Associazione Italiana dei Professori di Storia della Chiesa

Dizionario Storico Tematico La Chiesa in Italia
Dopo l'Unità Nazionale
Roma 2015
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Missioni estere - vol. II


Autore: Angelo Manfredi

Con questa espressione si intende l’impegno di personale originario della penisola italiana, e radicato nelle chiese che la strutturano, per la missione verso popoli non cristiani esterni alla penisola stessa, che come tale si cristianizza nei secoli del tardo impero. Quindi escluderemo il fenomeno del passaggio al cristianesimo nella sua forma romana dei Longobardi che occupano i gangli vitali di gran parte dell’Italia attuale.

Per ciò che riguarda il I millennio cristiano, si può brevemente rammentare l’apporto della chiesa aquileiese e delle realtà ad essa collegate per la diffusione del cristianesimo verso le popolazioni slave dell’attuale Carinzia, Slovenia e Croazia, e la figura di Gerardo, veneziano e vescovo di Czanad tra gli ungari, al tempo del re Vajk-Stefano. Gerardo fu martirizzato nel 1046 in occasione di una reazione pagana. Tuttavia gran parte delle stirpi germaniche, slave e di altre origini e culture videro l’impegno missionario di clero proveniente più dalle realtà statuali franche o da Bisanzio, mentre le chiese più propriamente italiche sembrano meno coinvolte.

Qui si evoca soltanto l’apporto dei membri italiani degli ordini mendicanti ai tentativi di evangelizzazione rivolti alle popolazioni musulmane del nord-Africa, del vicino Oriente, o alle orde ancora sciamaniche dell’Asia Centrale, nei secoli XII-XV: basti ricordare la figura del francescano Giovanni da Montecorvino che fu dal 1307 arcivescovo di Khanbaliq (Pechino), e del domenicano Tommaso Mancasole da Piacenza che fu vescovo di Samarkand nello stesso periodo.

Con la cosiddetta scoperta del nuovo mondo, lo sviluppo della navigazione e del commercio intercontinentale e i primi fenomeni di colonizzazione, spesso com’è noto collegati con l’evangelizzazione, si aprono prospettive di investimento di personale italiano, appartenente a ordini più antichi o più recenti che si dedicano anche alla missione ad gentes. Sono ben noti i nomi di Matteo Ricci (Macerata 1552 – Pechino 1610) e di Roberto De’ Nobili (Roma 1577 – Meliapur 1656), gesuiti, pionieri dei metodi di adattamento rispettivamente in Cina e in India. Forse meno noto, ma di reale importanza storica è Alessandro Valignano (Chieti 1538 – Macao 1606), missionario in Giappone e visitatore delle missioni d’oriente, sempre della Compagnia di Gesù. Ricordiamo pure Nicolò Mascardi di Sarzana S.J. (1624-1674) missionario ed esploratore in Cile. Nei territori soggetti al patronato della corona di Spagna, ossia in gran parte dell’America Latina, come nei territori più direttamente collegati al Portogallo, quali Brasile, Goa, Macao, le congregazioni impegnate nella diffusione del cristianesimo reclutavano personale esclusivamente d’origine spagnola, e rispettivamente lusitana, escludendo perfino, a quanto ne sappiamo, i territori italiani soggetti al monarca iberico. Fanno eccezione, oltre ai gesuiti, i cappuccini, direttamente alle dipendenze della congregazione romana di Propaganda Fide, e presenti in Congo nei secoli XVII e XVIII, e in Pernambuco (Brasile) dal 1699. Il governo portoghese soppresse nel 1834 gli ordini religiosi anche in quell’area, facendo venir meno la presenza cappuccina italiana. Invece è una pagina in gran parte da esplorare coi metodi moderni la presenza di italiani francescani, domenicani e di altri ordini nel mondo legato all’impero ottomano, tra i secoli XVI e XIX: Bosnia, Turchia, Terrasanta, dove alcuni raggiunsero anche responsabilità prelatizie o svolsero compiti diplomatici o culturali di alto livello. Questa missione, oltre ai rapporti col mondo musulmano, creava relazioni con i cristiani orientali, separati o uniti a Roma, rapporti spesso delicati. In oriente abbiamo pure i cappuccini italiani in Tibet e Nepal (1703-1803) e i carmelitani scalzi italiani presenti nel XVIII e inizio XIX secolo a Verapoly (ora Ernakulam, in Kerala, India sud-occidentale; diviso in tre vicariati nel 1845) e a Bombay sulla costa centro-occidentale: Ferdinando Fortini sarà l’ultimo vicario italiano a Bombay (1840-1848), ove poi saranno presenti soprattutto vicari francesi; i carmelitani scalzi ebbero una missione anche a Isphahan in Persia (1607-1797) con un certo irradiamento nel golfo Persico.

Come si può notare da quanto finora elencato, il secolo XVIII portò a un regresso dell’opera di propagazione della fede oltremare, a seguito delle soppressioni dei gesuiti e poi napoleoniche e della crisi di reclutamento negli ordini religiosi europei.

Con la restaurazione e il ripristino della congregazione romana di Propaganda Fide anche le chiese della penisola italiana furono coinvolte nel movimento missionario, che si può definire ormai verso le “missioni estere”, e che assume forme e modalità innovative. Ci limiteremo qui al periodo precedente al 1870, con connessioni che porteranno com’è ovvio alla seconda parte della voce.

Le province francescane e cappuccine, appena fu possibile, ripresero l’invio di personale in terre di missione: diversi vicariati furono assegnati o ripristinati a favore dei minori in Cina (lo Shanxi e lo Shaanxi sono presidiati dai francescani con continuità dalla fine del XVII sec.; lo Hukwang dal 1836, diviso nel 1856 in due vicariati, Hunan e Hubei; lo Shandong dal 1837); la provincia di Aracoeli (Roma) inviava missionari nel 1857 tra gli indios dell’Argentina del nord; cappuccini italiani sono presenti tra gli Araucani del Cile (1848-1888); dodici francescani italiani cacciati dal Messico nel 1835 si dedicarono alla Bolivia. Un alone di mito circonda il cappuccino Guglielmo Massaia (Piovà/AT 1809 – S. Giorgio a Cremano/NA 1889, cardinale dal 1884), vicario apostolico dal 1841 nel centro-sud dell’Etiopia, tra gli Oromo (o Galla), esploratore e scrittore popolare.

Anche i gesuiti, restaurati in Italia nel 1814, nonostante le minacce e poi la crisi di una seconda soppressione, dedicarono parte del personale alla missione. La provincia romana nel 1863 inviò in Brasile, nello stesso periodo la provincia torinese era presente tra i nativi in California, Oregon e Montagne Rocciose (più tardi anche in Alaska); la provincia siciliana in Honduras e, con qualche elemento, in Australia.

I Vincenziani o Lazzaristi sono presenze singolari in teatri particolarmente dislocati: Luigi Montuori (Avellino 1798 – Napoli 1857) e Girolamo Serao (o Serrao) a Khartoum in Sudan (1834-1846); Vincenzo Spaccapietra (Francavilla 1801 – Smirne 1878) fu arcivescovo di Port of Spain nelle Antille (1855-1859) e poi a Smirne (1862-1878); il nome più noto è quello di S. Giustino De Jacobis (1800-1860), in Etiopia come vicario dal 1839 al 1860. La missione sudanese fu quella più critica, mentre la difficile presenza in Etiopia fu proseguita da vincenziani francesi.

Citiamo poi l’alternarsi di italiani in Birmania (ora chiamato Myanmar): dapprima i barnabiti dal 1722 al 1837, con un vicariato apostolico e alcuni padri per i meticci birmano-portoghesi cristianizzati; dopo una breve successione degli scolopi, dal 1837 tentarono gli oblati di Maria Vergine “di Torino”, fondati da Pio Brunone Lanteri, fino al 1862, sostituiti poi dai francesi delle “Missions étrangères”.

In Australia, sembra che il primo tentativo di approccio verso i nativi (1842-46) fu di quattro passionisti nell’isola di Dunwich (North Stradbroke Island, Queensland, davanti alla città di Brisbane).

Come si può notare, molti di questi invii ebbero breve durata e lasciarono frequentemente il posto a missionari francesi. Questo dipese certamente dalle vicende che portarono a una seconda ondata di soppressioni, prima con le leggi piemontesi e poi con quelle del 1866-67 sull’asse ecclesiastico, mentre l’impero di Napoleone III e poi la Terza repubblica fino almeno al 1905 appoggiavano le missioni. Ma in Italia il movimento popolare missionario, vera novità del secolo XIX, pur essendo diffuso abbastanza precocemente (1824 Piemonte, 1825 Sardegna, 1835 tutti gli altri stati) non aveva la stessa forza economica. Infine una realtà antica e consolidata come le “Missions étrangères” non aveva ancora un vero corrispettivo nella penisola.

Su questo modello, cioé di sacerdoti secolari dedicati alla missione, in Italia si stavano formando alcuni istituti: anzitutto l’Istituto Missioni Estere di Milano (S. Calogero) dal 1850, con missioni nelle Isole Salomone (1852-1858: nel 1855 vi morì martire il b. Giovanni Mazzucconi), ad Hyderabab e in Bengala, India (1855), in Borneo (1855-1860), in Colombia (1856-1942), a Hong Kong (dal 1858), in Cina (Henan 1870), e tra i “tribali” in Birmania (dal 1870); e a Genova il Collegio Brignole-Sale-Negrone dal 1855. Dal 1835 esiste la Società Missionaria dell’Apostolato Cattolico fondata a Roma da Vincenzo Pallotti, che però avrà missioni dal 1870 in avanti.

Intanto in varie città italiane stavano giungendo i “negretti” e le “negrette”, piccoli schiavi riscattati e portati in Italia per essere educati al cattolicesimo (Genova, con don Nicolò Olivieri; Napoli, col p. Ludovico da Casoria OFM; Verona, con don Nicola Mazza). Dalla vivace realtà ecclesiale di Verona, in cui l’ideale missionario è diffuso da don Mazza, parte nel 1857 un gruppo di sacerdoti, che accompagnano un nuovo vicario apostolico dell’Africa centrale, l’austriaco I. Knoblecher, dopo il ritiro del vincenziano Montuori da Khartoum. Di questo gruppo fa parte Daniele Comboni. I superstiti della spedizione, decimata dalle malattie, ritornano in Europa nel 1862. Comboni, dopo questa prima esperienza fallimentare, elabora nel 1864 il “Piano per la rigenerazione dell’Africa”, dai forti contenuti innovativi e antischiavisti. Il seguito della sua avventura missionaria si colloca dopo il concilio Vaticano I, a cui Comboni partecipa attivamente.

Tra le prime religiose dedite alla missione ci saranno le Canossiane, anch’esse originarie di Verona, a Hong Kong dal 1860. Nell’Italia della prima metà dell’ottocento inizia lentamente a maturare la possibilità di una presenza femminile nelle missioni. Tra i vari esempi si può citare l’itinerario originale delle Francescane Missionarie d’Egitto, sorte da un monastero di vita contemplativa di Ferentino nella Ciociaria ma presto (1859) lanciate dalla fondatrice, suor Maria Caterina Troiani (Giuliano Romano 1813 – Cairo 1887), nell’impegno educativo presso i musulmani.

Un rapido sguardo al movimento missionario italiano del primo ottocento evidenzia un certo fermento di persone e opere, slegato da mire egemoniche e coloniali come quelle francesi, a cui anche Propaganda Fide intendeva limitare il monopolio, ma fondato sui tradizionali ordini religiosi, con le fragilità che emergono nei momenti di crisi europea, con la frammentazione tipica di queste organizzazioni e dell’Italia del tempo, e con un embrione di diffusione popolare, non ancora sostenuta da congregazioni interamente missionarie. In questo senso, la vicina Francia resta all’avanguardia ed è modello di quelle nuove realtà che lentamente vanno delineandosi.

A questo apporto di forze di evangelizzazione sul campo l’Italia però aggiunge i prelati dedicati alla congregazione romana di Propaganda Fide, spesso personalità acute e preparate, anche se prive di esperienza diretta in missione, comunque sensibili a nuovi orizzonti. Citiamo Stefano Borgia (1731-1804) segretario e poi prefetto, estensore di relazioni in cui si postulava la formazione di clero indigeno, Mauro Cappellari (Belluno 1765 – Roma 1846), prefetto nel 1825-1830 poi papa Gregorio XVI, Giacomo Filippo Fransoni (prefetto da 1834 al 1856), Alessandro Barnabò (prefetto dal 1856 al 1874).

Presto la diffusione dei testi di René de Chateaubriand, della traduzione delle Lettres édifiantes et curieuses (Milano 1825-1829), delle traduzioni degli Annali della Propagazione della Fede e delle relazioni di Massaia (1885-1895, 12 volumi editi a Roma e Milano) apriranno all’opinione pubblica popolare una più intensa sensibilità verso la missione “oltremare”.

Fonti e Bibl. essenziale

G. Battelli, Daniel Comboni et son “image” de l’Afrique, in Eglise et histoire de l’Eglise en Afrique. Actes du colloque de Bologne (22-25 octobre 1988), a cura di G. Ruggieri, Paris (Beauchesne) 1988, 63-87; Dalle missioni alle chiese locali (1846-1965), a cura di J. Metzler, (Storia della Chiesa “Fliche-Martin”, 24), Cinisello Balsamo (Ed. Paoline) 1990; P. Gheddo, PIME: 150 anni di missione (1850-2000), Bologna (EMI) 2000; Histoire universelle des missions catholiques. 3: les missions contemporaines (1800-1957), a cura di S. Delacroix, Paris (Grund) 1958; J. Leflon, Crisi rivoluzionaria e liberale. II: restaurazione e crisi liberale (1815-1846), (Storia della Chiesa “Fliche-Martin”, 20/2), Torino (SAIE) 1975, 893-944; G. Martina, Pio IX (1851-1866), Roma (Editrice Univ. Gregoriana) 1986, 357-424; G. Martina, Storia della Compagnia di Gesù in Italia (1814-1983), Brescia (Morcelliana) 2003, 121-124. 137; G. Romanato, L’Africa nera fra cristianesimo e islam. L’esperienza di Daniele Comboni (1831-1881), Milano (Corbaccio) 2003; J. Schmidlin, Manuale di storia delle missioni cattoliche. III: le missioni nell’epoca contemporanea, Milano (Pontificio Istituto Missioni Estere) 1929; G.B. Tragella, Le Missioni Estere di Milano nel quadro degli avvenimenti contemporanei, 3 volumi, Milano (Pontificio Istituto Missioni Estere) 1950-1963; Dizionario degli Istituti di Perfezione: Cappuccini, 2, 230-233; 247-249 (Melchiorre da Pobladura); Carmelitani scalzi, 2, 570-580 (V. Macca); Congregazione della Missione, 2, 1543-1551 (L. Chierotti, quasi senza notizie sulle missioni); Figlie della Carità Canossiane, 3, 1534 (A. Serafini); Francescane Missionarie del Cuore Immacolato di Maria dette d’Egitto, 4, 337-338 (E. Frascadore); Frati minori simpliciter dicti, 4, 873-895 (E. Frascadore, P. Péano); Oblati di Maria Vergine, 6, 634-637 (P. Calliari).


LEMMARIO




Missioni interne - vol. II


Autore: Angelo G. Dibisceglia

Nella seconda metà dell’Ottocento, all’interno dell’universalità cristiana contraddistinta dall’azione della Congregazione di Propaganda Fide e dall’Opera per la Propagazione della Fede – con l’articolato e variegato costituirsi di Chiese locali nei diversi continenti e il passaggio da un’accezione di evangelizzazione intesa a senso unico con baricentro Roma a un concetto di incontro mirato, tra l’altro, anche allo scambio con le altre Chiese – un inedito significato di “missione” impegnò la realtà ecclesiale in Italia. Ciò avvenne a più livelli, affiancando alla tradizionale proiezione verso l’“esterno”, l’inedita accezione di un movimento rivolto all’“interno” della realtà ecclesiale. All’antica modalità tridentina di interpretare la missione come azione tipica degli ordini religiosi messa in atto per indottrinare le popolazioni ritenute “distanti” dalla ortodossia cristiana e, in particolare, nel passaggio tra Ottocento e Novecento, per accompagnare l’opera di colonizzazione realizzata dalle potenze europee, fu affiancata un’inconsueta – fino a quel momento – modalità di intendere l’azione missionaria, tesa a fronteggiare il diffondersi di processi di secolarizzazione che, originatisi con la Rivoluzione Francese, avevano trovato anche nella penisola – nazione storicamente “cattolica” – accanto alla Questione Romana e alla diffusione del socialismo, la loro più incisiva espressione.

Nel passaggio tra vecchio e nuovo secolo non mancò la consapevolezza di dover mobilitare la realtà ecclesiale italiana attraverso la realizzazione di “missioni interne” allo scopo di sviluppare metodi e tecniche utili per difendere, ri-cristianizzandola, una società comunque cattolica ma esposta, per ovvie ragioni, ai rischi del laicismo. Nel 1889, con la definizione delle regioni ecclesiastiche, papa Leone XIII mirò alla realizzazione di una Chiesa italiana – il “paese reale” – da contrapporre all’Italia liberale – il paese legale – che aveva “chiuso” il Papa in Vaticano, inaugurando – di fatto – l’inedita stagione che la “cittadella assediata” si accingeva a vivere nel nuo­vo Regno d’Italia. Ben presto, però, emersero notevoli differenze. Non era poca, infatti, la distanza esistente anche tra vescovi di diocesi vicine, così come molteplici apparvero le conseguenze derivanti dall’assenza di una concorde e convinta applicazione delle decisioni adottate collegialmente. Fu quello il periodo durante il quale emerse l’esistenza di un nord, caratterizzato dalla pastorale di matrice borromaica, contrapposto a un sud ancora segnato dall’assenza di una strutturata presenza parrocchiale, dove – alla fine del XIX secolo – continuava a perdurare una “gestione del sacro” legata, in gran parte, ai capitoli cattedrali e ai sodalizi confraternali.

I primi tentativi per uniformare una realtà alquanto diversificata coinvolsero l’associazionismo cattolico, protagonista di una fase di ripensamento tesa a indirizzare il tradizionale concetto di assistenza filantropica verso la realizzazione di interventi più mirati. In quegli anni, mentre la Chiesa ripensava le diverse modalità della sua presenza nella società italiana, il settentrione registrò, accanto all’impegno profuso dai “preti sociali” – Leonardo Murialdo (1828-1900), Luigi Guanella (1842-1915), Guido Conforti (1865-1931), Luigi Orione (1872-1940) – lo sviluppo di cooperative, società di mutuo soccorso, segretariati per il popolo, fra i quali scopo della cassa rurale fu di fornire sostegno economico alla classe operaia e bracciantile impegnata a difendersi – già a quei tempi – dalla diffusa piaga dell’usura. Se il modello della cassa rurale registrò un notevole sviluppo soprattutto nelle regioni settentrionali – nel 1897 se ne contavano 921, coordinate a partire dal 1905 dalla Federazione Italiana delle Casse Rurali, che nel 1922 giunse a censirne oltre 3000 diffuse in Veneto, Lombardia, Toscana, Emilia Romagna, Sicilia e Sardegna – il Mezzogiorno continentale non fu estraneo a quella spinta rinnovatrice che mirava a superare la tradizionale e dichiarata chiusura all’introduzione di una pastorale fondata sul magistero ecclesiale e sul riferimento a Roma. La Calabria, nel 1896, celebrò il suo primo congresso cattolico regionale. La Puglia si radunò nel 1901 a Taranto alla presenza di Romolo Murri. Il primo «Congresso delle sezioni meridionali della Società della Gioventù Cattolica Italiana» si svolse a Benevento nel 1908. Quelle prime esperienze, però, costituirono iniziative isolate con risultati, spesso, parziali.

Solo il nuovo assetto dell’Italia repubblicana avviò definitivamente, attraverso nuove “missioni interne”, il processo teso a delineare la specificità di una Chiesa italiana e, quindi, il concretizzarsi di una pastorale comune alle singole diocesi. Dal voto del referendum istituzionale del 2 giugno 1946 non scaturì soltanto la nuova identità della nazione – la nascita della repubblica sulle ceneri della monarchia sabauda – ma il suffragio universale rivelò principalmente come il Paese – anche dal punto di vista politico – fosse proiettato verso la ricostruzione racchiudendo in sé due Italie: un nord legato alla repubblica e un sud ancora legato alla monarchia, a conferma di come il contesto storico che aveva legato il Mezzogiorno al Regno delle Due Sicilie si fosse protratto oltre «la fine di quel regno». Tale situazione, ritenuta alquanto rischiosa per il futuro del Paese dai vertici vaticani, esponeva la nazione, dopo l’esperienza fascista, al rischio di un nuovo regime di matrice comunista. Occorreva, quindi, ricucire – dal punto di vista politico ed ecclesiale – le distanze che dividevano il Paese.

Appena due anni dopo, il risultato delle prime elezioni dell’Italia repubblicana del 18 aprile 1948, registrando l’affermazione della Democrazia Cristiana di Alcide De Gasperi con il 48,5% e la sconfitta del Partito Socialista Italiano di Pietro Nenni e del Partito Comunista Italiano di Palmiro Togliatti, mostrò l’esistenza di una nazione che, al di là di specifiche differenze locali, era riuscita a evitare il pericoloso perpetuarsi di un meridione politicamente – e non solo, quindi, ecclesiasticamente – contrapposto al settentrione. La trasformazione del “partito dei cattolici” in “partito italiano” rappresentò un risultato ottenuto – accanto ai Comitati Civici di Luigi Gedda – anche attraverso alcune “missioni interne” messe in atto, in ambito ecclesiale, tra il 1946 e il 1947.

Quegli interventi, secondo un piano suddiviso in quattro fasi – con i corsi di studio per i propagandisti, le riunioni periodiche per i presidenti regionali, le “Tre giorni” per la formazione dei nuovi propagandisti, la giornata del reclutamento – avevano coinvolto le diocesi italiane utilizzando i carri-cinema e la proiezione di pellicole a carattere religioso – come Bernadette, Pastor Angelicus, Guerra alla Guerra, La città dei Ragazzi – per colmare la «mancanza di principi chiari e di direttive precise». Nei primi mesi del 1947 l’iniziativa “missionaria” fu realizzata in «un gran numero di Diocesi di tutte le Regioni», attraverso 156 missioni, 241 missionari e 2.227 conferenze.

A metà Novecento, l’azione di valorizzazione della propria identità e della propria funzione svolta dall’associazionismo cattolico fu affiancata dall’impegno svolto, sulla stessa scia e nella medesima direzione, dall’episcopato italiano. Dall’8 al 10 gennaio 1952, a Firenze, la prima riunione dei presidenti delle conferenze episcopali regionali – la cui partecipazione, durante il Concilio Vaticano II, fu estesa a tutti i vescovi residenziali d’Italia – sancì la nascita della Conferenza Episcopale Italiana e, quindi, la creazione di una pastorale in grado di uniformare – ulteriormente – le diverse espressioni del cattolicesimo italiano. Dopo l’incontro fiorentino, la costruzione di nuove chiese – in un’Italia impegnata a fronteggiare i danni provocati dal secondo conflitto mondiale – rappresentò il punto di partenza per l’istituzione di nuove parrocchie – soprattutto nel Mezzogiorno – e, quindi, per una presenza capillare della realtà ecclesiale sull’intero territorio italiano. In quel progetto anche la funzione del parroco assunse un inedito ruolo, facendosi non soltanto interprete delle esigenze cultuali della popolazione ma anche – e soprattutto – testimone delle istanze pastorali richieste dall’autorità episcopale.

Superata la contrapposizione politica tra nord e sud evidenziatasi a metà Novecento, anche il problema ecclesiale del Mezzogiorno – già analizzato nella lettera collettiva dell’episcopato del sud su I problemi del Mezzogiorno (1948) e nella Lettera dei Presidenti delle Conferenze Episcopali Regionali d’Italia (1954) – diventava problema comune alla Chiesa Italiana, per la quale documenti come Sviluppo nella solidarietà. Chiesa italiana e Mezzogiorno (1989) e Per un Paese solidale. Chiesa Italiana e Mezzogiorno (2010) hanno reso più visibile il volto nuovo assunto dalle diocesi italiane. Un processo che, attraverso la messa in atto di “missioni interne”, ha registrato non soltanto il protagonismo dell’associazionismo cattolico e dell’episcopato italiano, nell’affrontare nuove problematiche e nel sollecitare nuovi comportamenti, ma che ha ulteriormente sancito l’esistenza di una realtà ecclesiale unitaria, contraddistinta dai piani pastorali decennali come Evangelizzazione e Sacramenti (1973-1980), Comunione e Comunità (1981-1990), Evangelizzazione e testimonianza della carità (1991-2000), Comunicare il vangelo in un mondo che cambia (2001-2010), Educare alla vita buona del vangelo (2010-2020), e dai convegni ecclesiali nazionali su Evangelizzazione e promozione umana (Roma, 1976), Riconciliazione cristiana e comunità degli uomini (Loreto, 1985), Il Vangelo della carità per una nuova società in Italia (Palermo, 1995), Testimoni di Gesù risorto, speranza del mondo (Verona, 2006).

Fonti e Bibl. essenziale

P. Chenaux, Pio XII. Diplomatico e pastore, Edizioni San Paolo, Cinisello Balsamo 2004; G. Formigoni, L’Italia dei cattolici. Dal Risorgimento a oggi, Il Mulino, Bologna 2010; L. Gheza Fabbri, Solidarismo in Italia fra XIX e XX secolo. Le società di mutuo soccorso e le casse rurali, Giappichelli, Torino 2000; G. Sale, Dalla Monarchia alla Repubblica 1943-1946. Santa Sede, cattolici e referendum, Jaca Book, Milano 2003; F. Sportelli, La Conferenza Episcopale Italiana (1952-1972), Congedo Editore, Galatina 1994; F. Traniello, Religione cattolica e stato nazionale. Dal Risorgimento al secondo dopoguerra, Il Mulino, Bologna 2007. Fonti: Archivio dell’Istituto “Paolo VI” (Roma), Nota riservata sulla situazione del Mezzogiorno d’Italia, 1947, in Presidenza Generale: VI – Presidenza Veronesi (1946-1952), n. 92; Archivio dell’Istituto “Paolo VI” (Roma), Relazioni (sulle missioni religioso-sociali), 1947, in Presidenza Generale: VI – Presidenza Veronesi (1946-1952), n. 38.


LEMMARIO




Modernismo - vol. II


Autore: Maurilio Guasco

Nella storia della Chiesa il termine, utilizzato spesso anche in altre discipline, fa riferimento a un periodo storico che copre i decenni tra l’Ottocento e il Novecento, e indica un insieme di istanze soprattutto di carattere biblico e teologico che emersero nel mondo cattolico di fronte ai profondi cambiamenti che si stavano verificando in seguito agli sviluppi non solo del pensiero scientifico, ma anche in ambito umanistico, conseguenza di orientamenti culturali che avrebbero messo in causa proprio gli studi biblici, e di conseguenza anche quelli filosofici e teologici. In Italia si sarebbe parlato soprattutto di una forma di modernismo politico, senza che questo escludesse la presenza di quegli orientamenti che non furono solo, come spesso è stato detto, copie sbiadite di dottrine straniere, ma ebbero una loro originalità e forse uno sviluppo anche maggiore di quanto non stesse avvenendo in Francia, Inghilterra e Germania.

La pesante condanna comminata da Pio X nella enciclica Pascendi dominici gregis (8 settembre 1907) a tutti quei fermenti, e persone, avrebbe finito per condizionare per decenni gli studi teologici: questi in effetti giudicavano il modernismo a partire dall’enciclica di Pio X, che tra l’altro presentava un tentativo di dare una sistematizzazione a dottrine espresse dagli autori in modo frammentario e non sempre con la pretesa di offrire una dottrina ben strutturata.

Dopo lo studio pionieristico di Rivière (1929), negli anni Sessanta, soprattutto grazie alle ricerche di Pietro Scoppola ed Emile Poulat, il modernismo sarebbe diventato argomento per gli studi storici. Questo avrebbe permesso di uscire dai limiti di un’analisi esclusivamente teologica, nella scia della Pascendi, con l’evidente preoccupazione di presentare elenchi di errori in cui potevano essere incorsi gli studiosi del tempo. Poteva nascerne un altro rischio, che pure venne messo in risalto: che il ridurre lo studio della crisi modernista ad argomento puramente storico, portasse a dimenticare quelle problematiche dottrinali che pure erano presenti negli studi biblici e teologici di inizio Novecento

In quel periodo, gli studi ecclesiastici sono costretti a confrontarsi con le giovani scienze religiose, che si fondano su un principio rivoluzionario: l’applicazione del metodo storico-critico a testi considerati ispirati, e quindi non soggetti a quel tipo di analisi. Il dibattito avrebbe finito per coinvolgere le scienze bibliche e storiche, per le quali il maggiore esponente sarebbe stato il francese Alfred Loisy, quelle teologiche, soprattutto con l’inglese George Tyrrell, e quelle filosofiche, dove alla tradizionale dottrina tomista, imposta da Leone XIII a tutti i seminaristi, si contrapponeva le teorie immanentiste presentate nei suoi scritti dal francese Maurice Blondel. Anche le nuovi concezioni dello Stato e della democrazia venivano a conflitto con le teorie tradizionali della Chiesa cattolica.

Loisy aveva pubblicato nel 1902 un lavoro che, nelle intenzioni dell’autore, doveva essere una risposta alle teorie esposte da Adolf von Harnack sull’essenza del cristianesimo. Con L’Évangile et l’Église Loisy insisteva sul senso primario dell’annuncio da parte di Gesù Cristo dell’avvento del Regno. Un’insistenza però che finiva per mettere in causa la stessa divinità di Cristo e la sua intenzione di dare origine a una Chiesa. Il lavoro di Loisy sarebbe stato messo all’Indice, aprendo così il capitolo delle condanne che sarebbe durato in pratica fino alla Pascendi e nei tre anni successivi.

In Italia, il personaggio più noto e più erudito era Ernesto Buonaiuti, già alunno del seminario romano e compagno di studi di Angelo Roncalli. Anche Buonaiuti sarebbe stato accusato negli anni successivi di seguire le teorie di Loisy, errori compresi. Avrebbe esposto le sue teorie soprattutto in due opere pubblicate anonime, Il programma dei modernisti. Risposta all’enciclica di Pio X “Pascendi dominici gregis” (1907), e quindi nelle Lettere di un prete modernista (1908).

Certamente meno erudito e meno coinvolto negli studi biblico-teologici, ma anche più noto di altri causa il suo prevalente interesse di carattere politico, era Romolo Murri, fedele seguace, a differenza degli altri, di un rigido tomismo, ma molto attento a tutti i fermenti che si andavano diffondendo nei vari settori disciplinari, abile giornalista e conferenziere, e per questo anche più esposto ai richiami e alle condanne.

Molti altri personaggi avrebbero agito in Italia in quegli anni, spesso ai limiti dell’ortodossia, e ancora più spesso a rischio di condanna. Possiamo ricordare fra questi padre Giovanni Semeria e Umberto Fracassini, Francesco Mari, Giovanni Genocchi e Salvatore Minocchi.

Alcuni di loro, insieme con amici e maestri non italiani, avrebbero tentato di darsi un coordinamento, organizzando un convegno che avrebbe avuto luogo nel Trentino, a Molveno, senza esiti significativi. Anzi, la condanna da parte di Pio X sarebbe arrivata proprio nei giorni successivi al convegno di Molveno, una condanna senza possibilità di appello, presentata in pagine di rara durezza, e che avrebbe avuto come conseguenza una serie di richiami e scomuniche che avrebbero coinvolto anche persone che avevano dato un contributo del tutto positivo al progresso degli studi. In altri termini, si preferì rischiare di condannare degli innocenti, per essere certi di avere punito tutti i colpevoli.

Vi è un altro aspetto che in genere viene trascurato da chi studia il modernismo, ed è il contributo dato dagli autori, spesso sospetti, alla riflessone sulla ecclesiologia. A monte vi sono le pagine che molti di loro dedicano agli aspetti mistici della religione, alla preghiera liturgica, all’importanza della testimonianza cristiana per trasmettere il messaggio evangelico.   Il riferimento più significativo erano le opere di von Hügel dedicate agli aspetti mistici della religione, a partire soprattutto dagli scritti su Santa Caterina di Genova (The Mistical Elements of Religion as Studied in Sainte Catherine of Genoa and Her Friends, 1908), e la vita di San Francesco come veniva raccontata da uno dei maggiori studiosi di francescanesimo, Paul Sabatier. Non erano pochi, e primo fra tutti Tommaso Gallarati Scotti, che notavano i rischi che potevano derivare da un’eccessiva, anche se comprensibile, attenzione agli aspetti teologici, biblici e storici dei nuovi problemi che dovevano affrontare gli studiosi cattolici, trascurando gli aspetti fondamentali della vita interiore e dell’unione con Cristo. Ed era ancora Gallarati Scotti a ricordare “che un profondo rinnovamento della cultura cattolica non avrebbe potuto fare a meno di rivalutare il filone della tradizione mistica che la preferenza per lunghi anni data dal pensiero ufficiale alla teologia scolastica aveva finito con il lasciare nell’ombra”.

A differenza di altri però, per Gallarati Scotti tutto deve avvenire dentro, e non contro, la Chiesa istituzionale, operando in modo da contribuire a realizzarne il rinnovamento, ma senza rotture. D’altra parte, anche Romolo Murri, considerato allora uno dei principali esponenti della linea eterodossa del modernismo, rimane convinto della necessità di operare dentro la Chiesa, e la sua rottura avrà ragioni più di carattere disciplinare che dottrinale. L’elemento che gli verrà rimproverato sarà di insistere sulla autonomia del laicato in ambito politico, per cui non solo pensa di dare origine a un raggruppamento politico, prima La Democrazia cristiana poi la Lega democratica nazionale, ma sostiene anche, facendo riferimento al pensiero di san Tommaso, che il credente è tenuto ad obbedire all’autorità ecclesiastica solo quando questa interviene negli ambiti che le sono propri. Il papa Pio X era del tutto contrario a tale orientamento, dal momento che riteneva che l’autorità ecclesiastica fosse legittimata a dare il proprio parere vincolante in tutti quegli ambiti che riteneva funzionali all’annuncio del vangelo e alla salvezza delle anime.

La riflessione ecclesiologica appare anche più evidente in Gallarati Scotti e nei diversi autori de “Il Rinnovamento”, la rivista che tra il 1907 e il 1909 ha rappresentato quanto di meglio abbia saputo offrire il modernismo, anche quello italiano, con le sue aperture agli studi internazionali e la sua attenzione alle diverse religioni, oltre alle Chiese cristiane. Gli autori sono laici, non tutti cattolici dichiarati, e tra i maestri annoverano personaggi come Antonio Fogazzaro, che nel romanzo Il Santo (1905), ha presentato, anche se con il linguaggio del letterato, il nuovo ruolo che i laici potranno assumere nella Chiesa, e padre Gazzola, a lungo parroco a Milano, padre spirituale di molti dei rinnovatori, e poi esiliato a Livorno. Ma considerano un riferimento anche don Brizio Casciola, personaggio singolare che però presenta un modello di cristianesimo vissuto e di povertà francescana che provoca in tutti quelli che lo incontrano un forte sentimento religioso.

Altro personaggio singolare del panorama italiano è Antonietta Giacomelli, nipote di Antonio Rosmini, a sua volta accusata di tendenze moderniste, ma in effetti vera propria pioniera del movimento ecumenico e liturgico. Il rimprovero maggiore che le sarà rivolto sarà di avere tradotto in italiano le parti essenziali della liturgia eucaristica per offrire ai credenti la possibilità di pregare nella propria lingua e di essere coinvolti nelle celebrazioni liturgiche. Questo poi avrebbe reso possibile a tutti di ritrovare nella Parola di Dio e nella liturgia la sorgente primaria della loro fede e della loro devozione. Per questo avrebbe molto insistito sull’aspetto comunitario della celebrazione eucaristica.

Molti di questi aspetti sarebbero lentamente entrati nella riflessione della comunità dei credenti, mentre la morte di Pio X e lo scoppio della prima guerra mondiale avrebbero finito per modificare anche il clima culturale. Sarebbe stato il successore di Pio X, Benedetto XV, a cercare di ovviare lentamente a situazioni conflittuali che si erano prodotte fra i credenti. Possiamo dire che quel clima di sospetti e condanne sarebbe terminato (o forse neppure?), solo con il Concilio Vaticano II.

Fonti e Bibl. essenziale

AA.VV., Monseigneur Duchesne et son temps, Ecole française de Rome, Roma 1975; C. Arnold – G. Losito (edd), “Lamentabili sane exitu” (1907). Les documents préparatoires du Saint Office,  Libreria Editrice Vaticana, Roma 2011; C. Arnold – G. Losito (edd.), La censure d’Alfred Loisy (1903). Les documents des Congrégations de l’Index et du Saint Office, Libreria Editrice Vaticana, Roma 2009; L. Bedeschi, Il modernismo italiano. Voci e volti, San Paolo, Cinisello Balsamo 1995; A. Botti e R. Cerrato (ed.), Il modernismo tra cristianità e secolarizzazione, Quattro Venti, Urbino 2000; S. Casas (ed.), El modernismo a la vuelta de un siglo, Ediciones Universidad de Navarra, Pamplona 2008; D. Cesarini, Tra storia e mistica. Studi e documenti sul modernismo cattolico, Cittadella, Assisi 2008; P. Colin, L’audace et le soupçon. La crise moderniste dans le catholicisme français (1893-1914), DDB, Paris 1997; M. Guasco, Modernismo. I fatti, le idee, i personaggi, San Paolo, Cinisello Balsamo 1995; E. Poulat, Histoire, dogme et critique dans la crise moderniste, Albin Michel, Paris 1996; M. Ranchetti, Cultura e riforma religiosa nella storia del modernismo,Einaudi, Torino 1963; J. Rivière, Le modernisme dans l’Eglise. Etude d’histoire religieuse contemporaine, Paris 1929; P. Scoppola, Crisi modernista e rinnovamento cattolico in Italia, Il Mulino, Bologna 1961; L. Vaccaro e M. Vergottini (ed.), Modernismo. Un secolo dopo, Morcelliana, Brescia 2010; G. Verucci, L’eresia del Novecento. La Chiesa e la repressione del modernismo in Italia, Einaudi, Torino 2010; G. Vian, Il modernismo. La Chiesa cattolica in conflitto con la modernità, Carocci, Roma 2012 (con ampio aggiornamento bibliografico); A. Zambarbieri, Modernismo e modernisti. I – Il movimento. II – Semeria Buonaiuti Fogazzaro, Edizioni di Storia e Letteratura, Roma 2013, 2014. Da ricordare anche il Centro Studi per la storia del modernismo fondato dal Bedeschi e quindi i volumi di “Fonti e Documenti”, che hanno approfondito le realtà di Roma e di varie regioni dal nord al sud dell’Italia.


LEMMARIO




Modernità - vol. II


Autore: Francesco Bonini

Al momento dell’unificazione italiana le scelte essenziali in ordine al rapporto della Chiesa con la modernità, nel senso limitato e “continentale” che identifica ciò che viene dopo quello che per convenzione è stato appunto definito l’Antico Regime, erano già evidenti da oltre un decennio. Precisamente si erano consumate nel cruciale passaggio del 1848-’49, quando la storia aveva subito in tutta Europa e nei diversi stati italiani una repentina accelerazione. L’evento che può essere considerato emblematico era stata la missione a Roma di Antonio Rosmini, nella duplice veste di inviato del Regno di Sardegna e di candidato alla porpora cardinalizia.

Il fallimento della missione a Roma è radicale da entrambi i punti di vista e permette di cogliere un duplice, connesso ordine di problemi, destinato a pesare lungamente. In primo luogo la cosiddetta seconda restaurazione, in tutti gli stati della Penisola, a partire da quello della Chiesa, salvo il Regno di Sardegna, chiude la possibilità di una evoluzione costituzionale dell’intera Italia, sintonizzando anche il Papa, come sovrano temporale, con la modernità istituzionale. Nello stesso tempo e più in profondità la messa all’indice degli scritti di Rosmini sancisce la rinuncia a porre la questione della riforma della Chiesa, peraltro in termini compatibili con la tradizione e l’iniziativa del pontificato.

La mancata sintesi tra l’impegno per la riforma della Chiesa e quello per la modernizzazione del quadro politico istituzionale, pur declinato su entrambi i versanti in termini realistici e non ideologici, caratterizzerà uno spazio più che secolare. In effetti, mentre si rivela non realistica la riproposizione di forme di “ancien régime” la modernità pone in evidenza due ordini di questioni, sulla concezione della persona e dello stato, risolte con la condanna ribadita nell’enciclica Pascendi (1907), della modernità intesa come progresso, applicato alla Chiesa e in particolare dell’affermazione che «nulla deve essere di stabile, nulla di immutabile nella Chiesa», riprendendo il filo della condanna da parte di Pio IX di «questi nemici della divina rivelazione, che estollono con altissime lodi l’umano progresso, [e] vorrebbero, con temerario e sacrilego ardimento, introdurlo nella cattolica religione, quasi che la stessa religione fosse opera non di Dio ma degli uomini o un qualche ritrovato filosofico che con mezzi umani possa essere perfezionato».

Di fronte all’affermazione dell’autonomia dell’uomo la Chiesa non poteva che temere il disordine e, alla fine l’ateismo. Incapace di produrre una correzione equilibrata degli eccessi della modernità, a partire dalle sue stessi radici, che sono propriamente cristiane e cattoliche, essa si ritirò, per quanto concerne l’elaborazione culturale, in quello che Michael Paul Gallagher ha definito «un ghetto monologico, dove è rimasta al sicuro, ma insofferente, per generazioni, assente dalle frontiere della storia, scegliendo di giudicare negativamente la modernità dall’alto piuttosto che sforzarsi di capire il nuovo mondo che stava emergendo». Tuttavia questa ricostruzione deve essere completata dalla constatazione che nel mondo “moderno” del XIX secolo la Chiesa peraltro continuava a muoversi agevolmente, in particolare grazie all’azione pastorale del tessuto tradizionale delle parrocchie, e attraverso i nuovi ordini e congregazioni, che si cimentano proprio sulle frontiere della modernità, come l’educazione, e delle esigenze e povertà nuove ed antiche che dalla modernità emergono.

Infatti una delle peculiarità italiane è proprio la surroga in termini pratici di questa rottura, costantemente ribadita dai pronunciamenti ufficiali, che di fatto largamente ne depotenzia gli effetti pratici, tanto in ordine alla vita religiosa che alla partecipazione alla vita politica e sociale. I due connessi movimenti della realistica adesione alle forme di modernità ed alla persistente condanna degli esiti della stessa è emblematicamente rappresentata, proprio nel passaggio dell’unificazione, dalla fondazione dei salesiani di Don Bosco, ufficialmente Società di San Francesco di Sales, avvenuta a Torino nel 1854, nel vivo delle leggi di eversione degli ordini religiosi, ma in forme giuridicamente compatibili con lo stato secolarizzato, e dalla pubblicazione del Sillabo (1864) dei principali errori moderni, cioè «dell’età nostra» tra cui l’idea di separazione tra Chiesa e Stato. In quella organica silloge infatti si ribadisce la condanna di una modernità intesa come una concezione dello Stato e dell’uomo che alla Chiesa ed alla fede praticamente non voleva più concedere alcuno spazio. Il peso delle problematiche di secolarizzazione che hanno caratterizzato il seguito della Rivoluzione resterà infatti decisivo, fino almeno alla conclusione della seconda guerra mondiale, che per certi versi rappresenta, con l’affermazione dei totalitarismi, il compimento della parabola dello Stato “moderno” e delle contraddizioni che gli sono costantemente imputate da parte cattolica. Anche in una situazione di opposizione comunque la chiesa e il “movimento cattolico” utilizzano tutte le tecniche ed i mezzi della modernità, evitando di porsi in una situazione di pratica arretratezza culturale ed operativa ed anzi puntando decisamente sulla presenza nella vita sociale.

Il delicato passaggio che si compie negli anni a cavallo della seconda guerra mondiale è ben rappresentato da Jacques Maritain, la cui opera ha in Italia una vasta eco. Questa proposta in qualche modo ne rappresenta e sintetizza diverse altre, pur diversamente orientate, che si manifestano nel corso dei primi decenni del ventesimo secolo, come ad esempio quella di padre Agostino Gemelli. In pratica, con una sorta di efficace paradosso, che aggiorna il pratico arrangiamento del XIX secolo e lo rende capace da un lato di superare le obiezioni del magistero sulla modernità “protestante” e “rivoluzionaria”, dall’altro di esercitare un appeal anche nei confronti di un’opinione pubblica disorientata, si punta ad attribuire al cattolicesimo la libertà di essere insieme “antimoderno” e “ultramoderno”. Il cattolicesimo insomma resta antimoderno perché solidale con la tradizione travolta dalla modernità intesa come secolarizzazione, ma anche ultramoderno, perché pronto a cogliere i frammenti di verità dispersi lungo la traiettoria del moderno, aggiornato oltre le sue contraddizioni, emerse da ultimo proprio con la guerra e dunque suscettibile di essere ricondotto alle sue radici cristiane.

Attraverso l’emergere di un neo-medioevismo, che peraltro negava qualunque pratica prospettiva di un ritorno al Medioevo che tradizionalmente serpeggiava nella pubblicistica cattolica, è così possibile contribuire alla sintesi costituzionale del dopoguerra, e profilare anche la questione dell’”aggiornamento” ecclesiale. Il pontificato di Pio XII stimola l’apogeo di una moderna forma di aggregazione e di iniziativa, come l’Azione Cattolica. Resta infatti a caratterizzare in particolare la Chiesa italiana l’uso puntuale e appropriato di tutti gli strumenti della modernità, tra cui essenziali i mezzi di comunicazione, come si vede proprio nel cruciale passaggio dalla carta stampata alla radio ed alla televisione.

Si pongono così le premesse per tentare di superare questa dicotomia tra il pratico impegno e la posizione magisteriale: diventa inevitabile affrontare la questione di fondo, come avviene nel passaggio conciliare.

La Chiesa italiana e in concreto i vescovi e la stessa Azione Cattolica affrontano il Concilio con quel realismo e quell’adesione al papa che ne rappresentano un tratto caratterizzante, condividendo, sia pure con diversi accenti, l’impostazione per cui il Vaticano II rappresenti il tornante nel quale, innestandosi sulla riscoperta delle radici più antiche (aggiornamento e ressourcement furono le parole-chiave) sia possibile confrontarsi con gli interrogativi moderni con nuova serenità, così da maturare un atteggiamento ecclesiale più aperto ed ospitale verso lo spirito moderno, di cui peraltro si constata l’evoluzione interna, la “revisione interna”, rispetto alle asprezze ottocentesche, a partire dal campo delle scienze naturali.

L’innovazione maggiore dell’evento conciliare è rappresentata dal dibattito pubblico che si apre anche all’interno del mondo cattolico e della Chiesa italiana per la prima volta in termini espliciti e contrapposti.

Se i movimenti “progressisti”, per cui «il concilio rappresentava la “conversione” della Chiesa alla cultura moderna, pura e semplice, il rovesciamento agognato del Sillabo di Pio IX», hanno una certa visibilità, il caso italiano si caratterizza per l’assenza, proprio in ordine alle questioni essenziali della modernità, come quella relativa alla libertà religiosa, decise nel Concilio, di una significativa ed esplicita aggregazione tradizionalista. Prevale insomma la linea per cui, come ha sintetizzato Benedetto XVI all’inizio del suo pontificato «in questa apparente discontinuità la Chiesa ha invece mantenuto ed approfondito la sua intima natura e la sua vera identità».

Così, nel corso del decisivo pontificato di Paolo VI, si realizza una modernizzazione guidata, riconciliata appunto con una nuova idea di modernità in cui fosse compiutamente riconoscibile la presenza cristiana. Questa cornice scongiura l’acutizzarsi del conflitto intra-ecclesiale, grazie anche al riaffermato ancoraggio popolare e papale del cattolicesimo italiano. Il fatto poi che il cattolicesimo italiano sia caratterizzato da una forte attenzione politica, favorisce uno stemperamento del conflitto intorno ai temi ecclesiali, trasferito sugli esiti politici. E’ un processo che vale in particolare in relazione al marxismo, inteso come una sfida radicale oppure come una «verità parziale», ed alle vicende della democrazia cristiana, a proposito della questione della cosiddetta unità politica dei cattolici.

Il Concilio da un lato “chiude” o forse più esattamente “sistema” la questione della relazione con la modernità nei suoi indirizzi e nel magistero, dall’altro è il tempo della contestazione e della frammentazione. Tiene comunque, attraverso un progressivo aggiornamento, il tessuto “popolare” della fede, in un accentuato pluralismo di modelli e di soggetti, che permette di interloquire con una società sempre più articolata e in vario e complesso movimento, cui si comincia ad attribuire la definizione di “postmoderna”.

Questa dinamica che si manifesta con particolare evidenza in relazione con i processi di (ulteriore) secolarizzazione (secondo paradigmi radical), della fine degli anni Sessanta, a proposito di quelli che vengono definiti “ nuovi diritti”, fino ai temi della cosiddetta bio-politica, che chiamano in causa la “questione antropologica”.

La presa di coscienza che non è inevitabile una diluizione della presenza e dell’identità cristiana, avviene non senza fatica e tensioni anche intra-ecclesiali, tra gli anni Settanta ed i primi anni Ottanta e permette di superare il paradigma della dialettica conservatori/progressisti come chiave di lettura del postconcilio. Anzi, riprendendo proprio la prospettiva conciliare, appare possibile, superato il secolare conflitto sulla modernità, affermare una rinnovata iniziativa “in avanti”, tipica del carisma di Giovanni Paolo II. Insomma, come è affermato nell’iniziativa del “progetto culturale orientato in senso cristiano” di fronte ai cambiamenti in corso, l’atteggiamento non può essere una semplice chiusura, né un altrettanto semplicistico adeguamento, ma l’impegno a cercare di modificarli, orientarli e, in senso profondo, “convertirli”, operando con fiducia e realismo all’interno di essi.


LEMMARIO




Morale - vol. II


Autore: Sabatino Majorano

Nell’Italia post-unitaria, il vissuto e la proposta morale della comunità cristiana appaiono retti da una duplice preoccupazione: rispondere costruttivamente alle istanze di una realtà sociale e culturale in rapida evoluzione e restare fedele al particolare rapporto che la lega al Successore di Pietro, che riceve nuovo impulso dalla definizione dell’infallibilità da parte del Vaticano I (1870). È una sintesi complessa con momenti di tensione e sfumature diverse nelle varie realtà regionali. È possibile evidenziarne alcune coordinate più significative.

Una complessa eredità. Il processo di unificazione del paese, per le modalità in cui si era svolto e per le tensioni presenti all’interno della stessa comunità cristiana che lo avevano accompagnato, lascia una difficile eredità di riconciliazione e di pacificazione. A pesare non è solo l’annessione degli Stati Pontifici, ma anche le scelte di politica religiosa del governo (come la confisca dei beni degli istituti religiosi e i limiti alle attività formative e assistenziali). La “questione romana” e il condizionamento dell’anticlericalismo massonico, da una parte, e, dall’altra, gli atteggiamenti di chiusura di fronte alla nuova realtà (Non expedit di Pio IX), rendono problematica la presenza costruttiva dei credenti a livello politico nazionale, pur conservando un protagonismo significativo a livello amministrativo locale. Il superamento di questo stato di cose richiederà decenni di lavoro, sarà facilitato dallo sforzo unitario, vissuto nel corso dalla Prima Guerra Mondiale, e sarà sancito dal Concordato e dai Patti Lateranensi del 1929.

Per quanto riguarda la proposta morale, occorre ricordare che, dai primi decenni dell’Ottocento, era in corso nel nostro paese un graduale processo di unificazione, grazie all’affermazione della benignità pastorale di S. Alfonso, riconosciuto dottore della Chiesa nel 1871. Il rinnovamento catechistico, sfociato nella pubblicazione del Catechismo di S. Pio X (1912), e la progressiva creazione di seminari regionali sotto la guida diretta della Santa Sede, favoriscono l’ulteriore unificazione. Resta però difficile il rapporto con le istanze della modernità, come emerge dalla crisi del Modernismo (cf. Sillabo di Pio IX del 1864 e decreto Lamentabili del S. Uffizio del 1907).

L’esclusione della teologia dai curriculum universitari statali porta ad attribuire un’importanza maggiore alle Università Pontificie di Roma per la specializzazione del clero del nostro paese e contribuisce a dare una impronta di romanità più marcata al pensiero teologico e alla pastorale italiana. Nel campo morale, ci si preoccupa prevalentemente di aggiornare i contenuti pratici, senza mettere in discussione il metodo casistico, come invece avviene in altri paesi europei tra la fine dell’Ottocento e i primi anni del Novecento. Va però segnalata la partecipazione convinta al rinnovamento tomista, stimolato da Leone XIII (Aeterni Patris, 1879).

Una nuova corresponsabilità per il sociale. La Rerum Novarum di Leone XIII (1881) trova un’accoglienza non sempre entusiasta tra i cattolici italiani. Però le resistenze cedono ben presto il passo a una condivisione più convinta, determinando la ricerca di una rinnovata presenza nel sociale: Opera dei Congressi e dei Comitati Cattolici in Italia negli ultimi decenni dell’Ottocento; Settimane Sociali, promosse per la prima volta da Giuseppe Toniolo nel 1909; fondazione del Partito Popolare ad opera di Luigi Sturzo nel 1919.

Questa apertura al sociale, si inserisce nell’affermarsi progressivo di una più chiara coscienza della corresponsabilità dei laici in tutta la vita ecclesiale. Pio XI fa della promozione dell’Azione Cattolica uno dei cardini del suo programma rinnovatore e nel 1923 ne riordina la struttura e ne approva gli statuti.

Per la proposta morale, questo significa una graduale apertura a un metodo non più rigidamente deduttivo dai principi (il giudizio della coscienza come “sillogismo pratico”), ma aperto all’ascolto e al discernimento della realtà (“vedere, valutare, agire”). La laicità, intesa come presenza nel sociale coerente con i valori cristiani e, al tempo stesso, rispettosa della specificità e dell’autonomia dei diversi campi e discipline, determina maggiormente i modelli di vita cristiana. Gradatamente anche il rapporto con le scienze positive acquista toni e prospettive più costruttive.

L’ascesa al potere del fascismo negli anni Venti è fonte di nuove difficoltà e tensioni nella chiesa italiana: l’iniziale atteggiamento di sostegno critico, giustificato dalla difesa della tradizione etica e dalla ricerca del dialogo con la stessa chiesa (Concordato e Patti Lateranensi del 1929), si trasforma in rifiuto e condanna per le derive violente, totalitarie e razziali. Dalle rovine della Seconda Guerra Mondiale e dall’esperienza della Resistenza emerge un nuovo slancio del laicato cattolico, che sfocia nella fondazione della Democrazia Cristiana, in conflitto ma anche in rapporto di concreta cooperazione con le forze politiche di ispirazione diversa.

Gli anni Cinquanta-Sessanta sono quelli della ricostruzione e del primo boom economico, che incide sugli stili di vita aprendoli verso il consumismo. Sono anche gli anni in cui si fanno più forti i processi di secolarizzazione, fino all’approvazione della legge sul divorzio (1970) e sull’aborto (1978). Il fallimento dei referendum abrogativi (rispettivamente 1973 e 1981) e le tensioni, che li accompagnano, fanno emergere gravi difficoltà per individuare, nel metodo e nei contenuti, le modalità di una presenza efficace nel pluralismo crescente della società.

Il rinnovamento conciliare. Come per gli altri campi, anche per la proposta morale, il Concilio Vaticano II (1963-1965) segna una svolta importante. Nonostante i fermenti di rinnovamento dei decenni precedenti, la teologia morale presente nei testi preparatori è quella casistica, sia nel metodo sia nei contenuti. Le riserve, evidenziate nel corso dei lavori conciliari, sono diverse: carenza di fondazione e articolazione propriamente teologica, polarizzazione eccessiva sui dati normativi e distacco dalla spiritualità, inadeguata considerazione delle dimensioni comunitario-sociali.

Il rinnovamento richiesto dal Concilio è profondo. Per coglierlo in maniera corretta occorre aver presente l’insieme dei testi conciliari, partendo dalle quattro Costituzioni: Sacrosanctum Concilium (la priorità della grazia e il fondamento sacramentale), Lumen Gentium (la dimensione comunitaria e la chiamata universale alla santità), Dei Verbum (il radicamento nella Parola), Gaudium et spes (il dialogo con mondo contemporaneo). In maniera più specifica, il Concilio chiede una «speciale cura nel perfezionare la teologia morale, in modo che la sua esposizione scientifica, più nutrita della dottrina della sacra Scrittura, illustri la grandezza della vocazione dei fedeli in Cristo e il loro obbligo di apportare frutto nella carità per la vita del mondo» (OT 16). A questo fine, la Gaudium et spes indica una metodologia che parte dall’ascolto della realtà e coglie in essa, attraverso un discernimento radicato nel Vangelo e aperto al contributo dell’esperienza e delle scienze, il bene da fare. È possibile così superare le impostazioni individualistiche dell’etica (cf. n. 30), riconoscendo la competenza, propria anche se non esclusiva, dei laici nel campo sociale e professionale (cf. n. 43).

La ricezione dei dati conciliari nel nostro paese non avviene senza difficoltà e tensioni, anche a causa della loro ricaduta nel campo socio-politico. Sullo sfondo è possibile cogliere la tensione tra un’ermeneutica della continuità o della riforma e un’ermeneutica della discontinuità o rottura. Non mancano momenti di particolare acutezza di queste tensioni, come la crisi dell’Azione Cattolica e delle ACLI, il dibattito sul pluralismo nelle scelte politiche, il rapporto tra coscienza e magistero in seguito alla promulgazione dell’enciclica Humanae vitae (1968), le questioni poste dai referendum sul divorzio e sull’aborto. Nel suo insieme però il postconcilio nel nostro paese è vissuto in maniera meno problematica che in altri.

Per meglio promuovere il rinnovamento della teologia morale, nel 1966 viene fondata l’Associazione Italiana dei Teologi Moralisti, divenuta poi Associazione Teologica Italiana per lo Studio della Morale (ATISM). Ripercorrendo il susseguirsi dei suoi Congressi e scorrendo le pagine della Rivista di Teologia Morale (fondata nel 1969 dalle Edizioni Dehoniane di Bologna in collaborazione con la stessa associazione) è possibile avere un quadro dell’evoluzione della teologia morale: dall’iniziale impegno per la ristrutturazione teologica e cristologica, si passa a una maggiore preoccupazione per il dialogo con le scienze e per un argomentare significativo in una società divenuta pluralista, con un interesse crescente per le problematiche sociali e bioetiche.

Negli ultimi decenni, la prassi e la proposta morale della comunità cristiana nel nostro paese sono influenzate in maniera crescente dai movimenti ecclesiali. La varietà dei percorsi formativi da essi proposti determina non solo un’articolazione maggiore della dinamica della comunità cristiana, ma anche una diversità di stili di vita, che costituisce una ricchezza, purché sorretta dal riconoscimento reciproco e da sincera comunione ecclesiale.

Per un impegno condiviso di testimonianza. L’evolversi sempre più rapido del nostro paese, in simbiosi con il contesto europeo e mondiale, dominato in maniera crescente dai processi di globalizzazione, pone problematiche morali sempre nuove. Diventa prioritario il discernimento, comunitario e personale. Occorre però riconoscere che tale discernimento non è sempre all’altezza della complessità e della urgenza delle situazioni, come è avvenuto, ad esempio, per la crisi morale che ha investito la politica a partire dagli anni Ottanta/Novanta.

Il rinnovamento della catechesi, iniziato nella seconda metà degli anni Sessanta e concretizzato nella pubblicazione prima del Documento base (1070) e poi, tra il 1973 e il 1982, dei volumi destinati alle diverse fasce di età, tende a suscitare un impegno formativo globale: «Educare al pensiero di Cristo, a vedere la storia come lui, a giudicare la vita come lui, a scegliere e ad amare come lui, a sperare come insegna lui, a vivere in lui la comunione con il Padre e lo Spirito Santo. In una parola, nutrire e guidare la mentalità di fede: questa è la missione fondamentale di chi fa catechesi si a nome della Chiesa» (RdC, 38). Questa scelta di fondo è alla base anche della redazione definitiva dei Catechismi (1995-1997), che la integra con le indicazioni, soprattutto contenutistiche, del Catechismo della Chiesa Cattolica (1992).

Attraverso una programmazione su base decennale, la CEI cerca di promuovere un impegno unitario su alcuni obiettivi, decisivi anche per il rinnovamento morale: fare che la pratica sacramentale, a volte solo in forza di tradizione familiare o sociale, diventi effettivo cammino di fede (Evangelizzazione e sacramenti, per gli anni Settanta); essere promotori di incontro e di riconciliazione (Comunione e comunità, per gli anni Ottanta, segnati dalla violenza terroristica); un impegno rinnovato di carità nei diversi settori della vita (Evangelizzazione e testimonianza della carità negli anni Novanta); la necessità di comprendere e vivere evangelicamente i cambiamenti sociali (Comunicare il Vangelo in un mondo che cambia per il primo decennio del Duemila). Questo cammino sfocia nella scelta per l’educazione per questo secondo decennio (Educare alla vita buona del Vangelo).

Fonti e Bibl. essenziale

AA.VV., Le scienze teologiche in Italia a cinquant’anni dal Concilio Vaticano II. Storia, impostazioni metodologiche, prospettive, ElleDiCi, Leumann 2011; G. Angelini, Teologia morale fondamentale. Tradizione, Scrittura e teoria, Glossa, Milano 1999; D. Capone, La teologia morale in Italia oggi, in Studia Moralia 18 (1980), 5-32; R. Gerardi, Storia della morale. Interpretazioni teologiche dell’esperienza cristiana. Periodi e correnti, autori e opere, EDB, Bologna 2003; L. Lorenzetti, La morale nella storia. Una nuova voce nei quarant’anni della “Rivista di teologia morale” (1969-2009), EDB, Bologna 2009; B. Petrà, Teologia morale, in G. Canobbio – P. Coda (edd.), La teologia del XX secolo. Un bilancio, 3. Prospettive pratiche, Città nuova, Roma 2003, 97-193; A. Prosperi, Eresie e devozioni. La religione italiana in età moderna, Edizioni di storia e Letteratura, Roma 2010; A. Rovello, La morale e i movimenti ecclesiali, EDB, Bologna, 2013; L. Vereecke, Storia della teologia morale, in F. Compagnoni – G. Piana – S. Privitera (edd.), San Paolo, Cinisello Balsamo 1990, 1314-1338; M. Vidal, Nuova morale fondamentale. La dimora teologica dell’etica, EDB, Bologna 2004; P. Zovatto (ed.), Storia della spiritualità italiana, Città Nuova, Roma 2002.


LEMMARIO




Movimenti ecclesiali - vol. II


Autore: Angelo Manfredi

Nel 1981 la nota pastorale Criteri di ecclesialità dei gruppi, movimenti, associazioni della Commissione episcopale per l’apostolato dei laici tentava una “definizione”: “il movimento è in genere così caratterizzato: alcune ‘idee-forza’ e uno ‘spirito comune’ fanno da elementi aggreganti più delle strutture istituzionali; spesso l’aggregazione avviene, o almeno inizia, attorno alla figura e alla proposta di un ‘leader’; più che in uno ‘statuto’, ci si riconosce in una ‘dottrina’ e in una ‘prassi’, fortemente caratterizzanti, che tendono a diventare quasi una ‘spiritualità’; l’adesione non è formale, ma vitale: il movimento ‘sta’ sulla adesione vitale continuamente rinnovata dai membri, senza iscrizioni o tessere” (Enchiridion della Conferenza Episcopale Italiana, 3 [1980-1985], Bologna 1986, 312).

Sembra difficile offrire una mappa precisa del fenomeno, anche solo restringendosi al campo italiano. Una possibile area di delimitazione può essere la seguente: intendiamo per “movimenti” o “nuove comunità” quelle forme recenti di aggregazione ecclesiale ispirate a spiritualità carismatiche, ossia collegate a figure di leadership dal punto di vista dello stile e dei contenuti, e impegnate in strategie di “nuova evangelizzazione” (cfr. Faggioli 2010, 1151). Ciascuno di questi termini (aggregazione, leader carismatico, strategia, nuova evangelizzazione), e perfino l’espressione “movimento”, si presta a contestazioni e approfondimenti, ma non possiamo rinunciare a tentare empiricamente di delineare un processo storico visibile per vari aspetti nella Chiesa italiana soprattutto dagli anni ’70 del XX secolo ad oggi. Sembra che i tre focus della “forma di aggregazione”, dell’origine carismatica della spiritualità, e della prassi d’impegno di nuova evangelizzazione, siano elementi sufficientemente caratterizzanti la novità storica dei “movimenti” in Italia.

Alcuni studi propongono un’incubazione analoga e parallela tra ciò che oggi definiamo “movimenti ecclesiali” e ciò che è entrato nel novero dei “cattolici del dissenso”. Il dibattito sul legame tra alcuni di questi gruppi e il “movimento cattolico” italiano ed europeo del XIX secolo è ancora aperto. Sembra storicamente accertato che con Pio X e Pio XI le forme di militanza laicale come risposta alla secolarizzazione, alla perdita del potere temporale del papa, al diffondersi dei regimi liberali, furono incluse nell’Azione Cattolica direttamente controllata dai vescovi. In Italia l’organizzazione di AC era particolarmente articolata, e integrava anche quelle sperimentazioni di tipo carismatico e proselitistico che poi sbocceranno nei movimenti. L’AC di Pio XI e di Pio XII non aveva un impegno direttamente politico ma aveva sviluppato una forma di “collateralismo” rispetto alla Democrazia Cristiana come partito unitario dei cattolici. Nel secondo dopoguerra i mutamenti sociali e culturali, i primi sintomi di distacco dalla pratica religiosa, esigenze e inquietudini spirituali e sensibilità diverse rispetto all’impegno politico provocarono forme di tensione rispetto al quadro unitario AC – DC: è in questo periodo che si collocano i primi passi di sperimentazione verso il mondo studentesco (L. Giussani), verso una spiritualità innovativa (Ch. Lubich) e verso l’attenzione agli ultimi (O. Benzi).

La celebrazione del Concilio Vaticano II apre a una visione più complessiva della presenza del laicato nella Chiesa. D’altra parte si pone in modo nuovo la questione della Chiesa nel mondo. In concomitanza a questo mutamento, si fa urgente il problema dell’impegno politico, condizionato dal duro dibattito riguardante l’alleanza tra DC e Partito Socialista e dall’esplodere della contestazione giovanile. I movimenti laicali si sentono svincolati da una visione monolitica della militanza. Una parte di essi interpreta l’impegno cristiano come riforma delle strutture di Chiesa e scelta politica di sinistra, e si muoverà progressivamente verso il dissenso cattolico. Un’altra parte tende a escludere dal proprio pensiero motivi di riforma ecclesiastica e a estraniarsi dalla lotta politica giovanile orientata a sinistra, o scegliendo di dedicarsi ad aspetti spirituali e comunitari (Opera di Maria ossia Focolari, Comunità di Bose) o al servizio ai poveri (Comunità Giovanni XXIII, Comunità di S. Egidio, SerMiG), oppure prendendo le distanze, attraverso una crisi dolorosa, dalle tendenze marxiste, per proporre una visione dell’impegno politico dei cattolici in forme simili a quelle dell’intransigenza militante (Comunione e Liberazione), mentre l’AC, attraversando un drastico alleggerimento delle strutture centrali e un calo vistoso di adesioni, ripensava completamente la sua forma di presenza ecclesiale e sociale attraverso la cosiddetta “scelta religiosa” promossa da V. Bachelet.

Mentre il referendum del 1974 sul divorzio sanciva la definitiva distanza tra cattolici del dissenso e movimenti, ponendo l’AC in una posizione difficile di ricerca di equilibrio, il diffondersi dei movimenti accendeva nella Chiesa italiana la questione del rapporto di questi gruppi con la struttura diocesana e parrocchiale, che invece l’AC rispecchiava. La maggioranza dei vescovi, con l’appoggio di settori rilevanti della curia romana, vedeva con diffidenza le tendenze movimentistiche; per contro i movimenti, molto visibili attraverso i mass media, iniziavano a darsi strutture materiali e aggregative (Loppiano, la “mariapoli” dei Focolarini, nasceva nel 1964; prendeva vita nel 1975 il “braccio politico” di CL, Movimento Popolare), e facevano del riferimento diretto al papato il loro carattere di cattolicità, in questo riprendendo la tradizione ultramontana del XIX secolo. La Santa Sede progressivamente apriva ad alcune forme dirette o indirette di riconoscimento, negli ultimi anni di governo di Paolo VI e soprattutto durante il pontificato di Giovanni Paolo II. La Chiesa italiana dava un primo sguardo organico alle forme dei movimenti con la già citata nota del 1981, che sembra rappresentare un primo tentativo di discernimento di “ecclesialità”. Nel 1993 la nota su Le aggregazioni laicali nella Chiesa recepiva la più ampia apertura ai movimenti delle esortazioni post-sinodali Christifideles Laici (1989) e Pastores Dabo Vobis (1992) pur mettendo in guardia sulla non esclusività dei movimenti. Nel frattempo (1987-88) esplodeva la più dura polemica tra un movimento, Comunione e Liberazione, e una diocesi, ossia la Chiesa ambrosiana, il cosiddetto “caso Lazzati”: sul settimanale “Il sabato”, vicino a CL, apparivano interventi critici contro i dirigenti dell’associazionismo cattolico dal 1974 in avanti, tra cui in particolare Giuseppe Lazzati (1909-1986), già rettore dell’Università Cattolica di Milano, “colpevoli” di aver “protestantizzato” il cattolicesimo italiano. Le reazioni coinvolgevano il tribunale ecclesiastico di Milano; un dirigente di MP alludeva all’arcivescovo Carlo Maria Martini come a un giudice non imparziale. L’abbraccio del Card. Martini e di Mons. Giussani durante un pellegrinaggio nel giugno 1988 chiudeva simbolicamente la vicenda.

I principali movimenti che si collocano nell’ambiente italiano si possono distinguere tra movimenti e comunità di origine italiana e movimenti nati all’estero e attecchiti in Italia.

Il movimento dell’Opera di Maria, meglio noto come “Focolari”, è fondato da Silvia Lubich, detta Chiara (1920-2008), proveniente dalle fila dell’AC trentina, nel 1943, e ha assunto nella sua spiritualità dell’unità e della fratellanza universale la linea conciliare dell’ecumenismo e del dialogo interreligioso. Luigi Giussani (1922-2005), giovane sacerdote insegnante in un seminario milanese, nel 1954 sceglie di dedicarsi a “ricostruire una presenza cristiana in ambiente studentesco” e diventa insegnante di religione in un liceo di Milano. Il gruppo di giovani che si raduna attorno a lui, inizialmente chiamato “Gioventù Studentesca”, dopo una fase critica nel periodo della contestazione dà vita a “Comunione e Liberazione”. Nel 1958 un sacerdote della diocesi di Rimini, Oreste Benzi, si dedica a coinvolgere gli adolescenti in un incontro “simpatico” con Cristo. Nel 1968 decide di accogliere ragazzi disabili nei campeggi estivi. Nel 1973 nasce la prima “casa famiglia” e la comunità “Giovanni XXIII”. Nel 1964 un impiegato di banca piemontese, Ernesto Olivero, fonda con altri giovani il Servizio Missionario Giovanile, con una particolare attenzione alle realtà della povertà e della fame nel mondo. Nel 1983 il SerMiG ottiene la gestione di un’immensa area industriale dismessa, l’antico arsenale militare di borgo Dora a Torino, che diviene il centro delle attività assistenziali e delle esperienze giovanili del movimento. La Comunità di Sant’Egidio nasce nella città di Roma nel 1968 da un gruppo di giovani che intendono condurre una vita cristiana di servizio alla povertà e alla pace senza connotazioni politiche. Il fondatore è un liceale, Andrea Riccardi, ora docente universitario. La comunità trova ospitalità presso una chiesa di Trastevere. I punti di riferimento sono la preghiera quotidiana, la comunicazione del vangelo, la solidarietà con i poveri, l’ecumenismo e il dialogo. La comunità si impegna a intervenire anche nei conflitti internazionali con contatti di mediazione. Un gruppo di studenti cattolici, valdesi e battisti di Torino si ritrovavano nel 1963 attorno al giovane Enzo Bianchi per leggere insieme il vangelo. Nel 1965 Bianchi si trasferisce in una cascina della pianura piemontese, a Bose. Sostenuti nei primi passi dall’arcivescovo Torinese Michele Pellegrino, i monaci di Bose offrono la possibilità dell’accoglienza e propongono un percorso ecumenico.

Pur non essendo nato in Italia, ma nella periferia di Madrid, il cammino neocatecumenale attecchisce quasi subito in Italia, con una comunità presso la parrocchia dei santi Martiri Canadesi in Roma, nel 1968. Anche altri movimenti di origine ispanica e definiti di riconquista cristiana della società si diffondono in Italia: i Cursillos di Cristianità, nati dai giovani di AC di Mallorca (in Italia dal 1965), e l’Opus Dei, il cui fondatore J. Escrivá de Balaguer (1902-1975), si trasferisce a Roma nel 1946.

Una interessante diffusione in tutta la penisola ha Rinnovamento nello Spirito, la forma italiana del movimento carismatico cattolico sorto nei college americani con analogie e contatti con il movimento pentecostale protestante.

Dagli anni ’80 fino all’inizio del XXI secolo i movimenti in Italia hanno vissuto alcuni passaggi di svolta. La scelta di papa Wojtyła di proclamare una fase di “nuova evangelizzazione” per il mondo occidentale offre una cifra che accomuna molti di questi gruppi. In Italia, la CEI dà origine alla Consulta Nazionale delle Aggregazioni Laicali (1993), che apre una stagione di riconciliazione con le associazioni come l’AC e lo scoutismo (Agesci). Negli ultimi tempi molti dei movimenti italiani si trovano ad affrontare il delicato momento della scomparsa del fondatore: Luigi Giussani (2005), Oreste Benzi (2007), Chiara Lubich (2008), il sacerdote bresciano Dino Foglio, storico leader di Rinnovamento nello Spirito (2006).

Accenniamo ad alcune questioni aperte. I movimenti sono stati e sono l’avanguardia della Chiesa cattolica verso il mondo contemporaneo, o sono un fenomeno di nostalgia, di retroguardia (D. Menozzi), oppure una “anti-contestazione” (G. Martina)? Quanto ogni singolo movimento ha veramente e non solo nominalisticamente assunto le linee del Concilio Vaticano II? I movimenti e le nuove comunità sono percorsi di nuova evangelizzazione rivolti al mondo secolarizzato, oppure in realtà “pescano” proseliti sostanzialmente all’interno del mondo dei credenti praticanti (M. Faggioli)? I movimenti sono nuove forme di vita laicale nella Chiesa, o rappresentano un fenomeno di tipo clericale?

Fonti e Bibl. essenziale

M. Casella, L’Azione Cattolica nell’Italia contemporanea: 1919-1969, Roma (AVE) 1992 Chiesa in Italia. Annale 2010 di “Il Regno”; M. Faggioli, Breve storia dei movimenti cattolici, Roma (Carocci) 2008; M. Faggioli, Movimenti religiosi, in Dizionario del sapere storico-religioso del novecento, a cura di A. Melloni, II, Bologna (Il mulino) 2010, 1151-1155; Fedeli Associazioni Movimenti, XXVIII incontro di studio (2-6 luglio 2001), a cura del Gruppo italiano docenti diritto canonico, Milano (Glossa) 2002; M. Guasco, Chiesa e cattolicesimo in Italia (1945-2000), Bologna (EDB) 2001; D. Hervieu-Léger, Il pellegrino e il convertito. La religione in movimento, Bologna (Il mulino) 2003; G. Martina, La Chiesa in Italia negli ultimi trent’anni [1946-1976], Roma (Studium) 1977; D. Menozzi, La continuità di un modello nella chiesa postconciliare: il “caso Lazzati”, in D. Menozzi, La Chiesa cattolica e la secolarizzazione, Torino (Einaudi) 1993, 232-263; E. Preziosi, Obbedienti in piedi. La vicenda dell’Azione Cattolica in Italia, Torino (SEI) 1996.


LEMMARIO




Nunziatura - vol. II


Autore: Alberto Guasco

Secondo il Codex Iuris Canonici del 1917, nunzio apostolico è colui che detiene l’incarico di rappresentare la Santa Sede presso i governi stranieri, curando le relazioni tra le due istituzioni e vigilando la locale vita diocesana, per riferirne direttamente al papa. In questo senso, per le specifiche condizioni dell’Italia, il ruolo dei nunzi e della nunziatura pontificia presso i governi del nostro paese si è fino a oggi configurato in maniera del tutto particolare, tanto durante gli anni del regime fascista quanto nell’arco della storia repubblicana.

L’11 febbraio 1929, giorno della firma dei Patti del Laterano, la Santa Sede e il Regno d’Italia ristabilirono relazioni diplomatiche, interrotte il 20 settembre 1870 a seguito dell’ingresso delle truppe piemontesi a Roma. In questo senso, la norma giuridica concordataria – all’articolo 12 del Trattato – stabilì l’insediamento di un nunzio apostolico presso il re d’Italia: “Le Alte Parti contraenti si impegnano a stabilire tra loro normali rapporti diplomatici, mediante accreditamento di un Ambasciatore italiano presso la Santa Sede e di un Nunzio pontificio presso l’Italia, il quale sarà il Decano del Corpo Diplomatico, a termini del diritto consuetudinario riconosciuto dal Congresso di Vienna con atto del 9 giugno 1815”.

Designato da papa Pio XI, primo nunzio in Italia fu monsignor Francesco Borgongini Duca (1884-1954), già segretario della congregazione per gli Affari Ecclesiastici Straordinari, che ricoprì la carica dal 1929 al 1953. Nel quadro dei rapporti con il regime fascista, gestiti direttamente dal papa e dalla segreteria di stato, ad Achille Ratti occorreva un ecclesiastico conosciuto dal regime – tale era Borgongini, coinvolto nelle trattative concordatarie per tutto il loro arco – e a esso non sgradito, ben inserito nella curia e nel mondo ecclesiastico romano, fedele interprete della linea pontificia e non, eventualmente, di una propria. In questo senso, non è un caso che accanto alle istruzioni relative ai privilegi e alle prerogative del nunzio in Italia, e a quelle di Propaganda Fide inerenti i tre vicariati africani, il materiale relativo alla nomina di Borgongini non conservi alcuna istruzione riguardante le linee di politica ecclesiastica che il nunzio avrebbe dovuto mantenere verso il regime fascista. Tali linee, peraltro, dopo tre anni di trattative a singhiozzo, doveva essere ben evidente a Borgongini, destinato a occuparsi di stampa anticlericale e pornografica, attività comuniste in danno alla gioventù, moralità degli spettacoli, rispetto del riposo festivo, situazione del clero congruato e protezione demografica della città di Roma.

Il 2 luglio 1929 Borgongini si insediò nel palazzo di via Nomentana, entro un contesto cerimoniale che – descritto al cardinal Gasparri nel primo rapporto del 15 luglio 1929 – lasciava intravedere il rapporto ancora traumatico con il 1870 e il compiacimento dell’uomo di chiesa che nella sconfitta del liberalismo massonico rileggeva provvidenzialmente un intero tratto di storia: “Passando per Porta Pia manifestai la mia emozione al Cerimoniere di Corte … “Sessant’anni fa” io osservavo “entrando le truppe italiane per questa Porta, la massoneria intendeva di dare l’ultimo colpo alla Chiesa e al Pontificato; oggi, con il consenso universale del popolo italiano, l’umile rappresentante del Sommo Pontefice entra solennemente, e riprende il posto d’onore nella vita pubblica della Nazione. La Provvidenza ha disposto che noi passassimo per la stessa Porta. Altrettanto dissi a Sua Maestà il Re, e poi al Capo del Governo”. Tuttavia, allo stesso tempo, la nomina prese corpo nel crescendo di polemiche tra Santa Sede e governo italiano che seguì alla stipula del Concordato, in qualche modo già restituendo il peso specifico del nunzio e della nunziatura nel rapporto tra le due istituzioni: un ruolo marginale, ma al contempo un barometro dell’accordo o dell’attrito alternativamente intercorrente tra le due autorità.

La lettura dei rapporti e degli appunti delle udienze con Mussolini stilate dallo stesso Borgongini nel corso degli anni non disegna il ritratto di un pedissequo esecutore delle indicazioni pontificie, ma certo quello d’un diplomatico tenuto ad attenersi strettamente alle linee formulate dal pontefice, costretto a operare – come annotato dal suo segretario, monsignor Giulio Barbetta – “in Roma, cioè presso i dicasteri diplomatici della S. Sede, in contatto con due personalità fortissime, quali Pio XI e Benito Mussolini, e in circostanze spesso drammatiche”. Per quanto scrupolosamente Borgongini svolgesse il ruolo di portavoce del papa, specie sui problemi specifici della post-conciliazione (l’abolizione della festa del XX settembre, la gestione della “vigilanza” contro i nemici della chiesa, protestanti, massoni e anticlericali), tuttavia finì sempre per essere accantonato nei momenti di più acuto urto con il regime, cioè durante la crisi di Azione Cattolica del 1931 e del 1938.

Nelle sue linee di fondo, il peso specifico della nunziatura non aumentò durante con il pontificato di Pio XII, né durante il periodo bellico, né negli anni del dopoguerra e del centrismo degasperiano. In questo senso, anche se la normativa concordataria parlava chiaro fu sempre papa Pacelli – che dalla morte del cardinal Maglione tenne anche la segreteria di stato – il referente ultimo delle questioni di carattere politico e diplomatico concernenti i rapporti con il governo italiano. Di conseguenza, la nunziatura finì costantemente scavalcata dai rapporti diretti tra governi a guida democristiana e segreteria di stato, nonché dal canale rappresentato dall’ambasciata italiana presso la Santa Sede. Ulteriore fattore di debolezza della nunziatura fu poi costituito dalle iniziative personali attraverso le quali cardinali e vescovi – in un contesto sempre più segnato dal contrasto tra i ritmi della modernizzazione e dell’incipiente boom economico – si approcciarono al potere politico, tentando di condizionarne le scelte nel senso dei propri obiettivi specifici. L’attività della nunziatura restò dunque concentrata in settori secondari della vita ecclesiastica (modifiche dei confini diocesani, adeguamento della congrua al clero, richiesta di commissari qualificati nei concorsi magistrali per esaminare i futuri maestri di religione) finendo sistematicamente esclusa nel caso di più delicati casi di frizione tra Santa Sede e stato italiano (come nel caso di monsignor Pietro Fiordelli) o di nomine episcopali di particolare importanza (come quella di Giovanni Battista Montini a Milano).

Il quadro restò tale durante la nunziatura dell’eporediese Giuseppe Fietta (1883-1960), già nunzio in America Centrale e nell’Argentina di Peron, che nel 1953 sostituì Borgongini Duca. Fu una “quarta scelta”, se prima di lui – come scrisse l’ambasciatore Mameli il 24 dicembre 1952 – la Santa Sede aveva pensato a monsignor Filippo Bernardini, già nunzio a Berna, e a due altri prelati. Tuttavia, si trattava pur sempre, aggiungeva l’ambasciatore il 21 gennaio 1953, d’un “prelato di alte doti” e di “sentimenti altamente italiani”. Simile scelta fu ripetuta anche nel caso del successore di Fietta, monsignor Carlo Grano (1887-1976), operata da Giovanni XXIII nel 1958. Entrato in segreteria di stato nel 1923, non si trattava d’una personalità di elevata esperienza politica e diplomatica, quanto – come scrisse l’ambasciatore Migone il 1° dicembre 1958 – “noto per la sua pietà e il senso di assoluta devozione ai pontefici”. In questo senso, aggiungeva l’ambasciatore mostrando notevole consapevolezza, “la Santa Sede sembra preoccuparsi di designare quale Nunzio in Italia personalità politicamente incolori e quindi non portate ad agire per iniziativa propria”. Se ci fu invece un livello di novità nell’azione di papa Roncalli, fu il tentativo di normalizzazione delle relazioni con l’Italia, riconducendole entro i canali diplomatici prestabiliti, frenando il protagonismo delle diverse correnti democristiane e dei cardinali e dei vescovi italiani.

A questa novità si aggiunsero poi quelle degli anni del Concilio, con il suo tentativo – e le relative difficoltà – di armonizzare la figura diplomatica del nunzio apostolico con il nuovo ruolo pastorale progressivamente delineato per i vescovi diocesani e per le conferenze episcopali. Già nel 1951, nel discorso tenuto in occasione dei 250 anni della Pontificia Accademia Ecclesiastica – semenzaio dei diplomatici vaticani – Montini aveva sottolineato l’indole sacerdotale del nunzio, sì impegnato a “difendere i diritti della Santa Sede”, ma anche a “a servire i bisogni dei popoli presso cui va”. Il 24 giugno 1969, in pieno post-concilio, il motu proprio di Paolo VI Sollicitudo Omnium Ecclesiarum riprendeva in esame il problema, per descrivere la nunziatura e il nunzio apostolico non solo quale rappresentante del pontefice presso le chiese del mondo, ma anche delle chiese del mondo presso il pontefice.

Tale intendimento trovava quindi formalizzazione – mentre quali nunzi in Italia si succedevano, dal 1967 al 1969, l’emiliano Egano Righi-Lambertini (1906-2000) e, dal 1969 al 1986, il marchigiano Romolo Carboni (1911-1999) – nel nuovo codice di diritto canonico promulgato da papa Giovanni Paolo II nel 1983. Ne usciva confermato un ruolo più ecclesiastico che diplomatico dei nunzi, comunque più formati in missione, sul campo, che non all’Accademia. In questo contesto e in quest’ottica, durante il pontificato woytilano, si sono succeduti alla nunziatura: il piacentino Luigi Poggi (1917-2010), nunzio in Italia dal 1986 al 1992 dopo aver contribuito allo stabilimento del concordato tra Santa Sede e Tunisia (1964) e una lunga trafila d’incarichi diplomatici nei paesi dell’Africa centrale, in Perù, nunzio con incarico speciale per migliorare le relazioni con diversi paesi aderenti al patto di Varsavia (1973), in particolare con la Polonia; l’eporediese Carlo Furno, (1921-), nunzio in Italia dal 1992 al 1994 dopo l’analogo incarico ricoperto in Perù (1973), in Libano (1978) e in Brasile (1982); il barese Francesco Colasuonno (1925-2003), nunzio in Italia dal 1994 al 1998 dopo aver rivestito il ruolo di pro-nunzio in Yugoslavia (1985), di nunzio con poteri speciali in Polonia (1986) e rappresentante presso la Federazione Russa (1990); il torinese Andrea Cordero Lanza di Montezemolo (1925-), nunzio in Italia dal 1998 al 2001 dopo l’analogo incarico svolto in Honduras e Nicaragua (1980) durante la rivoluzione sandinista, in Uruguay (1986), e il lavoro quale delegato apostolico e pro-nunzio in Gerusalemme e per la Palestina (1990-1998); il catanese Paolo Romeo (1938-), nunzio in Italia dal 2001 al 2006, dopo le esperienze ad Haiti (1983), in Colombia (1990) e Canada (1999). Infine, per quel che riguarda gli anni di pontificato di Benedetto XVI, nunzi in Italia sono stati nominati il torinese monsignor Giuseppe Bertello (1942), che ha ricoperto l’incarico dal 2006 al settembre 2011, quando gli è subentrato nel ruolo Adriano Bernardini, nativo di Pian di Meleto (Pesaro-Urbino) già nunzio in Thailandia e ambasciatore vaticano in Argentina.

Fonti e Bibl. essenziale

M. Casella, Gli ambasciatori d’Italia presso la Santa Sede dal 1929 al 1943, Congedo, Galatina 2009; N. Del Re, La curia romana. Lineamenti storico-giuridici, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 1998; G. De Rosa, G. Cracco a cura di, Il Papato e l’Europa, Rubbettino, Soveria Mannelli, 1999; C.M. De Vecchi, Tra papa, duce e re. Il conflitto tra chiesa cattolica e stato fascista nel diario 1930-1931 del primo ambasciatore del regno d’Italia presso la Santa Sede, Jouvence, Roma 1998; M.F. Feldkamp, La diplomazia pontificia, Jaca Book, Milano 1995; A. Giovagnoli a cura di, Pacem in terris tra azione diplomatica e guerra globale, Guerini e Associati, Milano 2003; A. Guasco, “Dies war der Beginn der Nuntiatur Italiens”. Anmerkungen zur Person Francesco Borgongini Ducas”, in H. Wolf a cura di Eugenio Pacelli als Nuntius in Deutschland, Kommison fur Zeitgeschichte, Bonn 2011; A. Guasco, Guasco, Tra segreteria di Stato e regime fascista. Mons. Francesco Borgongini Duca e la nunziatura in Italia (1929-1939), in L. Pettinaroli (a cura di), Le gouvernement pontifical sous Pie XI: pratiques romaines et gestion de l’universel, Ecole Francaise de Rome 2013; Melanges de l’Ecole Francaise de Rome. Italie et Mediterranee, Ecole Francaise de Rome, 1998; A. Melloni, M. Guasco a cura di, Un diplomatico vaticano fra dopoguerra e dialogo. Mons. Mario Cagna (1911-1986), Il Mulino, Bologna 2003; Pennacchini P., La Santa Sede e il fascismo in conflitto per l’Azione cattolica, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano, 2012; A. Riccardi, Le politiche della chiesa, San Paolo, Cinisello Balsamo 1997; H. Wolf a cura di Eugenio Pacelli als Nuntius in Deutschland, Kommission fur Zeitgeschichte, Bonn 2011; A. Zambarbieri, Il nuovo papato. Sviluppi dell’universalismo della Santa Sede dal 1870 a oggi, San Paolo, Cinisello Balsamo 2001.


LEMMARIO




Nuove comunità - vol. II


Autore: Giancarlo Rocca

Negli anni attorno al concilio Vaticano II sono cominciate a sorgere molte nuove comunità in tutto il mondo, e quelle sorte in Italia presentano le caratteristiche che si ritrovano un po’ ovunque, e cioè di essere: laicali, anche se al loro interno ci sono sacerdoti; miste, con vita comune di uomini e donne; ecumeniche, lasciando posto anche a membri di altre confessioni; e tendenza al cosiddetto radicalismo evangelico. Per l’Italia le caratteristiche della comunità laicale, mista ed ecumenica si ritrovano nella comunità di Bose, fondata attorno al 1963-1964 a Torino da Enzo Bianchi, mentre il radicalismo lo si ritrova nella comunità denominata alle origini “Monaci del Padre”, fondata da don Emilio Grasso a Roma nel 1969, i quali sottolineavano che la discriminante per loro non passava più sui consigli evangelici di castità, povertà e obbedienza, ma su un impegno di radicalità nei confronti del Vangelo. E ciò comportava che anche gli sposati potessero far parte della loro comunità.

Stando al censimento edito nel 2010 (Primo censimento…: v. bibl.), sino al 2009 sono state fondate 775 nuove comunità, di cui 205 negli USA, 200 in Italia, 161 in Francia, cui seguono, a una certa distanza, Canada (con 47 nuove comunità), Brasile (44) e Spagna (20). Per la periodizzazione, anche per l’Italia sembra che gli anni di maggior fioritura siano quelli tra il 1970 e 1990. Per catalogare questa enorme fioritura di comunità si sono cercate diverse tipologie, e quella che permette di classificarle più facilmente distingue tra: a) Comunità vicine alla vita monastico-religiosa intesa in senso classico; b) comunità di servizio o caritative; c) comunità vicine al movimento carismatico o alle apparizioni di Medjugorie.

In Italia le nuove comunità a carattere monastico-religioso (studiate da Torcivia: v. bibl.) sono numerose, sicuramente oltre 40, e le più note, oltre quella di Bose, sono la Piccola Famiglia dell’Annunziata, fondata tra il 1953 e il 1954 da Giuseppe Dossetti; i Memores Domini, fondati nel 1964 a Gudo Gambaredo da don Luigi Giussani; i Frati Minori Rinnovati, fondati a Palermo nel 1972; la Fraternità di Gesù, fondata nel 1972. Tra le comunità di servizio (caritativo e missionario) figurano: la Comunità di Villapizzone, fondata a Milano alla fine degli anni ’60; la Piccola Opera di San Giuseppe, fondata a Pavia nel 1971; la Comunità Emmanuel, fondata a Lecce.

Tra le comunità che hanno le loro radici in un movimento spirituale figurano la Fraternità Francescana di Betania, legata al movimento carismatico, fondata dal cappuccino p. Pancrazio Gaudioso; e la Comunità Mariana Oasi della Pace, legata a Medjugorie e fondata dal passionista Gianni Sgreva. Anche per quanto riguarda l’approvazione da parte della autorità ecclesiastica, le nuove comunità italiane hanno seguito l’orientamento generale.

Considerando le difficoltà di tenere uniti in un corpo unico consacrati, consacrate e sposati, gradatamente le nuove comunità hanno separato gli sposati dal gruppo centrale dell’istituto, considerandoli come una specie di terz’ordine o associazione che segue gli orientamenti del gruppo, ma non è equiparata ai consacrati intesi in senso stretto. In questo senso si sono orientati già alle origini i “Monaci del Padre”, e poi un po’ tutte le nuove fondazioni, particolarmente dopo la dichiarazione di Vita consecrata (n. 62) che riaffermava come gli sposati non potessero essere considerati consacrati.

Considerando che la Congregazione per gli Istituti di vita consacrata e le società di vita apostolica avrebbe mosso difficoltà alla loro approvazione, nonostante l’esistenza del canone 605 del Codice di diritto canonico che prevedeva il riconoscimento di nuove forme di vita consacrata, diverse nuove comunità hanno preferito chiedere l’approvazione al Pontificio consiglio per i laici.

La prima nuova comunità, con possibilità di vita comune, con attività apostolica e con impegni (castità, povertà e obbedienza) molto vicini a quelli dei consacrati, a chiedere l’approvazione al parte del Pontificio Consiglio per i laici è stata “Seguimi”, fondata a Roma nel 1965 dal p. Anastasio Gutiérrez e da Paola Majocchi, che ottenne l’approvazione pontificia definitiva nel 1984. Sulla sua scia si posero altre fondazioni, come l’Opera di Maria (Focolarini), i Memores Domini e la Comunità Missionaria di Villaregia.

Altre comunità, che desideravano invece avere un riconoscimento dalla Congregazione per gli istituti di vita consacrata e le società di vita apostolica, quindi come consacrati (come la Fraternità Francescana di Betania e la Comunità mariana Oasi della Pace), sono rimasti a livello diocesano, anche perché non tutte le questioni circa la nuove comunità sono state risolte (ad es., il carattere misto delle comunità e la possibilità che la carica di superiore generale possa essere affidata a una donna, anche se in comunità ci sono sacerdoti). Attualmente, delle circa 800 nuove comunità sparse nel mondo solo 7 hanno ricevuto l’approvazione pontificia da parte della Congregazione per gli istituti di vita consacrata come “Altri istituti di vita consacrata”, e nessuna di essi è italiana.

Fonti e Bibl. essenziale

G. Rocca, Bibliografia generale sulle nuove comunità, in Id., ed., Primo censimento delle nuove comunità, Roma, Urbaniana University Press, 2010, 327-344. Per alcune comunità: E. Bianchi, Bose, in DIP 1 (1974) 1533-1537; R. Meridiani, Monaci del Padre, ivi, 6 (1980) 23-25. Studi: G. Rocca, Nuove forme di vita consacrata: le nuove comunità, in Informationes SCRIS 30 (2004/2) 87-126; G. Ghirlanda, Iter per l’approvazione degli istituti di vita consacrata a livello diocesano e pontificio e delle nuove forme di vita consacrata, in Periodica 94 (2005) 621-646; R. Fusco – G. Rocca, edd., Nuove forme di vita consacrata, Roma, Urbaniana University Press, 2010. Statistiche e censimenti: A. Favale, Movimenti ecclesiali contemporanei. Dimensioni storiche, teologico-spirituali ed apostoliche, Roma, LAS, 19914; B. Zadra, I movimenti ecclesiali e i loro statuti, Roma, Pontificia Università Gregoriana, 1997; M. Torcivia, Guida alle nuove comunità monastiche italiane, Casale Monferrato, Piemme, 2001; G. Rocca, ed., Primo censimento delle nuove comunità, Roma, Urbaniana University Press, 2010.


LEMMARIO




Oratori - vol. II


Autore: Angelo Manfredi

L’oratorio moderno, come forma popolare di dialogo tra Chiesa e mondo dei ragazzi e dei giovani, ha origine da due galassie di iniziative radicate nella Chiesa post tridentina, con radici certamente risalenti all’età dell’umanesimo: le “scuole della Dottrina Cristiana” di Milano, sostenute soprattutto dall’arcivescovo Federico Borromeo, e gli “oratori” animati dai seguaci di Filippo Neri, che da Roma si diffusero in varie città d’Italia. Si trattava sostanzialmente di modalità per accompagnare l’impegno di formazione catechistica dei ragazzi a iniziative aggregative-espressive, in particolare nel versante musicale. Mentre le “scuole” milanesi ebbero rilevanza locale, i filippini diffusero il loro modello in alcune città della penisola.

Il XIX secolo mise alcune Chiese italiane di fronte alle questioni dell’urbanizzazione e della primissima industrializzazione, con il conseguente abbandono dei piccoli da parte dei genitori-lavoratori o con le forme di lavoro minorile. In queste città, prevalentemente del nord Italia, si misero in moto figure di educatori e iniziative che in vari modi finirono per richiamarsi all’antica immagine di “oratorio”. I contatti tra questi padri fondatori provocarono reciproche influenze e contaminazioni: ad esempio don Bosco e gli oratori milanesi, il Murialdo e i patronati veneziani; non va dimenticato un certo influsso di analoghe iniziative di origine francese. I poli di accensione più importanti del fenomeno si riconducono a Torino con Giovanni Bosco, Leonardo Murialdo e la singolare figura di Giovanni Cocchi; a Milano con la ripresa e la moltiplicazione degli oratori tradizionali in città; nel bresciano con il modello dell’oratorio cittadino della “Pace” e l’azione del barnabitaFortunato Redolfi; a Venezia con il sorgere e il diffondersi anche in terraferma dei “patronati”. I governi, sia quello Sardo che il Lombardo-Veneto, diedero un certo sostegno alle iniziative, considerate in un’ottica paternalistica.

Negli ultimi decenni dell’800 questi diversi modelli varcarono gli ambiti territoriali d’origine. L’oratorio milanese fu sostenuto dall’arcivescovo Andrea Carlo Ferrari, prese piede in provincia e, grazie a una lettera collettiva dei vescovi lombardi (1899) e all’impegno di quasi tutti i capi delle diocesi, in alcuni decenni determinò il sorgere di un oratorio per ogni parrocchia, perfino nelle più piccole; il che portò alcune tensioni tra questi oratori parrocchiali e gli antichi oratori “cittadini” come per il caso di Lodi. I salesiani cercarono di affiancare a ciascuna loro fondazione l’oratorio festivo, in più di cento città o centri di medie dimensioni; però spesso le esigenze dei collegi finirono per mortificare l’impegno originario per l’oratorio, nonostante le ripetute ammonizioni dei responsabili della congregazione. Il sostegno offerto dal Murialdo ai patronati veneti portò a una certa diffusione anche in Emilia. La disuguale geografia dell’oratorio in Italia si riproduce, con qualche limitato spostamento, fino ai giorni nostri: altissima densità in Lombardia, presenza dei patronati in Veneto, media presenza nelle altre regioni del nord, oratori salesiani e di altre congregazioni nel centro sud, soprattutto nelle città. In parallelo e nelle stesse aree, varie congregazioni religiose femminili di vita attiva fecero sorgere oratori femminili, con una certe disomogeneità di stili educativi ma con una sintonia di fondo.

Le diverse tradizioni oratoriali ebbero modo di incontrarsi e dialogare in alcuni congressi: Brescia (1895), Torino (1902), Faenza (1907), Milano (1909), Torino (1911), Cagliari (1921). Si tentarono le prime forme associative, tra le quali la Federazione Oratori Milanesi (FOM, 1913) fu quella con maggior futuro. Soprattutto la Lombardia e il Veneto innestarono nell’oratorio una certa sensibilità sociale, già percorsa dal Murialdo: formazione al risparmio, garanzia verso i contratti e le condizioni di lavoro.

Con una certa dose di semplificazione, pur nelle tradizioni e sensibilità differenti si potrebbe identificare in questo momento un modello base d’oratorio: un “direttore”, sacerdote, coadiuvato da pochi responsabili adulti, religiosi a loro volta oppure laici quasi “professionalizzati” (prefetti, cooperatori), a fronte di centinaia di bambini generalmente dai 6 ai 12/14 anni. Qualche studioso definisce giustamente questa forma il modello “patriarcale”. Di fronte a questa struttura, emergevano già a fine ‘800 nei dibattiti alcune questioni: anzitutto, il ruolo e il possibile inserimento negli oratori dell’associazionismo giovanile che faceva capo alla Società della Gioventù Cattolica, con notevoli tensioni tra direttori d’oratorio e responsabili sacerdoti e laici di AC. In secondo luogo, a questi oratori nati per ospitare soprattutto piccoli studenti e apprendisti, e anche “bambini di strada”, non era facile la frequenza per adolescenti studenti e giovani, e il modello della “Pace” di Brescia, con la compresenza e la distinzione tra l’oratorio e il “circolo studenti”, era una possibile soluzione. Infine, il diffondersi del teatro popolare e dello sport moderno richiedeva una continua e talvolta tormentata ricerca di equilibrio tra le forme aggregative popolari e i tempi di formazione catechistica. Tra le strade battute, in primo luogo dai salesiani ma con altre esperienze legate al clero secolare, per rivolgersi a studenti delle scuole superiori e dell’università, vanno menzionate le “scuole di Religione”, veri corsi di formazione teologica-apologetica.

Le vicende delle prima guerra mondiale e della presa di potere del fascismo, mentre posero alla Chiesa italiana con forza la “questione giovanile” e misero in pericolo le realtà associative, ebbero una relativa influenza sulla realtà oratoriana, che però dovette rinunciare alla sensibilità di tipo sociale là dove era diffusa e si trovò a dover limitare le attività sportive, rigidamente controllate dal regime. Gli oratori che avevano sviluppato un certo contatto col mondo dei giovani (18-30 anni) in vari casi videro esperienze di pastorale dei militari e divennero i depositari simbolici delle memorie dei tanti caduti.

Il secondo dopoguerra invece fu un tempo di più gravi scosse per le strutture e per le tradizionali metodologie oratoriale. I danni dei bombardamenti e l’utilizzo degli spazi per gli sfollati posero gli stabili oratoriali in condizioni d’emergenza. La successiva ondata di urbanizzazione soprattutto nei centri a più alta densità di oratori (Lombardia e Torino) spinsero a una diffusione massiccia di queste realtà aggregative nelle nuove periferie, con uno sforzo economico parallelo a quanto si fece per le nuove chiese. Riprese soprattutto in Lombardia la sensibilità sociale degli oratori, a volte informali uffici di collocamento, ed esplose lo sport popolare, con squadre oratoriane che scalavano i campionati nazionali.

Da Brescia partì il tentativo di dare una forma associativa alle diverse realtà oratoriane diffuse in Italia, e nel 1963 nacque l’Associazione Nazionale San Paolo Italia, che si proponeva pure come interfaccia tra gli oratori e le autorità civili. Non tutti i mondi oratoriani però si raccolsero nell’ANSPI, anzi la FOM di Milano e il mondo salesiano rimasero totalmente indipendenti. Con il consolidarsi, pur tra tensioni interne, dell’associazionismo giovanile dell’AC di Gedda, ritornò sul tappeto la questione del rapporto tra oratori e GIAC. Il modello impostato a Milano dall’arcivescovo A. I. Schuster e continuato dal successore G. B. Montini, l’oratorio era per tutti e l’associazione per “i migliori”. Altrove invece le sezioni dell’Azione Cattolica trovarono la loro sede naturale nell’oratorio, il cui direttore era pure assistente associativo, così come negli oratori parrocchiali lombardi si aveva la sede delle attività catechistiche, con interessanti sperimentazioni, mentre non mancarono le tensioni tra oratori salesiani e parrocchie sulla responsabilità ultima della formazione cristiana dei bambini.

Soprattutto in ambito milanese, con qualche esperienza in altre diocesi lombarde, gli anni ’50 vedono il dibattito e la sperimentazione di luoghi specificamente rivolti ad adolescenti e giovani, chiamati “centri giovanili” o “case della gioventù”, con esiti più o meno efficaci nel tempo. Chi studia questa fase del rapporto tra Chiesa italiana e giovani pone il problema dell’effettiva capacità delle comunità, e in particolare degli oratori, di comprendere i dinamismi delle società italiana del dopoguerra. In effetti si ha l’impressione di un mondo legato a salde tradizioni ma in difficoltà nell’ampliare la lettura della società al di là di un approccio moralistico quando non politico. Questo ritardo sembra colpire in modo particolare il mondo degli oratori femminili.

La scuola media unificata, il diffondersi della frequenza degli adolescenti alla scuole superiori, i primi segni di un’università di massa, dimensioni vissute ovviamente con ritmi diversi a seconda dei territori, impongono agli oratori una forma che sovverte il modello “patriarcale”: non più il “direttore” che impronta con la propria sensibilità educativa tutto il cortile, ma un oratorio pieno di adolescenti e giovani, che assumono responsabilità soprattutto sul versante formativo, anzi sono i protagonisti del “rinnovamento della catechesi” post-conciliare, ma che chiedono di avere un peso decisionale. E’ l’oratorio “giovanile” degli anni ’60-’80, del boom demografico e della entusiasta ricezione del Vaticano II, con una “crisi di crescita” generazionale che vide anche i gruppi giovanili degli oratori coinvolti in vari modi e gradi nella contestazione, ma che trovò sia il mondo oratoriano che quello associativo capaci di integrare ancora numeri consistenti negli anni ’80. E’ il periodo in cui le vecchie “colonie” estive si trasformano nei “Grest” con una proposta educativa sempre più studiata e il coinvolgimento della fascia degli adolescenti come “animatori”, e nei “campi-scuola”.

Questa fase espansiva e di trasformazione subisce una progressiva messa in crisi dovuta all’avanzare dei fenomeni di distacco dalla pratica religiosa ma anche al brusco calo della natalità e alla trasformazione dei ritmi di vita dei giovani. Silenziosamente viene meno il mondo degli “oratori femminili” sia per l’esigenza recente di educare insieme gli adolescenti e i giovani di entrambi i sessi, sia per il calo di personale e di presenza delle congregazioni religiose femminili. Mentre diverse realtà tentano sperimentazioni sul versante del tempo libero, della musica, dello sport, anche nelle regioni dove la presenza del sacerdote in oratorio è consolidata il calo delle vocazioni pone il problema delle responsabilità educative. Qua e là ci si domanda se l’oratorio abbia un futuro, ma sembra che si stia delineando un nuovo modello, con un ruolo delle famiglie, e anche di operatori professionali. Intanto sia una legge nazionale (2003) che alcune disposizioni regionali (Lombardia, Abruzzo e Lazio 2001, Piemonte 2002, Puglia 2003, Liguria 2004, Valle d’Aosta 2006, Marche 2008, Sardegna 2010) riconoscono formalmente gli oratori come attori dell’impegno educativo nella società. Nel 2003 nasce il Forum Oratori Italiani (FOI) come realtà di rappresentanza delle diverse tradizioni oratoriane verso la società e gli enti pubblici.

Si attendono studi più complessivi sul fenomeno oratoriano, in vista di una sintesi che mostri la rilevanza storica degli oratori in Italia. Certamente l’oratorio è una forma di pastorale popolare con una capacità di risonanza e di coinvolgimento di tutti gli strati della società. Giustamente Caimi (2006, 382) afferma che “oratori e associazioni giovanili hanno rappresentato una tessera rilevante del cammino della Chiesa in Italia: senza la loro vitalità e il loro contributo nell’àmbito della formazione, l’intera esperienza della comunità ecclesiale sarebbe rimasta notevolmente depotenziata” e sottolinea la necessità, per chi volesse fare una storia dei giovani in Italia, di non trascurare l’apporto di queste strutture all’aggregazione e alla formazione della gioventù.

Fonti e Bibl. essenziale

E. Apeciti, L’oratorio ambrosiano da san Carlo ai giorni nostri, Milano (Ancora) 1998; G. Barzaghi, Tre secoli di storia e pastorale degli oratori milanesi, Leumann (LDC) 1985; P. Braido, L’oratorio salesiano in Italia. “Luogo” propizio alla catechesi nella stagione del Congressi (1888-1915), in “Ricerche storiche salesiane” 24 (2005)/1, 7-87; P. Braido, L’oratorio salesiano vivo in un decennio drammatico (1913-1922), in “Ricerche storiche salesiane” 24 (2005)/2, 224-243; L. Caimi, Cattolici per l’educazione. Studi su oratori e associazioni giovanili nell’Italia unita, Brescia (La Scuola) 2006; E-state in oratorio/2. La formazione e la sussidiazione per gli Oratori estivi e i Cre-Grest lombardi, (Gli sguardi di ODL, 4), Bergamo (Oratori Diocesi Lombarde) 2007; Le Figlie di Maria Ausiliatrice in Italia (1872-2010). Donne nell’educazione. Documentazione e saggi, a cura di Gr. Loparco e M. T. Spiga, Roma (LAS) 2011; F. Frassine, Riverisco, sior Cürat. Appunti per un iter storico sull’Oratorio bresciano nel XX secolo, Brescia (COB) 2002; G. Gregorini, Gli oratori, in A servizio del Vangelo. Il cammino storico dell’evangelizzazione a Brescia. 3: l’età contemporanea, a cura di M. Taccolini, Brescia (La Scuola) 2005, 297-306; Salesiani di don Bosco in Italia. 150 anni di educazione, a cura di Fr. Motto, Roma (LAS) 2011; G. Vecchio, Gli oratori milanesi negli anni della ricostruzione: tradizione e novità, in “Bollettino dell’Archivio per la storia del movimento sociale cattolico in Italia” 29 (1994), 413-420; G. Vecchio, Per una storia dell’oratorio a Milano e in Lombardia, in Educare i giovani alla fede, Milano (Ancora) 1990, 69-77.


LEMMARIO




Ordini mendicanti - vol. II


Autore: Giuseppe Buffon

Denominazione e statistiche. L’appellativo ‘Ordini mendicanti’, inizialmente attribuito ai soli Predicatori, o Domenicani OP, ai Frati Minori OFM, agli Agostiniani OSA e ai Carmelitani O.CARM, in seguito viene applicato anche ad altri istituti religiosi, quali: i Gesuati (1567), i Servi di Maria OSM (1567), i Minimi OM (1567), i Trinitari O.SS.T (1609), i Fatebenefratelli OH.FBF (1624) i Mercedari ODM (1690), i Penitenti di Gesù Nazareno (1784), l’Ordine teutonico (1929). Nell’annuario pontificio del 1978, ne vengono enumerati addirittura diciassette, inclusi Conventuali OFMConv, Cappuccini OFMCap, Terz’Ordine Regolare (TOR), Agostiniani Recolletti, Agostiniani Scalzi OAD, Carmelitani Scalzi OCD, Mercedari Scalzi.

Ordine prov mem com par. Ordine prov mem com par
OP 3 359 38 16 OCD 7 465 60 18
OFM 18 2142 281 165 O.SS.T 2 98 16 10
OFMConv 12 909 134 96 ODM 1 130 13 15
OFMCap 21 2277 283 148 OSM 3 293 40 24
TOR 2 82 19 14 OM 3 90 26 16
OSA 1 157 27 23 OH.FBF 2 83 19 0
OAD 1 42 13 6 Totale 7489 1005 573
O.CARM 3 370 36 22

Leggenda: prov= provincia/custodia/commissariato; mem= membri; par= parrocchie.

Buffon

Fonte = Conferenza italiana superiori maggiori CISM, Annuario statistico 2012, Roma 2012

Riforma di Pio IX a favore della selezione dei candidati e della vita comune. Tra i fautori della riforma dei regolari voluta da Pio IX con l’istituzione della nuova congregazione sullo stato dei regolari (7.10.1846), si distingue il cappuccino p. Giusto da Camerino, che lo stesso pontefice designa quale braccio destro di mons. Andrea Bizzarri, l’abile segretario del nuovo dicastero, promosso in seguito cardinale. Il p. Giusto insignito a sua volta del titolo cardinalizio offre il suo apporto determinate soprattutto a favore dell’introduzione del triennio di voti semplici, a vantaggio di una migliore selezione dei candidati, provvedimento che incontra forti resistenze anche nel collegio cardinalizio, a motivo del ritardo delle ordinazioni che priva delle entrare dovute agli onorari di messe. In rapporto all’altro importante provvedimento di riforma, cioè l’obbligo della vita comune, Pio IX ascolta in modo particolare l’allarme lanciato dal neo ministro generale del minori, Venanzio da Celano, da lui stesso investito dell’ufficio generalizio. È ancora il p. Venanzio a stimolare l’accordo tra gli altri ministri generai con l’obiettivo di rivolgere un appello al card. Antonio Orioli, prefetto della congregazione dei Vescovi e Regolari (VVRR), con la richiesta di un interveto energico a favore della vita comune. Il ministro minorita e il vicario generale dei domenicani, Vincent Jandel – questi pure scelto direttamente dal pontefice – saranno tra i più convinti patrocinatori della riforma della vita comune, elemento distintivo dei Mendicanti, tanto da diventare bersaglio di dure reazioni da parte dei loro confratelli e rimanere questione irrisolta fino al 1920.

Soppressioni, tra polemiche e provvedimenti di confisca. I Mendicanti e non solo i gesuiti vengono presi di mira dalla classe politica italiana che vota le leggi per la soppressione dei regolari (7.7.1866). I francescani, ad esempio, vengono stigmatizzati per il pauperismo, tramite il quale essi sarebbero colpevoli di fomentare l’accattonaggio. Ai domenicani invece viene attribuito il marchio di eredi dell’inquisizione, emblema dell’oscurantismo cattolico. Esponenti dell’aristocrazia borghese adombrano l’eventualità che la vita comunitaria assunta da francescani e cappuccini favorirebbe lo sviluppo del comunismo. Soltanto tra i moderati alcuni, come, ad esempio, Ruggero Bonghi, futuro biografo di S. Francesco, indica nell’opzione mendicante e in particolare francescana il modello per una percorribile ‘via media’ tra le soluzioni estreme prospettate da comunismo e capitalismo. A tirare un duro colpo alla vita dei Mendicanti, più ancora della polemica anti religiosa, sono soprattutto i provvedimenti contro la personalità giuridica dei religiosi, con i quali si decreta estinto ogni loro diritto di proprietà. Le statistiche elaborate dalla congregazione dei VVRR documentano tramite cifre eloquenti l’entità del danno che la confisca dei conventi arreca, ad esempio, all’ordine dei conventuali, del quale si computano ben 990 dispersi, o a quello degli agostiniani che ne calcola 450. I religiosi, demandati alla custodia di chiese, rappresentano un numero assai esiguo; la maggioranza infatti si rifugia presso parenti o amici, oppure alloggia in locali presi in affitto. Altri, soprattutto tra agostiniani e domenicani, trovano occupazione nei seminari quali insegnati, altri ancora in maggioranza francescani, ottengono dai vescovi l’ufficio di parroco. Le conseguenze della soppressione dei Mendicanti per le visite pastorali rivestono particolare gravità per le popolazioni dell’Italia meridionale, dove la cura pastorale riposa più che sulle strutture parrocchiali sull’impegnano dei regolari.

Lenta e laboriosa ricostruzione. La legge italiana sulla soppressione delle corporazioni religiose in realtà non nega loro in senso assoluto il diritto di associazione, ossia la possibilità di condurre vita comune. Non tutti però riescono a cogliere l’opportunità per una ripresa. I francescani siculi, ad esempio, vi intravedono con soddisfazione l’espediente per riacquistare libertà; altri si lasciano cogliere da avvilimento per l’ozio forzato, altri ancora cadono preda dello sconforto per l’incertezza del futuro. Solo in pochi seguono l’esempio del domenicano Agostino Marchi, il quale conserva intatto l’ottimismo per la ripresa futura. Si distinguono nell’opera di ricostruzione ministri generali quali, ad esempio, il minore Bernardino da Portogruaro, il minore conventuale Lorenzo Caratelli, il domenicano Giuseppe Sanvito, il carmelitano Girolamo Gotti, i quali intraprendono una capillare iniziativa di animazione dei confratelli, incitando i migliori a riprendere, nella misura del possibile, la pratica religiosa. Si formano così comunità clandestine che avviano una certa vita di preghiera, la pratica della povertà, e col tempo riprendono anche l’uso dell’abito monastico. La resistenza di molti religiosi ad accettare l’invito dei superiori a far ritorno alla vita regolare è attestato da statistiche, dalle quali si apprende come, ad esempio, i cappuccini, nel 1860 computati con la cifra di 8563, nel 1885 risultino dimezzati (4567). I più intraprendenti si presentano alle aste con un nome fittizio allo scopo di ricomprare i conventi grazie alla generosità di qualche benefattore. Avviene così, che anche i cappuccini riescono a recuperare in vari modi parte del loro patrimonio. I carmelitani acquistano con un prestanome il loro antico convento di s. Torpez (Pisa) nel 1873 e nel 1884 entrano in possesso della loro antica casa generalizia. Il convento di S. Dominano ad Assisi trova un acquirente nell’inglese Lord Ripon, di religione protestate e dichiaratamente anticattolico, il quale lo mette a disposizione dei suoi antichi inquilini.

Reclutamento, formazione e studi. A dare nuovo avvio non solo sul piano materiale bensì intellettuale, pastorale e spirituale ai Mendicanti si rende necessaria una inedita struttura di reclutamento che non si avvalga più di ceti medio – alti, come accadeva nelle epoche passate, bensì di rampolli della classe popolare. I minori, ad esempio, diedero vita a sistemi di probandato, detti collegi serafici, che ospitavano ragazzi di 14-16 anni orientati alla vita religiosa, fornendoli di nozioni di latino, grammatica, letteratura, canto. L’iniziativa rappresentava il tentativo di educare la gioventù ai valori cristiani, prima che il contatto con ambienti educativi avversi alla fede e ostili alla chiesa potessero distoglierli all’orientamento alla vita cristiana ed edentulamente religiosa. L’educazione intellettuale dei nuovi aspiranti continuava poi con l’istruzione superiore per la quale si istituirono seminari e facoltà teologiche. L’insegnamento teologico necessitava però di riferimenti a contenuti di provata scientificità, ed è questa la ragione per cui anche i Mendicanti si impegnarono a produrre edizioni critiche dei testi scritti dai propri teologi. I domenicani istituirono la commissione leonina per l’edizioni delle opere di S. Tommaso, i francescani fondarono a Quaracchi presso Firenze un collegio per le edizioni critiche di S. Bonaventura. Successivamente venne istituita la commissio scotista per le edizioni degli scritti di Giovanni Duns Scoto, già venerato quale cultore dell’Immacolata. Gli studi intorno alle fonti biografiche di S. Francesco e la conseguente riscoperta dei suoi scritti generarono controversie e discussioni intorno alla interpretazione dell’identità del santo, la cosiddetta ‘questione francescana’.

Fondazione di congregazioni femminili. Il fenomeno correlato alla nascita e allo sviluppo delle congregazioni femminili ispirate ai Mendicanti tra XIX e XX secolo risulta senza dubbio determinate per il processo di modernizzazione della vita religiosa, intesa nelle sue componenti ideologiche, istituzionali ed apostoliche. Procedendo con un raffronto tra i dati numerici relativi alle congregazioni di terziarie riscontriamo per le francescane ca. 70 nuovi istituti, per le domenicane 25, per le carmelitane 15, per le agostiniane appena 4. In rapporto alla povertà, da sempre ritenuta la specificità mendicante, queste istituzioni dimostrano una differenziazione interpretativa. Alcune, nel fervore iniziale, ritengono che l’ideale della povertà evangelica debba essere tradotto mediante la pratica della questua. Altre in modo più permanente ritengono invece che tale principio possa essere stimato come ‘lavoro assiduo e disinteressato’. Per altre ancora si tratterebbe di un servizio ai poveri, ai più poveri o ai lebbrosi. Come si può notare, si passa da una interpretazione della povertà come pratica ascetica – la questua –, in linea con la tradizione controriformistica, ad una sua lettura in termini non solo di azione apostolica, ma addirittura di concezione di vita, intesa nei canoni della professionalità.

Scuole di spiritualità. Nella linea delle scuole di spiritualità emergente nel primo ventennio del XX secolo troviamo notevoli accentuazioni relative all’impostazione spirituale francescana, che viene proposta tramite le biografie di S. Francesco, i suoi scritti, correlati specialmente alla devozione eucaristica, e agli approfondimenti di testi bonaventuriani e di altri scrittori; incrociamo quindi quella domenicana, che si rende nota tramite le figure di S. Domenico, di S. Tommaso e di S. Caterina da Siena, nonché con la preghiera del rosario; infine ci imbattiamo in quella carmelitana, che esprime attenzione prevalente verso S. Teresa, S. Giovanni della Croce e S. Teresa di Lisieux. In questa letteratura si manifesta anche un tentativo di confronto tra le differenti spiritualità, in particolare tra la francescana e la domenicana. Da questo paragone, si deduce che i francescani, in virtù dell’impatto mediatico sortito dal loro fondatore fin dalle origini, avrebbero goduto di una peculiarità esclusiva. Essi, già con le prime numerose biografie del fondatore, si sarebbero avvalsi di lui per confezionare la propria, per così dire, carta da visita. L’espediente biografico avrebbe incontrato successo negli ultimi tempi, grazie ai contributi al genere storico offerti in Italia tanto dagli emuli del Sabatier quali ad esempio Ruggero Bonghi, quanto da suoi oppositori.

Francesco d’Assisi e Caterina da Siena patroni d’Italia (1939). Nel 1939 vengono proclamati patroni d’Italia S. Francesco d’Assisi e S. Caterina da Siena. L’avvenimento è preceduto e seguito da cerimonie pubbliche, atti di culto ed avvenimenti artistici che mutuando antichi simboli di una religione civica servono a tessere la trama di un Paese che da un patriottismo venato di polemica anticlericale evolve verso eccessi di nazionalismo, fino a un vero e proprio imperialismo coloniale e totalitario. La santità medicante di Caterina e Francesco, già effigiata nel mosaico della cripta di S. Lorenzo che accoglie le spoglie di Pio IX, si dimostra funzionale nei confronti sia del fascismo, che nella Roma pontificia esibisce un emblema del suo nazionalismo imperialistico, sia delle gerarchie ecclesiastiche paghe di avere risolto la questione romana con l’imposizione al governo italiano di un concordato, a garanzia di una nuova cristianità. Il più santo degli italiani e il più italiano dei santi, Francesco, riceverà onori ufficiali e soprattutto pubblici pari alla popolarità della sua fama, con l’innalzamento della statua bronzea sulla piazza del Laterano, a conclusione delle celebrazioni del centenario della morte (1226), mentre la fama di Caterina non esce dai circuiti di elite culturali affezionate alla sua religiosità civica tutta senese.

Istituti secolari e devozione a Cristo Re. Di religione civica si deve assolutamente parlare in rapporto alla devozione a Cristo Re, propaggine sì del culto al Sacro Cuore già in voga durante il secolo precedente, ma rispetto alla pietà forgiata dai gesuiti maggiormente debitrice della predicazione mendicante dell’umanesimo rinascimentale. Il suo principale patrocinatore è infatti papa Ratti, che a sostegno del suo ideale di cristianità vede con favore l’iniziativa del francescano Agostino Gemelli, fondatore dell’Università cattolica, nella quale per ordine di scuderia si pratica il neotomismo lovaniense, mentre per convinzione, anzi per passione, si persegue l’obiettivo del ritorno al medievismo, ossia alla società cristiana tenuta a battesimo dagli Ordini mendicanti. In vista di un tale scopo, il neo convertito dal socialismo anticlericale, Gemelli, progetta l’identità di nuovi fratres, che dovranno essere ora dei laici, semplicemente donne e uomini senza segni religiosi, secolari al tal punto da essere perfino anonimi, cioè le missionarie e i missionari dell’Istituto della Regalità, francescani contro la moderna eresia del secolarismo laicista e pagano sostenuto dal totalitarismo. La sua proposta trova numerosi e validi aderenti, tra i quali ricordiamo Luigi Gedda, Giuseppe Dossetti, Giorgio La Pira, Giuseppe Lazzati. Il medesimo ideale attrae anche un folto gruppo di donne, affascinate dalla tenace femminilità di Armida Barelli, già vice presidente generale dell’Unione fra le Donne cattoliche d’Italia (1917), quindi vice presidente generale dell’Azione cattolica italiana (1946).

Pastorale parrocchiale e missioni popolari. L’impegno pastorale espletato in epoca moderna nella predicazione, nella pratica sacramentale (confessioni), nell’insegnamento, nell’assistenza, durante il corso del secolo XIX e specialmente del XX, conosce un campo di apostolato del tutto inedito. Il ministero parrocchiale, prima a lungo rifiutato o accettato solo parzialmente dai conventuali e dai carmelitani (sec. XIII) e poi dagli agostiniani (sec. XVI), ora diventa appetibile e quasi ambíto anche da domenicani, minori e cappuccini, diventando così indicatore di una svolta verso un inserimento più deciso nella struttura della chiesa locale. Nelle facoltà e atenei pontifici diretti dai Mendicanti, in particolare all’Angelicum e all’Antonianum si introducono corsi, poi interi dipartimenti, di scienze sociali e di eloquenza. Cappuccini e minori si impegnano nel rinnovamento della predicazione e soprattutto delle missioni popolari, che diventano organismi per la purificazione della devozione popolare e dopo il Vaticano II sprone alla comunione ecclesiale. Negli anni 1970, anche le congregazioni femminili aderiscono all’iniziativa delle missioni al popolo, le quali nel frattempo si specializzano creando modalità adatte alla evangelizzazione del mondo operaio, urbano e delle periferie, con forme denominate di itineranza o di semipermanenza. Dagli anni 1980 la famiglia francescana conduce una riflessione affiancandosi a istituti moderni, quali redentoristi, passionisti, oblati ed altri che sul territorio italiano svolgono un ruolo preminente nel campo delle missioni al popolo.

Aggiornamento conciliare. Nel processo di rinnovamento della vita religiosa richiesto dal Concilio Vaticano II con l’appello a far ritorno all’ispirazione primigenia, al modello dei fondatori, si distinguano in modo particolare per laboriosità delle procedure intraprese, i minori, i cappuccini, gli agostiniani, in parte anche i carmelitani. Gli ultimi si sono trovati a chiarire il ruolo del fondatore, dovendo distinguere in questa funzione differenti componenti: l’ispiratore, il modello di virtù, il codificatore ecc. Gli agostiniani si sono impegnati intensamente per dimostrare l’esclusività della loro attinenza a S. Agostino, dato che la regola del vescovo di Ippona, lungo il corso della storia è stata assunta a riferimento normativo da parte di numerosi istituti religiosi. Cappuccini e frati minori, che a tempo debito rifiutarono il privilegio tridentino sulla proprietà in comune, durante il processo di aggiornamento, per rispondere ai tempi, giungono a ritenere necessario invece chiedere alla Sede apostolica l’abolizione delle dichiarazioni pontificie emanate nei secoli per regolamentare la tanto controversa prassi dell’uso dei beni.

Fonti e Bibl. essenziale

G. Buffon, Storia dell’ordine francescano. Problemi e prospettive di metodo, Roma, Storia e Letteratura, 2013; J. Gavigan, Los Agustinos desde la revolución Francesa hasta los tiempos modernos, Roma, Istitutum Historicum Prdinis Fratrum S. Augustini, 1999; W. Hinnebusch, I Domenicani-Breve storia dell’Ordine, Alba (CN), Paoline, 1992; L. Iriarte, Storia del francescanesimo, Napoli, EDB, 1982; G. Odoardi, Conventuali, Frati Minori Conventuali, in: Dizionario degli Istituti di perfezione, vol. 3, Roma 1976, coll. 1-94; G. Rocca, Tra Chiesa e Stato. La vita religiosa tra fine Ottocento e inizio Novecento, in Collectanea Franciscana 83/1-2 (2013), 5-24; ID., Donne religiose, Contributo a una storia della condizione femminile in Italia nei secoli XIX-XX, Roma 1992; J. Smet, The Carmelites: The modern period 1750-1950, Vol. IV, Darien (Illinois), Carmelite Spiritual Center, 1985.


LEMMARIO