Associazione Italiana dei Professori di Storia della Chiesa

Dizionario Storico Tematico La Chiesa in Italia
Dopo l'Unità Nazionale
Roma 2015
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Pittura, Scultura - vol. II


Autore: Yvonne zu Dohna

129 - pittura scultura pasqua23-04

Si ritiene opportuno trattare unitamente pittura e scultura perché le innovazioni artistiche dei secoli XIX e XX mettono in discussione la definizione delle due arti. Le riflessioni che seguono vogliono offrire un excursus della particolare vivacità delle produzioni artistiche e artigianali dell’epoca contemporanea con un occhio rivolto al panorama internazionale e alla Chiesa nei diversi ambiti e livelli di produzione artistica (strettamente locale, devozionale, minore, privata e autonoma). Si ritiene altresì necessario limitare questa analisi alle espressioni più rilevanti e significative per la storia dell’arte, alle committenze ecclesiastiche e alle iniziative dei Papi.

Dopo il 1850. Panoramica internazionale

Nel 1860 nacque in Francia un’arte rivoluzionaria: il Manifesto di Courbet fu l’atto fondativo del Realismo. Al Realismo seguirono l’arte di Manet e l’Impressionismo francese, che influì sui tre grandi padri dell’arte moderna: Van Gogh, Gauguin e Cezanne. Il nuovo movimento artistico non rifiutava la tradizione, ma la rileggeva con un nuovo linguaggio figurativo e alla luce di uno stretto legame con la spiritualità. Scomparsa la tensione tra i classici, che guardavano all’antichità e i romantici, che guardavano “altrove” (Medioevo), gli artisti, evitando l’evasione immaginativa, rivolsero la propria attenzione alla storia presente, pervasa da cambiamenti politici e sociali. La religione cristiana non era più l’unica fonte dei contenuti dell’arte. Uno dei più frequenti leitmotiv delle rappresentazioni artistiche della seconda metà del XIX scolo è il paradiso terrestre, da realizzare sulle tele, nel marmo e nella creta. La natura del paesaggio e la nudità del corpo diventarono i motivi simbolici di questa tendenza. Il Realismo e l’Impressionismo determinarono una frattura con l’arte precedente. Manet costituì invece l’anello di congiunzione tra le due correnti artistiche, che interpretavano la realtà nella direzione dell’esperienza sensoriale. La sensazione diventò pura percezione visiva attraverso lo studio del colore.

Italia

Firenze, prima capitale del Regno d’Italia (1865-70), mantenne il suo ruolo di capitale “spirituale” e artistica della nuova arte anche quando il centro del potere politico si trasferì a Roma. Il Duomo (S. Maria del Fiore) con la sua facciata neogotica, divenne “tempio della Nazione”. In Italia nacque il Verismo, una corrente letteraria e artistica in discontinuità con la pittura religiosa precedente. Gli esponenti più noti furono Domenico Morelli, sostenitore dello spirito nazionalistico e Filippo Palizzi, un artista che operò prevalentemente a Napoli.

Iniziative pontificie

Il Syllabus (1864) si oppose ai linguaggi e alle concezioni moderne. Al bavarese Alexander Maximilian Seitz, allievo del nazareno Cornelius, fu commissionato nel 1867 un dipinto allegorico neo- nazareno, che celebrava il XVIII centenario del martirio di San Pietro e che raffigurava Pio IX ai piedi del Principe degli Apostoli. Pio IX valorizzò in particolare il dogma dell’Immacolata Concezione con la committenza della pala di Federico Faruffini nel duomo di Pavia (1857) e della proclamazione del dogma dell’Immacolata Concezione (1859-61) a Francesco Podesti nela Sala dell’Immacolata dei Musei Vaticani. Fu ancora Pio IX a dover gestire il momento storico della nascita in Italia di un moderno stato nazionale unitario e, in occasione della sua ultima visita nel 1857 in veste di Papa-Re, donò alla Cattedrale di Forlì un nuovo altare tuttora in uso.

Primo Novecento

Panoramica internazionale

In Europa nacquero diversi movimenti culturali, che esercitarono un profondo influsso sull’arte e sull’architettura liturgica: Cubismo, Fauvismo, Espressionismo, Astrattismo, Futurismo e Metafisica. Il Cavaliere blu (Der Blauer Reiter, 1910) di Kandinskij, opera da cui prese il nome un gruppo di artisti tedeschi che operarono a Monaco negli anni precedenti alla Prima Guerra Mondiale, fu il manifesto dell’arte astratta, del Suprematismo, dello Stijl e dell’architettura funzionale. Il primo acquarello dell’arte astratta è di Wasilij Kandinskij: nell’irregolare tratteggio dell’artista di origine russa i colori e le linee dell’opera non si propongono più di raffigurare o di rappresentare, ma si caratterizzano come linguaggio puro, come lessico creativo e non imitativo. Questa tendenza sarà poi seguita da nuovi movimenti artistici, come il ready made di Marcel Duchamp e il Dadaismo, che, con Man Ray e Kurt Schwitters, rivoluzionò la concezione della produzione artistica, introducendo nuovi materiali e innovative scelte produttive. Ugualmente il Surrealismo con Juan Mirò, Salvador Dalì, René Magritte, Max Ernst e Yves Tanguy, e anche Walter Gropius con il Bauhaus introdussero un nuovo concetto di arte. La problematica centrale fu la totale autonomia e indipendenza della creazione artistica da ogni indicazione e committenza restrittive. Il paesaggio ambientale e il clima culturale furono segnati sempre più dall’industrializzazione, da nuovi sistemi di comunicazione e dal pluralismo culturale e religioso. Già con le sculture di Henri Laurens e Jacques Lipchitz, ispirate al Cubismo, l’osservatore perse ogni distanza da esse, dovendo quasi realizzare ancora una volta esteticamente, cioè nella sensibilità, il processo produttivo e creativo dell’opera d’arte per avere una percezione completa e per entrare attraverso di essa in una nuova dimensione. In questo periodo si assistette anche a un rinnovato interesse verso l’arte sacra: in Francia tra il 1857 e il 1914 nacque la Revue de l’Art chrétien, fondata da J. Corblet. Altre riviste videro la luce in Germania a Colonia: Organ für christliche Kunst (1851-1873), Archiv für christliche Kunst (1888-1921); a Düsseldorf, Zeitschrift für christliche Kunst e a Monaco Die Christliche Kunst (1904-1938). In Svizzera nacque l’associazione di artisti e cultori dell’arte St. Lukasgesellschaft con la rivista Ars Sacra. Intorno al 1917 in Austria J. Pichard fondò la rivista Kunst und Kirche e nel 1935 uscì il primo numero della rivista L’Art Sacré. Alcuni artisti indipendenti lavorarono per la Chiesa: le vetrate di Braques per la Cappella di Saint Dominque a Varengeville Sur Mer (1952-54) e L’arbre de Jessé, vetrata per la chiesa parrocchiale di Saint Valery a Varengeville sur Mer (1955-1960). Maurice Denis completò le vetrate nella chiesa di S. Paolo a Ginevra (1916) di Notre Dame a Raincy e di S. Luigi a Vicennes (1917).

Italia

Nel 1913 mons. Celso Costantini, Filippo Crispolti e Giuseppe Polvara, sacerdote, pittore e architetto, costituirono la Società degli Amici dell’Arte Cristiana e pubblicarono la rivista Arte Cristiana. Mons. Polvara fondò la “Famiglia del Beato Angelico” con la Scuola superiore di arte cristiana, che Pio XI propose di intitolare al Beato Angelico con lo scopo di favorire la formazione e la produzione delle arti. Nel 1921 sorse a Milano l’Università Cattolica del Sacro Cuore: l’idea iniziale, che non ebbe alcun seguito, ventilava l’ipotesi di una università delle arti. In quegli stessi anni vide la luce anche la rivista Valori plastici, promossa dai futuristi cc.dd. “pentiti” (Italo Tavolato e Carlo Carrà), che vollero respingere l’aura atea e rivoluzionaria del Futurismo e promuovere una visione nostalgica della pittura classica e arcaica. Sulla scia di una rinnovata lettura delle fonti liturgiche e degli studi del benedettino Odo Casel si assistette a un risveglio dell’interesse per la liturgia, per la formazione della pietà dei fedeli e per la ministerialità liturgica dell’arte. Nel santuario di Loreto, nella cappella di S. Giuseppe, Modesto Faustini dipinse La Santa Famiglia (1886-1890). Sempre a Loreto Cesare Maccari eseguì gli affreschi della cupola del santuario (1890-1895) e Ludovico Seitz dipinse nella Cappella Tedesca La nascità di Gesù. Augusto Mussini completò gli affreschi della volta del Santuario di S. Serafino da Montegranaro ad Ascoli Piceno (1903-1907). La porta centrale del duomo di Milano venne decorata da Ludovico Pogliaghi con la Madonna col Cristo morto in pietà (1908). Gerardo Dottori nel 1909 realizzò gli affreschi e la decorazione murale delle chiesa S. Maria Assunta a Monte Vibiano Vecchio. Con la tecnica divisionista e una particolare luminosità operarono artisti del calibro di Vanno Rossi, Ernesto Bergagna, Salvatore Cascone, Piero Clerici, Eliodoro Coccoli, Antonio Martinotti, Giovanni Garavaglia, Angelo Julita, insieme agli scultori Angelo Righetti, Beppe Rossi, Cornelio Turelli, Nicola Sebastio, Marco Melizi, Gino Casanova. Per la decorazione delle suppellettili liturgiche si distinsero Fortunato De Angeli, Carlo Gadda, Renato Valcavi e per le vesti liturgiche e le nuove iconografie Piero Clerici con la realizzazione di Una icona che insegna a pregare. A Montecassino l’influsso dell’arte della scuola di Beuron prese forma nell’opera di Desiderius Lenz e dei suoi confratelli e nelle realizzazioni nella cripta dell’abbazia (1899-1913). Gli artisti di questa fase non disdegnarono i temi cristiani. Negli anni ‘30 si sviluppò un’arte “riconciliata con Dio” con Edoardo Persico, basata sulle idee di J. Maritain, che nel 1920 con Art et Scolastique rivalutò i principi dell’estetica di Tommaso d’Aquino. Anche la collana Le roseau d’or promosse una “mimesi” che non solo imita, ma interpreta il reale. Inoltre intellettuali come Stanislas Fumet con il saggio dal titolo Il processo all’arte (1929) affermò: «l’arte non serve Dio, ma lo imita», abbracciando un cattolicesimo integrale in dialogo con i cambiamenti della società. Altri artisti, come Del Bon, De Rocchi, Lilloni e Spilimbergo De Amicis crearono un movimento detto “Chiarismo Lombardo”, seguito anche da Fontana e Broggini con opere a soggetto biblico, conseguenza del rinnovato fervore cattolico destato dal Concordato tra lo Stato italiano e la Santa Sede (1929). Furono allestite la Biennale d’Arte Decorativa di Monza, la Mostra internazionale d’Arte Sacra a Padova (1931) e la Triennale di Milano (1933), aventi il tema del sacro. Gli artisti presenti furono Pancheri, Tullio Garbari, autore de Il Trionfo di San Tommaso (1931), Il Giudizio finale, Il Miracolo della mula. Né si devono dimenticare: Renato Birolli con il suo San Zeno pescatore (1931), Aligi Sassu con L’ultima cena (1930) e la Deposizione (1943). Alla difesa della religione nell’arte essi ne opposero l’apologia. Dopo la morte di Garbari il movimento pittorico auspicato da Persico ebbe scarsa fortuna. In Italia, come altrove, si parlò di un necessario “ritorno all’ordine”. Alberto Savinio partecipò a questo nuovo movimento con il recupero degli schemi della classicità. Carlo Carrà, nell’ambito futurista, si allontanò dalla metafisica, sviluppando un lirico primitivismo privo di alcun influsso archeologico o classico e pervaso da una rinnovata ricerca della spiritualità (Pietà, 1948). Martini, nel suo Buon Pastore del 1925, adottò invece uno stile espressivista. Mario Sironi, di formazione futurista e legato al fascismo, nel 1938 realizzò la vetrata di una Annunciazione e alla fine della sua vita si dedicò all’arte sacra, partecipando alla II Biennale di Arte Sacra di Novara. Achille Funi affrescò la cupola della chiesa di S. Giorgio al Palazzo a Milano. Nel 1934 affrescò la chiesa di Cristo Re a Roma, costruita da Marcello Piacentini. Gino Severini compose cicli pittorici nelle chiese della Svizzera (1924-48), una Crocifissione (1925-26), una Via Crucis a Cortona e i Santi Nicola e Sebastiano e Trinità (1925-26). Nel 1921 pubblicò il saggio dal titolo Dal Cubismo al Classicismo. E Ancora: Achille Funi realizzò il Giudizio e martirio di S. Giorgio nella Chiesa milanese di S. Giorgio al Palazzo (1931-33), e Ferruccio Ferrazzi, completò Le cinque storie della vita di San Benedetto nella chiesa romana di San Benedetto (1949). In quegli stessi anni Ernesto Bergagna realizzò gli affreschi della cappella dei Teologi nel Seminario di Venegono Inferiore (1942-1944). Fortunato De Angeli nel 1940 curò l’altare della chiesa di Predappio. Artisti come Vanni Rossi, Salvatore Cascone, Piero Clerici, Eliodoro Coccoli, Antonio Martinotti, Giovanni Garavaglia e Angelo Julita eseguirono cicli iconografici con i misteri cristiani in diverse chiese. Un’attenzione particolare fu rivolta alla scultura per la decorazione degli altari e altri arredi, sempre con motivi biblici e liturgici: in particolare le opere di Angelo Righetti, Beppe Rossi, Cornelio Turelli, Nicola Sebastio, Marco Melzi, Gino Casanova. Troviamo un moderno design nella decorazione con Fortunato De Angeli, Carlo Gadda e Renato Valcavi.

 

129 - pittura scultura chiesarossa23-02Iniziative pontificie

Il Codex Iuris Canonici del 1917 introdusse alcune norme sull’arte sacra e furono create nuove importanti istituzioni. Pio XI fondò nel 1923 la “Pontificia Commissione Permanente per la Tutela dei Monumenti Storici e Artistici della santa Sede” e nel 1924 la “Pontificia Commissione Centrale per l’Arte Sacra in Italia”; nel 1928 istituì la “Pontificia Insigne Accademia di Belle Arti e Letteratura dei Virtuosi al Pantheon”. Inaugurò la Pinacoteca Vaticana con il memorabile discorso “Abbiamo poco” il 27 ottobre 1932. Pio XI inserì nella collezione d’Arte moderna nei Musei Vaticani una scultura di Adolfo Wildt.

Gli anni del rinnovamento conciliare

Panoramica internazionale

L’arte di questi anni rifletté la difficile situazione seguita alla Seconda Guerra Mondiale, che costrinse gli artisti a rileggere il volto della modernità. La pittura in America fu caratterizzata dall’espressionismo “astratto” di Jackson Pollock, Mark Rothko, Barnett Newman e degli artisti Robert Motherwell, Ad Reinhardt e Frank Stella. Questi movimenti furono seguiti dal New Dada in America con Cy Twombly, Jasper Johns, Claes Oldenburg, Roy Lichtenstein e Andy Warhol. Alcuni celebri artisti, noti al panorama culturale internazionale, realizzarono opere destinate Chiesa, come nel caso de La passione di Jackson Pollock, ove fece un largo uso di pittura nera, per il progetto di una chiesa di Tony Smith (1951-53).

Italia

Nel 1956 Lucio Fontana realizzò l’Apparizione del S. Cuore a S. Margherita Alacoque, pala d’altare con ceramica riflessata policroma, nella Chiesa di S. Fedele a Milano. Sempre a S. Fedele Enrico Manfrini realizzò il coperchio del fonte battesimale.

In Francia le esperienze artistiche, con il domenicano Couturier e con Matisse, e teoriche, con Maritain e Bernanos, stimolarono l’intraprendenza dell’arcivescovo di Milano G. B. Montini, che insieme al padre Giulio Bevilacqua promosse diverse iniziative: la valorizzazione dei santi Ambrogio e Agostino e diverse committenze, finanziate dal gruppo ENI di Enrico Mattei, al designer Marcello Nizzoli e a Giuseppe Mario Oliveri; gli artisti Pietro e Andrea Cascella realizzarono la decorazione del soffitto di S. Barbara a Metanopoli (1955). Di quegli anni anche lo Spazialismo di Lucio Fontana e le Viae Crucis di Gino Cosentino (1958) e Alessandro Nastasio (1962). Di Emilio Greco sono la porta centrale e le due porte laterali in bronzo del Duomo di Orvieto (1961-64). Di Pericle Fazzini è la scultura in bronzo della chiesa di S. Giovanni Battista sull’Autostrada del sole (Firenze, 1959-60), espressione di un nuovo modo di vivere il paesaggio italiano, con il duplice scopo di onorare chi perse la vita nella realizzazione dell’autostrada e di facilitare ai viaggiatori la partecipazione alle funzione religiose. Pericle Fazzini realizzò anche la porta principale della chiesa di S. Giovanni Battista a Campi Bisenzio (1963). Di Emilio Greco e Venanzo Crocetti sono i pannelli dei santi patroni delle città collegate dall’autostrada (1960-63). Altre realizzazioni di artisti cristiani furono: Pietro Annigoni con l’Immacolato Cuore di Maria per la Chiesa dei Claretiani di S. Giuseppe Lavoratore. Mario Ceroli realizzò gli arredi nella navata di S. Lorenzo di Porto Rotondo (1971-75). Ritroviamo movimenti importanti come la “Nuova Secessione Italiana” e il “Fronte Nuovo delle Arti” con Guttuso, Birolli, Pizzinato e Vedova e con il già menzionato “Spazialismo” di Lucio Fontana. Nacque poi a Milano il Movimento Arte Concreta (MAC) e “Le Plastiche” con Alberto Burri. In questo ambiente vennero affidati progetti ad artisti non legati all’ambito ecclesiale: di Bruno Saetti è il mosaico Il Sacro cuore di Gesù nella Chiesa di S. Eugenio a Roma (1950); di Libero Andreotti è La Pietà nella Cappella Capponi della Basilica di Santa Croce a Firenze.

Iniziative pontificie

Alcuni interventi di Pio XI interessarono direttamente le arti: il 27 ottobre 1932 veniva inaugurata la nuova Pinacoteca Vaticana e nel 1939 erano emanate le Disposizioni per la custodia e conservazione degli oggetti di Storia ed Arte Sacra in Italia. Pio XII nell’enciclica Mediator Dei (1947) parlò dell’arte contemporanea, richiamandosi agli aspetti di “decoro” e “modestia” della classicità e nel 1952 all’essenza della vera arte. Una commissione pontificia continuò la promozione dell’arte moderna nei Musei Vaticani con la destinazione di uno spazio apposito nel 1956 e procedendo l’anno successivo a un’accurata opera di classificazione e catalogazione divise in tre importanti aree: Francia, Italia e Nord Europa. Tra gli artisti del cosiddetto “gruppo storico” si incontrano autori come: Van Gogh, Gauguin, Degas, Renoir, Manet, Daumier, Corot, Ingres, Delacroix, Scipione, Mancini, Gemito, Spadini, Fattori, Lega, Signorini, Segantini e Favaretto. La Commissione preparatoria non si limitò a questo primo gruppo e preparò una lettera da inviare agli artisti più celebri, sollecitandoli a donare una delle loro opere da esporre nella collezione. Il risultato fu un effetto “plurale” con l’esposizione delle opere di un gran numero di artisti che rappresentavano diversi stili. Tra gli artisti che donarono le loro opere, i grandi nomi di Utrillo, Rouault, Matisse, Bonnard, Dufy, Derain, Vlaminck, Braque, Villon, Valadon, Chagall, Carrà, Tosi, De Pisis, Sironi, Casorati, Morandi, Severini, Viani, Gino Rossi e Carena, Kokoschka, Nolde, Ensor, Peckstein e Rufino Tamayo. A questa prima iniziativa si uniranno di poi altri artisti per la sezione storica o per quella contemporanea. Tra i più importanti è necessario ricordare: Fontanesi, Picci, Ranzoni, Sernesi e Toma per l’Ottocento italiano; per il Novecento italiano: Balla, Boccioni, Campigli, De Chirico, Guidi, Messina, Modigliani, Semeghini, Soffici, Spadini, Manzù, Martini. Per la Francia: Cézanne, Courbet, Monet, Pissarro, Rousseau, Seurat, Sisley, Soutine, Despiau, Maillol, Zadkine, Rodin. Dal Nord Europa (Olanda e Germania): Beckmann, Kandinsky, Klee, Liebermann, Mare, Schmidt-Rottluff, Munch, Permeke. Per la sezione inglese: Constable, Turner, Moore e il belga Wouters. La collezione dei Musei Vaticani è ancora oggi un contributo storico e uno spazio per il dialogo, con una serie di circa ottiocento opere, attualmente disposte in 55 sale. Pio XII commissionò anche a Francesco Messina un monumento in bronzo per la cappella di S. Sebastiano nella Basilica San Pietro in Vaticano (1963-64).129 - pittura scultura doorofdeath23-03

Dal 1960 a oggi

Panoramica internazionale

Accostarsi ai movimenti artistici più importanti dagli anni cinquanta sino a oggi significa osservare gli atteggiamenti espressivi che si affermarono dopo le poetiche dell’informale e dell’Action Painting con Jackson Pollock nel contesto dell’esaltazione dell’individuo. L’opera d’arte diventò sempre più un luogo di comunicazione conoscitiva e di partecipazione tra artista e osservatore. Nacquero forme artistiche capaci di guidare nuovi comportamenti di fruizione estetica. Ecco l’elenco delle tendenze: i movimenti di “arte programmata” con François Morellet, Alberto Biasi, Enzo Mari; la “poesia visiva” con George Brecht ed Eugenio Miccini; il “Minimalismo” e la “Land Art” con Christo, Donald Judd e Sol Le Witt; “l’arte povera” con Jannis Kounellis, Mario Merz e Pistoletti; l’“iperrealismo” di Domenico Gnoli; l’“arte concettuale” e la “Body Art” con Joseph Beuys, Joseph Kosuth, Gilbert George; la “video art” con Bill Viola e le tendenze di Keith Haring, Enzo Cucchi e Anselm Kiefer sulla scia delle utopie tecnologiche. Sono da evidenziare alcuni recenti progetti per la Chiesa: le vetrate della Cattedrale di Colonia di Gerhard Richter (2007) e le realizzazioni di Imi Knoebel nella Cattedrale di Reims (2009). Tra i pittori e gli scultori segnaliamo il georgiano Irakli Parjiani e Aleksandr Zvjagin. In Brasile l’artista Cláudio Pastro, in Messico il benedettino Fray Gabriel Chavez de la Mora.

Italia

Alcuni degli artisti italiani di livello internazionale lavorarono per la Chiesa: Mario Botta e Enzo Cucchi ne La Cappella del Monte Tamaro e Allemandi a Torino con opere del 1994. Anche alcune correnti stilistiche indipendenti ispirarono opere ecclesiastiche: l’“iper-realismo” di Severini, un certo “primitivismo” con Andrea e Pietro Cascella, l’“espressionismo” con Lello Scorzelli e Francesco Somaini, il “minimalismo” con David Tremlett, Ettore Spaletti e Dan Flavin, il “neometafisico” e il “surrealismo” con Stefano Di Stasio, il “neobizantismo” con Virginio Ciminaghi, Aligi Sassu e Valentino Vaga, che realizzò un intervento pittorico nella Chiesa dei SS. Pietro e Paolo a Rovello Porto (2001-2002); l’“informale” con Michele Canzonieri e le sue vetrate del duomo di Cefalù (1985-2001). Infine la Pop Art con Warhol e Mario Ceroli e l’“espressionismo astratto” con Ettore Spalletti. Segnaliamo inoltre le seguenti realizzazioni: la Via Crucis di Gino Cosentino presso la parrocchia di Nostra Signora della Misericordia di Bollate (1957), realizzata dagli architetti Angelo Mangiarotti e Bruno Morassutti; nel 1958 la chiesa di S. Marcellina alla Cagnola (Milano) di Mario Tedeschi con facciata scultorea di Carlo Ramus; la Via Crucis di Alessandro Nastasio per la chiesa di Cesate. Trento Longaretti, Silvio Consadori, Lorenzo Pepe e Angelo Biancini lavorarono sempre a Milano nella chiesa di S. Giovanni Battista alla Creta; Minguzzi realizzò una porta del Duomo di Milano; P. Tito Amodei, passionista, lavorò nell’ambito artistico e realizzò anche una Pietà (1964). Aligi Sassu realizzò il grande mosaico della chiesa di Nostra Signora del Carmine a Cagliari (1966); l’abside di S. Barbara in Colleferro a Roma è di Marino Mazzacurati. Francesco Somaini completò la Discesa dello Spirito sull’antica facciata della chiesa di S. Spirito a Bergamo (1972); gli scultori Andrea Cascella e Mario Ceroli operarono all’esterno e all’interno della cappella di S. Lorenzo a Porto Rotondo (1971-75). Andy Warhol, l’artista della Pop Art, interpretò l’Ultima Cena di Leonardo nel refettorio del Palazzo delle Stelline a Milano (1986). Costantino Ruggeri inserì le finestre monumentali blu nella chiesa di S. Maria della Gioia (1974-77) a Varese; nel duomo di Cefalù, Michele Canzoneri progettò le vetrate ispirandosi a Pierre Soulage (1985-2001). Nel medesimo duomo Virginio Ciminaghi realizzò nel 1991 l’altare e Arnaldo Pomodoro la Porta dei Re nel 1997. Realizzazione con protagonista la luce è la cura di Valentino Vago per la cupola di Giulio di Barlassina nella chiesa dei SS. Pietro e Paolo a Rovello Porro (1982), con gli elementi del presbiterio (sede, ambone, altare) scolpiti da Floriano Bodini, mentre Dan Flavin inserì installazioni di neon a S. Maria in Chiesa Rossa a Milano (1996). La scultrice Marie Michèle Poncet realizzò l’altaredella Chiesa di S. Paolo Apostolo a Brugherio e Marco Bagnoli l’installazione nel battistero della Basilica di S. Miniato al Monte di Firenze (1994). In seguito ai fermenti giubilari diocesani, Bruno Ceccobelli completò nella Cattedrale di Terni le porte in ferro battuto e bronzo (2000) e Paolo Borghi ne realizzò il presbiterio. Questi operò anche nella Basilica di S. Francesco di Paola. Paolo Portoghesi, nella chiesa di Santa Maria della Pace a Valenza, realizzò il trittico neometafisico della Madonna della Pace (2003). Stefano Di Stasio decorò le pareti con un ciclo franscescano in stile surrealista. L’altare marmoreo fu opera di Oliviero Rainaldi, con una rivisitazione del tema trinitario. Sono da considerare diverse realizzazioni artistiche legate a una committenza non ecclesiale, laica e/o privata, e quindi a scelte stilistiche ed estetiche particolari. Ecco il minimalismo nel disegno murale di Soll Le Witt e David Tremlett nella Cappella Barolo a Brunate (La Morra, Cuneo); l’installazione di Ettore Spalletti nella chiesa S. Maria ad Nives a Rimini (1998), con un pavimento rosso sangue. Legate alla pittura e scultura contemporanee sono le iniziative delle “Gallerie d’arte cattolica” come quella del S. Fedele a Milano e la Galleria Lercaro a Bologna. A queste stesse iniziative sono da ascrivere i numerosi “Musei Diocesani” e l’organizzazione di Biennali di Arte Sacra, tra le quali ricordiamo quelle di Venezia “Monte sacro” (2001), con Markus Lüpertz e “Sotto la croce” (2003) con opere di Arnulf Rainer. La Fondazione “Stauròs”, come luogo di promozione dell’arte contemporanea, di corsi e di un museo,opera a partire dal 1984 con la Biennale di Pescara e con quella di S. Gabriele in provincia di Teramo. Giuliano Vangi e l’architetto Botta hanno realizzato l’oratorio funerario di Azzano di Serravezza (2000-2001). Sempre Vangi ha curato il presbiterio della Cattedrale di Padova (2000). Una grande serie di commissioni pittoriche ha interessato la nuova edizione del Lezionario della CEI (2008) e dell’Evangelario Ambrosiano (2012). Le oltre duecento tele, opere di artisti italiani contemporanei, ispirate a testi biblici, hanno decorato e riprodotto i libri liturgici e attualmente sono custodite dalla Collezione Paolo VI di Arte Contemporanea con sede a Brescia. La spinta del Concilio stimolò la nascita di nuovi soggetti attivi anche nell’ambito artistico, come i movimenti ecclesiali: Neocatecumenali, Rinnovamento nello Spirito, Focolarini, ecc.. Una realizzazione legata al cammino neocatecumenale è quella realizzata nella chiesa di S. Bartolo in Tutto a Scandicci, presso Firenze. Il “Centro Ave”, legato al movimento dei Focolarini, arrivò a realizzare la chiesa per la Cittadella di Loppiano a Incisa Valdarno. In questo centro opera la scultrice Ave Cerquetti (1930-). Tra le realizzazioni italiane del Centro Aletti segnaliamo i mosaici per la Chiesa a S. Giovanni Rotondo (2009).129 - pittura scultura23-01

Iniziative pontificie

Giovanni XXIII commissionò a Giacomo Manzù un suo Monumento in bronzo nella Basilica di S. Pietro in Vaticano (1965-67), le Decorazioni per la chiesa S. Maria in Chiesa Rossa a Milano (1935-1937) e le porte della Basilica di S. Pietro in Vaticano (1952-1964). Manzù cercò con le sue figure una morbidezza e una quasi sensualità della forma plastica del corpo umano. Paolo VI (1963-1978) promosse con energia il dialogo con gli artisti, che tradusse in diverse iniziative. Ricordiamo l’omelia pronunciata in occasione della “Messa degli Artisti” il 7 maggio 1964 e l’inaugurazione della Collezione di Arte moderna nei Musei Vaticani il 23 giugno 1973, espressione della continuazione di un dialogo all’insegna della conoscenza del mistero dell’uomo. Proseguirono da parte della Collezione molte iniziative di promozione artistica: la mostra Evangelization and Art (1974), il seminario Religious inspiration in American Art, un’esposizione delle opere in magazzino e la mostra A mirror of creation: 150 years of natural American painting. Per Papa Paolo VI l’artista Lello Scorzelli realizzò il pastorale (1963). L’aula Paolo VI di Pierluigi Nervi inaugurato nel 1971 contiene il Cristo in bronzo dello scultore Pericle Fazzini (1970-75). Giovanni Paolo II (1978-2005), artista egli stesso, commediografo e poeta, intervenne più volte con discorsi e iniziative. Ricordiamo la Lettera agli artisti (1999) e il Giubileo degli artisti (2000), feconde iniziative per un dialogo tra Chiesa e arte. Alcune realizzazioni significative durante questo pontificato furono il Volto di Cristo Eucaristico (1996), un’icona di Charlotte Lauzon e le sculture dell’artista Czeslaw Dzwigaj di Cracovia, esposte in occasione della beatificazione del Papa polacco; il monumento scultoreo di Oliviero Rainaldi, donato alla città di Roma dalla fondazione Silvana Paolini Angelucci (2011); la Chiesa della Compassione del Padre a Roma di Richard Meier (2000); il gesuita M. I. Rupnik, dal 1992 direttore del Centro Aletti di Roma, realizzò nel 2000, in Vaticano, la Cappella Redemptoris Mater. Joseph Ratzinger (Benedetto XVI, 2005-2013) si è mostrato molto attento alla dimensione artistica, in particolare alla bellezza della liturgia in Introduzione allo spirito della liturgia, pubblicato nel 2009. Gli interventi in questo ambito sono assai precisi come l’Incontro con gli artisti del 21 novembre 2009 e altri discorsi. È infine da segnalare la dedicazione della Sagrada Familia a Barcellona il 7 novembre 2010. Attraverso il Pontificio Consiglio per la cultura, guidato dal Card. Gianfranco Ravasi, ha promosso iniziative di incontro e tra queste la possibilità di uno spazio espositivo vaticano presso la Biennale di Venezia. Inoltre, per il suo 60° di sacerdozio, è stata allestita in Vaticano con opere di pittori contemporanei l’esposizione “Lo splendore della verità, la bellezza della carità”.

Fonti e Bibl. essenziale

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Immagini

Pittura: P. Marko Ivan Rupnik SJ, Mosaico, Cappella Redemptoris Mater 1999, Città del Vaticano;
Pittura: Dan Flavin, Installazione luminosa per Santa Maria in Chiesa Rossa 1996, Milano;
Scultura: Giacomo Manzù, Porta della Morte, 1961-1964, Basilica di S. Pietro, Città del Vaticano.
Scultura: Virginio Ciminaghi, Altare, 1991, Duomo di Cefalù (Pa).


LEMMARIO




Predicazione - vol. II


Autore: Roberto Rusconi

Le caratteristiche generali della predicazione in Italia nella seconda metà dell’Ottocento ricalcarono a lungo gli orientamenti delineatisi nella prima metà del secolo. Quando durante il pontificato di Pio IX si intensificò la riunione di sinodi diocesani in Italia, nelle loro delibere fu incluso un richiamo ai parroci a spiegare il Vangelo della liturgia del giorno durante la messa domenicale, all’interno di una prospettiva di attuazione delle indicazioni pastorali fornite dal Decretum de reformatione del concilio di Trento e più di recente dall’enciclica Qui pluribus del 9 settembre 1846: con l’invito a svolgere peraltro una predicazione di carattere catechistico.

Negli ultimi anni dell’Ottocento e agli inizi del Novecento prevaleva comunque una predicazione a carattere marcatamente devozionale, in stretto collegamento con la celebrazione di quarantore, tridui, ottavari, novene, e dei mesi dedicati a san Giuseppe (marzo), alla Madonna (maggio) e al Sacro Cuore (giugno). Tale pratica si protrasse anche nei decenni successivi.

Con il pontificato di Leone XIII aumentò l’attenzione per la formazione del clero e per le forme della sua predicazione. Il 31 luglio 1894 la Congregazione dei Vescovi e dei Regolari indirizzava una Istruzione sulla sacra predicazione ai vescovi italiani, con l’invito a far cessare «alcuni gravi abusi», legati all’inosservanza di quelle indicazioni sinodali. L’anno successivo, ad esempio, il cardinale di Milano, Andrea Carlo Ferrari, indirizzò ai sacerdoti della diocesi ambrosiana una circolare, in cui raccomandava che nella predicazione si spiegasse la dottrina cristiana, in una forma tradizionale.

Durante il pontificato di Pio X, nel contesto dell’introduzione di un’uniforme preparazione del clero, il 10 maggio 1907 la stessa Congregazione emanava un Programma generale di studi, che prevedeva un insegnamento di un’ora settimanale di «sacra eloquenza e patristica» per ogni anno di corso. In attuazione di quegli orientamenti nella Circolare sui seminari d’Italia, indirizzata ai vescovi il 16 luglio 1912 dalla S. Congregazione del Concistoro, un insegnamento di «sacra eloquenza» fu elencato fra le materie secondarie. Quanto all’Ordinamento dei seminari emanato dalla S. Congregazione dei Seminari e della Università il 26 aprile 1920, tale insegnamento fu inserito nelle attribuzioni del docente di teologia pastorale.

Nel frattempo il Codex iuris canonici, promulgato il 17 maggio1917 da Benedetto XV, aveva sancito la responsabilità del vescovo nei confronti di tutta la predicazione in diocesi, anche del clero regolare, l’obbligo della predicazione parrocchiale la domenica e le feste di precetto, l’esortazione a una predicazione quotidiana durante la Quaresima e l’Avvento, e l’indizione di missioni di decennio in decennio. Nel 1913 era uscita a Torino la prima annata di «Verbum Dei. Periodico settimanale di Sacra Predicazione», redatta in prevalenza da sacerdoti diocesani e rivolta a mettere a disposizioni materiali per ogni genere di predicazione: la sua pubblicazione si protrasse sino al secondo dopoguerra.

Al termine del secondo conflitto mondiale le forme della predicazione dovettero far fronte a una profonda trasformazione della società. Alla situazione volle rispondere l’enciclica Mediator Dei sul rinnovamento liturgico, emanata da Pio XII il 20 novembre 1947. Nel 1956 si tenne a Roma la sesta settimana di aggiornamento pastorale: «La parola di Dio nella comunità cristiana». Gli interventi oscillarono tra un semplice adattamento della predicazione, suggerito peraltro da un messaggio del pontefice, e più ampie prospettive di rinnovamento biblico-liturgico. In quella direzione si muoveva, in quello stesso anno, il primo Congresso Internazionale di Pastorale Liturgica, celebrato ad Assisi.

Alle nuove esigenze non corrispondeva un aggiornamento nell’insegnamento di sacra eloquenza nei seminari. Alla lacuna vollero supplire pubblicazioni periodiche come Orientamenti pastorali, apparsi in quello stesso anno, e la rivista dei domenicani napoletani Temi di predicazione, uscita l’anno successivo. Le indagini sociologiche registrarono impietosamente la perdita di influenza della predicazione, dovuta in primo luogo a una formazione sostanzialmente carente dei predicatori, cui non suppliva l’eventuale prescrizione di programma unitari di predicazione per diocesi e parrocchie.

Il decrescente successo della predicazione, connesso alla diminuita frequenza alla messa domenicale, registrava negli anni del concilio Vaticano II anche una crisi di identità, che aveva per oggetto sia le modalità sia i contenuti. I documenti conciliari hanno sottolineato a più riprese l’importanza della predicazione quale compito primario dei vescovi e dei sacerdoti (in particolare la costituzione sulla liturgia Sacrosanctum Concilium, promulgata il 4 dicembre 1963). Ne è risultata una maggiore accentuazione del suo riferimento al testo biblico, all’indomani dell’entrata in vigore della riforma liturgica (7 marzo 1965), seguita dalla pubblicazione anche in traduzione italiana del Messale Romano e del Lezionario. Non ne è derivata, al contrario, una specifica preparazione omiletica dei sacerdoti, trascurata nell’insegnamento ai seminaristi. A tale lacuna ha cercato di supplire l’editoria religiosa, moltiplicando i sussidi per le diverse forme e occasioni.  Il linguaggio dei predicatori ha comunque risentito delle innovazioni connesse alla crescente affermazione dei mezzi di comunicazione di massa, e in particolare della televisione.

Negli ultimi decenni, a cavallo del volgere del Novecento, l’accentuarsi delle preoccupazioni etiche da parte del magistero pontificio e dell’episcopato italiano ha incrementato in maniera significativa lo spazio assegnato nella predicazione a tematiche di carattere morale e sociale.

Dopo la esortazione apostolica postsinodale Verbum Domini di papa Benedetto XVI (30 settembre 2010), particolare attenzione alla predicazione è stata prestata da papa Francesco, in particolare nella sua esortazione apostolica Evangelii gaudium (24 novembre 2013), che ha ripreso molti temi presenti nella esortazione apostolica Evangelii nuntiandi di papa Paolo VI (8 dicembre 1975).

Fonti e Bibl. essenziale

A. Ellena [et al.], Ricerca interdisciplinare sulla predicazione, EDB, Bologna, 1973; R. Kaczynski (edd.), Enchiridion documentorum instaurationis liturgicae, C.L.V. – Edizioni liturgiche, Roma, 1976-1997; R. Rusconi, La predicazione, in Storia della Chiesa, vol. XXIII: M. Guasco – E. Guerriero – F. Traniello (edd.), I cattolici nel mondo contemporaneo (1922 1958), Edizioni Paoline, Milano, 1991, pp. 421 433; G. Tuninetti, Predicabili: nell’Otto-Novecento, e Predicazione: nell’Otto-Novecento, in M. Sodi – A. M. Triacca (edd.), Dizionario di omiletica, Elle Di Ci, Leumann (Torino) – Velar, Gorle (Bergamo), 1998, pp. 1172-1177 e pp. 1239-1246; G. Genero, Predicabili: dopo il Vaticano II, e Predicazione: dopo il Vaticano II, ivi, pp. 1177-1180 e pp. 1246-1249; A. Favale, Missioni popolari, ivi, pp. 961-972; AA.VV., L’omelia tra celebrazione liturgica e ministerialità, in «Rivista liturgica», n. 6 (2008), pp. 973-1097; F. Lomanto, La predicazione in Sicilia tra restaurazione, unità d’Italia e moti sociali, Pontificia Università Gregoriana, Roma, 2010.

Immagini

Il Cappuccino Mariano da Torino (†1972)


LEMMARIO




Prelatura personale - vol. II


Autore: Carlo Pioppi

L’unica prelatura personale sinora istituita è quella dell’Opus Dei, istituzione fondata a Madrid nel 1928 da don Josemaría Escrivá (canonizzato nel 2002), con lo scopo di ricordare a tutti i cristiani, uomini e donne, la chiamata universale alla santità insita nel battesimo, la possibilità della santificazione nel lavoro professionale e nelle circostanze normali della quotidianità, il dovere di ogni battezzato di esercitare un’azione apostolica personale attraverso l’amicizia e le relazioni offerte dalla vita professionale e sociale. L’Opus Dei ha a capo un prelato, ne fanno parte sacerdoti e laici (sia celibi che sposati), ed è stata eretta in prelatura dalla Santa Sede per porre in atto le sue particolari iniziative pastorali.

La presenza dell’Opus Dei in Italia risale agli anni della II Guerra Mondiale: nel 1942, infatti, due giovani membri spagnoli dell’istituzione giunsero a Roma per motivi di studio. Nel 1946, con il trasferimento definitivo nell’Urbe di don Josemaría Escrivá e di don Álvaro del Portillo – suo principale collaboratore –, si può considerare compiuto il radicamento in Italia.

Col tempo furono trasferiti a Roma gli organi di governo: nel 1953 l’Assessorato Centrale (femminile) e nel 1956 il Consiglio Generale (maschile). Tra i collaboratori italiani di mons. Escrivá nella direzione centrale dell’Opus Dei vanno ricordati don Giorgio de Filippi, don Giuseppe Molteni, Umberto Farri e Teresa Acerbis. Dopo la morte del fondatore (1975), l’Opus Dei è stata diretta da mons. del Portillo (1975-1994), da mons. Javier Echevarría (dal 1994 al 2016) e da mons. Fernando Ocáriz (dal 2017). L’impegno profuso da Escrivá e del Portillo per trovare la configurazione giuridica adeguata al carisma dell’Opus Dei, condusse nel 1950 all’approvazione pontificia come istituto secolare, e nel 1982 alla sua erezione, da parte della Santa Sede, in prelatura personale.

Nel 1948 mons. Escrivá fondò a Roma il Collegio Romano della Santa Croce, centro internazionale per la formazione spirituale e filosofico-teologica di giovani membri dell’Opus Dei: in questo centro vengono preparati i candidati al sacerdozio. Nel 1953 aprì il Collegio Romano di Santa Maria, un centro di studi internazionale per le donne. Ambedue i collegi hanno delle sedi estive, a San Felice d’Ocre (L’Aquila) e a Castelgandolfo.

Nel 1984 l’Opus Dei promosse la nascita del Centro Accademico Romano della Santa Croce, che si trasformò gradualmente in università pontificia (1998), attualmente frequentata da circa 1.400 studenti. Attorno all’università si sono andati sviluppando una serie di centri per professori, residenze per sacerdoti diocesani studenti presso l’ateneo, e il Collegio Ecclesiastico Internazionale Sedes Sapientiae (1991), che accoglie seminaristi diocesani frequentanti le aule della Pontificia Università della Santa Croce.

A partire dall’arrivo di mons. Escrivá a Roma, iniziarono anche le attività apostoliche in tutta la penisola, con l’apertura di centri nelle seguenti località: Palermo (1949), Milano (1949), Napoli (1952), Catania (1955), Bologna (1956), Verona (1961), Bari (1964), Genova (1971), Torino (1981), Trieste (1983), Firenze (1984); da queste città si sono irradiate iniziative che hanno poco a poco raggiunto molte provincie di quasi tutte le regioni italiane. Col tempo l’Opus Dei ha approntato anche una serie di centri di convegni e studi: a Carate Urio (Como) nel 1955, Ovindoli (Abruzzo) nel 1967, Terrasini (Palermo) nel 1969, Castelgandolfo (1981), Galleno (Brescia) nel 1988, presso Roma sulla via Nomentana nel 1991; in essi si tengono a ritmo costante attività culturali e di formazione spirituale.

I fedeli della prelatura, insieme con altre persone non appartenenti all’istituzione, hanno dato avvio ad attività educative e sociali, delle quali l’Opus Dei ha assunto la garanzia della formazione cristiana che vi si può ricevere: tra le iniziative di maggior rilievo si possono ricordare le residenze universitarie R.U.I. (1959), Porta Nevia (2001) e Celimontano (2003) a Roma, Viscontea (1954) e Torrescalla (1960) a Milano, Segesta (1956) e Rume (1966) a Palermo, Monterone (1980) a Napoli, Capodifaro a Genova (2000), Torleone a Bologna (1959); le scuole alberghiere Safi (1964) a Roma e Same (1967) a Palermo; il Centro Elis (1964), fulcro di attività sociali, sportive ed educative alla periferia di Roma; l’Università Campus Biomedico (1993), con il relativo ospedale,  nella capitale. Alla prelatura sono state anche affidate tre parrocchie romane: San Giovanni Battista al Collatino (1965), Sant’Eugenio a Valle Giulia (1981) e San Josemaría Escrivá a Roma (1994); a Milano quella di San Gioachimo (2013).

Va detto comunque che l’attività fondamentale della prelatura consiste nell’apostolato personale dei fedeli, difficile da quantificare e presentare. Nondimeno vi sono iniziative sorte dalla collaborazione dei membri, tra cui hanno un certo rilievo istituti scolastici promossi da genitori: i più importanti sono le scuole Argonne e Monforte a Milano (1974).

L’Opus Dei è divisa in circoscrizioni denominate “regioni”, governate da un vicario regionale con l’ausilio di una commissione regionale per le attività maschili, e di un assessorato regionale per quelle femminili. Nel 1958 la sede di tali organi della Regione Italiana (istituita nel 1948) fu trasferita da Roma a Milano. Nel 1968 e nel 1971 furono rispettivamente create le delegazioni (circoscrizioni inferiori alla regione) di Roma e di Palermo. I vicari regionali (chiamati consiglieri regionali prima del 1982) sono stati gli spagnoli Álvaro del Portillo (1948-1950), Salvador Moret (1950-1958) e Juan Bautista Torelló (1958-1964), e gli italiani Luigi Tirelli (1964-1970), Ugo Parroco (1970-1972), Mario Lantini (1972-1998), Lucio Norbedo (1998-2010) e Matteo Fabbri (dal 2010). Il numero dei fedeli presenti in Italia si aggira attualmente intorno ai 5.000.

Fonti e Bibl. essenziale

«Romana. Bollettino della Prelatura della Santa Croce e Opus Dei» (edito dal 1985); F. Gondrand, Cerco il tuo volto. Josemaría Escrivá fondatore dell’Opus Dei, Città Nuova, Roma 1986; P. Berglar, Opus Dei. La vita e l’opera del fondatore Josemaría Escrivá, Rusconi, Milano 1987; A. de Fuenmayor – V. Gómez-Iglesias – J.L. Illanes, L’itinerario giuridico dell’Opus Dei. Storia e difesa di un carisma, Giuffrè, Milano 1991; D. Le Tourneau, L’Opus Dei, E.S.I, Napoli 19922; C. Sorgi, Il Padre. Josemaría Escrivá de Balaguer, Piemme, Casale Monferrato 1992; J. Orlandis, Mis recuerdos. Primeros tiempos del Opus Dei en Roma, Rialp, Madrid 1995; V. Messori, Opus Dei. Un’indagine, Mondadori, Milano 19993; A. Vázquez de Prada, Il fondatore dell’Opus Dei. La biografia di san Josemaría Escrivá, Leonardo International, Milano 1999-2004, vol. III; J. Herranz, Mons. Álvaro del Portillo, protagonista del Concilio, in V. Bosch (a cura di), Servo buono e fedele. Scritti sulla figura di Mons. 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Pioppi, Concilio Vaticano II, in DSJ, 255-259; C. di Fazio, Dell’Acqua, Angelo, in DSJ, 312-313; F. Castells, Palazzini, Pietro, in DSJ, 934-935; S. Bernal, Echevarría Rodríguez, Javier, in DSJ, 351-353; J. Grohe, Pío XII, in DSJ, 973-977; S. Casas, Juan XXIII, in DSJ, 703-704; J.I. Saranyana, Pablo VI, in DSJ, 929-934; A. Capucci, Juan Pablo I, in DSJ,  699-700; J. Alonso, Juan Pablo II, in DSJ, 700-703; J. Medina Bayo, Álvaro del Portillo. Il primo successore di san Josemaría alla guida dell’Opus Dei, Ares, Milano 2014; L. Clavell, Mons. Álvaro del Portillo e la Pontificia Università della Santa Croce, in in P. Gefaell (a cura di), Vir fidelis multum laudabitur. Nel centenario della nascita di Mons. Álvaro del Portillo, Edusc, Roma 2014 [d’ora in avanti PGe], vol. I, 133-142; M. del Pozzo, Il contributo documentale di Álvaro del Portillo al progetto della “Lex Ecclesiae Fundamentalis” (1966-1973), in PGe, vol. II, 501-516; L. 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Immagine: Josemaría Escrivá (1902-1975), fondatore dell’Opus Dei

Sitografia: Istituto Storico San Josemaría Escrivá: http://www.isje.org/

Studia et Documenta. Rivista dell’Istituto Storico San Josemaría Escrivá: http://www.studiaetdocumenta.org/

Prelatura della Santa Croce e Opus Dei in Italia: http://opusdei.it

Bollettino della Prelatura della Santa Croce e Opus Dei: http://www.romana.org/


LEMMARIO




Prima Guerra Mondiale - vol. II


Autore: Sergio Tanzarella

Premessa. Il papa Benedetto XV pronunciò sin dai suoi primissimi discorsi parole tanto chiare e tempestive quanto inascoltate e vanamente ribadite di totale condanna della I guerra mondiale – compresa sempre però come punizione divina. Una posizione chiara e ribadita ufficialmente con l’enciclica Ad Beatissimi dell’1 novembre 1914: «Il tremendo fantasma della guerra domina dappertutto […] nessun limite alle rovine, nessun limite alle stragi» e ripresa con una intensa azione diplomatica per favorire la fine della guerra o almeno un armistizio, dall’Esortazione ai popoli belligeranti e ai loro capi del 28 luglio 1915: «Scongiuriamo Voi, che la Divina Provvidenza ha posto al governo delle Nazioni belligeranti, a porre termine finalmente a questa orrenda carneficina che ormai da un anno disonora l’Europa», fino alla Nota ai capi degli Stati in guerra del 1° agosto del 1917. Nonostante ciò i cattolici italiani assunsero nei confronti di quella guerra mondiale – sia prima dell’intervento, sia durante la guerra – una quantità di posizioni che mostrano una grande varietà di giudizi e di motivazioni complessivamente inconciliabili tra di loro e che è impossibile ridurre ad unità.

La Chiesa italiana appare, infatti, vivere un profondo travaglio nel quale, oltre alle isolate ed esemplari posizioni come quella pacifista del barnabita Alessandro Ghignoni, l’adesione, la sacralizzazione o il rifiuto della guerra sembrano poco condizionate dalle parole del papa, e appaiono ispirate non soltanto da un giudizio morale o da valutazioni concrete e contingenti, ma rispondono a motivi più profondi della storia nazionale come il perdurare della questione romana e delle sue conseguenze. Alla base quindi di quelle posizioni divergenti, fin dalla contrapposizione interventisti-neutralisti non vi fu soltanto un pacifismo evangelico o l’adesione ai principi della teoria della “guerra giusta”, quanto il riaffermarsi dell’intransigentismo ottocentesco in opposizione ad un patriottismo desideroso di riconoscimento ufficiale da parte della Stato unitario di modo da poter dimostrare quanto i cattolici italiani fossero ormai divenuti dei buoni cittadini. A queste posizioni si aggiunge quella del padre Rosa su La Civiltà Cattolica per il quale il conflitto in atto manca degli elementi per essere definito “guerra giusta”, ma tuttavia egli giustifica – in nome del “principio di presunzione” – l’obbligo dei cittadini a prendervi parte perché si presume che lo Stato abbia avuto giusti motivi per fare la guerra. Di altro tenore sono poi le posizioni filogovernative di Meda che dal neutralismo arriva alla giustificazione dell’interventismo e quella di Miglioli che manterrà la linea di totale rifiuto della guerra sia per motivazione religiosa sia perché convinto che la maggioranza dei cattolici italiani è ad essa contraria.

Tutti questi elementi che caratterizzarono le posizioni ufficiali di una componente di rilievo del mondo cattolico italiano come associazioni, giornali e riviste cattoliche a diffusione nazionale, e singoli cattolici come alti ufficiali, uomini politici, figure di rilievo della cultura, non esauriscono tuttavia la ricchezza e la frammentarietà di quello stesso mondo cattolico come una certa storiografia – evemenenziale e talvolta a servizio della propaganda del mito della “Vittoria” – ha semplicisticamente proposto affermando una unità di posizioni e di adesioni di fronte alla guerra che di fatto non c’è mai stata. Ma almeno a partire dal settembre del 1962, in occasione del fondamentale convegno di Spoleto, si comprese come fosse necessario abbandonare generalizzazioni ed esclusive attenzioni ai rappresentanti ufficiali del mondo e del pensiero cattolico italiano (spesso rappresentativi solo di se stessi) e quanta differenza di posizioni e di sensibilità emergeva appena ci si spostava sul terreno dell’indagine locale negli archivi diocesani e parrocchiali i quali possedevano una quantità di fonti che ancora oggi solo in parte sono state studiate, e quelle che lo sono state mostrano la ricchezza di quel patrimonio e la necessità che esso venga posto a disposizione della ricerca vincendo ancora diffuse resistenze. Si tratta di ciò che concretamente i vescovi delle tante piccole diocesi pensavano sulla guerra, posizioni diversificate, da quelle patriottiche, nazionaliste e lealiste nei confronti del governo a quelle di accettazione della guerra come castigo di Dio fino a quelle, certo più rare, di neutralismo. Ci sono poi i diari di parroci, gli epistolari di preti e parrocchiani soldati, di cappellani militari cui si deve aggiungere la stampa diocesana e quella parrocchiale. Era dunque necessario contrapporre alla celebrazione retorica di quella esperienza bellica – direttamente promossa in ambito storiografico dai vertici militari e governativi dell’immediato dopoguerra e poi su larga scala prima dal fascismo e poi nei primi anni dall’Italia repubblicana – una considerazione attenta allo studio di tutte le fonti disponibili. Così i cinquant’anni trascorsi da quel convegno hanno prodotto una messe di studi che ha confermato – da parte dei cattolici italiani – un ventaglio di grande varietà di posizioni e di giudizi su quella guerra che conoscono tra l’altro evoluzioni e sviluppi tra i mesi della neutralità e all’interno degli anni di guerra dalle “radiose giornate di maggio” – con l’illusione di un successo militare sicuro e immediato e con costi limitatissimi – alla guerra combattuta e continuata con armamenti di nuova e inaudita capacità mortifera, da Caporetto fino al 4 novembre del 1918, alla sua successiva celebrazione e al processo di giustificazione dei costi della guerra nonostante la crisi economica da essa provocata fino all’inchiesta insabbiata sulla ormai certa corruzione per le spese di guerra. Non è un caso che, negli anni della guerra, nelle relazioni di prefetti e procuratori diversi vescovi e non pochi parroci sono descritti come promotori di proteste e di disfattismo anche quando si erano limitati soltanto ad invitare a pregare per la pace o avevano manifestato preoccupazione per le misere condizioni del popolo e dei soldati –anche per non lasciare campo libero alla propaganda socialista – o avevano citato gli interventi di Benedetto XV.

Preti in guerra. Il perdurare della questione romana e quindi l’assenza di riconoscimenti ufficiali da parte dello stato italiano nei confronti della Chiesa espose seminaristi, preti e religiosi alla chiamata alle armi in tempo di guerra. Dei circa 15.000 preti coinvolti solo un 2500 poterono essere arruolati come cappellani militari, altri riuscirono a trovare spazio nel servizio sanitario e in vari compiti non di combattimento, tuttavia la maggioranza del clero fu costretta a prestare servizio armato direttamente al fronte. Fu per molti, sia preti combattenti sia cappellani una esperienza durissima che non incrinò però i sentimenti patriottici, anche se solo una piccola – ma attivissima – minoranza, tra cui il domenicano Reginaldo Giuliani cappellano degli Arditi – continuò a sostenere, dinnanzi alle stragi della guerra, fortissimi entusiasmi bellici.

Complessivamente la posizione dei cappellani militari – ufficialmente inquadrati nell’esercito con il loro vescovo di campo Angelo Bartolomasi – fu lealista, con un invito alla rassegnazione e alla preghiera mentre si affermavano tra i soldati, anche contro talvolta la volontà dei cappellani, forme varie di devozioni con largo uso di immaginette, scapolari, medaglie, distintivi utilizzati spesso, nell’illusione di una speciale protezione, quasi come amuleti. Le immaginette sacre segnavano però due linee fortemente differenziate e se l’una sosteneva un intervento diretto di Dio per la vittoria e per la protezione del soldato – come facevano tra l’altro non poche preghiere, litanie e suppliche – un’altra tendeva ad affermare il valore assoluto della pace e della preghiera per impetrarla e per questo fu imputata di disfattismo e collaborazionismo col nemico.

Figura di primo piano tra i cappellani militari fu il barnabita Giovanni Semeria, cappellano del Comando Supremo, che testimonia una dolorosa evoluzione passando da posizioni pacifiste ad un convinto interventismo sostenitore del risveglio cattolico grazie alla guerra fino ad una profonda crisi di fronte all’orrore del conflitto.

Anche se non fu cappellano il frate francescano Agostino Gemelli – arruolato come capitano medico – svolse contemporaneamente quello di assiduo predicatore tra le truppe. Assegnato allo Stato maggiore Gemelli offrì al generale Cadorna, che fu per lui prodigo di sostegni, la personale competenza di psicologo per motivare le truppe ad andare incontro alla morte senza particolari resistenze e per realizzare su larga scala un condizionamento di massa fino alla elaborazione della teoria della catechesi del cannone: «se vi ha dunque rinascita religiosa al fronte, questa si ha esclusivamente nell’ospedale. Ma la professione di fede cristiana non si realizza d’un tratto. L’educazione religiosa è stata compiuta dalla voce del cannone durante i mesi di trincea, e il soldato ha appreso questa lezione quasi senza avvedersene» (Gemelli, Il nostro soldato. Saggi di psicologia militare, Treves, Milano 1917, 137). L’attività di Gemelli negli anni della guerra fu frenetica: dalle messe da campo alle ricerche sperimentali – anche se scientificamente molto discutibili – all’iniziativa della devozione dei soldati al Sacro Cuore di Gesù, fino alla pubblicistica su Vita e Pensiero nella quale il sostegno alla guerra – una volta superata l’indecisione dell’intervento – fu pieno. La rivista ridonda di articoli di lealismo al Governo italiano, nazionalismo e convinta partecipazione alla guerra. Nonostante quella guerra abbia visto su una popolazione di circa 28 milioni di italiani poco meno di 5 milioni di combattenti – di cui la metà contadini – e con una età media di poco più di 25 anni. Si trattò – fuor di retorica e di celebrazioni – di una ecatombe che segnò la società e la Chiesa italiana: 700.000 morti, 500.000 reduci invalidi gravi, 100.000 soldati morti nei campi di prigionia.

I cattolici italiani dall’interventismo alla condanna della guerra. Tutti questi elementi della realtà della guerra aiutano a comprendere le trasformazioni di giudizio di interventisti come don Primo Mazzolari o don Luigi Sturzo. Il primo molti anni dopo la fine della guerra prenderà apertamente e amaramente le distanze dalle personali illusioni patriottiche con un passaggio doloroso ed estremo da interventista ad oppositore totale della guerra considerata il suo “secondo seminario”. La testimonianza di quell’esperienza dolorosissima è raccolta nel romanzo autobiografico dove egli ripercorre il cammino della propria conversione attraverso le atrocità della guerra. Un guerra accolta ingenuamente come soluzione ai problemi sociali della società italiana ed esperienza di catarsi attraverso la catastrofe. Una guerra per la quale i giovani sacerdoti avrebbero dovuto sentirsi dire: «Se invece di dirci che ci sono guerre giuste e guerre ingiuste i nostri teologi ci avessero insegnato che non si deve ammazzare per nessuna ragione, che la strage è inutile sempre, e ci avessero formati ad una opposizione cristiana chiara, precisa e audace, invece di partire per il fronte saremmo discesi sulle piazze. … e siamo partiti come per una crociata. Perché a noi non importava né Trento, né Trieste, né questa, né quella revisione di confini» (La Pieve sull’argine 1952, 66). Sturzo, dopo avere assunto più volte pubblicamente una posizione interventista, già nel 1911 per la guerra libica, la ribadirà alla vigilia e durante tutta la I guerra mondiale. Ciò è dimostrato dalla sua firma all’Appello dell’Unione Popolare dell’8 maggio 1915 per l’ingresso dell’Italia in guerra, sebbene la sua posizione non avesse nulla dello spirito nazionalista dei Governi dell’epoca. L’idea di Sturzo è quella di sostenere un principio antimperialista che intravede nella guerra una possibilità di trasformazione dell’Europa attraverso nuovi equilibri e l’affermazione di libertà per le nazioni. Egli mantiene questa idea nonostante il tragico svilupparsi della guerra e i ripetuti interventi di condanna della stessa guerra da parte di Benedetto XV. Ad essi Sturzo dedicò sempre grande attenzione sottolineando il ruolo pacificatore della Chiesa e la sua equidistanza da tutte le fazioni in lotta. Tuttavia, ancora all’inizio del 1918 egli contrastava apertamente ogni tentazione disfattista. Nel rileggere la storia italiana dall’unificazione in poi come occasione mancata dalle classi dirigenti, la guerra viene da lui ancora considerata un elemento di coesione sociale e una fattore per la costituzione di una memoria nazionale del giovane Stato italiano, non differenziandosi quindi dalla linea della propaganda bellica del tempo. Una posizione imbevuta dei tradizionali elementi patriottici. Sturzo riafferma la grave necessità dell’esecuzione degli ordini che scaturisce dal dovere morale dell’ubbidienza assoluta. Su questa visione celebrativa della guerra e sulla sua valutazione positiva Sturzo rimase fermo ancora all’indomani del 4 novembre del 1918. Ma bastarono alcuni mesi successivi alla cosiddetta vittoria per indurlo progressivamente a cambiare idea e a riconsiderare la follia e le contraddizioni di quegli anni [cf. L. Sturzo, I Discorsi Politici, Istituto L. Sturzo, Roma 1951, 55-56], l’inconsistenza di quelle aspettative con il gravissimo peso economico conseguente [cf. I Discorsi Politici, 44] e la devastante crisi agraria e quella economica nella quale si intravedevano anche le ruberie realizzate dagli stati maggiori dell’Esercito e dagli industriali attraverso le forniture di guerra. Ma soprattutto Sturzo intravide, progressivamente, le insidie che quella guerra avrebbe prodotto a breve distanza e sulle quali ritornerà a parlare già nei primi mesi di esilio e sintetizzate nella considerazione che «il fascismo italiano è figlio della guerra» [I Discorsi Politici, 415].

Fonti e Bibl. essenziale

G. De Rosa, «I cattolici», in Il trauma dell’intervento 1914-1919, Vallecchi, Firenze 1968, 165-201; M. Isnenghi – G. Rochat, La grande guerra 1914-1918, il Mulino, Bologna 2008, 263 ss; F.M. Lovison, «Il Cappellano militare Giovanni Semeria: le «armonie cristiane» di un uomo di Chiesa», in Barnabiti Studi, 24 (2007) 135-232; F. Malgeri, «La Chiesa, i cattolici e la prima guerra mondiale», in G. De Rosa (ed.), Storia dell’Italia religiosa. III. L’età contemporanea, Laterza, Roma-Bari 1995, 189-222; D. Menozzi, Chiesa, pace e guerra nel Novecento. Verso una delegittimazione religiosa dei conflitti, il Mulino, Bologna 2008, 15-46; Id. (ed.), «La Chiesa e la guerra. I cattolici italiani nel primo conflitto mondiale», in Humanitas 63 (2008) 900-991; R. Morozzo della Rocca, La fede e la guerra. Cappelani militari e preti-soldati (1915-1919), Studium, Roma 1980; Id., «Problemi e interpretazioni della storia dei cattolici italiani nella prima guerra mondiale», in Rassegna storica del Risorgimento, 73 (1986\3) 307-334; Id., «Benedetto XV e la sacralizzazione della prima guerra mondiale», in M. Franzinelli – R. Borroni (edd.), Chiesa e guerra. Dalla “Benedizione della armi” alla Pacem in terris”, il Mulino, Bologna 2005, 165-181; J.F. Pollard, Il papa sconosciuto. Benedetto XV (1914-1922) e la ricerca della pace, San Paolo, Cinisello Balsamo 2001; G. Rossini (ed.), Benedetto XV, i cattolici e la prima guerra mondiale, Atti del Convegno di Studio tenuto a Spoleto nei giorni 7-9 settembre 1962, Edizioni 5 Lune, Roma 1963; G. Rumi (ed.), Benedetto XV e la pace – 1918, Morcelliana, Brescia 1990; S. Tanzarella, «Inchiostro menzognero. Agostino Gemelli, la I guerra mondiale e la catechesi del cannone», in Id. (ed.), Il pericoloso mestiere dello storico. L’uso pubblico della storia del cristianesimo del XX secolo, il pozzo di Giacobbe, Trapani 2013; G. Vian, «Benedetto XV e la denuncia dell’ “inutile strage”», in M. Isnenghi – D. Ceschin (edd.), La Grande Guerra: dall’Intervento alla “vittoria mutilata”, in Gli italiani in Guerra. Conflitti, identità, memorie dal Risorgimento ai nostri giorni, III\2, Utet, Torino 2008, 736-743; R. Vivarelli, «I cattolici italiani e la guerra», in Luigi Sturzo nella storia d’Italia, II, Storia e Letteratura, Roma 1973; M. Tagliaferri, L’Unità Cattolica. Studio di una mentalità, Roma 1993.


LEMMARIO




Proprietà ecclesiastica - vol. II


Autore: Fiorenzo Landi

La nascita dello Stato unitario coincide con due avvenimenti che segnarono in maniera radicale la vicenda della proprietà ecclesiastica. Da una parte scomparve lo Stato temporale della Chiesa e dall’altra avvenne l’ultima confisca della proprietà ecclesiastica. Le drammatiche difficoltà economiche dello Stato italiano determinate dai costi delle guerre d’indipendenza e dalle esigenze del nuovo apparato istituzionale, furono superate attraverso la confisca dei beni del clero. Dopo le soppressioni settecentesche e quelle napoleoniche, durante la Restaurazione, la Chiesa cattolica aveva ripristinato gran parte del proprio patrimonio immobiliare. Ma dal 1866 all’incirca 2 milioni di ettari di terra e una grande quantità di immobili furono ancora una volta confiscati e messi sul mercato. Gran parte degli immobili diventarono le scuole, i tribunali, le sedi delle istituzioni del nuovo Stato. Mentre il debito ormai insostenibile di sei milioni e mezzo di lire dello Stato fu almeno in parte ripianato con la requisizione e la messa in vendita di un capitale di oltre nove milioni di lire. In questo modo paradossalmente la Chiesa diede un contributo decisivo, anche se del tutto involontario, alla riuscita dell’unificazione nazionale, ma questa esperienza traumatica determinò un cambiamento radicale di strategie economiche.

Infatti, i primi decenni post unitari furono dominati dal timore diffuso e persistente che si verificasse l’ennesima ulteriore confisca dei beni rimasti o riacquistati e tutto questo determinò la ricerca affannosa di strumenti che fossero in grado di impedirne il successo. Le diverse ondate di confische subite dalla Chiesa in Italia e negli altri paesi cattolici erano state rese agevoli dalla natura immobiliare del patrimonio ecclesiastico. La proprietà terriera e gli immobili urbani, che erano la fonte essenziale della rendita, si potevano individuare senza alcuna difficoltà attraverso i catasti e confiscare con un semplice atto amministrativo. Perciò la Chiesa modificò la sua strategia: da una parte cercò di inserirsi nelle ambiguità della legge del 1866 sulle soppressioni per cogliere le possibilità di limitare le restrizioni normative fissate per le istituzioni “religiose” e dall’altro intensificò il trasferimento degli investimenti dal settore immobiliare a quello finanziario, agevolata in questa scelta anche dalla sua dimensione transnazionale. Nel primo caso agì su due fronti: cercò di salvare dalla soppressione il maggior numero possibile di istituzioni religiose che svolgevano attività sociali e, in secondo luogo utilizzò tutti gli strumenti legali per consolidare e allargare  i diritti giuridici della Chiesa come ente proprietario. In effetti l’attenzione della Chiesa verso gli investimenti finanziari godeva di una lunga tradizione consolidata soprattutto nell’ambito del clero regolare, ma il settore mobiliare era stato considerato sempre più un completamento e un’occasione di diversificazione degli investimenti, che un obiettivo strategico primario.

La smaterializzazione della ricchezza e la naturale globalizzazione della istituzione ecclesiastica resero molto meno vulnerabili gli interessi economici della Chiesa, anche se l’ingresso nella opacità delle transazioni finanziarie la espose, da allora in poi, ai rischi e agli inconvenienti di un’economia in gran parte autonoma da preoccupazioni etiche.

Il concordato del 1929 e il successivo aggiornamento del 1984 con l’introduzione del finanziamento della chiesa attraverso l’8 per mille, hanno comportato un definitivo assestamento delle attività economiche della Chiesa, introducendo un meccanismo di compartecipazione di massa aiutato da su una sorta di silenzio assenso dei contribuenti, ma non ha modificato l’orientamento verso investimenti e impieghi di risorse di carattere finanziario, più che immobiliare.

Si può comunque sottolineare che, dal punto di vista del monitoraggio della proprietà ecclesiastica e della relativa tassazione, l’ambiguità delle norme concordatarie nella definizione della funzione e dell’uso degli immobili e la difficoltà di accesso alle fonti dirette, creano difficoltà oggettive e a volte insormontabili nella ricostruzione della dinamica della proprietà ecclesiastica a livello nazionale e internazionale. Tanto che, per il periodo che va dalla Unificazione a oggi, almeno per l’Italia, non esistono contributi di storia economica che siano in grado di definire vicende e protagonisti dei nuovi sistemi di accumulazione e di utilizzazione delle risorse finanziarie della Chiesa cattolica nel suo insieme.

Dal punto di vista dell’esperienza religiosa la trasformazione radicale del rapporto tra Chiesa e proprietà ha cambiato profondamente atteggiamenti e sensibilità individuali e collettive. Il sistema dell’autofinanziamento delle iniziative di rilevanza sociale ha continuato ad essere legato all’utilizzazione di lasciti e donazioni , ma l’obiettivo è stato ridefinito sulla base di obiettivi di carattere umanitario e di promozione sociale oltre che religioso .Questo è avvenuto, in particolare, attraverso il volontariato e la rete capillare di istituzioni religiose e di apostolato laico che svolgono un ruolo di assistenza religiosa e sociale nei confronti di categorie e di bisogni che restano fuori dalle tutele dello Stato laico.

Fonti e Bibl. essenziale

Sulla proprietà ecclesiastica in Italia negli anni dell’unificazione nazionale: G. Montroni, Società e mercato della terra, Napoli 1983 A. Bogge e M. Sibona, La vendita dell’Asse ecclesiastico in Piemonte dal 1867 al 1916, Milano, 1987; S. Cucinotta, Sicilia e siciliani: dalle riforme borboniche al “Rivolgimento” piemontese: soppressioni, Messina 1996.Sulla riconversione delle strategie della proprietà ecclesiastica volte a evitare confische G. Rocca, Le strategie anticonfisca degli istituti religiosi in Italia dall’Unità al concordato del 1929:appunti per una storia, in R. Di Pietra – F. Landi, Clero, economia e contabilità in Europa, Roma 2006. Sulle finanze papali J.F. Pollard, L’ obolo di Pietro. Le finanze del papato moderno: 1850-1950, Milano 2006.


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Protestantesimo - vol. II


Autore: Stefano Cavallotto

Nella seconda metà dell’Ottocento giungono in Italia le missioni battiste e metodiste, inglesi e americane, che trovano terreno fertile soprattutto fra gli strati popolari, e agli inizi del Novecento per iniziativa dell’italo-americano Giacomo Lombardi (†1934) si espande specialmente nel Mezzogiorno agricolo il movimento pentecostale; un movimento destinato a svilupparsi rapidamente soprattutto dopo la seconda guerra mondiale, costituendo oggi in Italia la comunità evangelica più nutrita. Le chiese pentecostali più importanti numericamente troveranno una casa comune nelle «Assemblee di Dio in Italia», riconosciute dalla Stato italiano nel 1988 con l’approvazione della stipula dell’Intesa. Occorre ricordare pure l’azione coraggiosa della Società biblica inglese che a partire dai primi decenni dell’Ottocento a costo di enormi difficoltà e sacrifici opera per la diffusione della bibbia in volgare, dando così un importante contributo all’evangelismo italiano. La svolta ecumenica del protestantesimo missionario europeo degli inizi del ‘900 incoraggia diverse chiese evangeliche presenti in Italia ad avviare un cammino di unificazione, che seppure lentamente e in modo parziale ottiene risultati importanti. Le chiese libere si uniscono alla chiesa metodista, e questa a sua volta, dopo una lunga consuetudine di buoni rapporti, raggiunge nel 1975-1979 la piena integrazione con la chiesa valdese in una comune struttura amministrativa (“Chiesa Evangelica Valdese-Unione delle Chiese Valdesi e Metodiste”) con un unico organo esecutivo (la “Tavola valdese”) e un Sinodo annuale “unito”. Anche i battisti intrattengono con valdesi e metodisti uno stretto dialogo che nel 1990 porta al riconoscimento tra Chiesa Evangelica Valdese e l’Unione Cristiana Evangelica Battista d’Italia e ad una sempre più feconda collaborazione in molte iniziative di apostolato (pubblicazione del settimanale “Riforma”). Da questo processo di ricongiungimento si tengono lontani viceversa le «Assemblee dei Fratelli» e le chiese pentecostali, adducendo nei confronti di metodisti, valdesi e battisti riserve sul piano della teologia (la loro esegesi sarebbe eccessivamente sottomessa alla moderna critica biblica), dell’etica (sarebbero troppo politicizzati ed eccessivamente aperti nei confronti della società e della cultura moderna) e dell’ecumenismo (si porrebbero in maniera oltremodo irenica nei confronti della chiesa cattolico-romana).

Nel 1967 si costituisce a Milano la «Federazione delle Chiese Evangeliche in Italia», a cui aderiscono oggi quasi tutte le denominazioni protestanti storiche (valdese, luterana, riformata, battista e metodista) e il cui scopo, come afferma l’art. 2 dello Statuto, è di manifestare l’unità della fede e ricercare una comune linea di testimonianza, fondata sullo studio della Parola di Dio, vigilando ad un tempo sul rispetto dell’esercizio dei diritti di libertà in ambito religioso, promuovendo la conoscenza delle chiese evangeliche e “l’attività di istruzione ed educazione” e svolgendo assistenza a favore degli svantaggiati, dei rifugiati e dei migranti. Il protestantesimo italiano conta oggi un numero di fedeli che oscilla tra 800.000 e un 1.000.000 e si suddivide in molteplici denominazioni, in cui la componente più numerosa è costituita dall’ “evangelicalismo” (70-80% dei protestanti italiani); una corrente, questa, che si distingue, certo, dai movimenti religiosi come il Mormonismo, la Scienza Cristiana, i Testimoni di Geova ecc., ma che prende le distanze anche dal protestantesimo storico, caratterizzandosi come conservatrice dal punto di vista teologico (avversa alla teologica accademica) e con una forte identità “evangelico-popolare”.

Occorre dire che, pur nella varietà delle posizioni in particolare sul piano ecclesiologico, sacramentale e liturgico, la maggior parte delle confessioni protestanti “storiche” si riconoscono unite nell’unico Simbolo niceno-costantinopolitano, oltre che nei tradizionali principi della Riforma: solus Christus, sola Scriptura, sola gratia, sola fide.

Le relazioni con la chiesa cattolica italiana di questa galassia di chiese evangeliche si istituzionalizzano in varie forme soprattutto a partire dal Concilio Vaticano II. E nel cammino ecumenico post-conciliare si inseriscono, oltre a normali collaborazioni tra cattolici e protestanti nei vari ambiti della cultura (ad es. il mensile “Confronti”) e dell’evangelizzazione (come la comune traduzione della Bibbia in lingua corrente, promossa dalla Società Biblica in Italia), periodici incontri ufficiali su problemi comuni tra il Segretariato per l’ecumenismo e il dialogo della C.E.I. e i vari organismi rappresentativi delle comunità evangeliche in Italia, i cui risultati sono confluiti anche in documenti importanti per la vita pastorale delle rispettive comunità, basti ricordare il Testo comune per un indirizzo pastorale dei matrimoni tra cattolici e valdesi o metodisti del 1997 e il suo Testo applicativo del 2000 o quello sullo stesso tema con i Battisti del 2009.

Fonti e Bibl. essenziale

Vedi la voce corrispondente al Vol. I


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Questione meridionale - vol. II


Autore: Gennaro Cassiani

L’espressione “questione meridionale” ebbe la sua prima formulazione nel 1873, ad opera del deputato radicale lombardo Antonio Billia.

All’inizio degli anni Settanta dell’Ottocento, la situazione socio-economica del Mezzogiorno che segnalava miseria, analfabetismo, criminalità, disuguaglianza, disoccupazione, corruzione dei costumi e difetto di infrastrutture s’impose come “questione”, ovvero come ricerca degli strumenti più idonei a portarla a soluzione e abbattere quella sorta di frontiera interna all’Italia unificata già misurata con il fenomeno del brigantaggio. Un florido dibattito su riviste, le inchieste private di Leopoldo Franchetti e Sidney Sonnino, quelle parlamentari coordinate da Romualdo Bonfadini, Stefano Jacini e Claudio Faina e numerose statistiche ministeriali misero a nudo le dimensioni del problema, favorendo la definitiva presa di coscienza collettiva che al riscatto e all’unificazione della patria non corrispondesse pari unificazione socioeconomica.

Rispetto alle cause della “questione meridionale”, l’impegno della critica più avvertita fu in primo luogo di liberare il campo dalle tesi peregrine che insistevano sulla connaturata infertilità dei suoli agricoli meridionali o che imputavano la depressa condizione del Sud all’eccessiva prolificità delle popolazioni locali o, ancora, che l’ascrivevano alla nativa feracità dei suoi abitanti. A seguire, l’indagine storica delle vicende politiche, economiche e sociali del Mezzogiorno saggiò con varietà di prospettive e di approdi interpretativi l’intreccio dei fattori responsabili del sottosviluppo di quelle regioni. Almeno nella prima fase, la chiave interpretativa della loro arretratezza venne rintracciata univocamente nei residui del sistema feudale, negli effetti del protratto malgoverno, specie borbonico. In breve, tuttavia, cominciarono a emergere anche le responsabilità della nuova Italia, incapace di risolvere gli antichi problemi del meridione e, al contempo, apportatrice di nuovi gravami al fragile tessuto socioeconomico di quelle aree del Paese.

Alla stagione del primo meridionalismo postunitario, nella quale si distinsero i contributi di Pasquale Villari e Leopoldo Franchetti, seguì quella assai più disillusa circa il ruolo equilibratore dello Stato liberale ben rappresentata dalle ricerche di Giustino Fortunato.

Con il nuovo secolo, si farà strada un nuovo meridionalismo caratterizzato da un afflato di rinnovamento politico in senso autonomistico (Luigi Sturzo, Gaetano Salvemini) e di emancipazione dal ritardo economico, ora di ispirazione liberista (Antonio De Viti De Marco), ora statalista e protezionista (Napoleone Colajanni e Francesco Saverio Nitti). Al definitivo superamento del meridionalismo postunitario contribuirono gli scritti di Antonio Gramsci, il quale lesse il ritardo del Sud attraverso il prisma della lotta di classe e all’interno di un progetto rivoluzionario. Non meno significativo concorso all’apertura della nuova stagione di studi conferirono i contributi del cattolico don Luigi Sturzo e del laico Guido Dorso, accomunati nella polemica contro il trasformismo, l’opportunismo e l’inerzia del ceto politico tradizionale che aveva vanificato le speranze di emancipazione socioeconomica, civile e culturale del Mezzogiorno.

Con il secondo dopoguerra e l’avvio del corso democratico, gli studi meridionalistici si alimentarono della speranza, coltivata tanto dagli intellettuali di sinistra quando da quelli laici, che il sollevamento delle condizioni del Sud, sensibilmente peggiorate durante ventennio fascista, potesse maturare nel quadro del processo di ricostruzione del Paese uscito dal disastro bellico. Agli argomenti del meridionalismo classico (riforma agraria, lotta all’analfabetismo, bonifica delle terre malariche, scorporo del latifondo), vennero affiancandosi nuove istanze incentrate sul ruolo di sostegno e di stimolo dello Stato in funzione dello sviluppo del Mezzogiorno. Il tema della riforma agraria si impose con forza come nodo decisivo della “questione meridionale”.

La legge stralcio n° 841 e la nascita della Cassa del Mezzogiorno (1950) conferirono stimolo al lavorio storiografico. Altro impulso esso ricevette dalle sensibili trasformazioni intervenute nell’economia e nella società italiana nel corso del decennio 1950-60. A seguire, in seno al cantiere della ricerca meridionalistica si sono fatte strada novità di rilievo come lo spostamento della prospettiva di indagine dalle campagne alle città e la dilatazione dei termini cronologici ereditati dalla tradizione degli studi. Non è poi mancata, oltre alla problematizzazione di molte tesi consolidate, la rimodulazione della “questione meridionale” sui tempi lunghi della storia socio-econonomica e del territorio e in relazione al tema dello sviluppo dello stesso Mezzogiorno e di altre regioni europee.

Le prime risonanti prese di posizione dei presuli meridionali rispetto alla condizione di arretratezza del Sud si ebbero da parte dei presuli pugliesi (27-28 aprile 1944) e della Calabria (19 giugno 1945). Risale invece al 25 gennaio 1948 la lettera collettiva dell’episcopato meridionale (non firmata però dai vescovi siciliani) su I problemi del Mezzogiorno, distesa dal vescovo di Reggio Calabria Antonio Lanza.

Ispirato dalla dottrina sociale della Chiesa e dalla lezione dei meridionalisti otto-novecenteschi, ai quali si doveva l’identificazione della “questione meridionale” con una questione agraria (immediato riferimento della lettera su I problemi del Mezzogiorno fu non a caso la XXI Settimana sociale dei cattolici tenuta a Napoli, nel settembre del 1947, con in tema I problemi della terra e del lavoro nella dottrina della Chiesa), il documento del 1948 traspira viva preoccupazione per la persistente condizione di miseria di larghi strati popolari; per la precarietà di vita del bracciantato; per i bassissimi livelli di reddito dei coloni e l’iniquità di talune forme contrattuali; per l’insufficienza delle strutture economiche e i gravi problemi connessi al persistere del latifondo.

La lucida analisi dei presuli, di timbro sociale e insieme pastorale, non si limitò a richiamare i doveri dello Stato. Sollecitò altresì l’impegno dei cattolici e l’iniziativa privata, l’associazione dei lavoratori e la cooperazione. Nel concerto delle speranze indotte dalla riforma agraria e dall’avvio delle nuove politiche per il Mezzogiorno, i vescovi lucani e pugliesi, con l’intento di dare concreta attuazione alla pastorale collettiva del 1948, fondarono nel 1952 la Charitas socialis, una sorta di comitato votato all’assistenza socio-religiosa delle popolazioni. Nel complesso, la lettera del 1948 mancò di avere un impatto decisivo sulla realtà ecclesiale meridionale. In ciò si è riconosciuto il segno dell’insuccesso delle istanze sociali più aperte e democratiche durante la fase finale del pontificato di Pio XII, allorché si puntò piuttosto sulla modernizzazione di morfologie devote tradizionali mentre, di concerto al “miracolo economico italiano”, anche la società del Sud avviava la sua profonda trasformazione.

Dalla fine degli anni Sessanta e durante il corso del decennio successivo, più vescovi del Sud tornarono sulla questione sociale nel Mezzogiorno che, all’epoca, conosceva un vasto fenomeno migratorio verso il Nord del Paese e così pure una grave crisi del settore agricolo.

Sull’onda del Vaticano II, il filo interrotto della discussione avviata nel 1948 venne ripreso. Nel 1969, alcuni vescovi, in margine alla quarta assemblea generale della Cei, ricordando il ventesimo anniversario della lettera del 1948, rilanciarono la questione sociale meridionale. Il documento fu approvato all’unanimità dall’assemblea, ma non ebbe un vero seguito.

Nel 1972, in seno all’episcopato pugliese, si fece strada l’idea di celebrare il 25° della lettera del 1948 mediante un nuovo testo. Il progetto venne fatto proprio dalla presidenza della Cei, ma l’atteso pronunciamento dell’intero episcopato italiano venne infine a mancare. Frattanto, l’arcivescovo allora di Potenza e Marsico Aurelio Sorrentino, nella propria lettera pastorale del 19 ottobre 1973, denunciò la “questione meridionale” come un’emergenza dell’intero Paese. Sollecitando una riflessione sulla consapevolezza ecclesiale dell’acutezza del problema, Sorrentino rilanciò altresì il tema della maturazione della coscienza nazionale della Chiesa italiana avvenuta con una leadership settentrionale che, almeno fino al concilio Vaticano II, aveva egemonizzato il personale ecclesiastico, i paradigmi pastorali, le forme organizzative laicali e finanche i modelli di santità del Mezzogiorno. Lo stesso Sorrentino, passato alla guida della diocesi di Reggio Calabria, tornerà in più occasioni sulla cosiddetta “questione meridionale ecclesiale”. Al tempo stesso, si moltiplicarono gli interventi di altri presuli (come monsignor Guglielmo Motolese, vescovo di Taranto) e di conferenze episcopali regionali come quelle dell’Abruzzo e della Sicilia, della Lucania e della Calabria.

Nel 1976, nel corso del primo convegno ecclesiale nazionale Evangelizzazione e promozione umana, la questione del Mezzogiorno si impose nei dibattiti, pur non trovando spazio nelle relazioni. L’attuazione del concilio Vaticano II ispirava un nuovo modello pastorale fungibile sul piano nazionale: un modello pastorale meridionale incentrato sulla parrocchia, come comunità ministeriale e missionaria, e su un’istanza di liberazione dalla cultura padronale e da quella mafiosa. All’avvio degli anni Ottanta, aperti dal tragico evento tellurico in Campania e in Basilicata, siffatto modello pastorale riscosse un effettivo ascolto su larga scala. Ebbe risonanza, nel 1985, nella cornice del convegno ecclesiale di Loreto dedicato al tema Riconciliazione cristiana e comunità degli uomini e concorse all’approvazione da parte di tutti i vescovi italiani del primo documento organico della Cei sul Mezzogiorno, intitolato Chiesa italiana e Mezzogiorno. Sviluppo nella solidarietà ed edito il 18 ottobre 1989. Ivi l’episcopato, misurandosi in forma corale con la “questione meridionale” (che Giovanni Paolo II, sin dal discorso ai vescovi campani del 21 novembre 1981, aveva posto al centro del suo magistero), ne colse le matrici nelle perduranti distorsioni vigenti in seno ai processi economici e all’esercizio dei poteri politici locali. Vibrante fu inoltre la denuncia del fenomeno della criminalità organizzata.

A valle della profonda trasformazione, non priva però di elementi vischiosità, di tendenze trasformistiche e anche di derive localistiche ed etniciste, maturata in seno al sistema politico italiano nel corso degli anni Novanta del Novecento, si è fatto strada un diffuso sentimento della necessità di un cambio di passo nella pastorale della Chiesa italiana e quest’ultimo ha riportato l’attenzione alla questione del Mezzogiorno. Ne è espressione, nel 2010, il documento della Cei intitolato Per un Paese solidale. Chiesa italiana e Mezzogiorno, frutto dell’incontro di studio di Napoli, nel 2009, nel ventennale di Chiesa italiana e Mezzogiorno. Sviluppo nella solidarietà.

Fonti e Bibl. essenziale

Si segnalano con ulteriori richiami: S. Tramontin, Ad un trentennio dalla lettera collettiva dell’episcopato meridionale (1948): riflessione sugli aspetti religiosi e pastorali, in Id., Società, religiosità e movimento cattolico in Italia meridionale, Roma 1977, 321-354; G. Galasso, Passato e presente del meridionalismo, Napoli, 1978; Il Sud nella storia d’Italia, a cura di R. Villari, Roma-Bari, 1984; M.L. Salvadori, Il mito del buongoverno. La questione meridionale da Cavour a Gramsci, Torino, 1989; P. Bevilacqua, Breve storia dell’Italia meridionale dall’Ottocento a oggi, Roma, 1993; A. Sorrentino, Esiste una questione meridionale in senso ecclesiale?, in P. Borzomati, La questione meridionale. Studi e testi, Torino, 1996, 197-203; P. Borzomati, Chiesa e società meridionale dalla Restaurazione al secondo dopoguerra, Roma, 1982; Id., La Chiesa nel Mezzogiorno dopo il 1948: progetti e vicende di un quarantennio, in La Chiesa e i problemi del Mezzogiorno. 1948-1988, a cura di P. Borzomati, D. Pizzuti, M. Giordano, Roma, 1988, 32-34; Id., La questione meridionale ecclesiale nel pontificato di Pio X, in Pio X e il suo tempo, Atti del Convegno (Treviso, 22-24 novembre 2000), a cura di G. La Bella, Bologna, 2003, 789-799; G. Rumi, Questione meridionale e questione settentrionale nella riflessione dei vescovi italiani, in La Chiesa e l’Italia. Per una storia dei loro rapporti negli ultimi due secoli, a cura di A. Acerbi, Milano, 2003, 423-432; R. Violi, La Chiesa e il Mezzogiorno, in L’Italia repubblicana nella crisi degli anni Settanta, II, Culture, nuovi soggetti, identità, a cura di F. Lussana e G. Marramao, Soveria Mannelli, 2003, 497-520; G.M. Viscardi, Tra Europa e “Indie di quaggiù”. Chiesa, religiosità e cultura popolare nel Mezzogiorno: secoli XV-XIX, Roma, 2005, 24-30; F. De Giorgi, La questione del “Mezzogiorno”: società e potere, in Cristiani d’Italia. Chiese, società, Stato, 1861-2011, direz. scient. di A. Melloni, Roma, 2011, 551-562; V. De Marco, La Chiesa italiana tra fine Ottocento ed avvento del fascismo, in Chiesa del Nord e Chiesa del Sud a confronto. Le diocesi di Mantova e Potenza e il vescovo Augusto Bertazzoni (1930-1966), Atti del Convegno nazionale di studio (Potenza, 13-14 maggio 2011), a cura di G. Messina e G. D’Andrea, Galatina, 2013, 21-39; Id., Vescovi del Sud per i problemi del Sud nel secondo dopoguerra, in Società, politica e religione in Basilicata nel secondo dopoguerra. Il contributo dei fratelli Rocco e mons. Angelo Mazzarone di Tricarico, Atti del Convegno di studio (Matera-Tricarico, 25-26 settembre 2009), a cura di A. Cestaro e C. Biscaglia, Galatina, 2013, 119-149.


LEMMARIO




Questione romana - vol. II


Autore: Andrea Ciampani

Nel corso del XIX secolo la proposta politica di porre Roma capitale dello Stato nazionale italiano come compimento del Risorgimento, in concomitanza o in sostituzione della sovranità che in essa vi esercitava il papa governando la Chiesa universale e lo Stato pontificio, provocò nell’opinione pubblica europea un vasto dibattito dai molteplici profili e il formarsi di numerosi orientamenti per conseguire gli obiettivi delineati. Nel suo insieme, tale vasto movimento di idee e di conflitti in ordine al potere temporale della Chiesa e alle soluzioni prospettate per conseguire l’unificazione italiana viene sinteticamente richiamato come “questione romana”. Per comprenderne le dinamiche costitutive, dunque, occorre considerare non solo le problematiche giuridiche e diplomatiche relative ai rapporti tra la S. Sede e gli Stati, ma anche i percorsi interni al governo della Chiesa e le culture politiche che si affermarono nell’Europa dell’Ottocento.

Processi storici di lungo respiro hanno lasciato tracce sulla formazione della questione romana, come eredità del confronto tra Papato e Stati nazionali nella “prima modernità”. Le sue radici, tuttavia, vanno rintracciate nel periodo storico in cui, muovendo dalla fine dell’avventura napoleonica attraverso la Restaurazione, prende forma la drammatica crisi risorgimentale del 1849 e le sue ripercussioni sul cattolicesimo politico italiano. La questione romana, peraltro, assume i suoi tratti distintivi soltanto negli anni successivi, durante due fasi principali che si caratterizzano per un singolare rovesciamento di significato: se dal 1861 l’espressione riguarda propriamente le iniziative per “congiungere” Roma al Regno d’Italia, dopo il 1870 essa si riferisce alla rivendicazione d’indipendenza del governo pontificio in Roma capitale italiana e alla possibilità di assicurargli nella Città eterna una pur ridotta sovranità territoriale.

La Chiesa cattolica e le classi dirigenti nazionali erano ben consapevoli della complessa trama che compose fin dall’inizio la questione romana. Al suo interno, infatti, era possibile individuare tre profili principali, distinti ma interdipendenti: la “questione pontificia”, relativa alla posizione della S. Sede e della sovranità del papa nel sistema internazionale; la “questione di Roma”, connessa all’esercizio della libertà del papa (e del suo magistero universale) nella capitale del regno d’Italia; la “questione cattolica”, legata alla politica ecclesiastica del governo italiano e allo sviluppo del movimento cattolico nella vita amministrativa e politica italiana.

La “protesta” pontificia, peraltro, puntò presto al sostegno delle popolazioni cattoliche piuttosto che all’intervento militare o diplomatico delle Potenze europee; dopo il 1882, nei governi italiani essa venne progressivamente considerata un problema di politica interna, piuttosto che di politica estera. I tentativi di sciogliere la questione romana in una prospettiva bilaterale, che si avviarono negli anni successivi a più riprese e con diversa intensità, incontrarono gravi ostacoli nell’articolata lotta politica italiana e nell’evoluzione del movimento sociale cattolico. Ancora nel 1919 non fu possibile concretizzare accordi come quelli che posero fine alla questione romana con la stipula dei Patti Lateranensi nel 1929, richiamati nella Costituzione della Repubblica italiana nel 1948.

Per comprendere i differenti nodi dell’inserzione della questione romana nella storia della Chiesa in Italia, dunque, è opportuno ripercorrere i passaggi principali della sua parabola, dal suo punto d’avvio nel XIX secolo attraverso le sue due fasi principali, fino al suo esaurimento novecentesco.

In effetti gli “Stati romani” durante la Restaurazione non erano usciti dalla debolezza politica seguenti al trattato di Tolentino del 1797 e all’abolizione del dominio temporale per le armi francesi nel 1798 e nel 1809. La “Santa Alleanza” tra il cattolico Impero austriaco, l’ortodosso l’Impero russo e il protestante regno di Prussia fin dal 1814 evidenziava le gravi difficoltà della S. Sede nel contesto internazionale. Per preservare la sua integrità statuale e ribadire la sua indipendenza, nel 1821 la S. Sede invano giunse a dissociarsi, unico Stato della penisola, dall’intervento militare austriaco rivolto a reprimere nel Regno delle Due Sicilie le libertà costituzionali. Nel momento di avvio del Risorgimento, dunque, lo Stato della Chiesa appariva una realtà sotto tutela della diplomazia internazionale. Nel 1831, quando i moti carbonari si estesero ai territori pontifici della Romagna, delle Marche e all’Umbria, sostenuti da ambienti borghesi desiderosi di una maggiore partecipazione al governo civile, una conferenza delle Potenze europee delineò un Memorandum sulle riforme da farsi nel governo pontificio, mentre truppe austriache occupavano le Legazioni e armi francesi Ancona. Fu in tale contesto che, negli anni Trenta, il destino Roma assunse nell’elaborazione mazziniana una centrale dimensione simbolica; d’altra parte, tra le élites cattoliche che partecipavano al dibattito pubblico sulla nazione italiana, personalità come Rosmini e Gioberti, Manzoni e D’Azeglio, invitavano il moderatismo italiano a coniugare causa nazionale e centralità del papato, aprendo un confronto sul cattolicesimo liberale e sulle teorie del neoguelfismo. Aspetti politici e culturali, così, favorirono l’orientamento vaticano, ancora sotto Gregorio XVI, a una maggiore distinzione tra la gestione dei domini temporali del pontefice e il governo della Chiesa universale.

Con l’elezione di Pio IX, comunque, alcune moderate riforme nello Stato pontificio apparvero all’opinione pubblica italiana testimonianza di una possibile connessione tra la volontà di rafforzamento politico-diplomatico dello Stato pontificio e le aspirazioni nazional-costituzionali. La creazione della Consulta di Stato e le trattative per la Lega doganale nell’autunno 1847, così, precorsero i moti risorgimentali dell’inverno seguente negli Stati italiani e la concessione dello “Statuto fondamentale pel Governo temporale degli Stati di Santa Chiesa” nel marzo 1848. Il papato, tuttavia, non intendeva condurre il suo Stato in guerre nazionali, che avrebbero anche facilitato una ripresa di quelle spinte verso l’affermarsi di chiese nazionali che da tempo contrastava. Mentre si minacciava uno scisma nei territori asburgici, l’allocuzione del 29 aprile 1848 espresse la volontà pontificia di astenersi dal partecipare alla guerra d’indipendenza avviata dal Regno di Sardegna. Ciò non impedì a Pio IX di esplorare le vie di un governo laico e moderato per il proprio Stato, chiamando a governarlo figure come Terenzio Mamiani e Pellegrino Rossi, giurista di fama europea.

Proprio l’assassinio politico del Rossi, il 15 novembre 1848, costituì un cruciale crinale; presero forma, da allora, le dinamiche fondamentali della “questione romana”, che si delinearono nel decennio seguente e si imposero negli anni Sessanta. Rifugiatosi il papa a Gaeta, nel 1849 fu proclamata la Repubblica romana e la decadenza del potere temporale; Pio IX poté tornare a Roma solo grazie alla vittoria delle armi della Repubblica francese sulla resistenza garibaldina. Ancora una volta le Potenze europee sembravano consentire l’esistenza di quella sovranità temporale in cui il pontefice ricercava garanzie d’indipendenza per il suo governo spirituale. Il papa, d’altra parte, era ormai disilluso circa il percorso politico della pubblica opinione romana collegata alle élites liberal-nazionali. Fallito il progetto dell’unione delle “piccole patrie”, il movimento risorgimentale si presentava polarizzato tra la componente democratica-insurrezionale e quella liberal-costituzionale facente capo al Regno di Sardegna. E mentre la prima si proclamava garante della libertà spirituale del papa una volta abbattuta la sua sovranità temporale, il governo sabaudo avviava al suo interno un conflittuale rapporto tra Chiesa e Stato che condusse alle leggi Siccardi e alla rottura delle relazioni diplomatica con la S. Sede.

La stessa politica estera del conte Cavour, volta a introdurre la questione italiana nella diplomazia internazionale, evidenziò le condizioni di instabilità della Stato pontificio al congresso di Parigi del 1856. Gli accordi negoziati a Plombières tra il presidente del Consiglio sabaudo e lo stesso Napoleone III, che allora proteggeva con le sue armi i domini pontifici, prevedevano nel 1858 una spartizione dello Stato Pontificio, ridotto al solo territorio romano. Allo scoppio della II Guerra d’indipendenza nel 1859 il cardinal Antonelli invano dichiarò la neutralità dello Stato pontificio, ricordando il “suo speciale carattere”; l’esito della campagna militare franco – piemontese provocò la sollevazione e l’annessione delle Romagne al regno di Sardegna, tollerata dall’imperatore francese in cambio dei territori di Nizza e della Savoia. Mentre poi la spedizione dei Mille conduceva Garibaldi a Napoli, minacciando un conflitto con la Francia per occupare Roma, l’esercito di Vittorio Emanuele II penetrava nei territori pontifici dell’Italia centrale e occupandoli li annetteva allo Stato sabaudo nel novembre 1860.

Con la nascita del regno d’Italia nel marzo 1861, dunque, la situazione del “giardino” del papa (come l’imperatore francese chiamava Roma e il suo territorio) entrava nel dibattito politico del nuovo Stato accompagnata dalle proteste vaticane per l’usurpazione dei territori pontifici e per i permanenti conflitti di politica ecclesiastica con la monarchia sabauda. Nel nuovo parlamento nazionale, intanto, si poneva il tema della rappresentanza politica di un popolazione italiana che si dichiarava nel suo complesso cattolica, come emerse anche dal censimento del 1861. Le stesse classi dirigenti cattoliche, di fronte all’accelerato processo di unificazione, manifestavano una pluralità di opzioni sul piano dell’agire politico, impegnate ugualmente a non essere escluse dalla guida nazionale e a mantenersi fedeli al magistero pontificio. Di tali dinamiche erano consapevoli tanto il governo italiano, quanto la curia romana.

Cavour nel marzo 1861 pose solennemente nell’agenda politica la necessità di Roma capitale d’Italia: riconoscendo il valore simbolico di tale affermazione, egli fronteggiò tanto le resistenze degli “antiromani” per superare le gelosie municipali, quanto l’opposizione radicale che chiedeva la fine del dominio temporale. Mentre lavorava all’affermazione politica della formula «libera Chiesa in libero Stato», Cavour ebbe contatti informali con il Vaticano, tramite Diomede Pantaleoni e Carlo Passaglia, ricercando una composizione della “questione romana” che assicurasse indipendenza al papa e libertà alla Chiesa entro i limiti della sovranità dello Stato. Egli comprendeva, del resto, l’interesse degli Stati europei al riconoscimento di una sovranità pontificia perché i cattolici non obbedissero a un papa suddito di un’altra Potenza. La trattativa allora condotta non giunse in porto. In Vaticano, comunque, a fronte alla “mutabilità” della vita politica degli Stati, si stava affermando una sempre maggiore attenzione per i riflessi socio-politici dell’orientamento religioso dei loro popoli, alla cui mobilitazione affidare la protesta pontificia. In tal senso, la S. Sede si avviava ad evidenziare anche nella vita pubblica italiana le implicazioni morali dell’azione dei fedeli cattolici, promuovendone l’associazionismo ed evitando di aumentare il solco tra coscienza nazionale e coscienza religiosa. Occorreva, dunque, misurarsi con la → modernità, chiamata a riconciliarsi con la Chiesa, facendo leva sulla società civile piuttosto che su quella politica.

Dopo la morte di Cavour, i governi italiani sembrarono abbandonare la sua impostazione politica e andare oltre il principio della separazione dei poteri, quasi attribuendo ai propri atti l’avvio di un processo riformatore nella Chiesa. Nel 1862, tuttavia, l’esercito regio fu costretto ad arrestare Garibaldi in Aspromonte, impedendogli di marciare su Roma e scontrarsi con le truppe della Francia, alleata del giovane Stato italiano. Nello stesso anno, peraltro, l’allocuzione pontificia Maxima quidem laetitia confermava il principato civile della S. Sede come necessario al papa per il libero governo della Chiesa universale e condannava la politica ecclesiastica italiana, che si era spinta a impedire ad alcuni vescovi italiani di giungere a Roma. Ricordando tale episodio, l’assemblea dei cattolici belgi di Malines nel 1863, rilanciava la proposta della libertà della Chiesa fondata sulle libertà pubbliche, che richiamò la critica attenzione vaticana. In tale contesto, nel dicembre 1864 giunse la pubblicazione del Sillabo, che definiva gli ambiti filosofici, culturali e politici delle tesi liberali da condannare e riaffermava la potestà pontificia sull’indirizzo morale dei cattolici nel confronto con potere dello Stato moderno. Si rinnovavano, così, antiche frizioni con le Potenze europee; l’incerto orientamento della diplomazia internazionale circa il destino dello Stato pontificio, del resto, appariva confermata dalla firma della Convenzione italo-francese del settembre 1864, che prevedeva l’allontanamento delle truppe di Napoleone III da Roma per il contemporaneo impegno dei Savoia a impedire qualsiasi attacco al territorio pontificio, cui seguì lo spostamento della capitale italiana da Torino a Firenze.

Il dibattito sui rapporti tra società politica e Chiesa cattolica condusse il Vaticano ad affrontare nel 1864 la questione, sollevata da alcuni vescovi, sulla partecipazione dei cattolici italiani alle urne politiche; in tale contesto, fino all’autunno 1866 la curia romana ricordò “il dovere di fare tutto il possibile per impedire il male e promuovere il bene”. Il varo in Italia tra il 1866 e il 1867 delle leggi eversive dell’Asse ecclesiastico e la spedizione garibaldina nei domini pontifici, fermata a Mentana dal ritorno di un contingente francese a Roma, tuttavia, contribuirono a modificare scenario e valutazioni. Nel gennaio 1868, considerate le circostanze in cui si trovava allora la Chiesa nella Penisola, le congregazioni cardinalizie vaticane invitarono i cattolici italiani a non expedire la via politica. Questa formula era destinata ad assumere un più forte valore per gli avvenimenti seguenti. La guerra franco-prussiana, infatti, richiamò in patria le truppe francesi e offerse al governo italiano la possibilità considerare l’occupazione militare di Roma. Il → Concilio Vaticano I, apertosi nel 1869 senza la partecipazione delle Potenze cattoliche, giungeva a proclamare nell’estate 1870 l’infallibilità pontificia ex cathedra; la conquista di Roma da parte delle truppe italiane il 20 settembre 1870, dopo una simbolica, breve ma cruenta resistenza, ne interruppe lo svolgimento. Pio IX si ritirò nei Palazzi apostolici in Vaticano, nei quali si dichiarò “prigioniero” al corpo diplomatico della sua corte.

I “fatti compiuti” del 1870, condussero, così, a un rovesciamento della questione romana: era la S. Sede ora che protestava la mancanza di libertà e rivendicava una seppur ridotta sovranità in Roma. Il papa prendeva atto di una sorta di “apostasia” delle stesse Potenze, che non erano giunte in suo soccorso, e richiamava più risolutamente la solidarietà dei popoli cattolici. Anche per questa ragione, alcuni governi europei erano interessati a stabilizzare la Penisola attraverso una conciliazione tra moderatismo liberale e cattolicesimo. Le istituzioni politiche italiane, impegnate a radicarsi in Roma, del resto, ritennero prioritaria l’azione diplomatica per ridurre i rischi di instabilità del giovane Stato che potevano derivare dal conflitto con la S. Sede. In tale contesto, il parlamento italiano varò nel maggio 1871 la Legge delle Guarentigie; il carattere di concessione unilaterale dell’atto del Regno d’Italia, prima che le norme in essa stabilite (come l’attribuzione sovrana al papa di mantenere ed inviare ambasciatori senza una sovranità territoriale) non poteva essere accolto dalla S. Sede. Mentre erano aperti gravi contenziosi tra lo Stato e la Chiesa, come intorno all’exequatur regio o ai beni di Propaganda fide, nel settembre 1874 la Penitenzieria apostolica confermò l’invito ai cattolici a non expedire il voto politico. Peraltro, stava maturando un orientamento a superare immobilismo che sembrò caratterizzare l’iniziativa vaticana dopo il 20 settembre: la S. Sede compresse in Europa l’iniziativa politico-diplomatica di elitari gruppi di pressione cattolici riuniti e alimentò la mobilitazione sociale e religiosa del mondo cattolico, che spesso assunse un carattere di intransigente sostegno del pontefice. Mentre in Italia si promosse l’Opera dei congressi cattolici, dunque, già nel 1876 nella curia romana si prospettò un superamento del non expedit, lasciando cadere a poco a poco nella stampa lo slogan “né eletti né elettori”. Il Vaticano confidava ancora che i cattolici appartenenti ai gruppi dirigenti italiani potessero entrare come tali nella vita politica, posizionandosi sul versante moderato, ma distinguendosi dalle élites cattolico liberali.

Con l’elezione di Leone XIII per opera di un “centro cardinalizio” in grado di attrarre intorno al papa esponenti moderati degli schieramenti intransigente e transigente, si intensificarono le iniziative per sostenere l’impegno dell’opinione pubblica cattolica a fianco del pontefice e per affrontare i nodi che legavano la “questione di Roma” e la “questione cattolica”. Falliti nel 1879 primi contatti con la Destra liberale, che intendeva utilizzare come massa elettorale i cattolici organizzati per le elezioni amministrative, una prospettiva di riconciliazione sembrò maturare nei successivi governi del leader della Sinistra liberale, Agostino Depretis. Nel 1882, infatti, mentre questi guidava una “trasformazione dei partiti” per realizzare un’ampia maggioranza in parlamento con i moderati di Minghetti, in politica estera il suo governo condusse il Regno d’Italia all’interno di una Triplice Alleanza con gli imperi tedeschi e austriaci. Questo evento offrì una definitiva stabilità internazionale al regno e consentì un complessivo riesame della “questione pontificia” nella politica nazionale. La monarchia sabauda, peraltro, in apprensione per le iniziative repubblicane e le agitazioni sociali, rinnovava l’interesse a un riavvicinamento agli ambienti cattolici; anche nella prospettiva di sviluppo di una politica coloniale il governo italiano era ora interessato a sondare gli orientamenti vaticani.

Nello stesso tempo, mentre la S. Sede si riproponeva come forza morale nei rapporti internazionali e come fattore d’ordine sociale all’interno degli Stati, in Vaticano si riteneva un’illusione credere che sommosse o interventi militari stranieri nel Regno d’Italia potessero restituirle il dominio temporale. Nel 1882, così, si riavviò nella curia romana un dibattito sul ristabilimento della sovranità pontificia in Roma che, senza escludere la possibilità d’indirizzare atti diplomatici ai Governi, puntasse principalmente sul coinvolgimento dell’episcopato e delle associazioni cattoliche, sollecitati da pubblici pronunciamenti pontifici. Considerando il peculiare nesso che legava il papa alla città di cui è vescovo, la sua partenza da Roma era presa in considerazione solo in caso di attentati contro il pontefice o di impedimenti a comunicare con i pastori e con i fedeli. In effetti, la “minaccia” di lasciare la Città eterna, anche per la composizione degli organi collegiali costituiti per tale evenienza, aveva solo una valore di deterrenza ad un ulteriore inasprimento dei rapporti con lo Stato italiano. Senza abbandonare il profilo internazionale della questione romana, dunque, la S. Sede era orami interessata a predisporre il terreno per scioglierla nel confronto bilaterale con il Regno d’Italia. Nel 1882, così, in Vaticano maturò il disegno di affidare alla Penitenzieria apostolica o ai vescovi la possibilità di accordare dispense condizionate perché i cattolici italiani, “a lor grado e per fatto proprio”, potessero partecipare a promuovere il bene nelle elezioni politiche.

Nel convergere degli orientamenti maturati nella S. Sede e nel governo italiano a un reciproco sondaggio “la questione di Roma” diventò un primo terreno di verifica: nel 1883, infatti, venne consentita la presenza dei cattolici nel governo capitolino, a guida monarchico – costituzionale, ottenendo l’associazione elettorale cattolica dell’Unione romana un terzo degli eletti in Campiglio. Protratta fino al 1887, questa esperienza sembrò preparare il terreno a una proposta di conciliazione, che sembrò avvicinarsi nel primo semestre di quell’anno, perché cessato il “funesto dissidio” tra Italia e S. Sede, col riconoscimento di una pur piccola sovranità territoriale, si sciogliesse anche il problema di coscienza per l’elettore cattolico italiano. Nonostante i contatti del padre Tosti e dei fautori liberali di un “periodo di armistizio” per predisporre tale “pacificazione”, l’ingresso di Francesco Crispi al governo ostacolò il percorso avviato. L’enfasi anticlericale di Crispi, nominato presidente del Consiglio, travolse i primi cenni di riconciliazione tra Italia e S. Sede e condusse alla rimozione del sindaco di Roma nel dicembre 1887, simbolo degli equilibri fino allora raggiunti nella Capitale.

L’interruzione del percorso avviato negli anni Ottanta, accentuò la polemica sul contrapporsi di un Paese reale e un Paese “legale” in Italia, con rilevanti ricadute sull’evoluzione del → cattolicesimo politico. Il governo italiano intendeva limitarsi a negoziare con la S. Sede, come avveniva in altri Stati, qualche interesse religioso particolare, per minacciare o abrogare leggi ostili; il nodo tra Roma, l’Italia e la realtà delle cose, ricordato ancora nel 1889 dal conciliatorista vescovo di Cremona Geremia Bonomelli, tuttavia, non poteva essere sciolto senza affrontare la questione romana nel suo complesso. Accordi tra autorità civili e religiosa vennero ricercati nel 1894 dallo stesso Crispi, per conseguire determinati vantaggi in politica interna e nella politica coloniale; anche il conservatore conte Di Rudinì, che intendeva acquisire l’elettorato cattolico alla politica moderata, nel 1896 promosse contatti che non prevedevano risposte alle rivendicata sovranità del papa. Di fronte all’indisponibilità vaticana, che legava “questione pontificia” e “questione cattolica”, i governi liberali italiani accentuarono la politica repressiva nei confronti dell’associazionismo cattolico e della stampa intransigente, che toccò l’apice nel 1898, sviluppando anche iniziative volte a ridurre gli spazi d’azione della diplomazia della S. Sede, esclusa dalla Conferenza sulla pace dell’Aja nel 1899.

Proprio la crisi sociale e politica di fine secolo, comunque, impose un ripensamento alla politica del mondo liberale, così come la politicizzazione dell’azione sociale e la divisione tra i cattolici condusse la Chiesa in Italia a considerare diverse modalità per influire nella sfera pubblica (in cui vedeva prevalere una “secolarizzazione” che la separava da comportamenti della vita privata ancora ispirati alla morale cattolica). Si ripresero a percorrere i sentieri di preparazione di una pacificazione nazionale: il solenne Giubileo del 1900, svoltosi senza incidenti per i pellegrini, confermò quanto profondo fosse in Italia il nesso tra devozione religiosa e sentimento patriottico, rafforzato dopo l’assassinio del re Umberto I. Durante l’Italia giolittiana si sviluppò il movimento della democrazia cristiana, si organizzò l’Unione popolare, si favorì la partecipazione di personalità cattoliche nei governi locali con i liberali e talora in parlamento; tutti questi fenomeni evidenziavano l’orientamento del mondo cattolico a rafforzare lo Stato italiano ed orientarne l’evoluzione, in competizione con la cultura politica anticlericale e l’emergente proposta socialista. Nel pontificato di Pio X, ridimensionata la “questione di Roma” nella convivenza nella città del pontefice e delle istituzioni nazionali, la “questione pontificia” perse significato nella politica internazionale italiana e si collegò prevalentemente all’evoluzione degli equilibri di politica interna. In tale contesto si colloca l’impegno cattolico nazionale per la guerra di Libia nel 1911 e per il Patto Gentiloni del 1913, connesso alle prime elezioni a suffragio elettorale maschile.

L’entrata dell’Italia nella Guerra mondiale nel 1915 rinnovò sospetti e tensioni sul piano politico – diplomatico, per la neutralità della S. Sede e la condanna di Benedetto XV dell’ “inutile strage” nel 1917. Il drammatico svolgimento del conflitto, tuttavia, mentre rimotivava l’esigenza del governo di ottenere consensi allo sforzo bellico, evidenziò la religiosità delle popolazioni che affrontavano le sofferenza della guerra, affrontate anche con la presenza dei cappellani militari. Alla fine delle ostilità, dunque, i colloqui parigini tra il presidente del consiglio Vittorio Emanuele Orlando e mons. Bonaventura Cerretti nel 1919 delinearono i contorni di un negoziato per una sistemazione giuridica che riconoscesse una sia pur minima sovranità territoriale al pontefice, chiudendo la “questione pontificia” e contribuendo a riconciliare la società italiana. Le resistenze della monarchia e la caduta del governo impedirono l’approfondimento delle trattative.

Nonostante i rigurgiti anticlericali di parte del liberalismo italiano, esacerbato anche dai consensi elettorali del → Partito Popolare Italiano, non venne meno negli anni successivi l’aspirazione a una conciliazione tra S. Sede e governi italiani. Proprio la fine della “questione cattolica”, con la nascita del partito aconfessionale di don Luigi Sturzo, del resto, ora apriva complessi scenari sul ruolo di una autonoma responsabilità politica del laicato cattolico. In tale frangente si inserì la politica ecclesiastica dei governi italiani, dopo la “marcia su Roma” del 1922 guidati da Benito Mussolini, che contrastò il popolarismo democratico e ricercò contatti nel cattolicesimo conservatore. Distrutte le libertà politiche e sociali, il regime fascista da lui instaurato nel 1925 si trovò a misurarsi con l’influenza che nella vita italiana esercitava la Chiesa di Pio XI, anche tramite lo sviluppo organizzativo dell’Azione cattolica.

Alla ricerca di maggiori consensi al Fascismo sul piano nazionale e internazionale, nel 1926 Mussolini avviò ufficialmente con la S. Sede le trattative che si conclusero con la firma dei Patti Lateranensi dell’11 febbraio 1929. Gli accordi allora raggiunti prevedevano un Trattato (accompagnato da un Convenzione finanziaria) in cui l’Italia riconosceva la sovranità del papa sul costituito Stato della Città del Vaticano; con tale “Conciliazione” si chiudeva la “questione romana”. Contemporaneamente si siglava un Concordato circa le condizioni della religione e della Chiesa cattolica in Italia, col quale Mussolini confidava di ottenere l’adesione del cattolicesimo al Regime. A fronte del rispetto delle istituzioni nazionali da parte dei cattolici italiani, in realtà, il concordato servì alla Chiesa per affermare la sua presenza sul piano religioso-educativo, contrastando l’ambizione totalitaria del fascismo. Si alimentava, così, tra i cattolici una moralità alternativa alla cultura fascista, consentendo una formazione civile del laicato cattolico che manifestò la sua importanza alla ripresa delle libertà politiche dopo il 1943.

I Patti Lateranensi furono discussi dall’Assemblea costituente e esplicitamente richiamati nell’art.7 della Costituzione dell’Italia repubblicana nel regolare i rapporti tra lo Stato e la Chiesa, “ciascuno nel proprio ordine, indipendenti e sovrani”. Dopo il successo elettorale del 1948 che assegnò alla Democrazia cristiana il governo del Paese, le problematiche della conclusa questione romana venero spesso rilette e riconsiderate dai cattolici all’interno del dibattito pubblico e in quello politico dell’Italia repubblicana (il Concordato fu sottoposto, infine, a consensuale revisione nel 1984). Già alla vigilia del Concilio Vaticano II, l’allora cardinale Giovan Battista Montini prese la parola in Campidoglio il 10 ottobre 1962, per evidenziare come dopo il 1870 il papato avesse riprese “le sue funzioni di Maestro di vita e di testimonio del Vangelo, così da salire a tanta altezza nel governo spirituale della Chiesa e nell’irradiazione morale sul mondo come non mai.” Il tragico periodo della II Guerra mondiale, egli continuava, aveva messo a dura prova la “formula giuridica” della conciliazione del 1929, “mostrandone sì la validità, ma sotto alcuni aspetti i limiti ed i pericoli, e sotto altri la provvidenzialità che valse a Roma la salvezza”. Ora il Concilio avrebbe offerto “un nuovo collaudo di quella formula […] per quanto riguarda la possibilità del Papa di avere rapporti con la Chiesa e con il mondo […]; in altri termini, la sua indipendenza, la sua libertà, la sua funzionalità, che è quanto costituì il nucleo essenziale della questione romana.”

Fonti e Bibl. essenziale

F. Chabod, Storia della politica estera italiana dal 1870 al 1896, vol. I. Le premesse, Laterza, Bari, 1951; P. Pirri, Pio IX e Vittorio Emanuele II dal loro carteggio privato, II, La questione romana: 1856-1864, 1. Testo, Pontificia Università Gregoriana, Città del Vaticano, 1951; P. Pirri, Pio IX e Vittorio Emanuele II dal loro carteggio privato, II, La questione romana: dalla Convenzione di settembre alla caduta del potere temporale: 1864-1870. 1. Testo, Pontificia Università Gregoriana, Città del Vaticano, Roma 1961; AAVV, Chiesa e Stato nell’Ottocento, Antenore, Padova, 1962; R. Mori, La questione romana 1861-1865, Le Monnier, Firenze, 1963; F. Margiotta Broglio, Italia e S. Sede dalla Grande guerra alla Conciliazione, Laterza, Bari, 1966; R. Mori, Il tramonto del potere temporale 1866-1870, Edizioni di Storia e Letteratura, Roma, 1967; La fine del potere temporale e il ricongiungimento di Roma all’Italia. Atti del XLV convegno di storia del Risorgimento italiano (Roma 21-25 settembre 1970), Istituto per la storia del Risorgimento Italiano, Roma, 1972; F. Fonzi, Crispi e lo Stato di Milano, Giuffrè, Milano, 1972; Roma capitale, Istituto di Studi Romani, Roma, 1972; G.B. Varnier, Gli ultimi governi liberali e la questione romana: 1818-1922, A. Giuffrè, Milano, 1976; G. Dalla Torre, Il fattore religioso nella Costituzione, Giappichelli, Torino, 1988; G. Martina, Pio IX (1867- 1878), Editrice Pontificia Università Gregoriana, Roma, 1990; M. Casella, L’Azione cattolica nell’Italia contemporanea. 1919-1969, Roma AVE, 1992; C.M. Fiorentino, Chiesa e Stato a Roma negli anni della Destra storica, 1870-1876: il trasferimento della capitale e la soppressione delle Corporazioni religiose, Istituto per la storia del Risorgimento italiano, Roma, 1996; A. Ciampani, Cattolici e liberali durante la trasformazione dei partiti: la questione di Roma tra politica nazionale e progetti vaticani (1876-1883), Istituto per la storia del Risorgimento italiano, Roma, 2000; La grande riforma del Concordato, a cura di G. Acquaviva, Marsilio, Milano, 2006; R. Pertici, Chiesa e Stato in Italia. Dalla grande guerra al nuovo concordato, 1914 – 1984, Il Mulino, Bologna, 2009.


LEMMARIO




Questione sociale - vol. II


Autore: Andrea Ciampani

Nell’età contemporanea la “questione sociale” è stata suscitata dalla grande trasformazione socio-economica e politica collegata alla rivoluzione industriale e al conseguente processo d’industrializzazione che dalla Gran Bretagna si diffuse nel resto del mondo, con tempi e dinamiche differenti, tra la fine del XVIII secolo e la seconda metà del XX secolo. Durante la fase di avvio del capitalismo storico, infatti, alle nuove forme di produzione e di organizzazione del lavoro si accompagnò anche una peculiare posizione di subordinazione del lavoro dipendente; contemporaneamente, si affermarono forme di sfruttamento del proletariato creatosi nel passaggio dalla vita rurale a quella urbana e operaia. L’affermarsi nelle élites liberali di una visione economica–sociale che considerava il “lavoro” come merce, da ricondursi a una semplice variabile del costo del lavoro e ad uno degli elementi quantitativamente valutabili nella produzione, prescindendo dalla dignità della persona prestatrice d’opera e dal significato del suo apporto personale, accentuò il disequilibrio del potere sociale presente nei rapporti tra domanda e offerta di lavoro. Emerse progressivamente, così, un nuovo fenomeno sociale di disuguaglianza tra le classi borghesi e finanziarie, detentrici dei capitali e dei mezzi di produzione, ed i soggetti che vedevano la cessione delle loro energie fisiche e/o intellettuali ricompensata col minore salario possibile. In tale contesto si sviluppò, dunque, un movimento operaio e sociale di emancipazione materiale e culturale perché lavoratrici e lavoratori potessero uscire da condizioni di miseria e di degradazione individuale e familiare, in cui si sperimentava la precarietà della vita umana mercificata. Il formarsi di una “questione sociale”, perciò, trova alimento tanto nella cultura del lavoro della società contemporanea quanto nella struttura economica produttiva dei suoi processi di sviluppo.

Il diffondersi della rivoluzione industriale tra Ottocento e Novecento, inoltre, era accompagnato dal simultaneo affermarsi delle rivoluzioni politiche che rivendicarono le libertà costituzionali e la cittadinanza democratica. Nella prima metà del XIX secolo, peraltro, apparve evidente che l’esperienza di marginalità delle sempre più numerose classi lavoratrici coinvolte nel mutamento produttivo e sociale non trovava adeguata via di superamento all’interno del liberalismo politico che si sviluppava in tale periodo. Si promossero, così, importanti iniziative di riformismo sociale, concepite anche dai governi per ridurre od evitare il conflitto sociale, e rilevanti movimenti politici alimentati da ideologie che, facendo leva su quel conflitto, intendevano scardinare il sistema di potere politico borghese. Le dinamiche della “questione sociale”, tuttavia, non possono essere adeguatamente comprese all’interno di tale dimensione politica; esse, piuttosto, vanno ricondotte all’interdipendenza delle proposte avanzate da molteplici attori sociali ed istituzionali coinvolti nel processo d’industrializzazione, alla luce di diverse e contrastanti visioni dei rapporti economici, sociali e politici.

La “questione sociale”, infatti, s’impone all’opinione pubblica quando emerge nella vita sociale la consapevolezza della radicale trasformazione del vecchio ordine dei rapporti economici, dell’esigenza di operare efficacemente nel superamento dell’ingiustizia nei rapporti di lavoro e della possibilità di perseguire adeguate strategie per conseguire tali obiettivi. Al centro della “questione sociale”, dunque, si pone l’affermarsi di una rappresentanza sociale degli interessi delle lavoratrici e dei lavoratori attraverso associazioni fondate sulla libera adesione solidale delle persone che lavorano, come è stata storicamente realizzata dai sindacati costituiti per sviluppare sul piano privato-collettivo un’efficace azione contrattuale e negoziale. Dopo la fase più critica e conflittuale della “questione sociale” nei Paesi industrializzati, dunque, il progressivo affermarsi di un libero sindacalismo, indipendente dagli Stati e dai partiti, nella seconda metà del Novecento ha consentito di delineare con maggiore chiarezza il rapporto tra ampliamento del processo democratico e partecipazione sociale alla formazione delle decisioni socio-economiche. Alla fine del secondo millennio, lungi dall’essersi chiusa con l’evolversi della cultura del lavoro e delle dinamiche economiche della società globale, la “questione sociale” si caratterizza per la capacità degli attori della società civile di orientare l’economia di mercato alla giustizia e alla coesione sociale, concorrendo alla realizzazione di un welfare attivo e partecipando alla governance delle possibilità produttive sulla base della libertà e della solidarietà.

In tale profilo storico va collocata l’evoluzione dell’opera della Chiesa e dei cattolici in Italia. Dopo il 1861 le trasformazioni del mondo del lavoro nel lento processo d’industrializzazione italiano produssero i primi sintomi di malessere sociale in Piemonte, in Lombardia, in Toscana, in Emilia, nel Napoletano e in Sicilia, legati ai mutamenti introdotti nelle attività tessili, nello sviluppo dell’edilizia e nelle miniere di zolfo. Nello stesso tempo, nel settore tipografico e in quello serico emergevano associazioni professionali e leghe di “resistenza”, che alla fine degli anni Settanta già apparivano assumere caratteri sindacali. Nelle campagne, che occupano ancora nel 1881 più della metà dei lavoratori attivi in assai differenziate condizioni di lavoro, si manifesta la presenza di quella drammatica questione agraria che, con gravi riflessi socio-politici, caratterizzerà l’intera storia nazionale. Negli ultimi decenni del secolo, la “questione sociale” iniziò a imporsi nel dibattito pubblico anche in connessione ai moti ribellistici delle “boje” nelle campagne settentrionali durante la crisi del 1882, alla repressione dei fasci siciliani e dei movimenti anarchici in Lunigiana nel 1894, e all’esplosione di tumulti sociali nelle città del 1898, mentre si moltiplicavano gli scioperi e sorgevano accanto alle leghe di resistenza le prime Federazioni sindacali nazionali e le Camere del lavoro. In questi anni, peraltro, si incrementò l’inurbamento e si sviluppò il fenomeno migratorio verso l’Europa e le Americhe, destinato a toccare il suo apice nei primi anni del Novecento.

La presenza della Chiesa negli Stati preunitari e nel Regno d’Italia (il censimento nazionale del 1861 registrava una popolazione che si dichiarava cattolica nella sua generalità) aveva alimentato un profondo impiego delle Opere pie e delle attività di beneficienza per fronteggiare pauperismo e mendicità. Misurandosi con la trasformazione degli ordinamenti di Antico Regime e con la cultura liberale dei nuovi gruppi dirigenti nazionali, anche la Chiesa italiana fu chiamata a confrontarsi con l’affermazione della società moderna nel suo complesso; in tal senso, l’enciclica di Pio IX Quanta cura e l’accluso Sillabo del 1864 può essere considerata a buon diritto la prima enciclica sociale. Mentre la politica ecclesiastica dei governi sabaudi, prima e dopo la costituzione del Regno d’Italia, si rivolgeva contro la “manomorta”, imponendo la conversione dei beni immobili degli Enti morali ed ecclesiastici, l’indemaniamento delle confraternite, la pubblicizzazione delle Opere pie, si avviò un processo di aggregazione del laicato cattolico italiano intorno al magistero pontificio, come segnala la nascita nel 1868 della Società della Gioventù Cattolica, alle origini dell’Azione Cattolica.

Dopo la Breccia di Porta Pia nel 1870, in stretta connessione con la questione romana sollevata dalla protesta pontificia, nel 1874 si costituì l’Opera dei Congressi per sostenere una presenza pubblica dei cattolici nella società civile; al suo interno sorse una Sezione dell’economia sociale cristiana, volta a coordinare comitati parrocchiali, casse rurali e società operaie, che promosse nel 1889 un’Unione cattolica di studi sociali per formare la cultura degli operatori cattolici. Si organizzò l’impegno sociale cattolico nelle opere di assistenza e d’istruzione (col sostegno del clero diocesano e degli ordini religiosi, alcuni dei quali fioriti proprio nell’Ottocento), dell’assistenza mutualistica, della cooperazione e del credito. Le classi dirigenti cattoliche favorirono il passaggio dai monti frumentari alle Casse rurali, sostennero la diffusione delle Banche popolari e delle Casse di risparmio, non esitarono a dar vita propri istituti bancari (nel 1888 la Banca San Paolo di Brescia, nel 1895 il Banco Ambrosiano di Milano, nel 1896 il Piccolo Credito Romagnolo a Bologna). Anche l’impegno sociale del cattolicesimo italiano fu incoraggiato dalla promulgazione nel maggio 1891 dell’enciclica di Leone XIII Rerum Novarum, che denunciava i mutamenti che agitavano le popolazioni nella società moderna. In tale documento erano contenute le linee di sviluppo di un magistero sociale che si sviluppò, attraverso le encicliche di Pio XI, di Giovanni XXIII e di Paolo VI, fino alla Centesimus annus di Giovanni Paolo II nel 1991. Nell’enciclica leoniana, infatti, in relazione allo sviluppo della persona nelle comunità naturali della società civile, si delineavano l’opportuno dispiegamento dell’associazionismo professionale operaio e l’esigenza di ricomporre i conflitti di lavoro in una prospettiva di ordine sociale: nei differenti contesti e periodi del secolo seguente, personalità e correnti del movimento sociale cattolico enfatizzarono ora l’uno, ora l’altro aspetto.

In Italia, dopo i falliti tentavi degli anni Ottanta dell’Ottocento per superare il non expedit e reinserire il cattolicesimo politico negli istituti parlamentari, il movimento cattolico venne a caratterizzarsi sempre più per una politicizzazione della sua diffusa presenza sociale. In tal senso, anche i cattolici vennero coinvolti nel processo che vedeva il movimento socialista e l’approccio liberale dell’età giolittiana ricondurre l’esplosione della questione sociale, segnata da un aspro scontro di classe, alla semplice prospettiva politica di introdurre le masse nello Stato, mortificando il dinamismo dei soggetti sociali. Un riflesso di tale problematica si manifestò nelle divisioni che non tardarono a manifestarsi circa il senso della “benefica azione cristiana a favore del popolo” promossa dal movimento democratico cristiano d’inizio secolo e all’interno dell’Unione economico sociale istituita nel 1905 dopo lo scioglimento dell’Opera dei Congressi, mentre la riflessione sulle dinamiche economico- sociali, alimentate dal pensiero di Giuseppe Toniolo, trovarono sbocco nei convegni delle Settimane Sociali dei cattolici italiani, avviate nel 1907. Nelle trasformazioni produttive provocate della prima guerra mondiale e nel conflitto sociale dell’immediato dopoguerra (durante le occupazioni delle terre e le lotte operaie che culminarono alla fine del “biennio rosso” con l’occupazione delle fabbriche del 1920), restava aperto il problema del rapporto dell’azione sociale dei cattolici con la loro organizzazione confessionale e la loro azione politica, dal 1919 rappresentata dal Partito Popolare Italiano promosso da don Luigi Sturzo. L’associazionismo sociale “bianco” (che vide tra i suoi leader Achille Grandi, Guido Miglioli e don Carlo De Cardona) vide restringersi il campo d’azione durante la formazione del regime fascista, mentre si riducevano le libertà politiche e si tentava la costruzione dello stato totalitario. La tutela per l’azione religiosa derivante dai Patti Lateranensi del 1929 incentivò il carattere morale dell’azione sociale cattolica, che si concentrò in un’indipendente formazione culturale.

Alla caduta del fascismo e alla fine della guerra mondiale, così, la classe dirigente cattolica poteva elaborare un’azione di ricostruzione sociale del Paese, svolgendo un ruolo importante per far ottenere e gestire aiuti internazionali destinati all’assistenza delle popolazioni più misere e ad avviare la ripresa produttiva nazionale. Nell’Italia repubblicana, mentre i governi della Democrazia cristiana consentivano di misurare l’impegno riformatore di un cattolicesimo sempre più articolato sul piano sociale, come accadeva con la Confcooperative e con le Associazioni Cristiana dei Lavoratori Italiani; sul piano sindacale i cattolici italiani aderirono soprattutto alla Confederazione Italiana Sindacati dei Lavoratori, organizzazione non confessionale. Con le sue molteplici associazioni, laiche e religiose, il mondo cattolico accompagnò la trasformazione dell’Italia in un Paese industriale, con la conseguente emersione di nuovi disagi, favorendo l’istruzione e l’educazione delle classi popolari, condividendo le rivendicazioni sociali nelle grandi imprese e alleviando l’emigrazione meridionale verso le aree industrializzate del Nord. Nei conflitti industriali degli anni Sessanta si rinnovò l’impegno dei cattolici perché si riconoscesse dignità al lavoro, valorizzando l’azione dei soggetti sociali e l’autonomia della società civile organizzata dal collateralismo con i partiti politici. Il nuovo malessere provocato dalla società dei consumi e dai suoi limiti, riletto anche alla luce del magistero del Concilio Vaticano II, sollecitò un complessivo ripensamento dell’impegno cattolico a sostegno dei rapporti familiari e sociali, collegandosi con la Chiesa locale o sviluppando nuove forme associative. I sempre più rilevanti flussi d’immigrazione e le nuove marginalità nel nostro Paese, inoltre, hanno spinto il mondo cattolico a sottolineare una rinnovata azione sociale a sostegno delle categorie sociali più deboli. Negli ultimi decenni del ’900, così, i cattolici italiani hanno promosso forme responsabili di associazionismo e di rappresentanza sociale nella fase di ripensamento dello Stato assistenziale, sollecitato dalle nuove dinamiche del capitalismo contemporaneo, anche realizzando opere economico-sociali volte a contrastare il dirigismo con la sussidiarietà e ad orientare socialmente l’economia con la partecipazione degli attori sociali.

Fonti e Bibl. essenziale

I. Giordani (a cura di), Le encicliche sociali dei papi: da Pio IX a Pio XII, 1864-1956, Studium, Roma, 1956, 4 ed. corretta e aumentata; A. Gambasin, Il movimento sociale nell’Opera dei Congressi 1874- 1904; contributo per la storia del cattolicesimo sociale in Italia, Università Gregoriana, Roma, 1958; V. Saba, Le esperienze associative in Italia (1861-1922), Franco Angeli editore, Milano 1978; S. Zaninelli (a cura di), Il sindacalismo bianco tra guerra, dopoguerra e fascismo (1914-1926), Franco Angeli, Milano, 1980; Dizionario storico del movimento cattolico in Italia, a cura di F. Traniello – G. Campanini, vol. I, Tomi 1-2, Editrice Marietti, Torino, 1981; Aggiornamento 1980-1995, Marietti, Torino, 1997; F. Fonzi, I cattolici e la società italiana dopo l’unità, Roma, Studium, 1982 4 ed.; D. Veneruso, La questione sociale 1814- 1914, SEI, Torino 1985 6 ediz.; L. Trezzi, Sindacalismo e cooperazione dalla fine dell’Ottocento all’avvento del fascismo, Franco Angeli, Milano, 1982; I documenti sociali della Chiesa: da Leone XIII a Giovanni Paolo II, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano, 1991; P. Rosanvallon, La nouvelle question sociale: repenser l’etat-providence, Editions du Seuil, Paris, 1995; M. Fornasari – V. Zamagni, Il movimento cooperativo in Italia. Un profilo storico-economico (1854-1992), Vallecchi, Firenze 1997; M. Romani (a cura di), Appunti sull’evoluzione del sindacato, Edizioni Lavoro, Roma, 2006 5 ed.


LEMMARIO




Religiosità popolare - vol. II


Autore: Pietro Zovatto

 

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Solo di recente la storiografia ha fatto oggetto di ricerca la religiosità popolare, faticando non poco ad individuare un suo spazio di attenzione accanto alla religione ufficiale. Incerta nel trovare il suo metodo di procedere, di volta in volta con una andatura vicino alla sociologia, alla antropologia, alla filosofia e, magari, avvicinandosi alla teologia cristiana, o ad una filosofia della religione “laica”, mutuata dall’idealismo materialistico o dal razionalismo agnostico.

In Italia uno dei primi studiosi della religione popolare è stato Antonio Gramsci, secondo cui la religione si stratifica al suo interno, anche se tutte le religioni non sono che “folklore” in rapporto al “pensiero moderno”. In particolare questa distinzione vale per la “la religione del popolo”, che è molto diversa da quella degli intellettuali. È difficile ridurre la religiosità popolare a folklore, se essa rivendica un culto il cui destino detiene una intenzionalità trascendente

Dello storicismo ideologico gramsciano uno dei più coerenti discepoli fu certamente Ernesto De Martino, particolarmente con le due opere Sud e magia (1959) e Il mondo magico (1967) con una nuova impostazione della scienza etnologica, con cui esplora la sopravvivenza delle più rozze pratiche di magia cerimoniale in terra lucana (Basilicata). La chiave di interpretazione è data dalla alternativa tra “magia” capillarmente diffusa nel mondo contadino, di fronte alla “razionalità”. Il pensiero meridionale si adagiò a questa temperie senza optare in maniera determinante alla razionalità illuministica.

Alfonso di Nola dopo la lezione di Ernesto de Martino, inserisce la sua premessa marxisteggiante nella antropologia delle forme religiose popolari. Ha tuttavia il merito di recepire l’istanza empirica nello studiare le feste e i culti popolari delle regioni meridionali, negli anni Settanta, con la ricerca: Gli aspetti magicoreligiosi di una cultura subalterna italiana (1976).Egli si presenta con un’ opera significativa sotto il profilo storico-antropologico sulle forme della “cultura subalterna” in Italia. Sono infatti presentati i risultati di due ricerche effettuate sul territorio in terre abruzzesi, di antica civiltà rurale in riferimento ai culti riguardanti san Domenico a Cucullo e di san Antonio Abate nella Marsica, nonché di san Zopito. E indica il ricupero di questo materiale indigeno e ancestrale da parte della religione ufficiale, che si mostra così egemone su una cultura che deve restare subordinata rispetto a quella dominante e canonica.

Questa doppia interpretazione degli stessi dati, una “subalterna” del popolo e una “ufficiale”, avanzata dal Di Nola, richiede il passaggio dall’esegesi antropologica di carattere puramente “culturale” su un fatto di natura ostile all’uomo (il serpente) in una società di pastori e di cacciatori. Nonostante il passaggio alla industrializzazione del sistema capitalistico, la persistenza storica di diversi riti locali abruzzesi può essere considerata come resistenza delle culture locali subordinate ai modelli unificanti.

L’intervento di Carlo Ginsburg: Folklore, magia, religione (in Storia d’Italia, I, 1972) per certi aspetti risente l’influenza di Gramsci avvicinando la religione popolare al “folklore” sacrale, o al magismo, dal momento che per Gramsci la religione è folklore. Prendendo il filo dall’Umanesimo non dà che un giudizio negativo su tutto il Rinascimento fino ad arrivare ad un indistinto coacervo di scongiuri e di giaculatorie espresso da l’Alfabeto dei villani (del Seicento), secondo Ginsburg. In questo particolare momento storico si avverte lo spostamento della strategia della presenza storica controriformista dalla città alla campagna, che diventa il centro della conservazione del patrimonio religioso. Anche i gesuiti, gli strateghi moderni dopo il Concilio di Trento, seguono questo indirizzo e adattano il loro messaggio con le immagini per il loro valore emotivo e di immediata percezione. Di qui il diffondersi di preghiere, di vite di santi, di narrazioni di miracoli, di litanie e almanacchi e cantari con diffusione capillare di questo “opuscolame devozionale”.

Anche altre opere di nomi prestigiosi del Settecento – secondo le ricerche di Ginsburg come sant’Alfonso, oppure del Pastorini e del Muzzarelli esprimevano una religiosità minore “idilliaca e dolciastra”, sia con le sentimentali canzoncine mariane, sia con la devozione a Gesù Bambino, dal carattere ingenuamente carammelloso. E i parroci nelle loro omelie non predicano certo “né il Dio corrucciato del Vecchio Testamento, né il Cristo giudice, ma il Cristo zuccheroso ed effeminato delle immaginette sacre”. Immaginette che sono, tuttavia, state studiate come una mediazione dimessa ed immediata che partendo da un supporto cartaceo discutibile sotto il profilo artistico, possiedono la virtualità di sollecitare esigenze elementari del popolo verso le sublimi verità del dogma cristiano, fino ad attingere la Trinità, con un sentire autenticamente religioso (P. Zovatto, Il santinio tra metafisica e religiosità, 1988 ).

Un indirizzo tutto nuovo ha impresso a questo genere di ricerche Gabriele De Rosa che in vario modo ha assimilato la lezione della pietà di don Giuseppe De Luca, di Gabriel Le Bras e di Lucien Febvre. Si tratta della pietà delucana quale presenza di Dio amato per consuetudine d’amore. Per una ricostruzione storica della complessa situazione meridionale, egli ha fatto lungo ricorso al materiale documentario ecclesiastico proveniente dalle relazioni delle visite pastorali dei vescovi, dalle relazioni “ad limina” degli episcopati, dalle pastorali e dai sinodi. Compulsando infatti gli archivi della Calabria e della Basilicata (Lucania), ha potuto esordire con un saggio Nicola Monterisi (1867-1944): “Pensieri e appunti”. Magia popolo nelle esperienze di un vescovo meridionale (“Archivio Italiano per la Storia delle Pietà” 1970, VI, 403-491). Oltre che alla mediazione di “pietas” delucana si avvale dell’apporto sociologico delle “Annales” e “mostra come quelle due regioni del Sud, la religiosità popolare, trovava in continuazione un vigilante controllo dei vescovi per mantenerla ancorata alla ortodossia cattolica secondo i canoni della Controriforma. Parte quindi con una metodologia meno ideologizzata di un Gramsci e muovendo dall’interno della istituzione ecclesiastica con i suoi organi di governo (vescovi, sinodi, pastorali, visite “ad limina”), sistematicamente sottoposte ad analisi. E la magia viene colta nei suoi aspetti sociali quando diventa spia d’una condizione sociale e delle aspirazioni delle popolazioni rurali onde “garantirsi dall’ignoto”, assumendo sì un aspetto irrazionale, ma per sfuggire da una crisi economica senza sbocchi.

Al De Martino De Rosa replica che allargando la ricerca sulla vita interna della chiesa controriformista, in cui si scopre che la storia religiosa del Sud Italia fu anche storia di sinodi e di visite pastorali, atti ufficiali delle curie vescovili che non vanno sottovalutati. Questi fenomeni di ibridismo magico-religioso rimasero, tuttavia, sempre fenomeni circoscritti e ben individuati da parte della gerarchia. Il vescovo Angelo Anzani nella Basilicata infatti deplorava nel suo clero il compromesso con le pratiche magiche e distingueva un esorcismo extracanonico, stigmatizzato, da un esorcismo previsto dal diritto canonico. E richiamava il senso agostiniano del peccato ( che magari poteva avere smagliature gianseniste) e la volontà di spezzare ogni nesso tra religione e magia. Per Gabriele De Rosa “c’è insomma una storia del sincretismo pagano-cattolico del Sud, che appartiene al folklore, e una storia istituzionale della pietà”, che muove da una concezione religiosa e cristiana dell’uomo, che è “storia di liberazione dalla magia” (Vescovi, popolo e magia nel Sud, 1971).

Sotto questo aspetto si profila la tesi di Gramsci secondo cui la religione è “la più grande utopia”, cioè la più “gigantesca metafisica” apparsa nella storia. Essa infatti si configura come il tentativo di conciliare le contraddizioni della mitologia della religione popolare con la vita reale della storia, ed è questa la religione del popolo; quella degli intellettuali (gesuiti), invece, è tutt’altra cosa. E lo sforzo di questi è stato sempre quello di unire le due religioni in una unità superiore per sottrarre quella popolare dal frammentarismo e dalla superstizione per portarla ad un grado di maggiore organicità e coerenza unitaria. Ma quello che per Gramsci costituisce un’esigenza ideologica, per De Rosa diventa dato storico, poiché i sinodi, le visite pastorali dei vescovi dell’Italia meridionali sono intervenuti per riportare quelle credenze ambigue ad un livello di consapevolezza dottrinale di ortodossia, secondo le direttive del Concilio di Trento. Del resto, rileva De Rosa, la scarsa stima di Gramsci nei riguardi della cultura popolare, “la religione dei semplici”, corredo della classe subalterna, mostra una pregiudiziale diffidenza verso il popolino che dovrebbe diventare, alleato della classe operaia, protagonista della dialettica marxista per raggiungere il potere.

Con il Concilio Vaticano II “i pii esercizi”, “gli esercizi di pietà” (Sacrosanctum Concilium 13; Optatam Totius, 89) e le devozioni antiche acquistano la loro dignità essendo aperto ad essi uno spazio para-liturgico, ma pur percorso da una devozione più elevata ­non ancora liturgia con cui la chiesa offre a Dio, per il tramite di Gesù Cristo, il culto ufficiale adeguato­. Il più recente Direttorio su pietà popolare e liturgia. Principi e orientamenti (2002) sospinge la ritualità delle credenze popolari di lunga tradizione (la Madonna, i santi, i pellegrinaggi, le novene) verso la purificazione dei contenuti, accostati con una strategia pastorale più congrua al credo cattolico.

Anche se quella religiosità popolare è “alternativa o parallela” alla liturgia, non sempre nata da “l’ispirazione liturgica”, riporta “forme di sensibilità naturalistica di credenze e pratiche popolari paleocristiane”. Questo “excursus” dei maggiori studi della critica sulla religiosità popolare mostra la tendenza ad accentuare il lato irrazionale, magico, primitivo della religione popolare e dall’altro lato se ne sottolinea l’arcaicità che assicura gli elementi di lunga durata, nonostante gli interventi dell’autorità ecclesiastica. Pur evidenziando gli aspetti di sincretismo tra sacro e profano – spesso interpretati con una metodologia ideologizzata ­– si rintracciano sì bisogni primordiali di sicurezza psicologica e materiale, ma solo pochi hanno sottolineato gli interventi vigilanti dell’autorità ecclesiastica per convogliare questo fenomeno complesso e debordante del vissuto popolare alle fonti dell’intuizione cristiana. Tendenza del sentire religioso diffuso che pur brillava nella compassata e giuridica chiesa controriformista.

Ancora ­ha notato Philippe Ariès (Religion populaire et réforme religieuse, (“Maison Dieu” (1975/ 122) in questa storiografia “laica” si rileva nei riguardi della religiosità popolare un atteggiamento di critica non dissimile a quella del XVII e XVIII secolo illuministico, quasi fossero questi intellettuali detentori di un cristianesimo puro delle origini (posizione giansenizzante). Egli rileva che anche in quei secoli la religione popolare e quella delle élites credenti non erano in contraddizione. La collettività e l’intelligenza cattolica avevano in comune (e tuttora hanno), l’apprezzamento positivo per la pratica dei sacramenti e delle devozioni popolari

Se confrontiamo la religiosità del sud Italia con quella del nord, essa non sembra assumere connotazioni di differenziazione specifica; possiedono ambedue una uniformità di fondo abbastanza simile. Si diversificano piuttosto nella fenomenologia della espressione esteriore. Più vistosa, più mossa al sud, ma insieme anche più corale e totalizzante e più esteriormente sacrale. Tutte le classi sociali vi sono coinvolte, da quelle pubbliche (autorità civili) a quelle borghesi con il popolo minuto. È festa di tutti nella visibilità di una civiltà mediterranea anche nella esternazione del sentire sacro, come avviene a Catania per il patrono sant’Agata. Nel nord l’espressione del religioso popolare sembra coinvolgere di più la persona-individuo nella consapevolezza di una venerazione contenuta, che sa ancora del tradizionale controriformista, specie nelle piccole borgate paesane. In queste va assottigliandosi la partecipazione delle pubbliche autorità, in particolare dopo la dissoluzione del partito d’ispirazione cristiana. Talune sopravvivenze paganeggianti sembrano più appariscenti nel sud che nel nord, dove l’influenza dell’autorità ecclesiastica e la secolare formazione sacerdotale dei seminari è stata più incisiva per incanalarla alla sostanza del dogma cattolico, come nella diocesi di Milano con la cerchia dei santuari mariani (i Sacri Monti) posti a baluardo del mondo protestante, o come a Padova con il Santo (san Antonio). Mentre nel sud la forza del tradizionale regge con più pervasività e vischiosità nel sentimento religioso collettivo, non del tutto immune dalla arcaica “pietas” paganeggiante. Implicitamente lo suggeriva il De Luca nella sua Introduzione… e Gabriele De Rosa in parallelo con la religiosità prescritta dall’autorità ecclesiastica ( che nel sud Tirolo, diocesi di Bressanone e Trento, riusciva determinante, per es. per i santuari à répit diffusi nell’arco alpino di tutto il nord). Senza dire del De Martino che faceva dell’elemento pagano (magia e superstizione) la chiave di comprensione della religiosità popolare. Dal mondo pagano al cristianesimo la religiosità popolare ha segnato un processo di purificazione innegabile, ma il percorso non è ancora arrivato al termine di attingere in pienezza il Cristo e il mistero trinitario (valore e limiti della religiosità popolare in “Evangelii nuntiandi, 1975).

Fonti e Bibl. essenziale

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LEMMARIO