Associazione Italiana dei Professori di Storia della Chiesa

Dizionario Storico Tematico La Chiesa in Italia
Dopo l'Unità Nazionale
Roma 2015
Copyright © 2015

Ordini militari - vol. II


Autore: Luigi Michele de Palma

All’indomani dell’unità nazionale, sul territorio italiano continuava a vivere l’unico O.m. che aveva mantenuto la tradizione spirituale della militia Christi, l’Ospedale di S. Giovanni di Gerusalemme, meglio conosciuto come Sovrano Militare Ordine di Malta. L’esilio dall’arcipelago melitense aveva condotto l’ordine a fissare la propria residenza a Roma (1834), dove si stabilì il gran magistero sotto l’egida della S. Sede, mentre l’organizzazione religiosa in Italia era articolata nei gran priorati di Roma, di Lombardia e Venezia e di Napoli e Sicilia.

Sebbene l’Ospedale avesse abbandonato definitivamente la sua funzione bellica e perduto il territorio del suo principato a Malta (1789), la protezione della S. Sede e il riconoscimento degli stati gli permisero di conservare il suo status di diritto internazionale e le prerogative di sovranità e d’indipendenza. Una commissione cardinalizia istituita da Pio XII (1951) confermò la natura di ordine religioso (dipendente dalla S. Sede) dell’Ospedale Gerosolimitano, nonché di ente sovrano ed indipendente nella comunità internazionale. Furono quindi promulgati la Carta Costituzionale (1956, 1961) e poi, alla luce del dettato del Vaticano II, il Codice Melitense (1967). Entrambi vennero riformati nel 1997 in conformità al nuovo Codice di Diritto Canonico (1983) e in essi veniva puntualizzata l’attività ospedaliera e assistenziale nonché la riorganizzazione interna dell’ordine. Nel frattempo il numero dei frati era diventato esiguo, si accrebbe invece la componente laica affiliata: fino al 1987 si contavano 36 professi, di cui 7 cappellani, e 10.000 non professi.

Dal 1805 al 1871 avevano governato l’ordine 6 luogotenenti italiani del gran magistero, mentre fra il 1931 e il 1988 si erano succeduti 2 gran maestri anch’essi italiani. L’Italia era la nazione maggiormente rappresentata e offrì all’ordine la base per riprendere la sua missione ospedaliera sul piano internazionale. Durante la luogotenenza di Giovanni Battista Ceschi a Santa Croce venne stipulata una convenzione (1876) con il Regno d’Italia, tramite cui si avviò la cooperazione fra il Corpo Militare dell’Ordine di Malta e il Servizio Sanitario dell’Esercito Italiano, finalizzata all’assistenza sanitaria e spirituale dei malati e dei feriti in guerra. Le leggi italiane consentirono la costituzione dell’Associazione dei Cavalieri Italiani del Sovrano Militare Ordine di Malta (1877), per mezzo della quale l’ordine amministrava e gestiva le proprie strutture ospedaliere e di beneficenza sul territorio della penisola. Tuttora dipendono dall’associazione l’ospedale di S. Giovanni Battista alla Magliana in Roma e alcuni poliambulatori e centri per la cura del diabete in altre città italiane.

L’Italia è rimasta l’unica “Lingua” dell’ordine organizzata in tre gran priorati e, dagli anni ’60 del Novecento, la loro articolazione si è sviluppata con l’istituzione delle delegazioni granpriorali, distribuite nelle maggiori località della penisola (29 nel 2011). Annualmente la Lingua d’Italia organizza un pellegrinaggio al santuario di Loreto, riservato agli ammalati. Nel 1970, inoltre, è stato istituito il Corpo Italiano di Soccorso Ordine di Malta, organismo composto da volontari e facente capo all’associazione. Esso presta servizio sul territorio nazionale e collabora con la Protezione Civile. Nel 2011 l’ordine contava 63 professi, di cui 6 cappellani, e 12.500 membri affiliati; un terzo dei professi (con 2 cappellani) era di nazionalità italiana.

I Teutonici tornarono ad essere presenti sul territorio italiano con l’annessione dell’Alto Adige, dopo la prima guerra mondiale, ma dalla metà dell’Ottocento il Sud Tirolo aveva conosciuto l’efficace attività di Pier Paolo Rigler (1796-1873), dotto sacerdote della diocesi di Trento e professo teutonico, il quale fu protagonista della riforma religiosa dell’ordine. Alcuni sacerdoti teutonici vivevano nel convento di Lana (fondato nel 1854), località in cui le suore – ricostituite con finalità assistenziali ed educative dal gran maestro l’arciduca Massimiliano Giuseppe d’Austria-Este (1835-63) e approvate da Pio IX nel 1837 – si erano insediate nel 1841, presso il castello di Lanegg, con una casa provincializia. Nello stesso tempo si era avviato il processo di clericalizzazione dell’ordine: l’ultimo gran maestro non professo, l’arciduca Eugenio d’Austria, si dimise e nel 1923 venne eletto il vescovo Norbert Klein, mentre alla morte dell’ultimo cavaliere l’O.m. si estinse. Pio XI approvò la rielaborazione della regola (1929) e i Teutonici diventarono un ordine religioso clericale, dedito alla cura pastorale, all’insegnamento e alle missioni. Nell’Annuario Pontificio viene tuttora classificato fra i canonici regolari e l’Alto Adige è una delle 4 province dell’ordine. Anche le suore ottennero l’approvazione papale delle proprie costituzioni riformate (1929), scegliendo di rimanere sotto la giurisdizione del gran maestro. Nonostante le difficoltà insorte durante la 2a guerra mondiale, la presenza dei due rami dell’Ordine Teutonico in Alto Adige non ha finora conosciuto soluzione di continuità. Le suore, in particolare, aprirono nuove filiali a Lana (1940), Bolzano (1957), San Michele/Appiano (1970), Merano (1971) ed anche a Roma (1957).

Una reviviscenza dello spirito e della regola dei Templari sorse a Poggibonsi (Siena) nel 1979. Il conte Marcello Alberto Cristofani della Magione aveva acquistato il castello della Magione (XI sec.) appartenuto ai Templari, passato ai Giovanniti e poi ad altri proprietari. Il questa sede egli fondò un’associazione (riconosciuta civilmente nel 1979), che ottenne l’approvazione canonica (8.9.1988) dell’arcivescovo di Siena Mario Jsmaele Castellano come associazione privata di fedeli, intitolata “Milizia del Tempio” (Ordo Militiae Christi Templique Hierosolymitani). Le sue costituzioni furono approvate dall’arcivescovo nel 1989, mentre il successore, Gaetano Bonicelli, approvò la regola, un aggiornamento dell’antica regola templare. La Milizia del Tempio non pretende di essere legittima ereditaria dell’Ordine Templare, né ricalca l’originario e peculiare spirito militare del Tempio, tuttavia propone la propria regola come percorso di santificazione personale e intende la milizia come testimonianza pubblica di fede da parte dei suoi membri. Alcuni di questi, facenti parte del ceto primario, professano voti privati. Per gli altri aderenti sono previste forme differenziate di aggregazione, ma soltanto ai primi vengono riservati i ruoli dirigenziali. Oltre alla sede magistrale (Poggibonsi), il territorio della penisola comprende la precettoria d’Italia, mentre altre 4 sono all’estero. Fanno parte della Milizia del Tempio alcune centinaia di affiliati, di cui una trentina professi. Sono in progetto esperienze di vita comune.

Fonti e Bibl. essenziale

Biblotheca Sanctorum, II App., 1194-5; Dizionario degli Istituti di Perfezione, VI, 796-806; IX, 903-5; G. Mantelli, I Cavalieri del Tempio e il castello della Magione di Poggibonsi, in «I Templari: mito e storia. Atti del convegno internazionale di studi alla Magione di Poggibonsi-Siena. 29-31 maggio 1987», Poggibonsi 1989, 337-346; Der Deutsche Orden in Tirol: die Ballei an der Etsch und im Gebirge, a cura di H. Hoflatscher, Bozen-Marburg 1991; H.J.A. Sire, The Knights of Malta, New Haven-London 1994, 247-279; U. Arnold, L’Ordine Teutonico. Una viva realtà, Lana 2001; M. de Pinto, La riforma della “Carta costituzionale” e del “Codice” del Sovrano Militare Ordine di Malta, «Odegitria», XVII (2010), 171-218; L.M. de Palma, Un ordine militare torna al fronte. L’Ordine di Malta nella Grande Guerra, in « “Inutile strage”. I cattolici e la Santa Sede nella Prima Guerra mondiale. Raccolta di studi in occasione del Centenario dello scoppio della Prima guerra mondiale (1914-2014)», a cura di L. Botrugno, Città del Vaticano 2016, 271-407; L.M. de Palma, Alle origini della Delegazione di Puglia e Lucania del Sovrano Militare Ordine di Malta, in «Studi Melitensi», XXIV (2016), 223-244; H.J.A. Sire, The Knights of Malta. A Modern Resurrection, London 2016; N. Neri, I Cavalieri e la Repubblica. La nascita delle relazioni diplomatiche tra l’Ordine di Malta e l’Italia, in «Studi Melitensi», XXV (2017), 77-92.


LEMMARIO




Ordini monastici - vol. II


Autore: Mariano Dell’Omo

Le soppressioni nel nuovo Stato italiano. Il 17 marzo 1861 Vittorio Emanuele II è proclamato dal nuovo parlamento nazionale re d’Italia. Già tra il 1860 e il 1861 erano stati promulgati nelle diverse regioni e province annesse – esclusa la Sicilia – vari decreti di soppressione. Ma si trattava ancora di una legislazione occasionale, disorganica e lacunosa, che si traduceva in profonde discriminazioni tra regione e regione, Ordine e Ordine, frutto di indecisioni e di ripensamenti da parte dello stesso legislatore. Per porvi rimedio una rielaborazione generale della materia venne compiuta mediante la legge del 7 luglio 1866, poi estesa al territorio di Roma con quella del 19 giugno 1873. In particolare l’art. 33 della legge soppressiva del ‘66 segnava espressamente il destino di importanti monasteri della Congregazione benedettina cassinese, adottando un dispositivo di salvaguardia dell’incalcolabile patrimonio spirituale e culturale che essi racchiudevano da secoli e che si identificava con quello della stessa nazione italiana: Montecassino, la SS. Trinità di Cava, S. Martino delle Scale a Palermo, Monreale, oltre che la Certosa di Pavia, prevedendo l’incameramento nei beni demaniali dello Stato ma preservandone l’unità e la cura nel tempo a carico dello Stato: «Sarà provveduto dal governo alla conservazione degli edifizi colle loro adiacenze, biblioteche, archivi, oggetti di arte, strumenti scientifici e simili…», come pure – si aggiunge – «di altri simili stabilimenti ecclesiastici distinti per la monumentale importanza e pel complesso dei tesori artistici e letterari. La spesa relativa sarà a carico del fondo pel culto».

Una nuova Congregazione benedettina: cassinese della Primitiva Osservanza poi sublacense. Dopo la conquista di Roma da parte delle truppe piemontesi il 20 settembre 1870, l’abate Pietro Casaretto che aveva dato vita ad una provincia sublacense della congregazione benedettina cassinese, temendo il crollo di tutta la sua opera, riuscì ad ottenere, in anticipo di alcuni anni, il 9 marzo 1872, l’erezione ‒ come indipendente ‒, della nuova congregazione cassinese della Primitiva Osservanza poi sublacense, sotto il governo di un abate generale residente nel monastero di S. Scolastica di Subiaco. L’intento del fondatore era quello di rinnovare, superando le costituzioni del 1680, la disciplina del monastero di S. Giustina iniziata da Ludovico Barbo nel 1408, attraverso un’esistenza trascorsa abitualmente all’interno del monastero in un’atmosfera di silenzio e di raccoglimento, in un regime di penitenza, nella preghiera assidua, quella liturgica in primo luogo, nello studio. Dal punto di vista istituzionale la novità era costituita dal potenziamento della figura dell’abate generale, che pur coadiuvato da 4 assistenti (consultori) scelti da ciascuna delle province (italiana, anglo-belga, francese, spagnola), aveva un potere monarchico ben più accentrato rispetto al debole e discontinuo potere di tipo oligarchico che il Casaretto aveva riscontrato nella congregazione cassinese. Innovativa era altresì l’interpretazione della stabilitas loci, dal momento che il monaco non emetteva la professione per la famiglia monastica – come volevano la Regola e la tradizione – ma per la singola provincia, talché egli poteva essere destinato all’una o all’altra casa nell’ambito della rispettiva provincia. Circa poi il governo dei singoli monasteri, essi erano retti normalmente da priori e solo in via eccezionale da abati; inoltre mentre questi ultimi erano nominati dal capitolo generale, la scelta dei priori era invece di competenza dei capitoli provinciali; infine gli uni e gli altri restavano in carica per un triennio. In seguito alle opposizioni che tali novità incontrarono, dopo la morte del Casaretto (1° luglio 1878) un nuovo capitolo generale riunito a Roma nel 1880 modificò decisamente le costituzioni, introducendo cambiamenti suggeriti da un maggior rispetto verso le antiche tradizioni monastiche; in particolare circa la stabilità si dispone ora che il monaco emette la professione solenne per un singolo monastero cui resta legato dal voto di stabilità, anche se è possibile il trasferimento ad altra casa da parte del capitolo provinciale o del visitatore, oppure ad altra provincia dall’abate generale. Per quanto concerne l’osservanza regolare, due punti, che sin dall’inizio erano stati considerati fondamentali e tipici della congregazione, sostanzialmente rimasero invariati, sebbene con l’aggiunta di alcune clausole che aprivano la via a mutamenti futuri: la recita del mattutino alle ore due dopo mezzanotte; l’astinenza perpetua dalle carni, sebbene meno severamente praticata – si tollerava d’ora in poi l’uso di mangiare la carne la domenica, il martedì e il giovedì. Si tratta di soluzioni che pongono tra l’altro un interrogativo più generale sull’esistenza o meno di una spiritualità o anche solo di un sistema ascetico specifico della congregazione della Primitiva Osservanza. In realtà la spiritualità del Casaretto non si discosta, pur nella sua personale connotazione, da quella dei buoni religiosi della sua epoca; per lui infatti la vita monastica ha un accentuato carattere penitenziale, dal quale deriva tra lʼaltro la recita del mattutino nelle ore notturne; la penitenza interiore trova invece il suo centro nell’obbedienza ai superiori “sempre ciecamente”, anche nelle cose minime, “come fa un bambino”. Ciò doveva risultare particolarmente vero per i monaci missionari che emettevano un quarto voto, in base al quale potevano essere inviati dal superiore su richiesta della Congregazione de Propaganda Fide in qualsiasi parte del mondo, adattandosi anche a rinunciare alla famiglia monastica, alla vita comune e all’osservanza se necessario. La perfetta vita comune, specialmente nell’uso del denaro, rappresenta uno dei capisaldi del rinnovamento compiuto, anche se sotto il profilo sostanziale la riforma del Casaretto non aggiunge nulla di più a quanto era già stabilito nelle declarationes cassinesi alla Regola del 1680 circa il peculio privato: in base ad esse infatti, se era possibile disporre di una certa somma di denaro, ciò d’altra parte non poteva avvenire senza licenza del superiore. È piuttosto la sottolineatura formale che rivela nel Casaretto la preoccupazione di ancorare l’esperienza monastica al rispetto della “vita comune”, se solo si pensi che nel 1846 i suoi monaci emisero per la prima volta il giuramento di perfetta vita comune secondo il cap. xxxiii della Regola (“Se i monaci debbano avere qualcosa di proprio”). Mezzo di perfezione monastica è considerata, com’è naturale, la liturgia, mentre alla lectio divina si sostituisce la lettura dell’Imitazione di Cristo. Testimonianza della forza d’attrazione che esercitava sul finire del secolo XIX la nuova congregazione cassinese della Primitiva Osservanza, è l’unione ad essa dell’antica congregazione verginiana il 1° febbraio 1879.

Il contributo del monachesimo italiano alla nuova Confederazione dell’Ordine di S. Benedetto. Intanto nel maggio dell’anno seguente (1880), XIV centenario della nascita di s. Benedetto, nel corso delle celebrazioni tenutesi a Montecassino maturava il progetto di unione federativa delle congregazioni benedettine, nella prospettiva che a Roma fosse istituita una casa di studi a vantaggio di tutti i monasteri. Leone XIII proprio in vista di una possibile unione aveva restaurato il collegio S. Anselmo, nato nel 1687 presso l’abbazia di S. Paolo fuori le mura per i soli monaci della congregazione cassinese, e non più attivo dopo il 1810. Ora il nuovo presidente della congregazione cassinese, l’abate Michele Morcaldi della SS. Trinità di Cava (Salerno), con una circolare del 4 dicembre 1885 avviava un piano di riforma e di restaurazione della congregazione, privilegiando oltre al tema dell’osservanza, quello degli studi e perciò del collegio anselmiano, che quell’abate intendeva riaprire in vista della stessa rinascita della congregazione da lui presieduta. Il voto approvato in tal senso dal capitolo straordinario dei Cassinesi tenuto a S. Callisto in Roma fu suggellato dal breve di Leone XIII Quae diligenter del 4 gennaio 1887, indirizzato all’arcivescovo di Catania e monaco cassinese, il b. Giuseppe Benedetto Dusmet, di lì a poco creato cardinale nel concistoro dell’11 febbraio 1889. Il papa che puntava a raccogliere in una più solida unità le sparse forze dei Benedettini neri, voleva ormai che il nuovo collegio anselmiano in via di restaurazione fosse aperto a membri di tutte le congregazioni monastiche, divenendo così lo strumento di una più stretta e fraterna unione fra i monaci di s. Benedetto. Individuato il terreno disponibile sull’Aventino e dalla S. Sede acquistato nel 1890, finalmente il 18 aprile 1893 avveniva la posa della prima pietra alla presenza del cardinale Dusmet. Leone XIII poco dopo col breve Summum semper del 12 luglio 1893 istituiva la Confederazione benedettina, cioè l’unione fraterna delle congregazioni monastiche di monaci neri viventi sub Regula Benedicti, fatta salva l’autonomia di ciascuna. Essa è presieduta dall’abate primate, residente a Roma in S. Anselmo per gli affari che riguardano il bene dell’Ordine intero, senza tuttavia pregiudicare diritti e privilegi dei singoli abati o dei loro monasteri. Nel momento in cui nasceva la Confederazione 13 erano le congregazioni benedettine che ne facevano parte, tra cui la cassinese e la sublacense. Non aderivano ancora alcune congregazioni monastiche di origine italiana, che solo più tardi vi sarebbero entrate: quella di Monte Oliveto confederata dal 1960, di Vallombrosa e Camaldoli dal 1966, quella silvestrina dal 1973.

Verso il Concilio Vaticano II. Come nella nascita della Confederazione benedettina così in particolare nel fervore del movimento liturgico il monachesimo benedettino italiano ha saputo offrire un valido contributo in preparazione alla stagione del Concilio Vaticano II. Al di là di contributi occasionali o settoriali, a partire dal primo ‘900 furono compiuti tentativi per saldare spiritualità e cultura, passato e presente, riflessioni pastorali e ricerche nel campo dell’erudizione. Il caso più noto è indubbiamente quello del Liber sacramentorum dell’abate di S. Paolo fuori le mura, il b. Ildefonso Schuster (1880-1954), commento generale al Messale romano, tradotto in varie lingue. Ancora in Italia la ripresa del primo dopoguerra fu contraddistinta da nuove iniziative, come congressi e settimane sociali, mentre nel 1920 usciva il volume La pietà liturgica dell’abate di S. Giovanni Evangelista di Parma Emanuele Caronti (1882-1966), monaco di Praglia, dal 1914 alla guida della “Rivista Liturgica”, nata per iniziativa dell’abate Bonifacio Bolognani (1869-1931) di Finalpia e con il sostegno dell’abate Placido Nicolini (1877-1973) di Praglia. In Italia, dopo le inevitabili interruzioni del periodo bellico, vi era anche nel campo liturgico un forte desiderio di rinascita, che si riflette in modo peculiare nella fondazione del CAL (Centro di azione liturgica) lʼottobre del 1947 nell’abbazia di S. Giovanni di Parma, mentre nel contempo assumevano una periodicità annuale le Settimane liturgiche nazionali. Tra i monaci italiani che più furono impegnati in prima persona nella stagione pre e post-conciliare vanno ricordati, per il loro impegno intellettuale e spirituale volto a diffondere la cultura della scienza e della sapienza liturgica, Anselmo Lentini (1901-1989), Cipriano Vagaggini (1909-1999), Salvatore Marsili (1910-1983), Pelagio Visentin (1917-1997), e Mariano Magrassi (1930-2004).

Il monachesimo femminile di Regola benedettina. Nell’ambito del monachesimo benedettino femminile in Italia tra ‘800 e ‘900 la grande novità è costituita dall’impiantazione delle Benedettine dell’Adorazione Perpetua, fondate nel 1653 a Parigi da Caterina de Bar (Suor Metilde del SS. Sacramento). Suor Maria Teresa dell’Incarnazione (Lamar) desiderando fare una nuova fondazione lasciava infatti la casa di Parigi nel 1878 e finalmente giunta prima a Milano con due novizie, si trasferiva poi in provincia, a Seregno nel 1880, ottenendo dall’arcivescovo Luigi Nazari di Calabiana l’autorizzazione ad aprire una comunità e ad accettare novizie per condurre vita monastica secondo la Regola di s. Benedetto, dedicandosi alla preghiera e all’adorazione e riparazione eucaristica secondo le Costituzioni metildiane. Al 1892 risale ufficialmente la nascita di un’altra comunità a Milano. Nel 1906 da Seregno la comunità si trasferì definitivamente a Ronco di Ghiffa sul Lago Maggiore (Verbania) fiorendo grazie alla priora Caterina Lavizzari (1867-1931), ed espandendosi anche altrove con l’aggregazione di altri monasteri (“Gruppo di Ghiffa”). Nel frattempo la comunità di Milano separatasi da Seregno, dopo essere stata incorporata a quella francese di Arras, veniva dichiarata autonoma nel 1913, e nel suo successivo sviluppo andava aggregando anch’essa altre comunità viventi secondo il carisma benedettino-metildiano. Si giunse così nel 1956 alla formazione di due Federazioni italiane di Benedettine dell’Adorazione Perpetua, quella del “Gruppo di Ghiffa” e quella del “Gruppo di Milano”, poi nel 1998 soppresse per dar luogo all’erezione di un’unica Federazione italiana dei monasteri delle monache benedettine dell’Adorazione perpetua del Santissimo Sacramento. Per quanto riguarda l’attualità dei monasteri femminili di Regola benedettina in Italia, oltre a quella dell’Adorazione perpetua, si contano le federazioni dell’Italia Settentrionale, Toscana, Umbria-Marche, del Piceno-Marche inferiori, e Centro-Meridionale, cui si aggiunge quella delle Benedettine Celestine. Tra le congregazioni si annoverano: le Oblate di S. Francesca Romana del monastero di Tor de’ Specchi, le Suore Benedettine di Carità, quelle di S. Geltrude, di Maria SS.ma di Montevergine, di Priscilla, le Suore Oblate Benedettine di S. Scolastica, le monache della congregazione di Vallombrosa (per un totale di 147 case, inclusi i monasteri indipendenti né federati né congregati, e altri appartenenti a congregazioni non specificamente italiane, come quelli delle Olivetane e Camaldolesi). La federazione delle monache cistercensi in Italia comprende 11 monasteri. Le monache trappiste sono presenti in due sole comunità: Vitorchiano (Viterbo) e Valserena (Pisa).

I Cistercensi. Circa l’altra grande famiglia monastica cenobitica, quella cistercense, si può sottolineare come dopo la crisi causata dalle soppressioni nella seconda metà dell’800, il fatto più rilevante per la storia cistercense in Italia riguarda Casamari. L’abbazia nel 1717, per interessamento del cardinale commendatario Annibale Albani aveva accolto una colonia di monaci della Stretta Osservanza (Trappisti) provenienti da Buonsollazzo a pochi km da Firenze, iniziando così un’esperienza di vita trappista, che continuò, pur fra molte mitigazioni, fino al 1929, allorché Casamari, che non aveva aderito all’unione dei Trappisti avvenuta nel 1892, fu eretta a congregazione autonoma dell’Ordine cistercense.

L’attualità. Le congregazioni monastiche maschili oggi presenti in Italia sono le seguenti: a) benedettine: congregazioni cassinese, sublacense (provincia italiana), camaldolese, vallombrosana, silvestrina, olivetana; b) cistercensi: congregazione di S. Croce o di S. Bernardo in Italia, e di Casamari. Infine possono qui menzionarsi due realtà monastiche che testimoniano un nuovo monachesimo. La prima è la Comunità del monastero di Bose (Magnano, Biella), fondata da Enzo Bianchi (1943-) che vi si trasferì da Torino ufficialmente nel 1965, caratterizzata sin dall’inizio dal suo chiaro impegno ecumenico. L’altra è la Piccola Famiglia dell’Annunziata di Giuseppe Dossetti (1913-1996), basata su valori monastici perenni, come silenzio, preghiera, lavoro, povertà.

Fonti e Bibl. essenziale

G. Penco, Storia del monachesimo in Italia nell’epoca moderna, Paoline, Roma 1968; F.G.B. Trolese (ed.), Il monachesimo in Italia tra Vaticano I e Vaticano II. Atti del III convegno di studi storici sull’Italia benedettina, Badia di Cava dei Tirreni (Salerno), 3-5 settembre 1992 (Italia Benedettina 15), Centro Storico Benedettino Italiano, Cesena 1995, 25-41; M. Torcivia, Guida alle nuove comunità monastiche italiane, Piemme, Casale Monferrato 2001; M. Carpinello, Il monachesimo femminile, Mondadori, Milano 2002; G. Lunardi, La congregazione sublacense O.S.B., I. L’abate Casaretto e gli inizi (1810-1878), La Scala, Noci 2003; G. Lunardi, La congregazione sublacense O.S.B. II. 1878-1972, La Scala, Noci 2005; M. Dell’Omo, Storia del monachesimo occidentale dal medioevo all’età contemporanea. Il carisma di san Benedetto tra VI e XX secolo (Complementi alla Storia della Chiesa diretta da Hubert Jedin), Jaca Book, Milano 2011; R. Fornaciari, “Di fronte alle prime esortazioni della Chiesa a rinnovarci”. L’evoluzione istituzionale del monachesimo italiano dall’Unità ai nostri giorni, in Cristiani d’Italia. Chiese, società, Stato, 1861-2011, direzione scientifica A. Melloni, Istituto della Enciclopedia italiana, Roma 2011, 911-928.


LEMMARIO




Ospedali - vol. II


Autore: Marina Garbellotti

Chi intenda ripercorrere la storia ospedaliera italiana non può esimersi dal considerare il rilevante contributo apportato dagli uomini e dalle donne di Chiesa. Essi scrissero un capitolo significativo di questa storia promuovendo la fondazione di ospedali, prestando servizio nelle strutture sanitarie civili e attivando corsi per la formazione del personale sanitario di base. A questa ragguardevole presenza, però, non corrispondono altrettante ricerche. Molti degli studi esistenti si concentrano sulle questioni istituzionali, in particolare sui secolari contrasti tra Stato e Chiesa, che hanno connotato la storia ospedaliera e quella assistenziale italiana, mentre tendono a soffermarsi marginalmente sull’organizzazione e sul grado di medicalizzazione degli ospedali religiosi, sulla preparazione del personale sanitario ivi operante, rendendo la descrizione di un quadro d’insieme parziale. Quanto segue non può non riflettere tale indirizzo storiografico.

Proseguendo l’orientamento dei governi della Restaurazione, negli anni immediatamente successivi all’Unità la politica sociale promossa dallo Stato è dominata dall’obiettivo di realizzare l’accentramento amministrativo degli ospedali. Tale processo, destinato a protrarsi sino all’entrata in vigore della legge ospedaliera del 1968, è segnato da non poche contraddizioni. Se per un verso lo Stato cercò di estendere il controllo sul sistema assistenziale, per l’altro non riuscì, o meglio non intese, sottrarre la gestione delle opere pie ai tradizionali amministratori. Questa tendenza emerge chiaramente dalla legge sulle opere pie del 1862: si tratta della legge Rattazzi varata in Piemonte nel 1859 e ripresa dopo l’Unificazione. La norma, che prevedeva l’istituzione delle Congregazioni di Carità in ogni comune del Regno d’Italia col compito di coordinare gli interventi a favore dei bisognosi, non intervenne sull’organizzazione delle opere pie e sul loro ambito di azione lasciando ai notabili locali e agli ecclesiastici la gestione degli istituti ospedalieri e caritativi. Beninteso, tale scelta fu dettata dal proposito di salvaguardare le reti clientelari e i profitti economici derivanti dalla direzione degli enti caritativi, mentre lo Stato assumeva esclusivamente il ruolo di garante mediante un’attenta sorveglianza sull’operato degli istituti assistenziali e di beneficienza. Poco prima dell’approvazione della legge sulle opere pie il governo avviò un’inchiesta per censire e per conoscere la situazione delle opere pie attive nel territorio nazionale al 1861 in relazione al numero, alle finalità, alla natura giuridica e all’aspetto patrimoniale. Secondo i dati raccolti, pubblicati tra gli anni 1868-1873 in 15 volumi – uno per regione, ai quali ne venne aggiunto uno per il Lazio –, le opere pie erano 20.123, di cui 955 ospedaliere (pari al 5% del totale) e nello specifico 897 erano ospedali per infermi, 23 ospizi di maternità e 35 manicomi. Massiccia era presenza delle Opere miste di beneficenza e di culto in tutto 8.744.

Come è noto, le tensioni tra Stato e Chiesa culminarono con la legge eversiva del 1866 (estesa alla Provincia Romana nel 1873), che decretava la soppressione degli «Ordini, Corporazioni e Congregazioni religiose regolari e secolari, Conservatori e Ritiri, i quali importino vita comune ed abbiano carattere ecclesiastico». Di fatto, però, nessun ordine religioso fu soppresso o scomparve. Non era questo l’intento del legislatore, il quale si proponeva di togliere il riconoscimento giuridico agli istituti religiosi e di trasferirne i beni nelle casse statali. Inoltre, la disposizione non fu applicata ovunque con rigore e soprattutto le amministrazioni locali non erano in grado di rinunciare al servizio prestato dai religiosi e dalle religiose negli ospedali, nelle scuole e nel settore assistenziale. Ciò non significa che il provvedimento fu inefficace. In questo contesto merita di essere menzionato quanto accadde a Roma, dove, dopo il 1873, furono chiuse o vendute 134 case religiose abitate da circa 3000 mila persone. Per effetto della legge, poi, le cui ripercussioni si avvertirono anche dopo qualche decennio, alcuni ospedali diretti dagli ordini ospedalieri dovettero cessare la loro attività – così accadde a Padova e a Cremona per i nosocomi dei Fatebenefratelli – e molti religiosi furono estromessi dai luoghi di cura. Sintomatico il caso del manicomio veneziano di San Servolo, dal quale i Fatebenefratelli dovettero ritirarsi dopo averlo gestito per più di un secolo. Nonostante lo Stato perseverasse nel progetto di ridurre la presenza degli istituti ecclesiastici, i religiosi si riorganizzarono. I Camilliani, ad esempio, continuarono a prestare la loro opera nelle case private offrendo soccorso materiale e spirituale agli infermi, e promossero la fondazione delle cosiddette Case della Salute, cliniche private dipendenti dall’ordine dei Ministri degli Infermi, presso le quali i religiosi potevano professare il quarto voto di assistenza agli ammalati.

Nel 1890 con l’approvazione della legge Crispi, invano contrastata da cattolici e conservatori, fu compiuto un ulteriore passo nella direzione intrapresa dallo Stato di assoggettare le istituzioni assistenziali. Nell’intento, raggiunto parzialmente, di migliorare e di laicizzare il servizio assistenziale e sanitario, essa trasformava le opere pie in istituzioni pubbliche di beneficenza (IPB), dove per opere pie si dovevano intendere gli enti riservati ai poveri, «tanto in stato di sanità quanto di malattia», finalizzati a favorirne «il miglioramento economico e morale» mediante l’istruzione, l’avviamento al lavoro o altre modalità. Definendo enti pubblici le opere pie, il legislatore intendeva sottoporre al medesimo regime giuridico istituti di natura diversa, in particolare quelli rientranti nel sistema caritativo privato ed ecclesiastico, al fine di inserirli nell’organizzazione amministrativa dello Stato. Anche in questo caso il principio fondamentale dell’autonomia delle opere pie fu rispettato, ma venne accentuato il controllo sulla conservazione e sulla gestione dei patrimoni. Il prevalere di interessi localistici e l’importanza delle attività assistenziali e sanitarie sostenute dai religiosi, però, allentarono la rigida osservanza della norma. La sua importanza, tuttavia, risiede nell’introduzione di un principio fondamentale di politica assistenziale, e cioè nell’obbligo di soccorrere chiunque almeno nei casi di urgenza. Cominciava a maturare l’idea che l’ospedale dovesse svolgere un servizio pubblico.

Durante il periodo fascista la politica assistenziale mirò a proseguire e a rafforzare il programma di centralizzare la vigilanza sulle istituzioni benefiche e nel contempo favorì la nascita di enti assistenziali nati in seno al partito. Tra gli esiti di questo disegno va annoverata la legge del 1923 che tra i vari provvedimenti estese le attività di controllo sulla gestione amministrativa degli enti di assistenza e di beneficienza (ora denominate IPAB, non più IPB), pur non intaccandone l’autonomia. Fu inoltre ribadito con maggiore rigore il principio che l’assistenza ospedaliera era un diritto pubblico stabilendo la prestazione ospedaliera erga omnes nei casi di urgenza. Seppure lentamente l’ospedale si avviava ad assumere la funzione di luogo di cura dotato di personale specializzato e a servizio di tutti i cittadini. Occorrerà, infatti, arrivare alla legge ospedaliera del 1968 per assistere a una riforma radicale in questa direzione.

Prima di illustrare gli elementi salienti di questa norma, è opportuno ricordare che l’orientamento laicista, tratto peculiare della storia dell’assistenza, subì un forte ridimensionamento durante il periodo fascista, allorché, per ragioni di natura esclusivamente politiche, fu concesso alla Chiesa di riguadagnare spazio nell’ambito sanitario e assistenziale. Esempio di questa politica è la legge Ferderzoni del 1926, che riammise gli ecclesiastici nei consigli amministrativi delle istituzioni assistenziali e pochi anni dopo riconobbe agli ordini e alle congregazioni religiose personalità giuridica permettendo, quindi, agli stessi la capacità di acquistare e di possedere. L’attività assistenziale e sanitaria promossa dalle istituzioni religiose riprese dunque vigore. Sempre in questa fase storica, nel 1937 le Congregazioni di Carità furono sciolte e trasformate in Enti comunali di assistenza (ECA) allo scopo di coordinare tutti gli istituti finalizzati all’assistenza generica. Nonostante queste alterne vicende la Chiesa continuò a vigilare sui numerosi ospedali di pertinenza degli Ordini religiosi ospedalieri, quali i Fatebenefratelli, i Camilliani, l’Ordine di Malta. Relativamente a questa tipologia di ospedali un significativo cambiamento avvenne con la già menzionata legge ospedaliera del 1968. In attuazione a quanto disposto dall’art. 32 della nostra Costituzione, che afferma la tutela del diritto alla salute e riconosce tale diritto a tutti, la legge considera l’assistenza ospedaliera un servizio sanitario pubblico destinato all’intera collettività, superando la precedente legislazione in cui il concetto di assistenza era legato a quello di beneficienza. Essa, inoltre, intese conferire un assetto unitario all’organizzazione dell’assistenza ospedaliera, avviando un processo di ‘statalizzazione’ della sanità. Nell’intento di proporre un’organica disciplina in materia, gli ospedali ecclesiastici, al pari degli altri, purché dotati dei requisiti richiesti, potevano essere classificati nell’ambito di una delle categorie di ospedali stabiliti dalla legge per essere inseriti nella programmazione ospedaliera. A seguito di questa norma molti ospedali di pertinenza degli ordini religiosi hanno ottenuto la «classificazione» e di conseguenza assunto valenza pubblicistica. Con l’istituzione del Servizio Sanitario Nazionale, avvenuta nel 1978, non fu introdotta alcuna novità in ordine al regime giuridico-amministrativo degli ospedali ecclesiastici. In Italia il peso della Chiesa nel campo sanitario è diminuito notevolmente rispetto ai secoli passati, nonostante gli ospedali religiosi, privati e classificati, continuino a operare. Diversamente, esso è divenuto incisivo e rilevante in quei paesi extraeuropei dove è carente o inesistente il sistema sanitario pubblico.

In questo breve excursus storico corre l’obbligo di affrontare il tema delle suore infermiere per l’imponente ruolo che svolsero nel campo dell’assistenza sanitaria a domicilio e negli ospedali sino alla prima metà del Novecento. Sono innumerevoli le congregazioni femminile, molte delle quali nate nel corso dell’Ottocento, dedite all’assistenza degli infermi, tra le quali si possono menzionare le Figlie della Carità di san Vincenzo de Paoli, le Suore della Carità della Thouret, le Figlie di san Camillo, le Sorelle della Misericordia, le Suore di Maria Bambina, e l’elenco potrebbe continuare.

L’infermiera religiosa divenne una presenza abituale e non facilmente sostituibile nei luoghi di cura. Pronunciando il quarto di assistenza agli infermi, le suore soccorrevano anche gli ammalati contagiosi ed erano sempre disponibili a prestare servizio. Nel 1902, ad esempio, i religiosi impiegati negli ospedali risultavano 4.313 (70 maschi e 4.243 femmine), e le suore rappresentavano il 40% del personale sanitario, una cifra destinata a crescere nei decenni successivi. La cura degli infermi era vissuta come una missione alla quale votarsi pienamente, caratteristiche queste che plasmarono il profilo di tale figura professionale. Sino agli Settanta del secolo scorso, infatti, essa era associata alla donna preferibilmente nubile e, almeno in Italia, gli uomini furono ammessi alle scuole per infermiere professionali dal 1971. Prima dell’apertura delle scuole infermieristiche laiche, la cui nascita in Italia si colloca solo nel primo decennio del Novecento, in ritardo rispetto alla Gran Bretagna e agli Stati Uniti, erano dunque le suore ad occuparsi della formazione del personale infermieristico e a prevalere nel corpo infermieristico offrendo un servizio qualificato e a costi ridotti. Ragioni etiche e di decoro proibivano alle suore infermiere di prestare cure agli ammalati uomini e di assistere nei reparti di maternità, tuttavia queste limitazioni furono sovente risolte con l’introduzione di una figura-ponte tra la religiosa e l’ammalato e nel corso del tempo alcuni istituti religiosi ridussero le proibizioni in tal senso.

Pur privilegiando altri settori di intervento, la presenza delle religiose infermiere negli ospedali è stata determinante. Secondo i dati raccolti nel 1950 dalla Sacra Congregazione dei Religiosi, ad esempio, il 26,4%, pari a 34.796 religiose italiane, prestava la propria opera nei servizi sanitari ospedalieri, mentre la maggior parte era impegnata nei servizi scolastici (43,3%) e il 30,3% si dedicava a quelli educativi assistenziali. Dagli anni Cinquanta del Novecento si registra il calo numerico delle religiose infermiere: dal 1975 al 1992 esse passarono da 15.234 a poco più di 10.000 con una flessione tutt’oggi in corso che ha prodotto una inversione di tendenza. Mentre in passato gli ospedali laici assumevano numerose religiose per assolvere compiti sanitari e organizzativi, negli ultimi decenni sono gli ospedali religiosi a ricorrere al personale laico. La curva decrescente delle religiose infermiere si spiega sia con la diminuzione delle vocazioni avvenuta negli ultimi decenni, che ovviamente si ripercuote sulle attività sociali praticate dai religiosi e dalle religiose, sia, e forse soprattutto, con i mutamenti avvenuti nella società civile. Il maggiore spazio conferito all’occupazione femminile ha indotto le religiose a rinunciare all’assunzione dei tradizionali ruoli di infermiera e di insegnante, largamente assunti da persone laiche, per votarsi all’attività sanitaria, assistenziale ed educativa in ambiti più ricettivi tra i quali primeggiano le missioni.

Fonti e Bibl. essenziale

S. Andreoni, Da Porta Pia agli anni Trenta, in S. Andreoni, C.M. Fiorentino, M.C. Giannini, Storia dell’Ordine di San Camillo. La provincia Romana, Rubbettino, Soveria Mannelli 2012, parte terza, 175-262; P. Battilani, I protagonisti dello Stato sociale italiano prima e dopo la legge Crispi, in V. Zamagni (ed.), Povertà e innovazioni istituzionali in Italia. Dal Medioevo a oggi, il Mulino, Bologna 2000, 639-670; A. Brusco, L. Biondo (edd.), Religiose nel mondo della salute, Edizioni Camilliane, Torino 1992; P. Carucci, Gli archivi ospedalieri: normativa, censimento, conservazione, in Studi in memoria di Giovanni Cassandro, I, Ministero per i beni culturali e ambientali, Roma 1991, 109-137; E. Colagiovanni, Le religiose italiane: ricerca sociografica, Centro Studi U.S.M.I, Roma 1976; A. Ciuffetti, Difesa sociale. Povertà, assistenza e controllo in Italia, XVI-XX secolo, Morlacchi, Perugia 2004; P. Frascani, Ospedale e società in età liberale, il Mulino, Bologna 1986; G. Gozzini, Povertà e Stato sociale: una proposta interpretativa in chiave di path dependence, in V. Zamagni (ed.), Povertà e innovazioni istituzionali in Italia. Dal Medioevo a oggi, il Mulino, Bologna 2000, 587-610; A. Madera, Gli ospedali cattolici. I modelli statunitensi e l’esperienza giuridica italiana: profili comparatistici. II: Gli enti ospedalieri cattolici (prospettiva comparatistica), Giuffré, Milano 2007; G. Martina, La situazione degli istituti religiosi in Italia intorno al 1870, in Chiesa e religiosità in Italia dopo l’Unità d’Italia (1861-1878), III/1, Vita e Pensiero, Milano, 194-335; M. Piccialuti Caprioli, Il patrimonio del povero. L’inchiesta sulle opere pie del 1861, in “Quaderni storici”, 45 (1980), 918-941; G. Rocca, Donne religiose. Contributo a una storia della condizione femminile in Italia nei secoli XIX-XX, Edizioni Paoline, Roma 1992; G. Rocca, Le strategie anticonfisca degli istituti religiosi in Italia dall’Unità al Concordato del 1929: appunti per una storia, in R. Di Pietra, F. Landi (edd.), Clero, economia e contabilità in Europa. Tra medioevo ed età contemporanea, Carocci, Roma 2007, 226-247; D. Preti, La questione ospedaliera nell’Italia fascista, in F. Della Peruta (ed.), Malattia e medicina (Storia d’Italia. Annali n. 7), Einaudi, Torino 1984, 335-389; C. Sironi, Storia dell’assistenza infermieristica, La Nuova Italia Scientifica, Roma 1991; C. Sironi, L’infermiere in Italia: storia di una professione, Carocci, Roma 2012; M.I. Venzo, Gli ospedali romani dopo l’Unificazione, in “Chiesa e Storia”, 2 (2012), 297-309; G. Vicarelli, Alle radici della politica sanitaria in Italia. Società e salute da Crispi al fascismo, il Mulino, Bologna 1997.


LEMMARIO




Paganesimo - vol. II


Autore: Angelo G. Dibisceglia

Con la libertà religiosa introdotta dalla Rivoluzione Francese, l’antico concetto di paganesimo – fino a quel momento utilizzato per indicare forme religiose altre ed estranee rispetto al cristianesimo ufficiale, oppure espressioni di religiosità popolare identificate con proiezioni magiche e, per questo, ritenute poco ortodosse dalla religione ufficiale – assunse un inedito significato. Se fino alla fine del XVIII secolo, la tradizionale alleanza fra trono e altare aveva rappresentato l’unica condizione in grado di assicurare al cristianesimo di Roma di vivere influente e libero da ogni persecuzione e, quindi, di compiere la sua missione evangelizzatrice, il secolo dell’Illuminismo – di fatto – favorì lo sgretolamento di quel rapporto, determinando la secolarizzazione dello Stato e, con essa, la nascita della laicità che, nei confronti della Chiesa, attraverso una riduzione degli spazi gestiti fino a quel momento dal cattolicesimo, assunse il volto della libertà religiosa. A partire da quel momento, la Chiesa non doveva più soltanto fare i conti con i movimenti religiosi alternativi alla fede cristiana e il paganesimo non era più soltanto ciò che si contrapponeva alla Chiesa, ma cominciò a simboleggiare – anche – l’insieme dei fenomeni che, strumentalizzando la Chiesa, avrebbero mirato al raggiungimento dei propri obiettivi. In quel contesto, un ventaglio più ampio offriva percorsi di salvezza, in alcuni casi paralleli a quelli proposti dalla Chiesa cattolica, in altri opposti alla fede di Roma.

In alcuni Paesi europei quei processi, a partire dalla metà del XIX secolo, con la pubblicazione nel 1848 del Manifesto del Partito Comunista di Carlo Marx e Federico Engels, assunsero il volto del socialismo la cui diffusione sfociò, in breve, nella lotta di classe. In Italia, la definitiva affermazione della politica liberale sancita dal principio cavouriano di una “libera Chiesa in libero Stato”, nonché la velata diffusione delle logge massoniche, definirono ulteriormente l’estraneità della Chiesa cattolica da una società caratterizzata da notevoli progressi umani, ma anche e soprattutto da profondi turbamenti sociali. Il processo di laicità e di liberalizzazione innescato dalla rivoluzione francese e sancito dalla rivoluzione industriale diventava, quindi, un ineludibile percorso in grado di guidare la società verso ambiti sempre più estranei – perchè lontani – alla Chiesa. Di fronte a quella situazione, la Chiesa subì un senso di emarginazione, affidandosi in un primo tempo all’arma della condanna con la pubblicazione del Sillabo nel 1864, in una fase successiva al proporre una via alternativa alla lotta di classe con la pubblicazione della Rerum novarum di Leone XIII nel 1891.

I primi anni del Novecento registrarono il diffondersi del modernismo, che minò alla base l’infallibilità del pontefice, e della conseguente “guerra al prete”, ufficialmente condannato il 3 luglio 1907 con il decreto Lamentabili del Sant’Uffizio e, di lì a poco, con l’enciclica Pascendi (8 settembre 1907). Nuove forme di paganesimo si svilupparono in Italia in concomitanza con lo scoppio della Prima Guerra Mondiale, quando il conflitto generò la “sacralizzazione della guerra”, impegnando vescovi e clero – animati da spirito nazionalistico su diversi fronti – a benedire truppe e armi. Anche il primo dopoguerra registrò fenomeni pagani come l’accentuarsi dei particolarismi e degli egoismi nazionali, la sopraffazione dei vinti, la mancanza di qualsiasi solidarietà fra le nazioni, favorendo la nascita di miti – come la “vittoria mutilata” in Italia – che, nonostante tutto, continuarono a seminare odio. Quei miti non solo rafforzarono il nazionalismo, ma lo resero irrazionale, favorendo l’esigenza di un totalitarismo che, in una società scristianizzata, rappresentò il tentativo di colmare il vuoto causato dalla mancanza di valori assoluti. Fu la sacralizzazione della politica che, come valore assoluto ed unico, annullò qualsiasi libertà, anche quella di pensiero.

Nacquero e si svilupparono da quelle premesse, nelle nazioni dove più debole fu il senso della democrazia, i regimi totalitari: Mussolini in Italia, Salazar in Portogallo, Franco in Spagna, Hitler in Germania. Sistemi di vita che individuarono nella religione uno dei punti di appoggio per la propria affermazione ma che, alla fine, non si lasciarono cristianizzare. Quei sistemi, nel tentativo di assolutizzare la politica, cercarono di sostituirsi all’esperienza religiosa, tentando di confinare la religione in un ambito secondario della società italiana. In quelle stesse nazioni, la Chiesa cattolica svolse un ruolo da protagonista, se non proprio primario. In quegli stessi anni, infatti, si passò da una fase di dialogo fra Stato e Chiesa a delle importanti concessioni ricevute dalla Chiesa cattolica. Fu l’epoca dei concordati che non significarono soltanto riconoscimento di un ruolo, ma talvolta rappresentarono un vero ricatto e una sofferta e silenziosa strumentalizzazione.

Dopo la Seconda Guerra Mondiale – e la condanna di papa Pio XI quasi simultanea dei totalitarismi nazista pagano (enciclica Mit brennender Sorge – 1937) e comunismo ateo (Divini Redemptoris – 1937) – la Chiesa di Pio XII dimostrò che la democrazia non era più percepita semplicemente come un sistema di governo tra gli altri, ma piuttosto come un sistema di valori conforme ai postulati della legge naturale e – per tale ragione – in perfetta consonanza con lo spirito del Vangelo. Furono i principi ispiratori dell’impegno dei cattolici nell’Italia del secondo dopoguerra, quando la Chiesa, attraverso la Democrazia Cristiana di Alcide De Gasperi e la scomunica dei comunisti decretata nel luglio 1949, riconquistò il monopolio per la cristianizzazione della società. In quel contesto, papa Pio XII ribadì la posizione equidistante della Chiesa dagli schieramenti che, nel clima della Guerra Fredda, stavano regolando l’assetto della geopolitica internazionale, e richiamò l’autorità ecclesiale – in quanto realtà “sovranazionale” – a contribuire alla realizzazione di un nuovo modello di società, diversa al comunismo di origine sovietica e dal capitalismo di matrice americana.

Di fronte alla inedita diffusione dei processi di secolarizzazione – come il pericolo di una nuova propaganda protestante frutto della presenza alleata in Italia durante il più recente conflitto – e gli effetti di una società ormai caratterizzata dagli effetti del boom economico, gli strumenti a disposizione della Chiesa per individuare e dare risposte mostrarono la loro inadeguatezza. Erano i primi segni di un paganesimo che ritornava sotto le allettanti prospettive del progresso. In Italia non mancarono i timori dell’avvento di un società senza Dio determinata e affrettata anche dalla disattenzione e dalla negligenza degli stessi credenti. In quegli anni, auspicando un profondo rinnovamento morale della nazione, la Chiesa italiana richiamò il Paese a una unità duratura e affermò la propria prerogativa a intervenire per la determinazione, secondo un progetto di matrice pacelliana, di una società fondata sui principi della “restaurazione cristiana”. In quel contesto fu l’episcopato a farsi promotore di una concezione della quotidianità basata sulla diffusione di corretti costumi cristiani, sul ritorno alla moralità della esistenza degli individui, sulla cura della gioventù e su un corretto uso dei mezzi di comunicazione. Era il progetto verso la cui realizzazione la Chiesa in Italia aveva puntato fin dalla fine del secondo conflitto mondiale, ispirato dalla figura e dal magistero di Pio XII. In quel clima fu chiaro che la contemporaneità esigeva un approccio diverso alle diverse problematiche prospettate da una società diversa perché nuova. Era necessaria una fase di aggiornamento, assicurata dalle conclusioni del Concilio Vaticano II.

La mondializzazione registrata a più livelli – sviluppo economico, demografico, sociale – tra gli Anni Sessanta e Settanta impose una ridefinizione dell’atteggiamento della Chiesa nei confronti delle diverse forme di modernizzazione. In quel contesto si svilupparono nuove forme di secolarizzazione che, conseguenza dei nuovi stili di vita introdotti dal benessere sociale, finirono per innescare forme di neopaganesimo, all’interno delle quali, ancora oggi, secolarismo, scristianizzazione e relativismo continuano a impegnare l’etica e la morale cattolica.

Fonti e Bibl. essenziale

A. Acerbi, La Chiesa nel tempo. Sguardi sui progetti di relazioni tra Chiesa e società civile negli ultimi cento anni, Vita e Pensiero, Milano 1979; G. De Rosa, Vescovi, popolo e magia nel Sud. Ricerche di storia socio-religiosa dal XVII al XIX secolo, Guida Editore, Napoli 1983; G. Fiocco, L’Italia prima del miracolo economico. L’inchiesta parlamentare sulla miseria, 1951-1954; P. Lacaita Editore, Manduria-Bari-Roma 2004; A. Giovagnoli, La cultura democristiana. Tra Chiesa cattolica e identità italiana 1918-1948, Editori Laterza, Roma-Bari 1991; F. Malgeri, La stagione del centrismo. Politica e società nell’Italia del secondo dopoguerra (1945-1960), Rubbettino, Soveria Mannelli 2002; A. Riccardi, Intransigenza e modernità. La Chiesa Cattolica verso il terzo millennio, Editori Laterza, Roma-Bari, 1996; F. Traniello, Religione cattolica e Stato nazionale. Dal Risorgimento al secondo dopoguerra, Il Mulino, Bologna 2007.


LEMMARIO




Parrocchie - vol. II


Autore: Antonio Mastantuono

La parrocchia agli inizi dello Stato unitario. La ricerca storica sulla parrocchia in Italia – relativamente a quest’ultimo secolo e mezzo – non conta molti studi, a differenza di quanto è stato prodotto per altre epoche. Una disat­tenzione che appare evidente se si prendono in considerazione la manualistica teologica o i dizionari teologici che si interessano di eccle­siologia e di pastorale, dove il riferimento storico alla par­rocchia – quando c’è – di norma si arresta alla riforma tri­dentina e alle sue conseguenze, sintetizzando i secoli successivi e soprattutto gli ultimi due con poche generiche parole.

Una storia che non può essere , in realtà, compresa attraverso generalizzazioni, sia per la grande quantità delle parrocchie italiane, sia per le profonde differenze esistenti in esse nei vari stati preunitari, sia per la forte dipendenza delle parrocchie non solo dalla linea pastorale del vescovo, ma soprattutto dalla figura fondamentale del parroco, figura in grado di determinare non solo la linea pastorale (catechesi, liturgia, sacramenti) ma anche gli impegni sociali, assistenziali, formativi della parrocchia all’interno della comunità civile locale.

«Ad appena dieci anni di distanza dall’unificazione nazionale – scriveva G.Penco – l’unità reale della Nazione doveva infatti compiere ancora molta strada e lo stesso va detto circa l’unità della vita cattolica ed ecclesiastica. Le situazioni locali rimanevano ancora troppo diverse e il peso delle singole tradizioni troppo forte perché una unificazione potesse avere luogo entro breve tempo» (G. Penco, Storia della Chiesa,II, Milano 1978, 335)

Incrociando i dati pubblicati nei primi anni dello Stato unitario, emergono non poche disparità tra Nord e Sud quanto a numero di parrocchie presenti nelle 320 diocesi, rispetto all’estensione territoriale e alla popola­zione. Complessivamente, la rete parrocchiale nel Settentrione era più fitta e inserita in un numero di diocesi nettamente inferiore rispetto al Meridione. Le diocesi del Nord contavano tutte poco meno di mezzo milione di abitanti, a fronte dei circa 700.000, ad esempio, di quella di Napoli. Quanto alle parrocchie, se Brescia ne contava 382, Bologna 396, Firenze 479, Padova 325, Palermo ne sommava 47 e Napoli 85.

La disomogeneità non era solo nell’ordine dei numeri e delle percentuali, ma riguardava anche le ricchezze sovrab­bondanti di alcune e la miseria totale di molte altre. Vi erano identità secolari che prevedevano per le parrocchie ruoli, compiti e relazioni con il potere politico e con la stessa realtà diocesana molto distanti tra loro. E anche se molte parrocchie avevano conosciuto nella prima parte del secolo XIX – nel periodo napoleonico e successivamente nella Restaurazione – profonde modificazioni, le differenze restavano partico­larmente rilevanti. Non potendo dar qui conto di tutta la realtà italiana, si prendono in considerazione due aspetti signi­ficativi delle differenze, uno per il Settentrione e uno per il Meridione.

Al Nord, un caso rilevante per la storia della parrocchia, è costituito dal Veneto. Nonostante, infatti, l’impegno dei vescovi a promuovere per essa il modello tridentino, questo trovò per lungo tempo le resistenze del giuspadronato che continuò ad esercitare un diretto controllo sulla Chiesa: dalla nomina dei vescovi alla gestione amministrativa delle parrocchie. La svolta del periodo napoleonico ebbe il merito di far superare, seppur parzialmente, questa dipendenza, ma con la Restaurazione la parrocchia conobbe nuove trasformazioni a seguito del tentativo governativo di adeguarla alle previsioni del diritto ecclesiastico austriaco. I vescovi cercarono con ogni mezzo di contrastare sia l’idea di una religione funzionale al dominio politico imperiale che la pretesa di poter esercitare tale dominio sulla formazione del clero e sulla teologia. L’opposizione si estese anche alla statalizzazione della parrocchia intesa come ente di sostegno dell’ortodossia imperiale, fino ad ottenere, con il concordato del 1855, la cessazione del controllo diretto austriaco e, col concilio provinciale veneto del 1859, un completo adeguamento alla parrocchia tridentina, facendola diventare un elemento fon­damentale di centralizzazione diocesana. La parrocchia veneta – che aveva comunque ereditato le qualità di efficienza amministrativa dei decenni precedenti – da lì in poi acquisterà sempre di più una relazione stretta con il vescovo e una dimensione pastorale tale da farne punto di riferimento – spesso unico – delle emergenze sociali vissute dalle sin­gole comunità. L’eredità austriaca nella dimensione organizzativa della parrocchia e nella serietà della formazione dei futuri parroci lascerà un segno e una caratterizzazione originale che continuerà per lungo tempo all’interno del nuovo Stato unitario, nel quale la parroc­chia veneta aumenterà ancor di più la propria incidenza religiosa e sociale, grazie sia ai parroci che a un laicato combattivo e intransigente.

Nel Meridione la struttura ecclesiale non era costituita dalle sole parrocchie, ma poggiava prevalentemente sulla capillare presenza di conventi, monasteri e chiese ricettizie. Queste ultime, presenti in gran numero nel regno bor­bonico, erano istituti di fondazione laicale (Università o famiglie possidenti), caratterizzati da autono­mia corporativa e dal possesso di beni di provenienza non eccle­siastica. Questo patrimonio era amministrato dal clero ‘partecipante’ che ne godeva anche i benefici. Non tutte le ricettizie erano parrocchie – e non tutte le parrocchie erano ricettizie – ed esse erano distribuite – all’inizio del secolo XIX – secondo una linea appenninico-adriatica meridio­nale in modo non uniforme, rappresentando circa un terzo di tutte le Chiese del regno, con uguale percentuale di clero, ma con ben superiore quota di reddito. Tuttavia il loro grande numero costituì un notevole freno alla diffusione delle parrocchie non ricettizie specialmente in molte diocesi delle province napoletane a causa dell’opposizione del clero ricettizio. Questo spiega, per esempio, il ridotto numero di parrocchie nelle diocesi pugliesi e in altre aree dove le chiese ricettizie rappresentavano addirittura la mag­gioranza.

La struttura reticolare – densa di una varietà di istituzioni religiose – della Chiesa meri­dionale conobbe un primo tentativo di modifica con la poli­tica napoleonica di inizio secolo XIX e con la conseguente soppressione degli ordini religiosi. Successivamente, il Con­cordato di Terracina del 16 febbraio 1818, sottoscritto da Fernando I di Borbone e da Pio VII, inaugura di fatto il processo di Restaurazione che pone vescovi e clero – in cambio di protezione e di significativi benefici di ordine amministrativo ed economico – al totale servizio del potere borbonico di cui divengono stretti collaboratori, dall’organizzazione del consenso popolare fino al controllo dell’ordine pubblico e degli interventi sanitari. Si avviava, inoltre, un significativo riassetto territoriale attraverso una riduzione di diocesi e una rinnovata coincidenza di obiettivi tra il trono e l’altare.

Ciò spiega le resistenze all’unificazione italiana della maggior parte dei vescovi meridio­nali definiti comunemente ‘borbonici’ e ‘reazionari’.

Il nuovo Stato unitario – nonostante la dichia­rata ispirazione al pensiero liberale, la successiva approva­zione delle leggi eversive dell’asse ecclesiastico e una poli­tica complessivamente anticlericale e non confessionale – mostrò in tutta Italia un vivo interesse per controllare e ottenere riconoscimenti pubblici da parte di quella realtà fondamentale – capillare e periferica – della Chiesa catto­lica che erano le parrocchie, alle quali fu riconosciuto un regime di privilegi fiscali. Di questo interesse per la par­rocchia è prova la quantità di testi, soprattutto di carattere giuridico, che cercano di definire la parrocchia stessa ten­tando di dare unità alle disparate legislazioni degli stati preunitari in materia, alla dottrina e alle sentenze delle varie corti. Un processo di unificazione assai lento e ancora oggetto di dibattito alla fine del secolo XX, con un ventaglio di pro­blemi ancora aperti riguardo alla stessa parola parrocchia la quale era «adoperata negli scritti del diritto ecclesiastico e del diritto comune, nonché nelle fonti del diritto parti­colare dei diversi stati, nella loro giurisprudenza e nella loro letteratura, con una grande promiscuità di significati» (F. Ruffini, La rappresentanza giuridica delle parrocchie, Torino 1896, 3).

Tra Ottocento e Novecento. L’irrompere a fine Ottocento della società di massa e di una nuova cultura politica; la nascita delle organizzazioni sindacali; l’affermarsi di una borghesia indifferente o più spesso ostile al dato religioso non è ininfluente sulla struttura ecclesiale. La risposta culturale e sociale della Chiesa è la Rerum novarum, è un’orizzontalizzazione della parrocchia che cerca di allargare la sua presenza e la sua incisività in una società che, a differenza dell’anti­co regime, non è più tutta cristiana. Da qui l’incremento dell’azione sociale dell’Opera dei congressi, la trasformazione della parrocchia in ‘parrocchia sociale’ e l’interesse dif­fuso per i problemi economici vissuti da contadini e arti­giani e la conseguente creazione di una rete di attività eco­nomiche promosse direttamente dalle parrocchie attraverso le casse rurali. Anche grazie a queste attività eco­nomiche e sociali – autorevolmente ispirate dalla Rerum novarum – la parrocchia continuò ad essere il centro delle comunità, specie di quelle rurali e peri­feriche, la cui vita, comunque ispirata al modello tridentino continuava ad essere scandita e ordi­nata dal suono delle campane.

Funzioni della parrocchia come oratori, biblioteche, asili, cooperative, società di mutuo soccorso, casse rurali, ispirate ad una vocazione sociale, si proponevano, tuttavia, più la protezione e la difesa della Chiesa, assediata dal persistente liberalismo e dal nascente socialismo, entrambi con una caratterizzazione spiccatamente laicista e spesso anticlericale, che non la riconquista apostolica. È evidente che in questa linea difensiva, al laicato parrocchiale si cominciava a riconoscere, per necessità, un ruolo seppure soltanto esecutivo e sotto il diretto controllo del parroco, la cui figura, grazie a questo proliferare di attività, acquistava ancora più forte centralità nella vita della parrocchia. Questo aumento di responsabilità e competenze rese più evidenti i limiti culturali di un clero impreparato a tener testa alle novità (politiche e sociali) che era chiamato a fronteggiare e rispetto alle quali la for­mazione ricevuta appariva totalmente inadeguata.

Ma anche sul versante ecclesiastico la parrocchia neces­sitava di ridefinizione, come dimostra l’intervento ad essa dedicato dal Codice di diritto canonico del 1917. Il codice in realtà ribadì alcuni principi del concilio di Trento che avevano avuto solo parziale attuazione rivedendoli alla luce delle emergenze e delle necessità di quel tempo pre­sente, stabilendo quindi i doveri del parroco, i rapporti tra parroco e vescovo e il superamento delle parrocchie per­sonali.

Il burrascoso periodo della prima guerra mondiale e quello ad esso successivo non sembrano intaccare il ruolo della parrocchia che resta co­me forza aggregatrice della realtà locale: le masse restano strette intorno ad essa. Certamente nel Novecento siamo di fronte a parro­ci più preparati, provenienti – ormai dagli anni ’30 – dai seminari regio­nali, più sensibili agli eventi culturali esterni, più inclini a coinvolgere la parrocchia in attività allargate perché la società è culturalmente cresciuta ed è diventata più complessa. Sorge o si rafforza, dove già esiste, una parrocchia polivalente, impegnata in diversi settori. Pur ri­manendo ancora come sostrato il modello tridentino, si allarga il campo della catechesi, si coinvolgono in nuove missioni gli ordini religiosi, si interagisce con le organizzazioni, soprattutto con l’Azione Cattolica.

Questo cambiamento è testimoniato dall’intensa pubblicistica dedicata alla parrocchia. Si tratta di volumi di larga diffusione dove vengono presentati compiti e funzioni dell’istituzione parrocchiale. E’ il caso di quello celebrativo ed essenziale di Tito Casini che si limitava a ripercorre lo schema delle funzioni tridentine della parrocchia (cfr. T. Casini, La parrocchia, Firenze 1937), e di quello di particolare rilievo di Giuseppe Cavagna, La parrocchia e la vita cristiana (Torino 1935), vademecum completo della struttura e della vita parrocchiale: dalle funzioni liturgiche a quelle sacramentali, dagli aspetti organizzativi a quelli di arredo e murari, dall’archivio fino all’associazionismo e alle opere parrocchiali. Con un interessante capitolo dedicato ai nemici della parrocchia dove sono descritti, secondo l’autore, i pericoli e le difficoltà emergenti in quegli anni: individualismo e indifferentismo nei confronti dello spirito parrocchiale, rispetto umano e ignoranza della liturgia come condizioni devianti rispetto all’ordine parrocchiale, alla sua organizzazione gerarchica, ad un sistema perfettamente funzionante e rigido che non ammetteva né eccezioni né critiche.

La cultura del periodo fascista non influenza granché la parroc­chia, se non forse nelle forme esteriori di os­sequio, che appartengono alla vetrina politica del ventennio. E tutta­via nell’opera di bonifica integrale, che porta alla nascita di vere e proprie città e piccoli paesi, la parrocchia sarà sempre compresa nei piani urbanistici e ne diventerà da subito il centro di riferimento per tutte le nuove famiglie. Il populismo imperante, che ha il suo culmi­ne nelle guerre di Spagna e d’Etiopia del ‘35-’36, rende probabil­mente le omelie dei parroci piene di retorica e metafore imperial-nazional-religiose, in una fase di massimo consenso al fascismo anche da parte delle gerarchie ecclesiastiche.

Ma qualche spirito più acuto, già intravede negli anni ’30, un divario tra la parrocchia e la società, interessata, seppure non in tutti i suoi settori, da un pro­cesso di modernizzazione che sarà interrotto – ma solo interrotto – dall’entrata in guerra e ripreso alla fine degli anni ’40.

È del ‘37 la Lettera sulla parrocchia di don Primo Mazzolari (Id., Lettera sulla parrocchia. Invito alla discussione, Brescia 1937, Bologna 20084), uscita però anoni­ma per il clima di diffidenza che circondava l’autore, e nella quale erano indicati alcuni limiti della parrocchia e accennati alcuni rime­di. Dal modesto osservatorio di una parrocchia rurale del mantovano, Mazzolari maturava – dopo anni di sofferto servizio parrocchiale che coincidevano quasi con l’avvento e l’affermazione del fascismo con il quale non erano mancati scontri duri anche a costo di aperti dissensi con la linea collaborazionista della Chiesa italiana – una profonda e originale riflessione dedicata alla parrocchia di cui egli denunciava limiti e carenze a partire dal bisogno di «ritrovare il coraggio di porsi in con­creto i veri problemi dell’apostolato parrocchiale» (Ib., 66). Un apostolato per il quale ancor prima degli aspetti organiz­zativi – spesso ritenuti in quell’epoca prioritari – occorre che la parrocchia stessa sia viva, cioè posta «su un piano vitale col mondo presente, organizzata in funzione del compito che deve svolgere su questo piano vitale» (Ib.,43). Mazzolari denuncia quindi un’inadeguatezza della parrocchia a collocarsi nella dimensione del presente, nell’accettare le nuove condizioni del suo ruolo in seguito alle trasformazioni sociali. Certo vi era stato un tempo in cui la parrocchia aveva svolto meritoriamente una quantità di funzioni sociali che però progressivamente e opportuna­mente erano state assorbite dall’istituzione pubblica. Questa attività di supplenza aveva creato erronee convin­zioni di dover assumere ruoli sociali in realtà impropri e difficoltà a riconoscerli di competenza dello Stato. Ne erano sorti dissidi, conflitti e nostalgie che Mazzolari, nel suo scritto, ricomponeva, individuando le vere emergenze che non erano la semplice difesa o riaffermazione dei principi dottrinali, quanto un lento e fecondo lavoro d’ispirazione della società che la parrocchia era chiamata a compiere gra­zie al ruolo e ai nuovi compiti che andavano riconosciuti a un laicato autonomo e adulto. Si trattava quindi di spe­rimentare nuovi metodi di apostolato che superassero sia le tentazioni di restaurazione di una parrocchia ormai inattuale sia i metodi del lasciar fare, dell’attivismo separatista e del soprannaturalismo disu­manizzato. A queste tentazioni occorreva, secondo Maz­zolari, contrapporre un’opera che abbattesse le barriere di cui si era circondata la parrocchia, che rompesse il regime di separazione con coloro che erano – ed erano lasciati ‘lon­tani’ – e restituisse ai laici le proprie responsabilità. Una voce che resta isolata.

Tra la fine della guerra e i primi anni ‘50 la parrocchia sembra vivere, infatti, in una logica di concorrenza con altre realtà del territorio – so­prattutto le sedi dei partiti – nell’organizzare situazioni – sale cinematografiche, televisione negli oratori, teatri, campi sportivi – che pos­sano attirare i fedeli. In Esperienze pastorali (Firenze 1958) don Lorenzo Milani, mettendo insieme ricerca storica e “sociologia religiosa”, non solo prende atto del fallimento della cultura religiosa , ma collega questa al fallimento della vita civile ed intuì che la mancanza di cultura era un ostacolo all’evangelizzazione e all’elevazione sociale e civile del suo popolo.

Ma nel secondo dopoguerra il mutamento culturale più significativo in Italia è legato al cosiddetto «boom economico»; è un mutamento complesso che registra una cre­scita tumultuosa ma anche vitale della società italiana: diffuso be­nessere, automobile, televisione, elettrodomestici ecc. La parrocchia si adatta con difficoltà, proprio perché, comunque sia, il suo modello cultuale e liturgico è Trento.

La parrocchia sente ostile una gran parte della cultura italiana, soprattutto quella che attinge a modelli laico-radicali e di sinistra. Tutta la società diventa più distratta; si velocizza la mobilità sociale, si velocizzano gli spostamenti da un’area a un’altra, così che alcune parrocchie tendo­no a spopolarsi, altre a crescere a dismisura.

Se molte parrocchie del nord negli anni ‘50 e successivi devono porsi il problema di una pa­storale per gli emigrati del sud, molti paesi in quel sud si spopolano, così come le relative parrocchie. Se il modello tridentino può ancora te­nere in una società rurale, le realtà urbane del nord co­me del sud, a loro volta, possono anche tenere, a scapito però di un coinvolgimento più responsabile dei propri parrocchiani, in un so­stanziale clima d’involuzione. I cambiamenti premono e le parrocchie ur­bane delle realtà industriali devono fare i conti con una dispersione dei vari obblighi del cristiano, soprattutto la messa domenicale e la catechesi; tengono i riti di passaggio, ma anche per un diffuso e radi­cato conformismo. Un fiorire di indagini di carattere sociologico intorno alla par­rocchia indica un nuovo interesse verso un’istituzione che molti considerano essere già in crisi. Se ne studia l’evoluzione sociologico-religiosa in determinate aree, il comportamento religioso dei parrocchiani, le strutture collaterali e la lo­ro valenza sociale (cf. G.B. Guzzetti,«La parrocchia nelle recenti discussioni», in La Scuola Cattolica 81 (1953), 415-438).

«Con la fine degli anni ‘50 – ha osservato Mario Rosa – si pongono le premesse di un superamento della struttura – quale si era venuta sviluppando soprattutto durante i pontificati di Pio X, Pio XI e Pio XII – della parrocchia come nucleo religioso-sociale, con cospicui risvolti attivistico-organizzativi e politici» (M. Rosa, «Le parrocchie italiane nell’età moderna e contemporanea», 172-173)

Il post Concilio. Le innovazioni conciliari si intersecano, nei primi an­ni dalla chiusura dell’assise ecumenica, con la cultura e il movimen­to del ’68, che, delineando un’alternativa culturale negli stili di vita e nei costumi, rifiuta ogni aspetto istituzionale della società, dunque anche le strutture della Chiesa, parrocchia compresa. Se ne contestava l’identità, sia ecclesiale che sociale, perché povera di risorse e di strumenti e lontana dai problemi posti dalla complessa situazione sociale e culturale. Come insoddisfacente ne appariva la struttura, fortemente centrata sulla figura del parroco, incapace di dare valore e ruolo attivo a tutti quei cristiani che ne abitavano il territorio. Lo schema feudale parroco-fedeli, così ben radicato nella mentalità parrocchiale, risultava essere un vincolo troppo rigido e opprimente, destinato a soffocare qualsiasi tentativo di dare un’anima alla comunità cristiana cui era rivolto. La sua identità appariva inoltre inefficace nel modo con cui impostava il suo rapporto con la società in cui era collocata: un rapporto troppo ossequioso e debole, incapace di momenti di critica.

Le prospettive teologiche e pastorali del concilio convinsero un certo numero di parroci a porre l’accento sulla qualità della proposta di fede, sulla dimensione comunitaria, su una liturgia incarnata nella vita e sulla dimensione politica della fede. Nacquero così parrocchie a carattere assembleare in cui l’intuizione comunitaria si realizzava attraverso liturgie dialogate.

Nello stesso spirito, si realizzò l’ingresso del mondo giovanile nelle sale parrocchiali. Molte di queste esperienze maturarono verso l’istituzione ecclesiale un atteggiamento molto critico, che, al termine dei loro percorsi, ne determinò l’allontanamento dalla chiesa e l’ingresso in gruppi di impegno politico o sociale. Alcune realtà presero la via delle cosiddette “Comunità di base” (cf. R.J. Kleiner, Gruppi di base nella chiesa italiana. Obiettivi e metodi di lavoro, Assisi 1978). L’esplorazione di nuove forme di vita ecclesiale, capaci di dare soluzione alle difficoltà pastorali, prese, invece, la direzione della “complessizzazione” della organizzazione parrocchiale: la parrocchia si struttura secondo le attività e l’organigramma parrocchiale.

Si afferma così urgente – nel dibattito di quegli anni e fino al presente – una ridefinizione dello statuto della parrocchia e del suo ruolo in rela­zione alla diocesi, secondo un profilo di similitudine (rap­presenta la Chiesa e la rende visibile) e di subordinazione (cellula e parte della Chiesa particolare), mentre si sostiene ripetutamente il nuovo ruolo della parrocchia come sog­getto evangelizzatore, attivo nell’azione pastorale. Saranno questi elementi che caratterizzeranno sia i lavori di alcune Settimane nazionali di aggiornamento pastorale, sia i ripetuti interventi della Conferenza Episcopale Italiana sulla parrocchia. Interventi destinati a ridefinire ruoli e impegni attraverso conti­nue messe a punto a riprova delle difficoltà del compito, percepite dagli stessi vescovi, fino al documento Il volto missionario della parrocchia in un mondo che cambia (2004). In esso si registrano i cambiamenti sociali e culturali e la fatica per la parrocchia di seguire le trasfor­mazioni. Emerge dal contesto l’aspettativa di una parrocchia che si impegni sempre più nel campo della carità e della solidarietà e nella costruzione di relazioni vitali. In una società sempre più anonima e spersonalizzante, gli ambienti religiosi sono invitati non soltanto ad impegnarsi per ridurre le condizioni di disagio, ma anche a rappresentare un “luogo” di integrazione e di socializzazione

L’identità religiosa della parrocchia non viene negata, ma diviene oggetto di una diversa considerazione rispetto al passato. L’uomo di oggi sembra preferire un cammino religioso più libero e più riflessivo, rispetto ad un’osservanza giudicata costringente o a “sacramenti” e rapporti con gli uomini del sacro il cui significato non rappresenta più un’evidenza collettiva.

La parrocchia non viene sconfessata nelle sue funzioni religiose, ma il suo capitale simbolico e sacramentale si sta erodendo.

Il moltiplicarsi delle attività pastorali a raggio interparrocchiale, l’affacciarsi di nuove ministerialità, l’attenzione più diversificata ai momenti della società civile, l’intreccio dell’azione pastorale della comunità con altre forme di aggregazione ecclesiale (movimenti, associazioni, volontariato), le forme della comunicazione che esigono di superare il regime campanilistico, richiedono di rendere più elastica la modalità degli interventi pastorali, senza perdere il vincolo con il territorio che costituisce la dimensione fondamentale della parrocchia tradizionale. Di qui il tentativo di pensare a nuove forme di presenza della Chiesa sul territorio. Esperimenti che vanno comunemente sotto il nome di unità pastorali: una riorganizzazione delle comunità sparse sul territorio che senza annullare la soggettività e l’identità della singola comunità parrocchiale, «… l’ha valorizzata e rivitalizzata aprendola alla collaborazione e alla pastorale d’insieme, intaccando il muro di campanilismo e l’orientamento individualistico» (A. Toniolo (ed.), Unità pastorali, Padova 2003, 7-8)

La parrocchia nel nuovo Codice di Diritto Canonico. Nel nuovo codice del 1983, radicalmente diverso dal Codice del 1917 soprattutto per l’impianto decisamente improntato ai documenti conciliari, la parrocchia viene definita come «comunità di fedeli, stabile e definita, sotto la guida di un pastore proprio in comunione con il vescovo» (can. 515). La parrocchia conosce figure che si diversificano. Il can.517 par. 2 parla di parrocchie affidate ai laici, sia pure con il riferimento al presbitero. Si prospetta la possibilità di collaborazioni molto ampie fra sacerdoti e fra parrocchie fino a prevedere la conduzione da parte di un gruppo di preti di una vasta parrocchia o di più parrocchie (parrocchie in solidum, can. 517 par.1). La parrocchia mantiene certamente tutta la sua caratteristica tradizionale di ancoraggio al territorio e di legame alla vita dei fedeli, dal nascere al morire: basterebbe la necessità ribadita dell’anagrafe parrocchiale a dire il solido segno di appartenenza e di visibilità, di storia e di tradizione.

Attenzione meritano anche gli accordi di Villa Madama del 1984 che aggiornano il concordato lateranense del 1929. In essi la “parrocchia” viene ad essere riconosciuta come titolare di personalità giuridica. Non si parla più di “beneficio parrocchiale” o di “chiesa parrocchiale”. Ciò facilita l’accorpamento di diocesi e di parrocchie, perché esse siano realmente corrispondenti a entità umane capaci di “fare comunità”, senza coperture giuridiche di realtà ormai inesistenti, valide solo davanti all’autorità statale. Finisce l’istituto del beneficio parrocchiale e si stabilisce una sorta di uguaglianza nella retribuzione per ogni servizio ministeriale dei preti.

Fonti e Bibl. essenziale

AA.VV., Trasformazione delle parrocchie, Brescia 1972; AA.VV., La parrocchia nel Mezzogiorno dal medioevo all’età moderna. Atti I incontro seminariale (Maratea 1977), Napoli 1980; AA.VV., La parrocchia in Italia nell’età contemporanea. Atti del II incontro seminariale (Maratea 1979), Napoli-Roma 1982; AA.VV., Parrocchia e pastorale parrocchiale. Storia, teologia e linee pastorali, Bologna 1986; AA.VV., La parrocchia come chiesa locale, Quaderni teologici del Seminario di Brescia, Brescia 1993; G. Berthelet, Dizionario delle Parrocchie italiane con le indicazioni del Comune, della Diocesi, della Provincia, della Popolazione e delle Congrue Parrocchiali, Roma 1901; G. Bertolotti, Statistica ecclesiastica d’Italia, Savona 1885; V. Bo, Parrocchia tra passato e futuro, Assisi 1977; V. Bo, Storia della parrocchia, 4 voll., Roma 1992; M. Boarotto, La parrocchia fra pastorale e diritto in Italia: sua iden­tità e cammino alla luce delle norme canoniche concordatarie, Roma 1991; L. Bressan – L. Diotallevi, Tra le case degli uomini. Presente e “possibilità” della parrocchia italiana, Assisi 2006; L. Bressan, «La rivincita della parrocchia», in F. Garelli (ed.), Sfide per Chiesa nel nuovo secolo. Indagine sul clero in Italia, Bologna 2003, 101-145; V. De Marco, «L’influsso del mutamento culturale nell’evoluzione delle forme della parrocchia dal modello tridentino ad oggi», in Servizio Nazionale per il progetto culturale della Cei, Ripensare la parrocchia, Bologna 2004, 19-52; G. De Rosa, Chiesa e religione popolare nel Mezzogiorno, Bari 1978; M. Guasco, Storia del clero in Italia dall’Ottocento ad oggi, Roma-Bari 1997; M. Isnenghi (ed.), I luoghi della memoria. Strutture ed eventi dell’Italia unita, Roma-Bari 1977; A. Longhitano, «La parrocchia fra storia, teologia e diritto», in AA.VV., La parrocchia e le sue strutture, Bologna 1987, 5-27; L. Nanni, «L’evoluzione storica della parrocchia», in La Scuola Cattolica 81 (1953), 475-544; E. Pin, «Dalla parrocchia rurale alla parrocchia urbana», in H. Carrier-E. Pin, Saggi di sociologia religiosa, Roma 1967, 333-346; F.R. Romersa, Il rinnovamento della parrocchia nella Chiesa italiana dal Concilio ad oggi, Roma 2000; M. Rosa, «Le parrocchie italiane nell’età moderna e contemporanea. Bilancio di studi e linee di ricerca», in Id., Religione e società nel Mezzogiorno tra Cinque e Seicento, Bari 1976, 157-181; G. Scarvaglieri, «Trasformazioni della parrocchia nel contesto sociale attuale», in N. Ciola (ed.), La parrocchia in un’ecclesiologia di comunione, Bologna 1996, 19-41; S. Tanzarella, «La parrocchia: vita, morte e miracoli», in Istituto della Enciclopedia Italiana (ed.), Cristiani d’Italia. Chiesa, società, Stato, 1861-2011, I, Roma 2011, 359-376.


LEMMARIO




Partito Popolare - vol. II


Autore: Andrea Ciampani

La costituzione del Partito Popolare Italiano (Ppi) rappresenta un evento di assoluto rilievo nella storia italiana, nonostante il breve periodo in cui si concentrò la sua vita politica (1919-1926). Molti cattolici videro nella sua nascita il compiersi del percorso avviato negli ultimi decenni dell’Ottocento per esercitare un ruolo pubblico nell’Italia unita. All’inizio del XX secolo, infatti, era maturata l’idea che, per contrastare l’affermarsi di uno Stato invadente nell’organizzazione sociale e nella vita ecclesiale, fosse necessario costituire un partito in cui far convivere le diverse culture politiche del mondo cattolico italiano. La presenza del Ppi nel sistema politico, peraltro, poteva rappresentare un rafforzamento delle libertà parlamentari e degli istituti nazionali, sia per l’implicito superamento degli steccati tra Chiesa e Stato, sia per l’adesione democratica di larghe fasce popolari a quell’equilibrato processo riformatore che il partito intendeva rappresentare.

Ripensando l’esperienza del movimento democratico cristiano, in alcuni incontri svoltisi tra il novembre e il dicembre 1918 don Luigi Sturzo pose le fondamenta del nuovo partito. Mentre il sacerdote di Caltagirone lasciava la carica di segretario generale → dell’Azione Cattolica Italiana, la segreteria di Stato vaticana consentiva la proposta di un partito “ispirato ai principi cristiani”, che non coinvolgesse la Chiesa cattolica nell’arena politica. Il 18 gennaio 1919, infine, una Commissione provvisoria diffuse l’Appello a tutti gli uomini liberi e forti perché cooperassero “ai fini superiori della Patria, senza pregiudizi né preconcetti”, concorrendo alla nascita del Ppi. Il partito avrebbe avuto un carattere nazionale, interclassista e programmatico, favorevole al voto alle donne e al sistema elettorale proporzionale; rivolto ad attuare ideali di giustizia sociale e di miglioramento delle condizioni generali del lavoro in politica interna, avrebbe promosso in politica estera la pace tra le nazioni, favorendo lo sviluppo delle “energie spirituali e materiali di tutti i Paesi”. Intorno al simbolo della “libertas” si raccoglievano motivi vecchi e nuovi del cattolicesimo politico per le libertà personali e collettive: la libertà religiosa, anche in riferimento all’esplicazione della missione spirituale della Chiesa nel mondo; la libertà di insegnamento; la libertà per le organizzazioni sociali; la libertà comunale.

Intorno a Sturzo si raccolsero, in effetti, alcuni cattolici deputati ed esponenti delle molteplici culture e generazioni del movimento cattolico in Italia: da Filippo Meda a Carlo Santucci, da Giuseppe Micheli a Giovanni Bertini, da Achille Grandi a Guido Miglioli, da Carlo De Cardona a Salvatore Aldisio. L’adesione al Ppi, peraltro, fu vissuta localmente in modo differente anche in relazione alla composita tradizione di rappresentanza pubblica della presenza religiosa all’interno delle diocesi della Penisola. Confermata la scelta aconfessionale nel suo primo congresso, svoltosi in giugno a Bologna, sostenuto dal moderatismo cattolico e dai circoli della gioventù militante, comunque, il Partito popolare italiano ebbe consensi nella stampa, nel movimento cooperativo e nel sindacato promossi dai cattolici. Alle elezioni politiche del novembre del 1919, infine, il Ppi ottenne il 20,5% dei voti e 100 deputati.

La scelta di una politica autonoma del Ppi suscitò diffidenza nella classe dirigente giolittiana, che doveva ora riconoscere ai popolari non solo una posizione “centrista” in Parlamento, ma anche un ruolo essenziale per la formazione dei governi tra il 1919 e il 1922. In concorrenza con i socialisti, il “collaborazionismo” del Ppi nei gabinetti Nitti e Giolitti aveva un suo limite proprio nell’aspirazione ad assumere la guida del Paese dopo la fase emergenziale post bellica. Con il positivo esito elettorale del maggio 1921, l’intransigenza della politica sturziana nei confronti dei liberali portò alla nomina di tre ministri popolari nel governo Bonomi; durante il III congresso del partito, tenutosi in ottobre a Venezia, si riproposero le riforme dei popolari, e quella regionalista in particolare. Nel febbraio 1922 il Ppi impedì il ritorno al governo di Giolitti e partecipò al gabinetto Facta. Nel luglio seguente, tuttavia, il fallimento del tentativo di condurre il popolare Meda alla presidenza del Consiglio minò la credibilità della strategia di Sturzo, aumentò la tensione tra direzione del partito e gruppo parlamentare, evidenziò i timori di chi temeva una divisione col moderatismo liberale e irritò chi denunciava un immobilismo del partito nella crisi socio-politica.

Mentre la S. Sede ribadiva di essere “totalmente estranea al Partito popolare come a ogni altro partito politico”, il centrismo popolare di Sturzo doveva subire un nuovo colpo dopo la marcia su Roma dell’ottobre 1922, cui seguirono nuove tensioni con Giolitti e la partecipazione di due ministri popolari al primo governo di coalizione formato da Mussolini. Sturzo dissentiva dalle “compromissioni” filofasciste e al IV congresso del Ppi, svoltosi a Torino nell’aprile del 1923, egli portò il partito all’opposizione. L’iniziativa sturziana scatenò la violenza fascista contro il Ppi e le minacce contro la gioventù cattolica (nel pieno della riforma statutaria dell’Aci). Inascoltato politicamente dallo schieramento liberale, sotto le pressioni vaticane Sturzo si dimise da segretario del partito nel luglio seguente. La direzione del Ppi fu affidata alla gestione collegiale di Giulio Rodinò, Giovanni Gronchi e Giuseppe Spataro.

La modifica in senso maggioritario del sistema elettorale, approvata con la legge Acerbo, suscitò nuove divisioni tra i popolari che alle votazioni politiche dell’aprile 1924, alterate dallo squadrismo e dai brogli fascisti, ottennero solo il 9% dei voti. Dopo il rapimento e l’uccisione di Matteotti, il Ppi condusse i suoi deputati fuori dall’aula parlamentare partecipando alla protesta dell’Aventino. Dal maggio 1924 guidato da Alcide De Gasperi, il partito vide riemergere nei suoi confronti il pregiudizio anticlericale dei liberali; fallì anche un avvicinamento tra popolari e socialisti nel luglio 1924. Contemporaneamente, tuttavia, si rafforzava l’identificazione della presenza dei popolari (e dei cattolici in politica) con le istituzioni liberali e democratiche.

La progressiva caduta delle libertà politiche e la crescente minaccia fascista spinse la segreteria di Stato ad invitare Sturzo a lasciare l’Italia: il 25 ottobre 1924 il sacerdote partiva per un lungo esilio. Avviatosi nel gennaio 1925 il tentativo totalitario fascista il Ppi, ormai privo dell’agibilità politica, volle tenere comunque il suo ultimo congresso nazionale. La S. Sede, intanto, si stava preparando a un lungo confronto col regime di Mussolini, che avrebbe condotto ai Patti Lateranensi e alla permanente lotta per mantenere, al di fuori dall’azione politica, spazi pubblici di formazione religiosa per i cattolici italiani. Il 9 novembre 1926, infine, il prefetto di Roma scioglieva il Ppi. Molti militanti popolari furono accolti nei differenti rami dell’Azione cattolica, alcuni andarono in esilio, tutti furono ridotti all’inattività pubblica; De Gasperi, dopo l’arresto del marzo 1927, dall’aprile 1929 iniziò a lavorare nella Biblioteca Vaticana. L’esperienza popolare rimase viva nell’aspirazione antifascista alla partecipazione politica democratica, riferimento importante per coloro che nel 1943 promossero il partito della Democrazia cristiana.

Fonti e Bibl. essenziale

F. Malgeri (a cura di), Gli atti dei congressi del Partito popolare italiano, Morcelliana, Brescia, 1969; G. De Rosa, Il Partito Popolare Italiano, Laterza, Bari, 1988; G. Campanini, Popolarismo, in Enrico Berti, Giorgio Campanini (a cura di), Dizionario delle idee politiche Editrice AVE, Roma 1993, 643-651; M. Casella, Nuovi documenti sull’Azione cattolica all’inizio del pontificato di Pio XI, in A. Ciampani, C.M. Fiorentino, V.G. Pacifici (a cura di), La moralità dello storico. Indagine storica e libertà di ricerca. Saggi in onore di Fausto Fonzi, Rubbettino, Soveria Mannelli 2004, 273-321; F. Malgeri, L. Sturzo, A. De Gasperi, Carteggio (1920-1953), Rubbettino, Soveria Mannelli 2006; A. Scornajenghi, L’alleanza difficile. Liberali e popolari tra massimalismo socialista e reazione fascista (1919-1921), Edizioni Studium, Roma 2006.


LEMMARIO




Patria, Nazione - vol. II


Autore: Guido Formigoni

Come già nell’epoca risorgimentale, i cattolici italiani anche dopo l’unificazione del paese coltivarono un forte senso della nazione e una spiccata coscienza di italianità. Ne fu carattere largamente prevalente l’amplissima diffusione del mito dell’Italia come “nazione cattolica” per eccellenza. Tale visione “guelfa” della nazione, sedimentata già nelle vicende del primo ‘800, codificata in opera molto influenti come quella di Gioberti, attraversò il periodo del Risorgimento e poi fu continuativamente coltivata e sviluppata nel mondo cattolico. Naturalmente si trattava di una visione mitica e retorica che poteva avere applicazioni anche molto diverse e condurre a esiti del tutto pluralistici.

La rottura consumatasi tra la Chiesa di Pio IX e il moto risorgimentale, definitivamente cristallizzata con le vicende del 1870 e la presa di Roma da parte dello Stato italiano, non spazzò via affatto questo mito diffusissimo. Il nascente cattolicesimo intransigente (v.) sviluppò un discorso di questo tipo, in cui contrapponeva la “vera nazione” cattolica al nuovo Stato, la cui legittimità non venne riconosciuta per molti anni. I cattolici papalini e intransigenti si sentivano quindi i “veri” italiani, contrapposti all’élite deviata che aveva condotto il moto politico unitario. Il simbolo di questa opposizione fu la lunga stagione del non expedit, cioè del rifiuto ufficiale di partecipare alle elezioni politiche, codificato nel 1874 e continuato formalmente fino al 1919, anche se ammorbidito all’inizio del secolo XX. L’armamentario concettuale della nazione serviva in modo precipuo a difendere l’idea dell’esistenza di una “Italia cattolica”, tradizionale e profonda, che costituisse propriamente il «paese reale», contro quella ristretta élite, fuorviata dalle ideologie moderne, atea e anticlericale, che aveva realizzato contro il papa e contro la Chiesa il fragile “paese legale”, lo Stato unitario. Lo stesso rifiuto da parte del movimento cattolico di definirsi come un «partito» era frutto di una rivendicazione nazionale orgogliosa: i cattolici non si percepivano come una «parte» nella nazione, bensì in via di principio coincidevano con essa, in quanto ne esprimevano l’essenza più vera. Naturalmente sostenere questa visione delle cose non era affatto incompatibile con un comportamento pratico che assumeva tutti gli aspetti battaglieri della moderna concezione del partito, esclusa la partecipazione elettorale. L’assenza sostanziale di resistenze cattolico-legittimiste, ad eccezione di qualche frangia meridionale, non rendeva meno duro il conflitto con le istituzioni, ma inseriva comunque in una nuova dimensione i cattolici e le chiese italiane. Proprio in questo orizzonte mentale, quindi, si svolsero capillari ancorché peculiari processi di nazionalizzazione delle masse popolari cattoliche. Fu possibile l’integrazione di strati popolari consistenti, che uscirono attraverso le iniziative dell’Opera dalle angustie della dimensione locale e regionale, dalla condanna della marginalità e della periferia, impegnandosi su cause e orizzonti definitivamente nazionali. La nascita di un movimento cattolico nazionale diede spunto e concretezza al rilancio di questa visione guelfa dell’Italia, quando ancora non esisteva nessuna esperienza nazionale sul terreno delle strutture ecclesiastiche: le chiese italiane per molti decenni ancora guardarono sostanzialmente al papato come elemento di integrazione.

Ma la stessa visione dell’”Italia cattolica” ispirò altre logiche, e in particolare i tentativi di riconciliazione con il corso degli eventi messi in atto dai cattolici moderati e conservatori che si sentivano “cattolici con il papa e liberali con lo Statuto” (il motto fu usato sulla rivista conciliatorista «Rivista universale» fin dal 1873). Era lo sviluppo di una coscienza nazionale pacificata con la guida sabauda del processo di unificazione, già mostrata da una generazione di credenti nelle vicende risorgimentali. Molti credenti assunsero quindi senza difficoltà ruoli civili e anche istituzionali di rilievo nello Stato monarchico e liberale, giungendo a formare una quota significativa della sua classe dirigente, che sviluppò un patriottismo segnato da una forte anche se spesso implicita dimensione religiosa. Ancor più evidentemente e chiaramente, passato qualche decennio, il guelfismo ispirò le iniziative di quei giovani che alla fine del secolo e all’inizio del ‘900 si sentivano ormai «democratici e cristiani» (Meda, Murri, Sturzo). Per costoro, accompagnare le masse popolari all’emancipazione, nel quadro del nuovo contesto statuale che veniva sostanzialmente accettato, era un’applicazione innovativa del vecchio mito guelfo. Il patrimonio dell’intransigentismo diveniva fattore di battaglia politica e culturale per modificare la cornice dello Stato unitario, anziché strumento di una sua contestazione radicale.

Anzi, in questa stagione, soprattutto dopo il 1904, si verificò una consistente diffusione di temi, sensibilità e opinioni nazionaliste nel cattolicesimo italiano. Ci furono episodi di vicinanza di giovani cattolici rispetto al nascente movimento nazionalista italiano, che predicava la grandezza nazionale e il riscatto della patria, in chiave spiritualista e antidemocratica. Una parte del movimento sostenne una politica estera coloniale, come il occasione della guerra di Libia. Per la verità, la gran parte del cattolicesimo ufficiale e anche i più influenti “cattolici deputati” dell’inizio del secolo criticarono il nazionalismo assoluto e imperialista. Il cattolicesimo italiano aveva elaborato alcuni potenti anticorpi nei confronti della terribile possibilità dell’assolutizzazione dell’idea nazionale, che spesso era storicamente giunta ad assumere i caratteri di vera e propria religione secolare. Del culto della patria, dei suoi eroi, dei suoi sacrifici e dei suoi martiri sono infatti piene le pagine della letteratura nazionale. La modalità più consueta di questo approccio prudente consisteva nell’utilizzare il continuo richiamo equilibrante a un’idea organica di convivenza internazionale, secondo forme «comunitarie» e giuridicamente organizzate, capaci di stemperare la contrapposizione potenziale tra le nazioni in un quadro garantito dall’unica verità universale. Giocava poi sempre la limitazione tipicamente religiosa, che impediva al mito nazionale l’assolutizzazione che l’avrebbe portato ad assumere tratti concorrenziali all’universo della fede.

La prima guerra mondiale costituì però un grande crogiolo in cui anche la coscienza nazionale dei cattolici si fuse con le istanze del paese in guerra: anche se nel dibattito del 1914-’15 tra le file cattoliche fu prevalente il neutralismo, ben presto ci fu una forte dislocazione, che condusse molti ambienti e protagonisti del movimento cattolico ufficiale all’approvazione delle ragioni del conflitto. La decisione del governo di permettere ad alcuni preti di assumere la funzione di cappellani militari, dopo decenni di polemiche, aiutò questa saldatura. Le correnti interventiste di segno democratico dei giovani d.c., che avevano inizialmente sostenuto l’idea di una guerra contro l’autoritarismo austro-tedesco per affermare il principio di nazionalità, condivisero peraltro progressivamente le sorti dell’interventismo tutto, che fu alla fine egemonizzato dalle posizioni imperialiste ed espansioniste. Posizioni sostanzialmente fatte proprie dal governo e condizionanti tutta la diplomazia nazionale. Non fu un caso, comunque, che si creassero tensioni tra la prevalente corrente “nazionale” cattolica e le linee del magistero di Benedetto XV, che avevano indicato nella guerra una tragedia europea e una “inutile strage”. Il papa e le istanze di governo centrali stentarono a controllare l’enfasi nazionale che si sviluppò in molti ambienti del movimento cattolico.

Dopo il conflitto, la coscienza nazionale cattolica si trovò comunque molto più a suo agio nel contesto statuale e civile italiano. Non a caso, il Partito popolare di Sturzo scelse una linea patriottica molto netta, attingendo all’iconografia dei comuni medievali (si pensi al simbolo dello scudo crociato), per sottolineare un’alleanza tra libertà, religione e nazione che diventava definitivamente chiave riformatrice dello Stato liberale, non più strumento di irriducibile alterità nei suoi confronti. Un patriottismo forte, anche se aperto alla collaborazione tra le patrie, ad esempio in un’ottica di rifiuto dell’imperialismo e di collaborazione con i giovani Stati mediterranei e balcanici. Non a caso, il culto dei caduti cattolici nella guerra fu al centro dell’esperienza aggregativa dei giovani cattolici. Non a caso, anche alla luce delle riflessioni magisteriali di Benedetto XV sulla pace e di Pio XI sulla nazione (favorevoli al patriottismo ma critiche del “nazionalismo esagerato”), si sviluppò tutta una ricerca giuridica e anche teologica che tentava di ricucire l’idea di una “comunità internazionale” cooperativa con la valorizzazione delle singole esperienze nazionali.

Il ventennio fascista vide ancora all’opera intorno al mito dell’Italia cattolica una complessa vicenda di utilizzazioni e strumentalizzazioni reciproche. Lo Stato totalitario fascista tentava di far proprio – particolarmente dopo la Conciliazione del 1929 – lo strumento di una religione “nazionale” come sostegno del potere. La linea prevalente nel fascismo tentò infatti di “assimilare”, piuttosto che sostituire il cattolicesimo, ai fini di rafforzare la concezione totalitaria. Avendo concesso molto con il Concordato che riconosceva uno spazio di libertà alla Chiesa, Mussolini e i fascisti si aspettavano acquiescenza (cosa che ebbero, con le falangi dell’Ac chiamate disciplinatamente a votare i plebisciti), ma anche un cordiale sostegno alle mete nazionalistiche del regime. Pio XI e il movimento cattolico ufficiale, dal canto loro, lavoravano invece per rendere il “totalitarismo cattolico” l’anima di una riconquista sociale che era apparentemente allineata al regime nazionale, ma conservava un’anima e una forma mentale sostanzialmente alternativa all’ideologia fascista. La discussione attorno alla nazione e al rapporto con le altre nazioni fu una straordinaria cartina di tornasole di queste tensioni. Un vero e proprio “nazionalcattolicesimo” sembrò potersi definire, soprattutto nel periodo 1929-1936, attorno a eventi come la Conciliazione, la risposta alla grande crisi economica, la guerra di Spagna e la conquista dell’Etiopia. Si giunse quindi a manifestazioni anche simbolicamente pregnanti di sovrapposizione tra sentire religioso e religione della patria. Si pensi al conferimento delle fedi nuziali delle madri cattoliche, ma anche delle suppellettili religiose e degli anelli episcopali, nella raccolta dell’«oro per la patria» avviata con l’autarchia. Alla fine, però, tale mentalità non giunse a saldarsi come ideologia ufficiale del regime, per una serie di resistenze speculari, diffuse sia tra i fascisti che tra i cattolici. Anche in questo caso comunque, all’ombra di tale braccio di ferro “istituzionale”, si videro singoli, riviste e gruppi cattolici schierati su fronti diversi. Da coloro che più si illusero sulla possibile utilizzazione del fascismo per ricattolicizzare la nazione, fino addirittura ai nuclei antifascisti che si ispiravano al «guelfismo» di una nuova alleanza tra «Cristo re» e il popolo (si pensi al gruppetto milanese di cospiratori antifascisti scoperti e condannati nei primi anni Trenta, guidato da Malvestiti e Malavasi).

La Resistenza fu vissuta da una ristretta ma non poco influente élite cattolica, nell’ottica di un grande riscatto nazionale nella libertà. Tale esperienza drammatica forgiò un’originale e stabile sintesi fra la propria identità religiosa e culturale e una nuova idea di patria, cementata dall’antifascismo e dalla lotta contro lo straniero e collegata decisamente a ipotesi di superamento democratico di tutti i nazionalismi. Visione condivisa da figure e personalità di formazione cattolico-moderata, che avevano trovato nuove sintesi tra patria e nazione proprio all’ombra della Conciliazione, e che dopo l’8 settembre seguirono con tranquilla coscienza la monarchia e la legittimità della continuità statale del Regno del Sud piuttosto che la nuova avventura mussoliniana di Salò. Non a caso si diffuse infatti allora ampiamente anche tra i cattolici la tematica del «secondo Risorgimento»: l’idea rappresentava in parte la nuova e più tranquilla acquisizione dell’eredità patriottica del passato, ma innestava su quel riferimento un’esigenza di compimento (o in qualche caso addirittura di superamento e sostanziale sostituzione), i cui motivi erano scoperti proprio nella nuova dimensione popolare del moto resistenziale e – soprattutto – nella partecipazione cattolica al comune riscatto nazionale.

Nel dopoguerra, il sottile equilibrio del senso nazionale dei cattolici mutò ancora. L’emergere della mediazione democristiana fu vincente in molte direzioni: sia perché dimostrò la capacità di ricostruire un sobrio ma convinto senso nazionale dopo la sconfitta dell’ultra-nazionalismo fascista e il fallimento del totalitarismo, sia nel senso democratico di riuscire a creare una piattaforma avanzata di tipo costituzionale e civile, scongiurando pericolose fratture rivoluzionarie. Ma anche nel senso di essere in grado di ricucire un paese piuttosto frammentato, pieno di campanilismi e di rivalità, in cui le drammatiche vicende belliche avevano accentuato le divergenze. Tale posizione permise al mondo cattolico di scoprire un inatteso ruolo centrale nelle vicende del paese, definitivamente realizzatosi con la straordinaria affermazione elettorale della Dc nel 1948. Naturalmente, per la classe dirigente democristiana, continuare a utilizzare il mito guelfo poteva servire in diverse direzioni. Permetteva di rivolgersi ai vincitori della guerra, rivendicando un’Italia diversa, come fece De Gasperi nella drammatica congiuntura del trattato di pace. L’Italia doveva rinunciare definitivamente a ogni velleità di occupare un ruolo di «grande potenza» e a declinare aggressivamente il suo senso nazionale. Ma tutto il percorso di inserimento nelle istituzioni del “mondo libero” occidentale della guerra fredda, oppure nella nascente integrazione europea, fu gestito dai democristiani senza sconfessare l’idea nazionale, anzi, con una decisa volontà di salvaguardarla. Lo stesso mito guelfo legittimava anche la ricerca di un terreno interno unificante, ispirato dai valori cristiani ma potenzialmente presentabile come comune a tutte le componenti democratiche del paese (come avvenne nella congiuntura costituente, attorno alla cultura del personalismo). In questo senso, De Gasperi nel 1947 poteva presentare la Dc come “partito nazionale”, che interpretava l’anima profonda del paese e quindi era capace di costruire efficaci mediazioni tra le sue diverse componenti, sociali e territoriali.

Per altri ambienti, all’ombra del pontificato di Pio XII, lo stesso richiamo aveva invece un senso più rigido e chiuso: padre Lombardi nella sua focosa predicazione sosteneva che era arrivato il momento di una grande palingenesi in cui fosse chiaro che chi non era cattolico non era nemmeno un “vero italiano”. Un pericoloso “esclusivismo cattolico” venne a pesare sulle sorti stesse della democrazia, con pressioni confessionalizzanti, che vennero a stento mitigate da De Gasperi. In un paese cattolico non si poteva ad esempio tollerare la libertà per l’errore, per la stampa anticlericale o per i pericolosi avversati ideologici della fede. Per contrapporsi al comunismo o alla deriva verso sinistra del paese, in questa visione occorreva fondere le forze cattoliche con tutte le destre, in una visione di “fronte cattolico nazionale”.

La successiva rapida e sostanzialmente poco guidata modernizzazione del paese, condusse a sbiadire l’idea stessa di nazione, anche per la presa del mondo bipolare della guerra fredda, in cui il tema cruciale divenne la difesa della “civiltà occidentale” contro il comunismo e non quella di una particolare coscienza nazionale. Intanto, nel paese, con la crescita economica e la modernizzazione venne ad affermarsi una forte secolarizzazione di massa dei costumi, e quindi vennero a crescere prepotentemente le pulsioni individualistiche: queste dinamiche – inattese quanto pesanti – condussero a mutare ancora una volta il quadro, rispetto alle antiche certezze. La battaglia attorno alla legge che introduceva il divorzio in Italia, nei primi anni Settanta, fu un discrimine decisivo. La Dc veniva isolata politicamente dai partiti cosiddetti «laici». Falliva traumaticamente nel referendum del 1974 l’appello, voluto da una forte maggioranza della Chiesa, al popolo concreto dell’”Italia cattolica”, contro il nuovo presunto tradimento delle élite laiciste. Dal canto suo, Aldo Moro propose in quel frangente una riflessione diversa, sulla necessità di affidare la difesa dei valori cattolici non più allo schermo legislativo, ma alla coscienza diffusa nel paese. La Chiesa che viveva in Italia ebbe occasione di affrontare queste novità con una iniziale struttura di rappresentanza: la Conferenza episcopale italiana aveva preso forma timidamente negli anni ’50, ma fu nel postconcilio che assunse un ruolo sempre più importante. Occorreva adattarsi alla nuova consapevolezza di essere minoranza nel paese: si parlava anzi, nell’ambito della cosiddetta “scelta religiosa” di quegli anni di una Italia divenuta «paese da evangelizzare» (e la stagione dei piani pastorali Cei su “Evangelizzazione e sacramenti” sviluppava proprio questa intuizione). Anche le nuove correnti «neointransigenti» sviluppatesi proprio in quel periodo (si pensi al movimento di Comunione e liberazione), non si ispiravano più a un mito dell’Italia cattolica passata da ricostruire, ma preferivano organizzare una presenza a modo di lobby o di «contromondo sociale», concependo il pluralismo come un accostamento di mondi istituzionali e ideologie distinte, più che non come una convivenza ispirata al dialogo e al mutuo riconoscimento. Insomma, in modi certamente differenti, il nuovo problema sembrava come essere “cattolici in Italia”, non come rifare una mitica “Italia cattolica”.

Solo dopo la crisi del sistema politico repubblicano degli anni Novanta e la scomparsa definitiva della Dc, si ebbe una nuova evoluzione. La nascita di una inedita minaccia all’unità nazionale e statuale con lo sviluppo di particolarismi e localismi (si pensi al lancio da parte della Lega Nord della parola d’ordine della “secessione” del Nord operoso e ricco), si collegava alla complessa dinamica della globalizzazione e dei suoi risvolti insicuri. Questo contesto favorì un’inattesa ripresa delle radici del mito guelfo nel mondo cattolico. Per i vescovi, rivendicare la tradizione cattolica nazionale è servito negli ultimi anni primariamente a giustificare una difesa aperta e non scontata dell’unità nazionale, intesa come un bene per il paese. Giovanni Paolo II, dal canto suo, ha rilanciato accenti guelfi nella sua «grande preghiera per l’Italia» del 1994. Il riferimento alla tradizione cattolica italiana – pur magari interpretata soprattutto come retaggio culturale secondo i canoni della «legge naturale», piuttosto che come dato confessionale esclusivo – è stato sfruttato, soprattutto nell’epoca della presidenza Ruini della Cei, per un rilancio del ruolo della Chiesa istituzionale e dei suoi vertici. La gerarchia guidava un’immagine di Chiesa come minoranza organizzata, mediaticamente e socialmente visibile e quindi portatrice di una possibilità di influsso diretto nella storia civile e anche politica. Del resto, l’Italia appariva in quest’ottica un paese bisognoso almeno di una “unificazione antropologica”, se non di un impossibile uniformità confessionale. Su questo terreno, la gerarchia ecclesiastica offriva la propria capacità di guida e convinzione.

Dopo il 2000, abbiamo assistito anche ad un ulteriore fenomeno: il recupero del concetto di tradizione cattolica nazionale italiana al di fuori degli ambienti religiosi, da parte di intellettuali e politici di estrazione magari laicista (i cosiddetti teo-con) o della stessa Lega Nord (che ha abbandonato disinvoltamente i miti e i riti pagani del decennio passato). Naturalmente, in queste elaborazioni non si vuol riferirsi tanto al cristianesimo come fede, ma a un lascito culturale tradizionale abbastanza indistinto, quanto simbolicamente pregnante e immediatamente identificabile (il crocifisso, il presepe). Un lascito utilizzabile quindi come strumento identitario da far valere in una battaglia mediatica attorno al bisogno di rassicurazione delle popolazioni moderne – ma culturalmente e civilmente spiantate – dell’Italia di inizio millennio. Tale discorso appare portatore di una specifica istanza conflittuale nel quadro del crescente pluralismo religioso e culturale del paese. Rispetto a queste dinamiche, il mondo cattolico ha dovuto ricollocarsi, in modo non sempre facile e scontato.

In sede di valutazione sintetica, dopo questo profilo suoneranno certamente fuori luogo le generalizzazioni astratte, che mettano sul banco degli imputati un presunto sovrannazionalismo (o anti-nazionalismo) cattolico «di principio», individuato spesso come il fattore (o uno dei maggiori fattori) che avrebbe impedito il dispiegamento in Italia di una coesa identità nazionale.

Fonti e Bibl. essenziale

G. Formigoni, L’Italia dei cattolici. Fede e nazione dal Risorgimento ad oggi, Bologna 20102; M. Impagliazzo (a cura di), La nazione cattolica. Chiesa e società dal 1958 a oggi, Milano 2004; F. Traniello, Religione cattolica e Stato nazionale, Bologna 2007.


LEMMARIO




Pellegrinaggio - vol. II


Autore: Giovanni Liccardo1

Pellegrinaggio e turismo. L’istituzione del giubileo ha dato impulso alla dimensione più autentica del pellegrinaggio; il giubileo è l’anno della remissione dei peccati e delle pene per i peccati, è l’anno della riconciliazione con gli avversari, della conversione e della penitenza sacramentale e, di conseguenza, della solidarietà, della speranza, della giustizia, dell’impegno al servizio di Dio nella gioia e nella pace con i fratelli. Soprattutto è l’anno di Cristo, portatore di vita e di grazia all’umanità. Il giubileo può essere ordinario, se legato a scadenze prestabilite; straordinario, se viene indetto per qualche avvenimento di particolare importanza. Gli anni santi ordinari, celebrati fino ad oggi, sono 26; quelli straordinari sono stati molti di più: l’ultimo è stato indetto da Giovanni Paolo II per i 1950 anni della Redenzione.2

Nondimeno, nel corso del Novecento, alle celebrazioni dei giubilei è andato gradualmente sovrapponendosi il nascente turismo di massa: già nel 1925, durante la stagione estiva, piccoli gruppi di semplici turisti alla scoperta delle bellezze sacre e profane di Roma si mescolarono ai veri e propri pellegrini in visita ai luoghi santi. La stampa cattolica recepì allora con preoccupazione questo snaturamento della fisionomia del pellegrinaggio, preoccupata di salvaguardare i luoghi sacri dalla profanazione fuggevole e mondana di persone spesso vestite in modo inappropriato e offensivo rispetto alla solennità dell’atmosfera giubilare. Non mancarono inoltre notizie su furti e raggiri compiuti ai danni di esercizi commerciali da truffatori mimetizzati tra i pellegrini. Questa tendenza si è andata poi rafforzandosi nei giubilei seguenti; così, in quello del 1950 al tradizionale pellegrinaggio si è aggiunto un vero e proprio turismo di massa, sempre meno legato al culto religioso. Interessati solo in parte alle dimensioni religiose, maggiormente all’arte e alla cultura italiana, i turisti-pellegrini passeggiavano per Roma dedicandosi all’acquisto dei più vari souvenir religiosi, il cui mercato si accrebbe enormemente. Anche la graduale diffusione dei mezzi di comunicazione di massa nel corso del Novecento ha contribuito a trasformare la fisionomia dei giubilei. Se infatti il 1925 era stato qualificato dagli “Avvisi a stampa” pubblicati sull’“Osservatore romano” per tutta la durata dell’anno santo, nel 1933 il giubileo straordinario della Redenzione fu proclamato da Pio XI alla radio, impiegata anche per diffondere le sue udienze, i comunicati e le circolari di informazione mediante l’istituzione di un’apposita trasmissione radiofonica con promozione settimanale, diffusa da Radio Vaticana. Nel 1975 il giubileo di Paolo VI fu il primo a essere trasmesso in mondovisione ed è stato calcolato che un miliardo di spettatori abbiano assistito in diretta all’evento. Il giubileo promosso da Giovanni Paolo II nel 2000, da ultimo, è stato uno dei più importanti avvenimenti mediatici del secolo: la notte del 24 dicembre 1999, la porta santa venne aperta davanti a oltre 60 paesi collegati via satellite con il Vaticano.3

Il significato attuale del pellegrinaggio. Nell’ultimo trentennio si è registrata un’attenzione crescente intorno al fenomeno dei pellegrinaggi e si sono moltiplicate riflessioni di grande autorevolezza, come quella espressa nella bolla di indizione del giubileo del 2000 Incarnationis Mysterium: «Il pellegrinaggio è sempre stato un momento significativo della vita dei credenti, rivestendo nelle varie epoche espressioni culturali diverse. Esso evoca il cammino personale del credente sulle orme del Redentore» (n. 2). Lo stesso Giovanni Paolo II, con il suo ministero itinerante per il mondo, ha dato rilievo mediatico a questo atto del credente, punteggiando la sua missione di innumerevoli visite ai più celebri santuari. Soprattutto, la Chiesa ha attribuito una particolare valenza al turismo religioso, specialmente quella di favorire la pace tra i popoli: «La Chiesa, senza minimizzarne gli aspetti meno positivi, ravvisa nel turismo, considerato in se stesso, certi valori, che si prestano ad essere sviluppati dal punto di vista umano e spirituale. Il turismo infatti favorisce l’unità della comunità umana, la solidarietà dell’uomo con l’universo, la trasformazione ed elevazione del livello sociale di vita» (Pontificia Commissione per la Pastorale delle Migrazioni e del Turismo, Riflessioni e Istruzioni sui singoli fenomeni, di seguito alla Lettera circolare alle Conferenze Episcopali Chiesa e mobilità umana (4.5.1978), in particolare sotto il titolo Pastorale del turismo, n. 2, ibidem, 165).4

Nella Chiesa italiana, in particolare, al tradizionale pellegrinaggio parrocchiale, si sono aggiunte altre forme, individuali, familiari, di gruppo, animate da famiglie religiose, associazioni e movimenti ecclesialmente riconosciuti. Particolare rilievo assume sempre il pellegrinaggio a Roma, alle tombe degli apostoli Pietro e Paolo e degli altri martiri, e verso i santuari della Vergine Maria di Loreto e Pompei. Un notevole flusso di pellegrinaggi, infine, è diretto verso i santuari che custodiscono la memoria dei grandi santi, specialmente quella dei santi patroni Francesco d’Assisi e Caterina da Siena.

Questo nuovo tipo di “viaggio”, collocato in una posizione intermedia tra il pellegrinaggio religioso e il turismo, svolto con i mezzi tipici dell’escursionismo moderno, rende possibile a un maggior numero di persone di frequentare santuari o di compiere visite di preghiera a luoghi cari alla pietà cristiana. Spesso i santuari si trovano così al centro di un fenomeno più vasto, costituito da semplici visitatori ai quali il luogo sacro offre di per sé una testimonianza: implicitamente il turista fa appello al santuario, alla stessa maniera del pellegrino, sebbene per diversa motivazione. Certamente, quello del turismo religioso è solo un aspetto del mondo più ampio del turismo quale “fenomeno” culturale; per questo la specifica pastorale esegue questo compito, mentre cerca spazi e forme, suggerimenti e declinazioni teologiche, per approfondire la propria identità teoretica nel concerto dell’azione pastorale globale delle comunità cristiane cui è chiamata ad offrire il proprio specifico contributo.

Fonti e Bibl. essenziale

M. Augé, Non luoghi, introduzione a una antropologia della surmodernità, Elèuthera, Parigi 1992; C.C. Canta, Sfondare la notte. Religiosità, modernità e cultura nel pellegrinaggio notturno alla Madonna del Divino Amore, Franco Angeli, Milano 2004; Enchiridion della Chiesa per le migrazioni. Documenti magisteriali ed ecumenici sulla pastorale della mobilità umana (1887-2000), ed. EDB, Bologna 2001; F. Ferrarotti, Partire, tornare. Viaggiatori e pellegrini alla fine del millennio, Donzelli, Roma 1999; F. Glicora – B. Catanzaro, Anni Santi. I Giubilei dal 1300 al 2000, LEV, Città del Vaticano 1996; La sacra città. Itinerari antropologico-religiosi nella Roma di fine millennio, a cura di L.M. Lombardi Satriani, Meltemi, Roma 1999; M.I. Maciotti, Pellegrinaggi e giubilei. I luoghi del culto, Laterza, Roma-Bari 2000; E. Stumpo, Il viaggio del perdono, Edizioni cultura della Pace, Roma 1997; J. Urry, Lo sguardo del turista. Il tempo libero e il viaggio nelle società contemporanee, Seam, Formello (RM) 2000; M. Zucca, Antropologia pratica e applicata. La punizione di Dio: lo scandalo delle differenze, Esselibri, Napoli 2001.

Immagini:

1) Annuale pellegrinaggio a piedi Macerata-Loreto; 2) Assisi, Basilica superiore di San Francesco; 3) Medaglia commemorativa del Giubileo Eucaristico straordinario nel 750° anniversario della bolla  Transiturus con la quale Urbano IV istituì da Orvieto la festività del Corpus Domini in tutta la cristianità; 4) I partecipanti alla veglia di Tor Vergata della Giornata Mondiale della Gioventù ripresi dall’alto, 19 agosto 2000.

Sitografia:

http://www.chiesacattolica.it/turismo/ (sito della Chiesa dell’Ufficio Nazionale per la pastorale del tempo libero, turismo e sport, istituito dal Consiglio Permanente della C.E.I.); http://www.viefrancigene.org/it/ (sito dell’associazione europea delle vie francigene); http://www.operaromanapellegrinaggi.org/viewpage.php?page_id=7 (sito dell’Opera Romana Pellegrinaggi); http://www.pellegriniaroma.org/ (sito dedicato al pellegrinaggio moderno); http://www.hospites.it (sito dedicato a coloro che cercano indirizzi di abbazie, conventi e monasteri in Italia dove soggiornare e/o dove ritirarsi spiritualmente).


LEMMARIO




Persecuzioni - vol. II


Autore: Caterina Ciriello

In ogni epoca della storia ritroviamo modi di agire, volti a far estinguere ciò che si presenta ai nostri occhi come “diverso” e, dunque, pericoloso per il nostro spazio vitale. Il termine in questione, pur riferendosi con frequenza, anche attuale, a questioni di natura religiosa – e dal punto di vista cristiano le persecuzioni sono e saranno sempre necessarie per la storia della salvezza, anche se dolorose – in realtà si estende a campi più vasti ove gli individui possono svolgere sistematiche azioni di forza progettate allo scopo di soffocare ideologie, movimenti politici o religiosi, o addirittura eliminare una minoranza etnica. Per quanto concerne l’Italia contemporanea (1930-1945) ci è parso opportuno segnalare tre momenti storici legati alla prassi delle persecuzioni: la campagna dei fascisti contro l’Azione Cattolica Italiana, quella dei nazi-fascisti contro gli ebrei italiani, infine le stragi degli italiani dell’Istria uccisi dai partigiani titini e gettati nelle Foibe.

I fascisti contro l’Azione Cattolica. Agli inizi degli anni ’20 la salita al potere di Mussolini si annunciava piena di buoni auspici per la Chiesa cattolica. Il Duce, infatti, dichiarava apertamente di essere assolutamente rispettoso dei valori religiosi e di voler avere una intesa con la Santa Sede. Nel gennaio 1923 un incontro tra Mussolini ed il card. Gasparri sancì, infatti, “la buona disposizione delle due parti”. In realtà, almeno fino al 1929, Mussolini e la Santa Sede ebbero non poche occasioni di contrasto per via delle violenze che i fascisti, soprattutto nelle province del nord Italia, perpetravano ai danni delle associazioni cattoliche. Nel 1923, all’indomani del Congresso torinese del PPI, Mussolini maturò il fermo convincimento di non voler avere nessun tipo di opposizione nel governo. Ciò autorizzò i fascisti ad attaccare duramente don Sturzo ed il Partito Popolare, facendo pressioni sulla Santa Sede perché il PPI non ponesse veti all’approvazione di una nuova legge elettorale. Il clima si inasprì e fece le prime vittime: Don Giovanni Minzoni, arciprete di Argenta (Fe), fu ucciso con una bastonata alla testa (Cf. M. Tagliaferri, L’unità cattolica. Studio di una mentalità , 284-286). Don Sturzo, obbedendo ad un chiaro desiderio della Segreteria di Stato, si dimise e, suo malgrado, abbandonò il paese, in esilio. I sovversivi, a questo punto, non erano più i comunisti, ma i popolari di Sturzo. Dopo il delitto Matteotti del giugno del 1924, la violenza fascista ebbe una pericolosa impennata. Nell’aprile del 1925 si verificarono maltrattamenti e soprusi nei confronti di diverse istituzioni cattoliche, prima nell’Italia del nord e successivamente nel resto della penisola. Sedi di circoli cattolici venivano devastate; a La Spezia ed a Parma i fascisti incendiarono le sedi bruciando crocifissi ed immagini sacre; si arrivò persino a disturbare le processioni. A Firenze e Roma le incursioni fasciste furono tanto gravi da attirare l’attenzione dei vertici del partito, preoccupati del fatto che tali eccessi, alla fine, avrebbero potuto nuocere alla stessa autorità statale. Gli atti di violenza vennero condannati non solo dalle autorità cattoliche, ma anche da esponenti “cattolici” del Partito fascista. Lo scontro avveniva su un terreno molto chiaro e noto a tutti: la necessità del regime di essere l’unico ad educare la gioventù, poiché il credo fascista doveva diventare il “dogma” della gioventù. Nel 1926 in seguito ad una serie di attentati a Mussolini la legge n° 2008 del 25 novembre decreta lo scioglimento di tutte le associazioni ed organizzazioni che svolgessero azioni contrarie al regime. Vi rientravano anche quelle cattoliche. Uno degli episodii più gravi è la chiusura dell’Oratorio dei Salesiani di Varazze. Ma ad Udine ben cinque sacerdoti sono arrestati e condannati al confino. Nel 1929 i Patti Lateranensi vennero accolti con speranze ed entusiasmo: sembrò che tra cattolici e fascismo si stabilisse, finalmente, un clima di comprensione. In realtà la crisi del 1931 era alle porte. Il governo fascista aveva intenzione di sopprimere l’ultimo baluardo della Chiesa, l’AC, notevolmente rafforzatasi, proprio grazie al concordato. I controlli del regime su parrocchie, oratori e circoli giovanili portano alla luce un solido attivismo cattolico e antifascista. Nel secondo anniversario dei Patti Lateranensi la crisi si acuisce; i fascisti attaccano i cattolici dapprima a mezzo stampa, successivamente con una vera e propria repressione: in diverse università gli studenti fucini sono picchiati dagli squadristi fascisti. Riprendono le violenze nei confronti dei circoli cattolici in tutta Italia: incendi, pestaggi, intimidazioni volte a «far scomparire le altre forme del laicato cattolico a vantaggio delle organizzazioni fasciste» (L. Ceci, L’interesse superiore, 149). Si procedette pure ad una “epurazione” della stampa cattolica, e all’allontanamento di coloro che erano stati coinvolti nel PPI. Il responsabile della federazione romana della GCI, Emilio Traglia, è accusato di svolgere attività antifascista e deve rifugiarsi in Vaticano. Il 29 maggio del 1931, in seguito – tra l’altro – alla lettera che Pio XI indirizza al card. Schuster, arcivescovo di Milano, nella quale il pontefice non solo sottolineava con enfasi che il Regime aveva il dovere di seguire il Magistero della Chiesa, ma dichiarava pure che i giovani venivano esposti a «ispirazioni di odio ed irriverenza» [AAS 23 (1931), 146], vengono chiusi tutti i circoli giovanili di AC: sequestrati tutti i documenti e gli elenchi dei membri, molti dei quali subiscono violenze. Persino la sede della “Civiltà Cattolica” in via di Ripetta è assaltata da un gruppo di facinorosi studenti. In molte località vengono chiuse finanche le pie associazioni delle Figlie di Maria e delle “Zelatrici del Sacro Cuore”, l’apostolato della preghiera, il Terz’ordine Francescano e un asilo delle suore. La presa di posizione della Chiesa è energica. Pio XI sospende la processione del Corpus Domini, ed in segno di lutto volle che nell’intero paese la popolazione si astenesse da fare pubbliche processioni. Infine per proteggere, l’AC, sua creatura scrive, il 29 giugno, l’enciclica “Non abbiamo bisogno” nella quale difende i Patti Lateranensi e l’accordo riguardante l’AC, condannando esplicitamente il fascismo come totalitarismo. Gravissimo è l’episodio del ritrovamento di una bomba nella basilica di san Pietro due giorni prima della celebrazione della beatificazione di Caterina Labouré il 19 luglio 1931. Tale gesto segna la fine di ogni possibile dialogo tra cattolici e il nuovo regime. Di fatto il governo fascista continua la sua opera di ostilità verso la chiesa cattolica, anche se non con la forza degli anni precedenti, poiché si tratta di episodi di violenza isolati e di controlli su istituzioni e persone a livello locale. È verso la fine del 1937che si tocca nuovamente un punto critico nelle relazioni tra Stato e Chiesa, e cioè quando viene sollevata «la questione della incompatibilità tra iscrizione al Pnf e all’Azione cattolica»(L. Ceci, L’interesse superiore, 218). A questo punto Pio XI reagisce con la minaccia della scomunica, dapprima riservata, poi resa pubblica in un discorso al Collegio Urbano del 28 luglio 1938. La reazione di Mussolini non si fa attendere: si provvede ad allontanare dai quadri dirigenziali fascisti gli iscritti all’AC, ma pensando pure di eliminare definitivamente da posti di responsabilità i membri di AC. Alla fine il papa a malincuore deve cedere per salvare la situazione: accetta di non parlare più del razzismo e dell’ebraismo per salvaguardare l’intesa del 1931, anche se continua fermamente a condannare il totalitarismo ed il nazionalismo.

Persecuzione nazi-fascista degli ebrei. La persecuzione nazi-fascista degli ebrei in Italia si svolse senza particolari difficoltà grazie all’appoggio di Mussolini, che ebbe un ruolo essenziale. Le leggi razziali del 1938 diedero, infatti, il via libera a quell’antisemitismo esasperato che, fino ad allora, il Duce era riuscito a dominare, assicurando addirittura l’anno precedente, che non ci sarebbe stata alcuna politica antiebraica in Italia. Ma dal 14 luglio 1938 «l’antisemitismo divenne ideologia e prassi ufficiali del fascismo italiano» (Storia della Shoah in Italia, v. I, 283), atteggiamento che potrebbe trovare una spiegazione, se non in una libera scelta dell’Italia fascista, in una sorta di “imposizione” compiuta dalla Germania nazista – all’epoca alleata dell’Italia – la quale già dal 1933 aveva varato una intensa legislazione antiebraiaca. Pio XI in questa circostanza volle precisare che le idee fasciste sulla razza non potevano assolutamente trovare spazio nell’ambito del cattolicesimo. In particolare il papa proprio dal 1938 aveva deciso di opporsi fortemente all’antisemitismo fascista, discostandosi pure dalla concezione antiebraica propria del cattolicesimo. Dalle semplici indagini della polizia fascista – volte ad accertare la presenza, il numero ed il ruolo sociale dei singoli ebrei in Italia – il passo alla discriminazione e poi alla persecuzione fu breve. In un primo momento la popolazione ebraica non sembrò emotivamente coinvolta dai fatti, quasi a volersi rifiutare di credere che si potesse arrivare alle conseguenze più estreme e che la svolta razzista di Mussolini fosse solo temporanea; poi, però, di fronte alle pressanti discriminazioni e vessazioni delle autorità, che con provvedimenti legislativi ed amministrativi avevano privato la popolazione ebrea dei diritti più elementari, si verificò la presa di coscienza e la decisione – per molti ebrei italiani – di lasciare il paese per rifugiarsi all’estero. Tra il 1938 ed il 1941 emigrarono circa 6000 ebrei. Dal 15 giugno 1940, però, la fuga divenne più difficile: uno specifico decreto impose l’internamento di quegli ebrei ritenuti “pericolosi” per l’ordine pubblico nei campi di prigionia, tra i quali va ricordato quello di Ferramonti Tarsia (CS), dove, secondo il piano fascista, sarebbero dovuti rimanere fino alla fine della guerra per essere trasferiti «nei paesi disposti a riceverli» (M. Sarfatti, Gli ebrei nell’Italia fascista,172). Nel maggio del 1942, con provvedimento amministrativo, gli ebrei maschi tra i 18 e 55 anni vennero avviati al “lavoro obbligatorio”. Fino al 1943 gli ebrei italiani furono duramente perseguitati dal regime fascista, che aveva come obbiettivo la loro eliminazione dal paese. Nel settembre 1941 i nazisti cominciarono la prassi dello sterminio. Dopo l’8 settembre 1943 essi diedero inizio a quella feroce persecuzione che portò allo sterminio di migliaia di ebrei italiani da nord al centro e fino a Roma. Ma la deportazione degli ebrei del ghetto di Roma, la comunità più numerosa, fu l’atto più vergognoso in assoluto: gli ebrei, infatti, furono illusi sul fatto che si sarebbero potuti salvare pagando 50 Kg di oro. Alla raccolta parteciparono anche comunità cattoliche, le quali contribuirono con ben 15 kg di oro. La Santa Sede, da parte sua, diede la sua disponibilità ad aggiungere, eventualmente, la parte mancante. Ma, nonostante il pagamento fosse avvenuto il 28 settembre, un reparto specializzato, nei giorni successivi, mise in atto uno scrupoloso saccheggio, alla fine del quale, furono deportati tutti gli ebrei del ghetto – 2091 – senza nessuna distinzione. Era l’alba del 16 ottobre 1943. La Santa Sede si adoperò con tutti i mezzi possibili per fermare lo sterminio degli ebrei, in particolare quelli del ghetto di Roma. Molti di loro fuggendo trovarono rifugio presso istituti religiosi, parrocchie e proprietà del Vaticano, di fatto extraterritoriali. Un cappuccino francese, p. Benoît Marie assisteva clandestinamente i fuggiaschi e forniva loro documenti di identità falsi. Ma va anche ricordata l’opera dell’allora mons. Ottaviani, il quale oltre ad accogliere gli ebrei rilasciava loro certificati di battesimo (Cf. G. Sale, Hitler, la Santa Sede e gli ebrei, 192-208). I nazisti erano a conoscenza di questa attività e nel febbraio del 1944 entrarono in San Paolo fuori le mura arrestando tutti coloro che vi si trovavano. A nulla valse la protesta del papa. Gli ebrei deportati ed uccisi in Italia furono circa 7900. Il 27 gennaio 2000 è stato istituito “Il giorno della memoria” per non dimenticare questo terribile olocausto.

Le foibe dimenticate. Le foibe (fovea=fossa) si presentano come profonde cavità rocciose naturali a forma di imbuto, ma al rovescio, che si formano a causa dell’erosione delle acque e sono tipiche del paesaggio carsico. Normalmente venivano usate dalle popolazioni locali come discariche naturali per ogni tipo di rifiuto. Tra il 1943 ed il 1945, in due ondate, esse si trasformano in veri e propri depositi di cadaveri, nel tentativo di nascondere le vittime della persecuzione comunista avvenuta nell’Istria settentrionale, tra le zone di Gorizia, Pola, Trieste e Fiume. Il primo momento ha luogo nell’autunno del 1943, dopo l’armistizio dell’8 settembre, quando il vuoto di potere sbaraglia l’esercito italiano e spinge i tedeschi ad effettuare feroci rappresaglie contro i traditori. Nell’Istria del nord, il movimento di liberazione croato-jugoslavo, d’accordo con molte delle autorità del luogo, inizia un processo di “epurazione” consistente nella cattura di tutti quegli italiani che, in qualche modo, simboleggiavano con la loro presenza quel potere statale “italiano” – in realtà si trattava del regime fascista – considerato oppressivo dalla popolazione croata. Al fattore politico si somma quello etnico e sociale: quest’ultimo provoca un’ondata persecutoria anche nei confronti dei possidenti italiani. I prigionieri, ammassati in particolar modo a Pisino e Pinguente, dopo essere stati torturati, seviziati e – nel caso di donne – molto spesso stuprate, subivano uno sbrigativo e simbolico processo che si concludeva con una sistematica condanna a morte. I cadaveri scomparivano nelle viscere della terra, come semplici “rifiuti” (G. Oliva, Profughi. Dalle foibe all’esodo: la tragedia degli italiani d’Istria, Fiume e Dalmazia, 61). L’avanzata dei tedeschi verso i territori istriani acutizza le uccisioni perché i partigiani comunisti, costretti a ritirarsi velocemente e disordinatamente, uccidono e gettano nelle foibe il resto degli italiani catturati. Nel 1945, mentre nel resto d’Italia si celebrava l’avvenuta liberazione, la Venezia Giulia, secondo i piani delle autorità di Belgrado, sottostava ad un violento processo di “jugoslavizzazione” a tolleranza “zero”. Nelle città tra Trieste e Gorizia il processo di “infoibazione” raggiunse l’apice massimo ed il limite della disumanità. Nelle cronache si parla di almeno 150 finanzieri catturati e “fatti a pezzi” dai partigiani. Non mancano vittime gettate ancora vive nelle foibe, o perché solamente ferite o per precisa volontà degli esecutori: messi in fila sull’orlo della foiba e legati tra loro, i primi prigionieri venivano fucilati trascinando via anche quelli vivi. Tra i prigionieri e le vittime anche sacerdoti, almeno quindici. Don Wagenhanger, tedesco, viene internato nel campo di Capodistria e vive in condizioni pietose insieme ad altri suoi connazionali. Una sorte peggiore tocca a don Angelo Tardicchio, giovane parroco di Villa Rovigno, catturato ed infoibato nella notte tra il 21 ed il 22 settembre del 1943. Viene ritrovato nella Foiba di Gallignana completamente nudo e con una corona di filo spinato sulla testa. Don Francesco Bonifacio scompare nel settembre del 1946. Solo anni più tardi si conosce la sua sorte: anche lui torturato, ucciso e gettato in una foiba. Tra questi vi sono anche sacerdoti croati, come il giovane don Miro Bulesic, della diocesi di Parenzo-Pola, sgozzato nel 1947 dai «titini» e beatificato a Pola nel settembre 2013. In totale, tra il 1943 ed il 1945 si possono contare tra le 4000 e le 5000 vittime delle foibe. Le foibe più conosciute sono quella di Basovizza, vicino Trieste, che raccolse un grandissimo numero di cadaveri e la foiba detta “dei colombi” a Vines (oggi territorio croato); da quest’ultima vennero estratti circa 84 corpi. Di questo massacro si venne a sapere solo a cose fatte per via della cortina di ferro alzata dai partigiani titini. La stessa Segreteria di Stato Vaticana ricevette una richiesta di aiuto solo nel mese di luglio del 1945, quando già gli alleati erano arrivati in quella che si chiamerà la “zona A”. Dunque non potè compiere nessun tipo di azione volta a fermare questa immane strage. La tragedia delle foibe va ricollegata a due puntuali momenti di quel travagliato periodo storico, la Seconda guerra mondiale, dalla quale l’Italia – che con la Germania in primo luogo, ha contribuito allo scoppio del conflitto – esce sconfitta . Per molto tempo delle foibe si è scritto e detto poco, negando alle migliaia di vittime, secondo quanto affermano diversi studiosi, il diritto ad una memoria storica “nazionale”, che rimane per un lungo periodo patrimonio locale ed esclusivo di chi ha vissuto direttamente questo evento doloroso. Solo verso la fine degli anni ’80, con i contributi di storici quali Miccoli, Fogar, Pupo, Spazzali, Sala, si è pervenuti ad una storicizzazione dell’evento in grado di metterne in luce le diverse cause di un fatto storico che «non riuscì mai a raggiungere la coscienza collettiva degli italiani, sia perché veniva letto entro la logica delle contrapposizioni ideologiche, anzi partitiche, tipiche degli anni del dopoguerra […] sia perché si intrecciavano con scelte di politica strategico-internazionale che non si voleva in nessun modo mettere in pericolo» ( G. Sale, L’occupazione di Trieste e il cosiddetto «genocidio degli italiani», 542). Nel 2004 la legge 92 del 30 marzo ha proclamato il 10 febbraio “Giorno del Ricordo delle foibe”.

Fonti e Bibl. essenziale

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LEMMARIO




Pietà - vol. II


Autore: Domenico Rocciolo

Nel linguaggio religioso dell’Ottocento il termine pietà voleva dire intensa unione con Dio, dalla quale scaturivano l’amore per il prossimo e tutte le virtù cristiane. Essa non si identificava con la devozione, né era equivalente al concetto di spiritualità. Nutrita da una tradizione plurisecolare di manifestazioni di fede, si rinnovava all’interno di un esteso movimento di associazioni, di fondazioni religiose e di strutture ecclesiastiche, che raccogliendo la ricca eredità spirituale del passato, operava con appassionato dinamismo caritativo e un denso attivismo pastorale. Spiritualità e apostolato, vie della pietà, attingevano alla vita di preghiera, alla meditazione, alla comunione frequente e alle devozioni soprattutto eucaristica e mariana. L’impegno di testimonianza di fede profuso dalla Chiesa italiana sullo scorcio del secolo si esprimeva in un clima mosso da pressioni del mondo culturale laicista e dalla diffusione degli ideali anticlericali. All’indomani dell’Unità d’Italia, al processo di espansione capitalistica, che progressivamente si radicava nella Penisola trascinando con sé sacche di mali sociali profondi e altrettante miserie morali, molti uomini e donne di Chiesa opponevano esperienze forti di spiritualità e di carità, inducendo non pochi a definirle forme alte e modelli di pietà. Il termine pietà fletteva così verso il concetto di santità declinata come espressione di una vocazione evangelica fondata sull’orazione, sulla vita sacramentale, sulla devozione, ma anche sul conforto e sul sostegno dei più deboli, degli emarginati e dei sofferenti. Non vi erano inflessioni sentimentali di religiosità, ma riflessi profondi dell’intimo rapporto esistente tra Dio e gli uomini. Questa accezione del termine pietà veniva ripresa nel Novecento e diveniva cara allo storico lucano don Giuseppe De Luca, che documentava nei suoi studi come il mistero della pietà si rinnovasse sistematicamente nella relazione d’amore che univa l’uomo a Dio. Se alla fine dell’Ottocento gli ambienti cattolici saldavano il concetto di pietà alle battaglie ideologiche per difendere la Chiesa e legavano l’esperienza religiosa alla vita di una comunità, dove era possibile sperimentare la consolazione, la fraternità e la carità, nei primi decenni del secolo successivo faceva breccia una prospettiva più aperta e di più ampio respiro, per la quale la pietà appariva sganciata da ancoraggi istituzionali e si caratterizzava per la profondità della coscienza, dalla quale proveniva l’autentica testimonianza cristiana. In sostanza, l’esperienza religiosa dei credenti si distingueva per lo sforzo di essere testimoni della fede nella consapevolezza di dover vivere la contingenza temporale al fine di innestarvi la radice eterna. Nel rapporto bipolare tra intimità della coscienza e impegno di carità, si misurava la pietà, la quale poteva assumere accenti fortemente marcati dalle responsabilità verso i bisognosi. Nel 1943, di fronte agli orrori della guerra e ai dolorosi gemiti delle popolazioni, Pio XII rivolgeva al mondo cristiano «un grido di invocazione di aiuto e di pietà». Solo la conoscenza del Padre celeste e l’offerta di conforto e di aiuto potevano sanare le ferite inferte dalle terribili devastazioni in corso.

Il Concilio Vaticano II riproponeva l’esercizio della fede, della speranza e della carità e la propensione alla santità in una prospettiva di rinvigorimento dell’attività missionaria e dell’apostolato. Nel frattempo, cultori di storia, teologia, sociologia, psicologia e antropologia culturale, manifestavano un crescente interesse per la religione popolare. La storiografia tardo ottocentesca aveva proposto il recupero delle memorie locali in un’ottica di storia patria, ma anche aveva contribuito a svalutare la pietà popolare ritenendola un groviglio di superstizioni, un’espressione minima dello spirito, un relitto di tempi tramontati. Il Concilio ribaltava questo giudizio e apriva la strada ad un profondo ripensamento sulla religione popolare. In particolare, a proposito del culto della Beata Vergine, esortava i fedeli ad avere in grande stima le pratiche e gli esercizi di pietà, raccomandati costantemente dal magistero nel corso dei secoli, restando consapevoli che la vera devozione non consisteva in uno sterile e passeggero sentimentalismo, né in una vana credulità, bensì procedeva dalla fede autentica, dalla quale si era portati a riconoscere la preminenza della Madre di Dio. Sulla base di questi fondamenti, la Chiesa prendeva maggiormente in considerazione il fenomeno della religione popolare e liberandola dalle modulazioni antropologiche e sociologiche tipiche della cultura coeva, la riproponeva come preziosa forma di pietà, che purificata, interiorizzata, maturata e vissuta quotidianamente nel rapporto con Dio, era capace di evangelizzare e di curare le piaghe della sofferenza, sia esteriore che interiore. La distanza tra i termini religiosità popolare e pietà popolare veniva pressoché annullata, laddove entrambe erano considerate espressioni di fede adulta e esternazioni del senso profondo del divino.

Nel 1975, con l’esortazione apostolica Evangelii nuntiandi, Paolo VI invitava la Chiesa a guardare con favore alle forme particolari della ricerca di Dio e della fede manifestate dal popolo. Per lungo tempo le espressioni della fede popolare erano state considerate contaminate dal profano e talvolta erano state disprezzate, ma era il momento di riscoprirle e di valorizzarle. Il Papa apprezzava la pietà dei semplici e dei poveri, che se ben orientata mediante un’adeguata pedagogia di evangelizzazione, era ricca di valori e generava atteggiamenti spirituali autentici. Per questa ragione la definiva pietà popolare, nel senso di religione del popolo, piuttosto che religiosità. Il Papa confermava la linea di pensiero che aveva già enunciato nel 1967 con l’esortazione apostolica Signum Magnum e nel 1974 con la Marialis Cultus, ambedue dedicate alla pietà mariana. Soprattutto con quest’ultima aveva sostenuto che le devozioni erano una preziosa ricchezza per la Chiesa e che bisognasse rinnovarle, depurandole degli elementi caduchi per dar valore a quelli perenni, incorporando i dati dottrinali acquisiti dalla riflessione teologica e proposti dal magistero ecclesiastico. Alle Conferenze episcopali, alle Chiese locali, alle famiglie religiose e alle comunità dei fedeli, rivolgeva l’invito a generare una genuina attività creatrice e a procedere ad una revisione degli esercizi di pietà verso la Beatissima Vergine. Alcuni anni più tardi, nel 1979, anche Giovanni Paolo II interveniva sull’argomento e parlava della pietà popolare come espressione non di un sentimento vago e carente di solida base dottrinale, ma come rivelazione dell’anima di un popolo, in quanto toccata dalla grazia e forgiata dall’incontro tra l’opera di evangelizzazione e la cultura locale. Guidata, sostenuta e se necessario purificata dall’azione dei pastori ed esercitata ogni giorno, questa forma di pietà apparteneva ai poveri e ai semplici, i quali, prediletti da Dio, traducevano nei loro atteggiamenti umani il mistero della fede che avevano ricevuto. Pochi anni più tardi il Codice di diritto canonico statuiva che nei santuari si offrissero i mezzi della salvezza annunziando la parola di Dio, incrementando la vita liturgica e coltivando le forme sane della fede popolare. Nel 1992, il Catechismo della Chiesa cattolica definiva le forme di pietà popolare radicate nelle diverse culture, circa le quali pur vigilando per illuminarle con la luce della fede, la Chiesa le favoriva, perché esprimevano un istinto evangelico e una saggezza umana e arricchivano la vita cristiana. Quindi, nel 2002, la Congregazione per il Culto Divino e la Disciplina dei Sacramenti pubblicava un Direttorio su pietà popolare e liturgia, nel quale qualificava la pietà popolare come forma e manifestazione cultuale di carattere privato o comunitario, che nell’ambito della fede cristiana si esprimeva con i moduli della liturgia, ma con le peculiarità derivanti dal genio e dalla cultura di un popolo. Considerata un vero tesoro spirituale della Chiesa, la pietà popolare era congiunta alla liturgia e mostrava pienamente la sete di Dio che solo i semplici e i poveri potevano conoscere, rendeva capaci di generosità e di sacrificio fino all’eroismo e comportava non solo il senso della paternità, della provvidenza e della presenza amorosa e costante di Dio, ma l’insorgere di genuini atteggiamenti interiori come la pazienza, il senso della croce, il distacco dai beni materiali, l’apertura agli altri e la devozione. I sinodi diocesani raccoglievano le istruzioni della Congregazione e ascoltate le relazioni delle commissioni liturgiche e della pietà popolare, intervenivano per accrescere e regolare le manifestazioni di fede del popolo legate all’anno liturgico.

Nel 2007, il Santo Padre Benedetto XVI, con l’esortazione apostolica Sacramentum Caritatis, interveniva su un aspetto centrale della pietà del popolo di Dio, raccomandando ai pastori della Chiesa e ai fedeli di vivere intensamente l’adorazione eucaristica: una consuetudine di preghiera e di raccoglimento, che si aggiungeva ad altre forme di venerazione del SS.mo Sacramento, quali la processione del Corpus Domini, le Quarant’ore e i congressi eucaristici locali, nazionali e internazionali.

Fonti e Bibl. essenziale

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