Associazione Italiana dei Professori di Storia della Chiesa

Dizionario Storico Tematico La Chiesa in Italia
Dalle origini all'Unità Nazionale
Roma 2015
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Anticlericalismo - vol. I


Autore: Antonio Trampus

L’espressione anticlericalismo indica generalmente un complesso di idee e di atteggiamenti opposti polemicamente alle posizioni del clero cattolico espresse attraverso il clericalismo e il confessionalismo. L’aggettivo anticlericale, nel senso proprio di chi è ostile al clero, inizia a comparire nella lingua italiana alla metà del XIX secolo, divenendo poi di uso più comune negli anni sessanta e ottanta attraverso periodici come L’anticlericale. Giornale settimanale pubblicato dalla lega popolare anticlericale di Milano (1883) e il saggio di C. Lupano, La gran questione del nostro secolo: clericalismo e anticlericalismo (1889). In questo contesto il clericalismo era identificato nel governo temporale della Chiesa in Italia e l’anticlericalismo, quindi, rappresentava la sintesi delle posizioni di coloro che combattevano questo potere e si battevano per l’unità d’Italia attraverso la scomparsa dello Stato pontificio e con Roma capitale.

In senso più ampio, l’espressione anticlericalismo nella cultura contemporanea italiana ha finito per indicare retrospettivamente ogni atteggiamento critico nei confronti del clero cattolico e ogni sua tendenza a estendere la sua influenza nell’ambito della società civile e dello Stato, sin dal tardo Medioevo e dalla prima età moderna. Vi vengono riassunte, quindi, tutte le tendenze razionaliste confluite nella cultura libertina di fine Seicento e in quella illuministica del Settecento. Emblematico e precorritore delle idee anticlericali appaiono, in questo senso, gli orientamenti deisti da chi, come Voltaire, sosteneva la necessità di un credo morale, di una religione naturale e di una concezione di Dio che rifiutava tanto le Chiese organizzate, quanto il loro arbitrio sui temi della superstizione e della tolleranza nonché la corruzione e la cupidigia dell’ordine sacerdotale di Antico Regime. Si tratta di atteggiamenti presenti anche in una parte della cultura illuministica italiana e in particolare negli scritti di Carlantonio Pilati e nei suoi atteggiamenti, vicini al panteismo, espressi in Di una riforma d’Italia, ossia dei mezzi di riformare i più cattivi costumi e le più perniciose leggi d’Italia (1767), ove si rinviene un intero capitolo dedicato alla necessità di impedire al clero di abusare del suo potere a danno dello Stato e dei suoi cittadini.

Un diverso tipo di anticlericalismo è stato poi individuato storiograficamente nelle posizioni di quanti, in età moderna e dall’interno della Chiesa cattolica, si fecero portatori di esigenze di rinnovamento e di riforma che riportassero il cristianesimo ai suoi valori originari, recuperando i caratteri di umiltà e di carità propri del ministero ecclesiale e rivendicando l’immagine di una Chiesa semplice e povera, come sostenuto anche dai giansenisti.

Le origini politiche dell’anticlericalismo risalgono invece alla rivoluzione francese, quando per la prima volta venne costruito un ordinamento statale laico, divenuto nell’Ottocento un modello per quanti si trovarono a combattere l’alleanza fra il trono e l’altare e la coalizione militare rappresentata dalla Santa Alleanza.

In questo contesto l’anticlericalismo incontrò le istanze del laicismo e divenne strumento di lotta politica anche attraverso l’esperienza della Carboneria e della massoneria, soprattutto dopo la vicenda della Repubblica romana del 1848-49 e il rafforzamento dell’opposizione antipapale. Nel Regno di Sardegna, nell’agosto 1848, venne soppresso l’ordine dei Gesuiti e tutti i collegi vennero destinati ad usi militari, con una decisione ben presto imitata da altri Stati italiani

Posizioni anticlericali e antitemporaliste si ritrovano in scrittori come Giovanni Battista Niccolini, Francesco Domenico Guerrazzi e Giuseppe La Farina e nella dimensione filosofica e spirituale di Giuseppe Mazzini. Con le leggi Siccardi (1850, 1855) vennero poi aboliti i privilegi del clero nel Regno di Sardegna, tra cui il foro ecclesiastico, il diritto di asilo e la manomorta fino a che, nel 1855, si giunse su iniziativa di Cavour all’abolizione di tutti gli ordini religiosi privi di utilità sociale e al conferimento dei loro beni nella Cassa ecclesiastica. Le cosiddette leggi eversive degli anni 1866-1867 stabilirono infine incameramento nel Demanio dello Stato di tutti i beni appartenenti agli enti soppressi, fra cui le congregazioni religiose, e la soppressione di tutti gli enti secolari ritenuti superflui per la vita religiosa con eccezione dei seminari, delle cattedrali, delle parrocchie e dei canonicati.

Con la questione romana l’anticlericalismo divenne un orientamento condiviso da differenti correnti politiche, sia liberali e moderate, sia democratiche, incrociando anche istanze provenienti dalla massoneria. In particolare, la polemica venne assumendo caratteri di radicalità concentrandosi sul potere temporale dei papi, sul clero regolare (specie i Gesuiti, ricostituiti con la Restaurazione) e sul controllo della scuola da parte del clero, almeno fino alla promulgazione delle leggi volute dalla Destra storica. Si tratta di atteggiamenti ripresi e resi popolari anche da Giuseppe Garibaldi attraverso le sue invocazioni a “liberare l’Italia dalla piaga dei preti” e dalla curia vaticana considerata il “governo di Satana”. Si comprendono perciò anche le posizioni assunte dalla massoneria italiana, attraversi il Gran Maestro del Grande Oriente d’Italia, che nel 1886 poteva considerare il clericalismo come “destituito dal nerbo principale delle sue forze” e ormai finito “nell’agonia”.

L’anticlericalismo trovò poi significativo spazio nel movimento fascista delle origini e venne sostenuto da esponenti della cultura futurista tra cui Filippo Tommaso Marinetti che all’adunata nazionale dei fasci a Firenze del 9 ottobre 1919 auspicò lo “svaticanamento d’Italia”. Si tratta di posizioni sostanzialmente abbondante dal partito fascista in coincidenza con le trattative che portarono alla nascita dei Patti lateranensi (1929). Nel secondo dopoguerra l’anticlericalismo nella vita politica italiana venne espresso attraverso il Partito Comunista Italiano e il Partito Socialista e, soprattutto, attraverso il Partito radicale sorto nel 1955 con l’obiettivo principale di promuovere la laicità dello Stato italiano e una revisione dei Patti Lateranensi in accordo, dal 1973, con la Lega italiana per l’abrogazione del Concordato (LIAC). In questo quadro, e come parziale successo degli orientamenti anticlericali, viene posta anche la revisione dei Patti Lateranensi, avvenuta nel 1984, che ha portato ad abbondare la concezione del cattolicesimo come religione di Stato e ha reso facoltativo l’insegnamento della religione cattolica nelle scuole pubbliche.

Fonti e Bibl. essenziale

S. Pivato, Clericalismo e laicismo nella cultura popolare italiana, Milano 1990; F. Traniello, Clericalismo e laicismo nell’età contemporanea (1977), in Id., Città dell’uomo. Cattolici, partito e Stato nella storia d’Italia, Bologna 1990, 15-48; G. Miccoli, Leone XIII e la massoneria, in G.M. Cazzaniga – ed., Storia d’Italia. Annali 21. La Massoneria, Einaudi, Torino 2006, 193-243; A. Di Fant, Alcune considerazioni su polemica antiebraica e polemica anticlericale alla fine dell’Ottocento, in F. Ferrari – ed., Studi in onore di Giovanni Miccoli, Edizioni dell’Università di Trieste, Trieste 2004, 329-345; M. Casella, Anticlericali in Italia 1944-1947, il Mulino, Bologna 2009.


LEMMARIO




Antigesuitismo - vol. I


Autore: Sabina Pavone

L’antigesuitismo nacque contestualmente alla Compagnia di Gesù allorché il riconoscimento come ordine religioso da parte di Paolo III con la bolla Regimini militantis Ecclesiæ (1540) la rese oggetto di critiche proprio all’interno dell’establishment romano. La struttura peculiare della Compagnia – con l’abolizione della preghiera corale e di un abito distintivo – la fece apparire come un ordine “ermafrodito” (definizione di uno dei suoi più celebri detrattori, Etienne Pasquier): né secolare né religioso. Il quarto voto di obbedienza al papa circa missiones moltiplicò i timori di un’eccessiva autonomia rispetto alla gerarchia ecclesiastica così come i dubbi sull’ortodossia di Ignazio di Loyola – accusato di contiguità con l’alumbradismo – insospettirono una parte della curia romana. Al tempo stesso, il ruolo assunto rapidamente nella Chiesa della Controriforma e la conseguente identificazione con Roma rese la Compagnia uno dei bersagli preferiti della propaganda protestante. Diversi tipi di antigesuitismo si vennero così a sommare, alimentati da contesti diversi ma propensi a utilizzare un arsenale polemico composto dai medesimi stereotipi: il desiderio di conquista del mondo, l’avidità di potere politico ed economico, la capacità di circonvenzione dei più deboli, la moralità assai dubbia e rilassata. Si trattò dunque di un fenomeno di lunga durata, non solo europeo ma globalizzato, poiché coinvolse tutti quei paesi nei quali i gesuiti esercitarono la loro influenza come confessori, educatori, teologi e missionari.

In Italia le critiche alla Compagnia di Gesù vennero formalizzate nel 1564 dal vescovo Ascanio Cesarini in un libello dal titolo Novi advertimenti inviato al cardinal Saraceno. In quell’anno Pio IV aveva deliberato di affidare la gestione del nuovo Seminario romano proprio ai gesuiti e Cesarini, già personalmente in conflitto con i padri, attaccò la decisione pontificia che tollerava che il clero venisse formato da tedeschi e spagnoli, nient’altro cioè che da «eretici ed ebrei». Il carattere spiccatamente internazionale della Compagnia attirò dunque gli strali del vescovo e, forse per la prima volta, i gesuiti vennero definiti una «diabolica setta». Il pamphlet fece propri tutti quei temi declinati poi, insieme o separatamente, nei secoli successivi: la sete d’oro e dunque la scelta di favorire nell’accesso al noviziato i giovani di famiglie ricche, l’accusa di essere cristiani nuovi, il settarismo, la perversione sessuale, il desiderio di dominio del mondo, il disprezzo delle leggi comuni della Chiesa. Tali accuse si propagarono oltre i confini italiani e, su sollecitazione del cardinale Otto von Truchsess, Pio IV impegnò una commissione di cardinali per esaminarle: se i religiosi vennero discolpati, si suggerì però loro di scrivere un testo di chiarimento e fu così che prese forma, in quello stesso anno, l’Apologia Societatis Jesu contra episcopum Cæsarinum apud cardinales di Jerónimo Nadal (cf. Monumenta Historica Societatis Iesu, Nadal IV, 148-165), archetipo delle tante difese composte negli anni dai gesuiti per reazione ai molteplici attacchi subìti.

Sin dal Cinquecento, d’altronde, lo scontro interno alla Compagnia fra un partito italiano e un partito spagnolo alimentò quello che altrove ho definito un “antigesuitismo gesuita”, fomentato da alcuni gesuiti italiani che videro con sospetto l’ingresso di figure appartenenti al mondo dei conversos. Benedetto Palmio – ex provinciale di Milano, assistente d’Italia dal tempo di Borgia e, dunque, una delle figure di maggior prestigio all’interno della gerarchia gesuitica – fu autore di un testo rimasto manoscritto dal titolo Descrittioni di alcune cause, dalle quali sono procedute le disgrazie con molti mali, et inconvenienti che tuttavia ci affliggono nella Compagnia (ARSI, Instit. 106, edito recentemente da Robert Maryks). Egli, nell’attaccare la «banda degli spagnoli» capeggiata da Dionisio Vázquez, tratteggiò del confratello una descrizione fortemente razzista che dai caratteri somatici faceva discendere una serie di conseguenze comportamentali. Lo stesso Palmio, nella sua Autobiografia, nominò poi un libello antigesuita inviato a Pio IV nel quale, pur non citandolo espressamente, è facile rintracciare il riferimento al testo del vescovo Cesarini: di fatto un gesuita, e non degli ultimi, faceva proprie le critiche di un aperto nemico della Compagnia. I confini fra esterno e interno erano allora molto ambigui se una parte dell’arsenale polemico del nemico poteva, seppure in una logica di scontro interno tra fazioni, essere utilizzato da quei gesuiti come Palmio che vedevano con timore la strada intrapresa allora dal governo dell’ordine.

La crescita esponenziale del numero di collegi e il conseguente ruolo assunto dai gesuiti nel panorama scolastico italiano suscitò inoltre la reazione di quelle istituzioni, come l’Università di Padova, in cui una tradizione di studi secolare mal sopportava la fondazione di istituzioni pedagogiche alternative. Sin dall’estate del 1591 alcuni studenti si erano macchiati di vandalismo contro l’edificio del collegio gesuitico e graffiti antigesuitici erano apparsi in diversi punti della città. Cesare Cremonini si assunse il compito di intercettare un simile dissenso con l’Orazione … a favore delle università dello Studio di Padova contra li Rev. Padri Gesuiti (1591). Egli definì il collegio della Compagnia un «anti-studio» e accusò gli ignaziani di monopolio educativo «con l’intenzione di farsi in Padova i monarchi del sapere». A detta dello scienziato, la Repubblica di Venezia avrebbe dovuto sopprimere il collegio così come in passato aveva dichiarato illegali le istituzioni medievali rivali di Padova. Cremonini era un esponente di quell’aristotelismo eterodosso in contrasto palese con l’approccio alla scienza della Compagnia, i motivi dello scontro erano dunque molteplici e la presenza dell’Orazione in molte raccolte documentarie dell’epoca (tanto a stampa quanto manoscritte) dà la misura non solo della circolazione di tali idee ma anche di un clima culturale difficilmente irregimentabile secondo i criteri dell’ortodossia tridentina, specialmente in un contesto come quello veneziano.

La Repubblica di Venezia fu infatti lo stato che, in un’ottica di lungo periodo, funse da catalizzatore dell’antigesuitismo italiano. Il momento culminante dello scontro con i gesuiti fu quello dell’Interdetto (1606) allorché si radicalizzò lo scontro fra l’anticurialismo veneziano e le posizioni romane: la Compagnia di Gesù divenne il primo obiettivo polemico nella battaglia delle scritture che vide protagonisti Paolo Sarpi e, sul fronte opposto, figure come Antonio Possevino e Roberto Bellarmino. In occasione dell’Interdetto la posizione dei gesuiti non fu più intransigente di quella degli altri ordini religiosi, ma gravò su di lei il già incrinato rapporto con alcune istituzioni veneziane nonché «una leggenda della Compagnia destinata a durare» (cf. A. Prosperi, «L’altro coltello», 287). Sarpi fu il più acceso critico dei gesuiti perché ne colse la capacità di condizionamento politico e sociale, cosa che ai suoi occhi rendeva la Compagnia assai più pericolosa degli altri ordini religiosi legati a Roma. Ulteriore motivo di preoccupazione fu l’evidente legame degli ignaziani con la monarchia iberica, cosicché la triade Spagna-Chiesa di Roma-Compagnia di Gesù divenne per Sarpi un mostro a tre teste da combattere senza esclusione di colpi.

Legata all’ambiente sarpiano fu anche l’Istruzione ai prencipi della maniera con la quale si governano li Padri Gesuiti (1617) – attribuita in passato a Tommaso Campanella e probabilmente opera del confratello di Sarpi Fulgenzio Micanzio – nonché la prima edizione italiana dei Monita privata Societatis Iesu, pubblicati per la prima volta a Cracovia nel 1614 dall’ex gesuita polacco Hieronym Zahorowski. Riediti in Italia con il titolo di Aurea Monita e allegati poi a molte edizioni dell’Istruzione ai principi, i Monita secreta – questo il titolo con cui divennero più noti – si presentavano come le vere costituzioni della Compagnia di Gesù e divennero il testo antigesuita per eccellenza, archetipo di un vero e proprio genere letterario.

L’antigesuitismo politico sarpiano, propenso a sovrapporre la Compagnia alla Chiesa di Roma e deciso a denunziarne i tentativi di conquista del mondo, ebbe fra gli epigoni figure come quella dell’ex gesuita Giulio Clemente Scotti, autore di numerosi pamphlets fra i quali il De potestate pontificia in Societate Iesu (1646), indirizzato a Innocenzo X. Scotti vi denunciò come la Compagnia si fosse allontanata dallo spirito originario e fosse ormai soggiogata da un generale tirannico e onnipotente. Attribuita fra gli altri a Giulio Clemente Scotti fu anche la Monarchia solipsorum (1645), dedicata a Leone Allacci, nella quale dietro i vizi e la smania di potere dei solipsi si celavano evidentemente i vizi dei gesuiti. Non è secondario rimarcare, ancora una volta, come molti di questi testi nascessero in un contesto contiguo all’ordine: se è vero che in molti casi il risentimento costituiva una leva potente, è altrettanto vero che la condanna di certi atteggiamenti presenti nella Compagnia, in particolare riguardo alla propensione della gerarchia ignaziana nel favorire determinate carriere interne, alimentò uno stato endemico di disagio che si espresse nella scrittura di molti testi che a buon diritto possono essere fatti rientrare nella categoria di antigesuitismo.

Su un versante diverso vanno invece a collocarsi figure come Ferrante Pallavicino, Gregorio Leti e gli esponenti dell’Accademia degli Incogniti, guidata da Giovan Francesco Loredano, allievo a Padova di Cremonini. Qui, più che altrove, emerse la figura del gesuita moralmente condannabile, lascivo e seduttore. Pallavicino ne La pudicizia schernita (1639) attaccò la Compagnia di Gesù come esempio dell’immoralità del clero e l’opera venne immediatamente messa all’Indice (12 maggio 1639). Gli stessi temi vennero poi ripresi ne Il corriero svaligiato e ne La retorica delle puttane, il più feroce dei libelli antigesuitici.

Intorno alla metà del XVII secolo la polemica contro la Compagnia venne nuovamente alimentata in ambito curiale dal dibattito sui riti cinesi e malabarici, considerati espressione dell’eterodossia gesuitica nella conduzione delle missioni orientali. Le congregazioni romane del Sant’Uffizio e di Propaganda, schierandosi contro la Compagnia, contribuirono non poco a quella crisi dell’ordine che si concretizzò nelle espulsioni dalle monarchie borboniche tra gli anni Cinquanta e Sessanta del Settecento per poi sfociare nella soppressione del 1773. D’altronde, la querelle des rites, a partire dagli anni Trenta, uscì in maniera dirompente dalle aule delle congregazioni per divenire uno dei grimaldelli della stampa antigesuitica: le requisitorie del commissario inquisitoriale Luigi Maria Lucini, una volta date alle stampe, divennero una delle pietre miliari di quella propaganda contro la Compagnia che ebbe nei Mémoires historiques sur les missions des Indes orientales del cappuccino père Norbert (editi a Lucca nel 1744 tanto in francese quanto in italiano), un altro punto di riferimento. Lo scambio polemico con il giansenismo toscano – alimentato evidentemente dalla pubblicazione delle Lettres Provinciales di Blaise Pascal – e l’enorme massa di testi antigesuitici pubblicati nella seconda metà del Settecento impressero quindi all’antigesuitismo un’ulteriore evoluzione. Come ha scritto Franco Venturi esso si saldò alla più vasta battaglia anticurialista, divenendone in qualche modo il climax ideologico. Tra i titoli dalla fortuna editoriale più lunga si possono citare I lupi smascherati, attribuiti all’abate piemontese Luigi Capriata, o ancora Intorno alla distruzione dei gesuiti in Francia, traduzione del pamphlet edito da D’Alembert. Vennero inoltre date alle stampe delle vere e proprie collane come i Monumenti veneti intorno i padri gesuiti, curati dal teatino Tommaso Antonio Contin (che riprendevano la tradizione antigesuita sarpiana) o le Inquietudini de’ gesuiti (raccolta stampata a Napoli dalla Tipografia reale a partire dal 1764, nella quale apparvero anche traduzioni di libelli editi in altri paesi), o ancora la Raccolta di opuscoli curiosi e interessanti intorno gli affari presenti di Portogallo, la più estesa collana (sei tomi) di opuscoli in italiano, pubblicata a Lugano a partire dal 1760.

Restaurata nel 1814, la Compagnia di Gesù tentò di recuperare il suo ruolo all’interno della vita religiosa e politica italiana: l’esperienza russa – l’unico paese nel quale era sopravvissuta senza soluzione di continuità – ne aveva rafforzato l’identità conservatrice e le idee liberali trovarono i gesuiti sul fronte avverso, attenti a difendere le vecchie monarchie e decisi a opporsi a ogni spinta progressista che potesse metterne in discussione la legittimità. La Compagnia di Gesù venne espulsa da diversi stati italiani in seguito ai moti del Quarantotto, e chi si fece interprete di una profonda avversione nei confronti del suo spirito conservatore fu Vincenzo Gioberti.

Nei Prolegomeni del Primato (1845) accusò i gesuiti di settarismo e si scagliò contro il “gesuitismo” (categoria morale incompatibile con la modernità e lo spirito nazionale, opposta al vero cattolicesimo). Le idee abbozzate nei Prolegomeni vennero riprese dall’autore ne Il Gesuita moderno. Pubblicata a Losanna nel 1846-47 l’opera venne influenzata dal soggiorno a Parigi nel corso della polemica sulle congregazioni e rafforzata dalla pubblicazione dei corsi tenuti al Collège de France da Jules Michelet ed Edgard Quinet (Des Jésuites, Paris 1843). I cinque volumi (un ultimo di soli documenti) erano impostati come replica alle accuse contro i Prolegomeni del Primato dei padri Carlo Maria Curci e Francesco Pellico (fratello di Silvio). Gioberti ritornò qui sulla categoria del “gesuitismo”: un insieme di lassismo morale, misticismo e autoritarismo. Accusò inoltre di “austrogesuitismo” il padre Luigi Taparelli d’Azeglio (fratello di Massimo) il quale in un suo scritto (Della nazionalità, 1848) aveva sostenuto la necessità di separare la nazionalità dall’indipendenza politica. Nonostante il tono esacerbato del Gesuita moderno suscitasse le critiche di Antonio Rosmini, Cesare Balbo e Niccolò Tommaseo, lo spirito polemico ne favorì la circolazione: della seconda edizione del 1847 ne vennero vendute 12.000 copie. Le critiche spinsero inoltre l’autore alla pubblicazione di una Apologia del libro intitolato «Il gesuita moderno» con alcune considerazioni intorno al risorgimento italiano (Bruxelles e Livorno, 1848). I gesuiti – appena espulsi dagli stati sabaudi – gli apparivano «morti politicamente», ma Gioberti continuava ad averne timore poiché pensava che ne sopravvivessero «gli spiriti». Dopo un primo momento di incertezza il libro venne condannato irrevocabilmente da Pio IX e messo all’Indice il 30 maggio 1849. Nel 1852 il Sant’Uffizio condannò quindi tutte le opere di Gioberti ma ciò non rappresentò la fine dell’antigesuitismo che anzi, vide ancora per tutto l’Ottocento e nel secolo successivo momenti di recrudescenza.

Fonti e Bibl. essenziale

M. Catto, La Compagnia divisa. Il dissenso nell’ordine gesuitico, Morcelliana, Brescia 2009; Ead., The Jesuit Memoirists: How the Company of Jesus contributed to anti-Jesuitism, in J. Martínez Millán – H. Pizarro Llorente – E. Jimenez Pablo (coord.), Los jesuitas. Religión, política y educación (siglos XVI-XVIII), Comillas, Madrid, 2012, t. II, 927-942; P.-A. Fabre – C. Maire (sous la dir. de), Les antijésuites, Presses Universitaires de Rennes, Rennes 2011; T. Egido, Formación y funciones del estereotipo antijesuita, in J. Martínez Millán – H. Pizarro Llorente – E. Jimenez Pablo (coord.), Los jesuitas. Religión, política y educación (siglos XVI-XVIII), Comillas, Madrid, 2012, t. II, 715-726; V. Frajese, Sarpi scettico. Stato e Chiesa a Venezia tra Cinque e Seicento, Il Mulino, Bologna 1994; R. Maryks, The Jesuit Order as a ‘Synagogue of Jews’: Discrimination against Jesuits of Jewish Ancestry in the Early Society of Jesus, in Archivum Historicum Societatis Iesu, 78 (jan.-june 2009), 339-416; S. Pavone, Le astuzie dei gesuiti. Le false Istruzioni segrete della Compagnia di Gesù e la polemica antigesuita nei secoli XVII e XVIII. Salerno Editrice, Roma 2000; S. Pavone, Antigesuitismo politico e antigesuitismo gesuita, in Rivista di storia e letteratura religiosa, 2004, 255-282 (ripubblicato in francese in Les Antijésuites, cit., 139-164); A. Prosperi, ‘L’altro coltello’. Libelli de lite di parte romana, in M. Zanardi (a cura di), I gesuiti e Venezia. Momenti e problemi di storia veneziana della Compagna di Gesù. Atti del convegno di studi, Pontificia Università Gregoriana, Padova-Roma 1994, 263-287; F. Venturi, Settecento Riformatore, vol. II: La Chiesa e la Repubblica dentro i loro limiti (1758-1774), Einaudi, Torino 1976; C.E. O’ Neill, Antijesuitismo, in C.E. O’ Neill – J.M. Dominguez (a cura di), Diccionario histórico del al Compañìa de Jésus, I, Institutum Historicum S.I. – Universidad Pontificia Comillas, Roma-Madrid 2001, I, 178-189; S. Pavone, El antijesuitismo, la antigua y la nueva Compañía de Jesús. Nuevas perspectivas de investigación, in S. Monreal, S. Pavone, G. Zermeño (coord.), Antijesuitismo y Filiojesuitismo: dos identidades ante la restauración, Ciudad del Mexico 2014; C. Vogel, “Des stéréotypes religieux à la pensée conspirationniste – l’exemple des jésuite”, en A.D. Barker (ed.), The Power and Persistence of Stereotyping / O Poder e a Persistência dos Estereótipos, Aveiro 2004, 51-69.


LEMMARIO




Apologetica - vol. I


Autore: Cesare Silva

Gli inizi dell’A. si fanno comunemente risalire all’opera del domenicano spagnolo San Raimondo di Penafort (1175-1275), più noto come canonista, che scrive per difendere la fede cattolica dalle obiezioni della religione ebraica e mussulmana.

Il trattato più celebre e diffuso si deve però a San Tommaso d’Aquino con il De veritate fidei catholicae contra gentiles (1261) che ispira un gran numero di opere similari che hanno una certa diffusione negli ambienti universitari ed ecclesiali italiani fino a tutto il sec. XVI. Già con la produzione del domenicano Giovanni De Torchemada (1388-1468) si assiste ad un rinnovamento dell’A. che ha tra i suoi principali artefici in Melchior Cano (1590-1560) e soprattutto nel gesuita Roberto Bellarmino (1542-1621), le cui opere principali hanno molte edizioni in Italia fino alla fine del sec. XIX. Servendosi delle categorie della teologia controversistica l’A. è concentrata nel ribattere alle dottrine religiose e politiche del Protestantesimo, difendendo il valore della Tradizione e della Ecclesiologia cattolica.

Se ha un’influenza limitata in Italia l’opera apologetica di San Francesco di Sales (1567-1622) ben altro rilievo possiede Francois Fénelon (1651-1704), il cui carattere anti-protestante però è inteso marginalmente in Italia, e soprattutto Jacques Bénigne Bossuet (1627-1704) il cui Discours sur l’histoire universelle ha molte edizioni fino a tutto l’ottocento (in traduzione italiana, ma anche nell’originale francese). Ricordiamo anche un altro francese, Blaise Pascal (1623-1662) con i suoi Pensées sur la religion, usciti la prima volta nel 1669.

Molto comune per tutto il sec. XVIII è l’opera dell’Oratoriano Bernard Lami (1645-1715) in lingua latina che non può mancare tra gli autori della cultura ecclesiastica media; diversi apologisti italiani e francesi (tradotti o mantenuti in versione latina) scrivono trattati di A. lasciandosi coinvolgere nelle diatribe tra Gesuiti e Giansenisti che perdurano ancora fino agli inizi del secolo successivo.

Particolare diffusione e apprezzamento raccoglie un’operetta del celebre predicatore gesuita Paolo Segneri (1624-1694) intitolata L’incredulo senza scuse (Firenze, 1690) che ha un tono marcatamente popolare come quella di Sant’Alfonso Maria de’Liguori (1696-1787) Verità della fede fatta evidente per li contrasegni della sua credibilità (Napoli 1762). Tra gli apologisti italiani che si segnalano per la confutazione degli errori filosofici dell’età dell’Illuminismo ricordiamo il domenicano Vincenzo Moniglia (1686-1767) contro i materialisti, il gesuita Fazzoni (1720-1787) contro Spinoza, il cappuccino Emanuele da Domodossola (1739-1802) contro Voltaire e Mazzarelli (1749-1813) contro Rousseau. Ricordiamo pure le edizioni italiane delle opere di Jacques-André Emery (1782-1811) a confutazione degli errori filosofici di Leibniz, Bacone e Cartesio. Di tono e brillante è l’opera del l’A. del celestino Appiano Buonafede (1716-1764), che conosce un grande successo.

Nell’età della Restaurazione hanno molta diffusione gli scritti e il pensiero di alcuni autori francesi come Francois-Renè de Chateaubriand (1768-1848) con le molte edizioni del Génie du christianisme (1805) e di Joseph de Maistre (1753-1821) con il Le Pape (1819) diffuse in lingua francese ma anche in versione italiana. Non minore impatto sul pubblico italiano e ripresi da molti autori minori sono le opere di Jacques Maurice de Bonald (1754-1840), Felicitè-Robert de Lammenais (1783-1854) e soprattutto la vasta predicazione di Henri-Dominique Lacordaire (1802-1861). L’italiano Alessandro Maria Tassoni (1749-1818), con La religione dimostrata e diffusa uscita a Roma per la prima volta nel 1805, supera i trattati settecenteschi sostituendone la pedanteria erudita con una efficace agilità di contenuti e toni tanto da renderne le moltissime edizioni tra i libri immancabili in ogni biblioteca ecclesiastica, compresa quella del buon parroco anche di campagna.

Molto diffuso nell’Ottocento è poi il Dizionario Apostolico per uso de’parrochi e predicatori e di tutti i sacerdoti, edito a Verona in 18 volumi tra il 1833 e il 1836 (ebbe numerose altre edizioni) riprendendo l’opera del francese Giacinto di Montagon (Parigi 1830-31) che affronta i principali temi di discussione in tono chiaro e puntuale secondo l’A. classica.

L’Abate Mauro Cappellari, futuro papa Gregorio XVI, ha fatto uscire, alcuni decenni prima, a Roma nel 1799 un’operetta famosa e paradigmatica intitolata Il trionfo della S. Sede e della Chiesa che trova un fecondo e duraturo continuatore nel P. Colangelo (1769-1836) soprattutto con Apologia della religione cristiana (uscita a Napoli nel 1831 e poi in numerose edizioni), segnando un genere letterario diffusissimo nell’ottocento italiano.

Negli stessi anni si diffondono le opere di Vincenzo Bolgeni (1733-1811), di stampo antigiansenista e difensore delle prerogative della Santa Sede e dell’Infallibilità pontificia che inaugura la serie di pubblicisti Gesuiti che per tutto l’Ottocento si distinguono in una ricca produzione che vede tra i più apprezzati il teologo P. Giovanni Perrone (1794-1876).

Segnaliamo infine, tra le opere che valicano nell’ottocento il pubblico usuale dell’A. le Osservazioni della Morale Cattolica di Alessandro Manzoni (1784-1873) edita a Milano nel 1810 come risposta alle tesi del protestante Sismondi.

Fonti e Bibl. Essenziale

L. Maisonneuve, Apologetique, in Dictionnaire de Théologie catholique, I, Paris 1909, coll. 1511-1580; G. Monti, Apologetica, in Enciclopedia Cattolica, I, Città del Vaticano 1948, coll. 1650-1659; G. Monti, Apologetica, Letteratura, in Enciclopedia Cattolica, I, Città del Vaticano 1948, coll. 1659-1669; G. La Piana, Apologetica, in Enciclopedia Italiana, III, Roma 1929, 691-697.


LEMMARIO




Archeologia - vol. I


 

Autore: Giovanni Liccardo1

L’archeologia cristiana ha logiche comuni a tutte le altre archeologie; nello specifico, offre fonti per la ricostruzione integrale e obiettiva della vita cristiana nell’antichità e nell’alto medioevo e si impegna a determinare come l’idea religiosa sia stata compresa dall’artista e quali forme gli abbia suggerito. Tralasciando la problematica della definizione dei confini cronologici precisi, il suo campo di riflessione è rappresentato dal graduale passaggio dagli orizzonti del mondo classico e pagano a quelli dell’affermazione del cristianesimo; per questo in vari studi si preferisce definire la materia come “archeologia tardoantica” o “archeologia postclassica” e talvolta “archeologia altomedioevale”. Per l’Italia si indica in Roma il suo centro più importante, per chiese e catacombe, epigrafi e pitture, collezioni e raccolte; presentano monumenti di grande interesse anche Aquileia, Cagliari, Milano, Napoli, Ravenna e Siracusa.

Riguardo alle fonti, le dirette o principali sono gli edifici di culto, i monumenti funerari, gli oggetti di uso domestico e quelli di uso liturgico. Di essi si studia soprattutto la topografia, l’architettura, l’iconografia, l’epigrafia. Dalle fonti indirette o letterarie, invece, l’archeologo ricava tutte le informazioni, indispensabili o integrative, che danno vita al bagaglio di acquisizioni storiche basilari all’indagine scientifica del monumento. Di norma vengono divise in tre classi: fonti che documentano l’ambiente nel quale si pongono i monumenti; fonti desunte dal culto dei martiri o destinate al rituale liturgico; fonti medioevali a carattere archivistico, espositivo e antologico.

Oltre agli autori cristiani, particolarmente importanti si rivelano gli Atti e le Passiones dei martiri; anche se queste ultime confondono le leggende con la storia, contengono sempre qualche indizio attendibile e utile all’archeologo: il nome del martire, la data approssimativa degli avvenimenti, talvolta il nome del prefetto o del giudice o del governatore. Particolarmente accolgono notizie preziose sul luogo del sepolcro (ubicazione, distanza dalla strada, composizione ecc.), poiché all’epoca in cui sono state composte molti dei monumenti che descrivono erano ancora visitabili e frequentati.2

Lo stesso interesse meritano i calendari e vari documenti affini che confluirono nella vasta compilazione del Martirologio geronimiano, spesso forniti di utili indicazioni topografiche. Assai peculiare è il calendario di Napoli, inciso sopra due lastre di marmo verso la metà dell’VIII secolo, ma risalente nel suo nucleo primitivo ad un’età molto più antica; è conservato oggi in alcuni locali attigui al Duomo. Anche gli itineraria e le biografie dei papi e dei vescovi sono fonti notevoli di notizie sulle chiese e sui cimiteri delle varie città. La più famosa compilazione del genere è il Liber Pontificalis di Roma, che raccoglie le biografie dei pontefici da S. Pietro a Martino V (1431). Tra le altre raccolte sono il Chronicon (o Gesta) Episcoporum di Napoli e il Liber Pontificalis ecclesiae di Ravenna.

I diari di viaggio a Roma, infine, apparvero verso il VI secolo; tra i più importanti sono l’Itinerario del prete Giovanni alla ricerca dell’olio santo dei martiri, su incarico della regina Teodolinda, durante il pontificato di Gregorio Magno (590-604); la Notitia ecclesiarium urbis Romae, composta tra il 625 e il 629, che riporta informazioni sulle chiese suburbane dei martiri classificate secondo le vie sulle quali si affacciavano; l’Itinerario di Malmesbury, scritto nel periodo compreso tra il 648 e il 682; l’Itinerario di Einsiedeln, dal monastero svizzero dove venne trovato, il cui autore dimostra di aver personalmente visitato Roma al tempo di Carlo Magno, di avere studiato i monumenti e di aver partecipato anche a cerimonie pagane, che sollecitamente ricorda.

Metodo e compiti. L’archeologia cristiana al tempo delle prime esplorazioni nel XVI secolo aveva la funzione celebrativa di servire alla storia della Chiesa e costituiva un ausilio apologetico della teologia storica; oggi non può prescindere dai risultati conseguiti nell’ambito dell’archeologia classica, della storia del primo cristianesimo, delle scienze bibliche, della liturgia, dell’agiografia e della patristica. A sua volta offre allo studio di queste materie i risultati delle sue indagini.3

Uno dei suoi compiti principali è quello di preparare il materiale scientifico con un metodo che prevede la ricerca e la catalogazione dei monumenti, ciascuno corredato di tutti gli elementi topografici, analitici e bibliografici, capaci di formare una “scheda” del monumento stesso. L’archeologo, in base ai prodotti acquisiti, vaglia l’autenticità del manufatto, accerta la sua funzione, stabilisce l’epoca cui appartiene, in modo che possa determinare la vera origine del monumento, vale a dire ricercare i fattori psicologici (concetti religiosi), sociali, fisici e ambientali che agirono in germe nell’attività creatrice dell’artista. La diligenza e la cura di questa procedura permette la ricostruzione sintetica della vita cristiana in tutte le sue manifestazioni, con la ricerca del vero nesso causale delle espressioni religiose, appunto con il sostegno dei monumenti e dei resti storici in tutto il loro insieme. Ovviamente, l’indagine archeologica non ha termine, come per ogni scienza, e le ricerche anche limitate a un solo “argomento” appaiono continuamente integrate dalle nuove; si arricchisce il materiale documentario, si rafforza la capacità di comprensione attraverso nuovi studi o ultime tecniche d’indagine. Tenuto conto della molteplice tipologia dei resti archeologici cristiani, solitamente si distinguono tre insiemi di monumenti:

  1. Gruppo architettonico, che comprende i monumenti del culto cristiano (dalle prime domus ecclesiae alle basiliche più tarde) e i complessi funerari (cimiteri subdiali, catacombe e tutte le varie forme di sepoltura);
  2. Gruppo iconografico, che considera le raffigurazioni pittoriche (affreschi e mosaici), le sculture e le arti minori (vetri dorati, lucerne, medaglie, pietre preziose, anelli, ecc.);
  3. Gruppo epigrafico, che include tutte le iscrizioni incise o dipinte su qualunque materia (ad esclusione della pergamena e del papiro) e in qualsiasi luogo si trovino, nei cimiteri, nelle basiliche, nei battisteri, ecc.

Topografia cimiteriale. I cristiani preferirono per varie ragioni l’inumazione all’incinerazione; i cimiteri furono in origine delle tombe di famiglia, pro­tette dal diritto privato romano, che dichiarava la tomba un locus sacer, un locus religiosus, e come tale protetto. All’inizio la sepoltura fu eseguita da privati, o dai servi, nelle aree usate dai pagani, come avvenne nel caso di S. Pietro e S. Paolo; nel IV e V secolo le aree cimiteriali si estesero notevolmente. Molti cimiteri si svilupparono particolarmente intorno alle tombe dei martiri sostanzialmente secondo una duplice forma: cimiteri sopra terra (subdiali) e cimiteri ipogei, chiamati catacombe. Le aree subdiali erano contenute in zone circoscritte, chiuse con muretti di recinzione e talvolta sorvegliate da un custode. Qui l’aspetto delle tombe era corrispondente alle sepolture pagane, con tombe singole e familiari: fosse nel terreno (formae), tombe “a cappuccina” o “ad enchytrismòs” (con pezzi di anfore rotte), memoriae o cellae. In Italia un esempio di grande interesse è a Roma, presso la necropoli vaticana, scoperta nelle esplorazioni degli anni ’50 del Novecento; di notevole importanza sono anche le aree di Iulia Concordia Sagittaria, presso l’odierna città del Friuli, di Ravenna, nella zona di Classe, e di Milano, vicino alla basilica di S. Ambrogio.

La seconda forma di cimiteri fu quella delle catacombe; a Roma sono i complessi più antichi e famosi, ma anche in altre città, come a Napoli e a Siracusa, le catacombe presentano caratteristiche di grande rilevanza. Il modello comune di sepoltura nei cimiteri sotterranei consisteva in una cavità scavata (loculo) nella parete di un ambulacro, parallela alla galleria; vi erano poi i cubicula (camere funerarie), riservati di solito a famiglie o ad associazioni. Per quanto riguarda la toponomastica, le catacombe presentano una varietà di nomi piuttosto articolata; alcuni cimiteri esibiscono denominazioni di persone (Bassilla, Massimo, Trasone, Priscilla, Pretestato, ecc.), per altre il nome deriva dalla posizione topografica legata alla strada o aggiunta ad altre indicazioni (ad duas lauros, ad septem palumbas, ad clivium cucumeris ecc.). Ma il gruppo più nutrito di cimiteri è conosciuto con nomi di santi: a Roma, Panfilo, Agnese, Ippolito, Tecla, ecc.; a Napoli, Gennaro, Gaudioso, Severo ecc.; a Siracusa, Lucia, Giovanni ecc.; a Cagliari, Bonaria e Saturno.4

Epigrafia. Definita metodologicamente da Giovanni Battista De Rossi, l’epigrafia considera le antiche iscrizioni specificamente cristiane (scritte su ogni tipo di materiale, tranne i manoscritti e le monete), ossia quelle che offrono un segno del loro cristianesimo, oppure si trovano in un luogo (chiese, battisteri, cimiteri, ecc.) dove non possono esserci epigrafi pagane. I segni di cristianesimo sono generalmente o la professione di qualche dogma cristiano o l’uso di simboli e segni particolari (pesce, colomba, ancora, croce, monogramma ecc.) o di terminologia sicuramente cristiana (depositio, specifici nomi propri, l’acclamazione pax, riferimenti a usi e costumi cristiani ecc.).

Le iscrizioni rappresentano le testimonianze più spontanee per la conoscenza delle antiche comunità cristiane, le quali pure in maniera vaga, attraverso la memoria fune­raria, e non solo, hanno lasciato traccia delle loro idee, della loro mentalità, della loro cultura, dei loro atteggiamenti di fronte ai grandi problemi esistenziali e a quelli del vi­vere quotidiano. Tra i vari tipi sono quelle ufficiali, d’appara­to, le dedicatorie, le votive, le didascaliche, però la stragrande percentuale dei testi è fune­raria, avendo origine dai cimiteri subdiali e dalle catacombe. Si tratta di un insieme di enorme interesse, il cui studio conduce all’acquisizione di una quantità di dati preziosi: oltre a quelli specificamente epigrafici, anche storici, linguistici e filologici, agiografici, liturgici e cultuali.5

Tra le iscrizioni più caratteristiche sono quelle legate al pontificato di Damaso (366-384), mentre assai comuni sono quelle che si riferiscono al culto dei martiri. Oltre al frequente ricordo delle feste dei santi, nelle iscrizioni i dedicanti si rivolgono ai beati per raccomandarsi alla loro intercessione o manifestano il desiderio di essere seppelliti accanto alle loro tombe. Le varie formule epigrafiche esprimono la serena speranza che i santi renderanno testimonianza a favore di chi è vissuto bene; manifestano la certezza che colui che ha onorato i martiri in questo mondo li troverà accanto a sé come avvocati nell’altro. Infine, i graffiti furono generalmente o sepolcrali (incisi al momento della chiusura della tomba, sulla calce fresca) o dei pellegrini (scritti sull’intonaco delle pareti, solitamente presso le tombe dei martiri).

Fonti e Bibl. essenziale

G. Bovini, Gli studi di archeologia cristiana dalle origini alla meta del secolo XIX, Patron, Bologna 1968; G. Cantino Wataghin, Problemi di archeologia cristiana: lezioni di archeologia cristiana (con appendice raccolta da C. Caprotti), G. Giappichelli, Torino 1970; C. Carletti, Epigrafia dei cristiani in Occidente dal III al VI secolo. Ideologia e prassi [Inscriptiones Christianae Italiae (= ICI). Subsidia VI], Bari 2008; L. Cervellin, L’arte cristiana delle origini. Introduzione all’archeologia cristiana, SEI, Torino 1998; A. Chavarria Arnau, Archeologia delle chiese: dalle origini all’anno mille, Carocci, Roma 2009; E. Conde Guerri, Los “fossores” de Roma paleocristiana. Estudio iconografico, epigrafico y social (Studi di antichità cristiana 33), Città del Vaticano 1979; F.D. Deichmann, Archeologia cristiana, L’Erma di Bretschneider, Roma 2002; A. Felle, L’uso dei testi biblici nella comunicazione epigrafica in età tardoantica, in La comunicazione nella storia antica: fantasie e realtà. III Incontro Internazionale di Storia Antica (Genova, 23-24 novembre 2006) (Colloqui AIEGL – Borghesi 2006 = Epigrafia e Antichità, 26), Bologna 2008, 209-220, tavv. VIII-XIII; V. Fiocchi Nicolai – J. Guyon (a cura di), Origine delle catacombe romane. Atti della giornata tematica dei Seminari di Archeologia Cristiana (Roma-21 marzo 2005) (Sussidi allo studio delle antichità cristiane 18), Città del Vaticano 2006; S. Gelichi, Introduzione all’archeologia medievale. Storia e ricerca in Italia, Carrocci, Roma 1998; A.J. Iniguez Herrero, Archeologia cristiana, Edizioni San Paolo, Cinisello Balsamo 2003; G. Liccardo, Introduzione allo studio dell’archeologia cristiana. Storia, metodo, tecnica, Edizioni San Paolo, Cinisello Balsamo (MI), 2004; S. Marchesini, Seriazione ed epigrafia: l’impiego di BASP (The Bonn Archaeological software package) nello studio di iscrizioni, «Archeologia e Calcolatori» 15 (2004), 257-266; A. Petrucci, s.v. Graffito, in EAM, VII, 1996, 64-66 (con bibliografia ulteriore); P. Testini, Archeologia cristiana, EdiPuglia, Bari 19802a.

Immagini:

1) Aquileia, Museo Paleocristiano Nazionale: resti della basilica cristiana; 2) Roma, Catacombe dei SS. Marcellino e Pietro, volta del cubicolo del Buon Pastore (IV secolo); 3) Napoli, Catacombe di San Gennaro, ambulacro del piano superiore; 4) Ravenna, Basilica di Sant’Apollinare in Classe, sarcofago della Traditio Legis (VI secolo); 5) Siracusa, Catacomba di S. Giovanni, iscrizione di Euschia (IV secolo).

Sitografia:

http://www.aiac.org/ (sito dell’Associazione Internazionale di Archeologia Classica); http://www.unioneinternazionale.it/ (sito dell’Unione Internazionale degli Istituti di Archeologia, Storia e Storia dell’Arte in Roma); http://irfrome.org/language/it/dove-antichita-e-moderno-si-incontrano/ (sito dell’Institutum Romanum Finlandiae); http://www.icomos.org/fr/ (sito dell’ICOMOS, International Council on Monuments and Sites); http://www.edr-edr.it/Italiano/index_it.php (sito dell’Epigraphic Database Roma, EDR, parte costitutiva della Federazione internazionale di banche dati epigrafiche, denominata Electronic Archive of Greek and Latin Epigraphy, EAGLE); http://www.archeologiamedievale.it/ (sito per studiosi e appassionati di archeologia tardoantica e medievale).


LEMMARIO




Architettura - vol. I


 

Autore: Giovanni Liccardo1

Presto anche per i cristiani si rese inevitabile la costruzione di un edificio destinato alle manifestazioni del rituale liturgico. Per quanto riguarda l’età più antica, le fonti offrono elementi generici e contraddittori; nei vangeli di Marco (14, 15) e di Luca (22, 12) si fa allusione ad un “cenacolo” dove si riunirono inizialmente gli apostoli (Atti 1, 13-14), mentre Paolo accenna alle stanze della casa di Aquila e Prisca (Rm 16, 5 e 1 Cor 16, 19). Queste ecclesiae domesticae sono segnalate anche da Giustino alla metà del II secolo (1 Apologia, 65-67); Minucio Felice impiega il termine sacraria per indicare i luoghi dove avvenivano le cerimonie (Ottavio, 9, 1 e 10, 2). I cenni dei testi si riferiscono certamente a locali privati, più o meno predisposti; questi ambienti servivano comunità di piccole dimensioni, ma dal III secolo con le esigenze di un’organizzazione sempre più articolata, si stabilì l’impiego costante di alcuni edifici, le domus ecclesiae (uno degli esempi superstiti è a Dura Europos, in Siria). In questo periodo prevale una diversità terminologica: ecclesia, basilica, aula, aula regia; la discriminante non è sempre chiara e alcuni autori distinguono ecclesia e basilica; Gregorio di Tours, ad esempio, nel VI secolo chiama basilica l’edificio di culto ricavato nel cimitero, ecclesia la chiesa del vescovo in città. All’indomani del provvedimento costantiniano si avvia, invece, la grande fioritura degli edifici di culto. Nell’ambito dell’architettura ecclesiastica sono da ascrivere anche i cosiddetti centri di formazione del clero (collegi ecclesia­stici, seminari, facoltà teologiche, ecc) e i luoghi di ritiro (come le abbazie, i monasteri, conventi).

Evoluzione e primo sviluppo edificativi. La basilica è certamente l’edificio esemplare della religione cristiana, determinata dalle necessità liturgiche e dall’esigenza di un ambiente in cui tutti i fedeli potessero riunirsi e partecipare ai riti. Sull’origine della basilica sono state avanzate diverse teorie, delle quali oggi si accetta quella che ne riconosce l’indiscussa novità nell’elaborazione profonda di modelli architettonici preesistenti, innanzitutto di quelli relativi alle strutture imperiali romane (palazzi, ville, terme, basiliche forensi). La prima forma di basilica a semplice sala rettangolare allungata, con struttura muraria continua e volta a concrezione, si accrebbe successivamente di colonnati paralleli all’interno e di absidi nelle parti terminali.2

Tra le prime basiliche di Roma fu quella sorta sulla tomba di S. Pietro, a cinque navate, con transetto e ampio atrio (ricostruita nel Rinascimento) e S. Paolo fuori le Mura (rimaneggiata dopo l’incendio del 1823). Al IV secolo risalgono anche le basiliche di S. Giovanni in Laterano, S. Lorenzo, S. Agnese sulla Via Nomentana e altre, tutte trasformate o ricostruite nel corso dei secoli. Quelle che meglio preservano i primitivi caratteri sono le chiese di S. Maria Maggiore e di S. Sabina, entrambe costruite verso la metà del V secolo. Costantino fece costruire basiliche anche a Capua e a Napoli, mentre a Cimitile (Nola) è lo straordinario complesso basilicale sorto intorno alla tomba di S. Felice per l’opera di Paolino di Nola. Anche Ravenna fu un centro di primaria importanza; tra le basiliche più importanti sono S. Apollinare Nuovo, costruita da Teodorico, ma oggi molto rimaneggiata, e S. Apollinare in Classe, consacrata nel 549. Seguirono in modo sostanziale i modelli costruttivi di Ravenna le basiliche di S. Maria a Pomposa e di S. Maria delle Grazie a Grado, tutte edificate tra il VI-VII secolo. Viceversa, ai primi decenni del IV secolo risalgono le aule teodoriane di Aquileia e forse anche la basilica di S. Salvatore a Spoleto, che della costruzione primitiva conserva solo la parte absidale con alcune colonne. Per Milano, infine, si registrano la basilica di S. Maria (eretta nella prima metà del IV secolo), e di poco successiva la grande costruzione a cinque navate dedicata al Salvatore e detta poi di S. Tecla.

Accanto alle basiliche a sviluppo longitudinale non mancarono edifici a pianta centrale, adibiti a battistero, a mausoleo, a martyrium, con struttura interna ripresa dallo schema di architetture imperiali o orientali (battistero napoletano di S. Giovanni in Fonte), molte volte con nicchie e ambulacro a colonne (mausoleo di S. Costanza a Roma, chiesa di S. Lorenzo a Milano, basiliche rotonde di S. Stefano a Roma e di S. Angelo a Perugina); questi edifici, tra l’altro, pur facendo riferimento a temi orientali, li negano utilizzando materiali possenti come le strutture murarie, a differenza dell’oriente che legava gli ambienti attraverso effetti cromatici e creava spesso un’architettura illusoria con la stesura di materiali facilitanti la fluidità di un ambiente dentro l’altro.3

Dal romanico al gotico. A cavallo dei secoli X-XI l’immobilismo circoscritto altomedievale esaurì il suo ciclo: un impulso creativo di uguale intensità e di analogo carattere sorse e si affermò ovunque in Europa dalla Normandia alla Sicilia, determi­nando un’indubbia rinascita artistica. L’architettura romanica è arte di chiese, anche se le poche testimonianze degli edifici civili di questi due secoli non dimostrano ancora una coerente qualità strut­turale. Nelle campagne e nei borghi gli ordini monastici rinnovano e costrui­scono ex novo abbazie attraverso elargizioni di re e di feudatari; nelle città sempre più vive e organizzate, all’attività edilizia del ve­scovo si affianca in gara quella della comunità, né mancano donativi di re e di conti alle erigende chiese cittadine. Nell’arte romanica la pietra è il mezzo vivo con cui si edifica e il peso è la componente che più carat­terizza l’edificio religioso; in nessun tempo dell’arte cristiana, infatti, l’uo­mo ha proiettato tanto tangibilmente la sua realtà fisica nella chiesa, sotto­ponendo la materia-peso, come l’anima fa per il corpo, ad una disciplina che la controlla perché abbia valore entro i suoi limiti e il suo posto nell’ordine voluto da Dio. In nessun’altra attività di questo tempo si può trovare un prin­cipio coordinatore della materia, sia es­sa umana o concettuale o legislativa o letteraria, così efficace, coerente e com­piuta, pur nella sua varietà tipologica, quanto quello che presiede l’arte dell’edificare. La chiesa è un raggiungimento e una necessità al di sopra di ogni differenza di condi­zione. Essa rappresenta la rude forza del popolo, la saggezza dell’abate, la maestà del vescovo e del conte fedelmente unite. L’equilibrio fra gli uo­mini è raggiunto ora e qui: luogo d’incontro nella preghiera, severo tribunale delle anime dove siede in eterno Cristo giudice, rifugio e fortezza con­tro ogni pericolo esterno che il Mali­gno tenacemente materializza ai suoi fini.

La più importante scuola romanica in Italia fu quella lombarda: oltre al prototipo milanese di S. Ambrogio, si ricordano le chiese pavesi di S. Michele e S. Pietro in Ciel d’Oro, quelle comasche di S. Abbondio e S. Fedele. A cavallo dei secoli XII-XIII le chiese cistercensi (Chiaravalle Milanese, Cerreto Lodigiano) e i broletti comunali (Milano, Pavia, Como, Brescia) pongono invece le premesse dell’architettura gotica lombarda. Altri regioni notevoli impianti sono rappresentati dal Duomo di Parma e dal Duomo di Modena, dagli edifici che compongono la piazza dei Miracoli a Pisa (la cattedrale, il campanile, il battistero e il camposanto), la basilica di S. Miniato al Monte e il battistero di S. Giovanni a Firenze, la Basilica di S. Marco a Venezia. Elementi distintivi ebbe anche il romanico pugliese, che si manifestò con la traduzione di un linguaggio architettonico composto da diversi elementi culturali provenienti per lo più dall’Oriente adattati al gusto occidentale, e si diffonde l’uso di includere le cupole all’interno di tiburi piramidali, rivestiti all’esterno da elementi strutturali messi di taglio. Le cupole sono inserite sull’asse principale dell’edificio di culto ad una o tre navate, dove quelle laterali sono spesso coperte da volte a mezza botte che hanno la funzione di contraffortare il peso delle cupole stesse, come mostrano la chiesa di Santa Maria di Siponto, la chiesa di Santa Maria a Mare di San Nicola alle Tremiti, la cattedrale di Otranto, quella di Bari, quella di Troia e la straordinaria cattedrale di Trani: tutti edifici accomunati da uno slancio ascetico e spirituale che si riflette nella essenzialità delle forme e nella assenza di orpelli decorativi.4

L’architettura gotica, partendo dalle premesse definite nell’età pre­cedente, arrivò alla formulazione coe­rente di uno stile unitario con vastissi­mo raggio d’azione nel tempo e nello spazio. La cattedrale gotica è un mon­do costruito, scolpito, dipinto, dove il divino e l’umano si fondono, dove le tre arti divengono ben presto inscin­dibilmente unite e valori plastici, pitto­rici, linearistici concorrono a rendere lo spazio sempre più indefinito offrendo al fedele non un ambiente di pura con­templazione, ma piuttosto di stimolo a perenne ascesi nel dinamico fremito verso l’alto, nella tensione che sublima la materia. In Italia le costruzioni gotiche mantengono l’equilibrio tra altezza e larghezza, la sobrietà e l’essenzialità nelle decorazioni. Accanto alle cattedrali, i cui cantieri di costruzione si mantengono spesso per lunghi periodi nel cuore della città, vanno considerate anche le architetture monastiche. Mentre l’ordine dei Cister­censi elabora ancora nelle campagne una sintassi architettonica semplificata al massimo, i nuovi ordini religiosi france­scani e domenicani partecipano alla rinnovata vita cittadina. Essi edificano le loro chiese a monte e a valle dei cen­tri urbani, dove più fervida era l’opero­sità artigiana, quasi a stringere la città in un abbraccio protettivo; adottano metodi costruttivi gotici, pur mante­nendo come costante la chiarezza della pianta e la sua semplicità in armonia anche con le esigenze stilistiche locali. Esemplificazioni monumentali sono rappresentate dalla Basilica di San Francesco ad Assisi, la Basilica di Sant’Antonio a Padova, la Chiesa di San Francesco a Bologna, la Chiesa di Santa Maria Novella a Firenze, la Cattedrale di Siena, il Duomo di Orvieto.

L’età moderna. Tra il ’400 e ’500, tempo di grande rinnovamento in ogni campo e nelle arti figurative prima di tutto, il fenomeno più interessante è la trasformazione e l’ampliamento di antiche fondazioni monastiche. Nelle antiche abbazie si innestano costruzioni che applicano nuove formule decorative agli schemi distributivi tradizionali. Così a Camaldoli, oltre le prime celle e il primo oratorio di S. Romualdo, si aggiungono le fabbriche per albergo, e, nel ’500, si rinnova la chiesa e si costruisce il chiostro. La semplicità fondamentale delle forme quattro­centesche si adatta all’espressione del tema religioso; così nel nuovo centro domenicano di S. Marco che l’arte di Michelozzo e del Beato Angelico compone e anima; così negli annessi della chiesa di S. Maddalena de’ Pazzi con l’arte di Giuliano da Sangallo. In altre regioni, dove più forte è la tradizione de­corativa, gli edifici religiosi si ornano di intagli e di colore, sia nelle terrecotte, sia negli intarsi marmorei.

Viceversa, ai moduli della nuova concezione architettonica si rifanno le chiese fatte erigere dal cardinale Carlo Borromeo di Milano, che diverranno i modelli dell’architettura della controriforma. Questi edifici mantengono la tradizionale pianta basilicale, un linguaggio classico negli alzati e la cupola all’incrocio del transetto. Questo modello si diffonde in tutta Europa e diventa quasi il linguaggio ufficiale del cattolicesimo, influenzando anche l’architettura dei paesi riformati, che però adottano inizialmente un linguaggio meno monumentale e talvolta con persistenze della tradizione gotica.5

L’architettura ecclesiastica del Settecento ebbe come punto di partenza sia la tradizionale basilica longitudinale, sia la chiesa a pianta centrale del Rinascimento. La prima era preferita dal clero perché rispondeva all’esigenza controriformistica di uno spazio per la riunione dei fedeli; la seconda aveva il favore dei teorici dell’architettura in virtù della sua forma “perfetta”, in cui vedeva rappresentata l’astratta armonia del cosmo. Come risultato i due modelli mostrarono la tendenza a fondersi. Si sperimentarono soluzioni di compromesso soprattutto negli edifici di piccole dimensioni, che diedero luogo a piante centrali allungate dove gli elementi spaziali risultano reciprocamente interdipendenti, fattore che accentua la continuità della parete avvolgente. Esemplificative le opere del Bor­romini e in quelle che seguono la sua impronta, che svolgono in Roma il tema degli edifici religiosi, dalle riquadrate fronti dell’oratorio dei Filippini all’ala del convento di S. Carlino, dalla mole del collegio di Propaganda Fide alla rude orditura del convento di S. Maria dei Sette Dolori.

Dal punto di vista funzionale le chiese ottocentesche rispettano la distinzione fra navata riservata ai fedeli e presbiterio con l’altare maggiore, mentre il coro di solito si sposta dietro l’altare; la sistemazione interna spinge la concentrazione dei fedeli verso il centro dell’altare. Infine, con il romanticismo l’architettura sacra conosce un grande sviluppo, riprendendo il linguaggio degli stili storici, dapprima con il neogotico e in seguito recuperando anche le altre epoche. Negli anni successivi l’edilizia delle chiese subirà l’influenza di quella più generale dell’architettura civile, ma non si stravolgono le funzioni tradizionali dell’edificio sacro.

Fonti e Bibl. essenziale

M. Braghi – A. Ferlenga (a cura di ),  Architettura del Novecento. I. Teorie, scuole, eventi, Einaudi, Torino 2012; C. Brandi, Disegno dell’architettura italiana, Einaudi, Torino 1985; C. de Seta, Architettura della fede in Italia, Bruno Mondadori, Milano 2003; O. Brandt, Battisteri oltre la pianta. Gli alzati di nove battisteri paleocristiani in Italia, PIAC, Città del Vaticano 2012; S. Dianich La Chiesa e le sue chiese, San Paolo, Druento (TO) 2009; V. Gatti, Liturgia e arte. I luoghi della celebrazione, EDB, Bologna 2001; J. Hani, Il simbolismo del tempio cristiano, Arkejos, Roma 1996; R. Krautheimer, Architettura paleocristiana e bizantina, Einaudi, Torino 1986; R. Krautheimer, Corpus Basilicarum Christianarum Romae. Le basiliche cristiane antiche di Roma dal sec. IV al IX, 5 voll., Città del Vaticano 1936-1980; M. Gargano, Forma e materia (“Ratiocinatio” e “fabrica” nell’architettura dell’età moderna), Officina Edizioni, Roma 2006; V. Giordano, Immagini e figure della metropoli, Mimesis, Milano 2013; G. Liccardo, Architettura e liturgia nella Chiesa antica, Skira, Milano-Ginevra 2005; C. Militello, Gli spazi della celebrazione rituale, Edizioni O.R., Milano 1984; M. Mirabella Roberti, Milano romana, Rusconi, Milano 1986; S. Tavano, Aquileia e Grado, Lint Editoriale Associati, Trieste 1986; A. Venditti, Architettura bizantina nell’Italia meridionale, 2 voll., SEI, Napoli 1967.

Immagini:

1) Cimitile (Nola), La tomba di San Felice nell’aula ad corpus (V secolo); 2) Pieve rurale di Bagnasco (IX secolo), nei pressi di Montafia (At); 3) Il rosone della chiesa di San Pietro (XIII secolo),Tuscania; 4) Orvieto, Il Duomo; 5) Treviso, Chiesa di San Nicolò.

Sitografia:

http://architetturapaleocristiana.blogspot.it/ (sito dedicato allo studio di tutte le più importanti architetture paleocristiane); http://biblio.sns.it/it/risorseonline (sito della Biblioteca della Scuola Normale di Pisa con l’elenco di risorse on line ad accesso libero); http://www.beniculturali.it/ (sito del Ministero per i Beni e le Attività Culturali); http://www.thais.it/architettura/romanica/indici/indxsog.htm (sito dedicato all’architettura romanica europea e italiana).


LEMMARIO




Archivi ecclesiastici - vol. I


Autore: Emanuele Boaga †

Origine e sviluppi degli archivi ecclesiastici in Italia. Gli archivi della Chiesa nascono nei secoli I-III con la formazione e lo sviluppo delle strutture delle comunità cristiane, fin dalle loro origini. Detti archivi si venivano formando dietro varie necessità liturgiche, pastorali e amministrative, quali: la conservazione oltre che dei testi sacri della Bibbia, quelli delle memorie dei martiri o Gesta martyrum e delle loro Passiones, le matricole del clero e dei poveri, l’amministrazione del patrimonio costituito dai luoghi di culto, cimiteri. Un’idea di cosa contenessero questi archivi è fornita da Eusebio di Cesarea, nella sua Historia Ecclesiastica: particolarmente ricchi erano quelli di Roma. Con l’applicazione del I editto della persecuzione di Diocleziano vennero distrutti gran parte di questi archivi.

Dopo l’editto costantiniano di Milano (313), si ebbe, nel corso del IV secolo, la riorganizzazione delle chiese locali, il che portava a rinnovare gli archivi e ad adeguarli alla nuova situazione. Così in Roma esisteva già nel secolo IV un archivio, chiamato “Chartarium Ecclesiae Romanae” da San Girolamo e trasportato verso la metà del VII secolo nel palazzo lateranense. Contemporaneamente venne istituito un altro archivio presso la Confessione della basilica di S. Pietro, dove furono gelosamente custoditi importanti documenti tra i quali la “cautio” prestata dall’arcivescovo di Ravenna Felice, le donazioni di Pipino e di Carlomagno, e il “pactum” di Ottone I. Un terzo archivio sorse a Roma intorno al 1083 alle pendici del Palatino, in prossimità dell’arco di Tito, nella cosiddetta “Turris chartularia” che raccolse soprattutto documenti relativi alla amministrazione dei beni della S. Sede. Questa torre, venuta in possesso dei Frangipane, fu da essi distrutta nel 1197 con quanto eravi dentro, archivio compreso. L’attuale Archivio Segreto Vaticano – che raccoglie la documentazione prodotta dai papi e dai vari uffici della Curia pontificia – è però più recente rispetto i casi presentati, perché istituito da Paolo V nel 1612.

Negli archivi delle varie chiese locali o diocesi, diffuse dal IV secolo in poi, si rifletteva man mano la loro funzione non solo nel campo strettamente spirituale e di culto, ma anche in quello cittadino con il ruolo importante svolto in esso a lungo dal vescovo, specialmente in materia di foro misto. La varietà degli sviluppi del patrimonio ecclesiastico (mensa vescovile) ne introduceva in detti archivi anche i documenti relativi (inventari di beni, di beneficiari, ecc.).

Superati i tempi duri dell’invasioni barbariche e un periodo di grande decadenza degli archivi, essi ripresero in epoca medievale e ancor più nell’età moderna moderna. Oltre agli archivi vescovili si svilupparono così altri tipi di archivi ecclesiastici legati alle collegiate, ai capitoli cattedrali, alle parrocchie, alle confraternite, alle varie associazioni caritative ed educative, e a tutta la variegata gamma degli archivi monastici, di quelli dei mendicanti e delle case degli istituti religiosi moderni maschili e femminili, con la documentazione tipica delle loro attività, anche fuori i confini d’Italia (come ad esempio nelle missioni nei vari continenti). In detti archivi anche oggi si conservano preziose raccolte di pergamene, cartulari, codici, cronache, matricole, registri contabili, inventari patrimoniali, registri anagrafici e meticolose e puntuali segnalazioni sulla prassi sacramentale. Purtroppo molto materiale documentario è andato perduto per le alterne vicende storiche di ogni istituzione ecclesiastica, e le alienazioni avvenute con le soppressioni, soprattutto del Settecento e dell’Ottocento.

Gli archivi ecclesiastici presentano quindi una duplice valenza: da una parte sono espressione e mezzo a servizio delle attività proprie di ciascuna istituzione ecclesiastica, dall’altra possono essere considerati come sedimentazione storica e documentaria della vita e delle vicende della predicazione, dell’esperienza religiosa cristiana, delle peculiarità ed esigenze proprie delle popolazioni cristiane nei vari territori e degli sviluppi organizzativi della prassi pastorale e delle istituzioni ecclesiastiche, con apporto pure alla conoscenza di trasformazioni e condizioni sociali delle varie località.

Prassi e normativa ecclesiastica. Anche se si conosce l’esistenza degli archivi ecclesiastici fin dai primi tempi del cristianesimo, tuttavia poco si conosce sui metodi di ordinamento e di conservazione dei documenti. Certamente agli inizi si seguiva il metodo usato negli archivi degli uffici dell’Impero Romano, da cui la Chiesa imparò a formare gli archivi. Si sa poi della disposizione data da Giulio I (341-352) di raccogliere nell’archivio della Chiesa Romana tutti gli atti riguardanti le donazioni alla Chiesa. Però, per lungo tempo non si hanno in merito ai metodi di ordinamento e di conservazione dei documenti né indicazioni, né leggi che obbligassero a conservare certi tipi di documenti; facilmente si seguiva le prassi usate dalle cancellerie regie, o il proprio buon senso.

Le prime prescrizioni conosciute intorno agli inventari dei beni della Chiesa per conservarne la proprietà sono del secolo XIV e appaiono in concili provinciali e in sinodi diocesi di quel tempo. Ad esempio può essere citato il concilio provinciale di Padova del 1350. Ma praticamente fino al concilio di Trento non si conosce nessuna legge generale intorno agli archivi ecclesiastici, anche se nel caso degli ordini monastici e medicanti, si trovano nelle rispettive costituzioni norme e disposizioni sui loro archivi e rispettivi contenuti.

Il concilio Tridentino (1545-1563) incluse tra i suoi decreti anche l’obbligo per i parroci di redigere e conservare i libri appositi per i battesimi, e per i matrimoni. Ciò costituì l’occasione di una elaborazione delle leggi ecclesiastiche intorno agli archivi, come è accaduto soprattutto nei sinodi diocesani e nei concili provinciali, che hanno discusso e tradotto in pratica le decisioni tridentine stabilendo norme più o meno esaurienti intorno all’ordinamento e alla conservazione degli archivi ecclesiastici dei loro territori.

A questo riguardo è da segnalare l’opera di S. Carlo Borromeo, arcivescovo di Milano. Egli, in diversi sinodi, fin dal 1565-1572 si interessò accuratamente degli archivi ecclesiastici, stabilendo prima di tutto la loro istituzione in quelle chiese che ancora non li avessero. Poi indicò il modo di compilare gli inventari dei beni e dei diritti delle singole chiese, di cui una copia doveva essere tenuta in archivio e l’altra in quello della diocesi. Elencò pure le serie archivistiche da tener presenti nell’ordinamento degli archivi e diede infine una serie di norme precise sulla custodia degli stessi archivi.

Nei secoli XVI-XVII appaiono i primi manuali di archivistica o sul modo di tenere gli archivi. Tra di essi, per l’Italia, si possono ricordare in modo specifico quelli dovuti a Baldassare Bonifacio (1584-1659, vescovo di Capodistria) e al sacerdote milanese Nicolò Giussani. Bonifacio pubblicò nel 1632 a Venezia il De archivis liber singularis, in cui trattava degli archivi sotto gli aspetti giuridico, storico e letterario; un testo che ebbe un grande successo e diverse edizioni, mentre Giussani con il suo Methodus archivorum (Milano 1684) offriva una trattazione tecnica di maggior respiro. Nel secolo XVIII esercitò influenza anche il De’ pubblici archivi e notai (Lucca 1749) di Ludovico Antonio Muratori.

Disposizioni pontificie per gli archivi ecclesiastici in Italia. Poco dopo i decreti del sinodo provinciale milanese del 1565, approvati ed estesi a tutta la Chiesa da Pio V il 6 giugno 1566, si ha un’altra sua disposizione in data 1 marzo 1571 con cui prescriveva ai vescovi siciliani di redigere ogni anno l’inventario degli atti criminali e custodirli nei loro archivi. Pochi anni dopo Sisto V, con il Motu proprio Provida Romani Pontificis del 29 aprile 1587, ordinava che entro un anno fossero depositati tutti gli inventari degli archivi ecclesiastici d’Italia nell’appena istituito “Archivum generale ecclesiasticum” con sede nel Palazzo Apostolico.

Altre disposizioni rilevanti per gli archivi ecclesiastici d’Italia si trovano tra i decreti del Concilio Romano del 1725, celebrato sotto Benedetto XIII (detto “il papa archivista”). Infatti tra questi decreti si trova l’ingiunzione ad ogni vescovado, capitolo di canonici, chiesa, ospedale, confraternita, congregazione ecc. di confezionare, entro un anno, un inventario dei beni e delle relative scritture dei titoli di proprietà, in duplice copia, di cui una da rimanere presso l’istituzione o ente ecclesiastico medesimo, e l’altra da depositare nell’archivio diocesano o in quello generale apostolico a Roma.

Lo stesso Benedetto XIII – che quand’era arcivescovo di Benevento aveva seguito l’esempio di S. Carlo Borromeo e aveva raccolto tra altro nella sua diocesi 13.837 pergamene, restaurandole e ordinandole per una facile consultazione – continuò la sua attività a vantaggio degli archivi ecclesiastici e per questo suo interessamento giunse a pubblicare il 14 giugno del 1727 la famosa costituzione Maxima vigilantia. Questa costituzione emanata per l’Italia e le isola adiacenti, servì poi d’esempio per le altre nazioni cristiane sparse nel mondo e servirà di base per l’elaborazione della legislazione archivistica ecclesiastica riportata nel Codice di Diritto canonico del 1917.

Nella Maxima vigilantia si stabiliva, ove già non esistesse, la istituzione entro sei mesi dell’archivio proprio delle diocesi, dei capitoli delle cattedrali o delle collegiate, delle parrocchie, dei religiosi, ecc. Di ogni archivio si doveva redigere l’inventario generale in duplice copia, i vescovi e i visitatori ordinari o apostolici erano tenuti ad ispezionare gli archivi nelle loro visite canoniche; ogni archivio doveva avere il suo archivista. Alla costituzione erano poi allegata, in lingua italiana, le norme sull’ordinamento e la custodia degli archivi.

Per Roma e per gli Stati Pontifici si registrano anche alcuni interventi pontifici specifici. Urbano VIII il 16 nov. 1625 istituiva in Roma l’Archivio Generale detto Urbano, come archivio notarile, e il 15 dicembre 1625 costituiva l’archivio del collegio dei Cardinali; mentre, a completare l’organizzazione archivistica papale in Roma, Clemente XI erigeva l’11 gennaio 1671 l’archivio della Dataria Apostolica.

Per tutti gli Stati Pontifici si ebbero poi due interventi del Cardinale Camerlengo sotto Clemente XI, il 30 sett. 1704 e il 14 maggio 1712, con norme per la conservazione dei documenti e sul controllo da parte del clero secolare e regolare sulla loro vendita per evitare dispersioni. Sotto Innocenzo XIII ancora un editto del 25 agosto 1721 dell’allora Cardinale Camerlengo riportava istruzioni e norme per gli archivi notarili riguardo alla conservazione dei contratti in modo da prevenire frodi e ingiuste occupazioni. Al tempo di Benedetto XIII, il 1 giugno 1748, ancora un editto del Cardinale Camerlengo confermava i bandi precedenti e completava le norme riguardo alla istituzione degli archivi e alla dovuta conservazione dei documenti.

Fonti e Bibl. Essenziale

Enchiridion Archivorum Ecclesiasticorum. Documenta potiora Sanctae Sedis de archivis ecclesiasticis a Concilio Tridentino usque ad nostros dies, quae collegerunt Rev.dus Dom. Simeon Duca et P. Simeon a S. Familia, O.C.D., Archivio Segreto Vaticano, Città del Vaticano, 1966; E. Boaga – S. Palese – G. Zito, Consegnare la memoria. Manuale di archivistica ecclesiastica, Giunti, Firenze, 2003, 13-104, 203-238; E. Boaga, La tutela e la gestione degli archivi religiosi dalle esperienze storiche alle esigenze attuali, in Archiva Ecclesiae, 42 (1999), 25-62; E. Casanova, Archivistica, Arti Grafiche Lazzeri Siena, 1928 (ed. anastatica: Torino Bottega d’Erasmo, 1966), 291-388 (storia degli archivi e dell’archivistica); S. Duca – B. Pandzic, Archivistica ecclesiastica, presso Archivio Segreto Vaticano, Città del Vaticano, 1967, 135-150 (storia degli archivi); H. L. Hoffman, De influxu Concilii Tridentini in archivis ecclesiasticis, in Apollinaris, XX (1967), 242-263; H.L. Hoffman, De Sancto Carolo Borromeo qua archivorum ecclesiasticorum sanctificatore, Romae, 1961; E. Lodolini, Storia dell’archivistica italiana. Dal mondo antico alla metà del secolo XX, Angeli, Milano, 2001; E. Loewinson, La costituzione di papa Benedetto XIII sugli archivi: un papa archivista, in Gli archivi italiani, III (1916), 157-207; A. Palestra – A. Ciceri, Lineamenti di Archivistica Ecclesiastica, Edikon, Milano, 1965 (cf. all’indice storia degli archivi eccl.); Simeone della Sacra Famiglia, Brevi appunti di archivistica generale ed ecclesiastica, Postulazione Generale OCD, Roma, 1986 (3ª ed. riveduta e aggiornata), 18-21, 59-69 (storia degli archivi). Si segnala inoltre la rivista Archiva Ecclesiae, edita dal 1958 dall’Associazione Archivistica Ecclesiastica, in cui appaiono numerosi articoli riguardo alla storia di archivi ecclesiastici e religiosi.


LEMMARIO




Arianesimo - vol. I


Autore: Alessandra Costanzo

Nel 318 il vescovo Alessandro di Alessandria fa scomunicare da un sinodo, convocato nella sua stessa città, il prete Ario. La sentenza viene confermata all’inizio del 325 dal sinodo di Antiochia e, nel maggio – giugno dello stesso anno, dal concilio di Nicea. Ario viene condannato per una dottrina trinitaria troppo subordinazionista, che volendo salvaguardare l’originalità dell’unico vero Dio, il Padre, il solo ad essere non generato, considera il Figlio non coeterno rispetto al Padre, da cui riceve vita, e riduce così il Figlio al livello delle creature. Il concilio di Nicea, condannando Ario e i suoi seguaci, sottolinea la consustanzialità del Figlio rispetto al Padre (homousios) e la loro unità di ipostasi.

Ma la condanna non arresta l’eresia: Ario trova sostenitori non solo in Egitto, ma anche in Siria e in Palestina, e di lì a poco in Occidente, grazie all’appoggio di Costanzo, rimasto unico imperatore. Così, dopo la metà del IV secolo, i teologi occidentali affrontano la controversia ariana, che segna gran parte della loro attività.

In Italia, fra i primi che contrastano l’arianesimo sul piano dottrinale, troviamo Mario Vittorino, di origine africana, ma che fu retore a Roma intorno al 355. Interviene nella polemica con una serie di scritti che egli presenta in relazione a quelli di un amico ariano, Candido, probabilmente un personaggio fittizio introdotto da Vittorino per dare ai propri testi una parvenza di obiettività. Così, ad una lettera di Candido, che offre un’interpretazione filosofica della dottrina di Ario, segue la risposta di Mario Vittorino, che presenta la fede nicena con toni altrettanto filosofici; alla Professione di fede di Ario ad Alessandro, inviata da Candido, Mario Vittorino risponde con i tre libri Adversus Arrium e il breve De homousio recipiendo.

Ma Roma, dove è attivo Mario Vittorino, resta piuttosto a latere della controversia ariana. Altre città risultano maggiormente coinvolte: Rimini, nel 359, vede l’affermarsi di una formula – «Il Figlio è genericamente simile al Padre» – che, voluta da Costanzo e da una minoranza filoariana, si impone alla maggioranza dei vescovi, celando un effettivo arianesimo.

Ma è soprattutto Milano la città in cui si accende di più il contrasto tra ariani e cattolici. Qui, nel concilio del 355, la minoranza filoariana, sostenuta da Costanzo, spinge la maggioranza dei vescovi alla condanna di Atanasio, tenace avversario dell’arianesimo. Ed è ancora a Milano che si concentra l’attività di alcuni tra i più decisi difensori dell’ortodossia.

In questa città infatti nel 364 si trova Ilario di Poitiers, nel vano tentativo di allontanare il vescovo filoariano Aussenzio, di cui mette in rilievo la mala fede nell’opera scritta in questa occasione, il Contra Auxentium. Del resto, l’ostilità di Ilario nei confronti dell’arianesimo si era già manifestata negli anni precedenti: tra il 356 e il 359, avendo organizzato la resistenza dei vescovi della Gallia contro il metropolita Saturnino di Arles, fautore dell’arianesimo, Ilario era stato mandato in esilio nell’Asia Minore dall’imperatore Costanzo. In questa condizione aveva composto il De Trinitate, in 12 libri: nei primi tre, pur polemizzando con sabelliani e ariani, esponeva in forma positiva la dottrina cattolica, nei restanti libri confutava la Professione di fede di Ario ad Alessandro. Gli anni dell’esilio avevano dato modo ad Ilario di capire la complessità della situazione in Oriente, dove la dottrina nicena dell’homousios e dell’unità di ipostasi faticava ad essere unanimemente accettata perché sospetta di sabellianismo. Per evitare questo pericolo, gli orientali, inclini ad insistere più sulla distinzione delle persone divine che sulla loro unità, preferivano considerare il Figlio non homousios (uguale quanto alla sostanza) rispetto al Padre, ma homoiousios (simile quanto alla sostanza). Essere antiniceno non significava dunque necessariamente essere ariano.

Ilario lo aveva capito, e così, in preparazione del concilio di Rimini del 359, scrive il De synodis, in cui tenta di appianare le incomprensioni terminologiche tra gli antiariani d’Oriente e quelli d’Occidente perché possano collaborare più efficacemente tra loro in modo da fronteggiare insieme il comune “nemico”. L’opera si distingue in due parti: nella prima, indirizzata ai vescovi d’Occidente, Ilario chiarisce che i vescovi d’Oriente non devono essere ritenuti ariani solo perché restii ad accettare la dottrina nicena dell’homousios; nella seconda parte si rivolge ai vescovi d’Oriente, rassicurandoli sull’ortodossia dell’homousios e mettendoli in guardia rispetto all’homoiousios, che può prestarsi a false interpretazioni. Il tentativo conciliante di Ilario, in vista del concilio di Rimini, non trova, come abbiamo visto, un effettivo riscontro negli esiti di quel concilio. Ed anche la sua iniziativa di allontanare da Milano il vescovo filoariano Aussenzio non va a buon fine.

Ambrogio continua l’azione di Ilario. Compiuti gli studi a Roma, intorno al 370 lo troviamo a Milano come consularis con l’incarico di governare l’Italia settentrionale. Nel 374, quando muore il vescovo ariano Aussenzio, Ambrogio, ancora catecumeno, interviene per smorzare i contrasti tra cattolici e ariani per l’elezione del successore e, non ancora battezzato, si vede acclamato vescovo. Da quel momento combatte l’arianesimo, ancora resistente a Milano, avvalendosi dell’appoggio degli imperatori che, dopo Valentiniano (neutrale alle questioni religiose) e Valente (favorevole all’arianesimo) sono aperti sostenitori della Chiesa cattolica.

Come Ilario, Ambrogio affianca la sua attività pastorale con quella letteraria in difesa dell’ortodossia. Su invito dell’imperatore Graziano, tra il 378 e il 380 scrive il De fide, in cui, contro gli ariani, difende la divinità del Figlio. L’opera è articolata in cinque libri: i primi due vengono composti nel 378 e gli ultimi tre nel 380 per contrastare le obiezioni ariane. Ambrogio completa la trattazione trinitaria nel 381 con i tre libri De Spiritu Sancto, in cui sottolinea la piena divinità ed uguaglianza dello Spirito con le altre due Persone della Trinità.

Contro gli ariani è pure il De incarnationis Dominicae sacramento, dove Ambrogio ribadisce l’unità di umanità e divinità nella persona di Cristo. L’impegno a contrastare l’arianesimo si manifesta anche in un’orazione, il Sermo contra Auxentium de basilicis tradendis, relativa agli eventi del 385-386, quando Ambrogio, con il popolo di Milano, si oppose agli ariani che, sostenuti dall’imperatrice Giustina, madre di Valentiniano II, pretendevano la consegna di una chiesa per l’esercizio del loro culto. L’Aussenzio di cui si parla in quest’opera non è il vescovo ariano che Ilario aveva tentato di allontanare, ma un discepolo del goto Ulfilo, che gli ariani avevano eletto come successore di Aussenzio I in opposizione ad Ambrogio.

La controversia ariana in Italia, insieme ad Ilario e Ambrogio, vede coinvolte anche personalità di minor rilievo, attive in altre città al di fuori di Milano: Eusebio di Vercelli, Zenone di Verona, San Mercuriale di Forlì, San Rufillo di Forlimpopoli, San Leo di Montefeltro, San Gaudenzio di Rimini, San Pietro Crisologo di Ravenna, San Geminiano di Modena, Lucifero di Cagliari. Quest’ultimo in particolare è noto per essere stato il punto di riferimento di quanti, come lui, mostravano un attaccamento intransigente alla fede nicena, spesso organizzandosi, in Italia, ma anche in altre parti dell’impero, in conventicole separate dalla comunità cattolica: a Roma, intorno al 380, questi settari vengono chiamati “luciferiani” dal nome di Lucifero, malgrado non si possa dimostrare la sua partecipazione al movimento. Tra i luciferiani di Roma si ricorda il prete Faustino, autore di alcuni scritti: intorno al 380, su richiesta di Flaccilla, moglie di Teodosio, compone un breve De Trinitate, in cui, dopo aver presentato la dottrina ortodossa, discute alcuni passi scritturistici oggetto di controversa interpretazione nella polemica. Faustino scrive anche una Professio fidei e una supplica, il Libellus precum, che è fonte principale per la nostra conoscenza dello scisma luciferiano. L’autore infatti lamenta le angherie subite dagli intransigenti niceni in varie parti dell’impero e chiede per i luciferiani libertà di culto, che Teodosio, in un rescritto riportato in appendice, sembra accogliere favorevolmente.

Nel 381 il concilio di Aquileia sancisce la disfatta dell’arianesimo in Occidente, come il concilio di Costantinopoli, tenuto nello stesso anno, faceva in Oriente. Ma come spesso accade, la sentenza magisteriale non coincide con la fine dell’eresia. In Italia l’arianesimo rimane attivo almeno fino al VII secolo, sostenuto dagli invasori barbarici che, a partire dalla predicazione di Ulfila, traduttore della Bibbia in lingua gotica, diffusero l’eresia fra i popoli germanici, specialmente Goti, Vandali e Longobardi. Fu ariano il re ostrogoto Teodorico, che nel V secolo fece costruire a Ravenna il battistero degli ariani, vicino all’antica cattedrale ariana (oggi chiesa dello Spirito Santo) e solo con la regina Teodolinda i Longobardi si convertiranno al cattolicesimo.

Tra la fine del IV e l’inizio del V secolo è attivo dall’Illiria all’Africa il vescovo ariano Massimino, che ricordiamo perché, pur non trovandosi in Italia, scrive la Dissertatio Massimini contra Ambrosium, in cui commenta gli atti del concilio di Aquileia del 381, dove Ambrogio aveva fatto deporre alcuni vescovi ariani illirici, e riporta varie testimonianze di parte ariana, tra cui quella di Aussenzio di Durostorum (l’avversario di Ambrogio) sulla vita e l’insegnamento del goto Ulfila.

Nel VI secolo, nel convento di Bobbio, nell’Italia settentrionale, viene raccolta ampia documentazione ariana, tra cui più di venti frammenti di varie opere, presumibilmente di uno stesso autore, rilevanti dal punto di vista dottrinale in quanto spesso polemizzano con gli scrittori antiariani. Da Bobbio provengono anche il Tractatus in Lucae evangelium e il Sermo Arrianorum, una breve esposizione della dottrina ariana.

Ancora nel XIII secolo, a Genova, Jacopo da Varazze racconta nel suo Chronicon Ianuense, la leggenda del basilisco, ritenuto simbolo del male rappresentato dall’eresia ariana. Jacopo riferisce che in un pozzo, nei pressi della basilica dei XII Apostoli, dimorava un animale con la testa di gallo e il corpo di serpente. Il vescovo Siro, dopo aver calato nel pozzo un secchio, ingiunse al mostro di entrarvi per essere estratto. Il basilisco ubbidì e accettò anche di gettarsi in mare. Da quel momento la bestia non fu più veduta, a conferma della vittoria definitiva sull’eresia ariana.

Fonti e Bibl. Essenziale

B. Altaner, Patrologia, Marietti, Casale Monferrato 1981, 278-289; J. Danielou – H. Marrou, Nuova storia della Chiesa I. Dalle origini a S. Gregorio Magno, Marietti, Casale Monferrato 1984, 297-317; G. Filoramo (ed.), Storia delle religioni. Ebraismo e Cristianesimo, Laterza, Bari 1995, 233-269; A. Pincherle, Ancora sull’arianesimo e la chiesa africana nel IV secolo, Studi e materiali di storia delle religioni 1968, 169-184; M. Simonetti, Studi sull’arianesimo, Studium, Roma 1965; Id., Alcune considerazioni sul contributo di Atanasio alla lotta contro gli Ariani, in AA.VV., Studi in onore di A. Pincherle, Edizioni dell’Ateneo, Roma 1967, 512-535; Id., La letteratura cristiana antica greca e latina, Sansoni – Accademia, Milano 1969, 193-208; Id., Le origini dell’arianesimo, RSLR 7 (1971), 317-330; Id., La crisi ariana nel IV secolo, Studia Ephemeridis Augustinianum, Roma 1975; B. Studer, Dio Salvatore nei Padri della chiesa, Borla, Roma 1986, 147-166.


LEMMARIO




Arte cristiana - vol. I


Autore: Andrea Spiriti

Gesù di Nazareth, i suoi apostoli e i suoi discepoli sono vissuti all’interno di spazi architettonici e figurativi della tradizione ebraica post-esilica, ossia in un connubio di forme israelitiche classiche e di influssi ellenistici; ma la rapida diffusione del cristianesimo all’interno di strutture politiche consolidate (impero romano, impero partico, regno di Armenia) ha determinato il confronto fra le esigenze iconografiche della nuova religione e il patrimonio figurativo di quegli stati, oltretutto in un contesto di persecuzione sempre più estesa. A Oriente la tendenza all’astrazione simbolica e la difficoltà ad ammettere il realismo dell’incarnazione portano all’elaborazione precoce di una iconografia basata sugli animali (pesce, pavone, aquila…), sugli oggetti (trono vuoto, croce gemmata, evangeliario) e direttamente sulla metafora della luce (finestre d’alabastro, fondi oro). A Occidente le catacombe di Roma ci forniscono una tipologia completa delle alternative: utilizzo a fini cristiani di immagini mitologiche (Ercole e l’Idra del Lerna come Cristo che abbatte Lucifero, Ipogeo di Via Latina), di immagini classiche (Moscoforo come Buon Pastore, catacombe di Domitilla), di costumi romani con cui vengono resi episodi evangelici (Cristo e la Samaritana, catacombe di Priscilla). E’ parallela la lettura patristica degli episodi dell’Antico Testamento quali anticipazioni di quelli del Nuovo, con conseguente moltiplicazione iconografica. Nell’impero, i due secoli e mezzo di persecuzioni implicarono l’identificazione di spazi tipici: la domus ecclesiae, con decorazioni musive e pitture murali spesso allusive ai misteri cristiani in termini allegorici; la sepoltura extramuraria (singola, di gruppo o catacombale) condotta negli stessi termini. Un caso-limite è la domus di Doura Europos, con immagini esplicite, tollerata verso il 220 in quanto sede di una guarnigione di frontiera.

La progressiva legittimazione del cristianesimo (301 in Armenia, 312/313 nell’impero romano, 530 nell’impero sasanide) determinò la nascita di un’edilizia monumentale cristiana spesso di committenza statale: paradigmatici gli interventi di Costantino e di Elena in Terra Santa (basiliche di Gerusalemme, Betlemme, Nazareth), nella Roma cristianizzata (basiliche di San Pietro in Vaticano, San Paolo fuori le mura, San Giovanni in Laterano, Santa Croce in Gerusalemme, Sant’Agnese e mausoleo dei Costantinidi, Sant’Anastasia), Milano (basilica di San Lorenzo) e Costantinopoli (basilica della Divina Pace – Sant’Irene). Il tardo impero romano assistette quindi ad operazioni cristianizzanti di forte impatto urbano: esemplari quella episcopale di Ambrogio a Milano (374-397) e quella imperiale di Galla Placidia a Ravenna (423-450). L’età delle migrazioni dei poli germanici determinò un interessante dualismo valido per buona parte dell’alto medioevo: da un lato la forte influenza orientale, specie nel periodo della riconquista bizantina dell’Italia (535/562-568, che è anche il periodo di San Benedetto e della nascita dell’arte monastica benedettina), con il culmine delle committenze a Ravenna mediate dall’arcivescovo Massimiano (San Vitale, Sant’Apollinare Nuovo, Sant’Apollinare in Classe); dall’altro l’adozione di modelli germanici come la tendenza all’astrazione decorativa e all’ornamento a intreccio, di matrice ora germanica (continente europeo) ora celtica (isole britanniche). Un ciclo nodale come quello di Santa Maria foris Portas a Castelseprio (variamente datato fra l’inizio dell’VIII e l’inizio del IX secolo) dà la misura dell’influenza orientale a livello sia iconografico sia stilistico. L’impero carolingio (800-887) contribuì potentemente allo scambio di esperienze artistiche europee, codificando quell’Europa Christiana che per secoli avrebbe costituito un elemento-base dell’arte e dell’architettura. La produzione romanica, dipendente in parte non secondaria da modelli orientali, è però autonoma del realismo robusto, nella concretizzazione della narrazione sacra: e questo soprattutto in quelle aree (Lombardia storica, Borgogna, Catalogna, valle del Reno) dove la presenza di edifici sacri è fittissima. La seconda metà dell’XI secolo vide tre eventi decisivi: lo scisma d’Oriente del 1054 determinò al rottura con la chiesa bizantina (ricucita nel 1274 e nel 1439, ma in entrambi i casi per poco) e l’allentarsi della sua influenza artistica, sempre più autoreferente nel mondo delle icone e nella loro riduzione a stereotipi; la riforma gregoriana (epicentrata ma non esaurita nel papato di Gregorio VII, 1073-1085) riqualificò l’autopercezione della Chiesa Cattolica determinando sul momento un’arte a Roma dai tratti neopaleocristiani, ma ponendo le basi per un linguaggio autonomo; la prima crociata (1095-1099) si concluse con la riconquista di Gerusalemme e sull’immissione di ritorno in Europa di molti elementi della tradizione architettonica e figurativa orientale.

Solo nel XIII secolo gli sforzi paralleli lungo un secolo dei grandi stati (Regno di Francia; Sacro Romano Impero – Regno di Sicilia) e dei grandi Ordini religiosi riformati (benedettini cistercensi) o nuovi (francescani) determinarono la nascita del nuovo stile gotico, non privo di spunti orientali (a partire dall’arco a ogiva) e giocato su di una estetica della luce pura o mediata dalle vetrate policrome che implica un’accentuata verticalizzazione dello spazio architettonico. Il cammino si apre con la ricostruzione del coro (1140-1144) della basilica di Saint-Denis, alla porte di Parigi, opera dell’abate/ministro Suger e prosegue con tappe nodali come le cattedrali dell’Île-de-France, le abbazie cistercensi, San Francesco d’Assisi, le basiliche renane, i castelli federiciani in Puglia, per concludersi con la Sainte-Chapelle di Parigi (1246-1248). In pittura la rivoluzione ha inizio a Roma con l’anonimo ciclo del Sancta Sanctorum (1278) e si declina dal 1260 al 1350 (con culmine nell’ultimo quarto del secolo) ad Assisi con il rapido susseguirsi dei grandi maestri umbri (maestro di San Francesco), romani (Pietro Cavallini, Jacopo Torriti), fiorentini (Cimabue, Giotto) e senesi (Pietro e Ambrogio Lorenzetti). In scultura, il crogiuolo federiciano mette a confronto artisti pugliesi, renani e nord-francesi: lì si forma il genio di Nicola Pisano. Dal punto di vista iconografico, i secoli dal IX al XIII vedono molte evoluzioni iconiche: il Cristo che dalle astrazioni orientali passa al ruolo pure orientale di Pantocrator per subire in Europa occidentale progressive umanizzazioni, che puntano sulla dolcezza del Bambino e sulla sofferenza del Crocefisso; Maria che da Orante e Madre della Chiesa sempre più si umanizza nelle storie dell’Infanzia di Cristo e si drammaticizza ai piedi della Croce; i Santi che aumentano ampiamente di numero, spesso con larga diffusione devozionale (Gregorio Magno, Benedetto, Bernardo, Francesco, Domenico).

Delimitata dal primo Giubileo (1300) e dalla terribile pandemia della Peste Nera (epicentro nel 1348-1349), la prima metà del Trecento vede fiorire un gotico sempre più attento alla drammatica figura del Crocefisso, spesso deformato e sofferente ai limiti del verosimile; mentre il trasferimento della curia papale ad Avignone (convenzionalmente 1309-1377) determina la nascita di un gotico internazionale sempre più attento alle arti suntuarie e all’incontro fra pittura italiana (Simone Martini, Matteo Giovannetti) e francese. Il grande scisma d’Occidente (1378-1417) è lo sfondo del gotico internazionale, giocato su parametri di eleganza esasperata e di finezza disegnativa, ma anche di una presenza sempre più massiccia di produzione profana; si pensi, per significativa coincidenza, come alla filosofia “ufficiale” di Alberto Magno (1206-1280) e di Tommaso d’Aquino (1225-1274) succeda quella “moderna” di Guglielmo di Occam (1288-1349). Ma il grande scisma e la difficile età dei concili di Costanza (1414-1418), Basilea (1431-1449, canonico fino al 1438) e Ferrara-Firenze (1438-1439) vede anche la nascita, dapprima in ambiti ristretti poi più diffusi, di due espressioni del calibro dell’arte fiamminga e dell’umanesimo italiano. Per epicentri, a Bruges Roberto Campin, Hubert e Jan van Eyck, Rogier van der Weyden elaborano un’arte iperveristica, dove il microcosmo riassume il macrocosmo, di forte impatto affettivo secondo i dettami della devotio moderna; a Firenze Filippo Brunelleschi, Paolo Uccello, Donatello, Luca della Robbia e Masaccio danno la versione radicale di un antropocentrismo rigoroso nei rimandi classici e che applica la prospettiva come arma simbolica. La diffusione europea dell’arte fiamminga e la gemmazione dell’umanesimo italiano (Urbino, Milano, Genova, Venezia, Roma, Napoli) sono fenomeni ben noti del pieno e tardo Quattrocento, ma le numerose influenze reciproche si sommano (nel 1439 la riunificazione delle Chiesa Cattolica e Ortodossa è celebrata sotto la cupola brunelleschiana del Duomo fiorentino e accompagnata dal Nuper rosarum flores del sommo polifonista fiammingo Guillaume Dufay) alle differenze interne agli stessi filoni: si pensi a come il concorso per la porta Nord del battistero fiorentino (1399-1401) sul tema del Sacrificio di Isacco contrapponga il radicalismo umanistico ma anche i ricordi gotici del Brunelleschi all’umanesimo moderato del vincitore Ghiberti; o a come il Crocefisso “francescano” di Santa Croce contrapponga il vigore anatomico quasi brutale di Donatello alla dolcezza credibile di quello “domenicano” di Santa Maria Novella del Brunelleschi.

La scoperta dell’America (1492) e la formazione delle compagini internazionali spagnola e portoghese segnano l’inizio della mondializzazione dell’arte cristiana: e per secoli le tradizioni locali troveranno accordi geniali con la presenza dei modelli europei. L’inizio del Cinquecento vede l’affermazione, destinata a durare oltre un secolo e mezzo, della Roma pontificia quale capitale europea dell’arte. Il papato di Giulio II (1503-1513) promuove operazioni colossali come la ricostruzione della basilica vaticana, la prosecuzione della cappella sistina, la risistemazione dei palazzi pontifici con l’appartamento papale e le logge, la creazione del cortile del Belvedere, la musealizzazione del Belvedere che vedono attivi artisti come Michelangelo, Bramante, Raffaello; e che rappresentano il culmine della conciliazione ideale col mondo classico visto quale introduzione al cristianesimo. La prosecuzione di queste grandi imprese durante il pontificato di Leone X (1513-1522) coincide con l’inizio della rivoluzione protestante (1517), che nel giro di pochi decenni non solo strappa alla Chiesa gran parte del Nordeuropa ma determina un’architettura rigorosa, spesso iconoclasta, di grande austerità formale e con notevoli innovazioni liturgiche (basti l’assenza del tabernacolo). Di contro la riflessione cattolica del concilio di Trento (1545-1563) portò per tutto il secondo Cinquecento ad un’architettura classica e trionfale (chiesa romana del Gesù) ma anche sobria e capace dell’uso di materiali poveri; e ad un’arte figurativa chiara, comprensibile, capace di utilizzare il Manierismo come fonte inesausta di immagini. Il Giudizio di Michelangelo nella Cappella Sistina (1536-1541) e la sua “moralizzazione” (1564-1565) sono passaggi emblematici. A cavallo del Giubileo 1600 la coesistenza del primo Barocco (Rubens), dell’iperverismo di Caravaggio e del classicismo emiliano dei Carracci trova a Roma la propria sede naturale, e sotto il papato di Paolo V (1605-1621) l’ultimazione della fabbrica vaticana con la facciata del lacuale Carlo Maderno (1607-1614) apre una stagione Borghese culminante nel David e nell’Apollo e Dafne di Gianlorenzo Bernini (1622-1625), manifesti del nuovo corso. A Roma la prima metà del Seicento vede succedersi le grandi committenze di Urbano VIII, Innocenzo X e Alessandro VII, che codificano un modello barocco ormai diffuso in tutta l’Europa cattolica e non privo d’influenza su quella protestante, specie anglicana: un modello cioè nel quale l’enfasi teatralizzata, il metamorfismo, la grandiosità coesistevano in un linguaggio dai forti toni emotivi. Nel 1665 il viaggio fallimentare di Bernini in Francia segna la fine del primato artistico romano a vantaggio di Parigi-Versailles, ma anche una conseguenza perdita di peso dell’arte cristiana rispetto a produzioni sempre più spesso profane, nel quadro della “crisi della coscienza europea”. Ma al tempo stesso il Seicento vede l’affermarsi iconografico dei Santi controriformati (Ignazio di Loyola, Filippo Neri, Carlo Borromeo, Teresa d’Avila e infiniti altri); e la vittoria antiturca di Vienna nel 1683, patrocinata da Innocenzo XI, segna la codificazione dell’Immacolata con il Bambino che regge la croce-lancia. Si trattava di una geniale sintesi della Madonna della Vittoria con la Purísima, versione iberica dell’Immacolata che rielaborava a sua volta il paradigma lombardo della Madonna dell’Umiltà in veste bianca; il tutto spesso combinato con l’altra grande devozione mariana non ancora dogma, l’Assunta, ormai stabilizzata nella tipologia con veste rossa e manto blu; o con quella della Madonna del rosario, onnipresente coi Misteri nelle chiese europee.

La nascita del rococò (avvenuta nelle Terre Ereditarie austriache ad opera degli artisti dei laghi lombardi nel primo quinquennio del Settecento, non certo in Francia quindici anni dopo) segna anche un ulteriore passo verso un arte non fortemente caratterizzata in senso religioso, anzi sostanzialmente omogenea nel trattare le storie sacre e le “favole degli antichi”: in questo senso è esemplare la pittura di Giovanni Battista Tiepolo. Ma il Settecento rocaille vede anche la nascita di nuovi culti (si pensi solo al forte rilancio devozionale delle figura di San Giuseppe, che diviene patrono della buona morte), mentre l’antitetica cultura muratoriana punta (soprattutto a metà secolo, con il grande pontificato di Benedetto XIV) mira ad un modello di sobrietà, di “moderata devozione” ottenibile in spazi razionali e privi di emozioni spettacolari. Il dato più decisivo è comunque l’inizio delle soppressioni, inizialmente polarizzate sui Gesuiti (che verranno infine soppressi nel 1773 da Clemente XIV, per rinascere nel 1814 sotto Pio VII), poi articolate nella massima parte degli Ordini religiosi. Gli esiti furono terribili: dispersione di opere d’arte, distruzione di edifici, perdita di un ruolo di committenza che era stato decisivo per secoli, modifica radicale dell’immagine urbana. La contemporanea questione dei riti cinesi, conclusa in modo sfavorevole alla missionarietà acculturata dei Gesuiti, implicò la perdita di molte occasioni, a cominciare da quella cinese; e dal nostro punto di vista, la fine di episodi di meticciamento culturale dalle grandi anche se non sempre limpide potenzialità. La rivoluzione francese e l’impero napoleonico determinarono l’accentuazione di questi fenomeni: si pensi a Notre-Dame de Paris ridotta a tempio della Dea Ragione, o alla distruzione sistematica di luoghi-simbolo del monachesimo medioevale come Cluny, Cîteaux o la Grande Chartreuse. Di contro dal quarto decennio del Settecento lo stile neoclassico portava alla logiche conseguenze la sostanziale indifferenza ideologica rococò: stile dell’antico regime, della rivoluzione, di Napoleone, dell’Inghilterra antirivoluzionaria e antinapoleonica, della restaurazione, il neoclassicismo è in grado di incarnare ideologie diverse e contrapposte, come pure di essere stile della chiesa (si pensi al caso-limite del mausoleo vaticano di Pio VII, opera del luterano Thorwaldsen), stile della massoneria (si pensi alla pianta di Washington D.C. o all’Università della Virginia), stile dell’illuminismo (i cui filosofi peraltro erano vissuti in contesti rocaille).

La restaurazione non può quindi fare altro che accettare questo linguaggio polivalente ormai diffuso, recuperando semmai alcune iconografie classiciste (si pensi al Sacro Cuore di Batoni), ma anche dando inizio a devozioni nuove: si pensi, nel lungo e decisivo papato di Pio IX (1846-1878), alla diffusione di immaginette (con annesso ripensamento dell’intera tradizione iconografica), all’universalizzazione del culto del Sacro Cuore (1856), alla presenza sempre più massiccia di soluzioni architettoniche e figurative storiciste ed eclettiche, altro modo per ripensare il passato.

Fonti e Bibl. essenziale

Il tema è così sterminato da trovare riferimento generale nei soli repertori: Lexikon der Christlichen Ikonographie, L’iconographie de l’art crétienne del Reau, Le vie della creazione nell’iconografia cristiana di Grabar (tr. it. 1983), The iconography of Saints del Kaftal.


LEMMARIO




Assistenza - vol. I


Autore: Marina Garbellotti

Sono così numerose le opere assistenziali promosse in seno alla Chiesa da renderne impossibile in questa sede un’esposizione esaustiva; pertanto si darà spazio prevalentemente alle iniziative più significative in materia di assistenza, intesa nello specifico quale soccorso nei confronti dei bisognosi, mentre si accennerà marginalmente alle pratiche sanitarie, affrontate più dettagliatamente nella voce ‘ospedali’.

Nella Chiesa delle origini i grandi promotori dell’assistenza furono i vescovi, considerati ‘padri dei poveri’, e i monasteri. Di particolare impulso per l’attività caritativa esercitata dai monasteri fu la regola di S. Benedetto che dettava precise norme sull’ospitalità: poveri e pellegrini dovevano essere accolti con estremo riguardo, «quia in ip­sis magis Christus suscipitur». Sebbene i capitoli benedettini non abbiano incontrato un’applicazione uni­forme, il messaggio trasmesso influenzò il movimento monastico me­dioevale e la cultura della carità. Il cristiano era invitato a portare soccorso ai poveri sia per alleviarne i patimenti sia per poter riscattare i propri peccati mediante l’elemosina. Consentendo ai credenti di redimersi, l’indigente assumeva un’importante funzione sociale.

I monasteri non erano le uniche istituzioni a offrire soccorso e rifugio ai bisognosi. A partire dal XII secolo, in concomitanza con l’intensificarsi dei commerci e della mobilità, si assistette alla nascita di molti ospizi, dove pellegrini, viandanti, mercanti, soldati, potevano riprendersi dalle fatiche del viaggio e ottenere assistenza materiale e spirituale. Alcuni si dovettero all’iniziativa degli ordini ospitalieri, sorti nei secoli XII e XIII in relazione ai pellegrinaggi e alle crociate; altri furono l’espressione di quel réveil évangelique, manifestatosi tra la fine del secolo XI e i primi decenni del secolo XIII, che si tradusse nella proliferazione di associazioni confraternali dedite alla cura delle frange più misere della popolazione. Intervenendo in un settore della società pressoché scoperto, l’azione di questi sodalizi permise alla Chiesa di irrobustire la propria funzione, guadagnando una posizione significativa e altra rispetto a quella della cura delle anime. Nel corso del Trecento, e con modalità più marcate nel Quattrocento, tale presenza nel campo assistenziale iniziò a risultare ingombrante agli occhi delle autorità civili, gradualmente orientate a intervenire e a controllare i vari ambiti della società; le associazioni caritative e le loro concrete pratiche di soccorso finirono per essere considerate strumenti irrinunciabili alle politiche sociali di contenimento della miseria.

L’attività delle confraternite fu fortemente influenzata anche dalle proposte pastorali degli Ordini mendicanti, la cui presenza divenne capillare a partire dal secolo XIII. Pur non fondando direttamente istituti assistenziali, queste congregazioni furono determinanti nel promuoverne. Un esempio di questa influenza è la diretta partecipazione dei Minori Osservanti alla creazione dei Monti di pietà e dei Monti frumentari. Grazie alla predicazione dei frati, dalla seconda metà Quattrocento, i Monti sorsero in diversi centri e località con il duplice fine di aiutare i poveri, accordando loro prestiti in denaro o di grano, e di opporsi all’usura in chiave antiebraica: la lotta contro i tassi di interesse mirava, infatti, a ridurre la fiorente pratica feneratizia esercitata dai banchieri ebrei. Come è noto, però, progressivamente i Monti di Pietà snaturarono la valenza caritativa che ne aveva connotato la nascita e iniziarono a concedere prestiti su pegno dietro la corresponsione di un interesse, giustificato dalla spese gestionali, e a selezionare la clientela escludendo dal circuito creditizio le persone più indigenti.

Nel corso del Quattrocento cominciò a manifestarsi verso il povero un atteggiamento che condizionò profondamente il concetto di assistenza e i suoi destinatari. Accanto all’immagine tradizionale del povero, degno di carità e di aiuto, perché raffigurazione terrena delle sofferenze di Cristo, si profilò quella dell’indigente ozioso, misero perché ostile al lavoro e incline a comportamenti devianti. Divenne evidente che non tutti meritavano la carità. Essa doveva essere riservata solo ai veri indigenti, cioè a quanti erano inabili al lavoro per ragioni di età, per menomazioni fisiche o infermità; al contrario, i poveri abili, quindi in grado di procurarsi il sostentamento, erano esclusi dall’assistenza e soggetti a provvedimenti di espulsione.

La figura del mendicante ozioso, condannata tanto dalle autorità civili quanto da quelle ecclesiastiche, non fu un’invenzione di quest’epoca, essa affondava le sue radici nella patristica. Sin dalle origini il cristianesimo offrì una visione positiva del lavoro che, rimasta a lungo latente, aveva riacquistato vigore a partire dal XII secolo, quando all’ammirazione della vita contemplativa si era affiancato l’apprezzamento della vita operativa. Soprattutto i testi dell’apostolo Paolo – si pensi alla nota espressione contenuta nella lettera ai Tessalonicesi: «si quis non vult operari nec manducet […]» – furono ripresi per giustificare la necessità dell’uomo di lavorare. La progressiva valorizzazione della vita attiva non fu l’unico fattore a determinare la diversa visione del povero. A questo cambiamento culturale contribuì il preoccupante aumento del numero degli indigenti, registratosi tra i secoli XV e XVI e provocato, in estrema sintesi, da una serie concomitante di fattori, quali l’espansione demografica, il ristagno economico e il susseguirsi di carestie ed epidemie.

Di fronte al crescente fenomeno del pauperismo le autorità civili in collaborazione con quelle ecclesiastiche riorganizzarono il sistema assistenziale con l’intento di renderlo più efficiente e razionale: i piccoli ospizi medievali polifunzionali furono sostituiti da enti possibilmente specializzati nella cura di infermi e nell’assistenza di diverse categorie di indigenti. La mappa degli istituti assistenziali si arricchì di ospedali, intesi quali embrionali luoghi di cura, di brefotrofi, di istituti per l’educazione dei giovani, di Conservatori per la tutela delle fanciulle bisognose, e di alberghi per i mendicanti, presso i quali il soccorso materiale si intrecciava all’educazione e all’imposizione di precisi modelli di comportamento.

Con la riforma ospedaliera avvenuta alle soglie dell’età moderna le autorità civili conclusero il graduale processo avviato nel XIV secolo per amministrare i diversi ambiti della società e presero ad occuparsi in modo deciso dell’assistenza, assorbendo nella propria sfera di competenza gli istituti caritativi, compresi quelli amministrati dalle confraternite. Questo intervento, tuttavia, non comportò l’abbandono delle attività caritative da parte delle istituzioni religiose, che continuarono a fornire un contributo sostanziale. L’assistenza spirituale offerta dai religiosi rimase un servizio centrale all’interno degli ospedali anche in quelli gestiti da laici; i monasteri non rinunciarono a donare elemosine e a ospitare in strutture attigue mogli con problemi coniugali (malmaritate), prostitute pentite, donne compromesse nell’onore per aiutarle a recuperare la reputazione mediante un periodo di ritiro e di pentimento. Se infatti, come ebbe a chiarire tra gli altri l’arcivescovo di Firenze, Antonino Pierozzi (1389- 1459), la verginità corporale, indipendentemente dalle modalità con cui era stata compromessa, non poteva essere recuperata, era possibile riacquistare la verginità morale attraverso un periodo di vera penitenza. I luoghi deputati a tale scopo non avevano una significativa capacità ricettiva, essi però rivestivano un’importante funzione simbolica. La loro esistenza, infatti, testimoniava e ribadiva l’importanza del controllo sociale sul corpo femminile, nonché la necessità di tutelare la reputazione delle donne che doveva essere riscattata se macchiata.

Le confraternite proseguirono la loro opera assistenziale, per un verso soccorrendo altre tipologie di bisognosi quali i condannati a morte, i poveri cosiddetti vergognosi, cioè persone declassate socialmente, i poveri laboriosi, e le ragazze sprovviste di dote; per l’altro, conformandosi ai principi caritativi dominanti, regolarono l’elargizione degli aiuti secondo criteri selettivi. Tendenzialmente, infatti, i sussidi erano destinati ai poveri meritevoli (bambini, fanciulli, fanciulle, vedove, infermi, anziani), e ad adulti abili lavoro, purché questi potessero dimostrare di essere privi di un mestiere per ragioni indipendenti dalla loro volontà, di essere cittadini o residenti da molti anni, e di aver esercitato un lavoro. In sostanza, la carità era concessa a quanti rispettavano i valori costitutivi della società, riassumibili nel rispetto dell’etica del lavoro e dell’onore, o avevano contribuito alla crescita economica della stessa.

Mentre nel corso del Cinquecento le autorità civili rafforzarono gli interventi sulle strutture assistenziali riconducendole nella propria sfera di competenza, nuovi ordini religiosi si affacciarono sulla scena sociale potenziando le attività caritative. Alcuni si caratterizzarono per una spiccata vocazione assistenziale sanitaria, quali i Camilliani, i Fatebenefratelli, i Teatini (cfr. voce ospedali), pur non rinunciando ad altre forme di sostegno. I Teatini, ad esempio, conferirono ampio spazio al conforto dei condannati a morte; altri, quali i Gesuiti, i Barnabiti, i Somaschi, gli Oratoriani o Filippini, gli Scolopi, individuarono nel campo educativo il terreno primario della loro attività rivolgendosi a bambini e a giovani di diversa provenienza sociale. In particolare nei confronti dei molti fanciulli di umili condizioni, abbandonati a se stessi e inclini a comportamenti devianti, l’educazione divenne un importante strumento di disciplina. A tale scopo furono create strutture che all’aiuto materiale univano la persuasione ai costumi cristiani e l’attitudine al lavoro: gli orfanotrofi aperti negli anni Trenta del Cinquecento in varie città della Repubblica di Venezia, del Ducato di Milano e a Roma da Girolamo Miani, fondatore dei Somaschi, si orientarono in questa direzione.

Le mansioni educative assorbirono l’impegno anche di molte congregazioni femminili. Se sino ai primi decenni del Cinquecento l’accesso delle donne alla cultura era numericamente ristretto e avveniva prevalentemente in casa o presso i monasteri, dagli anni Trenta del secolo si possono cogliere elementi innovativi testimoniati dalla nascita di compagnie femminili, collegi e conservatori dediti all’insegnamento dei principi religiosi e dei primi rudimenti di lettura e scrittura. Rilevante in questo campo fu l’opera della Compagnia di Sant’Orsola, fondata nel 1535 a Brescia da Angela Merici. Inizialmente coadiutrici dei parroci nella catechesi, nella seconda metà del Cinquecento le Orsoline si qualificarono come maestre emergendo nel settore dell’istruzione primaria e di quella superiore fondando collegi con educandato interno e scuola esterna. Benché l’azione delle religiose risulti più circoscritta rispetto a quella messa in atto dai religiosi, a motivo dell’obbligo della clausura imposto a molte di loro, essa non si esauriva nell’insegnamento. La riabilitazione delle ex prostitute, l’assistenza degli ammalati a domicilio e negli ospedali, l’aiuto prestato alle giovani e ai poveri, completano il ventaglio dei loro interventi. Le Figlie della carità, sorte a Parigi nel 1633 per volontà di Vincenzo de’ Paoli grazie alla collaborazione di Luisa de Marillac, costituiscono l’esempio forse più illuminante appunto per l’ampio spettro delle forme assistenziali esercitate.

Lungo tutta l’età moderna le autorità di governo tentarono di ridurre il numero dei mendicanti ricorrendo principalmente a due provvedimenti: l’uno consisteva nel disciplinare la questua, concedendo esclusivamente ai veri poveri la licenza di mendicità e bandendo quelli abili al lavoro; l’altro si proponeva di confinare i questuanti in istituti chiamati alberghi per i poveri, nei quali erano allestiti laboratori per obbligare gli indigenti al lavoro. Fu Bologna la prima città a fondare nel 1563 un istituto per mendicanti, i cui statuti servirono da modello ad altri centri urbani della penisola. Nel corso della seconda metà del Cinquecento l’iniziativa fu seguita da Cremona, Milano, Torino, Roma, Vicenza, Verona, Modena, Venezia, Padova, e nel Seicento da Firenze, Genova, Napoli. Una legittimazione ideologica al consolidamento di tali metodiche repressive contro la mendicità fu fornita dai Gesuiti, che divulgarono opuscoli sull’efficacia della segregazione e parteciparono attivamente all’elaborazione di programmi di reclusione. Le competenze dei gesuiti Honoré Chaurand e André Guevarre, distintisi per aver collaborato attivamente alle misure per reprimere la mendicità attuate dal re di Francia Luigi XIV, non tardarono a trovare apprezzamento anche nella penisola italiana. Papa Innocenzo XII, intenzionato ad elaborare un piano per arginare il fenomeno della mendicità, li chiamò a Roma per una consulenza. Toccò poi a Vittorio Amedeo II servirsi delle conoscenze tecniche di padre Guevarre per promuovere la reclusione dei mendicanti a Torino e in altre città sabaude e piemontesi. A Modena, per «piantare» l’ospedale dei mendicanti giunse nel 1695 il gesuita fiorentino Giovanni Maria Baldigiani. In questo contesto si colloca l’iniziativa promossa da don Filippo Franci, un sacerdote legato alla Congregazione dell’Oratorio di San Filippo Neri, il quale nel 1653 fondò a Firenze un istituto conosciuto come Quarconia per accogliere e per istruire al lavoro fanciulli abbandonati. Al suo interno fu anche organizzato un carcere per recludervi giovani ribelli all’autorità familiare, garzoni indisciplinati e borsaioli. Diversamente da altri luoghi detentivi, il carcere della Quarconia, secondo il modello conventuale, era costruito a celle singole, atte a consentire al fanciullo un’isolata riflessione spirituale via obbligata per giungere al pentimento.

Occorrerà attendere il secolo successivo perché una voce altrettanto autorevole si levi a favore di provvedimenti alternativi a quelli reclusori. Pur non negandone l’utilità, il sacerdote e storico Ludovico Antonio Muratori insistette sulla necessità di trovare opportunità lavorative per gli indigenti, compito al quale avrebbe dovuto attendere la Compagnia di Carità, un’associazione da istituire in ogni parrocchia in luogo delle tradizionali confraternite. Oltre ad assorbire le opere assistenziali praticate da tali sodalizi, la Compagnia di Carità avrebbe dovuto promuovere attività produttive per avviare i poveri al lavoro. Il progetto muratoriano non incontrò largo consenso, ma la proposta fu comunque di grande importanza per l’apporto al secolare dibattito sulla ineluttabilità delle diseguaglianze sociali. Indicando misure concrete per rimuoverle, egli rifiutava la passiva accettazione dei bisognosi discostandosi dalle posizioni ecclesiastiche più tradizionaliste. La questione, non certo nuova, fu oggetto di ampie discussione nel corso del Settecento. Secondo gli illuministi, infatti, la Chiesa contribuiva a mantenere lo stato di precarietà dei marginali inserendo la divisione tra ricchi e poveri nel disegno provvidenziale.

Il tema della predeterminazione dei poveri e della loro utilità a quanti desideravano salvarsi l’anima mediante l’elemosina assunse toni più decisi nell’Ottocento. Nonostante non mancassero istanze di segno opposto, prevalse una posizione conservatrice che associava l’eliminazione dell’indigenza all’assunzione di atteggiamenti eversivi. Espressione di questa ideologia fu l’enciclica Nostis et nobiscum emanata nel 1849 da papa Pio IX. Pur ribadendo la necessità da parte della Chiesa di aiutare i più deboli, in essa si afferma che l’esistenza dei poveri appartiene «all’ordine naturale e immutabile delle cose» e che non è dato «agli uomini di stabilire nuove società e delle comunità opposte alla condizione naturale delle cose umane».

Per quanto concerne le pratiche assistenziali, nella prima dell’Ottocento esse si espressero secondo modalità tradizionali a conferma del ritardo con cui in Italia si realizzò lo Stato sociale. Nonostante durante la Restaurazione i governi approvarono misure repressive nei confronti delle famiglie religiose essenzialmente allo scopo di incamerarne i consistenti beni, esse riuscirono a proseguire l’opera avviata nei secoli precedenti, anzi alcune ampliarono il raggio di azione dedicandosi all’attività missionaria in altri continenti. È opportuno precisare che le soppressioni attuate dalle autorità di governo colpirono prevalentemente gli ordini contemplativi, giudicati poco utili, e non quelli dediti all’assistenza e all’istruzione della popolazione considerati socialmente importanti.

Tratto distintivo del secolo fu la straordinaria fioritura di congregazioni religiose femminili, che si affiancarono a quelle più antiche. Per queste famiglie l’educazione femminile, seppure con modalità innovative, continuò a costituire un impegno prioritario. Del resto, fu proprio nel periodo della Restaurazione che in molti paesi europei si avvertì la necessità di istruire le fanciulle di umili condizioni. Il ruolo assegnato dalla società alla donna prevedeva la sua completa dedizione alla famiglia rendendo il lavoro di insegnante incompatibile con quello di moglie e di madre. Per questa ragione le nubili, e meglio ancora, le religiose per i valori che le animavano, formavano il corpo insegnante ideale. Tra le congregazioni religiose impegnate nell’ambito educativo si possono annoverare le Figlie della Carità, ovvero le canossiane, le Figlie della Santa Fede, le Maestre di Santa Dorotea, le Suore della Provvidenza. Un forte impegno in ambito educativo fu tenacemente perseguito anche dalle contemporanee famiglie religiose maschili, basti pensare all’opera svolta dall’Istituto della carità, meglio noto come rosminiani dal nome del fondatore, e dalla congregazione dei Salesiani. Per ottenere l’approvazione della Santa Sede, almeno sino al 1860 e con eccezioni per gli asili e gli orfanotrofi, gli istituti educativi erano distinti per genere. La co-educazione, infatti, sollevava riprovazioni di natura etica e non si adattava ai programmi scolastici, elaborati con finalità educative e formative differenti per fanciulli e fanciulle in linea con quanto avveniva nelle istituzionali scolastiche laiche.

Molte congregazioni femminili privilegiarono l’assistenza a domicilio e prestarono servizio in ospedale svolgendo molteplici funzioni dall’aiuto nei reparti al servizio in cucina. Portarono il loro soccorso negli ospedali le Suore di Carità, dette di Maria Bambina, occupate anche nell’istruzione delle fanciulle e nell’assistenza agli orfani, e le Figlie di Carità. Come accennato, questa congregazione si qualificava per un’articolata opera caritativa conferendo concretezza al quarto voto che emettevano, cioè il “servizio dei poveri”. Le regole delle Figlie di Carità furono prese a modello da parecchie congregazioni femminili che ne mutuarono le finalità, come le Suore di carità dell’Immacolata concezione fondate da Maria Antonia Verna agli inizi dell’Ottocento per assistere gli ammalati a domicilio. Dagli anni Trenta del secolo, la presenza delle religiose e dei religiosi divenne una costante negli orfanotrofi e nei conservatori, trasformando questi istituti in case religiose, nelle quali, secondo un modello secolare, l’accudimento dei giovani e delle giovani ospiti – effettuato con metodi anche assai severi – si fondeva con l’educazione alla fede e con l’insegnamento di un mestiere, nell’intento di formare adulti devoti e preparati a ricoprire i ruoli di genere assegnati dalla società.

Fonti e Bibl. essenziale

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LEMMARIO




Ateismo - vol. I


Autore: Paolo Siniscalco

Nei primi secoli dell’era cristiana nell’Impero romano i cristiani furono accusati di essere ‘atei’. Occorre dire che il termine ‘ateo’ non indica qui, in senso moderno, chi nega l’esistenza di Dio, ma chi non riconosce le divinità imperiali romane e si rifiuta di prestarvi culto. Nell’Apologeticum (10, 1), scritto di uno dei più antichi scrittori cristiani di lingua latina, Tertulliano, risalente alla fine del II secolo d. C., si legge: «Voi [pagani] dite [a noi cristiani] di non prestare onore agli dèi e di non offrire sacrifici per gli imperatori. Perciò siamo processati come rei di sacrilegio e di lesa maestà» («sacrilegii et maiestatis rei convenimur»). Questa è l’accusa più rilevante, anzi tutta l’accusa».

Dalle parole dell’apologeta, e da altre scritte nella lunga esposizione dell’opera dedicata a respingere le argomentazioni pagane, si discerne quali incriminazioni fossero rivolte ai cristiani: si trattava del crimen laesae romanae religionis, ossia di una trasgressione volutamente compiuta contro la religione romana, gli usi, le credenze comunemente accettate. Nel diritto romano con il termine crimen si indicava un delitto di particolare gravità. Occorre osservare che, come già aveva messo in luce Teodoro Mommsen, la religione di Roma altro non era che il riflesso ideale del sentimento popolare. Perciò l’ordine della civitas esigeva dal cittadino l’adesione alla fede tradizionale e un comportamento corrispondente a questa fede; allo stesso modo anche il potere punitivo riguardava la medesima sfera. Non si tollerava quindi che fossero trasgrediti i principi propri del costume sociale e civile e anche le pratiche religiose. Perché, come già nelle civiltà antiche, anche in quella romana, pur avendo i sacerdoti un ruolo distinto dai magistrati, la sfera civile e politica era strettamente legata alla sfera religiosa. Separare le due sfere era ritenuto un attentato alla coesione della società, un grave frattura recata al tessuto della convivenza.

Di qui nasceva l’accusa di ateismo e di empietà. A questa si aggiungeva poi un’altra accusa, non meno grave: i cristiani, con il loro comportamento sarebbero caduti nel crimen imminutae maiestatis, ossia non avrebbero riconosciuto la grandezza del popolo romano che nei primi secoli della nostra epoca era rappresentata dalla statua della Vittoria che Augusto aveva voluto fosse posta nell’aula del Senato per celebrare la vittoria di Azio. Ora, uno degli atti più significativi del culto tradizionale consisteva nell’offerta di incenso a quell’immagine e a quella della Dea Roma, secondo formule e riti minuziosamente indicati. Non era richiesta un’adesione interiore, purché che non fossero respinte le formalità ufficiali. In proposito ancora Tertulliano risulta essere un testimone prezioso. Egli osserva che alcuni [evidentemente tra i pagani] ritenevano una follia [dementia] il comportamento dei cristiani: infatti compiendo l’atto prescritto avrebbero potuto andarsene sani e salvi, conservando nel loro animo la propria convinzione. Ma essi non volevano valersi di un inganno.

Vi era un motivo per cui non acconsentivano a sacrificare, giacché non reputavano che esistessero le divinità pagane. Il rifiuto era dettato dalla fedeltà alla loro coscienza [pro fide conscientiae nostrae] (cf. Apologeticum 27, 11-3). Il confronto e lo scontro ponevano in luce le ragioni profonde del contrasto che avevano origine da due visioni della religione e dell’uomo profondamente diverse. Da una parte non pareva esserci spazio per quella che potremmo definire una visione soggettiva del giudizio morale; prevaleva la considerazione che non si poteva rinnegare un norma o una tradizione ricevuta dagli avi, la cui osservanza era ritenuta necessaria per la vita stessa della civitas. Ne risultava un comportamento intollerabile che si doveva sanare penalmente. Dall’altra parte si veniva affermando in modo più perentorio e diffuso l’autonomia della coscienza. Per il cristiano la discriminante passava tra il riconoscere l’autorità e l’obbedire ai dettami di Dio, che, per fede, riteneva si fosse rivelato all’uomo. In tal modo non si sottometteva agli obblighi imposti da una società politeistica e non voleva riconoscere nell’imperatore una creatura assolutizzata e quindi non voleva giurare per il suo ‘genio’, ma voleva piuttosto pregare il Dio vero per la sua salvezza (pro salute imperatorum Deum invocamus aeternum, Deum verum, Deum vivum [Apol. 30, 1]) (si vedano sull’argomento, tra le altre testimonianze patristiche: Minucio Felice, Oct. 8, 2; 8, 15 ss. Aristide 4; Atenagora 3. 4. 5. 10; Clemente di Alessandria, Strom. VII, 1, 1, 4; Lattanzio, Epit. 63; Id., De ira Dei 9; Arnobio I, 29; 3, 28; 5, 30; 6, 27). La capitale dell’Impero, Roma era il punto nevralgico in cui di concentravano i rappresentanti più autorevoli delle due parti. Ivi avviene il martirio di Pietro e di Paolo; nel II secolo il martirio di Giustino e più tardi di non pochi vescovi della sede romana: essa assume insomma, fin dall’inizio un ruolo fondamentale.

Fonti e Bibl. essenziale

C. Callewaert, Les prèmiers chrétiens et l’accusation de lèse-majesté, in Rev. des Questions Historiques 76 (1904), 5-28; A. von Harnack, Der Vorwurf des Atheismus in den ersten Jahrhunderten, T.U. 28, N.F. 13/4, Leipzig 1905; Brasiello, Novissimo Digesto Italiano, V, UTET, Torino 1960, 1 ss.; W. Nestle, in Reallexikon für Antike und Christentum, I, Hiersemann Verlags, Stuttgart 1950, coll. 869-870, s.v. Atheismus; P. Siniscalco, Il cammino di Cristo nell’Impero romano, 2013, Laterza, Roma-Bari, 66-73; P.F. Beatrice, in NDPAC vol., I, Marietti, Genova-Milano, 637-640, s.v. Ateismo.


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