Associazione Italiana dei Professori di Storia della Chiesa

Dizionario Storico Tematico La Chiesa in Italia
Dalle origini all'Unità Nazionale
Roma 2015
Copyright © 2015

Millenarismo - vol. I


Autore: Fabio Besostri

Nell’epoca contemporanea, la ricerca storiografica sul millenarismo ha raccolto grande attenzione sia nell’ambito anglosassone (dove gli studi di N. Cohn e M. Reeves hanno letto nei movimenti escatologisti medievali e moderni gli antesignani dei totalitarismi novecenteschi) sia nell’ambito marxista (interessati agli aspetti politico-economici del messianismo medievale).

In Italia la storiografia sul tema ha risentito dell’approccio modernista, con particolare riferimento alle attese escatologiche interne alla spiritualità cristiana; a partire dagli anni ’80 del secolo scorso però lo studio si è rivolto maggiormente alla ricostruzione delle dottrine, alla trasmissione dei testi, alla conoscenza dei personaggi e dei gruppi di ispirazione escatologista e apocalittica. Ciò ha prodotto come risultato di grande importanza una più precisa classificazione delle articolazioni dei movimenti e delle loro elaborazioni dottrinali.

Il millenarismo nella storia del cristianesimo. Per millenarismo (o chiliasmo, dal greco chilioi, “mille”) si intende, in senso ampio, una dottrina di carattere escatologico già presente nella predicazione del cristianesimo primitivo e ripresa con accenti diversi da movimenti e aggregazioni religiose nel corso dei secoli. Il nucleo fondamentale di questa dottrina escatologica afferma la prossimità del regno messianico di Cristo sulla terra, della durata di mille anni, che si realizzerà tra una prima risurrezione dei morti (riservata ai beati) e una seconda risurrezione, universale, che seguirà il Giudizio divino sulla storia.

La dottrina millenaristica si fonda sull’interpretazione letterale di un passo dell’Apocalisse (20, 1-3), nel quale il termine perentorio dei mille anni è chiaramente indicato come durata del regno terreno dei giusti risorti insieme con Cristo, successivo alla prima sconfitta di Satana; ad esso seguirà il combattimento finale con l’assedio della città dei santi e la sconfitta definitiva del diavolo e dei suoi alleati (cfr. Ap 20, 7-10) e l’instaurazione della Gerusalemme celeste.

Il millenarismo ha radici che affondano nel messianismo ebraico post-esilico (cfr. Dn 8-9); è attestato tra le credenze della comunità qumranica; vi sono accenni anche al di fuori del mondo biblico: in Platone e nelle dottrine neoplatoniche più recenti, in Virgilio, nelle credenze dei magi iranici citati da Plutarco e nei culti misterici diffusi in area mediterranea sin dall’epoca ellenistica. In ambito paleocristiano, è riscontrabile in modo caratteristico nel Nuovo Testamento, e specialmente nell’Apocalisse, che diviene il testo di riferimento dei movimenti millenaristici per i secoli seguenti.

Il millenarismo cristiano, pur nella complessiva indefinitezza delle sue dottrine, si caratterizza per la sua credenza in un regno visibile di Cristo, distinto dalla beatitudine eterna e di durata millenaria, e nell’attesa di una doppia risurrezione (cfr. 1 Cor 15, 23-26). Occorre tuttavia distinguere il millenarismo vero e proprio dall’apocalittica cristiana (assai viva nel cristianesimo primitivo, anch’essa radicata nella cultura e nella religiosità giudaica intertestamentaria), con il quale ha in comune l’attesa della prossima fine del mondo e del ritorno di Cristo.

Il linguaggio dell’Apocalisse, caratterizzato da una grande forza simbolica ed ermetica, ha dato vita a diverse sfumature interpretative, che si possono distinguere in due grandi filoni: il millenarismo carnale (in cui il godimento dei beni temporali nell’età messianica è prevalente: gli autori antichi ne indicano come principale esponente Cerinto, gnostico del I sec., che professava idee di tipo docetista e adozianista), ed un millenarismo spirituale, presente nella letteratura subapostolica (Lettera di Barnaba, Papia di Gerapoli); se ne ritrovano tracce profonde nella teologia e negli scritti di Giustino, Ireneo di Lione, Tertulliano, Lattanzio, Ippolito di Roma e di altri padri della Chiesa, i quali fecero ricorso alle dottrine millenaristiche in funzione della polemica contro le derive eterodosse (specialmente il montanismo e le sette di carattere platonico e gnostico), e con l’obiettivo di affermare la reale umanità di Cristo e l’effettiva resurrezione della carne.

Il millenarismo fu invece avversato da Origene e da coloro che prediligevano un’ermeneutica di tipo allegorico e spirituale del testo sacro in generale e dell’Apocalisse in particolare. Singolare è il pensiero di Agostino, che conobbe e condivise una concezione millenarista della storia della salvezza, ma ne diede una lettura in chiave allegorica (cf. De civitate Dei, XX, 7,1; Sermo 259, 2: PL 1197-8; De Genesi contra manichaeos I, 23,35-41: PL 34, 190-193), ponendo le basi di una teologia della storia destinata ad avere un influsso determinante sul pensiero occidentale.

Il millenarismo primitivo si ridusse progressivamente di importanza a partire dal IV-V secolo; non scomparve mai del tutto, riaffiorando in forme diverse nei periodi seguenti della storia del cristianesimo: l’avvento del regno messianico fu infatti interpretato a più riprese come trionfo e manifestazione di una Chiesa spirituale, non più gerarchica, e purificata da ogni contaminazione terrena. Si può perciò parlare di millenarismo a proposito di alcune dottrine medievali legate all’escatologismo gioachimita e al francescanesimo spirituale; forti accenti millenaristici affiorano nel movimento popolare inglese dei «lollardi» (XIV sec.) e nel pensiero del loro ispiratore John Wyclif; da questi passa pochi anni dopo in Boemia a Milic di Kromeric (†1374), Matthias di Janov (†1391) fino a Jan Hus (†1415) e ai suoi seguaci, i quali continuano a diffondere nel popolo profezie e previsioni apocalittiche anche dopo la morte di Hus.

Il linguaggio e l’ideologia millenarista confluì poi in alcune correnti della Riforma protestante, come gli anabattisti del XVI sec.; riapparve in alcune sette anglosassoni dei secc. XVII e XVIII (shakers, “fratelli del libero spirito”), ma anche in certi epigoni del giansenismo del XVIII sec. in Francia e del XIX sec. in Italia (come Giovanni Cadonici e Eugenio Degola, seppure in maniera molto sfumata); ed infine ha conosciuto una rinnovata vitalità nell’ambito dei movimenti di origine protestante nati sul continente americano (irvinghiani, avventisti, mormoni, testimoni di Geova).

Medioevo millenarista italiano. L’avvicinarsi della scadenza del primo millennio non suscitò particolari attese nella cristianità, a causa dell’impossibilità, per la maggior parte delle persone di quell’epoca, di misurare o anche solo di conoscere l’esatta datazione degli anni.

Com’è noto, la “grande paura dell’anno mille” era in realtà solo un’invenzione storiografica dello scrittore francese Jules Michelet (nella Storia di Francia pubblicata nel 1833) e a lungo seguita dagli storici europei in modo acritico. In realtà, solo dopo il Mille alcuni scrittori (a partire da Rodolfo il Glabro) nell’ambito della loro riflessione sulla decadenza del mondo e della Chiesa, iniziarono, sulla scia del millenarismo agostiniano, a citare come in una sorta di profezia a posteriori eventi di carattere catastrofico, considerandoli segni premonitori dell’imminente ritorno del Signore.

Le correnti millenaristiche riapparvero con forza all’approssimarsi della data del 1260, che secondo alcuni sarebbe stata indicata da Ap 12, 6 e perciò considerata “fatidica”. In particolare Gioacchino da Fiore (1135-1202), monaco calabrese, abate cistercense, sviluppò nelle sue opere un’originale e complessa dottrina escatologica, incentrata su una crescente chiarezza della Rivelazione, cui avrebbe corrisposto una sempre maggiore comprensione di essa da parte degli uomini. Gioacchino distingueva perciò tre grandi periodi storici, connessi a ciascuna persona della Trinità : vi sarebbe stata perciò l’età del Padre, cioè il tempo dell’Antico Testamento, da Adamo a Ozia re di Giuda (784-746 a. C., il primo antenato noto di Cristo); l’età del Figlio (il tempo del Vangelo, da Ozia fino al 1260, data individuata in base ad elaborati calcoli ispirati dal libro biblico del profeta Daniele) e infine l’età dello Spirito Santo (dal 1260 alla fine del “millennio sabbatico”) in cui l’umanità avrebbe conosciuto il Vangelo eterno; un tempo di profonda spiritualità e di rinnovamento, in cui la “Chiesa di Pietro”, con le sue strutture clericali e gerarchiche, avrebbe lasciato il posto alla “Chiesa di Giovanni”, animata dai viri spirituales, nella quale tutti i cristiani avrebbero potuto raggiungere la pienezza della comprensione del mistero divino.

Le idee gioachimite ispirarono i contemporanei, mistici (come Ubertino da Casale e Gerardo di Borgo San Donnino) ed eretici (Gherardo Segalelli, Dolcino da Novara); sostenute dapprima dai Cistercensi, ebbero poi un influsso fortissimo sulla corrente “spirituale” del francescanesimo e in generale sui movimenti pauperistici del XIII e XIV secolo, soprattutto quando le profezie gioachimite sembrarono realizzarsi nell’elezione papale dell’eremita abbruzzese Pietro da Morrone, che prese il nome di Celestino V (1294). Le vicende del suo brevissimo pontificato, dell’abdicazione, prigionia e morte (1296) causarono la nascita di un legame tra “spirituali”, movimenti antipapali e in alcuni casi anche sètte ereticali, la cui repressione sopì a lungo in Italia le idee dell’escatologia millenarista e apocalittica; esse, come si è detto, rimasero comunque vive e riaffiorarono in seguito in altre regioni europee.

Il teologo francescano (poi vescovo e cardinale) Bonaventura da Bagnoregio purificò la dottrina di Gioacchino dalle concezioni più problematiche, riuscendo così a salvarne il contenuto esegetico-profetico nonostante la condanna delle dottrine dell’abate calabrese pronunciata nel IV concilio Lateranense del 1215: «Bonaventura non rifiuta totalmente Gioacchino (come aveva fatto S. Tommaso), ma lo interpreta piuttosto in modo ecclesiale, creando un’alternativa ai gioachimiti radicali» (Ratzinger, San Bonaventura, 15).

In anni recenti vi è stata una forte ripresa degli studi su Gioacchino da Fiore, che ha permesso di meglio contestualizzarne il pensiero nell’ambito della teologia del XII sec. e nel movimento cistercense. Ne è emersa così la figura di un fautore della riforma della Chiesa, fortemente legato all’ambito monastico e capace di una originale prospettiva storico-teologica (o storico-salvifica): «L’organica connessione dei suoi scritti fra teologia trinitaria, esegesi apocalittica ed escatologia rappresentò un sistema particolarmente importante nello sviluppo dottrinale nella seconda metà del secolo XII, anche se spesso venne ridotto da seguaci e oppositori soltanto alla suddivisione ternaria delle età della storia e alla fama di profeta dell’abate calabrese» (Rusconi).

Fonti e Bibl. essenziale

N. Cohn, I fanatici dell’Apocalisse, Edizioni di Comunità, Milano, 1965; R.A. Knox, Illuminati e carismatici. Una storia dell’entusiasmo religioso, Bologna, il Mulino 1970 (orig. 1962); G. Duby, L’anno Mille. Storia religiosa e psicologia collettiva, Einaudi, Torino, 1976; O. Capitani, Medioevo ereticale, Il Mulino, Bologna 1977; J. Ratzinger, San Bonaventura. La teologia della storia, Ed. Nardini, 1982; M. Cafiero, «La verità crocifissa». Dal sinodo di Pistoia al millenarismo giansenistico nell’età rivoluzionaria, in AA. VV., Il sinodo di Pistoia del 1786, a cura di C. Lamioni, Roma, 1991, 313-325; R. Rusconi, Eschatological Movements and Messianism in the West (XIII-Early XVI Centuries), http://www.oslo2000.uio.no/program/papers/m2b/m2b-rusconi%20-%20italian.pdf; G.L. Potestà, Escatologia, apocalittica, millenarismo, in Atlante del cristianesimo. Vol. I, Dalle origini alle chiese contemporanee, UTET, Torino 2006, 314-335.


LEMMARIO




Miniatura - vol. I


Autore: Giovanni Liccardo1

Definizione. La miniatura (da minium, il colore ottenuto con ossido salino di piombo con il quale si eseguivano le prime versioni dell’ornamentazione della scrittura, quali titoli, iniziali o segni che marcassero i paragrafi) passa ingiustamente per aspetto “minore” dell’attività artistica; con questo termine si intendono le forme di decorazione eseguite a mano e non a stampa su libri (manoscritti e dal XV secolo in poi anche libri stampati) con più inchiostri o altre materie coloranti. Illustrazione, miniatura tabellare, capolettera, cornice non costituiscono però generi di decorazione strettamente distinti: essi si trovano combinati in tutte le maniere possibili, fino a raggiungere risultati di estrema complessità e ricchezza.

La miniatura venne assumendo un carattere basilare nell’arte medievale; in essa scrittura e immagini stabilirono un rapporto intimo e strettissimo. Basti pensare allo sviluppo dell’iniziale che si sviluppò dapprima con elementi decorativi, a intreccio, vegetali o animalistici e divenne poi figurata e istoriata. Allo stesso modo le grandi miniature a piena pagina palesano esiti del tutto confrontabili con i risultati raggiunti dalla pittura monumentale. Per di più, in alcuni periodi, come nell’età carolingia o ottoniana, proprio la miniatura rappresenta una fonte essenziale per conoscere la cultura stilistica e iconografica della parallela arte pittorica, considerata la perdita di molti cicli ad affresco o di tavole. Anche dopo la nascita della stampa continuarono fino ai primi decenni del Cinquecento a prodursi libri manoscritti e libri stampati, gli uni e gli altri decorati a mano; da questo momento tuttavia la diffusione della stampa e l’avvento delle tecniche incisorie meccaniche, soprattutto la xilografia, soppiantarono la decorazione e l’illustrazione miniata.2

Storia e centri di produzione. La progressiva cristianizzazione dell’Occidente determinò un fondamentale connotato iconografico; le storie bibliche divennero protagoniste di un’alta percentuale di codici che diffusero in ogni luogo le Sacre Scritture, con una perdita di interesse verso la realtà percepita dai sensi e il predominio di uno stile figurativo dove ogni elemento acquistava valore solo in quanto metafora del mondo trascendente. Si sviluppò una relazione stretta tra testo e immagini, con iniziali figurate (umane o animali) e istoriate (con piccole scene o decori vegetali), bordi decorati, monogrammi a piena pagina per le prime lettere del testo, tavole di canoni, immagini didattiche e mnemoniche. Si moltiplicarono anche i libri destinati alla liturgia, strumenti per la celebrazione del culto, strettamente legati all’arredo dell’altare. Ai codici dedicati alla preghiera pubblica (breviario e messale), utilizzati per l’ufficio canonico e la celebrazione eucaristica, si affiancano presto i libri concepiti per la preghiera individuale e silenziosa; così il libro d’ore, destinato alla meditazione personale dei laici, venne di frequente commissionato da sovrani, principi e nobili e si diffuse a tal punto da diventare anche oggetto di una produzione quasi seriale, destinata alla vendita.

Le modalità di organizzazione e diffusione delle miniature furono determinate dall’accentramento della produzione negli scriptoria allestiti nei centri monastici che andavano diffondendosi in ogni parte d’Europa; nei monasteri si preparava la pergamena, si rigava e scriveva il manoscritto, lo si illustrava e infine veniva eseguita la legatura. Qui i libri, lungi dall’essere beni materiali, oggetto di compravendita, diventavano opus spirituale; prodotti e conservati all’interno di un monastero o di una scuola cattedrale, erano oggetti di valore, da conservare o, al massimo, da donare: preziosi in sé, per il loro contenuto sacrale, tanto più se composti con materiali pregiati. E per esaltare al massimo la parola divina, la si scriveva con inchiostri d’oro o d’argento, su fogli di pergamena colorata di porpora.3

Nell’Italia altomedievale i centri nei quali vengono prodotti i più importanti libri illustrati sono, accanto a Roma che mantiene attraverso i secoli una situazione privilegiata, gli scriptoria dei grandi monasteri benedettini e quelli delle grandi sedi vescovili come Milano, Vercelli, Ivrea, Verona, Padova ecc.. E ancora, i monasteri di Bobbio, fondato nel 612 da san Colombano, e centro di diffusione delle influenze insulari che ebbe un importante ruolo fino a tutto il X secolo, e quello di Nonantola, fondato nel 756 da Anselmo duca del Friuli fattosi monaco e molto attivo nel campo della produzione libraria. Tra i poli romanici celebri furono Polirone (fondata nel 1007), l’antica abbazia di Nonantola, San Salvatore all’Amiata, i monasteri di Roma e dintorni, l’abbazia imperiale di Farfa nella Sabina, Subiaco e soprattutto Montecassino in cui la produzione artistica e lo scriptorium furono rinnovati dall’abate Desiderio (1058-87).

Nell’Italia altomedievale i centri nei quali vengono prodotti i più importanti libri illustrati sono, accanto a Roma che mantiene attraverso i secoli una situazione privilegiata, gli scriptoria dei grandi monasteri benedettini e quelli delle grandi sedi vescovili come Milano, Vercelli, Ivrea, Verona, Padova ecc.. E ancora, i monasteri di Bobbio, fondato nel 612 da san Colombano, e centro di diffusione delle influenze insulari che ebbe un importante ruolo fino a tutto il X secolo, e quello di Nonantola, fondato nel 756 da Anselmo duca del Friuli fattosi monaco e molto attivo nel campo della produzione libraria. Anche le formulazioni dell’Italia meridionale occupano un posto di primo piano nella storia della miniatura italiana; le opere testimoniano l’esistenza di legami culturali, oltre che con Roma, soprattutto con l’arte del mondo bizantino, come esemplifica  l’Evangeliario di Rossano, con  i suoi colori di smalto, le sue stilizzazioni, le sue singolari vedute decorative ispirate alla flora, alla fauna, ai motivi più vari, geometrici e d’architettura. Le miniature mostrano la tendenza ad aprirsi a nuove soluzioni, con la presenza di motivi ornamentali che giungono dalla Sicilia, in particolare da Messina, attestanti in modo evidente un atteggiamento estremamente moderno degli artisti, sempre aperti a recepire le nuove proposte culturali che andavano sorgendo nei vari centri di produzione artistica. In seguito, quando la Sicilia fu occupata dagli Arabi dalla metà del secolo IX, si diffondono miniature con evidenti influenze islamiche; tra l’altro, anche i maggiori artisti italiani furono influenzati dal gusto cromatico e decorativo arabo. Arnolfo di Cambio, Duccio di Buoninsegna e soprattutto Giotto che dipinge spesso alle spalle delle Madonne stoffe con motivi islamici. La grafia islamica si trova anche in alcune decorazioni di manoscritti miniati di area bolognese; questa moda dura tuttavia in Italia solo fino agli anni ’30 del Trecento, viene in seguito sopraffatta dalle decorazioni goticheggianti, di ispirazione francese.4

In seguito il crescente peso acquisito dalla committenza laica (soprattutto rappresentata dai circoli universitari e dall’aristocrazia), stimolò la creazione di ateliers (in Italia primo centro ne è Bologna, seguita poi da Padova, Rimini, Venezia, Milano, Siena, Firenze, Pisa, Perugia, Napoli, Palermo) non più entro mura conventuali, ma nei centri urbani più importanti impegnati a sviluppare e creare iconografie del tutto nuove, attorno ai temi della letteratura profana cortese. Tra i miniatori più noti sono da ricordare Oderisi da Gubbio, attivo tra 1269 e 1271, seguito agli inizi del Trecento da Franco Bolognese e il Maestro della Bibbia di Corradino (ultimo quarto del Duecento), Lando di Antonio, vicinissimo al grande anonimo chiamato Pseudo-Jacopino, il Maestro dell’Arte dei Merciai, Niccolò di Giacomo, Zanobi, il Beato Angelico e Francesco d’Antonio del Chierico.

Fonti e Bibl. essenziale

M.L. Agati, Il libro manoscritto. Introduzione alla codicologia, L’Erma di Bretschneider, Roma 2003; De arte illuminandi e altri trattati sulla tecnica della miniatura medievale, a cura di F. Brunello, Neri Pozza, Vicenza 1992; Gregorio Magno e le radici cristiane dell’Europa, a cura di G. Zivelonghi, C. Adami, A.M. Faccini, Ed. C.F.P. “Stimmatini”, Verona 2005; La miniatura italiana. I. Dal Tardoantico al Trecento con riferimenti al Medio Oriente e all’Occidente europeo, a cura di A. Putaturo Donati Murano – A. Perriccioli Saggese, Edizioni Scientifiche Italiane-Biblioteca Apostolica Vaticana, Napoli-Città del Vaticano 2005; La tradizione veronese nelle miniature dei Codici Capitolari, a cura di A. Piazzi – G. Zivelonghi, Ed. C.F.P. “Stimmatini”, Verona 1984; La vita medioevale italiana nella miniatura, a cura di A. Giardini – E. Baggio, Ed.D’arte, Roma 1966; Il codice miniato: rapporti tra codice, testo e figurazione, in Atti del 3° Congresso di storia della miniatura, a cura di M. Ceccanti – M.C. Castelli, L.S. Olschki, Firenze 1992; A. Petrucci, La descrizione del manoscritto. Storia, problemi, modelli, Carocci, Roma 20012a; M. Rotili, Introduzione alla storia della miniatura e delle arti minori in Italia, Libreria scientifica editrice, Napoli 1970; M. Salmi, La miniatura italiana, Electa, Milano 1955.

Immagini:

1) Rossano Calabro, Codex Purpureus Rossanensis, Ultima cena (VII secolo); 2) Firenze, Biblioteca Laurenziana, Codex Amiatinus 1, f. Vr, Ritratto di Ezra, (VIII secolo); 3) Roma, Codice Miniato, Biblioteca Apostolica Vaticana (XIV secolo); 4) Chirignago (Ve), Miniatura dello statuto, Mater Misericordiae (1517).

Sitografia:

http://www.riccardiana.firenze.sbn.it (sito della biblioteca Riccardiana che vanta uno dei più preziosi patrimoni manoscritti e di codici miniati); http://manus.iccu.sbn.it//index.php (database che comprende la descrizione e le immagini digitalizzate dei manoscritti conservati nelle biblioteche italiane pubbliche, ecclesiastiche e private); http://www.iccu.sbn.it/opencms/opencms/it/ (sito dell’Istituto Centrale per il Catalogo Unico delle biblioteche italiane e per le informazioni bibliografiche, ICCU).


LEMMARIO




Missioni estere - vol. I


Autore: Angelo Manfredi

Con questa espressione si intende l’impegno di personale originario della penisola italiana, e radicato nelle chiese che la strutturano, per la missione verso popoli non cristiani esterni alla penisola stessa, che come tale si cristianizza nei secoli del tardo impero. Quindi escluderemo il fenomeno del passaggio al cristianesimo nella sua forma romana dei Longobardi che occupano i gangli vitali di gran parte dell’Italia attuale.

Per ciò che riguarda il I millennio cristiano, si può brevemente rammentare l’apporto della chiesa aquileiese e delle realtà ad essa collegate per la diffusione del cristianesimo verso le popolazioni slave dell’attuale Carinzia, Slovenia e Croazia, e la figura di Gerardo, veneziano e vescovo di Czanad tra gli ungari, al tempo del re Vajk-Stefano. Gerardo fu martirizzato nel 1046 in occasione di una reazione pagana. Tuttavia gran parte delle stirpi germaniche, slave e di altre origini e culture videro l’impegno missionario di clero proveniente più dalle realtà statuali franche o da Bisanzio, mentre le chiese più propriamente italiche sembrano meno coinvolte.

Qui si evoca soltanto l’apporto dei membri italiani degli ordini mendicanti ai tentativi di evangelizzazione rivolti alle popolazioni musulmane del nord-Africa, del vicino Oriente, o alle orde ancora sciamaniche dell’Asia Centrale, nei secoli XII-XV: basti ricordare la figura del francescano Giovanni da Montecorvino che fu dal 1307 arcivescovo di Khanbaliq (Pechino), e del domenicano Tommaso Mancasole da Piacenza che fu vescovo di Samarkand nello stesso periodo.

Con la cosiddetta scoperta del nuovo mondo, lo sviluppo della navigazione e del commercio intercontinentale e i primi fenomeni di colonizzazione, spesso com’è noto collegati con l’evangelizzazione, si aprono prospettive di investimento di personale italiano, appartenente a ordini più antichi o più recenti che si dedicano anche alla missione ad gentes. Sono ben noti i nomi di Matteo Ricci (Macerata 1552 – Pechino 1610) e di Roberto De’ Nobili (Roma 1577 – Meliapur 1656), gesuiti, pionieri dei metodi di adattamento rispettivamente in Cina e in India. Forse meno noto, ma di reale importanza storica è Alessandro Valignano (Chieti 1538 – Macao 1606), missionario in Giappone e visitatore delle missioni d’oriente, sempre della Compagnia di Gesù. Ricordiamo pure Nicolò Mascardi di Sarzana S.J. (1624-1674) missionario ed esploratore in Cile. Nei territori soggetti al patronato della corona di Spagna, ossia in gran parte dell’America Latina, come nei territori più direttamente collegati al Portogallo, quali Brasile, Goa, Macao, le congregazioni impegnate nella diffusione del cristianesimo reclutavano personale esclusivamente d’origine spagnola, e rispettivamente lusitana, escludendo perfino, a quanto ne sappiamo, i territori italiani soggetti al monarca iberico. Fanno eccezione, oltre ai gesuiti, i cappuccini, direttamente alle dipendenze della congregazione romana di Propaganda Fide, e presenti in Congo nei secoli XVII e XVIII, e in Pernambuco (Brasile) dal 1699. Il governo portoghese soppresse nel 1834 gli ordini religiosi anche in quell’area, facendo venir meno la presenza cappuccina italiana. Invece è una pagina in gran parte da esplorare coi metodi moderni la presenza di italiani francescani, domenicani e di altri ordini nel mondo legato all’impero ottomano, tra i secoli XVI e XIX: Bosnia, Turchia, Terrasanta, dove alcuni raggiunsero anche responsabilità prelatizie o svolsero compiti diplomatici o culturali di alto livello. Questa missione, oltre ai rapporti col mondo musulmano, creava relazioni con i cristiani orientali, separati o uniti a Roma, rapporti spesso delicati. In oriente abbiamo pure i cappuccini italiani in Tibet e Nepal (1703-1803) e i carmelitani scalzi italiani presenti nel XVIII e inizio XIX secolo a Verapoly (ora Ernakulam, in Kerala, India sud-occidentale; diviso in tre vicariati nel 1845) e a Bombay sulla costa centro-occidentale: Ferdinando Fortini sarà l’ultimo vicario italiano a Bombay (1840-1848), ove poi saranno presenti soprattutto vicari francesi; i carmelitani scalzi ebbero una missione anche a Isphahan in Persia (1607-1797) con un certo irradiamento nel golfo Persico.

Come si può notare da quanto finora elencato, il secolo XVIII portò a un regresso dell’opera di propagazione della fede oltremare, a seguito delle soppressioni dei gesuiti e poi napoleoniche e della crisi di reclutamento negli ordini religiosi europei.

Con la restaurazione e il ripristino della congregazione romana di Propaganda Fide anche le chiese della penisola italiana furono coinvolte nel movimento missionario, che si può definire ormai verso le “missioni estere”, e che assume forme e modalità innovative. Ci limiteremo qui al periodo precedente al 1870, con connessioni che porteranno com’è ovvio alla seconda parte della voce.

Le province francescane e cappuccine, appena fu possibile, ripresero l’invio di personale in terre di missione: diversi vicariati furono assegnati o ripristinati a favore dei minori in Cina (lo Shanxi e lo Shaanxi sono presidiati dai francescani con continuità dalla fine del XVII sec.; lo Hukwang dal 1836, diviso nel 1856 in due vicariati, Hunan e Hubei; lo Shandong dal 1837); la provincia di Aracoeli (Roma) inviava missionari nel 1857 tra gli indios dell’Argentina del nord; cappuccini italiani sono presenti tra gli Araucani del Cile (1848-1888); dodici francescani italiani cacciati dal Messico nel 1835 si dedicarono alla Bolivia. Un alone di mito circonda il cappuccino Guglielmo Massaia (Piovà/AT 1809 – S. Giorgio a Cremano/NA 1889, cardinale dal 1884), vicario apostolico dal 1841 nel centro-sud dell’Etiopia, tra gli Oromo (o Galla), esploratore e scrittore popolare.

Anche i gesuiti, restaurati in Italia nel 1814, nonostante le minacce e poi la crisi di una seconda soppressione, dedicarono parte del personale alla missione. La provincia romana nel 1863 inviò in Brasile, nello stesso periodo la provincia torinese era presente tra i nativi in California, Oregon e Montagne Rocciose (più tardi anche in Alaska); la provincia siciliana in Honduras e, con qualche elemento, in Australia.

I Vincenziani o Lazzaristi sono presenze singolari in teatri particolarmente dislocati: Luigi Montuori (Avellino 1798 – Napoli 1857) e Girolamo Serao (o Serrao) a Khartoum in Sudan (1834-1846); Vincenzo Spaccapietra (Francavilla 1801 – Smirne 1878) fu arcivescovo di Port of Spain nelle Antille (1855-1859) e poi a Smirne (1862-1878); il nome più noto è quello di S. Giustino De Jacobis (1800-1860), in Etiopia come vicario dal 1839 al 1860. La missione sudanese fu quella più critica, mentre la difficile presenza in Etiopia fu proseguita da vincenziani francesi.

Citiamo poi l’alternarsi di italiani in Birmania (ora chiamato Myanmar): dapprima i barnabiti dal 1722 al 1837, con un vicariato apostolico e alcuni padri per i meticci birmano-portoghesi cristianizzati; dopo una breve successione degli scolopi, dal 1837 tentarono gli oblati di Maria Vergine “di Torino”, fondati da Pio Brunone Lanteri, fino al 1862, sostituiti poi dai francesi delle “Missions étrangères”.

In Australia, sembra che il primo tentativo di approccio verso i nativi (1842-46) fu di quattro passionisti nell’isola di Dunwich (North Stradbroke Island, Queensland, davanti alla città di Brisbane).

Come si può notare, molti di questi invii ebbero breve durata e lasciarono frequentemente il posto a missionari francesi. Questo dipese certamente dalle vicende che portarono a una seconda ondata di soppressioni, prima con le leggi piemontesi e poi con quelle del 1866-67 sull’asse ecclesiastico, mentre l’impero di Napoleone III e poi la Terza repubblica fino almeno al 1905 appoggiavano le missioni. Ma in Italia il movimento popolare missionario, vera novità del secolo XIX, pur essendo diffuso abbastanza precocemente (1824 Piemonte, 1825 Sardegna, 1835 tutti gli altri stati) non aveva la stessa forza economica. Infine una realtà antica e consolidata come le “Missions étrangères” non aveva ancora un vero corrispettivo nella penisola.

Su questo modello, cioé di sacerdoti secolari dedicati alla missione, in Italia si stavano formando alcuni istituti: anzitutto l’Istituto Missioni Estere di Milano (S. Calogero) dal 1850, con missioni nelle Isole Salomone (1852-1858: nel 1855 vi morì martire il b. Giovanni Mazzucconi), ad Hyderabab e in Bengala, India (1855), in Borneo (1855-1860), in Colombia (1856-1942), a Hong Kong (dal 1858), in Cina (Henan 1870), e tra i “tribali” in Birmania (dal 1870); e a Genova il Collegio Brignole-Sale-Negrone dal 1855. Dal 1835 esiste la Società Missionaria dell’Apostolato Cattolico fondata a Roma da Vincenzo Pallotti, che però avrà missioni dal 1870 in avanti.

Intanto in varie città italiane stavano giungendo i “negretti” e le “negrette”, piccoli schiavi riscattati e portati in Italia per essere educati al cattolicesimo (Genova, con don Nicolò Olivieri; Napoli, col p. Ludovico da Casoria OFM; Verona, con don Nicola Mazza). Dalla vivace realtà ecclesiale di Verona, in cui l’ideale missionario è diffuso da don Mazza, parte nel 1857 un gruppo di sacerdoti, che accompagnano un nuovo vicario apostolico dell’Africa centrale, l’austriaco I. Knoblecher, dopo il ritiro del vincenziano Montuori da Khartoum. Di questo gruppo fa parte Daniele Comboni. I superstiti della spedizione, decimata dalle malattie, ritornano in Europa nel 1862. Comboni, dopo questa prima esperienza fallimentare, elabora nel 1864 il “Piano per la rigenerazione dell’Africa”, dai forti contenuti innovativi e antischiavisti. Il seguito della sua avventura missionaria si colloca dopo il concilio Vaticano I, a cui Comboni partecipa attivamente.

Tra le prime religiose dedite alla missione ci saranno le Canossiane, anch’esse originarie di Verona, a Hong Kong dal 1860. Nell’Italia della prima metà dell’ottocento inizia lentamente a maturare la possibilità di una presenza femminile nelle missioni. Tra i vari esempi si può citare l’itinerario originale delle Francescane Missionarie d’Egitto, sorte da un monastero di vita contemplativa di Ferentino nella Ciociaria ma presto (1859) lanciate dalla fondatrice, suor Maria Caterina Troiani (Giuliano Romano 1813 – Cairo 1887), nell’impegno educativo presso i musulmani.

Un rapido sguardo al movimento missionario italiano del primo ottocento evidenzia un certo fermento di persone e opere, slegato da mire egemoniche e coloniali come quelle francesi, a cui anche Propaganda Fide intendeva limitare il monopolio, ma fondato sui tradizionali ordini religiosi, con le fragilità che emergono nei momenti di crisi europea, con la frammentazione tipica di queste organizzazioni e dell’Italia del tempo, e con un embrione di diffusione popolare, non ancora sostenuta da congregazioni interamente missionarie. In questo senso, la vicina Francia resta all’avanguardia ed è modello di quelle nuove realtà che lentamente vanno delineandosi.

A questo apporto di forze di evangelizzazione sul campo l’Italia però aggiunge i prelati dedicati alla congregazione romana di Propaganda Fide, spesso personalità acute e preparate, anche se prive di esperienza diretta in missione, comunque sensibili a nuovi orizzonti. Citiamo Stefano Borgia (1731-1804) segretario e poi prefetto, estensore di relazioni in cui si postulava la formazione di clero indigeno, Mauro Cappellari (Belluno 1765 – Roma 1846), prefetto nel 1825-1830 poi papa Gregorio XVI, Giacomo Filippo Fransoni (prefetto da 1834 al 1856), Alessandro Barnabò (prefetto dal 1856 al 1874).

Presto la diffusione dei testi di René de Chateaubriand, della traduzione delle Lettres édifiantes et curieuses (Milano 1825-1829), delle traduzioni degli Annali della Propagazione della Fede e delle relazioni di Massaia (1885-1895, 12 volumi editi a Roma e Milano) apriranno all’opinione pubblica popolare una più intensa sensibilità verso la missione “oltremare”.

Fonti e Bibl. essenziale

G. Battelli, Daniel Comboni et son “image” de l’Afrique, in Eglise et histoire de l’Eglise en Afrique. Actes du colloque de Bologne (22-25 octobre 1988), a cura di G. Ruggieri, Paris (Beauchesne) 1988, 63-87; Dalle missioni alle chiese locali (1846-1965), a cura di J. Metzler, (Storia della Chiesa “Fliche-Martin”, 24), Cinisello Balsamo (Ed. Paoline) 1990; P. Gheddo, PIME: 150 anni di missione (1850-2000), Bologna (EMI) 2000; Histoire universelle des missions catholiques. 3: les missions contemporaines (1800-1957), a cura di S. Delacroix, Paris (Grund) 1958; J. Leflon, Crisi rivoluzionaria e liberale. II: restaurazione e crisi liberale (1815-1846), (Storia della Chiesa “Fliche-Martin”, 20/2), Torino (SAIE) 1975, 893-944; G. Martina, Pio IX (1851-1866), Roma (Editrice Univ. Gregoriana) 1986, 357-424; G. Martina, Storia della Compagnia di Gesù in Italia (1814-1983), Brescia (Morcelliana) 2003, 121-124. 137; G. Romanato, L’Africa nera fra cristianesimo e islam. L’esperienza di Daniele Comboni (1831-1881), Milano (Corbaccio) 2003; J. Schmidlin, Manuale di storia delle missioni cattoliche. III: le missioni nell’epoca contemporanea, Milano (Pontificio Istituto Missioni Estere) 1929; G. B. Tragella, Le Missioni Estere di Milano nel quadro degli avvenimenti contemporanei, 3 volumi, Milano (Pontificio Istituto Missioni Estere) 1950-1963; DIP: Cappuccini, 2, 230-233; 247-249 (Melchiorre da Pobladura); Carmelitani scalzi, 2, 570-580 (V. Macca); Congregazione della Missione, 2, 1543-1551 (L. Chierotti, quasi senza notizie sulle missioni); Figlie della Carità Canossiane, 3, 1534 (A. Serafini); Francescane Missionarie del Cuore Immacolato di Maria dette d’Egitto, 4, 337-338 (E. Frascadore); Frati minori simpliciter dicti, 4, 873-895 (E. Frascadore, P. Péano); Oblati di Maria Vergine, 6, 634-637 (P. Calliari).


LEMMARIO




Missioni interne - vol. I


Autore: Giovanni Pizzorusso

Le missioni interne (dette anche popolari) originano dalle istanze di riforma sviluppatesi nel XVI secolo. In quanto rivolte si svolgono all’interno del mondo cattolico si distinguono da quelle dette ad gentes, cioè dirette ai popoli non cattolici da convertire, e vengono anche definite come forma straordinaria di predicazione. La specificità delle missioni popolari è l’intervento sui fedeli all’interno delle diocesi per correggere la scarsa conoscenza, l’indifferenza o la vera e propria ignoranza dei principi e delle pratiche della religione cattolica, carenze emerse in diversa modalità e misura in ambito urbano e soprattutto rurale nel quale la religiosità popolare sconfinava nella superstizione. Tale esigenza di sollecitazione del fervore e della pietas dei fedeli sorse all’interno di alcuni ordini regolari che divennero i protagonisti di tali missioni. Così esse si diffusero in tutta l’Europa cattolica nel corso del XVI secolo, quando anche la tensione confessionale con il mondo protestante stimolò l’urgenza di un rafforzamento della fede della popolazione cattolica soprattutto attraverso la catechesi, la penitenza, l’orazione e gli esercizi spirituali, talvolta attuati con forme espressive particolarmente drammatizzate o teatrali, secondo una metodologia che muta nel tempo e che viene sistematizzata in vari trattati scritti dagli stessi missionari.

La penisola italiana, nella sua grande maggioranza cattolica, conobbe un ampio sviluppo di queste missioni. La scarsa pratica della religione era determinata anche dal numero insufficiente e dalla scarsa preparazione di parroci, tema al centro del Concilio tridentino. La diffusione dei missionari era quindi destinata a sopperire alle inefficienze del clero diocesano, a costituire un intervento di emergenza, autorizzato dai vescovi, che doveva agire dove richiesto e altresì cessare al momento del ripristino o del raggiungimento di una situazione normale di cura spirituale.

Il rapporto istituzionale era quindi soprattutto con l’autorità locale diocesana. Per le missioni interne non fu fondato un dicastero pontificio come accadde per quelle ad gentes, la Congregazione de Propaganda Fide nel 1622. Anche per quest’ultima l’azione missionaria era costituita dal duplice sforzo di propagazione e difesa della fede, ma lo spazio dell’azione giurisdizionale di Propaganda si definì quasi subito come quello esterno al mondo cattolico, dove i precetti tridentini andavano introdotti ex-novo e dovevano essere accudite e difese semmai le comunità di neo-convertiti. Dopo un’iniziale inchiesta a tappeto nel 1622 sulla necessità di invio di missionari presso tutti i vescovi italiani, cui questi risposero in modo piuttosto evasivo, Propaganda limitò la sua giurisdizione in Italia alle frontiere con l’eresia, come nelle valli alpine, oppure alle minoranze di italo-greci unite a Roma in cambio della protezione del loro rito orientale. Inoltre il dicastero si interessò alle città portuali (Venezia, Napoli, Livorno) con il loro mondo cosmopolita fatto di schiavi musulmani, ma spesso anche di eretici di passaggio, in particolare mercanti.

A parte questi casi di missione “interna”, ma rivolta ad eretici o a cattolici di rito orientale, l’apostolato in Italia è costituito dalle missioni popolari nell’ambito istituzionale della diocesi. I missionari sono soprattutto membri degli ordini regolari, in primo luogo i gesuiti fin dalla fondazione della Compagnia alla metà del XVI secolo. Per essi le missioni popolari costituirono un completamento dell’azione apostolica presso gli “infedeli” e gli “eretici” costituendo le Indie “interne” nelle quali essi agirono già alla metà del secolo con Silvestro Landini, missionario in Garfagnana e in Corsica. In quel periodo di persistente timore di infezione eretica, la missione costituiva l’aspetto apostolico e devozionale di una lotta che si combatteva anche con la repressione dottrinale ad opera di vescovi e di inquisitori. La confessione era il momento nel quale il missionario svolgeva un’attività di inquisitore, registrando nomi e spingendo ad abiure segrete. Se questa attività repressiva si attenuò nel corso del secolo, rimasero le iniziative a favore dell’intervento disciplinare sui fedeli nel segno di un persistente controllo dottrinale. Così le missioni si sovrapponevano alle visite pastorali dei vescovi di cui assumevano i compiti organizzando il culto dei laici e proponendosi come pacificatori. Come ha osservato Adriano Prosperi, questa funzione vicaria di inquisitori e vescovi portò, oltre a conflitti istituzionali, anche a una perdita del senso specifico della missione. Tra XVI e XVII secolo vi fu quindi uno sforzo di ridefinizione da parte della Compagnia di Gesù durante il generalato di Claudio Acquaviva. Questi operò un sostanziale rilancio di tale attività missionaria indirizzandola soprattutto verso il risveglio della pietà cristiana e lasciando alla visita pastorale del vescovo gli aspetti riformatori della disciplina e all’azione inquisitoriale quella repressiva. Se quindi i gesuiti avevano offerto una forza di rapida mobilitazione, stimolata anche dall’autorità civile, per il controllo socio-religioso dei fedeli, tuttavia la struttura episcopale della Chiesa tridentina doveva, pur lentamente, mettersi in moto.

La missione diventa quindi un’attività più specializzata e definita, legata all’apostolato, alla predicazione e alla mobilitazione delle coscienze e i missionari tendono a specializzarsi e dividersi tra l’attività di conversione nelle vere Indie e quella di risveglio apostolico nelle Indie “interne”. Non che manchino casi in cui lo stesso religioso abbia operato nei due contesti, oppure che vengano utilizzati strumenti di comunicazione comuni (le immagini, le rappresentazioni teatrali), ma i due campi d’azione si definiscono spesso come alternativi, anche nelle aspirazioni degli stessi religiosi come percorsi individuali di perfezionamento spirituale. All’interno della Compagnia di Gesù la missione si istituzionalizza, con gli interventi dei generali dell’ordine, in particolare le disposizioni di Acquaviva del 1590, 1594 1599 e 1613, ma anche quelle successive di Vincenzo Carafa nel 1646, volti sia a mobilitare i religiosi, sia a regolare l’attività. Acquaviva volle che ogni provincia destinasse dodici religiosi alle missioni. In seguito chiese che ogni collegio avesse due missionari. Carafa poi istituì la figura del prefetto per le missioni in ogni provincia italiana. L’impegno doveva quindi essere stabile e continuo, ma non doveva però dar luogo a residenze fisse. Rispettando il principio ignaziano dell’itineranza, i missionari dovevano andare due a due in città e campagne, senza stabilirvisi per evitare conflitti con le istituzioni religiose locali e mantenendo quindi il carattere di provvisorietà della missione popolare, ma incidendo anche nella società locale esercitandovi un controllo (le pacificazioni).

Per la loro organizzazione dell’apostolato, i gesuiti costituiscono un punto di riferimento per gli altri ordini che concorrono allo sviluppo pur discontinuo delle missioni popolari in Italia, che si allarga nel XVII secolo a vari ordini regolari, ma anche a istituzioni più specifiche. Già nel secolo precedente i cappuccini, non ancora attivi come in seguito nell’evangelizzazione ad gentes, svolgono un’attività missionaria inserita nel solco della loro attività di predicazione e costituiva un complemento della vita spirituale basata sulla meditazione del ritiro (Giuseppe da Leonessa). Essi sviluppano una forma di “predicazione di missione” che unisce a una semplicità retorica e facilità di comprensione forti stimoli penitenziali per convertire i peccatori che si concentra nella devozione delle Quarant’ore. All’inizio del XVII secolo a Napoli viene fondata da Carlo Carafa la congregazione dei Pii Operai specializzata nelle missioni popolari e impostata sul modello gesuita. La pratica missionaria si sviluppa presso molte famiglie di regolari dapprima in direzione delle campagne (ad esempio l’Agro romano), che per la loro marginalità potevano ben rispondere all’immagine esotica delle Indie. In effetti anche per le missioni interne si riproduce il meccanismo che dà luogo a tentativi di acculturazione da parte dei missionari e, al contempo, alla raccolta di informazioni etnografiche di prima mano da parte degli stessi religiosi. Più tardi l’attività si sviluppa nelle città, vista anche come un disimpegno dalla dura realtà rurale, in particolare in luoghi urbani specifici come gli ospedali dove già operavano ordini specializzati. Per Camillo de Lellis, fondatore dei Ministri degli infermi, sono essi “le più belle Indie, il più bel Giappone”.

Fenomeno importante nel corso del XVII secolo è il coinvolgimento del clero secolare, spesso su impulso dei regolari. Per diretto impulso dei gesuiti, la Congregazione dell’Assunzione della Beata Vergine Maria (1611) viene fondata a Napoli nel 1611 da Francesco Pavone e si dedica alla predicazione e alla catechesi. Espressione diretta del clero diocesano napoletano è la Congregazione delle apostoliche missioni (1646) fondata da Sansone Carnevale per dedicarsi anche alle missioni estere (vi si studiava anche il turco per le missioni a Costantinopoli), ma che si limitò alle missioni interne con varie filiali per tutto il Mezzogiorno. Di essa fece parte anche il giovane Alfonso Maria de’ Liguori.

Dalle prime esperienze dei gesuiti Silvestro Landini e Nicola Alfonso Bobadilla alla metà del XVII secolo, la missione popolare ha elaborato modus operandi piuttosto empirici che poi si diffondono e vengono teorizzati. La figura più importante in questo senso è il gesuita Paolo Segneri seniore (1624-1694) che elabora una specifica forma di predicazione di missione, diversa dalla predicazione “alta”, lasciando memoria scritta delle tematiche trattate in lettere e relazioni ma anche in opere a stampa come Il cristiano istruito nella sua legge (1686-1687) e Il parroco istruito (1692). Inoltre dalle corrispondenze emergono le tecniche oratorie, l’improvvisazione e gli apparati scenografici e teatrali. Segneri è considerato anche il promotore della “missione centrale”, che si svolge cioè in una località centrale rispetto a un’area circostante. I fedeli vengono fatti affluire, in genere da un raggio di sei miglia, alla celebrazione rituale pomeridiana dove si svolgeva la predica e anche l’istruzione dottrinale da parte dei due missionari (Segneri agì per 26 anni insieme a Giovanni Pietro Pinamonti). La processione notturna (con la recita di “fervorini”) e la comunione generale concludevano la missione, nella quale le tecniche performative e scenografiche barocche dovevano acuire l’effetto (“missione strepitosa”). Per i gesuiti era importante anche la promozione presso il popolo dei fedeli della pratica della confessione in contrapposizione al quietismo.

Nella tradizionale divisione tra missione penitenziale e catechetica (che tuttavia la storiografia tende a sfumare) la missione segneriana vede la relativa prevalenza della prima, anche se l’elemento dottrinale d’insegnamento si afferma sempre di più in Italia, grazie alla diffusione dei lazzaristi di provenienza francese nella seconda metà del XVII secolo. Essi miravano a “rimediare l’ignoranza” sia del clero sia dei fedeli con missioni che erano molto legate alla parrocchia, sviluppando gli esercizi spirituali e stabilendo o rigenerando le confraternite, nelle quali il laicato femminile aveva gran peso.

La contrapposizione tra la missione gesuita “tutta fuoco” e quella lazzarista “tutta quiete” si fissa nel XVIII secolo quando sulle missioni popolari si apre un vero e proprio dibattito. In effetti si levano voci insofferenti verso gli aspetti più appariscenti della missione, in particolare quando essa si svolge in città dove si biasimano tali aspetti per i quali il fedele è “più spaventato che divoto” (Mauro Alessandro Lazzarelli). Se il metodo segneriano era ancora accolto nella Compagnia di Gesù, anche per opera di importanti missionari come Paolo Segneri juniore, Antonio Tomassini e Antonio Baldinucci, anche nella Compagnia si alzavano voci come quella di Vincenzo Imperiali nel 1701 per rendere la missione meno solenne e più consueta nella diocesi con una rivalutazione del ruolo del parroco, una “regolata devozione” condivisa anche da Muratori. In quegli anni il domenicano francese Jean-Baptiste Labat, a lungo inquisitore a Civitavecchia, si fa beffe delle processioni e delle flagellazioni nello stesso modo divertito con il quale Montaigne descriveva la Curia pontificia.

Questo mutamento conosce tuttavia fasi altalenanti e sforzi di sintesi che vedono all’opera gli ordini regolari vecchi e nuovi. Il clero diocesano partecipa soprattutto o organizzato in associazioni collegate agli ordini o con adesioni individuali a tali ordini, promotori ancora indispensabili nel panorama italiano. Vediamo dunque, insieme a gesuiti, francescani e lazzaristi, anche nuovi ordini in azione sia in campagna, sia in città per una risposta alla scristianizzazione attraverso una missione dal carattere più integrato nell’attività parrocchiale rispetto ai secoli precedenti.

I Pii Operai, rigenerati sotto la spinta di Pietro Gisolfo nella seconda metà del XVII secolo verso uno “zelo discreto” che significa fare della missione un momento catechetico rivolto con stile grave e semplice e con modalità differenziate per ceti e tipi di fedeli. Questo metodo è applicato da Antonio Torres nella congregazione della Purità di Maria Vergine fondata nel 1680 a Napoli. Questa tendenza, che porterà addirittura a sospetti di quietismo, cambia poi nella seconda metà del XVIII secolo con il ritorno a momenti più intensi, come i “sentimenti di notte” destinati soprattutto alle popolazioni rurali.

Emerge quindi una sintesi tra le due tipologie missionaria operata dal francescano osservante Leonardo da Porto Maurizio nella quale la metodologia segneriana è accolta, ma completata con una maggior attenzione alle confessioni e con un più forte inserimento nella cura spirituale ordinaria del parroco. Ma non mancavano le processioni penitenziali e lo “svegliarino della buona morte”.

Il pontificato di Benedetto XIV è un tornante decisivo per lo sviluppo di nuove devozioni e per l’impulso alle missioni popolari, anche in coincidenza con l’anno santo del 1750. Due nuovi ordini si affermano in particolare, i passionisti e i redentoristi. Nei primi, fondati da Paolo della Croce nel 1720, si afferma nell’azione missionaria la spiritualità cristologica di matrice francescana. Nella meditazione sulla Passione di Cristo emergono elementi mistici e pastorali, di forte richiamo alla penitenza e alla conversione con i simboli della croce e del cuore sofferente posti in primo piano, anche sull’abito ecclesiastico. Questa spiritualità rigorosa, che richiede ai religiosi comportamenti austeri e la ricerca della povertà, si richiama a quella promossa nelle missioni di Leonardo da Porto Maurizio che nelle campagne e nelle città dell’Italia centrale dove agivano anche i passionisti e nella stessa Roma, aveva introdotto la devozione della via crucis, in particolare nel 1750 con l’elevazione del Colosseo come santuario della cristianità e del suo martirio.

Intanto nel 1732 Alfonso Maria de’ Liguori fonda i redentoristi che si dedicano alle missioni nelle campagne e tra il popolo minuto delle città raggiungendo i villaggi più sperduti in opposizione alla missione “centrale” gesuita. Infatti essi sviluppano le “missioni parrocchiali” sensibilizzando i parroci e anche i laici all’azione pastorale, come già i lazzaristi. Alfonso sosteneva che la missione doveva essere periodicamente ripetuta, ma non troppo intensamente (ogni tre anni). Come per i passionisti anche per i redentoristi la mistica cristologica era centrale, le loro missioni si concludevano infatti con l’erezione di calvari, oltre che sulla necessità della preghiera e della contrizione, le meditazioni vertevano sul Cristo crocifisso e sulla protezione della Madonna che diviene un elemento importante di una pastorale volta a trasmettere anche un messaggio di fiducia. Come ha sottolineato Stefania Nanni, sulla base della centralità cristologica tra Passione e Redenzione, in questi nuovi ordini missionari settecenteschi si realizzano forme diverse di una fusione tra mistica e apostolato, attraverso la catechesi e la ritualità spettacolare della missione.

Nel XVIII secolo si sviluppano poi molti altri istituti formati da secolari tra i quali i Sacerdoti Secolari Missionari di Palermo (1703), i Missionari di Rho (1721) filiazione degli Oblati dei ss. Ambrogio e Carlo fondati da S. Carlo Borromeo; i Missionari rurali (1713) a Genova e in Liguria che estendono al contado l’azione dei Missionari urbani genovesi fondati nel 1643 dal cardinale Stefano Durazzo; i Missionari Imperiali (fondati da Francesco Maria Imperiali nel 1738) attivi in Italia centrale come i Missionari della SS. Vergine Imperatrice del Cielo e della Terra (1738); i Missionari del Santissimo Sacramento (1745) nel Regno di Napoli; la Pia Opera delle Missioni (1752). Superata la fase napoleonica nella quale le missioni furono proibite, nel XIX secolo si assiste a un notevole risveglio missionario in tutta Europa nel clima della Restaurazione. In Italia già durante il periodo napoleonico Pio Bruno Lanteri aveva fondato associazioni laicali (“amicizie”), poi nel 1816 prende la direzione della Congregazione degli Oblati di Maria Vergine dedita, oltre che a missioni e esercizi spirituali, anche alla formazione del clero e alla diffusione della stampa. S. Gaspare del Bufalo, già fondatore di un’arciconfraternita del Preziosissimo Sangue e poi dell’omonima Congregazione nel 1815, è attivo nello Stato pontificio con predicazioni e esercizi spirituali le cui tecniche riprendono la centralità cristologica degli istituti settecenteschi, accentuandone le caratteristiche penitenziali e drammatiche (il sangue di Cristo come oggetto mistico) e sviluppando associazioni laiche dei fedeli per rendere continuativa la prassi missionaria anche in opposizione alle forme associative massoniche. Nel Mezzogiorno i Missionari dei Sacri Cuori di Gesù e Maria, fondati da Gaetano Errico ispirandosi a S. Alfonso Liguori si dedicavano alla predicazione, agli esercizi spirituali e alla missione, oltre che alla devozione di cui portano il nome. Nel 1835 S. Vincenzo Pallotti fonda la Pia Società dell’Apostolato cattolico (poi Pia Società delle Missioni) che, in un ampio spettro di attività, ha anche le missioni interne e gli esercizi spirituali, nonché l’aiuto al clero diocesano e anche l’apertura verso le missioni estere, in particolare a servizio delle comunità italiane emigrate, prima a Londra poi in America del Nord, un’attività di missione “interna” (cioè di controllo e risveglio religioso dei cattolici) che si sviluppa sempre di più grazie al forte sviluppo dell’emigrazione italiana fuori dai territori e nazioni cattoliche. Proprio per la sua collocazione geografica, questa attività ricade sotto l’autorità della Congregazione de Propaganda Fide, mentre in Italia le missioni popolari proseguono adeguandosi alla mutata realtà dello stato unitario.


LEMMARIO




Monetazione papale tra XV e XVI secolo. La Zecca di Roma - vol. I


Autore: Tomassoni Roberto

Dopo la morte di Paolo II il conclave elesse, il 9 agosto 1471, il cardinale Francesco Della Rovere che assunse il nome di Sisto IV (1471-1484). Secondo molti autori con questo papa la dignità principesca divenne addirittura preminente rispetto alla vocazione per la cura delle anime e per il bene della Chiesa. E la monetazione si rese da subito preziosa testimone di questo importante punto di svolta.

Al momento dell’ascesa al soglio petrino di Francesco della Rovere la Zecca di Roma si trovava in una casa nei pressi del Ponte Sant’Angelo, sulla piazzetta che precedeva il ponte alla fine della via dei Banchi Vecchi. Incaricato di incidere le monete presso la zecca romana era il celebre artista originario di Foligno Emiliano Orfini. È a partire da questo momento in effetti che l’arte si espresse pienamente nel campo dell’incisione monetale. Proprio all’Orfini dobbiamo il primo ritratto di un papa mai apparso su di una moneta. Nel gennaio 1483, infatti, venne emessa una provvisione di Zecca che prevedeva la coniazione di multipli di grossi (per l’illustrazione delle monete, tra le quali figura anche il grosso, si veda infra); di questi multipli è noto un doppio grosso del peso di 6,85 g per il quale l’Orfini ricevette l’incarico di apporre l’immagine del pontefice e lo fece con mirabile perizia. Per averne conferma basti raffrontare il ritratto sulla moneta con quello conservato presso i Musei Vaticani ed eseguito dal pittore Melozzo da Forlì nel 1477. Il ritratto di Sisto IV comparve anche sul grosso.

In questo torno di tempo, che potremmo per comodità fissare tra il 1475 e il 1476, la Zecca di Roma coniava monete d’oro, d’argento e in mistura (cioè con una lega contenente un’infima percentuale di argento essendo le monete costituite per lo più di rame).

La moneta aurea veniva battuta principalmente in due nominali: il ducato papale e il fiorino di camera. Entrambi venivano coniati con un fino di 24 carati, mentre il peso differiva leggermente: 3,5 g per il ducato, 3,39 g per il fiorino (considerata per l’epoca l’impossibilità di giungere ad una precisione assoluta tutti i pesi delle monete inseriti nel presente articolo sono da considerarsi puramente teorici).

Il circolante in argento era imperniato sul grosso papale del peso di 3,79 g con un fino di 927/1000 (durante il pontificato di Giulio II – Giuliano della Rovere, 1503-1513 – il grosso prenderà il nome di “giulio” in suo onore, mentre a partire da Paolo III – Alessandro Farnese, 1534-1549 – la moneta assumerà il nome di “paolo”). Venivano coniate, inoltre, altre due monete importanti: il bolognino papale del peso di 0,92 g con un fino di 812/1000, e il baiocco del peso di 0,57 g con il medesimo fino previsto per il bolognino.

I valori più bassi erano rappresentati dalla moneta in mistura costituita dal quattrino e dal picciolo (o denaro). Nel 1475 per il primo se ne previde l’emissione al peso di 1,17 g con un risibile contenuto argenteo di 71/1000; mentre il picciolo venne coniato al peso di 0,58 g quasi completamente in rame (con appena 19/1000 di argento).

Ogni moneta sin qui enunciata rientrava in un sistema di conto i cui rapporti di cambio, che potevano anche variare di frequente, venivano indicati periodicamente da bandi, detti gride. Nel periodo in questione avevamo i seguenti valori:

1 DUCATO PAPALE = 77 BAIOCCHI
1 FIORINO DI CAMERA = 75 BAIOCCHI
1 GROSSO PAPALE = 30 QUATTRINI O 7 ½ BAIOCCHI
1 BOLOGNINO PAPALE = 6 QUATTRINI
1 BAIOCCO = 4 QUATTRINI
1 QUATTRINO = 4 PICCIOLI

I valori delle monete dipendevano principalmente dal loro contenuto di fino (cioè dalla quantità di oro o argento presente in ciascuna moneta). Le monete più stabili, ovvero quelle che mantenevano costante ed elevato il loro contenuto in metallo, e che per questo tendevano a rivalutarsi, erano le monete d’oro, mentre le monete in mistura erano soggette a continui svilimenti, ovvero alla perdita progressiva della loro quantità di argento e di conseguenza del loro valore. Questa perdita di valore andava a tutto danno dei meno abbienti che vedevano diminuire sistematicamente la loro capacità di acquisto.

L’esaltazione della maestà regale del pontefice vide probabilmente la sua massima espressione durante i pontificati di Alessandro VI (Rodrigo Borgia, 1492-1503) e Giulio II (Giuliano della Rovere, 1503-1513). E ancora una volta la monetazione venne abilmente utilizzata quale specchio di tale magnificenza. Nuovamente comparve sulle monete il profilo del papa regnante; nell’anno del Giubileo 1500 venne coniato un grosso d’argento con al dritto lo stemma della famiglia Borgia sormontato dalle chiavi decussate e dalla tiara papale e al rovescio il ritratto di Alessandro VI (sulle monete papali di questo periodo lo stemma della famiglia del pontefice sormontato dalle chiavi e dalla tiara rappresenta un elemento iconografico pressoché costante).

Con questi due papi l’immagine del pontefice viene rappresentata anche sulle monete d’oro, in particolare su alcuni multipli del ducato e del fiorino di camera.

 

 

La moneta che qui si presenta mostra al dritto il profilo del papa volto a destra, mentre al rovescio compaiono i santi Pietro e Andrea alla pesca. Merita soltanto una breve annotazione il riferimento alla terra di origine di Giulio II (nativo di Albisola) espresso dalla parola LIGVR riportata sulla legenda del dritto.

Da un punto di vista monetario un’importante innovazione si verificò con il pontificato di Clemente VII (Giulio de’ Medici, 1523-1534). Nel 1533 la Zecca di Bologna emise, a nome del papa, lo scudo d’oro di lontana derivazione francese (più o meno contemporaneamente emise lo scudo d’oro a nome del papa anche la Zecca di Ancona). Quattro anni più tardi, nel 1537, anche la Zecca di Roma avviò la coniazione di scudi d’oro. Questa moneta aveva preso a circolare sul territorio italiano sin dai primi anni del 1500 causando alcuni inconvenienti di notevole rilevanza. La prima Zecca ad emettere lo scudo era stata quella di Genova seguita ben presto da molte altre. Il successo di questa moneta venne determinato da ragioni principalmente monetarie e speculative; lo scudo, infatti, era coniato al peso di circa 3,38 g con un fino di 22 carati, mentre la principale moneta d’oro circolante in Italia, il fiorino (o ducato a Venezia), circolava al peso di 3,5 g con un contenuto di metallo prezioso pari a 24 carati (purezza assoluta). In questa particolare circostanza il mercato dimostrò di saper cogliere l’opportunità che si presentava e i due carati di differenza, associati al peso leggermente inferiore, provocarono un’interessante fenomeno. Il valore nominale dello scudo d’oro (ossia il suo potere di acquisto) rimase molto vicino a quello del fiorino non risentendo in maniera determinante delle difformità appena menzionate. Tale situazione innescò il meccanismo che prende il nome di Legge di Gresham: i fiorini iniziarono a sparire rapidamente dalla circolazione per essere tesaurizzati o rifusi per ricavarne scudi. Della gravità della situazione si rese portavoce il cronista fiorentino Benedetto Varchi (1503-1565) che sotto l’anno 1533 scrisse: «E perché quasi per tutte le zecche della Cristianità s’era cominciato a lasciar di battere i fiorini d’oro e a battere scudi, i quali son d’oro manco fine che non è il fiorino [24 carati contro 22, ndr]…; di qui nasceva, che i fiorini che si battono nella zecca di Firenze, erano subitamente portati fuora della città o disfatti dall’altre zecche vicine, e battutone scudi con grande utilità di chi gli faceva battere, ma con grandissimo danno della città, la quale in questa maniera si votava d’oro» (Varchi 1858, Vol. III, pp. 44-45). Il meccanismo coinvolse progressivamente tutte le principali Zecche dell’Italia centro settentrionale che non poterono far altro che avviare la coniazione di scudi. Roma, come abbiamo visto, vi si adeguò nel 1537. La produzione dello scudo si affiancò a quella del fiorino di camera la cui coniazione terminò durante il pontificato di Gregorio XIII (Ugo Boncompagni, 1572-1585).

I pontefici di questo periodo, a partire da Clemente VII, poterono avvalersi dell’opera di un artista d’eccezione: Benvenuto Cellini (1500-1571). Già intorno al 1530 il papa commissionò al celebre orafo una moneta che è lo stesso artista a descriverci nel dettaglio: «…mi commise il papa una moneta di valore di dua carlini, inella quale era il ritratto della testa di sua santità, e da rovescio un christo in sul mare, il quale porgeva la mana a San Piero, con lectere intorno che dicevano: quare dubitasti?» (Bacci, 1901, p. 99). In seguito Cellini ebbe modo di prestare i suoi servigi anche presso la corte di Paolo III per il quale disegnò la stampa di uno scudo d’oro. Ancora una volta possiamo leggere dall’autore la descrizione della sua opera. Dalle parole del Cellini è possibile comprendere quanto elevata fosse l’opinione che l’artista aveva del proprio talento: «Cominciai a fare le stampe degli scudi inelle quali io feci un mezo sanpagolo, con un motto di lectere che diceva: vas electionis. Questa moneta piacque molto più che quelle di quelli che havevan fatto a mia concorrenza. Di modo che il papa disse che altri non gli parlassi più di monete, perché voleva che io fussi quello che le facessi e no altri» (Bacci, 1901, pp. 143-144).

Per concludere, non risulterà superfluo accennare brevemente al valore che veniva assegnato alle monete forestiere circolanti all’interno dello Stato Ecclesiastico. Da questo punto di vista un importante bando venne emesso durante il pontificato di Paolo III, l’11 maggio 1542. Nella provvisione si evidenziava che «essendo moltiplicata la trista moneta nell’alma città di Roma e per tutto il Stato Ecclesiastico, anzi tutta Italia, … la Santità di N. S. Paolo per la divina providenza papa III, considerando quanto importi all’interesse publico ed all’honore di S. Santità, che nel Stato suo corra buona moneta, ci ha commesso che dobbiamo remediare opportunamente a tal disordine, e dare la valuta conveniente alle monete forestiere et l’altre che corrano in Roma, et che dobbiamo far battere buone monete». In altre parole all’interno di Roma e più in generale dello Stato Ecclesiastico (ma la situazione non differiva di molto rispetto ad altri stati italiani come il Granducato di Toscana o la Repubblica di Venezia) circolavano monete il cui valore nominale (potere di acquisto) risultava spesso superiore rispetto al loro reale valore intrinseco (contenuto di metallo prezioso presente in ciascuna moneta). Per ovviare a questo stato di cose le autorità romane cercarono da un lato di definire, con maggior chiarezza, il valore da assegnare alle valute straniere e, contestualmente, ribadirono i criteri di coniazione delle monete interne. Non mancarono casi per i quali vennero assunte decisioni alquanto drastiche: «Le monete di Siena e di Lucca d’argento, & Bajocchi & Quatrini di Fano siano banditi, & non si possano spendere, sotto pena di cento scudi”. In ogni caso, prudenzialmente, si decise che qualunque “moneta battuta fuori di Roma di qual si voglia parte, non si possa spendere…se prima non è vista & aprobata per la Camera Apostolica sotto pena di falso, & di perdere la moneta».

Fonti e Bibl. Essenziale

R. Aubenas – R. Ricard, L’assolutismo violento e tracotante di Sisto IV, in La Chiesa e il Rinascimento (1449-1517), Torino 1963, pp. 102-124; O. Bacci, Vita di Benvenuto Cellini, Firenze 1901; G.R. Carli, Delle monete e dell’instituzione delle zecche d’Italia, Aja 1754; CNI = Corpus Nummorum Italicorum. Primo tentativo di un catalogo generale delle monete medioevali e moderne coniate in Italia o da Italiani in altri paesi, XV, Parte I (dal 496 al 1572), Roma 1934; G. Garampi, Saggi di osservazioni sul valore delle antiche monete pontificie, Roma 1766; E. Martinori, La moneta. Vocabolario generale, Roma 1915; E. Martinori, Clemente VII, Annali della zecca di Roma, Roma 1917; E. Martinori, Sisto IV – Innocenzo VIII, Annali della zecca di Roma, Roma 1918; E. Martinori, Alessandro VI – Pio III – Giulio II, Annali della zecca di Roma, Roma 1918; F. Muntoni, Le monete dei papi e degli stati pontifici, Vol. 1, Roma 1996; M. Pellegrini, Il papato nel Rinascimento, Bologna 2010; A. Saccocci, Aspetti artistici della monetazione italiana del Rinascimento, in G. Gorini, R. Parise Labadessa, A. Saccocci, A testa o croce. Immagini d’arte nelle monete e nelle medaglie del Rinascimento. Catalogo della mostra, Padova 1991, pp. 11-65; C. Serafini, Le monete e le bolle plumbee pontificie del medagliere Vaticano, Vol. I, Milano 1910; B. Varchi, Storia fiorentina, Vol. III, Firenze 1858.

Immagini

Fig. 1 – Doppio grosso (g 7,05), Sisto IV (1471-1484), zecca di Roma. Ex asta NAC, Auction 90, Lotto 528. Scala 2:1
Fig. 2 – Doppio fiorino di camera (g 6,67), Giulio II (1503-1513), zecca di Roma. Ex asta Artemide, Auction XLIX, Lotto 556. Scala 2:1

LEMMARIO




Monti di Pietà - vol. I


Autore: Maria Giuseppina Muzzarelli

La proposta da parte dei Minori Osservanti di creare un Monte di Pietà, istituzione che è giunta fino a noi, e la successiva concretizzazione di essa ebbe luogo nelle città dell’Italia centrale e settentrionale a partire dagli anni Sessanta del XV secolo.

La necessità alla quale il Monte intendeva dare risposta era quella di credito a basso tasso di interesse o comunque a condizioni tali da consentire a quanti si collocavano al limite della sopravvivenza personale e famigliare di far fronte a urgenze senza peggiorare ulteriormente la loro situazione. Non si voleva offrire elemosina ma credito a persone povere ma non poverissime in grado di dare in pegno un oggetto, anche di modesto valore, a garanzia della restituzione e che si immaginava potessero risollevarsi dallo stato di bisogno in quanto capaci di lavorare. Il tenue tasso di interesse richiesto a questo genere di cliente cittadino caratterizzava l’azione del Monte diversificandola dalle usuali forme di beneficenza ma anche da quella dei banchi privati di prestito.

Se nelle città basso medievali erano attive da tempo varie forme di assistenza per i derelitti, per quanti invece necessitavano di piccolo credito non esisteva, almeno ufficialmente, alternativa al banco privato. Dalla seconda metà del XIII secolo in molti piccoli e grandi centri urbani funzionavano uno o più banchi di prestito gestiti da ebrei regolarmente “condotti”. La “condotta” era l’autorizzazione ufficiale ad aprire un banco a condizioni concordate con le autorità cittadine. Tali condizioni prevedevano un tasso di interesse fra il 20 e il 30%, la definizione dei termini per la restituzione e il rispetto delle consuetudini ebraiche in fatto di giorni di festa e di regole alimentari. Le condotte fissavano dunque le condizioni della convivenza cristiano-ebraica a partire dalla necessità del servizio di prestito offerto dai banchieri. Il tasso richiesto era elevato ma di mercato e comunque concordato con i governanti. Il servizio reso dai banchieri ebrei era agile e soddisfacente ma non alla portata di tutti. Di qui la necessità di rispondere alle esigenze di quanti, pur poveri, non lo erano in misura tale da dover essere soccorsi con l’elemosina e, pur necessitando di credito e non di beneficenza, rischiavano la rovina se accedevano ai banchi ebraici di prestito. Il ricorso a questi ultimi, va ricordato, era stata un’ importante e coraggiosa ideazione del basso Medioevo per affrontare i problemi creditizi. Funzionò per secoli ma non risolse tutti i problemi.

È pur vero che i banchieri ebrei, se richiesti in tal senso, avrebbero potuto erogare, accanto al credito concesso a condizioni di mercato e comunque nelle forme stabilite nelle condotte, un altro tipo di credito più di genere assistenziale differenziando così i loro servizi. Il fatto è che accanto alla necessità di trovare una soluzione alle concrete necessità dei meno abbienti c’era anche un altro problema da affrontare, quello del monopolio ebraico del prestito ad interesse o perlomeno di quello ufficiale e soprattutto del prestito su pegno di piccolo e medio calibro.

Al tempo della fondazione dei primi Monti di pietà nelle città operavano da secoli i mercanti-cambiatori che oltre a convertire le diverse monete compivano anticipazioni di denaro ma si trattava di operazioni di notevole entità e perlopiù di prestiti di impresa. Grandi banchi, come quello dei Medici a Firenze, prestavano comunemente ma non piccole somme dietro presentazione di un modesto pegno. Questo segmento del mercato era di fatto nelle mani dei banchieri ebrei liberi dalle restrizioni che la morale cristiana poneva alle attività di prestito. In realtà tutti o quasi coloro che avevano un po’ di denaro risulta che lo prestassero e non gratuitamente nè ufficialmente, fatto che non calmierava certo il costo del denaro.

La delega agli ebrei derivava dal fatto che la Chiesa aveva dubbi circa la legittimità dell’attività di prestito che, se ad interesse, era definita usuraria, qualunque fosse il tasso richiesto. Davanti alle evidenti necessità dei singoli e della collettività, la Chiesa cercò di proporre modelli di comportamento economico capaci di coniugare le esigenze economiche con i principi etici. Ciò portò all’elaborazione di titoli di legittima restituzione maggiorata che valevano ad esempio in caso di “danno emergente” o di “lucro cessante”, ma di fronte al piccolo credito di consumo la Chiesa assunse un atteggiamento di tolleranza nei riguardi dei servizi offerti dagli ebrei fino a quando, prendendo spunto proprio dalla operatività dei banchieri privati e nella consapevolezza della necessità di un servizio creditizio diverso dall’assistenza ai più poveri, maturò in ambiente francescano l’idea dei Monti. Questi ultimi esprimevano il tentativo di cercare una via che consentisse alla società cristiana di risolvere il problema senza ricorrere a chi le era estraneo e che nel contempo sperimentasse una forma di realizzazione del bene comune sostenendo nelle loro necessità i “poveri meno poveri”. Si intendeva con quest’ultima formula l’insieme di coloro che potevano essere sottratti all’elemosina e, se attivati, erano in grado produrre ricchezza a vantaggio loro, delle loro famiglie e della città.

I Minori Osservanti proposero dunque nelle piazze un istituto pubblico di prestito che prendeva spunto per la sua operatività dai banchi privati introducendo alcune varianti e soprattutto offrendo una risposta cristiana alle necessità di quei poveri ma non poverissimi che erano in grado di presentare un pegno che valesse almeno un terzo di più della somma presa in prestito. Fu così che efficaci predicatori quattrocenteschi, da Giacomo della Marca a Bernardino da Feltre (quest’ultimo negli ultimi decenni del XV secolo si specializzò nella creazione di Monti Pii) cominciarono a diffondere l’idea di raccogliere denaro dai cittadini e dalle autorità per creare un cumulo di risorse, un monte appunto, da impiegare per soddisfare la diffusa richiesta di piccolo credito. Il periodo accordato per la restituzione era di circa un anno, passato il quale se la somma non veniva restituita il pegno sarebbe stato venduto all’asta. Le regole di funzionamento erano scritte negli Statuti analoghi di città in città ma anche un po’ diversi per aderire ai singoli contesti.

A segnare la differenza con il prestito dei banchieri privati era in primo luogo il tasso di interesse che nel caso dei Monti ammontava al 5% annuo ma più di un Monte, almeno nel periodo delle origini, non esigeva alcun interesse nel nome del principio evangelico “Mutuum date nihil inde sperantes” (Luca 6,35). Un’altra differenza era costituita dalla predeterminazione della tipologia di clienti da parte del Monte, diversamente dai banchieri privati che non indagavano qualità sociale e origine del cliente e meno che mai si occupavano dell’uso del denaro concesso. Mentre i banchi privati offrivano un servizio impiegando il denaro dei banchieri o di quanti avevano deciso di investire nel banco in vista di un guadagno, i Monti si prefiggevano uno scopo solidaristico, anche se nel campo del credito, lontana dalla logica del profitto. Per questa ragione non potevano né volevano soddisfare qualsiasi richiesta di prestito e operavano utilizzando denaro assegnato, donato o depositato al Monte proprio con l’intesa che tramite esso si svolgesse una funzione sociale.

Il primo Monte di pietà fu fondato a Perugia nel 1462 ma l’idea circolava già da un po’ di tempo. Sappiamo che nel 1458 fu proposta ad Ascoli Piceno, contestualmente alla soppressione dei banchi ebraici, un’istituzione che aveva il nome di Monte di pietà ma aveva caratteristiche un po’ diverse dai veri e propri Monti, in quanto si occupava di raccogliere elemosine da distribuire fra i poveri della città. Prima ancora, nel 1428, si era denominata Monte di Pietà un’istituzione benefica in favore dei poveri di Arcevia. Da tempo poi si indicava con la formula Monte Comune l’insieme del denaro raccolto tramite prestiti forzosi da alcune città che utilizzarono questo mezzo per affrontare spese straordinarie o comunque ingenti che richiedevano il concorso dei cittadini più abbienti che ricevevano un interesse su quanto prestato.

Dopo il Monte di Perugia sorsero numerosi analoghi istituti in Umbria ed in altre aree dell’Italia centro-settentrionale. A Bologna si fondò un Monte nel 1473 ma dopo un breve periodo di funzionamento chiuse i battenti per riaprirli una trentina d’anni dopo: nel frattempo continuarono a operare i prestatori ebrei con evidente soddisfazione cittadina. In alcune città la fondazione di un Monte portò alla rinuncia ai servizi ebraici, in altre no. Quello che i Monti resero chiaro era che la società cristiana era in grado di rispondere cristianamente alle necessità di credito dei “pauperes pinguiores” come al tempo si definirono i clienti dei Monti.

I Monti fecero discutere, divisero, suscitarono accesi dibattiti soprattutto per quanto riguardava la richiesta di interesse, ma dalla seconda decade del XVI secolo divenne generalizzata e condivisa la richiesta di un interesse-rimborso delle spese che doveva servire a pagare l’affitto dei luoghi in cui operava il Monte e i salari dei funzionari. Questi ultimi dovevano essere competenti e disponibili a giorni e orari determinati e dunque andavano compensati.

Se nel 1515 si contavano 135 Monti, nel 1562 erano già più di duecento perlopiù dislocati nell’Italia centro-settentrionale. Il primo Monte del sud fu fondato a L’aquila nel 1460, seguirono quelli di Sulmona, Pescocostanzo, Lecce rispettivamente nel 1471, 1517 e 1520 mentre il Monte di Napoli sorse nel 1539. Nel Mezzogiorno il maggior numero di fondazioni ad opera di privati o di confraternite ha avuto luogo nel trentennio 1591-1620. Per oltre un secolo si è continuato a fondare Monti e questi ultimi hanno progressivamente ampliato l’area delle loro azioni e competenze. Nel corso del Cinquecento infatti divennero tesorerie cittadine assumendo il profilo di una vera e propria banca che riceveva depositi e li remunerava meritando la definizione impiegata per il Monte di Bologna di “thesoro” della città.

Con il Concilio di Trento i Monti passarono dalla tutela civile a quella ecclesiastica prevalendo nella considerazione di essi i caratteri caritativi ma la loro tarsformazione in opere pie, soggette a periodiche ispezioni vescovili, non modificò la sostanza dell’attività dei Monti. Essi continuarono a rappresentare una risorsa significativa per quanti necessitavano di piccolo credito ma fu alquanto importante anche la funzione rivestirono nella raccolta del risparmio da incanalare verso usi sociali. Ciò fece di questi istituti un puntello delle piccolissime imprese spesso domestiche e anche femminili nonché uno strumento di sostegno allo sviluppo del territorio.

La maggiore complessità delle operazioni svolte dai Monti fra Sei e Settecento produsse la trasformazione dei Monti che, pur svolgendo un’importante funzione sociale, erano autentici istituti creditizi sempre più importanti che si posizionavano al centro della vita economica cittadina. Fra Sette e Ottocento erano più di 700 i Monti che operavano in Italia Si trattava di istituti analoghi eppure parzialmente diversi l’uno dall’altro come peraltro anche i Monti delle origini. La diversità dei modelli organizzativi-funzionali dipendeva infatti dalla eterogeneità dei contesti politici, sociali ed economici. In molti casi si registrarono ricorsi impropri alle risorse del Monte da parte di abbienti e di membri del patriziato locale che intravidero nel Monte un luogo di potere, dove dunque conveniva essere presenti, e una risorsa da sfruttare. L’intuizione felice dei Minori Osservanti riscuoteva ancora in pieno Settecento il plauso di chi, come Ludovico Antonio Muratori (Della carità cristiana in quanto essa è amore del prossimo, 1720, in G. Falco, F. Forti, edd., Opere di L.A. Muratori, Milano-Napoli, Ricciardi 1964, 413-18) si augurava che questi istituti penetrassero in tutte le province e che quelli “deboli e smilzi che paiono piuttosto desideri di Monti che Monti effettivi” riuscissero a fortificarsi. Sta di fatto che ancora nel Settecento i Monti continuavano a diffondersi in Italia mentre fuori d’Italia solo nel XVII secolo ne risultano fondati nei Paesi Bassi e nel XVIII in Spagna. Nel corso del XVIII secolo, mentre si preparavano ad evolvere per divenire Casse di Risparmio, con l’arrivo delle truppe napoleoniche in Italia i Monti subirono devastanti spoliazioni in quanto ritenuti “casse pubbliche” i cui beni potevano essere confiscati a titolo di preda bellica, salvo la restituzione gratuita dei pegni più modesti.

Intacchi e frequenti ruberie indebolirono regolarmente nel corso dei secoli l’azione dei Monti, ciò in quanto l’accumulo di beni e di denaro pubblico ispirava malversazioni e furti. Avvedutamente i fondatori vollero per i Monti sedi in posizione centrale e possibilmente vicine alle prigioni o comunque in luoghi difendibili. I beni del Monte erano di tutti e quindi di nessuno e perciò facevano gola a molti. La posizione scelta per la sede del Monte e le forme della sede stessa, che caratteristicamente era tanto più grande e accogliente quanto più era in crisi l’economia del luogo, sono in grado di dire molto sulla attribuzione di importanza all’istituto sia alle origini sia nel corso dei secoli. La elevata considerazione è attestata dalla intitolazione al Monte della via o della piazza adiacente all’istituto: ciò ha segnato indelebilmente la topografia cittadina rivelando il forte nesso della città con l’istituto posizionato perlopiù in posizione centrale ma con accesso da una via secondaria per rispetto della dignità del cliente. Un’avvertenza, quest’ultima, che si è avuta fin dagli esordi dei servizi in un Medioevo più attento di quanto non si pensi alle necessità non solo economiche delle persone.

L’emanazione della legge 753 del 3 agosto 1862 inseriva i Monti fra le Opere Pie, definizione che non corrispondeva perfettamente alla loro natura e operatività, e provvedimenti successivi ostacolarono la continuazione dell’attività creditizia dei Monti. Sul finire del secolo ottennero un ampliamento delle loro attività al settore creditizio pur restando sotto doppia tutela come istituti di credito e come istituti di beneficenza. Negli anni che seguirono alcuni Monti cessarono l’attività mentre altri si rafforzarono ed in proseguo si fusero con altri istituti di credito fino a veder scomparire il loro nome. Ormai erano le Casse di Risparmio a svolgere funzioni finanziarie e insieme sociali. Le Casse di Risparmio, create per raccogliere il piccolo risparmio e sostenere con prestiti iniziative individuali ma anche azioni benefiche, nacquero in Italia negli anni Venti dell’Ottocento (la prima è stata fondata a Venezia nel 1822), in ritardo rispetto alla Germania, alla Francia o alla Gran Bretagna. L’iniziativa fu in alcuni casi dei Comuni, in altri dei privati ma anche dei Monti stessi dai quali derivarono il modello d’azione ed ai quali furono in alcuni casi associate. Oggi è riconosciuto il ruolo propedeutico alle Casse svolto dai Monti.

In Italia nel 1880 si contavano 183 Casse di Risparmio che, come gli antichi Monti, sollecitavano a depositare e utilizzavano il denaro raccolto per sostenere piccole e piccolissime imprese locali. E’ caratteristico il forte legame con il territorio che già aveva tipizzato l’azione dei Monti. Per legge le Casse di Risparmio sono state equiparate alle altre banche e molte Casse sono state indotte a fondersi con la Cassa del capoluogo. Nel 1990 la legge Amato ha modificato il sistema e obbligato a separare la Azienda Bancaria (perché le Casse erano anche vere e proprie banche) dalla Fondazione Cassa di Risparmio che era la parte con finalità morali e benefiche.

All’inizio del ’900 in molte città, a Bologna ma anche a Roma, a Torino e a Padova si è aperta la Banca del Monte che rappresentava lo stesso programma di Bernardino da Feltre (1439-1494), attivissimo sostenitore dei Monti Pii alla fine del Medioevo, e cioè prestare a un interesse modesto ma tale da assicurare il mantenimento delle risorse necessarie per continuare a operare. Nel 1923 i Monti si divisero in due categorie a seconda delle funzioni prevalenti: creditizie o di prestito su pegno. Dunque gli antichi Monti di pietà hanno continuato a funzionare e benché considerati istituti pii hanno svolto ininterrottamente attività creditizia sotto la vigilanza ministeriale. Sottoposti alle norme delle Casse di Risparmio hanno assicurato funzioni di credito (aprendo più sportelli) e continuato l’attività di prestito su pegno. A Bologna, ad esempio, tale attività persiste ed è svolta nella antica sede vicino alla cattedrale, molto centrale ma con ingresso secondario dalla via denominata Via del Monte. Gli istituti che hanno continuato e continuano ad accogliere pegni si sono nel tempo specializzati soprattutto in preziosi (per un periodo è stata intensa l’offerta in pegno di pellicce). Oggi sono ancora numerose le persone che fanno ricorso al prestito per superare momentanee difficoltà ma anche per scambiare con denaro oggetti non desiderati che possono avere altrove un mercato. Gli oggetti hanno avuto ed hanno una parte importante nella storia dei Monti come si ricava anche dalle numerose testimonianze letterarie e quelle iconografiche là dove, ad esempio, il cliente tipo del Monte è rappresentato da una donna che, con un fagotto sotto il braccio, varca la soglia del Monte con dignità.

Oggi sono le Fondazioni, che nel nome si richiamano agli antichi istituti, (ad esempio Fondazione del Monte di Bologna e Ravenna) a perseguire le finalità di solidarietà sociale: contribuiscono alla salvaguardia ed allo sviluppo del patrimonio artistico e culturale, al sostegno della ricerca scientifica ed allo sviluppo delle comunità locali attraverso la definizione di propri programmi e progetti di intervento da realizzare direttamente o con la collaborazione di altri soggetti pubblici o privati.

Oggi, a cinquecento anni dalla loro fondazione, i Monti continuano ad avere clienti e mercato svolgendo una funzione riconosciuta. Soprattutto però va riconosciuto a questi istituti il ruolo di battistrada, anzi di ideatori di una sfida, quella di tenere insieme denaro e salvezza, di garantire cioè un professionale servizio creditizio che fosse però rispettoso delle condizioni di bisogno del cliente. Di quest’ultimo interessava il destino ed importava che non fosse rovinato dal credito ma che anzi, grazie ad esso, potesse superare il bisogno e, se possibile, migliorare la sua condizione. Un’idea ancora moderna come sono eterne le utopie ma anche le idee giuste.

Fonti e Bibl. essenziale

G. Garrani, Il carattere bancario e l’evoluzione strutturale dei primigeni Monti di pietà, Milano 1957; S. Majarelli – U. Nicolini, Il Monte dei Poveri di Perugia. Periodo delle origini (1462-1474), Perugia 1962; V. Meneghin, Bernardino da Feltre e i Monti di pietà, Vicenza 1974; V. Meneghin, I Monti di pietà in Italia: dal 1462 al 1562, Vicenza 1986; D. Montanari, a cura di, Monti di pietà e presenza ebraica in Italia (secoli XV-XVIII), Roma 1999 (Quaderni di Cheiron, 10); M.G. Muzzarelli, Il denaro e la salvezza. L’invenzione del Monte di pietà, Bologna 2001; M. Carboni – M.G. Muzzarelli – V. Zamagni, a cura di, Sacri recinti del credito. Sedi e storie dei Monti in Emilia-Romagna, Venezia 2005. Su singoli Monti si possono vedere indicativamente alcuni recenti studi: C. Bresnahan Menning, The Monte di pietà of Florence. Charity and State in late renaissance Italy, Ithaca and London 1993; G. Silvano, A beneficio dei poveri. Il Monte di Pietà di Padova tra pubblico e privato, Bologna, 2005; E. Fraccaroli, Fra pubblico bene e privata utilità. Il Monte di pietà di Milano dagli ordini del 1635 all’età napoleonica, Bologna 2008. Per una bibliografia aggiornata vedere il sito del Centro studi sui Monti di pietà e sul credito solidaristico: www.fondazionedelmonte.it


LEMMARIO




Morale - vol. I


Autore: Sabatino Majorano

Una corretta comprensione dello sviluppo storico della morale cristiana esige che si abbiano presenti fattori diversi: la concretezza del vissuto quotidiano della comunità cristiana e il costante richiamo alla sua evangelicità, da parte soprattutto del Magistero; la specificità del suo argomentare e dei suoi contenuti, radicati nella fede, e la necessaria incarnazione nella realtà socio-culturale; la consapevolezza di dover testimoniare una verità di vita che le è stata affidata e l’urgenza di rendere comprensibile e possibile tale novità nella concretezza delle situazioni; l’idealità dei modelli proposti e la consapevolezza della fragilità propria delle persone. Tutto questo non può non creare delle tensioni, in ricerca costante di un equilibrio costruttivo.

Le istanze evangeliche nella praticità latina. L’apertura al mondo ellenistico è la prima sfida che la nascente comunità cristiana deve affrontare, non tanto a livello di annunzio kerigmatico quanto per le conseguenze pratiche. Paolo la vive come una specifica missione, difendendo con forza la libertà dei nuovi battezzati nei confronti della Legge giudaica (cf. Gal 2). L’assemblea di Gerusalemme, per dare una risposta alle tensioni sorte all’interno della comunità, sancisce che «non si debbano importunare quelli che dalle nazioni si convertono a Dio» (At 15,19).

Gli scritti dei Padri Apostolici testimoniano il cammino difficile di questa libertà: accanto a proposte decisamente cristocentriche, come le lettere di Ignazio di Antiochia, troviamo visioni in cui è forte il riferimento vetero-testamentario, come la Didachè o il Pastore di Erma. Nel mondo più propriamente romano, la proposta morale evangelica si confronta con la praticità etica e giuridica che lo caratterizza. Significativo è il fatto che categorie giuridiche, come “equità della legge” e “presunzione”, diventano ben presto fondamentali nella formulazione e soprattutto nell’applicazione delle norme morali. In maniera particolare sarà più forte che nell’Oriente la preoccupazione per la precisazione del valore oggettivo degli atti.

Il criterio fondamentale, che guida questa incarnazione, è quello del porsi come lievito: non contrapporsi alla prassi vigente, ma, permeandola di Vangelo, ridarle un significato nuovo. Significativa è la graduale evoluzione della morale familiare, che, senza negare la centralità della patria potestas, la rimodella come patria pietas alla luce dell’esperienza della paternità di Dio. Parimenti i rapporti sociali vengono gradualmente influenzati dal rifiuto evangelico della forza, come chiave risolutrice, e dall’attenzione fattiva per le categorie più deboli. La lealtà con cui si partecipa al bene comune della società e ci si rapporta all’autorità, si accompagna alla consapevolezza di sentirsi «come stranieri e pellegrini» in cammino verso la patria definitiva (1Pt 2,11). La visione evangelica del prossimo, non determinata da appartenenze razziali o sociali, dà nuovo impulso alla prospettiva universalistica presente nella cultura romana. Netto è il rifiuto per tutte le forme di sacralizzazione del potere e di stratificazione sociale discriminante. Soprattutto, continuando nel solco già tracciato dalla riflessione filosofica, è chiara l’affermazione della priorità del bene sulla stessa autorità.

Il martire, visto come colui che, per la forza dello Spirito, riesce a continuare la vittoria pasquale del Cristo sul potere del male, costituisce il modello ispiratore di tutta la prassi cristiana. A questo modello si aggiunge ben presto anche quello della vergine. Nei primi due secoli, fin quando la comunità cristiana è minoranza e spesso minoranza perseguitata, nella proposta morale predomina un senso apologetico, che modella la vita come motivo di credibilità per il Vangelo. Le dispute intorno al comportamento da mantenere nei riguardi dei lapsi e il rigore della disciplina penitenziale ne sono una testimonianza chiara.

Il successivo affermarsi come minoranza determinante, fino alla identificazione con le strutture dell’Impero, porta la comunità cristiana a una crescente assunzione di responsabilità sociali, di cui è testimonianza la graduale legittimazione del servizio militare. Nella vita concreta si attenua la prospettiva apologetica e diventano dominanti le esigenze dell’incarnazione. L’esemplarità della coerenza evangelica è affidata a un nuovo modello, quello del monaco che lascia la città per dedicarsi totalmente al “servizio” di Dio. Il De officiis di S. Ambrogio (350-397) è l’opera che meglio testimonia il dialogo con la cultura etica del tempo: assume, come punti di riferimento strutturali e argomentativi, quelli del De officiis di Cicerone, ma li apre e li fonda in prospettiva evangelica.

A partire dal quinto-sesto secolo, la nuova realtà, determinata dalla crisi dell’impero e dalle grandi trasmigrazioni dei popoli germanico-slavi, pongono la comunità cristiana dinanzi a urgenze complesse, a livello sociale e di evangelizzazione. Il crollo delle strutture imperiali chiede di assumere compiti di supplenza sempre più forti, soprattutto nei riguardi delle categorie più deboli. Allo stesso tempo, diventa indispensabile un impegno rinnovato di evangelizzazione e di inculturazione. A livello morale, la sfida maggiore è il superamento della riaffermazione della forza come elemento decisivo del vivere sociale, presente nella cultura germanica. Parimenti importante è la riproposta evangelica del corretto rapporto tra autorità e bene. S. Gregorio Magno (540-604), particolarmente con i Moralia in Job e il Liber regulae pastoralis, costituisce l’anello di congiunzione tra il periodo patristico e quello monastico-medioevale. Nella proposta morale, Gregorio si preoccupa principalmente della concretezza pratica della vita cristiana, cercandone nella Scrittura i criteri (precetti, consigli, esempi). Inoltre, pur nella fondamentale visione unitaria, Gregorio sottolinea la distinzione tra vita attiva (fattivamente impegnata nel servizio misericordioso del prossimo) e vita contemplativa (dedicata unicamente al “servizio” del Signore).

L’affermarsi dell’oggettività. Dall’incontro del mondo romano con quello germanico-slavo si delinea, a partire dal sesto secolo, una realtà culturale nuova, che trova nella fede l’elemento unificante. Ne risulterà una visione unitaria della realtà, che caratterizzerà tutto il periodo medioevale, con una crescente identificazione tra norme giuridiche e norme etiche, ma anche con dispute e conflitti tra potere spirituale e potere civile. Il simbolismo, non solo linguistico, e la categoria filosofica dell’analogia permetteranno di esprimere la continuità e insieme la differenza tra soprannaturale e naturale.

Nella pedagogia morale prevalgono il riferimento all’autorità e il controllo sociale. Il valore dell’agire morale è dato dall’oggetto dell’atto, più che dall’intenzionalità. L’affermarsi della penitenza privata e reiterabile, con la determinazione “quantitativa” di opere penitenziali per i singoli peccati (penitenza “tariffata”), rinforza questa oggettivazione della vita morale. Il crescente distacco dalla spiritualità orientale, che si consuma alla fine del primo millennio, contribuisce a rendere più forte questo processo.

Accanto ai pastori, un ruolo sempre più decisivo per la formazione morale è svolto dai monaci. Nella realtà italiana, è soprattutto il modello benedettino (ora et labora), non mancano però influssi del monachesimo orientale, soprattutto in alcune regioni. Particolare risalto è dato alla lectio divina, che ha come oggetto prima di tutto la Scrittura e poi gli scritti dei Padri. È fatta normalmente a voce alta (lectio aperta). A questa segue la lectio tacita (l’approfondimento personale) e la condivisione (collactio) soprattutto con l’Abate. I monaci vengono visti come modello di vita cristiana. La loro fuga mundi, per una fedeltà più piena al Vangelo, diventa ben presto custodia e promozione di civiltà. Il Rinnovamento Carolingio dell’ottavo-novo secolo ne è una espressione particolarmente significativa. La proposta di vita cristiana è centrata sulla conversio, che fonde insieme spiritualità e morale.

Nella vita concreta del popolo, le prospettive propriamente evangeliche convivono con quelle culturali, senza però raggiungere sempre una sintesi valida. L’enfatizzazione della forza e perfino della violenza e la rigidità della stratificazione sociale ne sono le espressioni più evidenti. Ma lo sono anche una diffusa superstizione, il ricorso al magico e la difficoltà a distinguere tra peccato e peccatore (la “teologia delle Crociate”).

La sintesi scolastica. Il XII e il XIII secolo sono momenti di particolare importanza per la teologia in genere e per quella morale in particolare. Il rinnovamento, che trova la sintesi più felice nella proposta di Tommaso di Aquino (1224/1225-1274), ha fattori e radici diverse: la vivacità economica, sociale e artistica dei Comuni; la riorganizzazione delle scuole monastiche e l’affermazione delle Scholae urbanae e poi delle prime Università; i fermenti dell’Umanesimo e la riscoperta del pensiero aristotelico. La teologia scolastica, a differenza di quella monastica di taglio prevalentemente esperienziale (scientia experimentalis), ha un’impostazione più sistematica e teorica. Il suo sviluppo riceve accentuazioni e sfumature diverse, anche per quanto riguarda la parte morale: più volontaristiche nella scuola francescana, più cognitivistiche in quella domenicana.

La metodologia è prevalentemente deduttiva: attingendo i principi dal patrimonio comune di fede e di cultura, ne illustra le conseguenze, ricorrendo soprattutto allo strumento dialettico del sillogismo e servendosi ampiamente dell’analogia. La morale è parte integrante di un discorso teologico unitario ed è centrata nella “legge naturale”, intesa come espressione delle relazioni che necessariamente si danno tra le “essenze” o “nature” secondo il progetto creaturale di Dio (aeternus rerum ordo). Nella Summa Theologiae di S. Tommaso, la morale, vista fondamentalmente come “ritorno a Dio”, viene sviluppata nella Pars Secunda, dopo che nella Pars Prima è stato presentato il “venire da Dio” di tutta la realtà e prima che nella Pars Tertia venga considerata la “via” costituita da Cristo e dai sacramenti. Nella sintesi tommasiana, la intentio finis è vista come fattore formale della bontà morale, mentre l’oggetto dell’atto (insieme alle circostanze) ne costituisce le fonte materiale. Si realizza così una sintesi dei due elementi, dopo il confronto serrato tra S. Bernardo (1090-1153), difensore della centralità tradizionale dell’oggetto, e Abelardo (1079-1142) che, in sintonia con le istanze umanistiche, enfatizza l’intenzionalità fino a quasi vanificare l’oggetto.

Nei secoli successivi le istanze dell’umanesimo prima e del rinascimento poi determinano uno sviluppo della proposta morale in una prospettiva più positiva verso la realtà e più incarnata in essa. Non mancano però tensioni da parte di movimenti desiderosi di una chiesa e una prassi cristiana meno compromessa e più coerente con la radicalità evangelica. S. Francesco di Assisi (1182-1226) è retto da queste istanze, che però apre alla spiritualità gioiosa e cosmica del Cantico delle Creature. Nella vita quotidiana del popolo, pur tra aperture a una visione più serena dell’impegno etico, resta predominante un senso drammatico della vita, dovuto anche alle forti discriminazioni socio-economiche. Il mistero della croce, accompagnato dalla sofferenza materna dell’Addolorata, è il punto di riferimento privilegiato. Il timore della dannazione eterna è tra gli elementi che maggiormente spingono a una effettiva conversione. La mentalità mercantile influisce anche su quella etico-religiosa determinando una visione che risente di un individualismo preoccupato di “accumulare” meriti.

Una nuova metodologia. Tra il Quattro e il Cinquecento, l’orizzonte socio-religioso cambia in maniera profonda: l’affermazione dei grandi stati dinastico-nazionali segna il tramonto della universalità socio-politica del Sacro Romano Impero; la scoperta del Nuovo Mondo apre a una considerazione più ampia dello “umano”, sganciandolo progressivamente dalla identificazione con il “cristiano”; la crisi protestantica del Cinquecento segna la rottura dell’unità religiosa dell’Europa. Si tratta di fenomeni storici che portano a spostare verso l’Atlantico l’asse di interesse internazionale, con un ruolo crescente dei paesi del Nord Europa. La molteplicità di stati, in cui è suddiviso, accentua la debolezza e la vulnerabilità del nostro paese dinanzi ai progetti espansionistici delle grandi Dinastie.

La visione etico-religiosa del popolo italiano resta fedele alla tradizione cattolica, anche se non mancano alcune significative eccezioni, come i Valdesi. Le istanze di rinnovamento, con cui il Concilio di Trento (1543-1563) cerca di rispondere alla crisi della Riforma protestantica, determinano anche il cammino della teologia morale. La chiarificazione dottrinale (cf. particolarmente le affermazioni relative alla giustificazione, al rapporto tra fede e opere, al sacramento della penitenza e alle sue parti) porta a ribadire e rendere più chiare le prospettive “unitarie” della prassi e della proposta morale. Nella riqualificazione evangelica e pastorale del clero, viene sottolineata la preparazione per il ministero della confessione e il suo ruolo nella formazione delle coscienze. Il rinnovato slancio di evangelizzazione si concretizza in un impegno più convinto nella predicazione popolare.

Nell’annuncio morale, che riceve ampio spazio in tutta la pastorale, vengono accentuati: la conversione individuale (“salva la tua anima”); i novissimi presentati con una accentuazione del timore per scuotere dal peccato e mantenere nel cammino del bene; i sacramenti visti soprattutto come aiuto e fonte di merito (sottolineatura dello ex opere operato e preoccupazione prevalente sulla validità). Quanto ai contenuti, si insiste in maniera particolare sui doveri religiosi del Decalogo e dei Precetti della Chiesa e su quelli familiari (vita affettivo-sessuale, responsabilità educative dei genitori). Le problematiche della giustizia vengono sviluppate in prospettiva prevalentemente commutativa e interpersonale.

Le affermazioni tridentine sulla necessità della confessione dettagliata dei peccati (numero, specie e circostanze che ne mutano la specie) spingono la teologia morale a concentrarsi sulla determinazione oggettiva dei singoli atti-peccato alla luce delle possibili circostanze che possono accentuarne o sminuirne la gravità (“casi morali”). I “corsi dei casi”, pensati per la pratica della confessione e destinati ai sacerdoti meno dotati per la teologia speculativa, spingono all’elaborazione delle Institutiones theologiae moralis o Manuales theologiae moralis, che, sulla scia delle Summae confessariorum quanto ai contenuti e attingendo dalla Summa tommasiana gli elementi più pratici della morale generale, cercano di determinare dettagliatamente il valore morale oggettivo degli atti.

La teologia morale acquisisce una propria autonomia metodologica, che privilegia le istanze filosofiche della legge naturale (per la determinazione dell’imperativo morale) e quelle giuridiche (per la sua attuazione pratica da parte delle coscienza). Sullo sfondo c’è una visione di Dio come fonte e vindice dell’Ordo moralis. Il bene morale viene rinchiuso nei parametri del “precetto/obbligo”, perdendo l’essenziale rapporto con lo spirituale. È la teologia morale casistica che, se va apprezzata per la concretezza delle risposte e il coraggio con cui scende nella realtà, si mostrerà ben presto lacunosa sul piano teologico ed etico-antropologico.

La pedagogia morale del Sei-Settecento mira a “quietare” le coscienze mediante la proposta del valore oggettivo dei singoli atti, sulla base della loro “natura” e ricorrendo all’aiuto delle auctoritates canoniche, magisteriali e teologiche. Assegna perciò un ruolo preponderante al “giudizio” autoritativo sulla presenza o meno di un obbligo nella concreta situazione. Il riferimento al confessore o al direttore spirituale diventa centrale, con la conseguente priorità attribuita all’ubbidienza. La sottolineatura del bene morale come espressione del precetto/obbligo porta alla contrapposizione con la libertà, ridotta al solo libero arbitrio: la coscienza diventa un “tribunale”, in cui si confrontano la legge, portatrice dell’oggettività morale, e la libertà espressione della soggettività della persona. Nei casi in cui questo giudizio non è chiaro, la certezza pratica viene raggiunta attraverso i “sistemi morali”. Questi, senza dare una risposta alla moralità oggettività dell’atto (veritas rei), assicurano la certezza della correttezza morale dell’azione (honestas actionis), ricorrendo a principi di carattere generale, attinti prevalentemente dal diritto romano (praesumptio, equitas…).

La diversità dei sistemi, determinata dalla divergenza dei punti di partenza (priorità della libertà o della legge) e delle sensibilità antropologiche (prevalenza delle prospettive ottimistiche o pessimistiche nella lettura della concretezza storica dell’uomo) e pastorali (prospettive più elitistiche, in forza delle esigenze della purezza evangelica, o più popolari, attente alla guarigione della “fragilità” storica della persona), portano a dibattiti e confronti interminabili, che finiscono con il chiudere la teologia morale su stessa, rendendo più problematico il dialogo con la sensibilità morale che la modernità comincia a sviluppare.

Nel contesto italiano, l’equilibrio tra gli opposti sistemi è frutto soprattutto dell’opera di S. Alfonso de Liguori (1696-1787). Partendo dall’ascolto della “fragilità” del popolo più umile, egli riesce a proporre «una sintesi equilibrata e convincente tra le esigenze della legge di Dio, scolpita nei nostri cuori, rivelata pienamente da Cristo e interpretata autorevolmente dalla Chiesa, e i dinamismi della coscienza e della libertà dell’uomo, che proprio nell’adesione alla verità e al bene permettono la maturazione e la realizzazione della persona» (Benedetto XVI, OR 31 marzo 2011, 8).

Il difficile dialogo con le istanze della modernità. Tra la fine del Settecento e i primi decenni dell’Ottocento, la sintesi alfonsiana si diffonde non solo in Italia, ma anche nell’intera Europa, contribuendo al superamento del rigorismo sul piano morale e pastorale. Tra i protagonisti di questa diffusione troviamo i gruppi delle Amicizie cristiane, sorte a Torino tra il 1778 e il 1780 e ben presto irradiatesi negli altri paesi europei. Importante è anche l’opera molteplice di Pio Bruno Lanteri (1759-1830), soprattutto per il rinnovamento morale e pastorale del clero attraverso il “Convitto ecclesiastico” di Torino (da lui fondato nel 1817 insieme a Luigi Guala, 1775-1848), fucina di Santi, come Giuseppe Cafasso (1811-1860) e Giovanni Bosco (1815-1888), che avrebbero segnato il cammino della Chiesa in tutto l’Ottocento.

La vita concreta del popolo, soprattutto più semplice, attinge risorse e criteri soprattutto dalla pietà popolare, con le sue devozioni, feste, riti. È una pietà che cerca di rispondere ai bisogni della vita quotidiana, accentuando il potere taumaturgico della Vergine Maria e dei Santi. Le radici evangeliche non riescono sempre a evitare il contagio con credenze e prassi tradizionali dal sapore superstizioso. A causa anche della qualità del clero, la dimensione formativa delle coscienze non riceve sempre risposte adeguate, finendo con il legittimare prassi eticamente non corrette. Soprattutto nel Sud, il sentimento e la sua espressione festiva diventano predominanti. La purificazione della pietà popolare costituisce una preoccupazione prioritaria a livello pastorale, anche se non sempre gli interventi appaiono realisticamente illuminati. Decisa è la critica di Ludovico Antonio Muratori (1672-1750), in vista anche di un’apertura alle istanze illuministe che cominciano a diffondersi nel nostro paese. Più costruttivo è l’approccio alfonsiano mediante la riqualificazione della predicazione popolare e la diffusione, tra il popolo, dell’orazione mentale e della frequenza dei sacramenti.

Il dialogo con le istanze etiche della modernità (centralità della coscienza individuale, diritti umani, autonomia delle realtà politiche, visione dinamica del denaro e dei processi economici) incontra ostacoli notevoli. Non mancano pensatori, come Antonio Rosmini (1797-1855), che se ne fanno attivi e critici promotori. Resta però predominante un senso di sospetto e di difesa, a causa dei presupposti ideologici di molti protagonisti dell’Illuminismo (razionalismo chiuso alla rivelazione, immanentismo materialista, critica radicale di ogni forma di autorità). Nell’Ottocento, si aggiungono le tensioni riguardanti gli Stati Pontifici, nell’insieme del processo di riunificazione italiana, generando veri conflitti di coscienza.

Questi fattori determinano uno stile morale di taglio prevalentemente conservativo: più che affrontare alla radice le problematiche della giustizia sociale, si cerca di porre rimedio alle sue conseguenze attraverso il moltiplicarsi delle risposte caritativo-assistenziali. È un atteggiamento che si vede confermato dal clima di restaurazione determinato dal Congresso di Vienna (1814-1815). La separazione etica tra privato e pubblico porta a una accentuazione, a volte di sapore puritano, delle problematiche effettivo-sessuali e familiari. La famiglia e i suoi valori tradizionali costituiscono il punto di riferimento e l’asse portante della mentalità morale, con a volte delle radicalizzazioni non in sintonia con il dato evangelico (come la legittimazione del delitto di onore).

Sulla privatizzazione della morale incidono anche alcune tendenze presenti nel Romanticismo del primo Ottocento. Ben presto però si fa più forte l’influsso della mentalità capitalistica, con la crescente industrializzazione soprattutto in alcune regioni del Nord, anche se essa, nel nostro paese, non raggiunge le radicalizzazioni di altri paesi europei. Non va però dimenticata l’apertura all’impegno verso i più deboli, che contrassegna la prassi quotidiana, anche grazie all’opera infaticabile di istituti religiosi, maschili e femminili, dediti all’assistenza o all’educazione della gioventù, che nell’Ottocento nascono o conoscono una nuova fioritura. Parimenti importante è la proiezione missionaria, che gradatamente si va affermando, aprendo la mentalità morale sul mondo intero.

Fonti e Bibl. essenziale

AA.VV., Storia della teologia, I-IV, Piemme, Casale Monferrato, 1993-2001; G. Angelini, Teologia morale fondamentale. Tradizione, Scrittura e teoria, Glossa, Milano 1999; D. Capone, S. Tommaso e S. Alfonso in teologia morale, Asprenas 21 (1974), 439-473; R. Gerardi, Storia della morale. Interpretazioni teologiche dell’esperienza cristiana. Periodi e correnti, autori e opere, EDB, Bologna 2003; S. Pinckaers, Le fonti della morale cristiana. Metodo, contenuti, storia, Ares, Milano 1992; A. Prosperi, Eresie e devozioni. La religione italiana in età moderna, Edizioni di storia e Letteratura, Roma 2010; L. Vereecke, Storia della teologia morale, in F. Compagnoni – G. Piana – S. Privitera (edd.), San Paolo, Cinisello Balsamo 1990, 1314-1338; M. Vidal, Historia de la Teología Moral, vol. II-IV, Editorial Perpetuo Socorro, Madrid 2010-2012; P. Zovatto (ed.), Storia della spiritualità italiana, Città Nuova, Roma 2002; C. Zuccaro, Teologia morale fondamentale, Queriniana, Brescia 2013, 51-84.


LEMMARIO




Neoguelfismo - vol. I


Autore: Guido Formigoni

Corrente di pensiero risorgimentale che collega strettamente l’unificazione dell’Italia come nazione alla sua identità di paese cattolico, e più specificamente alla presenza sul territorio italiano del papato, guida della Chiesa universale. Il termine ebbe inizialmente un significato polemico, quando repubblicani e rivoluzionari dell’età della Restaurazione accusavano i cattolici di essere neoguelfi in quanto passatisti e reazionari che idealizzavano il guelfismo medievale. Venne però acquisito da alcuni intellettuali cattolici per definire un modo originale di intendere la “questione nazionale”. Lo sfondo polemico era molteplice: in primo luogo, la nota tesi, ascrivibile a Machiavelli, per cui la presenza del “papa re” aveva impedito la costruzione di uno Stato unitario in Italia; poi, la rottura rivoluzionaria dei nessi religione-civiltà; infine, le posizioni di chi, come il Sismondi, aveva ascritto alla morale cattolica molta responsabilità per la decadenza italiana. Reagendo a queste provocazioni, una variegata serie di contributi storiografici iniziò a soffermarsi sui benefici storici connessi alla nascita e allo sviluppo dello Stato pontificio nella penisola, nel senso della civiltà e della difesa dell’italianità da varie potenza straniere (dal de Maistre del Du Pape si arrivò in questa linea fino a Carlo Troya o Cesare Balbo).

Lo sviluppo più articolato di questa riflessione apparve in un ponderoso trattato di Vincenzo Gioberti, Del primato morale e civile degli italiani (stampato dapprima nel 1843 a Bruxelles, dove l’abate piemontese era esule). La sua tesi forte era che l’Italia come nazione affondasse le sue origini proprio nell’intreccio storico con l’istituzione papale: ciò motivava appunto il «primato» italiano tra le nazioni, in quanto una nazione particolare serviva alla più nobile causa di civiltà, quella cristiana, con un ruolo addirittura «sacerdotale» («gl’italiani, umanamente parlando, sono i Leviti della cristianità»). Sulla base di tale «idea guelfa», Gioberti sviluppava una proposta propriamente politica, che prendeva posizione nel dibattito sul Risorgimento d’Italia. Siccome «l’idea del primato romano [… era] il solo principio di unione possibile ai vari stati peninsulari», l’Italia avrebbe potuto ottenere forza e potenza solo tramite «una confederazione politica sotto l’autorità moderatrice del pontefice» (V. Gioberti, Del primato morale e civile degli italiani, [1843], a cura di U. Redanò, Bocca, Milano 1938, pp. 37-39). Questa proposta non toccava le sovranità dei legittimi principi (compreso ovviamente il pontefice, anche se in modo velato chiedeva di spostare il suo ruolo su registri morali), suggeriva vaghe riforme all’interno di ogni Stato e aggirava il problema annoso dell’influenza austriaca. Si può comprendere come fossero posizioni gradite all’opinione moderata che in vari Stati della penisola era spaventata dalle minacce rivoluzionarie o dalle prospettive di un salto nel buio repubblicano e unitario. Attorno al neoguelfismo crebbe un ampio consenso: il successo del volume fu straordinario (si parla di undici edizioni e forse 80.000 copie in cinque anni).

La finestra di possibile realizzazione politica di questo progetto si aprì con le riforme del 1846-’48, e soprattutto con l’elezione di quello che si ritenne – in modo piuttosto equivoco – il “papa liberale” Pio IX, che peraltro simpatizzava per la causa nazionale ed era disponibile a modeste riforme amministrative nello Stato pontificio. All’inizio dell’ondata rivoluzionaria del 1848 il modello sembrò tenere, con il papa che utilizzò in alcune allocuzioni un linguaggio neoguelfo. Preti patrioti combatterono l’Austria al Nord e comparvero bandiere tricolori italiane (simbolo rivoluzionario, non dimentichiamolo) con le scritte speculari «Viva l’Italia – Viva Pio IX». Ma tale possibilità non doveva reggere l’accelerazione politica delle vicende: la prospettiva di una guerra degli Stati italiani all’Austria fece fare a Pio IX una rapida marcia indietro, con il proclama del 29 aprile 1848. Il papa non poteva intendere la sua missione in modo troppo esclusivamente «italiano». L’evoluzione del regime rappresentativo romano verso la soluzione repubblicana scavò poi un solco duraturo tra il papa e le idee costituzionali.

La strada del neoguelfismo si interrompeva. Il Piemonte sabaudo divenne faro di attrazione per l’opinione liberale e nazionale della penisola, assumendo la guida del moto unitario. Il Risorgimento doveva quindi scontrarsi sempre più chiaramente con il ruolo del papa come sovrano temporale. La controversia diplomatica sul destino di Roma e la libertà del pontefice si aggiungeva al crescente arroccamento di Pio IX su una impostazione che vedeva tale sovranità come necessario simbolo della subordinazione delle istituzioni civili a quelle religiose.

L’impostazione neoguelfa, sconfitta sul piano politico, doveva però lasciare dietro di sé un impressionante lascito culturale, sia nella coscienza di molti credenti comunque coinvolti nel moto risorgimentale nei decenni successivi, che da quei cattolici che si arroccarono su posizioni intransigenti, seguendo il papato nella sdegnosa condanna della costruzione statuale usurpatrice dei diritti divini del pontefice. In questa seconda versione, si vagheggiava un’altra Italia, quella vera, a guida papale, come alternativa al Risorgimento scomunicato.

Fonti e Bibl. essenziale

A. Giovagnoli, Il neoguelfismo, in G. De Rosa (a cura di), Storia dell’Italia religiosa, III vol., L’età contemporanea, Laterza, Bari-Roma 1995, 39-59; G. Rumi, Vincenzo Gioberti, Il Mulino, Bologna 1999.


LEMMARIO




Nunziature - vol. I


Autore: Antonio Menniti Ippolito

Le Nunziature permanenti sono rappresentanze diplomatiche stabili della Santa Sede incaricate di esercitare il diritto di legazione sia nella sua forma esterna, ossia nel trattare gli affari politici con i governi civili, sia nella forma interna, in relazione alle Chiese locali. A questo proposito i Nunzi nell’età moderna dovevano tra le altre cose informare la Sede romana sullo Stato della religione nelle aree in cui erano stati inviati; individuare candidati a benefici vacanti ove Roma conservava qualche possibilità d’esprimersi al riguardo; potevano consacrare i vescovi che non erano in grado di recarsi a Roma per essere investiti direttamente dal papa; esercitare infine attività giurisdizionale, legata soprattutto ai giudizi d’appello, con un proprio tribunale. La funzione dei Nunzi era insomma da un lato simile a quella degli ambasciatori ordinari, ma sotto altro aspetto, che lo studio delle fonti mostrano di fatto prevalente, presupponeva una funzione di giurisdizione sulle gerarchie ecclesiastiche locali. Alle Nunziature permanenti si affiancano quelle straordinarie, dai caratteri più difficilmente codificabili.

Origini. La Sede romana ebbe rappresentanti diplomatici già nei tempi più antichi, ad esempio presso la Corte imperiale di Costantinopoli, ma l’origine delle Nunziature permanenti è di norma collegata all’ufficio del Nunzio collettore e commissario delle decime. Dal XIII sec. il papato riscuoteva le decime inviando a tal fine funzionari della Camera Apostolica. Via via tale funzione aumentò di rilievo e in qualità di collettori vennero destinati prelati di grado sempre più elevato. Costoro, in Francia o in Germania, esercitavano il compito in una o due province ecclesiastiche, mentre in sedi più lontane, come in Inghilterra, esso veniva svolto per l’intero territorio dello Stato. In queste aree più lontane, i collettori potevano essere investiti anche di un mandato che li autorizzava a trattare questioni d’ordine politico (nelle altre invece ai collettori potevano affiancarsi a tal fine legati) e gradualmente gli agenti fiscali andarono a trasformarsi in agenti diplomatici. Ciò in misura più decisa, se non definitiva, quando l’evoluzione generale europea vide comparire, in specie dal XV sec., potenze statuali sempre più solide e ambiziose ora sotto la guida di stabili dinastie il che condusse alla istituzione da parte delle stesse di sedi diplomatiche permanenti, guidate da ambasciatori. Il papato trasferì nel ruolo di Nunzio le funzioni che già avevano svolto i collettori, e questo sia nelle sedi ove queste figure già avevano operato, sia in quelle che vennero istituite ex novo per far fronte alle esigenze.

I Nunzi, titolari delle Nunziature permanenti, lo si è già detto, non svolgevano esclusivamente le funzioni tipiche degli ambasciatori, legate alla funzione di tenere rapporti politici con i governi. Si sovrapponevano infatti sulle gerarchie ecclesiastiche locali, gelose delle proprie prerogative, rappresentando anche presso di loro, oltre che con i governi, l’autorità del papa. Una funzione molto delicata che li impegnava, come già accennato, per gran parte della loro missione. Tutto questo innestò una dialettica che ritmò l’intera vicenda delle Nunziature in età moderna generando contrasti di diversa intensità e che portò in qualche occasione a vere e proprie prese di posizione da parte delle Chiese locali contro quelle rappresentanze diplomatiche avvertite quali lesive delle competenze dei metropoliti e dei vescovi (nel 1786, gli arcivescovi di Magonza, Treviri, Colonia e Salisburgo, richiesero formalmente l’abolizione delle Nunziature apostoliche).

Fondazione delle Nunziature. Di norma le Nunziature non nascevano in virtù di un atto formale di fondazione, bensì dalla stabilizzazione dei rappresentanti straordinari che erano stati inviati a trattare degli affari diplomatici presso un principe. Troviamo tuttavia casi in cui una serie di inviati straordinari venne seguita da altri stabili, ma anche casi dove ad una serie di rappresentanti stabili seguì una serie di straordinari. Ciò rende insomma complicato stabilire date di nascita precise delle Nunziature permanenti: più prudente collocare la prima affermazione delle stesse a partire dalla metà del XV sec. quando sappiamo che sotto il pontificato di Niccolò V, Antonio Giacomo Venier (o de Veneris) fu destinato Nunzio in Castiglia. In Italia la prima Nunziatura permanente fu quella veneziana e ciò a partire dal 1485 quando Niccolò Franco, appena destinato alla guida del vescovato di Treviso, venne nominato oratore pontificio con potestà di legato a latere presso le Serenissime autorità veneziane. La durata dell’incarico (fino al 1492) e il fatto che a Franco vennero conferiti pure i poteri di collettore delle decime ecclesiastiche nel Dominio veneto portano ad identificarlo quale il primo della lunga serie di Nunzi pontifici presso la Repubblica veneta.

A partire dai primi decenni del XVI sec. si consolidò un sistema di sedi diplomatiche che si articolò in una dozzina circa di nunziature ordinarie: Bruxelles (da qui si diceva anche di ciò che accadeva in Inghilterra e Olanda), Colonia, Firenze, Francia, Graz, presso la Corte imperiale, Napoli, Polonia, Savoia, Spagna, Svizzeri, Venezia. La Nunziatura del Portogallo si era trasformata in collettoria priva di incombenze politiche quando quella Corona era stata assimilata dal sovrano di Spagna, mentre altre realtà che possono essere in qualche modo accomunate a quelle delle Nunziature furono rappresentate dalla Legazione di Avignone e dall’Inquisizione di Malta. Il sistema era però dinamico e legato a esigenze particolari che potevano venir meno o mutare. S’è appena detto del declassamento della Nunziatura del Portogallo; quella di Transilvania venne invece soppressa nel 1600, quella di Modena fu chiusa da Paolo V che istituì invece quelle di Milano e Vienna che non sopravvissero però al suo pontificato. Nel 1622 Gregorio XV soppresse la sede di Graz, nel 1785 venne invece inaugurata la Nunziatura di Baviera, ecc.

Tale evoluzione mostra dei papi sempre più coinvolti nella politica europea in qualità di principi di uno stato territoriale oltre che come pastori della Chiesa universale. Sotto questo aspetto, l’articolazione delle Nunziature fu anche conseguenza inevitabile della serie di concordati stipulati tra la Santa Sede e le potenze europee soprattutto a partire dagli anni ’40 del Quattrocento. L’esigenza di fronteggiare il conciliarismo e di evitare che altri seguissero l’esempio del re di Francia che con la Prammatica sanzione di Bourges aveva creato unilateralmente la Chiesa gallicana, a lui soggetta, spinsero i papi ad elargire per concessione ai principi ampie prerogative sulle Chiese nazionali. L’istituzione delle Nunziature si legava in definitiva anche a questa situazione, per cercare di stabilire un network tra tutte queste realtà e per evitare che il loro legame con Roma assumesse un carattere esclusivamente formale. L’incombenza di rappresentare oltralpe una Chiesa per forza di cose sempre più italianizzata venne ricoperta da Nunzi e legati di sola origine peninsulare (immediato pensare che ciò era dovuto anche alla necessità di evitare imbarazzi, incompatibilità e contestazioni) e la funzione di Nunzio, così come fu indicato dal Concilio di Trento e sostanzialmente rispettato nella prassi, fu legata alla dignità episcopale. Per fare un esempio durante il pontificato di Paolo V il 36% di chi venne nominato Nunzio fu consacrato vescovo proprio in occasione dell’invio in missione. La durata media delle missioni fu di circa 4 anni, ma il dato è ricavato da un quadro generale che vide Nunziature anche di durata quasi ventennale.

Nunziature e carriere curiali. L’indagine prosopografiche sugli alti livelli delle carriere curiali rivela come per un lungo periodo la totalità dei pontefici e un’alta percentuale di cardinali e prelati di vertice poté vantare precedenti esperienze diplomatiche, in qualità di Nunzi o di legati a vario titolo presso corti extrapeninsulari. Per dir meglio, tale genere di esperienza dovette di fatto essere ritenuta indispensabile per poter assumere la responsabilità di pontefice ancora per tutto il Seicento perché riguardò tutti gli eletti al trono di Pietro da Martino V a Innocenzo XII (che spirò nel 1700), con la sola eccezione di Alessandro VIII (1689-91), che percorse l’intera sua carriera in Curia e che si era allontanato dall’Urbe nel solo decennio 1654-64 quando fu vescovo di Brescia. Nel sec. XV le missioni di questi curiali poi destinati al papato si svolsero in gran parte in area tedesca; nel secolo successivo, stante anche l’unione, per largo tratto della prima metà del secolo, delle corone di Spagna e imperiale nella persona di Carlo V, nella penisola iberica; nel XVII sec. la sede più impegnativa e sotto certi aspetti ambita fu quella francese. Dopo papa Pignatelli la situazione mutò d’improvviso. A partire da Clemente XI (1700-1721), che mai pose piede fuori dello Stato pontificio, e fino a Pio IX, con la sola eccezione di Innocenzo XIII, nessun papa godette infatti di tale esperienza, e anche questo è indice del livello di marginalizzazione che la Chiesa di Roma conobbe in misura sempre maggiore a partire dalle paci di Vestfalia.

Facoltà dei Nunzi. Al momento di partire per la missione i Nunzi ricevano delle Istruzioni e dei brevi che tracciavano le linee politiche cui il loro operato avrebbe dovuto ispirarsi e indicavano le facoltà generali o più specifiche di cui avrebbero goduto: su quali aree avrebbero esercitato la loro giurisdizione, quali dispense avrebbero potuto elargire, quali cause giudicare (dopo Trento, lì dove il concilio era stato recepito, fungevano da giudici d’appello per le sentenze di primo grado emesse dagli ordinari), quando poter richiedere l’intervento del braccio secolare o dei vescovi, quali benefici ecclesiastici poter collazionare, quali deleghe poter concedere, ecc. Alcuni Nunzi avevano la facoltà di svolgere i processi informativi circa le qualità di chi veniva candidato ai benefici concistoriali (vescovi o abati). Ma la varietà di queste facoltà era assai ampia e ad esempio in Germania i Nunzi ne godettero anche di tipicamente inquisitoriali, come la possibilità di assolvere eretici o di autorizzare la lettura di libri proibiti ma anche quella di assumere le funzioni di commissario e inquisitore generale. Quanto al cerimoniale, i Nunzi, che avevano il titolo d’Eccellenza, godevano ovunque della precedenza sugli altri ambasciatori.

Struttura diplomatica della Santa Sede. Nunzi avevano una propria cancelleria e un proprio tribunale. Loro referente principale romano fu, per un buon tratto dell’età moderna (seconda metà XVI-fine XVII sec.), il cardinal nipote, attraverso però la struttura della Segreteria di Stato retta dal suo Segretario che prese formalmente il posto del favorito consanguineo del papa dopo l’abolizione del nepotismo nel 1692. La mole di corrispondenza che passava attraverso la Segreteria di Stato era cospicua e dai contenuti assai vari il che creava l’esigenza di coinvolgere nell’attività diplomatica anche altre Congregazioni curiali. Tale struttura ancora per tutto il XVIII sec. conobbe mutamenti spesso significativi, da un lato favoriti dalla persistenza delle figure degli influentissimi cardinali nipoti sia pure sotto altre vesti, in primis quella di Segretari dei memoriali, e sotto un altro aspetto anche determinati dalle figure insipide o del tutto indegne di alcuni Segretari di Stato (ininfluente fu ad esempio il cardinale Lazzaro Pallavicini sotto Clemente XIV e parte del pontificato di Pio VI, costretto alle dimissioni per condotta immorale fu Ignazio Boncompagni sempre durante il papato Braschi). Solo dopo il 1814 il processo di riorganizzazione curiale promosso da Pio VII con l’indispensabile collaborazione del cardinal Consalvi pose la Segreteria di Stato definitivamente al centro degli affari interni ed esterni della Santa Sede.

Fonti e Bibl. essenziale

H. Biaudet, Les Nonciatures Apostoliques permanentes jusqu’en 1648, Suomalainen Tiedeakatemia, Helsinki 1910; L. Karttunen, Les Nonciatures Apostoliques permanentes de 1650 a 1800, Imprimerie E. Chaulmontet, Genéve 1912; F. Gaeta, Origine e sviluppo della rappresentanza stabile pontificia in Venezia (1485-1533), in “Annuario dell’Istituto Storico Italiano per l’età moderna e contemporanea”, IX-X (1957-1958), 5-281; P. Blet, Histoire de la Représentation Diplomatique du Saint Siège des origines à l’aube du XIXe siècle, Città del Vaticano 1982; Le istruzioni generali di Paolo V ai diplomatici pontifici. 1605-1621, a cura di S. Giordano OCD, I, Max Niemeyer Verlag, Tübingen 2003, 119-152.


LEMMARIO




Oratori e Compagnie - vol. I


Autore: Stefano Tessaglia

L’Umanesimo e il Rinascimento costituiscono un momento importante anche per la storia della chiesa, come preparazione e passaggio dall’epoca medievale all’età moderna. Nasce, a partire dal XIV-XV sec., un nuovo clima religioso e spirituale che parte dagli ambienti colti (in sintonia, soprattutto in Italia, con lo spirito umanistico) ma che poi ridonda fecondo anche a livello popolare, nell’azione caritativa e di culto. Molti gruppi, prevalentemente formati da laici, si ritrovano nei centri urbani a studiare e a meditare la Scrittura, animati da una sincera volontà di approfondimento spirituale e di santificazione personale.

È questa l’epoca in cui si ricercano da più parti soluzioni alla rilassatezza della fede religiosa e dei costumi, anche nel clero: sorgono nuovi ordini o si cerca di ricondurre la vita dei conventi al rigore della origini. In quest’ottica nascono le “osservanze”, movimenti di riforma dall’interno degli stessi conventi (domenicani, francescani, ecc.), con la finalità di riportare la vita religiosa all’osservanza della regola originaria. Nel corso del XVI sec., dopo la riforma protestante e il concilio di Trento (1545-1563), nascono nuovi ordini di cosiddetti “chierici regolari” (teatini, barnabiti, gesuiti, somaschi, ecc.) che, riuniti in comunità da una regola e sotto un superiore, si dedicano all’apostolato, allo studio e alla formazione.

A partire dal XIV sec., una nuova tendenza, comunemente nota con il nome di “devotio moderna”. Si tratta di un vasto movimento spirituale, originario del Nord Europa e dal rapido successo, che chiama ogni cristiano a condurre una vita di fede profonda, basata su una devozione personale interiore ed affettiva, non senza qualche eccesso di sentimentalismo. Questo nuovo genere di devozione prevede inoltre un programma pratico e metodico di atti di preghiera, di meditazione e di lettura della Bibbia.

Tale clima di risveglio coinvolge secondo aspetti molto diversificati tutta l’Europa che precede e segue Lutero, il concilio di Trento e le riforme, e vede nascere spontanei (e poi via via più disciplinati dopo il concilio) anche variegati movimenti di laici, che si impegnano nelle opere caritative e nella formazione spirituale, ma anche nella riforma della Chiesa.

In tutta Italia si fondano oratori, congregazioni, compagnie della carità e della dottrina cristiana, secondo tipologie e denominazioni molto varie: confraternitas, fraternitas, schola, consortium, congregatio, societas, universitas, amicitia, ecc.

Si tratta in ogni caso di piccole comunità che hanno come soggetto i laici: il clero è presente, ma in forma aggregata, per la predicazione e l’amministrazione dei sacramenti. Le iniziative sono varie e comprendono manifestazioni di culto (processioni, messe perpetue, novene, ecc.); fondazione di “luoghi pii” per l’assistenza dei bisognosi o di “fabbriche” per la manutenzione di edifici di culto; unioni a scopo di mutua assistenza tra i membri; formazione personale e pratiche penitenziali.

Ricordiamo in questo senso le confraternite legate agli ordini mendicanti (in specie ai domenicani) sorte a Bologna, a Firenze e in altri centri; l’Oratorio di S. Girolamo fondato a Vicenza da Bernardino da Feltre (1439-1494), con l’impegno per i sodali di visite settimanali ai poveri e malati, in collegamento con l’ospedale della Misericordia; la Pia opera di Santa Corona (1497) del domenicano Stefano da Seregno; le Compagnie della Carità (1519) del card. Giulio de’ Medici (1478-1534), futuro papa Clemente VII; ma anche gruppi devoti di studio della Scrittura come quello fondato a Venezia da Paolo Giustiniani (1476-1528) e dai suoi compagni di università Vincenzo Quirini (1479-1514) e Gaspare Contarini (1483-1542).

Nel contesto della riforma cattolica italiana spicca senza dubbio l’Oratorio o Compagnia del Divino Amore, che si raccoglie a Genova attorno a Caterina Fieschi (1447-1510), nobildonna dedita a una vita di preghiera, penitenza e carità. Caterina, indotta da una rivelazione mistica ad abbandonare l’esistenza mondana avviata col marito, dal 1473 intraprende una vita di carità, giungendo ad essere a capo della sezione femminile dell’ospedale del Pammatone (Genova), e distinguendosi per l’abnegazione dimostrata durante le pesti del 1497 e del 1501. A partire dal 1497, su iniziativa del suo discepolo Ettore Vernazza (1470ca-1524), inizia ad operare la Compagnia del Divino Amore, insieme con quella del Mandiletto, i cui aderenti sono impegnati, con discrezione e conservando l’anonimato, a portare aiuti alle famiglie indigenti.

La Compagnia si dedica, secondo un programma stabilito e con un numero definito di membri (trentasei laici e quattro presbiteri, per un totale di quaranta componenti), alla formazione e santificazione personale, secondo una devozione intensa e rilevanti attività caritative, in particolare l’assistenza ai malati più gravi e agli “incurabili”. Il Divino Amore ha una rapida diffusione e l’esperienza genovese si trasferisce poi in altre città italiane, tra cui Savona, Bologna, Vicenza, Verona, Padova e Venezia. L’oratorio di Roma, forse il più importante e sorto intorno al 1515, insieme con quello Napoli (1518), assume un rilievo speciale, con l’impegno per gli associati della partecipazione frequente all’eucarestia, confessione, comunione almeno mensile, digiuno settimanale, preghiera personale e visite agli infermi più gravi e abbandonati. Da questo gruppo romano passano anche Gian Pietro Carafa (1476-1559), futuro papa Paolo IV, e Gaetano da Thiene (1480-1547), poi fondatori dei Teatini, con altre importanti personalità della riforma ecclesiastica.

Provenendo da questa esperienza, il sacerdote Bartolomeo Stella († 1554) fonda a Brescia nel 1521 un ospedale per gli incurabili, collegato ad un circolo di laici (tra cui alcune donne e Angela Merici) e denominato “Amicitia” (1525), identico nome scelto da Antonio Maria Zaccaria (1502-1539) per il gruppo di fedeli cremonesi associati con lui.

In seguito, presso l’Oratorio dell’Eterna Sapienza di Milano (importante ma poco duratura esperienza di oratorio, 1500-1530), lo Zaccaria con alcuni membri dà vita alla Compagnia dei Figlioli e delle Figliole di Paolo Santo, una formazione religiosa originale, formata da tre collegi, uno di sacerdoti, uno di religiose e uno di laici. Nascono così i Barnabiti, preti di vita austera dediti all’attività pastorale (approvati da Clemente VII nel 1533) e insieme con loro, riunite attorno alla nobile Ludovica Torelli (1500-1569), vi sono appunto un collegio di donne (le Angeliche), non legate alla clausura e consacrate all’azione apostolica tra il popolo, nonché un gruppo di persone sposate, chiamate appunto i “maridati”.

Un’altra iniziativa importante, nata a Milano ma in seguito divenuta esperienza diffusa, è quella della Compagnia della Dottrina cristiana, fondata nel 1536 presso l’oratorio della chiesa dei Santi Giacomo e Filippo dal sacerdote Castellino da Castello (1476ca-1566), già membro dell’Opera di Santa Corona. Insieme con un gruppo di laici, egli riunisce ragazzi (e ragazze) delle classi più disagiate, insegnando loro a leggere e scrivere, per poi proseguire con un’istruzione propriamente religiosa, anche grazie ad un catechismo in forma di domande e risposte da lui stesso composto. Scuole di questo genere non esistono all’epoca e l’iniziativa incontra presto grande favore, estendendosi rapidamente (nella sola Milano si contano trenta scuole): al gruppo originario si aggiungono molti collaboratori e sono aperte nuove sedi, con l’ammissione anche di adulti. Per organizzare ed amministrare questa imponente attività lo stesso Castellino dà vita, nel 1539, ad una confraternita che diffonde l’esperienza delle scuole in tutto il Nord Italia, cercando di rispondere al problema dell’istruzione religiosa popolare affrontato anche dal concilio di Trento. Lo stesso card. Carlo Borromeo, alla morte del fondatore, prende a cuore e consolida le Compagnie della Dottrina Cristiana, emanando nuove Costituzioni (1569).

Del tutto singolare e feconda di ulteriori sviluppi, sia in ambito laicale che clericale, è l’attività avviata a Roma dal fiorentino Filippo Neri (1515-1595).

Uomo intensamente impegnato in una ricerca spirituale personale, egli compie esperienze di vita eremitica ma anche di attività caritativa e collabora a Roma alla fondazione della Confraternita della Santissima Trinità (1548) per l’accoglienza dei migliaia di pellegrini che giungevano a Roma in occasione di solennità e specialmente di giubilei.

Divenuto sacerdote Filippo Neri si dedica al ministero pastorale (in specie come confessore) e successivamente dà vita, con alcuni dei suoi fedeli e penitenti, all’iniziativa dell’Oratorio presso la chiesa di S. Girolamo della Carità (poi in S. Maria in Vallicella), dando subito prova della sua particolare vocazione insieme mistica e pratica, ascetica e attiva.

Nato e modellato dal carattere gioviale ed aperto del suo fondatore, l’Oratorio si configura immediatamente come momento di sano impiego del tempo libero per un gruppo di giovani e di uomini, ma anche come luogo di formazione, alternativo all’ozio borghese, attraverso letture e conversazioni spirituali. La formula raccoglie un rapido consenso, i fedeli crescono e le iniziative si diversificano: visite culturali e devote (di grande diffusione è quella alle “sette chiese” di Roma), conferenze (celebri quelle di Cesare Baronio sulla storia della chiesa), pratica della musica e del canto, nonché altri “onesti divertimenti”.

Successivamente, quest’esperienza di formazione laicale si diffonde in altre città e, nell’ambito dell’Oratorio romano, prende forma (con bolla di Gregorio XIII del 1575) anche una congregazione religiosa (Oratoriani o Filippini) che già informalmente si era riunita attorno a Filippo Neri e si inserisce nella prospettiva del rinnovamento spirituale e pastorale del clero. Si verifica così, come in molti casi, che le iniziative di rinnovamento laicale, la riforma del clero e i nuovi modi di vita religiosa, si legano e si integrano a vicenda pro reformatione Ecclesiae Dei in capite et in membris.

Fonti e Bibl. essenziale

A. Bianconi, L’opera delle Compagnie del “Divino Amore” nella Riforma Cattolica, Lapi, Città di Castello 1914; P. Paschini, Le Compagnie del Divino Amore e la beneficenza pubblica nei primi decenni del Cinquecento, in Tre ricerche sulla storia della Chiesa nel Cinquecento, Edizioni Liturgiche, Roma 1945, 3-88; M. Marcocchi, La Riforma Cattolica: documenti e testimonianze, 2 voll., Morcelliana, Brescia 1967-1970; M. Petrocchi, Storia della spiritualità italiana. II. Il Cinquecento e il Seicento, Ed. Storia e Letteratura, Roma 1978; G. G. Meersemann – G. P. Pacini, Le confraternite laicali in Italia dal quattrocento al seicento, in AA.VV., Problemi di storia della chiesa nei secoli XV-XVII, Ed. Dehoniane, Napoli 1979, 109-136; M. Marcocchi, Per la storia della spiritualità in Italia tra il cinquecento e il seicento, in AA.VV., Problemi di storia della chiesa nei secoli XV-XVII, Ed. Dehoniane, Napoli 1979, 223-265; A. Cistellini, Figure della riforma pre-tridentina, Morcelliana, Brescia 1979; A. Cistellini, San Filippo Neri, l’Oratorio e la Congregazione oratoriana. Storia e spiritualità, 3 voll., Morcelliana, Brescia 1989; A. Bianchi, Le scuole della dottrina cristiana: linguaggio e strumenti per un’azione educativa “di massa”, in F. Buozzi – D. Zardin (edd.), Carlo Borromeo e l’opera della “grande riforma”. Cultura, religione e arti del governo nella Milano del pieno Cinquecento, Milano 1997; D. Solfaroli Camillocci, I devoti della carità. Le confraternite del Divino Amore nell’Italia del primo Cinquecento, Ed. La Città del sole, Napoli 2000.


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