazione continua di significati fra comportamenti e dottrine: al libertino viene progressivamente imputata una morale lassista soprattutto sul piano sessuale. La libertà nei comportamenti sessuali risulta già sufficiente a fare rientrare un individuo nella dimensione del libertinismo, stabilendo un implicito collegamento fra gli atti e la mancata adesione intellettuale alla dottrina cristiana. Tipica della concezione “libertina” è in effetti una posizione già consolidata ma ancora non pienamente sviluppata, vale a dire la convinzione che le religioni costituissero una sorta di “manto politico”, un’invenzione o una “impostura” utilizzata dai “potenti” per tenere asserviti il popolo attraverso lo spettro di una punizione o la speranza di un premio in un aldilà tutt’altro che certo. Se per alcuni libertini è l’occasione per negare qualsiasi forma di trascendenza, sostenendo tra l’altro la teoria della mortalità dell’anima, in altri si afferma una tendenza più latitudinaria, che tendeva o a sottolineare la natura simbolica delle pene dell’inferno, o a negarne la presenza, fino ad affermare che la confessione di appartenenza risultava del tutto indifferente ai fini della dannazione, in quanto un semplice vivere secondo morale era sufficiente a garantire la salvezza.

Il libertinismo incrociava qui altri filoni di pensiero, variamente derivanti dall’aristotelismo eterodosso, dalla teoria della via larga alla salvezza, dalla leggenda dei tre anelli ben diffusa in ambito medievale, da una serie di altri spunti spesso accostati in modo spregiudicato e non organico tanto in opere quanto in discorsi. Dal punto di vista della censura ecclesiastica, pertanto, sotto l’etichetta di libertino potevano passare tanto i testi erotici e spregiudicati prodotti nell’ambito dell’Accademia degli Incogniti a Venezia, quanto Giovanni Boccaccio, Pietro Pomponazzi, Girolamo Cardano, Pietro Aretino, Marcello Palingenio Stellato, Bernardino Telesio, Francesco Patrizi, Giordano Bruno, Tommaso Campanella.

Il rapporto con le istituzioni repressive e censorie dei “libertini” fu ovviamente conflittuale, sebbene i termini “libertino, libertinismo, libertinaggio” non compaiano frequentemente nel vocabolario inquisitoriale. Individui che la polemistica avrebbe definito libertini, in altri termini, vengono perseguiti e accusati variabilmente per la loro incredulità, la miscredenza, l’ateismo, la mancata osservanza dei dogmi, lo scarso rispetto nei confronti delle cerimonie, l’ostentazione di un dissenso non solo anticattolico, ma spesso più compiutamente antireligioso. Così, accanto a un libertinismo “erudito” – per utilizzare una classificazione a lungo utilizzata e per certi versi ancora diffusa – caratterizzato dalla rivendicazione di una libertà di pensiero ristretta a un numero limitato di dotti consapevoli della pericolosità sociale di una filosofia priva di restrizioni dogmatiche, si andò affiancando un materialismo popolare che col libertinismo dell’aristotelismo eterodosso finì con l’avere in comune temi e suggestioni: la convinzione della mortalità dell’anima, la dottrina dell’impostura politica delle religioni, l’assoluta mancanza di un’entità provvidenziale, la casualità dei destini umani e la sostanziale solitudine dell’uomo, la convenzionalità dei codici etici e, pertanto, la possibilità di amministrare come meglio si credeva il proprio corpo e il proprio pensiero. Le posizioni di un individuo come Domenico Scandella detto Menocchio, che avrebbe chiuso tragicamente la propria vita sul rogo alla fine del Cinquecento, potevano rientrare in questa griglia di interpretazione, e la loro derivazione – dotta o frutto di una cultura popolare stratificata – diventava secondaria per gli inquisitori che si trovavano di fronte a un nemico non più riconducibile alla condivisione di un corpo di idee eterodosse ben definibili, ma a una serie di modulazioni individuali dello scetticismo.

Proprio in questi percorsi individuali stava la difficoltà di identificare un nemico e di fissare una tassonomia in grado di rendere agevole l’inserimento dell’individuo all’interno di una griglia. Il libertinismo fu certo un movimento apparentemente elitario: la posizione era ben espressa nella celebre posizione attribuita a Cesare Cremonini, filosofo aristotelico dell’Università di Padova, il quale avrebbe sostenuto che mai avrebbe potuto prendere al proprio servizio un servitore ateo, per la paura che questi potesse ucciderlo nel sonno. Rischio che non correva con un buon cristiano. La simmetria fra codici etici e appartenenza religiosa è qui ancora lontana dalla teorizzazione dell’ateo virtuoso che sarà propria di Pierre Bayle, in un’atmosfera diversa e già vicina all’Illuminismo. La libertà di pensiero appare ancora come un pericolo, una faccenda per pochi, pericolosa qualora oltrepassi i confini di chi sia in grado di maneggiare un meccanismo tanto pericoloso. Ma nel corso del Seicento aumenta esponenzialmente il numero di quanti si ritengono in grado di poter – con possibilità di comprensione molto diverse e livelli di elaborazioni differenziati – rientrare in quella immaginaria società di saggi e spiriti forti. Rispetto al secolo precedente, infatti, il Seicento poteva contare sulla matura diffusione di uno strumento concettuale che si rivelò lo sfondo su cui si andarono ad innestare le molteplici tradizioni eterodosse che caratterizzarono il dissenso religioso libertino dell’epoca: la teoria dell’impostura politica delle religioni: già nel II secolo Celso aveva affermato senza mezzi termini che Mosè e Cristo avevano raggirato «caprai e pecorai» ricorrendo a trucchi ed espedienti. Ripresa ed elaborata da Averroè e progressivamente entrata a far parte della tradizione orale, la formulazione a più riprese era stata adattata e sviluppata nel corso dell’età moderna da averroisti radicali come Pomponazzi, da filosofi politici come Machiavelli (soprattutto nella trattazione della religione dei romani nei Discorsi) e Bodin o ancora da pensatori eterodossi come Bruno e Campanella, finendo col costituire uno dei cardini della critica anticristiana e irreligiosa. Il già diffuso e secolare anticlericalismo, alimentato nel Cinquecento dalla spinta della Riforma e dei tanti gruppi eterodossi che si erano affacciati magari brevemente nei territori italiani, andò infatti maturando nel corso del Seicento verso una visione più organica e cominciò a essere utilizzato in vista di un attacco ampio e strutturato non più solo contro l’istituzione ecclesiastica, ma si estese spesso al cristianesimo nel suo complesso e, talvolta, alla religione in genere. Si iniziò a considerare sempre più apertamente il clero come un gruppo sociale che grazie ai fantasmi della punizione o del premio dopo la morte manteneva la società su binari strettamente controllati. Come detto, era ampiamente accettato che fosse una vigilanza necessaria per mantenere intatto il tessuto sociale, tuttavia portava a considerare la religione in primo luogo come strumento di dominio, un insieme di dogmi, norme e prescrizioni del tutto staccati da ogni ipotesi ultraterrena.

La Chiesa agì contro il diffondersi di questa incontrollabile rete di pensieri sia cercando di utilizzare le armi della censura preventiva, proibendo tutti quei libri e scritti in genere che potessero in qualche misura mettere in circolazione elementi di critica o di scetticismo. Intervenne al tempo stesso contro la diffusione di opere stampate clandestinamente o circolanti in forma manoscritta: Venezia e l’Accademia degli Incogniti rappresentarono, da questo punto di vista, probabilmente il centro più prolifico di idee e scritti di carattere libertino e solo la tenace politica giurisdizionalistica veneta riuscì a proteggere personaggi come il già citato Cesare Cremonini, o Antonio Rocco, Giovan Francesco Loredan e molti altri autori di opere dissacratorie e almeno anticuriali. Lo stesso Ferrante Pallavicino godette a lungo della protezione dello stato veneto, fino a quando decise di abbandonarlo per incontrare la morte ad Avignone. Martire del “libertinismo” e del libero pensiero, Ferrante Pallavicino fu in morte ancor più che in vita un punto di riferimento per quanti intrapresero una lotta senza quartiere per screditare e a ridicolizzare l’Inquisizione, che finiva così sotto attacco per l’«impertinenza degl’Inquisitori, li quali non più lasciano che scrivere, o che leggere a letterati». In una delle molte Anime, opere uscite a partire dal 1643 forse per mano di Giovan Francesco Loredan e a Pallavicino attribuite post mortem, un Ferrante pensoso dichiarava che «per haver scritto con libertà ci hò lasciata la testa e che «gl’inquisitori al giorno d’hoggi fanno tre uffici, di spia, di bargello, e di carnefice». Ma in fondo la censura inquisitoriale era fatica sprecata: «alcuni libri si perderebbero nell’oblivione col nome degli stessi autori, se da gli Indici de l’inquisitione, non venissero resi immortali. Et io ho conosciuto degli Amici, che non facevano raccolta d’altri libri, che di quelli nominati sopra l’Indice».

L’atteggiamento ostile nei confronti del libertinismo non cambiò sensibilmente nei secoli successivi. Accuse in questo senso furono mosse contro quietisti e deisti, e più in genere il misticismo fu considerato anche sinonimo di licenziosità morale e sessuale. Anche le logge massoniche furono percepite come occasioni di libertinaggio e di comportamenti sessuali sfrenati, di cui venne sottolineata la pericolosità anche per quanto riguardava la diffusione di idee come la mortalità dell’anima o la negazione della Trinità. Nel Settecento, e ancor più nel secolo successivo, il libertinismo si identificò sempre di più quindi, dal punto di vista ecclesiastico, con la sfera dei comportamenti oltre che con quella del pensiero. L’ateismo razionalista dell’Illuminismo venne interpretato come una forma di libertinismo, così come lo erano stati in passato le riproposizioni dell’atomismo lucreziano. Nella stessa Massoneria la Chiesa intravvide la possibilità della diffusione di idee di matrice irreligiosa e di fermenti legati a un generico libertinismo: le logge apparirono pertanto come dei centri in cui venivano coltivati tanto discorsi eterodossi quanto comportamenti licenziosi. Si trattava del resto di un’opinione diffusa anche fuori dalla struttura ecclesiastica: nel 1737, l’agente lucchese a Firenze Lorenzo Diodati scriveva che della loggia fiorentina non si sapeva poi molto, ma aveva sentito dire che la massoneria, «quando fu tentato d’introdurla a Turino, fosse scoperto che tenevano li seguenti tre perversi principi, cioè che l’usare carnalmente colle donne non fosse peccato; che non è necessaria la confessione, bastando la contrizione per rimettersi in grazia e che si può mangiar carne il venerdì e il sabato». Di lì a poco Tommaso Crudeli – nell’ambito della persecuzione di quella stessa loggia, la prima a subire tale destino in Italia – sarebbe stato condannato per aver letto Lucrezio, la Vita di Sisto V e quella di Paolo Sarpi, per aver inoltre ironizzato sul Sacro Cuore di Gesù e, infine, per «aver frequentato un’adunanza dove si parlava di filosofia e teologia e dove si osservano vari empi riti e s’insegnano molte eresie». Tutti riferimenti che richiamavano a quel mondo confuso che appariva essere quello della devianza libertina: d’altro canto la Bolla In eminenti emanata il 28 aprile 1738 da Clemente XII non proibiva la Massoneria per motivi di carattere dogmatico o ereticale, ma proprio per l’inquietudine di ciò che si sarebbe potuto celare dietro una struttura così opaca.

Fra Sette e Ottocento, per altri versi, andò consolidandosi una sorta identità naturale fra teorie “libertine” e la loro traduzione sul piano dei comportamenti, in primo luogo quello sessuale. Casi come quello di De Sade non contribuirono del resto a tranquillizzare gli animi di una Chiesa sempre più preoccupata da un fenomeno che appariva sempre meno limitato alle élites, capace di fondersi con un anticlericalismo spesso appoggiato dagli Stati. Gli strumenti a disposizione della Chiesa erano oramai spuntati: venuti meno i tribunali inquisitoriali sul finire del Settecento, lo stesso Index librorum prohibitorum trovò crescenti difficoltà nell’essere applicato, soprattutto fuori dal territorio italiano. Ateismo, libertà di pensiero, anticlericalismo, irreligiosità, immoralità andarono pertanto a connotare una sempre più sfuggente idea di “libertino”, ormai stabilmente diventato una categoria accusatoria definita sulla base della sfida ai buoni costumi e alla morale. La storia del libertinismo di fatto era diventata la storia del laicismo, e il libertinismo una categoria storiografica.

Fonti e Bibl. essenziale

F. Barbierato, Politici e ateisti. Percorsi della miscredenza a Venezia fra Sei e Settecento, Edizioni Unicopli, Milano 2006; J.-P. Cavaillé, Libertino, libertinage, libertinismo: una categoria storiografica alle prese con le sue fonti, «Rivista storica italiana», 2 (2008), 604-655; M. Cavarzere, La prassi della censura nell’Italia del Seicento. Tra repressione e mediazione, Edizioni di Storia e letteratura, Roma, 2011; N. Davidson, Unbelief and Atheism in Italy, 1500–1700, in Michael Hunter and David Wootton (eds), Atheism from the Reformation to the Enlightenment, Clarendon Press, Oxford, 1992; D. Foucault, Storia del libertinaggio e dei libertini, Salerno, Roma, 2009; C. Ginzburg, Il formaggio e i vermi. Il cosmo di un mugnaio del ‘500, Einaudi, Torino, 1974; M. Infelise, I libri proibiti da Gutenberg all’Encyclopédie, Laterza, Roma-Bari, 1999; A. Prosperi, Tribunali della coscienza. Inquisitori, confessori, missionari, Einaudi, Torino, 1996; D. Riposio, Il laberinto della verità. Aspetti del romanzo libertino del Seicento, Edizioni dell’Orso, Alessandria, 1995; Sergio Bertelli (a cura di), Il libertinismo in Europa, Ricciardi, Milano-Napoli, 1980; G. Spini, Ricerca dei libertini. La teoria dell’impostura delle religioni nel Seicento italiano, La Nuova Italia, Firenze 1983; S. Zoli, L’Europa libertina, Nardini editore, Firenze, 1997.


LEMMARIO




Liturgia (dal I al VIII secolo) - vol. I


Autore: Corrado Maggioni

Quale fisionomia ebbe la liturgia nella penisola italica dell’antichità? La risposta affiora dai dati, più chiari dal sec. V, riguardanti importanti sedi episcopali. Fino al sec. VI, le Chiese delle dieci province dell’Italia su­burbicaria (Tuscia-Umbria, Campania, Lucania-Bruttium, Apulia-Calabria, Samnium, Picenum, Valeria, Sicilia, Sardinia, Corsica), posta sotto l’autorità civile del Vicarius Urbis, erano ritual­mente legate a Roma. Nell’Italia anno­naria, dove l’assetto ecclesiastico non corrispondeva al civile, la sede più importante era Milano, resi­denza del Vicarius Italiae; vi erano poi Torino, Ver­celli, Brescia, Verona, Aquileia, Ra­venna, quest’ultima a cerniera tra il Nord e Roma, che ne nominava i vescovi an­cora al tempo di Gregorio Ma­gno. Nel sec. VII, la geografia si modifica e l’influenza di Roma si riduce per l’occupazione longobarda che la divide dall’esarcato di Ravenna e dalle regioni a sud, dove permangono antichi usi romani. I missionari campani inviati nelle isole inglesi recarono con sé i loro libri liturgici. Anche il monachesimo benedettino ha svolto la sua parte. Il latino era la lingua da tutti condivisa.

Liturgia romana. La Chiesa di Roma fu una matrice liturgica per l’intero Occidente, senza impedire la fioritura di altre prassi rituali. Se nel sec. II alcuni indizi vengono dall’Apologia di Giustino, nel sec. III è la Traditio apostolica attribuita ad Ippolito romano ad informare sul catecumenato, la veglia pasquale, il battesimo, l’Eucaristia, l’ordine, i ministeri, i tempi e modi di preghiera. Dopo la metà del sec. IV si va affermando una liturgia in latino, promossa da papa Damaso (366-384), che commissionò a Girolamo la revisione latina della Bibbia. Si determinò così lo sviluppo di un rito peculiare, caratterizzato da preghiere che non traducevano testi greci e si ispiravano a criteri compositivi del genio romano, ossia la sobrietas et concinnitas, attento all’aspetto giuridico del culto. Un esempio eloquente è il Canone romano, risalente al sec. IV e codificato nel VI.

Il passaggio dalle domus ecclesiae alle basiliche costantiniane (Laterano, S. Pietro in Vaticano, S. Paolo sulla via Ostiense), seguite da altre (S. Sabina e S. Maria Maggiore nel sec. V, S. Lorenzo in Verano nel VI, S. Giorgio al Velabro e S. Agnese nel VII) portò all’organizzarsi delle liturgie presiedute sia dal Vescovo che dai presbiteri. Peculiare fu il fermentum, ossia l’uso di inviare alle parrocchie un frammento del pane consacrato dal Papa affinché fosse immesso dal prete nel calice prima della comunione, segno del vincolo eucaristico di ogni comunità col Vescovo. Il bacio di pace è scambiato prima della comunione (cf. lettera di Innocenzo I al vescovo di Gubbio Decenzio del 19 marzo 416).

Il culto dei martiri fu vivamente coltivato in giorni e luoghi. Di origine romana è la festa del Natale il 25 dicembre, attestata dal Cronografo Filocaliano del 336. Prese così forma il ciclo dell’anno – ci informano le omelie di Leone Magno – in cui, oltre alle feste di Pasqua, Ascensione e Pentecoste, compare la Quaresima, l’adozione dell’Epifania (fine sec. IV), le feste degli apostoli Pietro e Paolo, i giorni di Avvento e la primitiva festa mariana il 1° gennaio (sec. VI). Nel sec. VII giungono a Roma le quattro feste orientali in onore della Vergine (2 febbraio, 25 marzo, 15 agosto e 8 settembre) che, diffuse in Europa con la liturgia romana, rappresentano nei secoli il cardine della pietà liturgica mariana.

Il deposito eucologico romano si è formato grazie a Leone Magno (†461), Gelasio († 496), Vigilio (†555) e Gregorio Magno (†604), il quale riordinò il rito della messa (due letture bibliche invece di tre, l’anticipo del Pater dopo il Canone e prima della fractio panis) e incrementò le stationes, ossia le chiese dove, in dati giorni, il Papa celebrava la messa col popolo romano. Conosciamo le celebrazioni (preghiere, giorni e occasioni) tramite i sacramentari Veronese (risalente al sec. V-VI), Gelasiano antico (testimone della liturgia presbiterale), Gregoriano Adrianeo (testimone della liturgia papale), Gregoriano Paduense. Delle letture bibliche abbiamo delle liste in manoscritti dei secc. VI-VII. Particolare rilievo va al canto gregoriano (fatto risalire a Gregorio Magno), i cui testi per la messa e l’ufficiatura sono custoditi negli antifonari. La residenza di chierici accanto al Papa, come il sorgere di monasteri presso le basiliche, ha favorito l’ufficio divino nelle ore del giorno. Preziosi sono gli Ordines (editi da M. Andrieu), ossia le indicazioni sul modo di celebrare a Roma nel medioevo, tra cui l’Ordo I riguardante la messa papale verso il 700 e l’Ordo XI l’iniziazione cristiana.

Liturgia ambrosiana. Se vi sono opinioni diverse sulla radice li­turgica della primitiva comunità di Milano (Roma o l’Oriente), è concorde ritenere sant’Ambrogio (374-397) l’organizzatore creativo di una prassi rituale, detta appunto ambrosiana. E’ nota la sua opera nell’iniziare al canto corale e nel comporre inni. Nei suoi scritti traspaiono rilevanti testimonianze liturgiche, come i testi biblici letti nelle celebrazioni, la con­sistenza dell’anno liturgico, la ritualità dell’iniziazione e della messa (cf. le catechesi mistagogiche De Sacramentis e De mysteriis). Per la sua intraprendenza il calendario milanese si arricchì del ricordo dei mar­tiri. Quanto osservava circa l’uso di lavare i piedi ai neo battezzati ben esprime la sua consapevolezza in materia liturgica: «Non ignoriamo che la Chiesa romana non ha questa consuetudine, sebbene noi ne seguiamo, in tutto, il modello e la norma. Tuttavia non ha questa consuetudine di lavare i piedi… Dico questo non già per criti­care gli altri, ma per giustificare il rito da me compiuto. Desi­dero seguire in tutto la Chiesa di Roma, ma tuttavia anche noi ab­biamo, come gli altri uomini, il nostro modo di pensare; quindi, ciò che altrove si osserva con fondate ragioni, anche noi lo con­serviamo con fondate ragioni» (De Sacramentis III,1,5).

Lo studio degli antichi libri ambrosiani (secc. IX-XI), ossia i sacramentari di Bergamo, Biasca, san Simpliciano, Ari­berto e il Triplex, ha accertato tre stratificazioni: la prima risa­lente al sec. (IV) V, legata ad Ambrogio ed Eusebio, il quale operò per la riorganizzazione dopo l’invasione di Attila; la seconda è del sec. VII, connessa con il ritorno dei vescovi milanesi dall’esilio a Genova per l’invasione longobarda; la terza, come appare dai manoscritti, è di epoca franco-carolingia. L’analisi comparata manifesta le in­fluenze recepite nei libri ambrosiani (da Chiese latine o orientali e poi dall’imposizione della liturgia ro­mano-franca attestata nei Gelasiani dell’VIII sec. e nel Supplemento del Grego­riano) o esercitate da essi sulla stessa litur­gia romana e ro­mano-franca.

La storia della liturgia ambrosiana ne svela la fi­sionomia specifica: sistemi di lettura liturgica della Scrittura, eucologia con chiari temi teologici, struttura tipica dell’anno liturgico (santorale, eortolo­gia, durata di avvento e quaresima), ordinamenti par­ticolari (l’antifona post evangelium, l’invito del diacono per la pace al termine della liturgia della parola e avanti la comunione, l’orazione super syndonem, il Simbolo prima dell’orazione sulle offerte, la frazione del pane con la sua antifona prima del Pater, l’abbondanza dei prefazi). L’antico deposito eucologico, antifone comprese, evidenzia la volontà di professare, tramite la lex orandi, la retta fede nel mistero di Cristo in­sidiata dall’opposizione ariana durata dai tempi di Ambrogio fino al 698, quando nel Si­nodo di Pavia si decretò formalmente la fine dell’arianesimo nella pianura padana. Tra le particolarità: la Quaresima inizia con la Domenica, prevede i venerdì aliturgici e non celebra i Santi; l’Avvento dura sei settimane e dal sec. V la Dome­nica antecedente il Natale celebra la divina mater­nità della Vergine.

Liturgia aquileiese. Via di comunicazione tra l’Italia e il Norico e tra Occidente ed Oriente, Aquileia conobbe nel sec. IV una notevole vivacità, con influenza giuridico-liturgica sulle Chiese della Venezia, della Rezia, del Norico, della Panno­nia, della Savia: lo testimoniano gli edifici cultuali eretti da Teodoro, firmatario al concilio di Arles del 314, e le basiliche dei secc. IV-V. Sotto il vescovo Valeriano, nel 381 si raccolsero in Concilio ad Aquileia trentadue vescovi per fronteggiare, capeggiati da Ambrogio, l’eresia ariana.

Dell’aquileiese Rufino († 410) ci è pervenuta la for­mula del Simbolo battesimale; nei suoi scritti abbiamo indizi sul legame della Chiesa di Alessandria con Aquileia, del resto vi­sitata più volte da Atanasio durante l’esilio. Dal cap. 97 del De viris illustri­bus di san Girolamo – risie­dette ad Aquileia dal 370 al 373 – sappiamo che il vescovo Fortunaziano († dopo il 360) «in evangelia titulis ordinatis breves sermone rustico scripsit com­mentarios» (CLLA 1, nr. 055 e CLLAS nr. 79). La testimonianza più autorevole sulla liturgia aquileiese a cavallo del sec. IV-V sono le omelie di Cromazio († 407), pronunciate nel corso dell’anno, per le feste del Natale e dell’Epifania, la Quaresima, le feste pasquali con i sacramenti dell’iniziazione, il tempo successivo con l’Ascensione e la Pentecoste, la dedicazione della chiesa di Concordia.

Per le letture bibliche siamo aiutati da due codici: il Codex Foroiuliensis, con frammenti di un capitulare evan­geliorum del sec. VI e note marginali aggiunte nei sec. VII-VIII; e il Codex Rehdigeranus, manoscritto del sec. VII, con l’aggiunta di un capitulare evangeliorum dell’inizio del sec. VIII. Pur presentando i segni dell’avvenuta romanizzazione, le liste delle pericopi evangeliche docu­mentano quale fu la tradizione locale antica, facendo intravedere le particolarità di un rito che andò consoli­dandosi, favorito da situazioni politico-ecclesiali. Infatti, al­terne vicende segnarono il patriarcato di Aquileia nel sec. VI-VII: dal rifiuto del Concilio costantinopolitano del 553 intorno alla questione dei Tre Capitoli e conseguente urto con i papi che lo confermarono, all’invasione dei Longobardi nel 568 che consi­gliò lo spostamento della residenza episcopale a Grado, alla divi­sione nel 605 del patriarcato in due comunità, l’una ortodossa le­gata all’impero bizantino e l’altra scismatica soggetta al regno longobardo, la quale sussistette fino al ritorno nell’unione con Roma nel 698. Quando il vescovo Paolino di Aquileia († 802) accolse­ le direttive di Carlo Magno e con esse il rito romano, rimasero negli ordines delle singole Chiese suffraga­nee (esempio a Como) alcune particolarità che permisero di parlare del cosiddetto “rito patriarchino”, abolito nel con­cilio di Aquileia del 1596.

Liturgia ravennate. Quando Ravenna divenne capitale dell’impero d’Occidente, all’alba del sec. V, anche l’antichissima Chiesa lì residente si riorganizzò. Lo attesta l’opera del ve­scovo Orso, costruttore di un’imponente basilica con bat­tistero. Col suo successore, san Pietro Crisologo (circa 425-456), la sede ravennate divenne metropolìa, soggetta a Roma ma con qualche giurisdizione su Chiese vicine fino allora dipendenti da Mi­lano; nel sec. VI, in epoca bizantino-giustinianea, dopo la dominazione ostrogota (493-526), furono intensi i contatti con l’Oriente.

Le omelie del Crisologo ci informano sull’ordinamento delle letture bibliche, l’anno liturgico ed aspetti della vita li­turgico-sacramentale. L’altra importante fonte è il celebre Rotulus, contenente quarantadue orazioni (sembra per l’ufficio divino) del tempo preparatorio al Natale. Compilato nel sec. VII, raccoglie materiale distinguibile in tre ambiti, dove sono confluite raccolte anteriori. L’impianto romano delle orazioni lascia spazio all’originalità di una lex orandi che ri­flette la professione di fede della Chiesa ravennate del V sec. nel mistero dell’incarnazione del Verbo divino nel grembo della Vergine, in virtù dello Spirito. Diverse orazioni sono indirizzate direttamente a Cristo, confessato nelle sue prerogative divine. E’ evidente il contatto con il pensiero teologico (la mano stessa?) del Crisologo.

Dal Liber pontificalis ecclesiae ravennatis di Andrea Agnello (prima metà del sec. IX) conosciamo l’attività liturgica del vescovo di origine orientale Massimiano (546-556), il quale avrebbe riordinato i libri dei vangeli e delle epistole, e redatto «missales per totum circulum anni et sanctorum omnium, cotidianis namque et quadragesimalibus temporibus, vel quid­quid ad ecclesiae ritum pertinet» (PL 106,610). E’ in questo periodo che la liturgia di Ravenna, officiata nelle ba­siliche che ancora ammiriamo, si consolida nei propri usi, mediati dalla tradizione romana e fatti propri non senza l’influsso di altre Chiese.

Liturgia campano-beneventana. La vicinanza con Roma e la sua dipendenza ecclesiastico-civile, non ha impedito peculiari usi nella regione campana, diffusi dai missionari anche nei paesi inglesi. Secondo Gennadio, Paolino di Nola († 431) avrebbe compo­sto un Liber sacramentorum.

I documenti disponibili, relativi ai testi biblici della messa (tre letture), risalgono ai secc. VI-VII per la Campania e ai secc. X-XI per Benevento: i più antichi, giuntici anche in posteriori copie anglo-sassoni, attestano la loro originalità (ci sarebbero indizi della prassi romana pregregoriana); quelli medie­vali, nonostante la romanizzazione, mostrano tracce di un sistema non romano. Diretto testimone della liturgia campana è il Codex Fuldensis, noto come l’Epistolario di Capua. Composto dal vescovo Vittore verso il 545 e passato in Inghilterra nel secolo seguente, presenta un proprio ordinamento di vangeli ed epistole (solo dalla lettere paoline) per il corso dell’anno (in Quaresima indica testi per la Domenica, mercoledì e venerdì) e la memoria di pochi santi (Pietro e Paolo, Lorenzo, Andrea e testi per un comune dei martiri).

Nell’evangeliario di Lindisfarne (o Comes di Napoli) e nel Co­dex regius, risalenti al VII-VIII sec., sono ravvisate copie di un capitolare dei vangeli proveniente da Na­poli. Poiché non è facile individuare le pericopi, essendo indicato l’evangelista senza dettagli, sono di aiuto le note dell’evangeliario di Burcardo di Würzbourg, che presenta caratteristiche napoletano-romane.

I più antichi codici della regione beneventana sono del sec. X-XI, già conformati come Messali plenari ed ormai romanizzati. Significativo è il Messale di Benevento, nel quale sono però scomparsi elementi tipici dell’antica liturgia locale, quali le tre letture (compaiono solo per le Domeniche dopo Pentecoste) e l’oratio post evangelium. I vangeli, a differenza delle epistole, conservano tracce del vetusto sistema beneventano. Quasi tutti i canti sono contras­segnati da neumi per il canto. Come libri bene­ventani il repertorio CLLA indica anche Breviari, Antifonari e i Rotoli pasquali con l’Exsultet miniato, corredati di una propria notazione musi­cale.

Unità e diversità rituale. I dati, spesso indizi, sull’antica liturgia nella penisola italica, testimoniano una fondamentale unità nella varietà di usi. Nessuna Chiesa, compresa l’ambrosiana, mirò ad avere un proprio rito, ma fu l’esperienza a maturare elementi che manifestarono una ritualità diversa dalla liturgia romana pur con essa imparen­tata, come è constatabile dalla comu­nanza di testi e usi. Il rito della messa a Roma e a Milano è simile rispetto al modo orientale. Il fatto che il Canone romano abbia paralleli nel De Sacramentis (IV, 21-22.26-27) di sant’Ambrogio, fa pensare che Roma e Milano conoscessero uno stesso te­sto-base, pensabile anche a Ravenna dal fatto che nei mo­saici di san Vitale (sec. VI) sono raffigu­rati Abele, Abramo e Melchissedech, nominati nel Canone ro­mano.

L’uso ambrosiano di lavare i piedi ai neofiti (non praticato a Roma ma in altre regioni sì: cf. De Sacra­mentis III, 1, 4-5) forse non era sconosciuto a Ravenna se nei mosaici del battistero neoniano (sec. V) è iscritto il versetto gio­vanneo della lavanda dei piedi. Un’omelia di Cromazio lo attesta come rito pre-battesimale per Aquileia, confermato dal Codex Rehdigeranus. Per l’anno liturgico, la comparazione delle letture bi­bliche in dati giorni e tempi permette di distinguere gli usi propri da quelli comuni ad aree cultuali. Il culto dei Santi locali è spesso coniugato al ricordo dei Santi di altre Chiese, segno di comunione ecclesiale.

Fonti e Bibl. essenziale

E. Cattaneo, Il culto cristiano in occidente. Note storiche, Roma 21984; C. Maggioni, Le antiche liturgie italiche non romane, in Rivista Liturgica 80 (1993) 463-483; B. Neunheuser (C. Cibien), Storia della liturgia, in D. Sartore – A.M. Triacca – C. Cibien (edd.), Liturgia, Dizionari San Paolo, Cinisello Balsamo 2001, 1944-1959; C. Vogel, In­troduction aux sources de l’histoire du culte chrétien au moyen-âge, Spoleto 1981; K. Gamber, Codices liturgici latini antiquiores = Spicilegii Fribur­gensis Subsidia, 1-1A, 2 voll., Freiburg 1986 (= CLLA); Supplementum con la collaborazione di B. Baroffio – F. Dell’Oro – A. Hänggi – J. Janini – A.M. Triacca, Freiburg 1988 (= CLLAS); P. Borella, Il rito ambrosiano, Brescia 1964; A.M. Triacca, Ambro­siana, Liturgia, in D. Sartore – A.M. Triacca – C. Cibien (edd.), Liturgia, Dizionari San Paolo, Cinisello Balsamo 2001, 6-46; F. Sottocornola, L’Anno litur­gico nei Sermoni di Pietro Crisologo. Ricerca storico-critica sulla litur­gia di Ravenna antica, Cesena 1973; G. Montanari, Culto e liturgia a Ravenna dal IV al IX secolo, in AA.VV., Storia di Ravenna, II.2. Dall’età bizan­tina all’età ottoniana. Ecclesiologia, cultura e arte, Venezia 1992, 241-281. E. Cattaneo, Santi milanesi ad Aquileia e santi aquileiesi a Mi­lano, in Aqui­leia e Milano (= Antichità altoadriatiche 4), Udine 1973, 235-248.


LEMMARIO




Liturgia (dall' VIII al XIX secolo) - vol. I


Autore: Norberto Valli

Secoli viii-x. Gli albori del secolo viii videro la fine del pontificato di Sergio I (687-701), che ebbe notevole importanza nella storia della liturgia; a quel tempo risale infatti la diffusione in Occidente della festa dell’Esaltazione della Croce, caratterizzata dall’ostensione e dall’adorazione della più insigne delle reliquie della passione del Signore. L’introduzione del canto dell’Agnus Dei durante la celebrazione eucaristica al momento della frazione del Pane costituì un’ulteriore novità, rispondente al desiderio di sottolineare il valore del sacrificio con il quale Cristo si è offerto per la salvezza del mondo. La decisione del papa fu determinante per l’ordo missae romano, non toccando quello ambrosiano, dotato di un Confractorium variabile, inserito nel “proprio” della messa e ancora oggi eseguito subito dopo il Canone. Inoltre a Sergio I si deve l’accoglienza dall’Oriente delle quattro feste mariane diffusesi nei secoli successivi in tutto l’Occidente: l’Assunzione, la Purificazione, l’Annunciazione e la Natività di Maria santissima. Il culto della Vergine, unito a quello dei martiri e dei santi, ricevette ulteriore incremento sotto il siro Gregorio III (731-741), succeduto al romano Gregorio II (715-731), che aveva difeso la venerazione delle immagini mentre divampava la lotta iconoclasta orientale e, verosimilmente, promosso l’arricchimento del sacramentario con i formulari per i giovedì di Quaresima. Le direttive date alle Chiese della Baviera tramite i missionari che egli inviò sembrano già fare del rito romano il modello al quale le altre tradizioni liturgiche occidentali si sarebbero dovute conformare.

La penisola italica, sia nella parte settentrionale che in quella meridionale, aveva visto la fioritura di una varietà di riti e di usi locali che la documentazione manoscritta è in grado, almeno in parte, di testimoniare. Si pensi, a titolo di esemplificazione, al peculiare ordinamento delle letture evangeliche della liturgia aquileiese, che si segnala per numerosi punti di contatto con quella ambrosiana: lo attestano il capitolare risalente proprio al secolo viii, contenuto nel codex Rehdigeranus, e quello del codex Forojuliensis. Grazie allo studio comparato dei codici ambrosiani del secolo ix è possibile risalire alla fase precarolingia e comprendere l’evoluzione avvenuta nell’eucologia e nel lezionario della Chiesa milanese, riconoscendo la conservazione di persistenti strutture distintive, tra le quali il radicamento negli usi gerosolimitani della Settimana Santa e la peculiare strutturazione dell’anno liturgico. L’evoluzione storica dei due riti aquileiese e ambrosiano ha avuto esiti diversi. La ricezione di usi e di testi di matrice romana, da semplice risultato di un influsso del tutto comprensibile, divenne ad Aquileia con il patriarca Paolino II (787-802), esponente di spicco dell’ambiente culturale carolingio, una precisa linea di condotta ecclesiastica. Ne derivò una progressiva omologazione al rito romano già molti secoli prima della definitiva soppressione degli usi aquileiesi avvenuta nel 1596 da parte del patriarca Francesco Barbaro. Al piano di unificazione liturgica concepito da Pipino il Breve e soprattutto da Carlo Magno, i vescovi della metropoli milanese invece reagirono, riuscendo a salvaguardare le proprie specificità. La ricostruzione della vicenda non è agevole, dovendo appellarsi all’Historia Mediolanensis di Landolfo Seniore (secoli xi-xii) che si pone tra storiografia e leggenda. L’autore informa che all’imperatore, intenzionato a distruggere o, comunque, a far sparire tutti i libri liturgici ambrosiani sia stato impossibile estinguerli completamente; si può infatti dedurre che l’intervento di un tenace quanto disinteressato difensore del rito ambrosiano abbia costituito la ragione determinante della sua preservazione. Landolfo presenta la figura del transmontanus episcopus Eugenio, che presso papa Adriano (772-795), nel corso di un sinodo, avrebbe perorato la causa del rito ambrosiano e ottenuto il riconoscimento pubblico della sua legittimità, accanto al romano, attraverso una sorta di ordalia. La tesi, sostenuta da alcuni studiosi, secondo la quale a Milano si ritroverebbero gli antichi usi romani non intaccati dalle innovazioni subentrate lungo i secoli nella liturgia papale, non ha mai avuto dimostrazioni convincenti. L’assimilazione degli influssi esterni è avvenuta attraverso una loro originale rielaborazione. Lo dimostra, tra l’altro, il canto. Soprattutto dal secolo viii in avanti la chiesa milanese ha assunto una rilevante parte del repertorio cosiddetto “gregoriano”. La storiografia più recente ha ridimensionato però l’idea che con la riforma carolingia ci siano state fortissime pressioni per l’abolizione del canto ambrosiano nell’ambito del tentativo di romanizzazione del rito. Sembra più verosimile che i milanesi abbiano ammesso per l’uso liturgico testi e musiche provenienti dalla tradizione romana, in grado di arricchire il repertorio preesistente. Non c’è però traccia dell’accoglienza da parte dei cantori ambrosiani del sistema modale gregoriano e di tutto ciò che esso comporta. I prestiti non influirono dunque sulla struttura fondamentale del canto ambrosiano; al contrario, si può dire che in questa transizione furono i pezzi gregoriani a subire modifiche al fine di essere adattati al repertorio locale.

Nell’Italia meridionale accanto agli antichi riti locali di matrice occidentale va considerato il rito bizantino o, più precisamente, italo-bizantino. Per quanto riguarda i primi, è stata rinvenuta nel celebre evangeliario di S. Cuthbert (Cotton ms. Nero D. IV), scritto a Lindisfarne all’inizio del secolo viii, una lista di passi neotestamentari da leggersi in determinate circostanze, che riflette l’uso napoletano. Una conferma è fornita dal fondo dei manoscritti pergamenacei della biblioteca dell’Università di Würzburg, dove è conservato il cosiddetto evangeliario di Burchard, codice, giunto in Germania dall’Inghilterra, al seguito di missionari, con note liturgiche assai vicine a quelle dell’evangeliario di S. Cuthbert, che mostrano l’innesto di elementi romani su un ordinamento concepito per la chiesa di Napoli. La varietà di consuetudini è ulteriormente comprovata dalle testimonianze documentarie ascrivibili a Benevento, tutte posteriori però al secolo ix. Non può essere trascurata poi, come si è detto, la presenza orientale, specificamente bizantina. È noto che il Patriarcato di Costantinopoli dall’viii all’xi secolo esercitò la propria giurisdizione su alcune regioni del Meridione. Infatti attorno al 732-733 un editto dell’imperatore Leone III Isaurico (717-741) le sottrasse alla giurisdizione metropolitana del Vescovo di Roma. La presenza di ellenofoni in fuga prima da Persiani e Arabi e poi dagli iconoclasti offrì all’amministrazione bizantina il pretesto per sostituire l’episcopato latino con quello greco. Si comprende così lo svilupparsi di una chiesa greca in Italia, che si è distinta fino a oggi per una liturgia caratterizzata da elementi peculiari rispetto alla metropoli costantinopolitana. Nella seconda metà del secolo xi, in seguito all’invasione normanna, il papato riottenne i territori alienati nel secolo viii, ma le chiese locali rimasero bizantine. Dopo le tensioni con Fozio (858-897) e la crisi del 1054 i vescovi greci d’Italia, ormai sotto la giurisdizione romana, si trovarono nella difficoltà di non essere più in comunione con la Chiesa da cui dipendeva la loro liturgia e, più in generale, la loro identità religiosa. Da rilevare è, in ogni caso, l’attenzione che, qualche tempo dopo, il Lateranense IV (1215) riservò, in modo particolare, ai fedeli di tradizione bizantina, raccomandando nel canone IX ai vescovi delle diocesi in cui fossero stati presenti persone di varia provenienza, ma uniti dalla stessa fede, la predisposizione di un clero idoneo a celebrare nei loro riti.

La penisola italica deve essere quindi ritenuta, in epoca medievale, teatro di una molteplicità di espressioni liturgiche, facenti capo alle sedi episcopali più rilevanti. Il processo di romanizzazione non fu certamente istantaneo, ma l’esito è visibile nei sacramentari, nei lezionari e nei messali plenari che, dall’età carolingia in avanti, tesero a conformarsi al modello imposto da Pipino il Breve e dal figlio Carlo Magno, benché la non immeditata fruibilità dei testi manoscritti abbia reso l’operazione meno rapida di quanto si possa pensare, lasciando sopravvivere a lungo le forme cultuali preesistenti. Bisogna, comunque, ricordare che quando Carlo nel 783 chiese a papa Adriano un sacramentario romano puro con l’intento di sostituire i “gelasiani misti” in circolazione, ottenuto il sacramentario papale lo fece integrare da Benedetto di Aniane (c. 750-821) con il Supplementum, atto a soddisfare esigenze ignorate nella fonte a lui pervenuta. La successiva sintesi del gregoriano adrianeo con i gelasiani produsse quello che è stato definito il gregoriano “gelasianizzato” del x e xi secolo, antecedente del messale della Curia romana del xiii.

Parimenti, gli Ordines romani, che lasciarono Roma nella prima metà del secolo viii, furono rielaborati in territorio franco-germanico fino a costituire quel pontificale romano-germanico del x secolo, ripreso nei secoli seguenti dai pontificali della Curia Romana. Gli stessi imperatori ottoniani che governarono, in seguito, con il fervore religioso dei carolingi, imposero, intorno alla metà del secolo xi, papi germanici che celebravano nelle modalità proprie della loro terra d’origine. La liturgia affermatasi nei secoli successivi al ix in gran parte della penisola italica, contestualmente al resto dell’impero, non è da ritenersi dunque romana pura, bensì il risultato dell’innesto su quel ceppo di elementi propri del contesto franco-germanico. Del resto, con la decadenza a Roma degli scriptoria, giungevano regolarmente ai papi libri liturgici dai monasteri d’Oltralpe. Tra le pratiche liturgiche originatesi fuori dall’Italia e che ebbero nei territori della penisola larghissima diffusione si annovera quella delle Rogazioni o Litanie, che il Concilio di Magonza dell’anno 813 confermò e rese di uso universale per tutto l’impero carolingio. Non trascurabili, infine, furono nel corso di quei secoli dell’alto medioevo, l’arricchimento dei calendari locali con nuove celebrazioni di santi, spesso legate a traslazioni di reliquie e alla devozione suscitata dal loro passaggio attraverso città e campagne, e l’incremento, documentato dalle fonti, delle feste di santi, come gli apostoli, significativi a livello universale.

Dalla riforma monastica cluniacense del x secolo derivarono l’intensificazione delle devozioni alla Croce, all’Eucaristia, a Maria e ai Santi, la commemorazione annuale di tutti i fedeli defunti e un impulso alla moltiplicazione delle messe celebrate in forma “privata”, rispecchiato dalla stessa architettura delle Chiese, dotate, allo scopo, di numerosi altari laterali. Vi sono pareri discordanti a riguardo del rapporto tra pratica delle messe private e formazione del messale plenario. Da una parte si è intravisto infatti un nesso di causalità, dall’altra lo si è negato, affermando che erano celebrate già prima della diffusione di tale libro liturgico; l’accorpamento di sacramentario, lezionario e antifonario sarebbe stato determinato non solo da una pietà sacerdotale portata a recitare ogni parte, ma anche dallo sviluppo della cura d’anime nei territori lontani dai grandi centri diocesani o monastici con la conseguente esigenza pratica di un unico libro facilmente trasportabile. In ogni caso, è innegabile un’evoluzione che condusse a ritenere l’azione eucaristica sempre più di competenza dei sacerdoti e sempre meno celebrazione comunitaria. Un segnale evidente dello sfaldamento della compagine liturgica e dell’acuirsi dell’isolamento della figura sacerdotale può essere identificato nell’ordo lateranense del 1140, che prescrive al celebrante di leggere tutti i testi destinati al canto mentre sono eseguiti dai cantori.

Il loro compito era stato nel frattempo facilitato dall’opera di Guido D’Arezzo (995-1050), insigne trattatista e didatta, prima monaco di Pomposa, trasferitosi in seguito ad Arezzo, dove fondò una scuola di canto. Suo merito fu non solo avere dato un nome alle note, prendendo ispirazione dalle sillabe iniziali delle varie sezioni di una strofa dell’inno di san Giovanni Battista, ma aver anche saputo ideare una forma di scrittura musicale idonea a fissare in modo preciso gli intervalli tra i suoni, fondamentale per lo sviluppo della diafonia e successivamente della polifonia.

Uno sguardo sul x sec. conduce, infine, a scorgere all’interno della liturgia e a partire da essa, soprattutto nel contesto dei riti pasquali, il crescente spazio dato alla drammatizzazione. La riproduzione visiva degli eventi celebrati rispondeva all’esigenza di avvicinare maggiormente il popolo ai contenuti delle celebrazioni e di suscitare una partecipazione emotiva più intensa, facendo, tuttavia, prevalere l’aspetto mimetico su quello anamnetico. In Italia ancora oggi, specialmente durante la Settimana Santa, in alcune regioni è molto diffusa una ritualità di questa natura.

Secoli xi-xiii. Nella prima metà del secolo xi alla solennità della liturgia cluniacense, accompagnata da una sontuosità architettonica e artistica, fecero riscontro in Italia, in ambito monastico, le tendenze a una maggiore essenzialità dei fondatori di Camaldoli e Vallombrosa, san Romualdo (951/53-1027) e san Giovanni Gualberto (995-1073); in una direzione simile si mossero i certosini e i cistercensi.

Novità di grande importanza nella celebrazione della santa messa romana fu, agli inizi del secondo millennio, l’introduzione del Credo. Quando nel 1014 l’imperatore Enrico II venne a Roma si meravigliò che mancasse. Il clero gli spiegò che la chiesa di Roma non aveva bisogno di esprimere la professione di fede, essendo da sempre depositaria dell’ortodossia. Benedetto VIII (1012-1024) cedette però all’insistenza imperiale e cominciò a farlo recitare secondo l’uso franco, dopo il Vangelo. Venne in seguito la determinazione dei giorni in cui usare il Simbolo durante la celebrazione eucaristica. Diversamente, nel rito ambrosiano, che lo ricevette dall’Oriente, il Credo fu collocato dopo la presentazione dei doni e lì ancora si trova.

Il secolo xi vide nel 1073 l’ascesa al soglio pontificio di Gregorio VII. Senza considerare qui la sua complessiva azione di riforma, basti sottolinearne la volontà di affermare l’autorità del romano Pontefice anche mediante la liturgia, imponendo la celebrazione delle feste dei papi santi in tutte le Chiese locali, e il proposito di riportare la liturgia all’antico uso romano, precedente agli influssi franco-germanici. Quest’ultima istanza sarebbe stata ripresa da Pio V per il messale tridentino e poi da Paolo VI per quello del 1970. In effetti, il pontificale romano del xii secolo, se confrontato con il pontificale romano-germanico, denota l’eliminazione di elementi ritenuti non pertinenti all’indole o in contrasto con la sensibilità culturale romana, senza giungere, tuttavia, a cancellare alcuni apporti subentrati a partire dall’età carolingia. Tale libro si diffuse presso le chiese locali d’Italia e anche d’Oltralpe.

Alla fine del secolo xii divenne papa con il nome di Innocenzo III (1198-1216) Lotario di Segni, autore di un commento alla messa dal titolo De altaris mysteriis, al quale si ispirarono analoghe opere tardo medievali, che spesso ne riassumevano i contenuti. A lui si deve, tra l’altro, la designazione dei cinque colori liturgici rimasti in uso fino a oggi. Negli ultimi anni di pontificato, Innocenzo III intervenne sull’ufficio divino, ma lasciò invariata la celebrazione eucaristica. Il successore, Onorio III (1216-1227), sottopose di nuovo l’ufficio a qualche intervento e produsse un Breviario, adottato nel 1230 dai Frati minori (Breviario della Regola); creò anche un messale, accolto dagli stessi Francescani, in quanto assai conveniente alla loro missione itinerante, del quale intorno al 1240 avvenne già una revisione a opera della Curia e, poco dopo, insieme agli altri libri della Regola, a opera di Aimone di Faversham, quarto superiore generale dei Francescani. Questi ripetuti rimaneggiamenti generarono una certa confusione a motivo della facile coesistenza di testi a diverso livello di rielaborazione.

In pieno xiii secolo il territorio della penisola registrava una predominanza della tradizione liturgica romana che si rifaceva ai libri della corte papale, distinta da quella romana antica praticata nella basilica di San Pietro e nelle chiese dell’Urbe, almeno fino al 1250, e da quella in uso presso il Laterano, le quali furono sottoposte dal cardinale Giovanni Orsini, poi Niccolò III (1277-1280), a un tentativo di fusione senza successo, a motivo della sua morte e del trasferimento del papato ad Avignone. A prevalere fu dunque la consuetudine della Curia papale, rispecchiata dal messale adottato già dai Francescani e ratificato all’inizio del secolo xiv dall’approvazione di Clemente V (1305-1314).

Al di là di questo esito, il popolo era sempre più portato ad assistere devotamente a un’azione rituale affidata al clero e alla schola cantorum. Già a cominciare dal ix secolo l’offerta del pane e del vino fu sostituita da un’elargizione di denaro. La comunione eucaristica dei fedeli diventò sempre meno frequente, per ragioni che si possono intuire, ma non facilmente definire, tra le quali il forte sentimento di inadeguatezza personale rispetto alla santità del Sacramento, accentuato dalle prescrizioni di purità rituale, la severità della disciplina penitenziale e le norme relative al digiuno. Alla disaffezione avevano cercato di far fronte ripetute disposizioni disciplinari culminanti nel famoso canone del Lateranense IV (1215) che prescrisse la comunione almeno a Pasqua per ogni fedele giunto all’età della discrezione. La pietà eucaristica dei fedeli si esprimeva sommamente nell’adorazione: la lontananza dalla comunione era compensata dalla “visione” del Corpo di Cristo. All’inizio del xiii secolo il gesto liturgico dell’elevazione durante il Canone era infatti ormai conosciuto in ogni luogo e l’esposizione dell’Eucaristia sempre più praticata. La richiesta, mediante un obolo ai sacerdoti, della celebrazione di sante messe, per ragioni di devozione, impetrazione di grazie o suffragio, portava con sé una visione meno comunitaria e piuttosto individualista. La diffusione di questa prassi è da ritenersi, tra l’altro, causa, non effetto, dell’ordinazione sacerdotale di molti monaci. La reiterazione dell’Eucaristia da parte del medesimo sacerdote per soddisfare le molte richieste provocò la reazione delle autorità ecclesiastiche che sanzionarono ripetutamente la prassi. Si pensi ai divieti di binazione comminati da Innocenzo III nel 1206 e, prima di lui, da Alessandro II (1061-1973) nel 1065. Il riflesso in ambito clericale della privatizzazione della celebrazione fu la progressiva crescita delle cosiddette apologie sacerdotali negli ordinari della messa, come emerge dai documenti fin dal ix secolo.

Quanto all’interpretazione della celebrazione eucaristica, in Italia fu accolto il metodo della lettura allegorica dei singoli riti inaugurato da Amalario di Metz (770/80-850), secondo il quale la messa è imitazione vera e reale della passione. Il genere dell’expositio missae e, in modo particolare, del canon missae risulta assai praticato dall’età carolingia in avanti. Tra le opere più significative in tale ambito è da annoverare il Mitrale di Sicardo di Cremona (1155-1215). Dal secolo xi si svilupparono pure commenti alle feste dell’anno liturgico.

La comprensione del sacramento dell’Eucaristia dovette confrontarsi con la crisi del linguaggio tipologico-figurale tipico dell’età patristica. Ne conseguì il prevalere del fisicismo, al fine di contrastare l’indebolimento dell’identità tra le specie consacrate e il Corpo di Cristo. L’offensiva contro il pensiero di Berengario di Tours (+ 1088), la cui concezione di sacramento non appariva in grado di custodire la realtà di ciò che accade durante la messa, si manifestò in territorio italiano prima a Vercelli (1050) e poi a Roma nei due sinodi del 1059 e del 1079. Un grande ruolo ebbero nella controversia Lanfranco di Pavia (+ 1089) e Guitmondo di Aversa (+ 1094) che, pur rimanendo ancorati al fisicismo, in relazione alle specie eucaristiche operarono una distinzione tra una dimensione che muta e una che resta immutata. Tale linea di pensiero fece da preludio all’elaborazione del concetto di transustanziazione operata dalla teologia scolastica con la decisiva riflessione di Tommaso d’Aquino (1225-1274). Concomitante fu la fioritura nella penisola di numerosi miracoli eucaristici. Quello avvenuto a Bolsena nel 1263 ebbe come riflesso, l’anno seguente, l’estensione della festa del Corpus Domini, già dal 1246 introdotta nella diocesi di Liegi, a tutta la Chiesa da parte di Urbano IV (1261-1264) mediante la bolla Transiturus, nella quale, tuttavia, non si fa alcun cenno all’evento prodigioso.

Figura di spicco, in ambito liturgico, nella seconda metà del xiii secolo fu Guglielmo Durando (1230 – 1296), francese d’origine, ma vissuto a lungo in Italia. A lui si deve la revisione del pontificale romano e il suo adattamento alle esigenze dei vescovi. Quest’opera costituì il punto di riferimento per le successive compilazioni. Ormai verso la fine del xiii secolo conobbe una tappa non irrilevante il processo di latinizzazione delle chiese bizantine della penisola: il sinodo di Melfi del 1284 rese per loro obbligatoria l’introduzione del Filioque nella professione di fede.

Secoli xiv-xvi. I secoli xiv e xv furono contrassegnati in Italia, come nel resto dell’Europa, da luci e ombre: a un intenso fervore culturale, si accompagnava il malessere dovuto ai conflitti e a grandi tragedie, tra le quali la pestilenza del 1380. La spiritualità vedeva il prevalere dell’individualismo sul senso ecclesiale con la conseguente fatica a considerare la liturgia, continuamente interpretata secondo i criteri dell’allegoria, una fonte essenziale per la spiritualità cristiana; a prevalere erano dunque le svariate forme della pietà popolare. In quest’epoca, per di più, il consolidarsi dell’istituto della commenda ebbe tra le sue conseguenze deleterie il disimpegno nella liturgia da parte di ecclesiastici, privi talvolta di ordini maggiori, o il suo esercizio in modi sconvenienti, sanzionati dal Concilio di Vienne (1312-13). Si aggiungano i contrasti tra clero diocesano e ordini mendicanti, continuamente dotati di privilegi, esenzioni e facoltà di agire nell’ambito della vita sacramentale. D’altra parte, le grandiose cattedrali sorte nelle città della penisola esigevano una liturgia celebrata con solennità e si dimostrarono luoghi adatti ad accogliere il gusto musicale che andava diffondendosi, più orientato a dilettare con la sua piacevolezza che a nobilitare il testo sacro, curandone l’intellegibilità. È documentato, soprattutto nella seconda metà del xiv secolo, il riordino delle regole per l’ufficiatura corale dei Capitoli. I fedeli erano avvertiti della preghiera con il suono delle campane e intervenivano direttamente quasi solo ai Vespri domenicali.

Nel 1334 papa Giovanni XXII (1316-1334), spinto dalla sua diffusione a livello locale, introdusse nel calendario universale della Chiesa la festa della Santissima Trinità nella domenica dopo Pentecoste, superando l’opposizione di principio fino ad allora sostenuta dalla Sede Apostolica, contraria a legare a un giorno specifico il mistero di Dio sempre celebrato. Gregorio XI (1370-1378) fissò al 21 novembre la festa della Presentazione di Maria al Tempio, Urbano VI (1378-1389) nel 1389 quella della Visitazione. La crescita continua dei giorni considerati festivi rende ragione della discussione che sarebbe avvenuta al Concilio di Costanza (1414-1418) in merito alla possibilità di lavorare dopo aver compiuto il dovere di presenziare alla messa. Fu di Urbano V (1362-1370), nel 1370, l’iniziativa di inviare Giacomo d’Itri (+ 1387/93), che avrebbe avuto poi parte attiva nello scisma d’Occidente, a visitare chiese e monasteri di rito bizantino per correggere gli “errori” dei loro libri liturgici, in particolare nella preghiera eucaristica. Nel confermare, l’anno seguente, le disposizioni del predecessore, papa Gregorio XI parlò di “alcune parole aggiunte” al testo del Canone che generavano una interpretazione erronea ed eretica e che andavano immediatamente cassate. I presunti “errori” individuati erano la supplica epicletica per la trasformazione del pane e del vino nel corpo e nel sangue di Cristo, che nelle anafore orientali viene dopo il racconto dell’istituzione.

Nel secolo xv si evidenziò la tendenza ad adottare, nel modo di celebrare, il fasto tipico delle corti signorili, parallelamente a una progressiva diminuzione della preoccupazione liturgico-pastorale. Lo si constata nei cerimoniali, redatti a partire dal pontificale di Guglielmo Durando, da illustri componenti della corte papale, quali Giovanni Burcardo (c. 1450-1506), Agostino Patrizi Piccolomini (c. 1435-1495) e Paride Grassi (c. 1460-1528). Si avvertiva, al contempo, l’aspirazione a una riforma della liturgia, dentro il quadro della più generale riforma della Chiesa “in capite et in membris” promossa dal Concilio di Costanza e intrapresa da alcuni vescovi.

Del Concilio di Firenze (1439-1445) si deve ricordare, nella Bolla Exsultate Domino (22 novembre 1439) sull’unione con gli Armeni, la precisazione del settenario sacramentale con la specificazione di materia e forma celebrativa. Poiché tale decreto ometteva la formula di consacrazione del Corpo e del Sangue del Signore, essa fu inserita nel decreto di unione con i copti e gli etiopi (4 febbraio 1442).

L’inizio del Cinquecento avvenne in Italia nel desolante quadro spirituale lasciato da Alessandro VI (1492-1503), per altro grande mecenate e protettore di insigni umanisti, contro il quale predicò Girolamo Savonarola (1452-1498). Al domenicano che dovette patire la scomunica e la condanna a morte per eresia, si deve il Trattato nobilissimo del sacramento, emblematico per intendere gli sviluppi dell’approccio allegorico alla celebrazione della messa, originatosi nell’alto medioevo. Giulio II (1503-1513), oltre ad accentuare lo splendore dei luoghi di culto, fondò la Cappella musicale che da lui prese il nome per garantire la celebrazione quotidiana delle Ore canoniche. Morì durante il Concilio Lateranense V (1512-1517) da lui convocato e proseguito da Leone X (1513-1521), al quale fu indirizzato un Libellus, nel quale si chiedeva l’unificazione di tutti i libri liturgici e, descritta la situazione deplorevole in cui versava la pietà dei fedeli, spesso vittime della superstizione e inclini a credere alla magia, si avanzava la proposta che durante il culto si usasse la lingua parlata. Recentemente la paternità dell’opera, da sempre attribuita ai nobili veneziani, poi monaci camaldolesi, Tommaso Giustiniani e Vincenzo Quirini, è stata ascritta al solo Giustiniani. Il Lateranense V affrontò la questione liturgica solo sotto il profilo disciplinare, dando però alcune regole per la formazione, che contemplano l’attenzione alla dimensione celebrativa. Negli anni successivi cominciarono a farsi strada interessanti tentativi volti a restaurare lo spirito liturgico nel clero a utilità dei fedeli. Il domenicano Alberto Castellani (o da Castello) preparò una nuova edizione del pontificale romano, dedicandola a Leone X e poco dopo compose un altro libro liturgico di ben più largo interesse, il Liber sacedotalis, nel quale raccolse tutti gli ordinamenti rituali di competenza presbiterale, riordinando tutte le leggi canoniche con attenzione pastorale. Tra l’altro vi incluse l’ordo missae composto da Burcardo, che Alessandro VI aveva deciso di far introdurre in tutti i messali di rito romano.

Il successo dell’opera di Castellani indusse Leone X a progettare una revisione del breviario, che affidò al vescovo Zaccaria Ferreri (1479-1524), il quale si dedicò soprattutto agli inni, ma non poté concludere l’opera, perché affidata da Clemente VII (1523-1434) prima a Gaetano da Thiene (1480-1547) e, in seguito, al cardinale spagnolo Francisco Quiñonez (c. 1482-1540); anche la proposta di quest’ultimo, certamente apprezzabile e per molti aspetti precorritrice dei tempi, non ottenne mai un’approvazione ufficiale.

La chiusura del Lateranense V coincise con il divampare della riforma protestante, per le cui vicende si rimanda all’abbondante trattatistica. La riforma cattolica pre-tridentina non aveva ignorato la causa della liturgia, pur fra differenti sensibilità nell’assumerla. Rimanendo nell’ambito dell’ufficiatura, il bisogno di rinnovamento si manifestò in ordini e congregazioni religiose che talora recuperarono lo stile dell’antico opus Dei benedettino (Eremitani), più spesso ne fecero l’espressione della pietà personale (Cappuccini, Barnabiti): i Gesuiti giunsero persino ad abolire il coro. Quanto ai fedeli, la loro attenzione continuò a essere rivolta soprattutto al culto eucaristico con l’incremento delle esposizioni del Santissimo Sacramento, anche nella forma delle cosiddette Quarantore, spesso animate da intenti riparatori, e con l’impulso dato alle Confraternite, nelle quali si coltivava l’abitudine alla comunione mensile.

Nei Padri conciliari riuniti a Trento fu forte la consapevolezza che un vera riforma cattolica, anche nel campo liturgico, si sarebbe potuta attuare solo grazie a un clero formato nei seminari. In ogni caso, si avvertiva l’esigenza di nuovi libri liturgici, la cui preparazione iniziò al termine dell’assise e condusse alla pubblicazione anzitutto del breviario nel 1568, segno dell’avvertita necessità di una nuova spiritualità sacerdotale, poi del messale nel 1570, con un ridimensionamento del santorale rispetto al de tempore, del martirologio nel 1583, del pontificale nel 1586, del cerimoniale dei vescovi nel 1600 e del rituale nel 1614. Nella bolla di pubblicazione del breviario comparve il criterio, esteso poi agli altri libri liturgici, che ne sanciva l’uso per tutte le Chiese d’occidente, a eccezione di quelle provviste di un rito risalente almeno a duecento anni prima. Tale disposizione ratificò la salvaguardia della liturgia ambrosiana, che, sotto san Carlo, avviò la revisione dei propri libri liturgici. In Occidente, fu decretata così la fine di tutte le altre espressioni rituali, ad eccezione del rito ispanico, conservatosi, per iniziativa del cardinale Cisneros, nella cappella del Corpus Christi all’interno della cattedrale di Toledo. Qualche intuizione pastorale di carattere liturgico emersa a Trento non ebbe conseguenze effettive: di fronte al pericolo protestante si ritenne maggiormente prudente non proporre la lettura in volgare delle epistole e dei vangeli. L’interpretazione allegorica dei riti era ormai consolidata insieme alla pratica della comunione spirituale, assai più sentita di quella eucaristica, prevista per i fedeli abitualmente al di fuori della messa. Prevalse invece la preoccupazione di riordinare dal punto di vista disciplinare ogni realtà inerente al culto. San Carlo Borromeo, fedele interprete delle direttive tridentine, si fece promotore a questo scopo di un concilio provinciale, svoltosi nel 1565, le cui risoluzioni ispirarono la legislazione di molte diocesi europee. Giovanni Pierluigi da Palestrina (1525/6-1594) con le sue composizioni polifoniche, ispirate alla purezza delle forme gregoriane e protese alla massima attenzione all’intelligibilità del testo, rappresentò, dal punto di vista musicale, l’esito più ragguardevole del disciplinamento attuato a Trento.

Verso la fine del secolo, nel 1588, nacque la Congregazione dei riti che diede grande importanza soprattutto alla fissazione delle rubriche, aspetto che sarebbe risultato determinante e, troppo spesso esclusivo nell’ambito della formazione del clero, almeno fino al sorgere del movimento liturgico.

Secoli xvii-xix. Il secolo xvii, l’età del barocco, mostra nella stessa architettura il prevalere della devozione sulla liturgia. Gli altari, dotati di una piccola mensa, erano concepiti come grandiosi monumenti con al centro il tabernacolo sovrastato dalla pala con le immagini dei santi venerati; le opere d’arte miravano a suscitare stupore e commozione. In tale clima la festa del Corpus Domini con la sua ottava acquistò in Italia sempre maggiore fasto. Al culto eucaristico si affiancava quello mariano che, dopo aver registrato l’istituzione della festa del Rosario, a ricordo della vittoria di Lepanto (1571), si apprestava ad assumere quella del Nome di Maria, per commemorare la cacciata dei Turchi da Vienna (1683), mentre andava rafforzandosi la devozione alla Vergine nel giorno di sabato e si intensificavano i pellegrinaggi con la continua edificazione di santuari.

Contro la spettacolarizzazione della liturgia, durante la quale suono e canto, dopo la misurata esperienza della polifonia rinascimentale, tendevano, mediante l’arricchimento strumentale, a forme di grande splendore, non sempre, però, idonee all’ordinamento celebrativo, intervenne nel 1643 la competente Congregazione romana, sanzionando l’introduzione di brani musicali non funzionali al rito e persino tali da subordinarlo alle loro esecuzioni. Nel frattempo, il rifiorito uso del latino ridestava l’interesse per l’innodia. Urbano VIII (1623-1644) promosse la correzione dei testi ad carminis et latinitatis leges. Durante il suo papato reagì, inoltre, al dilagare delle dottrine gianseniste con la bolla In eminenti del 1642, mentre, soprattutto dai Gesuiti, l’antidoto a tale spiritualità era individuato nel culto al Sacro Cuore di Gesù, inteso come riconoscimento dell’infinita misericordia divina. La festa liturgica, celebrata per la prima volta in Francia nel 1672, sarebbe stata estesa a tutta la Chiesa nel 1856.

Non mancarono nel Seicento raffinate sensibilità verso lo studio scientifico della liturgia come quella del cardinale Giuseppe Maria Tomasi (1659-1713), che si dedicò all’edizione di antichi sacramentari. Tra i commentatori va ricordato altresì il cardinale Giovanni Bona (1609-1674), che scrisse nel 1688 il trattato De Sacrificio Missae con qualche idea nuova sulla partecipazione dei fedeli.

Il contesto culturale del secolo dell’Illuminismo, teso all’esaltazione della ragione e in generale alle diverse forme del sapere, generò interesse ancora maggiore per gli studi liturgici. Tralasciando qui quanto prodotto nel resto d’Europa, degna di nota in Italia fu l’attività svolta da Ludovico Antonio Muratori (1672-1750) nell’ambito della ricerca storica, in una costante tensione a denunciare le degenerazioni subentrate nel culto e a proporre riforme per sostenere la spiritualità dei fedeli. Nel sua “operetta”, come egli stesso la chiamava, intitolata Della regolata devozione dei cristiani (1743) affrontò, tra l’altro, il tema della partecipazione del popolo alla messa. Già il cardinale Tomasi con una sua breve istruzione sul modo di assistervi fruttuosamente, edita nel 1710, aveva tentato di offrire un’alternativa alla più diffusa concezione devozionale, ulteriormente consolidata dalle Massime eterne (1728, con ristampe fino al xx secolo) di sant’Alfonso Maria de’ Liguori (1696-1787). Muratori si spinse fino a tradurre e a commentare l’ordinario della messa ed entrò nel dibattito a riguardo della comunione eucaristica, di cui aveva trattato l’anno prima papa Benedetto XIV (1740-1758) nell’enciclica Certiores, dopo la cosiddetta questione di Crema del 1737; si espresse pure contro la musica sacra posta al servizio del puro piacere e in merito alle feste di precetto, oggetto di ripetute controversie, auspicandone la riduzione a vantaggio di chi era costretto a lavorare. Sulla presa di posizione di papa Lambertini contro l’uso del volgare, non del tutto conforme alle idee da lui espresse da arcivescovo di Bologna, influì la preoccupazione di contrastare il giansenismo. Il pontefice aveva in animo riforme in campo liturgico, ma morì prima di riuscire ad attuarle.

Alla grande attenzione di Muratori alle fonti liturgiche, documentata nella sua opera dal titolo Liturgia romana vetus, è da associare quella di Francesco Antonio Zaccaria (1714-1795), autore della Bibliotheca ritualis, vera e propria storia dei libri liturgici unita alla prima bibliografia liturgica.

Pur tralasciando l’approfondimento dei risvolti che ebbe in Italia il giansenismo e dei suoi legami con le riforme promosse dal governo austriaco, non si può trascurare il loro punto di approdo rappresentato dal sinodo di Pistoia del 1786, promosso da Pietro Leopoldo, Granduca di Toscana dal 1765 al 1790 (poi Leopoldo II d’Asburgo- Lorena), animato dal teologo Pietro Tamburini (1737-1827) e guidato dal vescovo Scipione de’ Ricci (1740-1810), la cui ambizione a divenire il fulcro di una riforma, di evidente indole antiromana, estesa a tutta l’Italia fallì, anche per suoi atteggiamenti invisi ai fedeli, trascinandolo verso una condanna formale. Di per sé le proposte del sinodo erano molto all’avanguardia, anticipando scelte in materia liturgica che sarebbero state incoraggiate dal Vaticano II, quali l’introduzione della lingua volgare, la semplificazione dei riti, il divieto di celebrare più messe contemporaneamente nella stessa chiesa, la centralità della domenica e dell’Eucaristia parrocchiale. Già i vescovi toscani nel 1787 si dichiararono sfavorevoli alle risoluzioni di Pistoia; nel 1794 con la bolla Auctorem fidei Pio VI (1775-1799) condannò ottantacinque tesi, giudicandone alcune eretiche, altre scismatiche. Nel 1805 Scipione de’ Ricci avrebbe abiurato le sue tesi in un incontro a Firenze con Pio VII (1800-1823), il papa che nello stesso anno, il 23 maggio, con un rito trionfalistico incoronava, nel Duomo di Milano, Napoleone re d’Italia. Se, dopo il tentativo di distruzione del culto cristiano operato dalla rivoluzione francese, l’imperatore sembrò restaurarlo, abolendo il calendario repubblicano e ripristinando quello tradizionale, le sue reali intenzioni si palesarono con nuove soppressioni degli ordini religiosi e la conferma di quelle già avvenute. Con la successiva restaurazione non fu semplice eliminare i disagi che si erano creati nel regolare svolgimento del culto, anche a motivo della secolarizzazione, o persino della distruzione, di molte abbazie, chiese e conventi.

Nonostante queste difficoltà, nei primi anni del xix secolo si percepiva un movimento per la partecipazione dei fedeli alla liturgia: comparvero infatti parecchie traduzioni del messale a uso dei fedeli e si moltiplicarono testi illustrativi e di commento. Si pensi alla Guida liturgica (1829-30) di Giuseppe Maria Pavone, al Dizionario sacro liturgico (1931-32) di Giovanni Diclich o, in ambito milanese, alle Memorie storiche relative al rito ambrosiano (1824) di Giacinto Ferrario e agli studi di Luigi Biraghi (1801-1879). È nota, altresì, la denuncia della “divisione del popolo dal clero nel pubblico culto”, espressa da Antonio Rosmini (1797-1855) nel suo libro Delle cinque piaghe della Santa Chiesa, scritto nel 1832, ma pubblicato nel 1848, nel quale identifica tra le cause l’uso del latino. La Santa Sede non si mostrava incline a introdurre novità. Lo dimostrano l’atteggiamento di Gregorio XVI (1831-1846), che nel 1841 non approvò una rinnovata edizione del breviario ambrosiano, e di Pio IX (1846-1878) che nel concistoro del 9 dicembre 1854 invitava a istruire i fedeli solo a una presenza devota alla santa messa. Si comprende dunque il successo del Manuale di Filotea di Giuseppe Riva (1803-1876) che continuava ad affiancare ai momenti della celebrazione eucaristica gli eventi della vita di Cristo, per suscitare sentimenti corrispondenti alle diverse circostanze. Un’autentica spiritualità liturgica poteva essere coltivata solo da chi aveva la cultura sufficiente per intendere i testi.

Nel corso dell’Ottocento la musica usata durante le celebrazioni si andò caricando sempre più di teatralità, tanto da suscitare giudizi negativi anche al Concilio Vaticano I che, apertosi l’8 dicembre 1869, non ebbe il tempo di affrontare la questione liturgica, essendo stato aggiornato sine die il 20 ottobre 1870.

Fonti e Bibl. essenziale

C. Alzati, Ambrosianum Mysterium. La Chiesa di Milano e la sua tradizione liturgica (Archivio Ambrosiano 81), Milano 2000; C. Alzati, Aquileia, in Dizionario della Chiesa ambrosiana 1, Milano 1987, 196-198; C. Alzati, Landolfo Seniore, in Dizionario della Chiesa ambrosiana 3, Milano 1989, 1655-1658; C. Bernardi, La drammaturgia della Settimana santa in Italia, Milano 1991; P. Borella, Il Rito ambrosiano, Brescia 1964; I. Calabuig, Il culto di Maria in Oriente e in Occidente, in A. J. Chupungco (ed.), Tempo e spazio liturgico (Scientia Liturgica. Manuale di Liturgia 5), Casale Monferrato (Al) 1998, 255-337; P. Caspani, Pane vivo spezzato per il mondo. Linee di teologia eucaristica, Assisi 2011; A.J. Chupungco – K.F. Pecklers, Storia della liturgia romana, in A.J. Chupungco (ed.), Introduzione alla liturgia (Scientia Liturgica. Manuale di Liturgia 1), Casale Monferrato (Al) 1998, 145-194; E. Cattaneo, Il culto cristiano in Occidente. Note storiche (Bibliotheca Ephemerides Liturgicae Subsidia 13), Roma 21992; D. De Bruyne, Les notes liturgiques du Codex Forojuliensis, in Revue Bénédictine 30 (1913), 208-218; C. Folsom, I libri liturgici romani, in A. Chupungco (ed.), Introduzione alla liturgia (Scientia Liturgica. Manuale di Liturgia 1), Casale Monferrato (Al) 1998, 263-330; P. Giustiniani, Un eremita al servizio della Chiesa (Il Libellus ad Leonem X e altri opuscoli) (Scritti del Beato Paolo Giustiniani 3), Cinisello Balsamo (Mi) 2012; P. Golinelli, Città e culto dei santi nel Medioevo italiano (Biblioteca di storia urbana medievale 4), Bologna 1996; J.A. Jungmann, Missarum Sollemnia (ed. anastatica), Milano 2004 (orig. Missarum Sollemnia. Eine genetische Erlärung der römischen Messe, Wien 1949); S. Marsili et alii (edd.), La Liturgia, panorama storico generale (Anamnesis. Introduzione storico-teologica alla Liturgia 2), Genova 1978 (rist. 1996); G. Morin, La liturgie à Naples au temps de Saint Grégoire, in Revue Bénédictine 8 (1891), 481-493.529-537; G. Morin, L’année liturgique à Aquilée antérieurement à l’époque carolingienne d’après le codex Evangeliorum Rehdigeranus, in Revue Bénédictine 19 (1902), 1-12; G. Morin, Les notes liturgique de l’Évangéliaire de Burchard, in Revue Bénédictine 10 (1893), 113-126; S. Parenti, Orientali, Liturgie, in D. Sartore – A.M. Triacca – C. Cibien (edd.), Liturgia, Cinisello Balsamo (Mi) 2001, 1385-1403; S. Parenti, A Oriente e occidente di Costantinopoli. Temi e problemi liturgici di ieri e di oggi (Monumenta Studia Instrumenta Liturgica 54), Città del Vaticano 2010; M. Righetti, Manuale di Storia liturgica 1-4 (ed. anastatica), Milano 1998; Ph. Rouillard, Il culto dei santi in Oriente e in Occidente, in A.J. Chupungco (ed.), Tempo e spazio liturgico (Scientia Liturgica. Manuale di Liturgia 5), Casale Monferrato (Al) 1998, 338-355; N. Valli, L’ordo evangeliorum a Milano in età altomedievale (Monumenta Studia Instrumenta Liturgica 51), Città del Vaticano 2008; C. Vogel, Introduction aux sources de l’histoire du culte chrétien au moyen âge (Biblioteca degli Studi Medievali 1), Spoleto 1965; A. Angenendt, Liturgia e Storia. Lo sviluppo organico in questione, (Leitourgia.Sezione storico-pastorale), Assisi 2005, 169-208; R. Tagliaferri, Il travaglio del cristianesimo. Romanitas Christiana (Leitourgia.Sezione antropologica), Assisi 2012, 111-145; K. Pecklers, Atlante storico della liturgia, Milano 2012], 82-153.


LEMMARIO




Lotta per le investiture - vol. I


Autore: Tommaso di Carpegna

Con questa espressione, presente da oltre un secolo nella storiografia, si indica la serie di conflitti combattuti per quasi un cinquantennio (1075-1122) tra il papato riformatore e l’Impero per il conferimento dei benefici ecclesiastici (soprattutto vescovati e abbazie). Si tratta di una contesa giuridica ben percepita dai contemporanei al livello di superficie, ma sotto la quale si agitava uno scontro di fondo e dalle dimensioni molto più ampie: se cioè la società cristiana dovesse riconoscere l’Impero oppure la Chiesa come l’istituzione unitaria che le dava forma e da cui riceveva direzione. La posizione dell’imperatore (e, dietro di lui, di tutta la Chiesa imperiale, la Reichskirche) era di tipo tradizionale: il sovrano, persona consacrata, re e sacerdote come Davide e Cristo, aveva il diritto di investire i chierici di una funzione sacra e di provvederli di benefici, in quanto costoro, oltre a ricoprire ruoli di governo civile (e dunque potendo naturalmente ottenere l’incarico in quanto officiali regi o imperiali), erano parte integrante dell’Impero, questa volta inteso come istituzione sacra. Non si trattava dunque di procedere all’ordinazione dell’eletto (atto sacramentale che fu sempre riservato al clero), né, almeno in linea teorica, di sceglierlo, poiché al contrario vescovi e abati avrebbero dovuto essere eletti canonicamente, gli uni dal clero e dalla popolazione della loro città, gli altri dai confratelli. L’imperatore, però, poteva conferire all’eletto sia l’ufficio civile sia quello religioso. Questo avveniva attraverso la cerimonia della traditio o investitura, durante la quale il sovrano consegnava all’eletto l’anello e il pastorale, intendendo così che la dignità episcopale era al contempo spirituale e temporale. Questa procedura comportava, di fatto, che l’imperatore non solo fosse in grado di approvare l’eletto conferendogli l’incarico, ma che godesse altresì della prerogativa di scegliere le persone cui attribuire le dignità: cosa che in effetti avveniva dal tempo degli Ottoni in buona parte dell’Impero, dove la Reichskirche formava l’ossatura dell’amministrazione.

La Chiesa romana seguì l’indirizzo imperiale fino al 1058-1059. In quel periodo si colgono le prime avvisaglie del cambiamento: l’opera Adversus simoniacos di Umberto di Silvacandida proclamò che i prìncipi non avevano alcun diritto di conferire l’investitura di uffici religiosi, e in una versione del Decretum in Nomine Domini non si ricordò la necessità dell’intervento imperiale nell’elezione del papa. Tanto l’opera di Umberto di Silvacandida quanto il decreto di Nicola II non delineavano affatto uno scontro frontale con l’Impero, quale si sarebbe prodotto solo a partire dal pontificato di Gregorio VII; tra l’altro, l’opera del cardinale Umberto ebbe un impatto molto limitato. Si andava però delineando in quel tempo una ridefinizione complessiva del concetto di Chiesa: un concetto via via più esclusivo e gerarchico, tendente alla separazione tra la sacralità del clero e la profanità dei laici e che, soprattutto nell’ambiente più rigoroso, intendeva escludere questi ultimi da qualsivoglia intervento nella sfera ecclesiastica (anche quando, come in questo caso, l’elemento temporale era indissolubilmente legato a quello spirituale). Dietro a questa concezione vi era la costruzione di un’idea di corpo sociale corrispondente non più all’Impero, bensì alla Chiesa romana, il cui capo, il pontefice, avrebbe dichiarato di rappresentare il vertice della Cristianità. Gregorio VII (1073-1085) portò la lotta per le investiture al grado di incandescenza con i sinodi del 1075, 1078 e 1080, con la deposizione e scomunica dell’imperatore (1076), con l’equiparazione tra investitura laica ed eresia e con la minaccia di delegittimare tutti i chierici che avessero ricevuto investiture dal potere pubblico. La reazione imperiale e della Reichskirche, d’altro canto, fu durissima e portò alla deposizione di Gregorio VII e all’elezione di un altro pontefice, Guiberto di Ravenna-Clemente III (1080-1100). In quel periodo, numerosissimi furono i libelli politici scritti per difendere o per attaccare le due posizioni contrapposte. La contesa non si spense con la morte di Gregorio VII (1085) ma continuò con toni aspri sotto Urbano II, che la allargò ai regni di Francia e d’Inghilterra. Dei suoi anni è la Collectio canonum del cardinale Deusdedit, in cui sono espresse posizioni radicali. Una via verso la composizione cominciò a delinearsi al tempo di Pasquale II ed Enrico V, che tentarono un accordo nel 1111, subito fallito. Preso prigioniero dal sovrano, Pasquale II fu obbligato a emanare un privilegio in cui gli riconosceva il diritto di investitura, che fu immediatamente chiamato “pravilegium” dagli oppositori. Callisto II ed Enrico V ripresero le trattative tentando di distinguere, nell’investitura, l’elemento religioso da quello temporale, così come suggerivano i grandi canonisti parigini. Proprio su questa via si poté finalmente giungere al Concordato di Worms (23 settembre 1122). Si tratta di un documento compromissorio che contiene due dichiarazioni congiunte. L’imperatore Enrico V dichiarò di rimettere alla Chiesa l’investitura con l’anello e il pastorale e di riconoscere a tutte le chiese dell’Impero la libera elezione e consacrazione dei chierici. Di converso, papa Callisto II dichiarò di consentire che i vescovi e gli abati del regno di Germania fossero eletti in presenza del re e che in caso di discordia fosse il re ad arbitrare la scelta. In Germania il re avrebbe accordato i regalia (cioè i diritti regi) prima della consacrazione; in Italia e Borgogna (le altre regioni dell’Impero), avrebbe proceduto entro sei mesi dalla consacrazione. In tal modo si lasciava al sovrano libertà di azione in Germania, mentre questa veniva limitata in Italia e in Borgogna, cosicché l’accordo di Worms fu di fatto favorevole alla Chiesa romana. Benché in seguito le ostilità riprendessero anche in forma accesa, si era però ormai giunti alla definizione di un principio cardine che avrebbe informato tutta la storia politica basso medievale: all’imperatore, seppure al massimo grado, spettava solo il governo delle cose temporali. La tradizionale simbiosi tra regalità e sacralità già si avviava al tramonto. La storiografia che affronta questo tema ha da gran tempo selezionato alcuni episodi narrativamente evocativi, tra i quali spicca soprattutto, come emblematico, l’incontro di Canossa tra il pontefice e l’imperatore penitente (gennaio 1077). Attualmente si discute se questa scelta nella linea del racconto corrisponda davvero alla complessa dinamica degli accadimenti e sia utile alla comprensione del fenomeno generale di crisi e rinnovamento al cui interno si colloca la lotta per le investiture.

Fonti e Bibl. essenziale

A. Fliche, La riforma gregoriana e la riconquista cristiana, 1057-1123, SAIE, Torino 1959 (ediz. orig. La Réforme grégorienne, Spicilegium sacrum Lovaniense, Louvain 1924-1937); O. Capitani, Papato e Impero nei secoli XI e XII, in Storia delle idee politiche, economiche e sociali, diretta da L. Firpo, II/2, Il Medioevo, UTET, Torino 1983, 117-163 ; G. Tellenbach, Reich und Kirche vor dem Investiturstreit, a cura di K. Schmid, Thorbecke, Sigmaringen 1985; U.-R. Blumenthal, The Investiture Controversy: Church and Monarchy from the Ninth to the Twelfth Century, University of Pennsylvania Press, Philadelphia (PA) 1988; G.M. Cantarella, Dalle chiese alla monarchia papale, in G. M. Cantarella, V. Polonio, R. Rusconi, Chiesa, chiese, movimenti religiosi, a cura di G.M. Cantarella, Laterza, Roma-Bari 2001, 3-79; M. Miller, The Crisis in the Investiture Crisis Narrative, «History Compass», 7/6 (2009), 1570-1580.


LEMMARIO




Magia e stregoneria – Vol. I


Autore: Michal Brywczynski

 

La credenza nell’esistenza della magia, intesa come quella particolare forza che, per mezzo di specifici rituali magici, compiuti da certi particolari individui, ossia maghi, stregoni, sciamanni, indovini ecc., di entrambi i sessi, o dovuta a esseri soprannaturali, si presume riesca ad esercitare un particolare dominio sulle forze della natura e anche sull’essere umano volgendole alla volontà di chi tali pratiche compia, come anche nell’esistenza della stregoneria, strettamente associata alla magia, intesa come l’esercizio di queste pratiche magiche proprio da parte di questi speciali individui che si presume possano influenzare sia positivamente (magia bianca) che negativamente (magia nera) la natura e gli uomini, è presente nella maggior parte delle culture antiche e moderne.

Il cristianesimo, subentrando gradualmente alla religione e alla cultura greco-romana, dovette inevitabilmente confrontarsi e scontrarsi con questa realtà magico-pagana, che sarebbe perdurata per lunghi secoli ancora, soprattutto nelle aree rurali. Per il cristianesimo la religione pagana e le pratiche magiche rappresentano tutt’uno, perché tutte e due sono idolatre e non sono altro che il residuo e la sopravvivenza di antichi culti e credenze, per cui vengono considerate semplicemente come un’insieme di “superstizioni”. Inoltre, il cristianesimo, soprattutto con Sant’Agostino, aggiunge un altro elemento, ossia il fatto di considerare sia il culto degli antichi dei pagani così come anche le superstizioni popolari niente meno che come opera dell’antico nemico, Satana, il quale, insieme ai suoi servi, i diavoli, che nel mondo antico erano conosciuti e chiamati “demoni”, ossia quei esseri o spiriti intermediari tra le divinità e l’uomo che interagivano nel mondo, come gli dei, negativamente o positivamente, in questo modo abilmente ingannava gli uomini. In sostanza i pagani credendo di adorare gli dei in realtà prestavano inconsapevolmente il culto a Satana e dunque anche le arti magiche erano considerate come opera del diavolo.

Proprio per questo motivo la Chiesa, nel corso dell’Alto Medioevo, considerò la magia e la stregoneria, affianco al culto degli dei e alle tradizioni greco-romane, come residui del paganesimo e soprattutto come effetto delle illusioni demoniache. Nel processo, lento e graduale, di conversione dei popoli pagani al cristianesimo, la Chiesa cercò di estirpare le antiche credenze e di sostituirle con il culto del vero Dio attraverso le predicazioni popolari e la diffusione del culto dei santi e dei miracoli che essi compivano e delle loro reliquie, ma anche attraverso l’imposizione di penitenze per chi continuasse a praticarle. Un altro aspetto che caratterizza questo periodo è il fatto che viene messo in dubbio, da parte di diversi scrittori ecclesiastici e nei testi normativi, la presunta capacità delle streghe di dominare le forze della natura, la volontà degli uomini, danneggiando loro, i loro raccolti o averi, e soprattutto la possibilità di effettuare un volo notturno a seguito della dea pagana Diana o di Erodiade, che nei secoli successivi rappresenterà la classica prova del fatto che si tratti di una vera e propria strega, serva del demonio. La credenza nell’esistenza di questo fenomeno veniva spiegata come effetto di un’illusione diabolica o frutto dell’immaginazione e chi vi prestava fede doveva scontare una penitenza. Tuttavia, il tema della cavalcata notturna delle donne avrebbe, a partire dal quel momento, conosciuto una diffusione e si sarebbe arricchito di tanti altri dettagli oscuri. L’immagine di alcune donne che di notte, possibilmente di sabato, volano sopra certe bestie o su un bastone o scopa, dopo essersi cosparse di un particolare unguento, per raggiungere dei luoghi di adunanze notturne (i cosiddetti “sabba”) allo scopo di adorare Satana, con cui precedentemente avevano stipulato un patto concedendogli la propria anima, sottoforma di un caprone, che prendono parte a delle danze, orge e banchetti osceni e commettono uccisioni rituali di bambini, dei quali bevono sangue e mangiano i corpi, che poi fanno risuscitare, o di altre vittime sia umane che animali, rappresenta la fase finale e completa del processo di “invenzione” della figura della strega.

In linea di massima si può osservare che fino alla prima metà del XIII secolo il problema della magia e delle stregoneria occupa un posto marginale nella vita della Chiesa. I processi e condanne a morte di maghi e di streghe non mancano certamente neanche in questo periodo, ma si tratta di casi isolati e circostanziati. Tuttavia, a partire da questo momento e a causa di diversi mutamenti socio-economici, istituzionali, teologici, dottrinali comincia a farsi strada, gradualmente, un nuovo tipo di atteggiamento, sempre più intollerante, nei confronti di questi fenomeni. La magia e la stregoneria non vengono più viste solo come un residuo del paganesimo da sradicare né più come effetto delle illusioni diaboliche, dunque viene affermata la loro reale esistenza. Adesso le pratiche magiche cominciano ad essere collegate direttamente con l’azione del demonio, che per mezzo di esse, attraverso l’uomo, può compiere realmente il male e danneggiare gli uomini. Con San Tommaso la magia viene inserita nella trattazione teologica e comincia ad essere equiparata all’eresia, appunto perché contraria alla fede in Dio, e in quanto tale perseguita. Inoltre, egli introduce, seguendo Sant’Agostino, il concetto del patto con il demonio, un aspetto che nei processi contro le streghe sarebbe stato determinante per l’accertamento della colpevolezza dell’inquisito. Tra il XII e il XIII secolo, la Chiesa con l’apparire dell’eresia catara e valdese, e di altre sette minori, che mettevano in questione alcune verità di fede e sostenevano dottrine eterodosse, cominciò ad essere molto più attenta ed intollerante verso ogni forma di manifestazione di dissenso religioso e contraria alla fede. Un altro fattore che ebbe profonde ripercussioni sulla magia e sulla stregoneria fu la nascita dell’Inquisizione (1231-1234), sotto Gregorio IX, per porre rimedio all’eresia e prevenirla, che in seguito allargò il concetto di eresia anche alle pratiche magiche, sotto Alessandro IV, con la bolla Quod super nonnullis del 1258 e poi successivamente con la bolla Super illius specula del 1326 o 1327 di Giovanni XXII. L’autorizzazione da parte di Innocenzo IV nel 1252, con la bolla Ad extirpandam, dell’uso della tortura nei processi contro gli eretici fu fondamentale per gli sviluppi e la diffusione del fenomeno della caccia alle streghe, dal momento che sotto tortura le vittime confessavano anche le colpe di cui non si erano macchiate e fornivano, su richiesta degli inquisitori, i nomi dei presunti complici moltiplicando così il numero dei presunti colpevoli. È da sottolineare, inoltre, che a partire dalla fine del secolo XI, e soprattutto nel corso del XII e XIII secolo, affianco alla figura di chi fa uso delle arti magiche per nuocere alleandosi con il demonio, ossia di chi pratica la magia nera, sorge la figura dello “scienziato”, che pratica un tipo di magia bianca o colta, il quale con la propria intelligenza, ma anche con l’ausilio di alcune scienze come l’alchimia e l’astrologica, si sforza di scoprire i meccanismi che regolano la natura per dominarla. Tuttavia, anche questo tipo di “magia” spesso finì per esser associato alla magia nera e pertanto anch’esso fu talvolta perseguito come eresia.

Nel corso del XIV, assimilato ormai il concetto della stretta relazione della magia con l’eresia, che tuttavia non esclude che i due termini sino ancora perfettamente distinguibili, i processi, sia da parte dei tribunali ecclesiastici come da parte dei tribunali civili, che spesso entravano in conflitto tra loro, contro le pratiche magiche e la stregoneria si fanno sempre più frequenti e più violenti. Essendo, nella seconda metà del XIV secolo, quasi del tutto scomparso il pericolo cataro, l’Inquisizione concentrò la propria attenzione sugli altri pericoli che minacciavano la cristianità, tra i quali un posto centrale fu assegnato alla magia e alla stregoneria, che comunque erano molto vicine all’eresia. Nel corso del Trecento la società si sente sempre più minacciata dalla magia e dalla stregoneria a causa del diffondersi di uno stato collettivo di paura e di angoscia, dell’ossessione della morte, della percezione della presenza continua del demonio in ogni parte, e a causa di diversi sconvolgimenti come le carestie, sempre più frequenti, le guerre, le rivolte, i disastri climatici, e soprattutto la Peste nera che aveva provocato la morte di un terzo dell’intera popolazione europea. Tutti questi flagelli vengono visti come l’effetto dell’ira divina ma anche come effetto di una congiura da parte di un nemico esterno, ossia di una vera e propria “setta” di streghe e stregoni, che attirano sulla cristianità tutti questi mali. Pertanto si cercano dei capri espiatori ai quali poter addossare le colpe: così vengono colpiti dalla persecuzioni gli ebrei, i lebbrosi, i guaritori e infine i maghi e le streghe. Inoltre, un altro aspetto che va sottolineato è che ormai la realtà e la veridicità della stregoneria, a partire soprattutto dal Quattrocento, è pienamente affermata, dunque diventa un errore e peccato grave pensare che essa sia solo un’illusione demoniaca o frutto di un’immaginazione. La magia e la stregoneria esistono veramente, sono opera del demonio e dei suoi adoratori, rappresentano un serio pericolo per il gregge cristiano e pertanto devono essere perseguite ed estirpate come l’eresia. Nel corso del XV secolo la minaccia rappresentata dalla stregoneria e dalla magia si fa sempre più evidente ed è testimoniata in diversi scritti e trattati concernenti la demonologia e soprattutto nei manuali degli inquisitori, che cominciano ad apparire a partire dal Trecento, di cui certamente il più famoso è il Malleus maleficarum del 1486, contenente tutto il sapere finora accumulato riguardante la stregoneria e il modo di combatterla, che conobbe un’enorme successo e diffusione anche nei secoli successivi, opera di due domenicani tedeschi, Krämer (Institor) e Sprenger, ai quali qualche anno prima (1484) Innocenzo VIII aveva indirizzato una bolla Summis desiderantes affectibus, con la quale avevano ricevuto l’incarico di estirpare la stregoneria in alcune regioni della Germania in qualità di inquisitori. Prima di Innocenzo VIII, due papi si erano espressi contro la stregoneria: Nicolò V, nel 1451, ordinando agli inquisitori indagare sulla stregoneria anche se non vi era un esplicito collegamento con l’eresia e Callisto III, nel 1457, irrigidendo le misure da adottare contro i reati di stregoneria nel territorio di Brescia.

A partire dal XV secolo, in particolar modo verso la fine del secolo, nel quale ora mai la figura della strega appare del tutto codificata, fino alla prima età del secolo XVII, e in alcuni casi anche oltre, l’Europa conobbe quel fenomeno che nella storiografia viene definito come la “caccia alle streghe”, una persecuzione violentissima, che coinvolse quasi tutta l’Europa in particolare la Germania, la Svizzera, la Francia, Paesi Bassi, e in misura minore l’Italia e la Spagna, mietendo migliaia di vittime.

In Italia la persecuzione delle streghe ebbe luogo soprattutto nella seconda metà del Quattrocento e nei primi vent’anni del Cinquecento, ricomparendo poi negli anni ottanta e novanta del secolo e all’inizio del secolo successivo, in particolar modo nella zona centro-nord del paese: Val d’Aosta, Piemonte, Lombardia e la regione delle Alpi (Valcamonica, Tirolo, Valtellina) e qualche altro caso isolato nel resto del territorio italiano (Toscana). In Italia, rispetto al resto dell’Europa, il numero delle vittime di queste persecuzioni, così come avvenne anche in Spagna e in Portogallo, fu molto minore e ciò fu dovuto all’azione “moderatrice” svolta dalla Congregazione della sacra Inquisizione romana, istituita nel 1542 da Paolo III, che riuscì spesso a mantenere un atteggiamento scettico nei confronti di alcuni presunti casi di stregoneria, evitando così dei processi di massa, e all’azione di controllo, non sempre efficace, esercitata sui tribunali ecclesiastici locali, non sempre inclini a mettere in pratica i dettami della Congregazione.

Fonti e Bibl. Essenziale

F. Bolzoni, Le streghe in Italia, Bologna 1963; J. B. Russel, Witchcraft in the Middle Ages, Ithaca-London 1972; M. Romanello, La stregoneria in Europa (1450-1650), Bologna 1975; R. Manselli, Magia e stregoneria nel Medio Evo, Torino 1976; F. Cardini, Magia, stregoneria, superstizioni nell’Occidente medievale, Firenze 1979; G. Bonomo, Caccia alle streghe. La credenza nelle streghe dal sec. XIII al XIX con particolare riferimento all’Italia, Palermo 19853; J.-C. Schmitt, Medioevo «superstizioso», Roma-Bari 1992; Id., Stregoneria, in Dizionario dell’Occidente medievale. Temi e percorsi, a cura di J. Le Goff – Id., vol. II, Torino 2004, 1134-1146; R. Kieckhefer, La magia nel Medioevo, Roma-Bari 1993; G. Romeo, I processi di stregoneria, in Storia dell’Italia religiosa, vol. II, a cura di G. De Rosa – T. Gregory, Roma-Bari 1994, 189-209; Stregoneria e streghe nell’Europa moderna. Convegno internazionale di studi (Pisa, 24-26 marzo 1994), a cura di G. Bosco – P. Castelli, Pisa 1996; G. G. Merlo, Streghe, Bologna 2006; Caccia alle streghe in Italia tra XIV e XVII secolo. Atti del IV Convegno nazionale di studi storico-antropologici, Triora (Imperia), 22-24 ottobre 2004, Bolzano 2007; A. Prosperi, Tribunali della coscienza. Inquisitori, confessori, missionari, Torino 2009; P. Dinzelbacher, Stregoneria, età medievale, in Dizionario storico dell’Inquisizione, diretto da A. Prosperi, vol. III, Pisa 2010, 1517-1521; V. Lavenia, Stregoneria, Italia, in Ibid., vol. III, 1521-1530.


LEMMARIO




Maria Santissima - vol. I


Autore: Luca Di Girolamo

Maria 1Introduzione. Tracciare in poche pagine il complesso fenomeno del culto e della devozione mariana nel nostro paese è particolarmente arduo in quanto la religiosità italiana, nella quale la Madre del Signore ricopre un ruolo singolare, si colloca in osmosi continua con il vissuto quotidiano. In questo contributo di natura storico-teologica e culturale relativo all’Italia, prima di tracciare il percorso storico compiutosi nella nostra penisola offriremo qualche elemento generale che possa illustrare il fenomeno cultuale e devozionale e, successivamente, i caratteri che costituiscono il legame particolare tra l’Italia e S. Maria.

Significato del culto e della devozione mariana. Nel n. 56 della esortazione apostolica Marialis cultus, Paolo VI, dopo aver affermato la centralità dell’amore come tratto distintivo del disegno di Dio, aggiunge in riferimento diretto alla Madre del Signore: «Egli l’amò ed in lei operò grandi cose (cf. Lc 1,49); l’amò per se stesso e l’amò anche per noi; la donò a se stesso e la donò anche a noi» (Paolo VI, Marialis cultus n. 56). Poche, ma dense parole che ci offrono la chiave interpretativa più adatta ad illustrare il significato e la valenza del culto mariano. Ciò assume una rilevanza antropologica fondamentale se si considera come l’uomo sin dagli inizi e nelle sue varie scansioni epocali, si mostra come homo religiosus, bisognoso cioè di una relazione trascendente. Ecco allora che il culto-dono va a toccare le radici esistenziali più profonde dell’uomo in ordine ad una risposta alla domanda di senso. Maria si colloca perciò al punto di incontro di due strade: è dono di Dio, ma lo è anche il culto a lei tributato che permette alla comunità di riconoscere nella Madre di Dio la creatura che vede esaudita la personale ed universale questione sul significato dell’esistenza umana.

In tal modo Maria, pur condividendo la condizione dell’umanità pellegrina nel tempo, è però pienamente conformata a Dio da assumere una condizione unica rispetto al nostro essere. Come il Figlio venuto a compiere l’AT, anche Maria si esprime nei tratti della continuità/discontinuità: creatura umana, ma eletta e fatta segno di un favore speciale da parte di Dio, al punto di rappresentare, secondo il noto teologo H.U. von Balthasar (†1988), il sì divino realizzante rivolto all’uomo (cf. H.U. von Balthasar, Maria. Il sì di Dio all’uomo). È chiaro però che la coscienza credente ha accentuato maggiormente la discontinuità e lo ha fatto mossa appunto dalla fede espressa dal singolo e dalla comunità e che l’ha condotta, nel corso del tempo, a forme devozionali talvolta piuttosto discutibili. In tal senso l’ “io credo” della fede è pur sempre il “noi crediamo”, ossia il luogo in cui si vengono ad incontrare il Dio per tutti e la domanda sul senso che possiede un carattere universale.

Guardando alla vicenda esistenziale di Maria, partecipe dell’opera del Dio Uno e Trino che è il fondamento del vero culto in Spirito e verità (cf. Gv 4,23), appare chiaro che il culto e la devozione rivolti a S. Maria vanno inquadrati nell’osmosi Lex orandilex credendi, che rappresentano la piattaforma della vita cristiana manifestata in diverse forme sottoposte allo scorrere del tempo e da esso definite sul piano culturale.

Un ulteriore ampliamento del nostro discorso è rappresentato dalla dimensione sociologica del culto mariano. G. Scarvaglieri non esita a definire il fenomeno mariano come fatto sociale, cioè luogo in cui, da un lato, convivono caratteristiche sociali e, dall’altro, elementi storico-teologici immersi in un flusso dinamico ed evolutivo. Entrambi i fattori, a loro volta, si condensano attorno a quattro canali strutturali propri del fenomeno religioso: il piano delle credenze riguardante la concettualizzazione del fenomeno mariano: dogmi e teologia, il carattere proprio della liturgia, la dimensione comunitaria tipica del formarsi di gruppi, associazioni e movimenti e, non meno importante, la dimensione morale che esplicita e addita al credente la singolarità esemplare della Madre di Dio (cf. G. Scarvaglieri, Sociologia, 1115-16). Tuttavia un culto ed una vera devozione per essere realmente fecondi non possono ignorare il passaggio dalle due leges (orandi e credendi) alla lex vivendi, ossia alla testimonianza vera e coerente del dono del messaggio salvifico che abbiamo ricevuto e del modello esistenziale che Maria rappresenta per il popolo cristiano. La Pontificia Accademia Mariana Internazionale (= PAMI) evidenzia con pochi ed efficaci tocchi la sostanza più profonda di questo tema complesso e composito nelle sue determinazioni quando considera la positività di una pietà mariana che deve risolversi nel servizio degli uomini, soggetti a tanti pericoli ed insidie (cf. Pami, La Madre del Signore. Memoria, presenza, speranza, n. 76).

A partire da questa coscienza, soprattutto in epoca moderna e contemporanea, le migliori energie della carità del popolo cristiano si sono offerte per consolidare al suo interno l’unità e la pace non solo spirituale, ma anche materiale e sociale e contribuendo, quanto più possibile e guardando alla Madre del Signore, a condizioni più vivibili. In una parola all’edificazione di quel Regno di cui l’assemblea dei credenti è, su questa terra, già figura anticipatrice. Ciò vale in modo particolare per l’Italia, paese di antica cristianità.

L’Italia e Maria. Proprio come terra di antica cristianità, l’Italia vede attuato sul suo territorio un processo di inculturazione che, sul piano della devozione e del culto alla Madre di Dio, possiede innumerevoli manifestazioni nel corso del tempo. La presenza di S. Maria nel nostro territorio può essere considerata attraverso due dimensioni che, pur nella loro diversità, sono tra loro connesse: una prima di natura culturale che va a toccare i nuclei letterari, artistici, filosofico-teologici e l’altra di natura sociale che contiene in sé i fenomeni più visibili della devozione: pellegrinaggi, santuari, particolari preghiere e manifestazioni di culto. Sul primo punto basterebbe consultare un qualsiasi testo di storia della letteratura italiana per rendersi conto di come la poesia in volgare, sin dal suo nascere, abbia scelto la Vergine Maria tra i temi principali del proprio rimare. A ciò si accompagna tutto un contesto di rilettura globale della storia e della civiltà ancora attuato con il parametro dell’historia salutis, per cui anche le nuove strutture socio-culturali (amor cortese, Stilnovo) e gli ordinamenti civili (sistema feudale) si rivestono di sacralità oppure vengono presi a prestito per comunicare ed evidenziare la devozione mariana. Tutto questo complesso di elementi dà origine a veri e propri monumenti letterari destinati a lasciare traccia profonda: il canto dantesco alla Vergine pronunciato da S. Bernardo (Par XXXIII,1-45) e la pensosa riflessione orante della Canzone alla Vergine che chiude il Canzoniere di Petrarca, diversi tra loro (contemplazione il primo e autoriflessione orante il secondo), appaiono ugualmente casse di risonanza di tutta una cultura che fa propri ed unifica armonicamente il dato esistenziale-esperienziale (non senza qualche richiamo politico: la stessa Canzone alla Vergine in qualche punto riprende contenuti presenti nella Canzone all’Italia) con quello più propriamente teologico-spirituale.

Un carattere mariano quindi contraddistingue la nascita ed il consolidarsi della cultura italiana e, restando nel campo della letteratura, tale elemento non viene meno neppure nei momenti in cui lo stile letterario subisce quella dilatazione propria del Barocco in cui lo sfavillare della forma prevale sulla densità di contenuto, oppure, in epoca illuminista, quando invece si impongono la sobrietà e l’intellettualismo.

È possibile allora affermare, anche in base agli elementi letterario-culturali sinteticamente riportati, che la religiosità italiana ha nella devozione alla Vergine uno dei tratti più caratteristici, che ben si è sposato con la particolare percezione che il nostro paese ha avuto dell’istituzione familiare in cui la figura della donna-madre possiede un rilievo preminente. Questo assetto ha motivazioni psicologiche fortemente radicate nel popolo italiano, la cui devozione mariana esprime, a diversi livelli e con altrettante diverse modalità, il fatto che, nell’immagine di maternità, vengono a convergere le risposte alle domande di aiuto, protezione, guida. D’altra parte, il medesimo simbolo della donna che genera Dio spiega “come l’individuo debba e possa realizzare un autentico e profondo incontro col sacro, vissuto nella concretezza storica, seguendo creativamente la propria via individuale, quella che è in sintonia con il proprio equilibrio personale” (L. Pinkus, Il mito di Maria, 100-101). Tenendo conto di questo dato, costantemente e variamente presente nella popolazione italiana, non meraviglia lo sviluppo di tanta letteratura devota e apologetica che si è venuta a produrre nel corso del tempo con il preciso intento di sottolineare il legame tra la Madre del Signore e la nostra nazione. Ne è prova, ad esempio, il volume risalente al 1953, scritto a due mani (G. Roschini – A. Santelli), dal titolo La Madonna e l’Italia e che ha come sottotitolo La storia d’Italia alla luce della sua Castellana. Quest’opera, non esente da certa enfasi retorica, è divisa in tre parti delle quali la prima è dedicata proprio all’amore materno che Maria riversa sull’Italia per il fatto di essere terra di antichissima cristianità e luogo dove apostoli e martiri hanno sparso, spesso a prezzo del loro sangue, i semi del Vangelo.

Al primo livello di lettura di quello che potremmo definire ‘carattere mariano dell’Italia’ si aggiunge la dimensione sociale sopra menzionata, che mostra nella Vergine Santa un fattore dinamico, tale da mettere in movimento la popolazione diversificata per ceto sociale e formazione cristiana. Se notevoli e molteplici sono le testimonianze e gli elementi che riflettono anche i caratteri più propri della sensibilità italiana, ad essi si deve aggiungere un ulteriore fattore di contestualizzazione relativo ad un tema che, soprattutto a partire dagli inizi del XXI secolo, ha suscitato non poche tensioni: l’incidenza quello delle radici cristiane dell’Europa, continente nel quale l’Italia è inserita e del quale si è fatta guida e segno nelle fasi iniziali di diffusione del cristianesimo. Questo elemento si coniuga con la centralità culturale e artistica rappresentata dall’Italia nell’epoca umanistico-rinascimentale. Se – come osserva G. Forlai – in 70 paesi interessati da un fenomeno eclatante come quello delle apparizioni oltre il 90% si trova in territorio europeo (cf. G. Forlai, Europa, in Mariologia, 493), non meraviglia che in Italia santuari, chiese, edicole, cappelle, ecc. siano di difficile enumerazione. Legato ad essi, ecco comparire il fenomeno dei pellegrinaggi che, accanto alla dimensione più propriamente cultuale (e talvolta con valenza penitenziale), costituiscono momenti aggregativi da non sottovalutare cercando di evitare, tuttavia, il pericolo di un’eccessiva accentuazione del luogo a detrimento dell’evento salvifico che deve restare il vero oggetto di ogni culto.P. Luca 1

Proprio nell’ambito del sociale, il culto e la devozione mostrano una varietà di espressioni che ben si accompagnano al sorgere di questi luoghi sacri e, aggiungiamo, particolarmente amati con le loro attività liturgiche, rituali, caritative, culturali e ai relativi pellegrinaggi. V. Bo enumera, anche con rispetto della storia, alcune forme che manifestano visibilmente il sentimento religioso del popolo italiano: canti popolari talvolta trasmessi oralmente e poi fissati per iscritto, preghiere individuali e comunitarie, confraternite, sagre. In secondo luogo Bo pone in guardia, da un lato, dal fermarsi solo alla superficie di una determinata forma per andare al contenuto e ad individuare il referente cultuale che deve essere considerato e, per altro verso, dal pronunciare giudizi affrettati che, oltre ad offendere e minimizzare la coscienza credente, non rendono ragione, né spiegano adeguatamente il fenomeno del culto e della devozione alla Madre di Dio (cf. V. Bo, Maria nella pietà popolare italiana, 227-31). L’esame diacronico del fenomeno ce ne svela la complessità dei caratteri.

Stratificazione storica. Il culto e la devozione alla Madre del Signore appaiono sin da subito come elementi caratterizzanti della fede cristiana nel suo svolgersi storico che divideremo per comodità in cinque periodi: Antichità – Medioevo – Epoca Moderna fino a Pio IX – Da Pio IX alla fine della modernità – Epoca Contemporanea. Riletti nel loro insieme essi ci presenteranno un variegato mosaico di espressioni che si sono manifestate come testimonianza del sensus fidelium della nostra penisola. C’è da osservare che la presenza in Italia della sede papale implica che ogni riconoscimento o pronunciamento sulla Madre del Signore anche in relazione all’istituzione di particolari feste o pie pratiche, trova il primo terreno di azione proprio in Italia ed in particolare a Roma.

Parallelamente la Madre del Signore diviene – attraverso gli scritti di uomini eccezionali come Ambrogio (†397), Girolamo (†420) e Agostino (†430) – esempio, modello e fonte ispiratrice di forme di vita consacrata femminile. Proprio in concomitanza del dogma di Efeso grande importanza assumono le feste dedicate alla Madre di Dio a partire proprio dal 1° gennaio (Ottava di Natale), solennità della Theotokos, celebrata in Oriente il 26 dicembre. Da non sottovalutare anche un altro carattere penitenziale legato all’ultimo giorno dell’Ottava di Natale (si ricordi come l’anno non cominciava per tutti in gennaio) che in alcuni ambienti era osservato quale reazione alle feste pagane in onore di Giano (cf. D. Sartor, Le feste della Madonna, 40). Il mistero dell’Incarnazione e, chiaramente, la nascita di Gesù rappresentano lo sfondo in cui si colloca ogni manifestazione di culto e devozione a S. Maria che interessa evidentemente anche il periodo preparatorio al Natale. Questa è una costante che è possibile rilevare non solo a Roma ma anche Milano (dove troviamo, nel Sacramentario Bergomense, note mariane in 2 prefazi) e a Ravenna (contraddistinta dalla forte predicazione di S. Pietro Crisologo). Ma sarà soprattutto papa Leone Magno verso la fine del secolo V con le sue 10 Omelie per il Natale a sottolineare con forza la presenza di Maria. Gradualmente vengono ad imporsi altre feste comunemente considerate mariane: la Presentazione (2 febbraio), l’Annunciazione (25 marzo), l’Assunzione (15 agosto) e la Natività di Maria (8 settembre). Di esse, solo le ultime due possono considerarsi mariane, mentre le altre rivelano il loro carattere cristologico.

Notevoli poi sono i generi di preghiera che si vengono a formare nei primi cinque secoli di vita del Cristianesimo: invocazioni, suppliche ed eulogie, talvolta recitate da singoli e talaltra da più fedeli riuniti (cf. A.M. Triacca, Le preghiere a Maria Vergine (dalle origini al secolo IV), 144). Su questa base molto composita si svilupperà tutta una letteratura ed una devozione che giungeranno a maturazione con il Medioevo non senza ricorrere all’elemento miracolistico e a quello prodigioso come testimoniano, ad esempio, alcune primitive forme teatrali nonché raccolte di legendæ e miracoli sviluppatesi soprattutto nell’Italia centrale.

Tuttavia non sono soltanto le feste a determinare la religiosità del Medioevo europeo occidentale: l’insicurezza e la fragilità delle strutture, almeno fino all’avvento del Sacro Romano Impero, i pericoli, le guerre e le pestilenze, alimentano la considerazione, talvolta pessimistica, della precarietà umana determinata anche dalla condizione di peccato. A ciò si aggiunge che, con il passare del tempo, la Chiesa non sembra aver mantenuto quella purezza delle origini e ciò dà luogo al costituirsi di nuove forme di vita religiosa: ordini monastici e mendicanti che nascono, in modo diversificato per carisma ed epoca, con un forte risvolto mariano motivo per cui la Madre di Dio è associata al variegato programma di reforma Ecclesiæ avvertita quale necessità imprescindibile dai grandi papi Gregorio Magno (†604) e Gregorio VII (†1085). La coscienza della propria debolezza spinge l’uomo medievale a cercare un rifugio sereno e, al contempo, mostra un forte anelito verso le realtà celesti ed ecco allora che Maria, a motivo della sua perfezione morale, viene fatta segno di una particolare pietas da parte del devoto. Anzi si giunge ad interpretare in una chiave mariana tutto il sistema di relazioni che legano il feudatario al suo vassallo. Si è dinanzi al fenomeno del patronato e patrocinio mariano che diviene cifra di riconoscimento di alcune famiglie monastiche e mendicanti, tale da sancire l’appartenenza a Maria testimoniata anche da numerosi testi appartenenti al genere delle legendæ. Ma quale ritratto abbiamo di questa creatura ? Non tanto della Vergine umile oppure della donna comune, quanto piuttosto di una creatura rivestita di un’identità speciale perché i doni singolari da lei ricevuti sono segno di un rapporto particolare ed unico con il Signore, tale da farle assumere il titolo di Regina in analogia al Figlio. In una parola, si giunge ad una superesaltazione della Vergine senza che ciò però la distacchi dal contesto umano e sociale. Anche le feste profane di alcune città (ad es. il Palio di Siena la corsa in onore della Madonna di Provenzano, il 2 luglio e dell’Assunta il 16 agosto su una piazza a pianta simile ad un trapezio quale segno del mantello di protezione di Maria sulla città), oppure eventi storici particolari vengono collocati sotto il segno di Maria. Una superesaltazione che si manifesta nell’attribuzione di veri e propri miracoli operati da Maria e che tutto il genere letterario dei miracula testimonia: fatti prodigiosi che fanno comprendere la vicinanza della Madre del Signore all’umanità. In sostanza, il fedele trova in Maria, da un lato, il modello creaturale e comportamentale e, per altro verso, un sicuro e potente mezzo di protezione: si afferma conseguentemente il tipo iconografico della Mater misericordiæ che, anche nella teologia e nella letteratura religiosa, viene fatto proprio da alcuni ordini religiosi del tempo come i Cistercensi.P. Luca 2

Questo tipo iconografico particolarmente favorisce il fenomeno, già menzionato, dei pellegrinaggi ai diversi sparsi santuari italiani (specie al centro e in Sicilia) dedicati alla Madonna della Misericordia o del Soccorso e invocata in occasione di epidemie (spesso associate dagli uomini del tempo al peccato). Un solo esempio fra i tanti è il santuario della Madonna della Misericordia costruito a Macerata (1374) per allontanare la peste. Importante è poi l’associazione di Maria con la Chiesa in un’ottica di riforma e qui emerge la grande figura di S. Pier Damiani (†1072) interprete ed esecutore, al contempo, delle grandi istanze di rinnovamento ecclesiale, oltre che autore di inni, preghiere ed omelie alla Madre di Dio. Basterebbe pensare come in uno dei suoi testi Pier Damiani mostra che il rifiuto del culto mariano da parte della comunità monastica ne sancisce la forte decadenza e provoca una forte concentrazione di calamità naturali (cf. Pier Damiani, Liber VI, Epistula 32, in PL 144,422 B-23 B).

Una considerazione del tutto speciale di Maria si attua nell’ambito della letteratura con il sorgere di alcuni generi: la Lauda di tono encomiastico e, più drammaticamente svolto, i Planctus Mariæ che gradualmente vedono l’affermazione del volgare e costituiscono la forma embrionale di tutto un successivo sviluppo teatrale in cui il popolo è spettatore coinvolto: in tale spettacolarizzazione degli eventi della Passione si dà ampio spazio alle manifestazioni di sofferenza patite dalla Madre di Dio. L’Italia centrale, luogo di origine di diversi movimenti pauperistici e religiosi, appare nel secolo XII come la sorgente di tali composizioni e Jacopone da Todi (†1306) l’esponente più conosciuto grazie al suo Donna de’ Paradiso, ma accanto a questo autore non si può omettere il Laudario di Cortona (secolo XIII) in cui appaiono molte composizioni di tono gioioso. Un discorso a parte merita il Mariale che si configura, in forme assai diverse, come raccolta di testi (sermoni, preghiere, inni) tanto per un uso pastorale quanto per la devozione privata. Questo genere si contrassegna per la forte valenza simbolica come ad esempio il Mariale Aureo di Jacopo da Varazze († 1298). Talvolta la letteratura popolare e profana italiana si serve della tecnica del contrasto fra due entità per veicolare un messaggio religioso-morale. È il caso del vivace Contrasto tra Satana e la Vergine (De Sathana cum Virgine) del laico milanese Bonvesin de la Riva († 1315 ca), personaggio particolarmente attivo nel campo caritativo della sua città, autore di un’altra composizione Contrasto tra il peccatore e la Vergine (De peccatore cum Virgine).

Accanto alla dimensione letteraria e teatrale non va dimenticato il versante artistico poiché, in alcuni casi, esso riveste un carattere ed una funzione sociale e, in certo senso, taumaturgica. Si tratta nella fattispecie di ritrovamenti di icone attribuite a S. Luca che poi vengono portate in processione soprattutto in occasioni di calamità ed epidemie. È il caso della Madonna dell’Impruneta presso Firenze dove, nel secolo XI, viene eretto un tempio su un luogo di ritrovamento di un’icona particolarmente amata dai fiorentini e destinata ad essere trasportata. Si può considerare qui l’inizio del pio esercizio della peregrinatio Mariæ che godrà vasta popolarità e diffusione nel secolo XX. Accanto a questa tipologia iconografica ‘pseudo-lucana’ se ne colloca un’altra di natura acheropita che anch’essa trova in Toscana un esempio nel dipinto nel Santuario fiorentino della SS. Annunziata (1252).

Per quanto riguarda l’elemento santuariale l’Italia (a differenza della Francia) non conosce nei suoi primordi una connotazione dichiaratamente mariana (abbiamo nel secolo XI Monte S. Angelo dedicato a S. Michele); solo successivamente si segnalano Montevergine (dove si venera un’icona costantinopolitana Madonna in trono con Bambino) e la più nota Porziuncola attorno alla quale si sviluppa il complesso di S. Maria degli Angeli.

Proprio la nascita, l’affermazione e la diffusione degli Ordini mendicanti favoriscono pratiche religiose e di pietà mariana che spingono anche la Chiesa ufficiale a pronunciamenti specifici: il sabato mariano, l’Ufficio mariano, la meditazione sulle gioie (Allegrezze) e i dolori della Vergine. Parallelamente le feste mariane subiscono radicali ripensamenti volti ad una loro ratifica motivata: è il caso della festa dell’Immacolata Concezione (nata in Oriente come Concezione di Anna – il 9 dicembre – e arrivata dall’Italia meridionale per poi diffondersi in tutta Europa), di cui l’Ordine Francescano diviene strenuo difensore e per la quale interviene nel Capitolo di Pisa del 1263 sotto il generalato di S. Bonaventura (†1274) estendendola a tutto l’Ordine. Questo Capitolo è importante anche per l’obbligatorietà dell’Angelus, ricordo quotidiano dell’Incarnazione al quale i frati erano tenuti e dovevano invitare i fedeli. Notevoli e sintomatiche di tutta una tensione teologica le successive diatribe teologiche su questa ‘pia sentenza’ dell’Immacolata che, pur non ricevendo un pronunciamento di livello dogmatico, nel 1476 con la costituzione Cum præcelsa di Sisto IV compiva un notevole passo avanti, venendo approvati la Messa e l’Ufficio composti da Leonardo Nogarolis. I contrasti, tuttavia, non terminarono tanto che successivamente lo stesso papa difese apertamente contro i detrattori (minacciandoli di scomunica) questo ‘privilegio’ mariano con una nuova costituzione la Grave nimis del 1483.

La discussione sulla ‘pia sentenza’ dell’Immacolata Concezione non si limita soltanto ad un discorso di natura teologica, ma interessa anche gli equilibri interni delle famiglie religiose e chiama in causa persino le autorità civili. È il caso dell’ordine dei Predicatori che, tradizionalmente ostili a detto privilegio mariano, vede al suo interno alcuni esponenti favorevoli tanto da difenderlo come ad esempio Ambrogio Catarino († 1553) il quale, pur non aderendo alla scuola francescano-scotista, sostiene l’esenzione di Maria dal peccato dei progenitori adducendo il proposito di uniformarsi alla volontà e alle direttive della S. Sede che si era già pronunciata con i due documenti citati. Questa posizione strenuamente mantenuta pone Catarino in situazione di difficoltà dinanzi ai teologi domenicani allineati sul rifiuto di questa discussa verità mariana. Non sarà l’unico caso isolato presso i domenicani: in Spagna, qualche decennio più tardi, Luis De Granada († 1588) mostrerà favore per l’estraneità di Maria dal peccato originale. Non meno importante, si diceva, appare il coinvolgimento delle autorità civili in questa vicenda; difatti nel 1481 si svolge a Ferrara, alla presenza del duca Ercole d’Este, del vescovo locale, di altri teologi e di molto popolo, la disputa fra quattro religiosi (tre favorevoli: il carmelitano Battista Panetti, il servita Cesario Contughi e il francescano Bartolomeo Bellati ed uno contrario il domenicano Vincenzo Bandello). La discussione durò 6 ore ma condusse – stando al Diario ferrarese di Bernardino Zambotti – alla legittimazione di entrambe le opinioni (cf. G.M. Roschini, I Servi di Maria e l’Immacolata, 73-75 e S. Cecchin, L’Immacolata Concezione, 103).

C’è da osservare inoltre che, sul finire del medioevo, il papa Sisto IV, mentre fervono tali discussioni, si rende arbitro risolutore, a livello liturgico, di questioni legate a nuove feste di Maria: nel 1472 estende a tutta la Chiesa occidentale la festa della Presentazione di Maria al tempio, anch’essa antica festa di origine orientale e modellata sul testo apocrifo del Protovangelo di Giacomo e tre anni dopo fa seguire un’Ottava alla festa della Visitazione, già istituita da Urbano VI nel 1389.

Legata alla Passione e avente come contesto il movimento spirituale del tempo la cui eco è presente in testi letterari non liturgici, appare la devozione al dolore della Vergine, che nel 1423 in Germania provoca la nascita della festa della Commemorazione dell’angoscia e dei dolori della Beata Vergine Maria. Tale festa viene accolta anche in Italia e nel 1482 estesa ancora per volere di Sisto IV a tutta la Chiesa con il formulario Nostra Signora della Pietà.

A Roma, come si è detto precedentemente, viene celebrata con particolare solennità l’Assunzione che ha goduto, almeno fino al 1566 (anno della soppressione voluta da Pio V per gli eccessi esteriori e mondani che aveva acquisito), larga rappresentanza di popolo, corporazioni ed autorità presenti alla processione notturna verso S. Maria Maggiore. Altra celebrazione romana fatta successivamente propria dai Francescani è la Madonna della Neve (5 agosto), festa legata alla basilica di S. Maria Maggiore che, dal 1302, compare nel Breviario francescano a seguito di una decisione del Capitolo Generale celebratosi a Genova.

Anche nell’ambito della più semplice preghiera mariana occorre registrare alcuni fenomeni: la progressiva memorizzazione da parte del popolo dell’Ave Maria accanto al Pater noster e al Credo e, analogamente, della Salve Regina (papa Gregorio IX nel 1239 ne ordina il canto nelle chiese romane dopo Compieta), il diffondersi del Rosario che, soprattutto per gli analfabeti, era sostitutivo della recita dell’intero Salterio; nato fuori d’Italia e con periodo di gestazione abbastanza consistente, il Rosario prenderà diverse connotazioni relative alla contemplazione degli eventi di Maria e dei caratteri spirituali e carismatici di ogni ordine religioso che lo adotta. Un ruolo molto importante è assunto poi dalle Litanie che, modellate su quelle dei santi (risalenti al VII-VIII secolo), accolgono titoli derivati dalla Scrittura con grande uso di simbologia e, posteriormente, altri in relazione a fatti o situazioni storiche particolari. Tali immagini diverranno, nel secolo successivo, veri e propri motivi iconografici (cf. il soffitto della Chiesa di S. Marcello a Roma). Notevole importanza rivestono le Litanie lauretane che affondano le loro radici in un manoscritto di area francese che riporta un formulario risalente al secolo XII. A ciò si aggiunga che anche alcuni Ordini religiosi, a partire dal tardo Medioevo, si fanno diffusori di formulari di litanie. È il caso dei Servi di Maria che producono testi legati ai loro santuari (SS. Annunziata a Firenze: 1435; Monte Berico a Vicenza: 1430-50). Molto forte nella recita di preghiere, litanie ed esercizi di pietà appare la dimensione comunitaria ed ecco allora il formarsi di Confraternite che avevano anche una finalità assistenziale e di soccorso ai poveri ed ammalati. Presso questi gruppi, tale opera sociale non è mai distaccata dall’orazione e a volte anche nei loro elementi esteriori rivelano un connotato mariano, come la Confraternita dei Raccomandati (o del Gonfalone) fondata sembra nel 1260 a Roma da S. Bonaventura e che nel suo stendardo porta raffigurata una Mater misericordiæ. Altre confraternite italiane, invece, sono legate alla pia pratica del Rosario: del 1480 è la prima confraternita istituita a Venezia, dell’anno successivo quelle di Firenze presso il convento di S. Marco e di Roma presso la Chiesa di S. Maria sopra Minerva. I Carmelitani promuovono le confraternite “del mantello bianco”, che assumeranno poi lo scapolare come segno devozionale distintivo.

Le confraternite sono legate alla preghiera mariana anche per un altro elemento che costituisce la civitas mediævalis, ossia il dramma liturgico, sviluppatosi tra X e XII secolo, il cui scopo non era certo quello di intrattenimento, ma pedagogico nei confronti della preghiera. In esso attori – dapprima chierici, in seguito laici – davano vita ai diversi personaggi della storia sacra o a momenti particolari dell’azione liturgica. Tutto questo genere andrà percorrendo un suo proprio sentiero fino a staccarsi dal luogo sacro e con la sempre maggior presenza di testi in volgare in luogo del latino e con serie conseguenze per la religiosità popolare.

Questa nuova cultura antropocentrica, inizialmente non dimentica di Dio, lo ha però spostato dalla centralità che aveva nel medioevo. All’uomo quindi viene riferito il canone della bellezza ed è emblematico come, ad esempio, Lorenzo il Magnifico († 1492) si diletti a comporre celebrando Maria e, al contempo, la grande bellezza. In parallelo abbiamo il costituirsi di un’iconografia religiosa che sfrutta modelli femminili tutt’altro che idealizzati, ma contrassegnati da una forte concretezza carnale. Contro questa nuova visione ecco la voce del Savonarola che, in un’ottica riformatrice, ammonisce fortemente a tornare all’essenzialità di Maria. Non è un elemento nuovo: abbiamo già incontrato l’associazione di Maria alla reforma Ecclesiæ, una costante che ritroveremo anche in autori che ricoprono alte cariche ecclesiastiche come, ad esempio, il vescovo e patriarca di Venezia S. Lorenzo Giustiniani (†1455) che in due opere (De humilitate e De triumphali Christi agone) vede l’esemplarità di Maria per la Chiesa. Ma questo ideale di riforma, che porterà alla divisione che conosciamo, sorge anche dalla presa di coscienza che l’uomo, artefice del proprio destino, si trova a fare i conti con la propria debolezza e precarietà: accanto ad un entusiasmo religioso proprio di una società padrona di sé, tale da portare a volte ad aberrazioni sentimentali o devozionali, gradualmente e soprattutto sotto la spinta protestante, si fa largo tutto un complesso di colpa molto critico con l’esteriorità che va a toccare invece l’uomo nel profondo. Maria è perciò vista, da un lato, come un’entità morale altissima ed irraggiungibile e, per altro verso, come l’unica creatura che serve all’uomo per compensare e, secondo alcuni autori, sanare la fragilità umana, oppure per proteggerlo dai pericoli. In tal senso assume una singolare valenza, lungo il XVI, secolo la preghiera del Rosario associata, successivamente al 1570, alla vittoria di Lepanto contro i turchi e, quasi contemporaneamente, inizia ad affermarsi a Roma la pia pratica del Mese mariano promossa da S. Filippo Neri (†1596).

In questo contesto prosegue l’attività assistenziale, caritativa e ludica delle confraternite, alcune delle quali – in misura minore, però, rispetto al precedente medioevo – con titoli mariani quali l’Immacolata, la Madonna dei Sette Dolori ed altri, acquistando una sempre maggiore rilevanza sociale in questo secolo XVI definito ‘epoca aurea’ di tali movimenti confraternali. Essi tendono anche a riaffermare l’identità cattolica contro il dilagante protestantesimo. Movimenti che, tuttavia, vengono disciplinati dalle direttive emanate dal Concilio di Trento e posti sotto il controllo dei vescovi locali (cf. G. Angelazzi, Le confraternite laicali, 40-42). Maria quindi diviene nel cattolicesimo barocco italiano (ma ciò interessa anche altri paesi d’Oltralpe) un forte strumento apologetico che si riflette sostanzialmente anche nella letteratura teologica e devozionale del tempo.P. Luca 3

Esponente di tale temperie culturale è Placido Nigido (†1640 ca.) autore del primo trattato sul culto mariano uscito a Palermo nel 1623, rispettando, ma anche arricchendo un genere letterario molto in voga nel Medioevo (Mariale, seu de devotione erga Virginem Dominam in quatuor opuscula digestum). Una pia tradizione, tipicamente italiana che gradualmente si fa strada, sostenuta anche da lasciti di nobili famiglie, è l’incoronazione delle immagini mariane. Le prime celebrazioni sono datate 1601 (Parma) e 1620 (Oropa) per poi diffondersi nel resto dell’Europa. Particolare importanza assume in tal ambito, il cappuccino Girolamo da Forlì († 1620), seguito da altre personalità. Un posto a parte merita la discussa personalità di Ippolito Marracci (†1675) il quale concepì l’iniziativa di ripubblicare le opere degli autori mariani edite lungo i secoli anteriori, intento che solo in parte gli riuscì facendo uscire la sua opera sotto il nome di Mariale, mentre porta a compimento la Polyantea mariana, una sorta di enciclopedia dove in ordine alfabetico elenca e commenta i titoli mariani coniati da padri e teologi. Ad essa si aggiunge la Bibliotheca mariana, primo grande tentativo di catalogazione del materiale prodotto attorno a Maria nell’arco del cristianesimo dal I al XVI secolo. Marracci è importante anche per la difesa della verità dell’Immacolata per la quale non esita a polemizzare con il card. Caietano che negava al popolo di Dio il carattere probativo della fede riguardo ad una determinata verità creduta, mentre per Marracci non si deve disprezzare l’azione dello Spirito nei fedeli. Per aver steso per iscritto tale posizione (che sarà ripresa da Pio IX nel secolo XIX), Marracci verrà condannato, per poi essere riabilitato. Tuttavia il Barocco, felicemente considerato l’epoca della dilatatio, porta con sé una singolare polemica tra due domenicani che rappresentano un po’ le due anime della cultura del tempo nelle sue ombre e nelle sue luci. Il primo scrittore è Niccolò Riccardi († 1639) autore dei Ragionamenti sopra le letanie di nostra Signora pubblicato a Genova nel 1626, emblema di un’enfasi portatrice di titoli e appellativi audaci e contraddittori applicati a Maria (Dio creato, dimezzato, zoppicante, “Cristessa”), vicina ad essere la quarta persona della Trinità). Da notare che Riccardi, proprio per questa capacità oratoria ed immaginifica, era detto Padre Mostro. Contro quest’impostazione, in cui la meraviglia, tipica sigla del Barocco (ricordiamo il testo dell’Achillini riportato anche dal Manzoni: “Sudate o fochi a preparar metalli”) non ha confini ed assume abnorme rilievo, si scaglia il filosofo Tommaso Campanella (†1639) anch’egli domenicano con le sue Censure sopra il libro del Padre Mostro a lungo tempo opera inedita e pubblicata solo nel XX secolo (1998). La grandezza di Campanella non sta tanto nell’aver criticato duramente il Riccardi, quanto nell’esattezza teologica ed ecumenica con le quali illustra il ruolo di Maria nella storia della salvezza, sottolineando fortemente la sua creaturalità e non cedendo all’ambiguità, seppur in buona fede, del confratello. È forse l’unica voce che in Italia si oppone al linguaggio e alle immagini barocche tipiche del tempo e così apre la strada all’epoca successiva, quella dell’Illuminismo. Altro portavoce dell’estetica e del sentimento mariano del Barocco è il carmelitano Andrea Mastelloni (†1722) che nei suoi scritti dedicati alla Vergine (sono commenti all’Annunciazione e alla Visitazione e lezioni sulle litanie) abbonda di superlativi verso di Lei (supersublime Altezza, eccelsa Signora), mostrando come in Maria convergono tutte le virtù degli altri santi. Inoltre nella sua opera Il mistero del Corpo di Gesù Cristo del 1710, Mastelloni stabilisce un legame alquanto discutibile tra Maria e l’Eucaristia affermando che la Madre avrebbe dato al Figlio il consenso (dipendente dall’Incarnazione) all’istituzione dell’Eucaristia. Di poco posteriore a Mastelloni si colloca S. Francesco Antonio Fasani (†1742), francescano pugliese che prosegue nel genere letterario del Mariale componendone due: uno sul Cantico dei cantici ed uno sulla simbolica della nuvoletta di I Re 18,44. Anche qui l’oratoria barocca e l’assemblaggio di citazioni e titoli mariani appartenenti a diversi autori (ben 307 contando anche quelli contenute nelle sue Novene: sette per ogni festa mariana!) concorrono a rendere pittoresca l’esposizione tesa all’edificazione del credente. C’è da osservare che le oscillazioni teologico-dottrinali presenti in Mastelloni, oppure le accensioni stilistiche del Fasani, tipiche del Barocco, concorrono decisamente ad un trionfalismo e ad una magniloquenza di celebrazioni e riti ai quali corrisponde un pronunciato massimalismo della predicazione del tempo che abbonda in aggettivi e figurazioni già prodotti nel Medioevo ed ora ampliati e ingigantiti. In tali predicazioni mariane (funzionali anche per un discorso missionario) dominano l’allegoria e la predilezione per le citazioni classiche, patristiche e medievali atte a conferire solidità all’illustrazione di una determinata virtù della Madre di Dio. I predicatori sono sovente persone colte, ma non sempre portati alla semplicità di eloquio.

La successiva epoca del trionfo della ragione influisce nei termini della moderazione e dell’equilibrio sulla devozione a Maria: essi sono prodotti dallo spirito critico tipico del periodo e che, se da un lato, produceva rilevanti opere di pensiero (L’Enciclopédie, e le tre critiche kantiane), per altro verso, additava i sentieri dell’emancipazione delle classi meno abbienti. Non meno importante appare anche lo studio degli stessi testi sacri: la Bibbia inizia ad esser sottoposta ad un’esegesi di tipo razionale e, parallelamente, si rimprovera l’incoerenza tra una religiosità di facciata ed una cattiveria nella sostanza di certi cristiani. È chiaro che ciò si traduce all’atto pratico in una decisa condanna ed allontanamento dalla superstizione favorendo a poco a poco una maggiore partecipazione del popolo ai riti. Rappresentante della cultura italiana post-barocca ed illuminista è il modenese Ludovico Antonio Muratori († 1750) che nella Regolata divozion de’ cristiani, pubblicata tre anni prima della morte, precisa il ruolo di Maria lontano da ogni massimalismo e minimalismo in forza di un uso molto attento della Scrittura. Senz’altro – egli osserva – è necessario renderle un onore superiore ai santi, ma non inficiata da ogni eccesso e abuso che conduca ad attribuire a Maria qualcosa in più rispetto a Cristo. Le posizioni di Muratori sono in forte opposizione alla superstizione tout court (egli condanna la devozione che porta a ritenere nelle icone mariane dette di S. Luca un reale, seppur in forma spirituale, abitare di Maria, come anche le medaglie e i distintivi vari allora in uso), e la sua impostazione che privilegia il tema dell’intercessione, distingue il tipo di mediazione di Maria da quella di Cristo. Altro aspetto sottolineato dal Muratori, nel Rerum italicarum scriptores, è la fondazione di ospizi, ospedali ed orfanatrofi in onore di Maria che ne diviene protettrice. In tal senso il binomio devozione-opera caritativa ed assistenziale mantiene la sua incisività all’interno della società, compito che, abbiamo detto, viene svolto dalle confraternite. Muratori tuttavia non è il solo a criticare lo scadimento della devozione mariana: immerso nel secolo XVIII troviamo l’abate calabrese Leoluca Rolli (†1777) che opera una serrata presa di posizione contro tutto ciò che in qualche modo poteva suonare inappropriato nei confronti di Maria come, ad esempio, alcuni titoli delle litanie allora in uso. Di ciò se ne fa eco nell’opera edita nel 1773, Novello progetto, o sia Dissertazione del buon uso delle litanie, ed altre preghiere, particolarmente avversata da diversi scrittori (Cordopatri, Crocenti, Grano…).

Sempre in questo secolo in cui la fede e la dimensione trascendente vengono sottoposte al vaglio della ragione, a Roma accade un evento che diverrà una delle note più importanti e addirittura distintive della devozione mariana locale: un uomo assalito dai cani lungo la via Ardeatina si rivolge ad un’icona della Madre di Dio e in modo prodigioso i cani si allontanano. Da quell’evento si origina l’erezione del Santuario della Madonna del Divino Amore che si colloca nel decennio 1740-1750 divenendo per antonomasia il luogo del pellegrino romano. A testimonianza di ciò, il popolo finisce per coniare l’espressione ingenua e, al contempo, immediata: “la Madonna del Divino Amore fa la grazia a tutte l’ore”. Santuario che, nel corso del tempo, avrà un ruolo non trascurabile per la città al di là del fatto puramente religioso.

Intanto prosegue l’affermazione e la diffusione della pratica del Mese mariano attraverso una serie di pubblicazioni che ne regolano lo svolgimento. Fra essi spicca il gesuita Alfonso Muzzarelli (†1813) il quale, a Ferrara nel 1785, pubblica ed invia ai vescovi italiani il Mese di maggio teso a fissare le regole della celebrazione di questa pia pratica con notevole flessibilità riguardo ai diversi stati della vita. In questo libretto, caratterizzato da uno stile semplice sono proposti ogni giorno: una breve meditazione su una verità di fede, l’applicazione pratica, un proposito (fioretto) una giaculatoria ed un canto mariano conclusivo. Ne deriva, come osserva S. De Fiores una devozione “presentata in funzione della vita cristiana: se essa è molto potente, dolce e tenera, è anche utile e necessaria per convertirsi e perseverare nella santità” (S. De Fiores, Maria. Sintesi di valori, 274).

La figura di maggior prestigio di questo periodo è senza dubbio S. Alfonso M. de’ Liguori (†1787) autore di quello che è stato definito il best seller della devozione di ogni tempo, ossia Le glorie di Maria in due volumi pubblicati nel 1750. Si tratta di un testo molto composito in cui abbondano figurazioni e racconti a volte inverosimili utilizzati per trarre un significato di natura morale che mostri la singolarità creaturale della Vergine ed il suo ruolo nell’historia salutis. Lo spirito di S. Alfonso non è più trionfalistico, barocco, infatti l’orma critica dell’Illuminismo lo conduce a spiegare i titoli e a rispettare la superiorità di Cristo sulla Vergine. A ciò si aggiunga il profondo senso pastorale che anima quest’opera diretta alle comunità ecclesiali e ai pastori che, grazie a questo scritto, avevano un prezioso strumento per rafforzare la pietà mariana.

Fonti e Bibl. essenziale

Per uno studio sulla pietà, sul culto e la teologia mariane è imprescindibile l’uso di alcuni strumenti: la consultazione della Bibliografia mariana curata dalla Pontificia Facoltà Teologica «Marianum», da G.M. Besutti a partire dal 1948 e continuata da E. M. Toniolo e da S. M. Danieli. Attualmente tale Bibliografia mariana consta di 15 volumi fino al 2013, nonché i volumi dei Simposi Mariologici Internazionali (SIM) organizzati dalla Pontificia Facoltà «Marianum» a scadenza biennale dal 1976 (attualmente consta di 20 volumi fino al 2015, è in stampa il 21° del 2017 ed è in via di organizzazione il 22° SIM che avrà luogo nel 2019). A ciò si aggiunge la pubblicazione annuale della rivista Marianum organo della Pontificia Facoltà «Marianum».  Dizionari e repertori: G. M. Roschini, Dizionario di Mariologia, Roma 1961; S. De Fiores-S. M. Meo (a cura di), Nuovo Dizionario di Mariologia, Ed. Paoline, Cinisello Balsamo 1986; S. De Fiores, Maria. Nuovissimo Dizionario, Dehoniane, Bologna 2006-2008, 3 voll.; S. De Fiores-V. Ferrari-Schiefer-S. Perrella (a cura di), Mariologia, S. Paolo, Cinisello Balsamo 2009; Aa.Vv., Testi mariani del II millennio, Città Nuova, Roma 1996-2012, 8 voll. Documenti ecclesiali: per i documenti ecclesiali ci siamo serviti dei seguenti strumenti: Enchiridion Vaticanum, Dehoniane, Bologna 1981, voll. 1ss.; H. Denzinger-P. Hünermann (a cura di), Enchiridion Symbolorum definitionum ac declarationum de rebus fidei et morum, Dehoniane, Bologna 1995; Pontificia Academia Mariana Internationalis, La Madre del Signore. Memoria – presenza – speranza, Città del Vaticano 2000. Monografie a carattere generale: S. De Fiores-S. Epis-G.Amorth (a cura di), La consacrazione dell’Italia a Maria. Teologia, storia e cronaca, Ed. Paoline, Roma 1983; E. Cattaneo, Il culto cristiano in Occidente, CLV, Roma 1984; P. Borzomati, La fiducia nella Madre di Dio elemento permanente della spiritualità italiana, in La Madonna 32 (1984), 5-6,75-85; L. Gambero, Culto, S. De Fiores-S. M. Meo (a cura di), Nuovo Dizionario di Mariologia, cit., 425-43; J. Castellano Cervera, Religiosità popolare mariana, in Credere Oggi 49 (1/1989), 93-109; S. Gaspari, Maria nella Liturgia, Dehoniane, Roma 1993; V. Bo, Maria nella pietà popolare, in Theotokos 1 (1993), 227-31; M.M. Pedico, La Vergine Maria nella pietà popolare, Ed. Monfortane, Roma 1993; S. De Fiores, Italia, in Maria. Nuovissimo Dizionario, Dehoniane, Bologna 2008, vol. II, 992-1055. Studi di storia della mariologia relative al periodo esaminato: E. Dal Covolo-A. Serra (a cura di), Storia della Mariologia, vol. 1. Dal modello biblico al modello letterario, Marianum-Città Nuova, Roma 2009; E. Boaga-L. Gambero (a cura di), Storia della Mariologia, vol. 2. Dal modello letterario europeo al modello manualistico, Marianum-Città Nuova, Roma 2012; la rivista Theotokos (organo dell’Associazione Mariologica Interdisciplinare) ha curato a partire dal 2001 fino al 2013 una serie di numeri monografici dedicati alla Mariologia patristica e medievale: vi figurano diversi studi su temi italiani; G. M. Roschini, I Servi di Maria e l’Immacolata, in Studi storici OSM 6 (1954) 29-182; G. Molinari (a cura di), Antologia dello Scapolare, Roma 2001; S. Cecchin (a cura di), Contemplare Cristo con Maria. Atti della Giornata di Studio sulla Lettera apostolica Rosarium Virginis Mariæ di Giovanni Paolo II (Roma 3 maggio 2003), PAMI, Città del Vaticano 2003; Id., L’Immacolata Concezione. Breve storia del dogma, PAMI, Città del Vaticano 2003; Id. (a cura di), La “Scuola francescana” e l’Immacolata Concezione. Atti del Congresso mariologico francescano. S. Maria degli Angeli – Assisi 4-8 dicembre 2003, Pami, Città del Vaticano 2005; S. De Fiores, L’immagine di Maria dal Concilio di Trento al Vaticano II (1563-1965), in E. M. Toniolo (a cura di), La Vergine Maria dal Rinascimento a oggi, Centro di Cultura mariana “Madre della Chiesa”, Roma 1999, 9-62; C. Maggioni, La Tuttasanta nelle testimonianze liturgiche, in F. Lepore (a cura di), L’Immacolata segno della bellezza e dell’amore di Dio, PAMI, Roma 2005, 31-64; E. Simi Varanelli, Maria l’Immacolata. La rappresentazione nel Medioevo, De Luca Editori d’Arte, Roma 2008; L. M. Di Girolamo, Maria nelle sacre rappresentazioni medievali, in Theotokos 21 (2013), 2, 273-300; Id., Un monumento della mariologia barocca. La “Gierarchia” di Giovanni Battista Guarini, in Theotokos 23 (2015), 2, 97-131; Id., Maria nel teatro religioso tra XVI e XVIII secolo, in Theotokos 24 (2016), 1, 9-58. G. Grosso (a cura di), B. Leersio Leggende mariane. Esempi e miracoli alle origini del Carmelo, Ed. Ancora, Milano 2015; F. Lovison, Spunti per una ricerca mariana nell’età dei Lumi, in Theotokos 24 (2016) 2, 17-48; C. G. Aiosa, Una nobiltà intrisa di devozione e spiritualità mariana nel Settecento, in Theotokos 25 (2017) 2, 13-82; P. Sorci, Ludovico Antonio Muratori e la «Regolata devozione», in Theotokos 25 (2017) 2, 117-136; A. Donato, La presenza di Maria negli scritti di s. Alfonso M. De Liguori, in Theotokos 25 (2017) 2, 137-161. È inoltre uscito il fascicolo I del 2018 della rivista Theotokos (dell’AMI) dedicato alla prima fase del secolo XIX.

Immagini: 1) Museo diocesano di Pienza la Madonna della Misericordia e i Santi Sebastiano e Bernardino di Siena, dipinto su tavola attribuito a Luca Signorelli (Cortona 1445/50-1523) risalente al 1490 circa; 2) Madonna della Ghiara a Reggio Emilia Giovanni Bianchi, detto il Bertone risalente al 1573; 3) Incoronazione della Vergine nel frontone del Duomo di Orvieto; 4) Assunzione di Maria di Maestro di Cesi (1308).

Sitografia a carattere mariologico: www.pami.info (Sito della Pontificia Academia Mariana Internationalis); www.amiroma.it (Sito dell’Associazione Mariologica Interdisciplinare Italiana contenente anche link di bibliografia mariana); www.marianum.it (Sito della Pontificia Facoltà Teologica “Marianum” dei Servi di Maria); www.culturamariana.com (Sito del Centro Mariano curato dal prof. E. M. Toniolo); www.lathetokos.it (Sito di Mariologia molto ricco curato dal prof. A. Grasso).




Massoneria - vol. I


Autore: Antonio Trampus

Il rapporto fra la massoneria e la Chiesa nella storia italiana è stato mutevole nel tempo e dipende dalla natura stessa della muratoria, che sin dalle sue origini ha assunto caratteristiche diverse in funzione dei contesti culturali e politici nei quali si è trovata ad operare. Per quanto continuino a sopravvivere ambigue classificazioni della massoneria entro la tipologia delle società segrete e delle scienze occulte piuttosto che tra le forme di sociabilità tipiche dell’età moderna, è importante ricordare che a partire dalle radici tardo cinquecentesche, le logge si sono presentate essenzialmente come un fenomeno culturale, attento a rivendicare la sua neutralità sia rispetto alle questioni di fede sia alla politica. Lo affermavano in modo chiaro tanto le Constitutions di James Anderson (1723) quanto i documenti delle logge continentali e italiane della prima metà del XVIII secolo. Si tratta di una prescrizione ritenuta necessaria perché garantiva la sopravvivenza delle logge in un’Europa in cui il problema delle differenze religiose rimaneva controverso, e perché teneva unito il mondo massonico nella diversità delle fedi individuali, all’insegna dello spirito di tolleranza. Escludendo quindi la religione come pratica all’interno della loggia, si riaffermavano contemporaneamente la libertà di coscienza individuale e la possibilità che le religioni potessero essere oggetto di studio.

Spesso tuttavia pratiche massoniche, basate sui principi dell’uguaglianza, della capacità e del merito, facevano apparire le logge come una sorta scuola di governo e quindi come un laboratorio teorico della politica e luogo genetico di nuove forme istituzionali alternative alla cultura di Antico Regime. Non a caso proprio nel Settecento italiano compaiono i primi segni di contrasto fra le autorità ecclesiastiche e le logge massoniche, culminati in due condanne papali del 1738 e del 1751. All’origine della prima vi sono le vicende legate alla successione del trono granducale in Toscana in conseguenza dell’estinzione della dinastia dei Medici e alla candidatura dell’ex duca di Lorena Francesco Stefano, iniziato in loggia dal 1731. L’instaurazione del governo lorenese portò all’avvio di una ferma politica giurisdizionalista e alla denuncia, dinanzi all’Inquisizione fiorentina, di un progetto anticuriale e antiromano maturato nell’ambito delle logge toscane. Il processo che ne seguì, diede origine alla costituzione In eminenti, firmata dal papa il 28 aprile 1738 e pubblicata il 4 maggio successivo, nella quale la massoneria veniva condannata in quanto (e nei casi in cui) tendeva a ridurre l’influenza della Chiesa nella sfera politica e civile e gettava le premesse per la possibilità di credere nella salvezza senza la grazia o al di fuori di essa.

In questo senso, le prescrizioni della costituzione In eminenti colpivano le pratiche massoniche in quanto sconfinavano nell’eresia e circoscrivevano la pericolosità del fenomeno massonico non impedendo la partecipazione dei cattolici alla vita delle logge. Anzi – come osservava Ludovico Antonio Muratori negli Annali d’Italia – proprio il richiamo papale ad abbandonare ogni forma di riservatezza intorno alle loro attività aveva consentito poi ai massoni, nel corso degli anni quaranta del Settecento, un’opera di divulgazione e di propaganda dei loro rituali sempre più ampia ed efficace. Anche il secondo intervento pontificio, nel 1751, apparve mirato soprattutto a contenere il pericolo che l’attività delle logge esorbitasse dallo spazio massonico per influenzare i rapporti fra Chiesa e Stato. L’occasione venne dai tentativi di introdurre l’Inquisizione nel Regno di Napoli e dal progetto giurisdizionalista del principe di Sansevero che intendeva unire attraverso il comune impegno massonico nobili, togati e militari per limitare le ingerenze politiche della Chiesa. Dopo avere pubblicato una Lettera apologetica in difesa del carattere culturale e socializzatore della massoneria Sansevero venne accusato di tradimento e il 18 maggio 1751 papa Benedetto XIV intervenne con la costituzione Providas per riaffermare i contenuti del documento pontificio di tredici anni prima.

Al di là delle due specifiche vicende, nel corso del XVIII l’adesione dei cattolici italiani alla massoneria fu costante e non mancarono decise prese di posizione nella difesa della compatibilità fra la condizione massonica e quella del buon cristiano, come dimostra il saggio del camaldolese Isidoro Bianchi Dell’instituto dei veri liberi muratori (1785). In quelle pagine egli poteva sostenere che le logge non erano contrarie né al buon ordine pubblico né alla religione e circoscriveva il pericolo massonico a poche situazioni isolate – come quella sovversiva degli Illuminati di Baviera – espressioni di una massoneria sostanzialmente deviata. Non lontane da queste posizioni furono poi quelle del savoiardo Joseph de Maistre, membro del rito scozzese riformato, che interpretava la massoneria persino come uno strumento per potenziare la religione cattolica, per la riscoperta della tradizione cristiana e per diffondere la conoscenza di verità sublimi quali la redenzione e la salvezza eterna.

Gli eventi rivoluzionari francesi, che coincisero in Italia anche con l’arresto e il processo a Cagliostro (Giuseppe Balsamo) e con la scoperta del progetto di creare una loggia massonica a Roma, riaprirono il conflitto fra la Chiesa e la massoneria. Gli atti del processo contro Cagliostro e gli opuscoli su quella vicenda, promossi dalla Santa Sede stessa, mettevano in rilievo il carattere irreligioso e libertino delle logge, la loro volontà di distruggere le monarchie e propagare le idee democratiche interpretando gli avvenimenti dell’89 come l’esito di un complotto ordito dai massoni assieme ai philosophes e ai giansenisti. Nasceva così la tesi della congiura e del complotto massonico, destinata ad essere amplificata ad opera dell’abate Barruel con i suoi scritti sul giacobinismo tradotti anche in italiano. Nel clima della Restaurazione, di fronte all’immersione della massoneria nel settarismo e nei percorsi carbonari, il tema della condanna da parte della Chiesa venne ripreso spesso anche per rimediare all’inefficacia o alla disapplicazione dei provvedimenti settecenteschi. Già nell’agosto 1814 il segretario di Stato Consalvi emanava un decreto di condanna delle società segrete rinnovato poi nel 1821, lo stesso anno in cui dinanzi ai moti costituzionali italiani ed europei – Pio VII promulgò la bolla Ecclesiam a Iesu Christo per condannare la carboneria in quanto emanazione o imitazione della massoneria, descrivendole entrambe come fautrici di cospirazioni contro la religione e contro la società civile tramite l’uso immorale del segreto, del giuramento e dell’insubordinazione.

La contrapposizione tra la Chiesa e la massoneria italiana, considerata come uno dei prodotti più pericolosi del mondo moderno, rimase uno temi dominanti del Risorgimento italiano, parallelamente alla diffusione del pensiero liberale e al profilarsi di una unificazione della penisola con Roma capitale sottratta al dominio della Chiesa. Fu però appena negli anni ottanta dell’Ottocento, dopo la caduta di Roma e la perdita del potere temporale, che la Chiesa cattolica cominciò a riaffrontare in senso complessivo il problema, sollecitata anche dalla grande espansione e visibilità che stava acquistando il Grande Oriente d’Italia. Nacque allora il progetto di una nuova enciclica che prendesse in esame il fenomeno pur senza privilegiare un’ottica solamente italiana, nella consapevolezza che l’adesione dei cattolici italiani alla massoneria non si limitava a casi isolati. Si giunse così all’enciclica Humanum genus. De secta masonum pubblicata da Leone XIII il 20 aprile 1884, volta in realtà a denunciare l’azione della muratoria soprattutto in Italia. Secondo il pontefice l’obiettivo delle logge era quello di asservire completamente l’uomo distruggendone la moralità e minacciandone il ruolo nella comunità civile anche attraverso la diffusione del movimento socialista, considerato un’emanazione massonica. L’enciclica diveniva occasione per condannare, in quanto frutti delle correnti di idee da cui era provenuta la muratoria, il principio della sovranità popolare, la natura civile del matrimonio e il sistema educativo ormai sottratto al controllo della Chiesa. E’ il caso di segnalare che le risposte italiane all’enciclica, maturate nell’ambito del Grande Oriente e del suo Gran Maestro Adriano Lemmi, si orientarono subito in direzione di una decisa contrapposizione a questi asserti, chiudendo ogni spazio al dialogo e contribuendo così ad uno scontro frontale con il mondo cattolico che si sarebbe tradotto in un anticlericalismo destinato ad accentuarsi negli anni successivi. Dal canto suo Leone XIII, con la lettera enciclica ai vescovi del 15 ottobre 1890 Dall’alto dell’apostolico seggio e con altri interventi, tornò ad insistere sulla necessità di mobilitare i cattolici contro la massoneria e contro tutti i provvedimenti assunti dal nuovo Stato italiano (soppressione di ordini religiosi, leva obbligatoria anche per il clero, introduzione del matrimonio civile) considerati come un prodotto delle “sètte che diconsi massoniche”. E a questo la massoneria italiana rispose con le grandi manifestazioni per l’inaugurazione del monumento a Giordano Bruno a Campo dei fiori a Roma nel 1889 e per l’inaugurazione della nuova sede del Grande Oriente a palazzo Borghese nel 1893. Sul fronte opposto, nello stesso 1893, il 20 settembre (anniversario della breccia di Porta Pia) venne fondata l’Unione antimassonica italiana con sede a Trento.

La contrapposizione fra Chiesa e massoneria in Italia si rafforzò ulteriormente durante il fascismo e portò, dopo la conclusione dei Patti Lateranensi e con la sempre più decisa opposizione del Grande Oriente al governo Mussolini, a violente persecuzioni e allo scioglimento del Grande Oriente d’Italia decretata dal Gran Maestro stesso nel 1925. La vita sotterranea delle logge durò fino alla ricostituzione del 1945, riprendendo poi nel segno della tradizione risorgimentale. Solo con il pontificato di Giovanni XXIII i rapporti tra Chiesa cattolica e massoneria italiana presero a migliorare finché con Paolo VI la conferenza episcopale tedesca dichiarò decaduta l’incompatibilità tra fede cattolica e appartenenza alla muratoria. Negli anni Settanta del Novecento, anche attraverso gli interventi del Prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede cardinale Šeper, la Chiesa cattolica prese progressivamente anche atto che due degli elementi fondamentali delle condanne sette e ottocentesche, cioè la natura segreta della massoneria e la sua ostilità statutaria verso la Chiesa, erano venuti meno, facendo decadere così da un punto di vista sostanziale la scomunica per i cattolici appartenenti alle logge, pur in assenza di un annullamento formale delle condanne pontificie. Più recentemente con il pontificato di Giovanni Paolo II e con il successore del cardinale Šeper, il cardinale Ratzinger – poi giunto al soglio pontificio – il dialogo tra massoneria italiana e Chiesa cattolica si è nuovamente rarefatto e anzi il cardinale Ratzinger ha riaffermato che i cattolici impegnati nella massoneria incorrono nel peccato grave che comporta l’esclusione dal sacramento dell’eucarestia.

Fonti e Bibl. essenziale

L. Pruni, La Sinagoga di Satana. Storia dell’antimassoneria 1725-2002, Laterza, Roma-Bari 2002; A. Trampus, La massoneria nell’età moderna, Laterza, Roma-Bari 20083; G.M. Cazzaniga – ed., Storia d’Italia. Annali 21. La Massoneria, Einaudi, Torino 2006; F. Conti, Storia della massoneria italiana dal Risorgimento al Fascismo, il Mulino, Bologna 2003; F. Conti – M. Novarino – edd., Massoneria e Unità d’Italia. La libera muratoria e la costruzione della nazione, il Mulino, Bologna 2011.


LEMMARIO




Medicina - vol. I


Autore: Maria Pia Donato

La medicina – intesa nella sua duplice natura di scienza e di arte, ossia di sapere teorico e pratico e di tecniche di intervento sul corpo infermo – interseca la teologia e concerne la vita religiosa sia a livello intellettuale, come spiegazione dei fenomeni naturali e della vita, che a livello antropologico, nell’interpretare e affrontare la malattia e la sofferenza. In questo continuo confronto non è opportuno distinguere l’Italia dal resto della cristianità occidentale; essa tuttavia costituisce sia dal punto di vista dottrinale che istituzionale un laboratorio per precocità e intensità.

Nell’Alto Medioevo la compenetrazione tra la dimensione religiosa e medica della malattia è inestricabile. I Padri latini seguono quelli d’Oriente nel temperare il pessimismo dell’antropologia cristiana, che riconduce la malattia e la morte al Peccato (dunque intrinsecamente alla condizione umana), riconoscendo l’origine divina della possibilità di conoscere il corpo, ma la loro riflessione s’incentra sul Christus Medicus e sulla preminenza della guarigione spirituale; prevale in alcuni come Gregorio Magno una pastorale della sofferenza fondata sulla virtù della pazienza che contrappone l’illusoria schola Hippocratis e la salutifera schola Salvatoris. Il nesso inscindibile tra salute dell’anima e salute del corpo permea tanto la spiritualità e la devozione, quanto la prassi sacramentale, in particolare la penitenza e l’unzione, impartita non solo ai morenti bensì agli infermi in funzione terapeutica. D’altro canto, dopo la riforma del IX secolo, sono per lo più i monasteri (si distingue Montecassino) e i chierici a trasmettere i frammenti della letteratura medica e farmacologica antica. Le istituzioni monastiche sono inoltre il nucleo di pratica organizzata della medicina: nonostante il I concilio di Nicea (325) stabilisse nelle città un luogo per assistere a pellegrini, poveri e infermi, l’infermeria monastica può considerarsi l’antecedente degli ospedali che si sviluppano dal XII a seguito delle trasformazioni demografiche e sociali connesse all’urbanesimo. Gli ordini ospedalieri che fiorirono nel secolo successivo fungono da tramite in questa trasformazione, che procede in parallelo alla dislocazione delle istituzioni ecclesiastiche verso le città.

Tra la fine dell’XI e il XIII secolo la situazione cambia profondamente a cominciare dall’Italia e dalla Francia. La traduzione di testi classici e arabi e il recupero della logica e filosofia naturale di Aristotele procedono al pari dell’istituzionalizzazione di strutture di trasmissione del nuovo sapere medico. Alla Scuola di Salerno, attiva dal tardo X secolo, seguono le nuove istituzioni universitarie di Bologna e Padova ed altre strutture di insegnamento teorico e pratico nelle città. Base dell’insegnamento a Salerno, e così nelle università, furono alcuni trattati di Ippocrate, Galeno, Haly Abbas e Isaac Iudaeus tradotte dal monaco Costantino l’Africano, poi il Canone di Avicenna tradotto da Gherardo da Cremona. Il consolidamento della medicina profana come sapere e come professione incide sulle linee di contatto con le istituzioni ecclesiali e la vita religiosa. Le coordinate dell’antropologia religiosa restano uguali ma non determinano direttamente l’attività del medico: se sullo sfondo resta la condizione umana di infermità, le cause naturali delle malattie possono essere indagate; se la capacità dell’uomo di curare dipende in ultima stanza da Dio, la medicina ha la sua utilità e dignità. La relativa autonomia della medicina già dal XII secolo è testimoniata a contario dall’obbligo fatto dal IV Concilio Lateranense (1215) di procedere alla confessione di tutti i malati e morenti, e dai ripetuti divieti canonici al clero regolare di praticare la medicina e la chirurgia a fine di lucro. D’altra parte, la grande diffusione degli ordini mendicanti nella Penisola –un tratto, quello della folta presenza regolare che accompagnerà tutta la storia ecclesiastica italiana- porrà ripetuti problemi alla Chiesa di controllo e disciplina del clero nei confronti dei morenti e dei defunti.

Tra XIII e XV secolo, la cultura scolastica è caratterizzata da un dialogo tra medicina e teologia che condividono interrogativi, categorie interpretative e regole ermeneutiche di matrice aristotelica senza confondersi l’una nell’altra. Soprattutto i maestri italiani –da Taddeo Alderotti a Pietro d’Abano – rivendicano la dignità della medicina, facendosi forti della vocazione secolare delle università italiane, nonché dell’espansione di un mercato della salute che, specialmente in Italia, è alimentato dalle città e dalle corti. Tra Tre e Quattrocento le città regolamentano attraverso gli statuti e altre norme la professione, e provvedono posti pubblici in città e nel contado.

La legittimità intellettuale e il radicamento socio-istituzionale della medicina non si annulla neanche durante le epidemie che fanno riemergere con forza il significato religioso della malattia in chiave punitiva. Già nel trattamento della lebbra – una delle patologie più strettamente identificata con lo stigma del peccato – non manca l’intervento terapeutico, ancorché palliativo, e così in un’altra malattia simbolica come il cosiddetto fuoco di Sant’Antonio. Anche le reazioni alla peste, a partire dalla Peste Nera del 1348-49, le armi spirituali non vanno disgiunte da quelle medicinali, per quanto inefficaci; rapidamente le città italiane, pur affidandosi alla protezione celeste e promuovendo riti di espiazione e devozione (che si cristallizzeranno poi sulla figura del santo protettore), mettono a punto sistemi di sorveglianza destinati a diffondersi in tutta Europa. D’altro canto, intere aree della pratica medica, in particolare la dietetica (ossia l’uso dei cosiddetti non-naturali: cibo, sonno, moto, passioni dell’animo etc), sono permeate da precetti e valori religiosi; così nella deontologia, specialmente circa il compenso, il trattamento dei mali incurabili e in generale la circospezione richiesta al medico di fronte alla morte. Nell’esperienza dei malati i due piani s’intersecano, sia nel ricorso a figure taumaturgiche e rimedi dell’uno e dell’altro ordine che nella percezione dei processi corporei. E’ una sovrapposizione facilitata dal quadro teorico ippocratico-galenico che considera la malattia essenzialmente come un disequilibrio esogeno di qualità ed umori da purificare.

Nelle istituzioni della cura tale sovrapposizione resta marcata. In Italia gli ospedali si medicalizzano precocemente, almeno i principali e nelle principali città, ma la cura del corpo è sempre connessa a quella dell’anima attraverso la preghiera e i sacramenti e, in ultima istanza, garantisce se non altro una morte e sepoltura cristiana. Sull’assistenza agli infermi si riversa lo slancio caritativo di chierici e laici, che si prolungherà nei secoli XV e XVI in alcune delle più intense esperienze della Riforma cattolica nella Penisola. Nella gestione dei luoghi pii ospedalieri, per altro, si consolida l’intreccio tra elite locali ecclesiastiche e civili tipico della Chiesa italiana di antico regime che, assecondato dal potere principesco che ha negli ospedali un importante strumento di propaganda e di controllo sociale, costituirà un blocco refrattario alle riforme ben oltre la Controriforma.

Il XVI secolo, comunque, introduce delle discontinuità. Ciò non avviene tanto sul piano intellettuale. E’ vero che il V Concilio Lateranense respinge il principio della doppia verità in reazione all’aristotelismo eterodosso sviluppatosi principalmente a Padova (ha, in tal senso, un’ispirazione spiccatamente italiana), sottomettendo le scienze alla censura teologica, ma la Chiesa, in Italia intrisa di cultura umanistica, non ostacola i nuovi indirizzi nella medicina rinascimentale; il papato, anzi, è uno dei principali promotori di discipline innovative come l’anatomia vesaliana e la botanica. Non s’intacca il rapporto di mutuo sostegno tra istituzioni ecclesiastiche, magistrature civili e professione medica, che fa del medico il riconosciuto detentore di un autonomo sapere e un garante dell’ordine religioso e sociale. Ma la Chiesa italiana della Controriforma si propone vieppiù come arbitra, oltre che delle anime, dei corpi e di chi ne ha le cure. Pertanto, se l’ordinamento corporativo e il controllo del mercato medicinale si rafforza, gli equilibri di potere complessivi mutano sensibilmente. Nella Penisola, ciò è accentuato dall’adesione dei ceti dominanti ai valori e imperativi della Controriforma e dal ricorso degli stati territoriali alla leva religiosa e alle strutture ecclesiastiche per rafforzarsi all’ombra del papato.

Gli ambiti della cura su cui, attraverso dispositivi formali (come il divieto prescritto da Pio V di prestare assistenza ai malati che, dopo tre visite, rifiutassero ancora il sacramento, recepito dalla maggior parte dei collegi medici della Penisola) e la letteratura canonistica e deontologica, si accentua la pressione (diretta sui dottori in medicina, indiretta attraverso di loro sui mestieri sanitari inferiori) sono quelli della nascita e della morte, sui cui si estende ormai un controllo clericale più capillare. Ai medici è inoltre richiesto di cooperare alla difesa della dottrina e dei riti cattolici in materia di santità e demonologia, lasciando il passo ove necessario al sacerdote e all’esorcista. La riforma delle procedure per le cause dei santi riserva particolare rilievo nella certificazione del miracolo alla scienza medica, pur subordinandola alle finalità religiose. Roma diventa un centro propulsore della medicina legale, sistematizzata da Paolo Zacchia, che sarà poi ripresa da Prospero Lambertini (Benedetto XIV) nel De servorum Dei beatificatione et beatorum canonizatione (1734-38).

La convergenza tra medicina e teologia controriformistica avviene sul comune substrato aristotelico, evolutosi continuamente nella prima età moderna, ma è messa in crisi nel Seicento. La scoperta della circolazione del sangue di Harvey (1628) è la base sperimentale per lo sviluppo del meccanicismo, che accantonando l’ilemorfismo aristotelico-galenico popone una nuova visione fondamentalmente monistica del corpo, dei processi normali e patologici e della vita stessa. Nell’alveo galileiano e cartesiano, il meccanicismo disegna un programma di ricerca che trova in Italia grandi interpreti come M. Malpighi, L. Bellini, G.M. Lancisi, fino a G.B. Morgagni, che in De sedibus et causis morborum per anatome indagatis (1761) sistematizza la nuova anatomia patologica come indagine scientifica della malattia a partire dal cadavere. Il mutamento dei presupposti metafisici ed epistemologici della medicina del Settecento, meccanicista o vitalista che sia (rifiuto dell’ilemorfismo, somatizzazione dei fenomeni biologici, integrazione della morte nella definizione di vivente), si ripercuote nelle aree di contatto con la religione. L’“eclissi dell’anima” dall’orizzonte della moderna medicina scientifico-sperimentale non equivale necessariamente al materialismo né tanto meno all’ateismo, ma rende più problematica la validazione scientifica dei fenomeni sovrannaturali. Le polemiche illuministe su stregoneria e possessione si alimentano delle tendenze rigoriste e illuminate interne alla Chiesa, molto forti anche in Italia, ma le sorpassano ampiamente, sebbene in Italia i medici non siano i principali protagonisti.

Nella seconda metà del Settecento, comunque, la secolarizzazione della medicina procede soprattutto sull’onda delle politiche riformatrici che intaccano la tradizionale convergenza tra Stato, Chiesa e professione: gli ecclesiastici (specialmente i parroci), i medici e, in subordine gli altri operatori sanitari (la cui formazione viene riqualificata), sono agenti delle riforme e garanti dell’ordine sociale, ma la finalità non è più religiosa, bensì politica. Per quanto i valori morali secondo cui operano siano largamente coincidenti, il medico può prevalere sull’ecclesiastico qualora gli usi religiosi compromettano la salute della popolazione, intesa come risorsa dello stato assoluto. Ciò traspare, per esempio, nella questione delle sepolture in chiesa, che però troverà vera attuazione solo in epoca napoleonica. Si laicizza altresì il rapporto del medico con il paziente, verso il quale egli si pone vieppiù come confidente che come garante dell’ortodossia non solo nella malattia, ma nella sessualità e di fronte alla morte.

Il medico come riformatore è l’eredità che il XVIII secolo lascia alla Rivoluzione, che anche nella Penisola amplifica il valore sociale della medicina e l’autorità politica dei medici. La secolarizzazione dello stato in epoca rivoluzionaria e napoleonica fa venire in luce anche in Italia filosofie mediche schiettamente materialiste (brownismo, magnetismo). Nell’Ottocento la polarizzazione delle posizioni laiche e cattoliche nel perimetro scientifico e professionale della medicina è ormai un fatto anche in Italia, che si carica di ulteriori valenze politiche nel corso del Risorgimento e con l’Unità. Ciò anche se le aree di contatto e di sovrapposizione restano numerosi, in particolare le istituzioni assistenziali. In Italia, la Restaurazione non segna un ritorno al passato quanto all’organizzazione assistenziale, e le istituzioni ospedaliere restano sostanzialmente sotto il controllo dello stato e delle autorità comunali, che accentuano il doppio processo di concentrazione e di specializzazione già delineatosi tra Sette e Ottocento. Del resto, un analogo fenomeno avviene nell’ambito della formazione dei medici, dato che le riforme napoleoniche vengono sostanzialmente mantenute con l’abolizione delle vestigia dei corpi dottorali di antico regime e l’istituzione di moderni esami di stato. Anche nello Stato Pontificio, vari tentativi di riforma si succedono, animati inizialmente specie a Roma da preoccupazioni spiccatamente religiose di restaurarne il carattere santo ed esemplare, poi da considerazioni gestionali e mediche. E’ vero, comunque, che nel corso dell’Ottocento, un nuovo slancio caritativo porta alla creazione di congregazioni religiose vecchie e nuove proprio nell’ambito dell’assistenza (oltre che dell’insegnamento), in tutta Italia.

Naturalmente, non si deve fare accentuare eccessivamente la contrapposizione tra laici e cattolici all’interno del variegato universo medico dell’Italia dell’Ottocento quanto al ruolo del medico nella società. Volentieri gli uni e gli altri si presentano come i custodi della morale pubblica e del buon ordine sociale, specie in provincia. E in questo si trovano spesso a fianco del clero, indipendentemente dal fatto che molti esponenti tanto della professione quanto del clero siano invece impegnati in nuove forme di filantropia e di solidarietà sociale.

Fonti e Bibl. essenziale

Storia del pensiero medico occidentale, a cura di M.D. Grmek, 1: Antichità e Medioevo, Laterza, Roma-Bari 1993; 2: Dal Rinascimento all’’inizio dell’Ottocento, Laterza, Roma-Bari 1996; P. Ariès, L’uomo e la morte dal Medioevo a oggi, Laterza, Roma-Bari, 1980; J. Agrimi, C. Crisciani, Medicina del corpo e medicina dell’anima. Note sul sapere del medico fino all’inizio del secolo XIII, Episteme, Milano 1978; Caring and curing: health and medicine in the western religious traditions, ed. Ronald L. Numbers, Darrel W. Amundsen, II edizione: Johns Hopkins University press, Baltimore- London 1998; G.B. Risse, Mending bodies, saving souls: a history of hospitals, Oxford university press, New York-Oxford, 1999; J. Henderson, The Renaissance hospital: healing the body and healing the soul, Yale University Press, New Haven-London, 2006; M.P. Donato, Morti improvvise. Medicina e religione nel Settecento, Carocci, Roma 2010; A. Pastore, Le regole dei corpi. Medicina e disciplina nell’Italia moderna, il Mulino, Bologna 2006; Paolo Zacchia: alle origini della medicina legale, 1584-1659, a cura di A. Pastore, G. Rossi, Franco Angeli, Milano 2008; F.S. Paxton, Christianizing death: the creation of a ritual process in early medieval Europe, Cornell U.P., Ithaca and London, 1990; Storia d’Italia. Annali 9 La Chiesa e il potere politico dal Medioevo alletà contemporanea, a cura di G. Chittolini – G. Miccoli. Einaudi, Torino 1986; Finzione e santità tra medioevo ed età moderna, a cura di G. Zarri, Rosenberg & Sellier, Torino, 1991; N.M. Filippini, La nascita straordinaria : tra madre e figlio la rivoluzione del taglio cesareo, sec. 18.-19., F. Angeli, Milano 1995; Storia d’Italia, Annali 7, Malattia e medicina, a cura di F. Della Peruta, Einaudi, Torino 1984; Health care and relief in Counter-Reformation Europe, ed. O.P. Grell, A. Cunningham, and J. Arrizabalaga, Routledge, London, 1999; Medicine and Religion in Enlightenment Europe, ed O.P. Grell and A. Cunnigham, Ashgate, Aldershot, 2007; E. Brambilla, Corpi invasi e viaggi dell’anima: santità, possessione, esorcismo dalla teologia barocca alla medicina illuminista, Viella, Roma 2010; D. Gentilcore, Healers and Healing in Early Modern Italy, Manchester U.P., Manchester 1998; G. Cosmacini, Storia della medicina e della sanità in Italia, Laterza, Roma-Bari, 1987; J. Duffin, Medical miracles: doctors, saints, and healing in the modern world, Oxoford U.P., Oxford, 2009; A. Foscati, Ignis sacer : una storia culturale del “fuoco sacro” dall’antichità al Settecento, Sismel-edizioni del Galluzzo, Firenze, 2013; Médecine et religion: compétitions, collaborations, conflits XIIe-XXe sicèles, a cura di M.P. Donato et al., Ecole française de Rome, Roma, 2013; S. Cavallo, T. Storey, Healthy Living in Late Renaissance Italy, Oxford U.P., Oxford, 2013.


LEMMARIO