Associazione Italiana dei Professori di Storia della Chiesa

Dizionario Storico Tematico La Chiesa in Italia
Dopo l'Unità Nazionale
Roma 2015
Copyright © 2015

Reliquie - vol. II


Autore: Cesare Silva

Il culto delle R. dei Santi conosce nella seconda metà dell’Ottocento una nuova stagione. Cresce, in strati sempre più ampi della popolazione, la diffusione del fenomeno, già sviluppatosi a cominciare dal sec. XVII della raccolta di piccoli frammenti di reliquie custodite in piccole teche singole o multiple, spesso di materiale e fattura pregiata, che vengono “collezionati” in “paradisini” da esporre per la devozione personale o da tenere tra le cose più care.

Con la rinascita degli studi dell’archeologia cristiana promossa dall’impegno anche divulgativo di Giovanni Battista De Rossi (1822-1894), si assiste alla nascita di un nuovo gusto per il Cristianesimo primitivo nello stile architettonico e decorativo delle chiese e delle suppellettili sacre e soprattutto nel culto e nel decoro dei Martiri delle Catacombe romane. In questo periodo, e fino ai primi decenni del novecento, riprende il recupero e l’esposizione dei Corpi Santi, provenienti dagli antichi cimiteri, dotando le chiese e le comunità di nuovi patroni ben esposti e venerati.

A questi si aggiungono le R. di Santi o Beati più recenti, costituite non solo da frammenti ossei ma anche da porzioni minuscole di abiti o biancherie appartenuti alle figure di riferimento, che vengono spesso distribuiti e autenticati direttamente dalle Congregazioni religiose o da altri enti ecclesiastici. Le R. costituiscono un valido strumento per promuovere la devozione ai Santi e a diffondere la loro conoscenza in vista delle cause di beatificazione che vengono avviate; a partire dagli inizi del Novecento si diffonde l’uso massiccio di immaginette con incorporate piccole R. (per lo più tessili) munite di sigilli cartacei.

Sotto i pontificati di Pio IX e Leone XIII vengono riprese molte cause di beatificazione e vengono istruite pratiche per il riconoscimento canonico di quei culti tributati in modo spontaneo o sostenuti solo da notizie tramandate da tradizioni talvolta dubbie o incoerenti. Accanto all’istruttoria storico-canonistica, non manca l’attenzione anche per le condizioni materiali delle R. che sono oggetto di ricognizione, studio scientifico, e nuove collocazioni che ne favoriscano la devozione pubblica.

Si diffonde infatti a partire da questo periodo l’uso generalizzato di esporre i corpi di Santi in urne munite di cristallo, componendo le R. in modelli anatomici rivestiti con abiti appropriati e che riproducono le fattezze in cera, laddove non restino che pochi frammenti ossei. Non mancano i casi di esposizione di Corpi santi rimasti integri ma usualmente conservati in casse chiuse oppure mostrati ai fedeli solo in occasioni ed entro riti liturgici particolari Questo modo di presentare le R., precedentemente limitato a casi di integrità eccezionale, diventa ormai generalizzato.

Dal punto del culto pubblico alle R., si segnala una particolare attenzione da parte degli Ordinari diocesani a munire di regolari sigilli e autentiche quanto esposto nelle chiese alla pubblica venerazione, a cominciare dai reliquiari nelle varie fogge (come busti di Santi e di Vescovi, urne, ostensori ecc.) che a partire dall’età barocca costituiscono parte integrante dell’ornato festivo degli altari e che si conserveranno nel rito liturgico, nel gusto e nella produzione fino all’età post-conciliare.

Una rinnovata attenzione all’autenticità storica dei Corpi Santi conservati nelle chiese produce innanzitutto una importante serie di studi di carattere storico generati nel contesto di moderni criteri metodologici di analisi scientifica che superano i convincimenti secolari provocando in molti casi uno scollamento tra la “verità” storicamente accertata e la “verità” sedimentata dalla tradizione. Delicata e controversa, specialmente in alcuni momenti e contesti, è la relazione tra questi dati e il culto popolare (e quello ufficiale, nei casi approvati o sanzionati dall’autorità ecclesiastica) nelle sue conseguenze pratiche specialmente laddove si rischia di urtare la sensibilità e la fede di comunità.

La consulenza di studiosi e archeologici aiuta a integrare e a correggere i dati provenienti dall’indagine documentaria e dalla tradizione.

In questo periodo inizia, spesso contestualmente, l’applicazione delle metodologie scientifiche anche all’oggetto materiale delle R., con ricognizioni che vedono la presenza e la consulenza di medici e tecnici specializzati invitati ad analizzare i reperti ossei con gli strumenti tecnologici disponibili e predisporre adeguate tecniche di conservazione.

Il rinnovamento conciliare ha modificato in modo sensibile l’approccio alle R. e il loro culto: se assumono forme più marginali le tradizionali espressioni di devozione (specialmente in ambito privato), si segnala una attenzione particolare per la custodia regolare di quelle più insigni.

L’impulso straordinario dato sotto il pontificato di Giovanni Paolo II alla promozione della conoscenza e del culto dei Santi specialmente contemporanei, induce un nuovo interesse anche per la conservazione e l’esposizione delle R. che si accompagna allo sviluppo di nuove tecniche per la conservazione e il mantenimento dei resti corporali.

Fonti e Bibl. essenziale

G.P. Kirsch, Reliquie, in Enciclopedia Italiana, XXIX, Roma 1936, 36-38; P. Sejourne’, Reliquie, in Dictionnaire de Thèologie Catholique, XIII, Paris 1937, coll. 2312-2376; P. Palazzini, Reliquie, in Enciclopedia Cattolica, X, Città del Vaticano 1953, coll. 749-761.


LEMMARIO




Resistenza - vol. II


Autore: Stefano SodiOsoppo

Il termine Resistenza venne utilizzato per la prima volta nel giugno 1940 dal generale Charles De Gaulle, fuggito a Londra, che lanciò un appello ai suoi concittadini per invitarli ad opporsi al governo del maresciallo Philippe Pétain, che aveva sottoscritto un armistizio che lasciava la maggior parte del suolo francese in mano ai tedeschi e l’area centro-meridionale, con capitale Vichy, a un governo collaborazionista. A partire da allora, il termine Resistenza ha designato in tutta Europa i movimenti di ribellione e di lotta armata contro il regime d’occupazione nazista, configurandosi come espressione ed anticipazione dei valori che sarebbero divenuti la base ideale dell’Europa democratica.

La Resistenza italiana fu l’ultima a costituirsi in Europa: le sue prime formazioni nacquero nell’Italia centro-settentrionale ad opera di militanti antifascisti e di soldati che non si consegnarono alle truppe tedesche né entrarono nell’esercito della Repubblica Sociale Italiana (Rsi) dopo l’armistizio con gli Alleati (8 settembre 1943). Da quel momento, il Comitato di liberazione nazionale (Cln), presentatosi come guida dell’Italia democratica, invitò gli italiani ad unirsi nella lotta contro i nazifascisti. In principio le iniziative ebbero più un valore politico che militare, ma il movimento partigiano crebbe rapidamente di numero e fra il 1944 e il 1945 riuscì a costituire numerosi gruppi armati o addirittura piccoli eserciti in grado di controllare intere aree territoriali (es. la Repubblica dell’Ossola, le Langhe, l’Oltrepo pavese). Nelle città operavano invece formazioni più esigue, i Gruppi di Azione Patriottica (Gap), formati prevalentemente da comunisti.

Recenti stime hanno calcolato che nell’estate 1944 i partigiani in Italia erano 82.000 e raggiunsero il numero di circa 200.000 al momento dell’insurrezione, nella primavera del 1945. Questa cifra comprende coloro che parteciparono alla vera e propria “resistenza armata” e non quanti, assai più numerosi, fornirono loro protezione e supporto (“resistenza civile”). Sul fronte avverso militava un numero pressoché uguale di italiani, essendo l’esercito della Repubblica di Salò composto da circa 50.000 effettivi, cui si affiancavano le 150.000 unità della Guardia Nazionale Repubblicana, la milizia di partito.

Fin dall’inizio la Resistenza italiana si mostrò divisa in base all’orientamento politico. I partigiani di ispirazione comunista militavano nelle Brigate Garibaldi, quelli di orientamento socialista in quelle Matteotti; le formazioni cattoliche, numericamente più consistenti di quanto comunemente si ritenga (in proposito Lorenzo Bedeschi ha parlato di «daltonismo prospettico»), erano spesso definite Fiamme Verdi e le brigate di Giustizia e Libertà si rifacevano al Partito d’Azione; vi erano anche brigate di ispirazione liberale o di orientamento filomonarchico. Non mancarono episodi di scontri tra partigiani, soprattutto in Friuli e in Venezia Giulia, dove le formazioni garibaldine agivano spesso in collaborazione con i partigiani comunisti di Tito, la cui intenzione era di annettere Trieste, l’Istria e la Dalmazia alla Jugoslavia. L’episodio più clamoroso avvenne in Friuli, a Malga Porzus, dove nel febbraio 1945 un gruppo comunista trucidò ventidue componenti della Brigata Osoppo, composta prevalentemente da partigiani cattolici, accusati ingiustamente di aver trattato con i fascisti e la X Flottiglia Mas.Lazzeri Innocenzo

La divisione tra le varie componenti del mondo partigiano e le vicende postbelliche hanno profondamente influenzato anche l’interpretazione storica. Una prima fase storiografica ha fornito della Resistenza una lettura di piena adesione e di incipiente mitizzazione, che enfatizzava due aspetti: da una parte essa appariva come l’epifenomeno di un intero «popolo in lotta», unito da un comune sentimento antifascista, dall’altra costituiva il compimento del «secondo Risorgimento», l’ultima guerra di liberazione contro gli stranieri, dando un nuovo fondamento alla nazione italiana, alternativo all’esperienza fascista (esemplare R. Battaglia, Storia della Resistenza italiana, Einaudi, Torino 1953). Una svolta radicale nella riflessione sul fenomeno resistenziale si è sviluppata agli inizi degli anni Novanta del secolo scorso con Claudio Pavone, secondo cui la Resistenza deve essere letta da tre diversi angoli visuali: quello di una guerra patriottica, di una guerra di classe, di una guerra civile. Per il movimento partigiano la Resistenza si configurava come una guerra di liberazione del territorio italiano dall’occupazione tedesca, ma anche come l’orgogliosa riconquista di un’identità nazionale; per i fascisti, in una logica rovesciata ma speculare, la prosecuzione della guerra a fianco dei nazisti rappresentava invece l’unica possibilità di mantenere intatto l’onore della patria. L’idea di una guerra di classe era invece la speranza di quanti ritenevano possibile che la rovina dei nazi-fascisti avrebbe dato il via alla lotta di classe, preludio alla dittatura del proletariato. L’utilizzazione della categoria di guerra civile, fino ad allora lasciata appannaggio di correnti dichiaratamente vicine all’ultimo fascismo (G. Pisanò, Storia della guerra civile in Italia (1943-1945), FPE, Milano 1965-1966), significò un cambiamento di prospettiva storiografica, che pose al centro dell’attenzione, più che gli aspetti politici e militari, le storie individuali, le motivazioni profonde delle scelte, il quadro di riferimento ‘morale’, non solo di quanti vissero la guerra partigiana come scelta di vita, ma anche della popolazione civile, di quanti praticarono una “resistenza passiva” o, più correttamente, “civile”. Riguardo al mondo cattolico e alla sua gerarchia Pavone, nel suo saggio evidenziò una contraddizione, quasi insanabile, tra la tendenza ad un atteggiamento super partes rispetto ai conflitti militari e politici e la crescente consapevolezza che fosse invece necessario schierarsi, quanto meno dalla parte delle proprie comunità colpite dalla violenza (si ricordi che la Santa Sede non riconobbe mai la Rsi).

In questo rinnovato clima storiografico particolare rilievo hanno assunto nel 1995, in occasione del cinquantesimo anniversario della Liberazione, nuove ricerche sul ruolo dei cattolici che hanno avuto la loro massima – ma non unica – espressione in una serie di convegni realizzati in varie parti d’Italia sul tema Cattolici, Chiesa, Resistenza. Dalla ricerca è emersa con chiarezza la necessità di analizzare contemporaneamente sia il livello politico-istituzionale sia il vissuto religioso. Se da una parte infatti «la Chiesa-istituzione si trovò a svolgere un ruolo di supplenza dello Stato, di mediazione fra le parti combattenti, comandi tedeschi e comandi partigiani per una tregua di armi […] perché uno Stato legittimato non c’[era] né dall’una né dall’altra parte» (De Rosa, 18-19), dall’altra non poteva essere misconosciuta quella forma di “resistenza civile” che si manifestò nell’impegno concreto a favore dei partigiani, ma anche degli sfollati, degli ebrei ricercati, dei renitenti alla leva, dei prigionieri di guerra.

Al di là della partecipazione diretta alla “resistenza armata” da parte di cattolici, singolarmente o in gruppi organizzati, che necessita comunque di essere ancora messa in piena luce, è necessario evidenziare quegli episodi di impegno e quotidiana disobbedienza rispetto all’occupante che sempre di più emergono dalla ricerca storica. Passando, come osserva Maurilio Guasco, dallo studio della «resistenza dei cattolici al modo di essere cattolici nella Resistenza», valutando la «qualità della partecipazione», il «vissuto etico che viene prima delle scelte politiche» (M. Guasco, I cattolici e la resistenza, 305-306) si è potuto verificare sempre più puntualmente come, davanti ad una situazione di ingiustizia nei confronti della popolazione civile, la maggior parte dei vescovi, del clero, dei membri dell’associazionismo cattolico abbiano scelto di mettersi dalla parte delle vittime, qualunque esse fossero, con un atteggiamento di condivisione considerata doverosa, sulla base di un ethos maturato non tanto sul terreno politico o ideologico, quanto in virtù di un universo di valori umani e religiosi, assumendo spesso i caratteri della martyrìa cristiana.

Fonti e Bibl. Essenziale

F. Malgeri, La Chiesa italiana e la guerra (1940-1945), Studium, Roma 1980; C. Pavone, Una guerra civile. Saggio storico sulla moralità nella Resistenza, Bollati Boringhieri, Torino 1991; M. Guasco, I cattolici e la resistenza: ipotesi interpretative e percorsi di ricerca, in B. Gariglio (ed.), Cattolici e resistenza nell’Italia settentrionale, Il Mulino, Bologna 1997, 305-317; G. De Rosa (ed.), Cattolici, Chiesa, Resistenza, Il Mulino, Bologna 1997; B. Bocchini Camaiani – M.C. Giuntella (edd.), Cattolici, Chiesa, Resistenza nell’Italia centrale, Il Mulino, Bologna 1997.

Immagini:

1) Don Redento Bello (nome da partigiano “Candido”), sfuggito per caso alla strage di Porzus, officia nel 1946, circondato dai partigiani dell’Osoppo, la Messa commemorativa per i caduti dell’eccidio [Biblioteca Seminario Arcivescovile “B. Luigi Scrosoppi”, Udine].

2) Don Innocenzo Lazzeri, medaglia d’oro al valor civile, ucciso il 12 agosto 1944 durante la strage nazista di Sant’Anna di Stazzema, mentre prestava aiuto alla popolazione inerme.


LEMMARIO




Roma, Romanità - vol. II


Autore: Tommaso di Carpegna

Roma e romanità

Il 20 settembre 1870 Roma fu conquistata dal Regio Esercito e annessa al Regno d’Italia, di cui divenne la capitale il successivo 3 febbraio 1871. Terminava allora il più che millenario dominio temporale dei papi ed esplodeva la Questione romana, che avrebbe tormentato la vita politica italiana per i successivi sessant’anni, fino alla firma dei Patti Lateranensi (11 febbraio 1929, modificati il 18 febbraio 1984 con l’Accordo di Villa Madama). Roma era la capitale di un nuovo Stato e tuttavia restava la Sede apostolica. Questo sdoppiamento è ciò che da allora in poi ha contraddistinto l’Urbe: variando il punto di vista, si può affermare tanto che Roma è parte dell’Italia, quanto che l’Italia è parte di Roma. Nonostante la ricomposizione fra Stato italiano e Chiesa romana, resa istituzionale dal riconoscimento di uno Stato indipendente di cui il papa è il sovrano (lo Stato della Città del Vaticano) e simboleggiata dall’apertura della via della Conciliazione (1936), e nonostante il tentativo del regime fascista di individuare il fondamento della civiltà nazionale proprio nella «romanità» pensata al contempo come imperiale e cristiana, da quasi centocinquant’anni Roma è, di fatto e di diritto, una città bicefala. Le amministrazioni italiane ne hanno profondamente modificato l’assetto, rendendola sede delle istituzioni nazionali e compiendo una imponente opera di trasformazione monumentale e urbanistica; il papato, pur non potendo più intervenire estesamente sul tessuto urbano, ne ha esaltato la natura di «catholicae unitatis sedes».

Questo aspetto è particolarmente evidente, poiché il fondamento apostolico della funzione giurisdizionale dei pontefici si concretizza proprio nello spazio fisico dell’Urbe, come viene espresso ad esempio nella Gaudete in Domino di Paolo VI (9 maggio 1975): «La vocazione di Roma è di provenienza apostolica, e il ministero che ci spetta di esercitarvi è un servizio a beneficio della Chiesa intera e dell’umanità». Il Vaticano è la sede del pontefice e della Curia romana, con tutti i suoi uffici e dicasteri. Le basiliche maggiori e alcuni altri edifici in città e in provincia (a Castel Gandolfo) godono dell’extraterritorialità e l’arcibasilica Lateranense – cattedrale di Roma – è «madre e capo di tutte le chiese della città e del mondo». I pontefici hanno esaltato l’universalità di Roma non soltanto risiedendovi con continuità, ma anche eleggendola a sede degli ultimi due concili ecumenici – il Concilio Vaticano I (1869-1870) e il Concilio Vaticano II (1962-1965) – e celebrandovi ogni venticinque anni i giubilei universali della Chiesa cattolica, nonché quelli straordinari del 1933 e 1983. Gli anni santi, oltre a rappresentare l’apoteosi della vocazione di Roma come prima meta del pellegrinaggio cattolico insieme con Gerusalemme, nel corso del XX secolo (e soprattutto a partire dal Giubileo del 1950) sono divenuti eventi massmediatici di portata planetaria, che riaffermano nella contemporaneità l’antica romanitas intesa come patria comune.

Anche un secondo aspetto appare rilevante: quello di Roma intesa come Chiesa particolare, della quale il pontefice è vescovo. La diocesi di Roma è una sede metropolitana della Chiesa cattolica ed è al contempo arcidiocesi primaziale d’Italia e della Provincia ecclesiastica romana. Il suo territorio, di 881 km2, si estende su Roma e sulla Città del Vaticano ed è suddiviso in due vicariati amministrati da due vicari generali. Il primo di essi, il «Cardinal vicario», risiede in Laterano ed è coadiuvato da un vicegerente; il secondo è il cardinale arciprete della basilica Vaticana. Il vicariato di Roma ha giurisdizione su 336 parrocchie raggruppate in 36 prefetture e in 5 settori (Centro, Nord, Est, Sud, Ovest), ciascuno dei quali è affidato a un vescovo ausiliare, mentre le parrocchie del vicariato della Città del Vaticano sono due (S. Anna e S. Pietro). I cardinali diaconi e presbiteri sono rispettivamente a capo delle diaconie e dei titoli, mentre ai cardinali dell’ordine dei vescovi hanno assegnate in titolo le sedi delle antiche diocesi suburbicarie (Albano, Frascati, Palestrina, Porto e S. Rufina, Sabina-Poggio Mirteto, Velletri-Segni, Ostia), che vengono però amministrate da vescovi residenziali.

Il vincolo che lega reciprocamente i romani al loro vescovo si è espresso in modi e con intensità differenti a seconda dei tempi, delle situazioni e delle personalità. Oltre ai momenti forti di questo legame, come le frequenti visite pastorali alle parrocchie e alle popolazioni e la celebrazione dell’antica liturgia stazionale nel territorio diocesano (si veda anche la pia pratica della celebrazione della Via Crucis del Venerdì Santo, al Colosseo), si ricordano alcuni episodi particolarmente importanti. Pio XII, l’ultimo papa nato a Roma e da una famiglia romana, viene ricordato in questa occasione per il suo essersi adoperato affinché la città non subisse i più crudi orrori della guerra nel corso dell’ultimo conflitto mondiale (da cui l’appellativo di Defensor Urbis) e per la sua dolorosa visita del 20 luglio 1943 al quartiere San Lorenzo appena bombardato. Giovanni XXIII presiedette nel 1960 il primo sinodo diocesano, cui seguì quello di Giovanni Paolo II nel 1993, a conclusione del quale fu promulgato dal medesimo pontefice il Libro del sinodo (24 giugno). Infine papa Francesco, nel primo discorso pubblico seguito immediatamente all’elezione (13 marzo 2013), ha sottolineato ripetutamente lo stretto legame tra il successore di Pietro e la Chiesa romana, «che presiede nella carità tutte le Chiese», chiamando sempre se stesso «vescovo di Roma» e mai «papa».

Fonti e Bibl. essenziale

Libro del Sinodo della Diocesi di Roma: secondo Sinodo diocesano celebrato sotto la presidenza di Sua Santità Giovanni Paolo II, s.l., s.n. [Istituto Pio XI, Roma] 1993; V. Vidotto (ed.), Roma capitale, Laterza, Roma-Bari 2002; G. Cassiani (ed.), I Giubilei del XIX e XX secolo: atti del Convegno di studio, Roma, 11-12 maggio 2000 Rubettino, Soveria Mannelli 2004; C. Brice, Storia di Roma e dei romani da Napoleone ai nostri giorni, Viella, Roma 2007. Si vedano anche i numeri della rivista “Bollettino del clero romano” (1920-1959), poi “Rivista diocesana di Roma” (dal 1960); i volumi della collana “Ricerche per la storia religiosa di Roma” delle Edizioni di storia e letteratura (dal 1977 al 2009).

Immagine: Pio XII in visita a San Lorenzo


LEMMARIO




Santità - vol. II


Autore: Zamboni Lorenzo

Secondo il cristianesimo, è Dio che comunica la “santità” ad ogni essere umano attraverso la mediazione di Cristo. Infatti, se per l’Antico Testamento Dio solo è il “santo” (Isaia 6,3), nel Nuovo Testamento è Gesù a manifestarlo con pienezza, in quanto è l’unico “Santo di Dio” (Giovanni 6,69). Così nessun uomo può esaurire la perfezione di Dio, ma ciascuno può dirne qualcosa, ed alcuni riescono a realizzare con totale radicalità la volontà di Dio, trasmettendo con la loro azione il suo amore: essi sono i “santi”, il capolavoro della grazia di Dio, modelli di umanità e di libertà. La Chiesa, perciò, non può esimersi dal proclamare i santi in nome di quell’annuncio che ne costituisce la missione.

A questo punto, ci possiamo chiedere se sia possibile scrivere una “storia della santità”, e come si possa intenderla. Si può: poiché i santi hanno il cuore per Dio e per i fratelli, ma camminano nella storia con i piedi per terra, così la storia della santità cristiana è la storia del mondo come gli uomini vorrebbero che fosse secondo il messaggio evangelico: è una storia incarnata, vissuta nel tempo. Ne deriva, dunque, che il fenomeno della santità è complesso e multiforme; ne esamineremo alcuni aspetti relativi alla Chiesa italiana dall’Unità della Penisola in poi.

Beatificazioni e Canonizzazioni

Un primo aspetto da considerare è il numero delle beatificazioni e delle canonizzazioni, che rappresentano il riconoscimento “ufficiale” della santità.

Numero beatificazioni e canonizzazioni di diocesi italiane
Periodo Beati Santi
1861-1870 4 5
1871-1880 0 0
1881-1890 7 5
1891-1900 8 2
1901-1910 6 2
1911-1920 2 1
1921-1930 11 3
1931-1940 7 8
1941-1950 8 7
1951-1960 10 11
1961-1970 11 4
1971-1980 12 1
1981-1990 38 10
1991-2000 59 7
2001-2007 47 23
Fonte: mia elaborazione da Index ac status causarum, 1999 e I supplementum 2000-2007.

In questa tabella è possibile leggere il numero dei beati e dei santi promossi nelle diocesi italiane, anche se non si tratta necessariamente di santi italiani: ad esempio, sono comprese figure come San Leopoldo Mandic, cappuccino croato che ha esercitato il ministero a Padova – diocesi in cui si è svolta l’Inchiesta – mentre sono escluse figure come Santa Francesca Cabrini, italiana di Sant’Angelo Lodigiano, che tanto ha fatto per gli immigrati negli Stati Uniti, ma la cui causa è stata portata avanti dalla diocesi di Chicago, cioè laddove ella è morta. La scelta riprende il n. 21 § 1 della Istruzione Sanctorum Mater della Congregazione delle Cause dei Santi uscita nel 2007, che prescrive che il vescovo competente ad istruire l’Inchiesta diocesana sia quello nel cui territorio il Servo di Dio è morto, poiché si presume che quella sia la diocesi in cui egli ha operato maggiormente. È tuttavia possibile chiedere il trasferimento, come suggerisce il n. 22 § 1.

Dal conteggio dei dati, ricavabile dall’Index ac status causarum, pubblicato a cura della stessa Congregazione, emerge come l’andamento delle cause sia stato abbastanza costante fino al 1920, con l’esclusione del decennio 1871-1880, periodo in cui Pio IX fermò ogni cerimonia in seguito alla presa di Porta Pia. Successivamente, all’incirca dal 1922, anno d’inizio del pontificato di Pio XI, si registra un aumento delle canonizzazioni, riconosciute con una media di circa una figura all’anno tra quelle promosse nelle diocesi italiane; quindi, a cavallo della Seconda Guerra Mondiale, segue un’ovvia flessione. L’intuizione del papa lombardo, che col Motu Proprio Già da qualche tempo del 1930 istituì la Sezione Storica, è stata quella di superare la mentalità “giuridica”, e di attribuire quindi un valore importante ai documenti ed alle testimonianze. Questa riforma da un lato valorizzava il contesto storico, familiare, sociale e culturale in cui aveva vissuto il santo, dall’altro apriva la strada ad una presenza più varia di figure, e così tutti potevano e dovevano essere santi. Questo andamento numerico si è confermato fino all’inizio degli anni Ottanta, momento in cui segue una decisa impennata, in linea con l’andamento generale delle beatificazioni e delle canonizzazioni. Infatti, dopo una prima riforma di Paolo VI nel 1969 col Motu Proprio Sanctitas Clarior, con cui furono unificati i due processi, ordinario ed apostolico, si ridussero da quattro a due i miracoli necessari per arrivare ad una canonizzazione per virtù eroiche, nel 1983 la Costituzione Apostolica Divinus Perfectonis Magister e le Normae Servandae riformarono radicalmente il procedimento per le beatificazioni e per le canonizzazioni, in particolare con la riduzione a cinque anni del periodo di tempo successivo alla morte necessario per l’inizio del processo rispetto ai trenta originariamente previsti dal canone 2038 del Codice del 1917.

Lo studio delle beatificazioni e delle canonizzazioni rivela come buona parte della chiesa italiana fosse attenta a questo tema.

DIOCESI ITALIANE CON PIÚ DI 5 PROCESSI APERTI
Diocesi Anno 1953   Diocesi Anno 1999
Napoli 56   Roma 102
Roma 56   Napoli 74
Torino 23   Torino 36
Genova 14   Palermo 32
Milano 14   Milano 28
Palermo 12   Bologna 19
Firenze 10   Firenze 17
Lucca 9   Brescia 16
Bologna 8   Genova 14
Brescia 7   Vicenza 14
Nocera Inferiore 7   Verona 13
Lodi 6   Bergamo 12
      Venezia 12
      Lucca 9
      Monreale 9
      Novara 9
      Nocera Inferiore 8
      Viterbo 8
      Bari 7
      Catania 7
      Lodi 7
      Messina 7
      Parma 7
      Agrigento 6
      Osimo 6
      Imola 6
      Padova 6
      Senigallia 6

Dal computo dei processi in corso nelle singole diocesi emerge come il numero degli stessi sia decisamente aumentato in poco meno di cinquant’anni, e per di più si nota appunto che la distribuzione delle cause riguarda tutta l’Italia. Se negli anni Cinquanta erano le grandi diocesi ad avere in corso il maggior numero di processi, la situazione del 1999, pur confermando questo dato, dimostra che in numerose realtà diocesane più piccole rimaneva viva l’attenzione al riconoscimento della santità tramite i processi. È aumentato considerevolmente anche il numero delle diocesi con almeno un processo in corso: se erano soltanto 106 nel 1953, nel 1999 sono 244, tra le quali 95 con un solo processo avviato.

Per quanto riguarda i processi, è importante segnalare l’introduzione nel 2017 dell’offerta della vita come “quarta via” dell’iter delle canonizzazioni. Con il Motu Proprio Maiorem hac dilectionem, papa Francesco ha introdotto una novità nella secolare prassi della Chiesa, che finora aveva riconosciuto come vie della canonizzazione il martirio, le virtù eroiche e la conferma di un culto antico (“casus excepti”). Con l’offerta della vita, cioè tramite l’accertamento di una morte certa e prematura, si viene ad agevolare la beatificazione e la canonizzazione di quei fedeli che hanno eroicamente offerto in modo libero e volontario la propria vita per il prossimo; questa forma di canonizzazione si differenzia dal martirio nell’assenza del persecutore anticristiano. È per ora prematuro valutare concretamente l’effetto sui processi di beatificazione e di canonizzazione, ed in particolare per le figure italiane.

Modelli di Santità

Connessi con le canonizzazioni, ma non solo, sono i modelli di santità proposti dalla chiesa in Italia. Alcuni di essi sono presentati, anche se non ancora riconosciuti, dalla Chiesa Ufficiale; inoltre sono soprattutto gli ordini religiosi a proporre i loro modelli. È possibile, tuttavia, rintracciare alcune caratteristiche costanti.

Un primo modello proposto alla venerazione dei fedeli di tutto il mondo, che rimane costante per tutto l’Ottocento e per gran parte del XX secolo, è quello dei fondatori e delle fondatrici. Questo modello si configura innanzitutto nel suo essere di stampo italiano e, soprattutto, romano: la presenza nell’Urbe e nelle sue vicinanze di istituzioni centrali di ordini e congregazioni religiose, di fatti, ha facilitato l’introduzione delle cause dei fondatori a Roma. In questo modo, il riconoscimento della santità dei religiosi e degli ecclesiastici ha accentuato la sacralità della città eterna, elemento che certamente non è dispiaciuto alle autorità ecclesiastiche. Ne è derivato che, nella diocesi di Roma, il numero delle cause è aumentato al punto di essere superiore a quello di interi paesi tradizionalmente cattolici, come Austria, Portogallo e Belgio. Ciò vale soprattutto per le figure femminili: la metà delle sante canonizzate a partire dal XX secolo sono fondatrici di ordini religiosi. Il fatto che ciò sia potuto avvenire solo in tempi recenti è dovuto al fatto che le stesse istituzioni femminili hanno potuto affrontare il lungo ed impegnativo iter della canonizzazione solamente dopo aver raggiunto un’autonomia finanziaria e il necessario spirito di iniziativa.

Un secondo modello proposto ai fedeli è quello della “santità ultramontana”, che propone un ideale di santità a forte configurazione ecclesiastica, con accentuato privilegio del modello clericale. In un contesto permeato da una notevole sensibilità post-tridentina, Giovanni Maria Vianney e San Carlo Borromeo sono i modelli rispettivamente per i presbiteri e per i vescovi: la fedeltà alla Chiesa, infatti, è proposta come valore predominante. Sono inoltre incentivate alcune devozioni, come quella del Sacro Cuore e della Vergine Maria, la quale in particolare trae vantaggio dalle apparizioni che culminano a Lourdes nel 1858, con la conferma della precedente approvazione del dogma dell’Immacolata Concezione. Il movimento ultramontano raggiunge il proprio acme durante il Concilio Vaticano I, con l’approvazione del dogma dell’infallibilità. Pochi mesi dopo termina il potere temporale del papa, Pio IX si proclama “prigioniero in Vaticano” e suscita la solidarietà del mondo cattolico, che risponde con affetto e devozione.

Attorno al 1880 lentamente interviene un cambiamento. La devozione ultramontana, che pure aveva ispirato tante iniziative caritatevoli ed assistenziali, ma che anche aveva promosso forme di preghiera che sottolineavano aspetti sentimentalistici e puerili, come pure intenzioni moralizzatrici, cedeva lentamente il passo ad una ricerca di Dio più semplice ed essenziale, ad un abbandono incondizionato. È questo il messaggio di Teresa di Lisieux, che ebbe eco immediata in quel contesto, al quale in Italia si può associare quello di Rita da Cascia, canonizzata durante il Giubileo del 1900, e di Gemma Galgani, morta nel 1903 e canonizzata per una vita di nascondimento, di segrete penitenze e di umiltà.

In questo scorcio di fine Ottocento, in Italia inizia ad emergere in Italia il riconoscimento di una “santità sociale” a diversi individui, spesso ancor prima che la Chiesa li proponga ufficialmente alla venerazione dei fedeli. Il modello di questa santità è san Giuseppe, sposo di Maria. Se, alla fine dell’Ottocento, la Chiesa iniziava a rapportarsi con una società in trasformazione e con la nuova categoria produttiva degli operai, la risposta delle gerarchie alle mutate condizioni di vita produsse una fitta rete di enti ed istituti di assistenza di vario tipo. Da questo contesto emergono, soprattutto nel XX secolo, diversi personaggi italiani, come don Giuseppe Benedetto Cottolengo, morto nel 1842 e canonizzato nel 1934 alla conclusione del Giubileo della Redenzione, oppure don Luigi Orione (morto nel 1940, canonizzato nel 2004), don Carlo Gnocchi (morto nel 1956), o don Zeno Saltini (morto nel 1981).

Un ulteriore modello di cristianità caratterizza il periodo 1910-1950 circa. In quegli anni, infatti, dapprima si accresce la tensione internazionale, quindi l’esasperato nazionalismo produce effetti deleteri (Pio XI ne denuncerà gli eccessi) che culminano nelle due Guerre Mondiali. La chiesa propone il ritorno ad un ideale di cristianità da opporre alle ideologie del tempo, con un programma che nel 1925 ha portato, tra le altre iniziative, all’introduzione della festa di Cristo Re. Di conseguenza, figure come San Giovanni Bosco, beatificato nel 1929 e canonizzato nel 1934, o Santa Paola Frassinetti, beatificata nel 1930, costituiscono modelli di educazione della gioventù. Proprio il fondatore dei salesiani è canonizzato nel giorno di Pasqua, 1° aprile 1934, in una solenne celebrazione con cui si conclude l’anno Santo della Redenzione, terminato il giorno seguente con la chiusura della Porta Santa. La data di questa canonizzazione è eccezionale, ed il papa stesso la considerò come suggello dell’anno della Redenzione. A questi modelli si aggiungono i santi giovani: tra essi spiccano Domenico Savio, su cui nel 1859 è pubblicata a cura dello stesso don Bosco una biografia modellata su quella di San Luigi Gonzaga, patrono della gioventù dal 1729, oppure la figura di Pier Giorgio Frassati, morto nel 1925 e di cui tre anni dopo don Antonio Cojazzi pubblicò un’interessante biografia. Anche all’interno degli ordini regolari spiccano casi di santi giovani, come Gabriele dell’Addolorata, morto nel 1862, beatificato nel 1908 e canonizzato nel 1920, il cui culto, originariamente promosso in funzione antiunitaria, si diffuse sino alla canonizzazione del 1926, con la quale fu elevato al livello di co-patrono della gioventù. In quegli stessi anni, si recuperò anche l’interesse verso i santi dell’antichità, come san Tarcisio, figura in realtà più letteraria che storica, oppure come Sant’Agnese, proposta alle ragazze come figura esemplare, sulla base della quale venne riletta la vicenda di Maria Goretti, morta nel 1902 e la cui prima biografia agiografica è del 1929.

Già durante il pontificato di Pio XI, ma ancor più con quello di Pio XII, inizia ad emergere una valorizzazione della santità anche nel laicato, ampliata certamente dal Concilio Vaticano II, ma di cui l’assise conciliare non ha l’esclusiva. Tra i santi laici si trovano personaggi molto diversi tra loro, come il già citato Frassati, oppure come Bartolo Longo, fondatore del santuario di Pompei, morto nel 1926 e beatificato nel 1980, o come Giuseppe Moscati, medico beneventano morto nel 1927 e canonizzato nel 1987, o anche come Contardo Ferrini, professore universitario, morto nel 1927 e beatificato nel 1947, oppure come la mamma Gianna Berretta Molla, morta nel 1962 e proclamata santa nel 2004, ed ancora come il professor Giuseppe Lazzati, morto nel 1986 e proclamato venerabile dal 2013: tutte figure che sono soltanto alcuni tra gli esempi che riflettono l’insegnamento del Concilio Vaticano II sulla santità. Il Concilio di Trento aveva già trattato del culto dei santi, contestato dalla Riforma, ma non aveva fornito un’esposizione sistematica sulla santità, come fece invece Lumen Gentium, da cui è possibile sintetizzare tre elementi centrali: in primo luogo, tutti i fedeli sono chiamati alla santità; quindi essa non è altro che l’unione con Cristo; infine, quest’unica santità si presenta in forme molteplici. Per questo motivo, accanto ai modelli tradizionali, si moltiplicano i santi vissuti in ambienti e àmbiti di vita diversi da quelli tradizionali, che pure continuano a permanere, come quello della vita religiosa, nel caso di San Pio da Pietrelcina, oppure in quello della vita sacerdotale, come per San Giovanni Maria Vianney e per San Giovanni Bosco.

Nel mondo contemporaneo, questo cammino trova una conferma ed un’esplicitazione nell’esortazione apostolica sulla chiamata alla santità Gaudete et exsultate del 19 marzo 2018. Papa Francesco, ricordando che “per un cristiano non è possibile pensare alla propria missione sulla terra senza concepirla come un cammino di santità” (n. 19), riporta al centro della vita cristiana l’universale chiamata alla santità, valorizza “i santi della porta accanto” o “la classe media della santità” (n. 7); porta cioè alla luce i segni della santità di tutti i membri del popolo di Dio, a partire dai genitori, dagli sposi, dai malati che vivono con fede, speranza e carità la loro vita ordinaria. Inoltre, si dà grande attenzione alla santità femminile (tra le altre, sono citate espressamente due figure italiane contemporanee: la beata Maria Gabriella Sagheddu e santa Giuseppina Bakhita, sudanese che ha vissuto gran parte della vita in Veneto). Per questo motivo, nel capitolo quarto dell’esortazione, papa Francesco evidenzia cinque grandi manifestazioni dell’amore per Dio e per il prossimo che ritiene importanti nel contesto culturale del ventunesimo secolo: sopportazione, pazienza e mitezza; gioia e senso dell’umorismo; audacia e fervore; aspetto comunitario; preghiera costante. La santità proposta da papa Francesco non è, dunque, un traguardo impossibile, ma una via per tutti praticabile attraverso i piccoli gesti della quotidianità.

Le Devozioni Popolari

Al tema della santità si lega anche una riflessione sulle devozioni, che dimostrano la sensibilità alla santità “dal basso”. Se ci riferiamo ai santi, il culto sembra aver subìto un’eclissi, perché il secolo XIX sembra essere il secolo delle devozioni ai santi, mentre nel XX esse sono soggette ad un lento ma costante oblio. In realtà, durante l’Ottocento, sono due gli interlocutori più invocati: la Vergine Maria e San Giuseppe, che respingono nell’ombra il resto dei santi. Il culto di Maria è associato a quello di Gesù, in particolare nella Santa Famiglia, un modello proposto dal clero cattolico con sempre maggior frequenza contro la secolarizzazione crescente. Grazie anche al riconoscimento delle apparizioni mariane, lo spazio dedicato alla Madonna nella spiritualità cristiana si estende in modo crescente, ed essa è invocata da tutte le categorie di fedeli: è madre umile e gloriosa di Dio, è Madre dolorosa del Calvario, è Madre Misericordiosa per coloro che la invocano. Anche i due dogmi, quello dell’Immacolata Concezione del 1854 e quello dell’Assunta del 1950, contribuiscono a diffondere e rinforzare questa devozione. Il rosario diviene preghiera comune, il mese di maggio assume uno spazio notevole nella scansione del tempo cristiano. Inoltre, grazie al culto mariano, nell’Ottocento ritorna ad emergere una fitta rete di santuari mariani: tra questi, in Italia si distinguono per numero di presenze Loreto e Pompei, che hanno progressivamente assorbito l’importanza precedentemente dedicati ai santi, soprattutto locali. Il culto della Sacra Famiglia si giovò anche della maggiore attenzione dedicata a san Giuseppe, molto invocato nel XIX secolo, modello di ubbidienza e umiltà ed efficace protettore. Nel 1847 Pio IX estese a tutta la Chiesa la festa liturgica di San Giuseppe il 19 marzo; quindi, nel 1955, papa Pio XII volle dare un senso cristiano alla Festa dei Lavoratori del 1° maggio fissando la festa di San Giuseppe lavoratore; inoltre, sia Pio IX, sia e Pio XI, consacrarono a San Giuseppe il mese di marzo.

In generale, le devozioni ai santi affrontano nel tempo un’evoluzione, perché piano piano l’interesse verso il santo protettore cede il passo al santo da cui si attende un insegnamento ed uno stimolo all’emulazione. A questo proposito, è bene notare che l’interesse storico ha fatto sì che, poco dopo il 1900, il culto di Santa Filomena, presunta martire che una errata interpretazione di una scritta catacombale aveva reso tale, abbia perso forza e diffusione, mentre figure come San Vincenzo de Paoli, simbolo della carità, San Francesco Saverio o San Luigi Gonzaga, grandi figure della Compagnia di Gesù, abbiano guadagnato interesse. Secondo Pio XI, i santi dovevano avere funzione catechistica, formativa ed esemplare, perciò, come già osservato, lo stesso papa promosse numerose canonizzazioni e beatificazioni. Verso il 1930 fu inoltre riletta e riscoperta la figura di san Francesco d’Assisi, più in virtù del cristocentrismo più che per lo spirito di povertà: lo stesso santo nel 1939 fu proclamato patrono d’Italia. Al giorno d’oggi, alcuni santi mantengono uno spazio di devozione grazie al santuario dove è conservato il corpo, come san Francesco, ad Assisi, sant’Antonio, a Padova, san Gabriele dell’Addolorata, il cui santuario è vicino a Teramo, san Giuseppe Moscati, le cui stanze sono ricostruite presso la chiesa di Gesù Nuovo a Napoli, Padre Pio da Pietrelcina, il cui corpo è conservato al santuario di San Giovanni Rotondo. Infine, alle devozioni dei santi e all’attenzione alla santità contribuisce ancora la diffusione di santini e di bollettini dei santuari, di molto aumentati negli ultimi duecento anni.

Fonti e Bibl. Essenziale

Fonti: Index ac status causarum, Città del Vaticano (varie edizioni: 1953; 1962; 1975; 1988; 1999); Index ac status causarum. I supplementum 2000-2007, Città del Vaticano 2008, Francesco, esortazione apostolica Gaudete et exsultate, Città del Vaticano 2018.

Opere: Plongeron B. (cur.), Storia dei Santi e della santità cristiana, 11 vv., Parigi 1991; Scaraffia L., Zarri G., Donne e fede, Roma-Bari 1994; Rusconi R., Una chiesa a confronto con la società in Benvenuti A., Boesch Gajano S., Ditchfield S., Rusconi R., Scorza Barcellona F., Zarri G., in «Storia della santità nel cristianesimo occidentale», Roma 2005; Boesch Gajano S., La santità, Roma-Bari 1999; Rumi G., Santità sociale in Italia tra Otto e Novecento, Torino 1995; Rusconi R., Santi della Chiesa nell’Italia Contemporanea, in «Cristianesimo nella storia», 18, 1997, 585-591; Delooz P., Sociologie et canonisations, Liegi 1969; Accattoli L., Nuovi martiri nell’Italia di oggi, in Elberti s.j. P.A. (cur.), «La santità» (Nuova Biblioteca di Scienze religiose), Napoli 2001, 155-162; Apeciti E., Pio XI e i suoi santi. La politica delle canonizzazioni, in Cajani F. (cur.), Pio XI ed il suo tempo (Quaderni della Brianza), Besana Brianza, 2000; Spadaro A., Gaudete et exsultate. Radici, struttura e significato della esortazione apostolica di papa Francesco in «La Civiltà Cattolica» 2018, II, 107-123; Criscuolo V., Pellegrino C., Sarno R.J., Le Cause dei Santi. Sussidio per lo Studium, Città del Vaticano 20184.

LEMMARIO




Santuari - vol. II


Autore: Giovanni Liccardo1

La svolta moderna. Mentre nella tarda antichità e nel medioevo, lo sviluppo dei santuari fu principalmente legato al culto dei santi e delle loro reliquie, a partire della fine del Trecento e in epoca moderna la loro nascita si riferisce per lo più alle loro immagini o ad alcune rivelazioni soprannaturali; così in Occidente, l’origine della devozione, testimoniata nelle leggende di fondazione, risale spesso alla scoperta fortuita fatta da un contadino o da una pastorella, di una statua di Cristo o della Vergine Maria sepolta nella terra o nascosta nel tronco di un albero.

Paradigmatica è la storia del santuario pugliese della Madonna della Fontana, a Francavilla Fontana, legata alle vicende del principe di Taranto Filippo D’Angiò (1278-1332); secondo la tradizione, mentre cacciava cervi in quella zona, il nobile avrebbe rinvenuto presso una fontana un’immagine della Vergine dipinta su un muro in rovina. Simili circostanze determinarono l’erezione, tra gli altri, dei santuari casertani di Roccamonfina (S. Maria dei Lattani) e della B.V. del monte Altino, nella media valle Seriana, in provincia di Bergamo.

Ciò nondimeno, altri tipi di santuari sono legati alla perdita definitiva della Terra Santa nel 1291 e alle invasioni turche che rafforzarono il desiderio dei cristiani, soprattutto in Italia, di riportare Gerusalemme in patria, nel quadro di un movimento spirituale di superamento mistico della crociata. Iniziò allora un processo di trasferimento in Occidente delle sacralità orientali, illustrato in modo particolare dal “miracolo” della Santa Casa di Loreto, dove, secondo la tradizione, la Vergine Maria ricevette l’Annunciazione. La casa di Maria era costituita da due parti: da una grotta scavata nella roccia e da una camera in muratura antistante, composta da tre pareti di pietre poste a chiusura della grotta. Alcune indicazioni documentali, i risultati degli scavi archeologici a Nazareth e nel sottosuolo della Santa Casa (1962-65) e studi filologici e iconografici, sembrerebbero confermare l’ipotesi secondo cui le pietre della Santa Casa furono trasportate a Loreto su una nave, per iniziativa della nobile famiglia Angeli, che regnava sull’Epiro. Comunque, dalla sua fondazione la memoria lauretana coinvolge numerose manifestazioni religiose, artistiche, letterarie; la Santa Casa di Loreto è diventata meta di pellegrinaggio, centro spirituale e culturale tra i più importanti e noti d’Europa. Ancora oggi Loreto continua ad essere “sosta dell’anima”, luogo d’incontro con Dio e talora forza ispiratrice per nuove iniziative, per istituti religiosi e movimenti della Chiesa.

Dal Trecento l’esigenza di fissare nello spazio l’immaginario religioso legato all’esistenza terrena di Cristo e di sua madre trovò un’espressione tangibile nella creazione di spazi devozionali basati sulla ricostruzione cronologica e topografica della Passione di Cristo in un percorso simile a quello che si può desumere dai vangeli. In questo modo la fissazione delle memorie religiose in stretto collegamento con la realtà visibile e durevole di un paesaggio e tramite la figurazione scenografica di alcuni episodi maggiori della storia della salvezza furono impiegate dalla Chiesa per dare un carattere immutabile alle credenze religiose.2

Più o meno nello stesso tempo, inoltre, fu promossa la venerazione di specifici santi dagli Ordini Mendicanti, che trasformarono i loro santuari in articolate imprese architettoniche e artistiche; basti pensare alle basiliche francescane di Assisi, che videro la presenza dei massimi pittori della fine del ’200 e del ’300 (Cimabue, Giotto, Simone Martini e altri). In particolare, l’itinerario nei luoghi del francescanesimo primitivo, dentro e fuori Assisi (tra gli altri, la Porziuncola a Santa Maria degli Angeli, il Convento di S. Damiano, l’eremo delle Carceri, il santuario di Rivotorto) racconta la storia di un grande cammino di fede e permette di ricostruire le tappe di una strada che condusse sempre Francesco e poi i suoi seguaci all’incontro con gli altri uomini e ad un rapporto di amore ed armonia con tutto il creato. Altro importante polo francescano di pellegrinaggio fu la basilica di Sant’Antonio di Padova, ininterrotto cantiere dal XIV al XX secolo (a decorare il santuario concorsero, tra gli altri, Donatello, Giorgione, Tiziano, Annigoni, ecc.). Secondo la tradizione, deceduto Antonio nel 1231, il suo corpo – secondo il suo stesso desiderio – venne trasportato e sepolto nella chiesetta di Santa Maria Mater Domini. Il primo nucleo della basilica, una chiesa francescana a una sola navata con abside corta, fu iniziato nel 1238; furono poi aggiunte le due navate laterali e alla fine si trasformò il tutto nella stupenda costruzione visitata ogni anno da decine di migliaia di pellegrini e turisti.

All’ordine agostiniano, invece, è legato il santuario di San Nicola da Tolentino (morto nel 1305). La sepoltura e specialmente la fama e la considerazione del “grande taumaturgo”, celebrate dagli affreschi del Cappellone, dalle numerosissime tavolette ex voto e dalle belle tele, hanno da allora richiamato l’attenzione di grandi masse popolari; le prove della consolante presenza di Dio, testimoniate dal santo agostiniano, hanno avuto, in questo caso, anche un valore pedagogico per fare scoprire ai fedeli le vie della virtù e della santità.3

I santuari più frequentati. I santuari possono concorrere anche nell’attuale fase storica ad arginare il secolarismo e a incrementare la pratica religiosa, lo sottolinea una recente raccomandazione del cardinale Mauro Piacenza e dell’arcivescovo Celso Morga Iruzubieta, presidente e segretario della Congregazione per il Clero, indirizzata, tramite gli ordinari diocesani, ai rettori dei santuari di tutto il mondo; i santuari, secondo la nota, «possono continuare ad illuminare molti con la gioia della fede cristiana ed a contribuire a sensibilizzare all’ascolto della chiamata universale alla santità».

Tra i santuari più frequentati attualmente in Italia è quello della Madonna del Rosario di Pompei, edificato per volontà del beato Bartolo Longo: l’8 maggio e la prima domenica di ottobre nel santuario si recita la supplica scritta dallo stesso benefattore. Costruito tra il 1876 e il 1891, ampliato nel 1933-39, è visitato ogni anno da più di quattro milioni di fedeli: l’affluenza dei devoti e dei pellegrini, la particolare benevolenza papale, vivissima specie durante il pontificato di Giovanni Paolo II, la diffusione della pratica del rosario lo hanno reso uno dei nuclei principali degli itinerari mariani d’Italia e d’Europa. Centro della devozione mariana è l’icona della Beata Vergine del Rosario, che rappresenta Maria con in grembo Gesù assisa in trono e circondata da san Domenico e da santa Caterina da Siena; l’opera, della scuola di Luca Giordano, si presenta adorna di gemme e attorniata dai misteri del rosario, dipinti su rame da Vincenzo Paliotti. Nella cripta sotto l’altare maggiore si conservano i resti di Bartolo Longo, proclamato beato il 26 ottobre 1980: a lui è dedicato anche il Museo del Santuario, in cui si conservano la sua camera da letto, le sue suppellettili e numerosi ex voto.

Sempre in Campania, un caso peculiare è rappresentato dal santuario della Madonna dell’Arco; costruito a cavallo tra il 1500 e il 1600, il santuario è rimasto fondamentalmente come appare oggi al visitatore. Qui la pietà popolare prorompe esuberante ogni anno da oltre cinque secoli il lunedì dopo Pasqua, in ricordo del lunedì del 1450 in cui avvenne il primo miracolo, mentre alcune altre manifestazioni di fede, che ebbero origine alla fine del Cinquecento, non sono mutate molto con il passare degli anni. Si calcola che il lunedì in albis oltre centomila persone affluiscano da tutta la Campania e da altre regioni d’Italia; caratteristica di questa giornata è la partecipazione al pellegrinaggio di numerosi gruppi di “battenti” (cioè coloro che si battono mentre camminano in processione a devozione della Vergine) o “fujenti” (cioè coloro che corrono durante il loro cammino verso il santuario) di ambo i sessi. Vestiti di bianco con fasce rosse alla vita e azzurre a tracolla, preceduti da bandiere e stendardi tutti con l’immagine della Madonna dell’Arco, vengono a piedi (talora scalzi), spesso con molte ore di cammino alle spalle. Di solito, i gruppi di devoti che si recano al santuario della Madonna dell’Arco allo scopo di portare a compimento il proprio voto, partono nelle prime ore del mattino, dopo essersi radunati davanti alla chiesa parrocchiale o presso la sede dell’associazione. Il pellegrinaggio alla Madonna dell’Arco con la sua schiettezza e semplicità popolare, con le sue esuberanti manifestazioni, ha esercitato un potente fascino sull’animo di molti artisti.4

Altro importante santuario, assai frequentato oggi, è quello dedicato a Santa Rita. La sua costruzione si rese necessaria per l’affluire di una massa sempre crescente di pellegrini che si recavano a rendere omaggio alle spoglie della santa (canonizzata da Leone XIII il 26 maggio 1900). Venne iniziata nel 1936 di lato alla primitiva chiesa e al convento; progettato da Spirito Maria Chiapetta, fu ultimato nel 1940 e aperto al culto nel 1948. La festa che Cascia tributa a Santa Rita, e che rappresenta uno dei richiami principali per i pellegrini, è particolarmente articolata e momenti puramente celebrativi si alternano ad ampi spazi di riflessione legati ad una liturgia che ormai conta secoli di storia. È il caso dei “giovedì di Santa Rita”, una particolare devozione nata quasi trecento anni fa e mai interrotta: per i 15 giovedì antecedenti la festa del 22 maggio si svolgono in diverse ore della giornata incontri di fede in preparazione della festa.

Una straordinaria intensità devozionale, infine, si compie oggi presso il moderno santuario di San Giovanni Rotondo, centro del culto di San Pio da Pietrelcina che visse nell’omonimo borgo per quattro decenni e del quale si custodiscono le memorie più importanti. Il flusso dei pellegrini, che raggiunge cifre di sei/sette milioni l’anno, ha determinato la costruzione di un’imponente serie di costruzioni per i fedeli, culminate nell’edificazione di una nuova chiesa commissionata dall’Ordine dei Frati Minori Cappuccini della provincia di Foggia alla Renzo Piano Bulding Workshop. La fabbrica religiosa, iniziata nel 1994 e consacrata il primo luglio 2004 con la dedicazione a “San Pio da Pietrelcina” (dinanzi ad oltre trentamila persone), ha determinato la necessità di scavare 70.000 metri cubi di roccia; si sviluppa su una superficie complessiva di circa 9.200 mq. con una capacità di 7.000 posti a sedere, ciò nondimeno nelle grandi occasioni il grande sagrato permette a 30.000 fedeli di poter assistere alle cerimonie religiose. Il santuario, unico nel suo genere, ha la forma della conchiglia; i suoi diciassette arditi e possenti archi, disposti a raggiera, realizzati con blocchi di pietra garganica, costituiscono la struttura portante della struttura secondaria in legno e acciaio che sorregge la volta, e convergono tutti nel punto dov’è l’altare. Nel pilastro centrale è stata collocata l’urna contenente i resti di Padre Pio, traslati dalla cripta della chiesa di Santa Maria delle Grazie il 19 aprile 2010. Eppure, la costruzione ha raccolto anche molte critiche, poiché la grandiosa architettura sembra priva di pregio artistico; lo stile (per alcuni adatto più ad uno stadio che ad un luogo di culto) ha deluso poi chi era propenso per una forma più classica dell’edificio. Accese discussioni ha meritato pure la realizzazione della cripta del santo in oro massiccio, con l’inserimento di 2.000 metri quadrati di mosaici, grazie al contributo ventennale dei milioni di devoti al padre di Pietrelcina; l’edificio è stato inaugurato da papa Benedetto XVI.

Fonti e Bibl. essenziale

Arte e Architettura nel Santuario di Cascia (Pg): opere, documenti e testimonianze; primo centenario della canonizzazione di S. Rita 1900-2000, Centro per l’Arte, Roma 2000; Basilica San Nicola a Tolentino: guida al santuario, Basilica San Nicola (Pollenza Tip. S. Giuseppe), Tolentino 2008; S. Boesch Gajano e L. Scaraffia (a cura di), Luoghi sacri e spazi della santità, Rosenberg e Sellier Editori, Torino 1990; P. Caggiano – M. Rak – A. Turchini, La madre bella, Pontificio Santuario di Pompei, Pompei 1990; D.L. Carmichael, J. Hubert, B. Reeve, A. Schanche, Luoghi di culto, culto dei luoghi. Sopravvivenza e funzioni dei siti sacri nel mondo, ECIG, Genova 1996; O. Condorelli, Clerici peregrini: aspetti giuridici della mobilità clericale nei secoli XII-XIV, Il Cigno-Galileo Galilei edizioni, Roma 1995; Donne in viaggio: viaggio religioso, politico, metaforico, a cura di M.L. Silvestre – A. Valerio, GLF editori Laterza, Roma 1999; E. Dupré Theseider, Loreto e il problema della città santuario, Sonciniana, Fano 1959; F. Grimaldi, Devozione e committenza nelle Marche: la Madonna di Loreto, Delegazione pontificia per il Santuario della Santa casa di Loreto, Loreto 1997; Le Basiliche rinate: San Francesco ad Assisi, San Pietro a Roma, De Agostini-Rizzoli periodici, Milano 1999; Il grande cammino: itinerari e luoghi dei pellegrini nel Medio Evo e nel nostro tempo, a cura di R. Bove, I.S.U. Università Cattolica, Milano 2000; G. Palumbo, Giubileo giubilei: pellegrini e pellegrine, riti, santi, immagini per una storia dei sacri itinerari, RAI-ERI, Roma 1999; G. Scarvaglieri, Pellegrinaggio ed esperienza religiosa: ricerca socio-religiosa sul Santuario Santa Maria delle Grazie in San Giovanni Rotondo, Padre Pio da Pietrelcina, San Giovanni Rotondo 1987; Scotto D. (a cura di), Del visibile credere. Pellegrinaggi, santuari, miracoli, reliquie, Olschki, Firenze 2011; L. Sganzini – S. Valzania, La via maestra: attraverso le Alpi sulle orme dei pellegrini, Casadei Libri, Padova 2009; M. Tosti, Santuari cristiani d’Italia. Committenze e fruizione tra Medioevo ed Età Moderna. Atti del convegno di Isola Polvese (Perugia, 11-13 settembre 2001), Roma 2003.

Immagini:

1) Siracusa, Santuario Madonna delle Lacrime; 2) Trieste, Santuario Nazionale a Maria Madre e Regina; 3) Tindari (Me), Decorazioni della cupola del santuario della Madonna; 4) Cascia,  Abside del santuario di Santa Rita.

Sitografia:

http://www.vatican.va/roman_curia/pontifical_commissions/pcchc/index_it.htm (sito della Pontificia Commissione per i Beni Culturali della Chiesa); http://www.chiesacattolica.it/beniculturali/ufficio/00006065_Finalita_e_struttura.html (sito dell’Ufficio nazionale per i beni culturali ecclesiastici della Segreteria Generale della Conferenza Episcopale Italiana); http://www.santuario.it/ (sito del Pontificio Santuario della Beata Vergine del Santo Rosario di Pompei, con notizie storiche generali); http://www.santuari.it/ (sito dedicato ai santuari d’Italia).


LEMMARIO




Scienza, medicina, biologia - vol. II


Autore: Ludovico Galleni

L’unità d’Italia si apre con un panorama della scienza internazionale in cui sta prepotentemente salendo alla ribalta il tema dell’ evoluzione biologica. Infatti la pubblicazione, nel 1859, del libro di Darwin, sull’origine delle specie per selezione naturale, (preceduto nel 1858 dalla pubblicazione congiunta delle due note dello stesso Darwin e di A.R. Wallace) aveva suscitato notevole interesse e animate discussioni nel campo scientifico, ma anche filosofico e teologico, sia in Gran Bretagna che altrove.

Il libro di Darwin infatti, non solo riprendeva la teoria della trasformazione nel tempo dei viventi e della discendenza delle specie da antenati comuni che era già stata presentata agli inizi del XIX secolo da J.B. Lamarck, ma anche proponeva un meccanismo, quello della selezione naturale, facile da comprendere e anche da osservare in natura, chiaro e sperimentabile, almeno confrontandosi con il modo di lavorare degli allevatori. Divenne subito evidente non solo come questa teoria mettesse in discussione qualunque ulteriore possibilità di una lettura letterale del libro della Genesi, ma anche come potesse essere facilmente applicata all’Uomo. E questo aprì discussioni e scontri con la teologia e la filosofia della chiesa d’Inghilterra.

Al contrario proprio l’ambiente cattolico inglese, ricco delle esperienze del cardinale Wiseman e di John Henry Newman, fu invece molto più pronto di quello anglicano a recepire le novità dell’ evoluzione. Non possiamo non ricordare come sia stato proprio uno zoologo inglese, convertitosi al cattolicesimo, St. George Jackson Mivart, a pubblicare, già nel 1865 un albero di filogenesi in cui chiaramente si mostra la separazione tra il ramo delle scimmie antropomorfe e quello che porta all’uomo. Questa discussione investì anche il mondo cattolico italiano che stava vivendo un momento di particolare vivacità culturale e intellettuale dopo il grande sforzo dell’unità. Filosofi come Gioberti e Rosmini e altre figure, in particolare del cattolicesimo lombardo che tanto aveva dato alla causa del Risorgimento, avevano creato uno spazio di libertà intellettuale che veniva fortemente recepito anche nel mondo scientifico. Desideriamo quindi, facendo riferimento ad alcuni personaggi chiave della cultura italiana post unitaria, proporre una ricostruzione dei rapporti tra chiesa e scienza subito dopo l’Unità d’ Italia.

La prima figura che incontriamo è quella dello zoologo lombardo, ma docente a Torino, Filippo de Filippi. Si tratta di una figura attiva nelle discussioni che hanno luogo durante gli incontri degli scienziati italiani e che ha avuto anche un’ importante attività di divulgatore e di insegnante. Era abbastanza noto un piccolo libro dedicato alla figlia, “Lettere sulla Creazione terrestre”, in cui si sottolineava quanto la conoscenza delle scienze naturali fosse importante per l‘educazione delle ragazze; ma fu importante anche la conferenza del 1864 tenuta a Torino sui rapporti tra Uomo e Scimmie. T. Huxley aveva appena pubblicato in Inghilterra, il suo libro, “Il posto dell’ Uomo nella natura” in cui affrontava il problema del rapporto Uomo e Scimmie. La conferenza di Torino è immediatamente successiva. De Filippi sottolinea come la adesione alle ipotesi evolutive e darwiniane ponga il problema dei rapporti dal punto di vista anatomico e fisiologico tra Uomo e scimmia.

Una analisi attenta mostra come siano ben poche le differenze e rende quindi plausibile l’idea che esse derivino da un antenato comune. Semmai la grande diversità è quella psicologica e lì forse va cercato un salto di qualità. Di fronte alle obiezioni di Bianconi, anatomo comparato di Bologna, che gli rimproverava di non avere tenuto in considerazione il testo biblico, De Filippi faceva notare come in fondo anche nel testo biblico, Dio aveva immesso l’anima in materia preesistente: un pezzo di impuro fango. E, aggiunge De Filippi, non è molto più bello pensare che l’abbia immessa in un essere che rappresenta la ricapitolazione di tutta la Creazione? Il dibattito è molto civile anche se avviene tra due scienziati di posizioni teologicamente diverse.

È dunque interessante vedere come la prima ricezione del darwinismo in Italia avvenga da parte di uno scienziato dichiaratamene cattolico come il De Filippi. Naturalmente le cose non sono così semplici: il mondo della cultura cattolica si divide in due campi, ma mentre il mondo scientifico nell’insieme si confronta abbastanza serenamente con i dati, la reazione più dura viene dal mondo dei letterati che entrano in polemica con gli autori che usano l’evoluzionismo darwiniano per una apologetica di tipo ateo. Ne è un esempio il durissimo attacco all’evoluzione che porta Niccolò Tommaseo in una serie di interventi raccolti poi con un titolo quasi simile a quello del De Filippi: l’ Uomo e la Scimmia.

De Filippi è anche impegnato nella riorganizzazione degli insegnamenti delle scienze naturali nell’ Italia ormai unita e promuove una collana didattica di testi di scienze naturali, si preoccupa anche del rilancio e della organizzazione della ricerca e proprio per questo è tra i promotori della prima grande spedizione scientifica dello stato unitario, quella della nave Magenta che parte da Montevideo per giungere poi in Estremo Oriente . In fondo il naturalista de Filippi aveva ben chiaro come le grandi scoperte naturalistiche erano state in parte almeno, merito dei grandi viaggi di esplorazione, viaggi che gli staterelli in cui era frammentata l’Italia non erano stati in grado di organizzare. Quindi era importante anche la progettazione e la realizzazione di spedizioni scientifiche che poi saranno uno dei vanti della attività scientifica del Regno d’Italia. Purtroppo proprio in questa spedizione De Filippi si ammalerà e morirà a Hong Kong con i conforti della fede cattolica. Oggi è sepolto nel camposanto monumentale di Pisa, vicino alla cosmografia teologica di Piero di Puccio, che esprime la sintesi artistica dell’universo aristotelico tomista, ma anche vicino a quella che fu probabilmente la vera lampada di Galileo, conservata anch’essa nel camposanto monumentale.

È ancora il cattolicesimo lombardo che ci propone un’altra figura importante, quella del geologo Antonio Stoppani. Sacerdote, filosoficamente vicino alle idee di Antonio Rosmini sarà anche impegnato in quella opera di rinnovamento della chiesa che poi, tra alterne vicende che qui ci interessano marginalmente, porterà al Concilio Ecumenico Vaticano Secondo. Geologo, si confronta con le novità delle scienza naturali affermando senza ambiguità che, tra il dogma ed il vero scientifico, egli si sentirà sempre di aderire al vero scientifico, nella certezza che poi i problemi si riveleranno superabili. Nonostante queste premesse, egli ritiene che l’evoluzione biologica non abbia ancora superato l’esame della scienza sperimentale e quindi non è disposto ad accettarla. Ma da ottimo geologo vedeva bene come la storia geologica della terra fosse storia di cambiamenti continui. Come poteva allora la vita essere caratterizzata dalla stabilità? Stoppani presenta la risposta a questa domanda durante alcune conferenze pubbliche tenute a Milano dove dirigeva il Museo Civico di Storia Naturale. Secondo Stoppani la vita agisce attivamente, a livello planetario, per mantenere stabili i parametri che le permettono di sopravvivere. La sua è la prima ipotesi scientifica che prende in considerazione la Biosfera come una entità unitaria che tende a mantenere stabili i suoi principali parametri. E’ un recupero dell’idea di una armonia della natura che sarà tipica come vedremo, anche di altri scienziati di cultura cattolica, in particolare in Italia e nell’ambiente latino.

È importante che la presentazione venga fatta durante conferenze pubbliche: anche Stoppani fu un grande divulgatore e questa opera culminerà con la pubblicazione di un testo, “Il bel paese” che sarà usato nelle scuole elementari di tutta Italia per contribuire a costruire un coscienza unitaria, grazie ad una descrizione chiara e precisa della geografia e della geologia italiane, agli scolari di una nazione da poco unita politicamente ma ancora frammentata in differenti dialetti e culture. Il grande sforzo di divulgazione scientifica era anche legato al fatto che la scienza aveva in comune con la religione la necessità di combattere la superstizione, allora come oggi del resto, troppo diffusa un po’ in tutti gli ambienti. Infine non possiamo non ricordare come il libro sia organizzato in forma di dialogo tra uno zio e i nipotini e tra i nipoti di Stoppani c’era Maria Montessori, figlia della sorella, che dalla madre e dallo zio avrà la spinta per studiare medicina.

Il dibattito sull’ evoluzione continuerà nell’ambiente cattolico italiano, con alterne vicende. Qui vogliamo ricordare la posizione favorevole di Antonio Fogazzaro che addirittura terrà conferenze in tutta Italia per mostrare la compatibilità tra l’evoluzionismo e la fede. Antonio Fogazzaro era, indubbiamente, affascinato come scrittore dall’ animalità che sembrava emergere dalla storia naturale dell’ Uomo. Ma in Fogazzaro vi era anche un compito di tipo apologetico: contrapporre il vero scientifico che si presenta con tutto il fascino della ricerca sperimentale a una visione teologica ormai superata, di fatto voleva dire portare acqua al mulino della apologetica atea. Se si proponeva l’alternativa Darwin o Mosè, che poi era il titolo di un libro diffuso in Europa e tradotto anche in Italia, certamente il fascino di Darwin avrebbe messo in secondo piano la rivelazione mosaica. Quindi occorreva mostrare le compatibilità tra evoluzione e fede cattolica, anche se queste richiedevano uno sforzo di approfondimento teologico e di rinnovamento della catechesi. Da questo punto di vista gli interventi della gerarchia sembrano di fatto bloccare queste linee, anche se in fondo si tratta più del tentativo di bloccare le proposte di rinnovamento della struttura ecclesiale che non di vere limitazioni all’opera degli scienziati.

Un capitolo importante del rapporto tra chiesa e scienza dopo l’unità è quello della fisica e in particolare dell’astronomia. Infatti dopo la presa di Roma i vari osservatori attivi nello stato pontificio divengono patrimonio dello stato italiano e la loro strumentazione andrà a costituire il nucleo dell’ Osservatorio Nazionale di Monte Mario. Tra gli astronomi aveva particolare risalto Padre Secchi, gesuita, nato a Reggio Emilia, e astronomo della Stato Pontificio. Quando gli osservatori astronomici romani furono conquistati dopo la Breccia di Porta Pia per rispetto a lui, scienziato noto in tutto il mondo, pioniere della fotografia astronomica e della spettroscopia stellare, si attenderà la sua morte prima di smembrare l‘osservatorio del collegio romano. A questo punto inizia il lavoro di ricostituzione della Specola Vaticana che dovrebbe diventare, attraverso la qualità del lavoro scientifico, il biglietto da visita grazie al quale la chiesa, liberata dalle necessità talora drammatiche e anti evangeliche di gestire uno stato, riacquistava visibilità nei riguardi della cultura internazionale. E dopo padre Denza, sarà Pietro Maffi presidente della Specola e cardinale e arcivescovo di Pisa a rilanciarla.

La figura di Maffi è una figura chiave della cultura cattolica a cavallo della prima guerra mondiale. Astronomo della scuola di Schiaparelli, viene nominato vescovo ausiliare a Ravenna, ma ben presto viene chiamato alla presidenza della Specola vaticana che era entrata in un ambizioso progetto internazionale, collaborando con numerosi altri osservatori di tutto il mondo per la preparazione del catalogo stellare. Le nuove tecniche fotografiche, di cui tra l’altro Padre Secchi era stato un pioniere, rendevano possibile una mappatura delle stelle: il cielo veniva diviso in zone che venivano assegnate a diversi osservatori che dovevano catalogare le stelle per luminosità e posizione. La Specola si era proposta perché, come già abbiamo detto, la scienza doveva essere uno strumento per riaprire alla chiesa le porte del dialogo col mondo moderno. Per portare a termine un’opera così importante, occorreva una direzione capace, competente e autorevole.

Ecco quindi un nuovo presidente, un astronomo, che riceve anche la dignità cardinalizia e viene mandato in una sede prestigiosa, ma non troppo grande, quale Pisa, dove tra l’altro grazie all’opera di Giuseppe Toniolo si comincia a formare un nucleo importante di studiosi di scienze sociali ed economiche. Pisa era una piccola città, ma con una grande tradizione culturale, la città di Galileo che aveva ospitato nel 1839, la prima riunione degli scienziati italiani e con una Università allora tra le prime in Italia. Inoltre a Pisa vi era l’ unica scuola italiana di studi di eccellenza, cioè la Scuola Normale Superiore. A Pisa insegnava Antonio Pacinotti a cui si deve la scoperta della dinamo e vi era un’ottima scuola di matematica con Ulisse Dini. Maffi affronta il problema della Specola affidandola ad un religioso, Padre Hagen, astronomo di chiara fama e appartenente ad un ordine, quello dei Gesuiti che era in grado di gestire l’osservatorio stesso sollevando in parte il Vaticano dalla gestione economica.

Maffi espose nel padiglione vaticano delle esposizioni universali i risultati del lavoro di ricerca della Specola e tra l’altro anche il modellino di un globo celeste utilizzato per la mappatura delle stelle cadenti che erano state oggetto delle sue ricerche quando era ancora un astronomo sperimentale e non solo un organizzatore. Inoltre continuò l‘attività divulgativa pubblicando un volume: Nei cieli che presentava le scoperte astronomiche in modo chiaro e comprensibile.

Maffi è anche consapevole di essere un vescovo astronomo nella città di Galileo e quindi ricorda in tutti i modi possibili il grande scienziato pisano. Interessante è la risposta ad una lettera di Turner, coordinatore del progetto del Catalogo stellare e direttore dell’osservatorio astronomico di Oxford. Quest’ultimo si congratulava per l’ottimo lavoro fatto dalla specola e in particolare delle suore dell’ordine di Maria Bambina che avevano fatto materialmente le misure delle posizioni delle stelle, ma sottolineava anche l’importanza del fatto che Maffi, astronomo, fosse vescovo della città di Galileo. Il Cardinale rispondeva come fosse stato un gran peccato che in un periodo di trionfi della scienza si fossero, per piccolezze umane, addensate delle nubi nei rapporti tra chiesa e scienza, che oggi per fortuna erano state del tutto spazzate via. Maffi si adoperò perché la Piazza del Duomo di Pisa ospitasse un monumento a Galileo, come segno tangibile della avvenuta riconciliazione…ma il progetto dopo vari veti, non andò in porto. Maffi cercò anche di porre le basi per una riconciliazione con lo stato italiano e anche per questo usò la scienza come strumento di dialogo, incontrandosi ad esempio con gli esponenti del Regno d’Italia ai convegni di Astronomia o altri incontri accademici o scientifici. Importanti sono stati gli incontri con Vittorio Emanuele III, in particolare quello del 1925, a Pavia. Ma a noi interessa ancora il rapporto con la scienza attiva e qui abbiamo una interessante sorpresa. Nel primo decennio del ventesimo secolo vi fu un forte ritorno di uno spiritualismo idealista che vide la scienza come una attività secondaria e quasi artigianale rispetto alla filosofia che affrontava i grandi problemi della spirito. Di questa corrente saranno poi campioni Benedetto Croce e Giovanni Gentile e la scienza italiana ne soffrirà non poco. Ma agli inizi del secolo Maffi fonda e dirige dapprima a Pavia e poi a Pisa, la “rivista di fisica matematica e scienze naturali” che ospita lavori sperimentali in varie discipline, ma anche articoli di storia della scienza e traduzioni di articoli di importante interesse culturale e scientifico. Inoltre pubblica le effemeridi e le posizioni dei pianeti e le mappe del cielo.

Ma ciò che colpisce di più sono un gruppo di lavori di biologia evolutiva affidati da Maffi come coordinamento a Padre Agostino Gemelli che sarà tra i fondatori della università cattolica del Sacro Cuore. In un gruppo di articoli intitolati “Per ‘Evoluzione” Padre Gemelli chiarisce la linea della rivista: Darwin è stato il grande innovatore della biologia dell’ottocento, ma ha lasciato aperto il problema di capire se e come la selezione naturale possa spiegare tutti i meccanismi evolutivi. Ecco allora che la rivista comincia a pubblicare articoli sul mutazionismo di De Vries, una teoria in qualche modo complementare a quella di Darwin secondo la quale però i cambiamenti erano derivati da mutazioni rapide e di grande entità, un meccanismo difficilmente integrabile con quello delle piccole e graduali variazioni necessarie alla teoria di Darwin: quindi un problema scientifico che si affrontava con gi strumenti della scienza. La rivista , come abbiamo appena scritto, è una vera e propria miniera di articoli, molti dei quali di matematica, fisica e astronomia, argomenti del resto ovvi data la formazione culturale del Maffi. Vi era anche una grande attenzione alla storia toscana in particolare a quella scuola galileiana di cui Maffi ricorda i successi e i principali esponenti: ancora una volta esempio di una riconciliazione col pensiero galileiano di fatto ormai avvenuta.

A Pisa nasce la società internazionale degli scienziati cattolici, la prima società al mondo che ha esplicitamente nello statuto il progetto di indagare sui rapporti tra scienza e teologia. E sempre dalla Toscana Maffi lancerà le settimane sociali, su ispirazione di Giuseppe Toniolo. Quindi Maffi è una figura fondamentale per i rapporti tra scienza e fede, ma anche tra chiesa e società italiana per il suo lavoro di promozione della ricerca scientifica e della divulgazione scientifica tra i cattolici. Purtroppo però l’uso delle conquiste della scienza per una apologetica atea, rendono il dialogo e le sintesi estremamente difficili.

Lo si vede molto bene nel dibattito sull’ evoluzione. De Filippi, infatti, aveva sottolineato, senza nessun problema, la relazione filogenetica tra l ‘uomo e le scimmie sottolineando anche la necessità di usare sempre gli strumenti di indagine della biologia evolutiva, affermando che i sistemi misti, cioè i sistemi che in parte si basavano sull’evoluzione e in parte ritenevano necessari atti speciali di creazione per spiegare passaggi come l’origine della vita o di grandi gruppi dei viventi, erano da abbandonarsi perchè insoddisfacenti sia dal punto scientifico che teologico. Ma ben presto anche in Italia si diffonde il monismo di E. Haeckel. Per Haeckel la possibilità della scienza di spiegare l’origine della vita e l’origine e la derivazione filetiche delle specie dei viventi con un’unica teoria scientifica, quella dell’evoluzione appunto, veniva elevata a strumento di interpretazione filosofica: il monismo scientifico veniva considerato la prova del monismo filosofico e quindi la prova che l‘unica realtà esistente fosse quella conoscibile con gli strumenti della scienza. A questo punto si perde la chiara lucidità epistemologica di De Filippi e si cerca di mostrare (ecco il senso dei lavori di Padre Gemelli ), che l’evoluzione esiste e funziona ma che l’indagine scientifica spiega l’evoluzione all’interno dei gruppi, ma non quella tra gruppi. Quindi la ricerca sperimentale sull’evoluzione dovrebbe dimostrare che il monismo non solo è un grave errore filosofico, ma non ha nemmeno basi sperimentali. Cercare nella indagine scientifica la confutazione di un errore filosofico è pur sempre anch’esso un errore. Inoltre la difesa dal materialismo monista ha anche come conseguenza alcune censure da parte delle autorità romane dell’evoluzionismo filosofico, che in Italia ad esempio colpiranno Raffaello Caverni e in modo meno eclatante anche un vescovo come Mons. Bonomelli, condanne che non riguardano scienziati, ma filosofi, teologi e pastori che in qualche modo hanno ritenuto di utilizzare alcune delle ipotesi derivanti dalle scienze dell’evoluzione. Ma di fatto oltre a far tacere voci importanti per il dialogo, susciteranno anche dubbi e tensioni nei riguardi di quegli scienziati che onestamente cercavano di fare il loro lavoro di indagine e dubbi e tensioni nei riguardi del lavoro stesso della scienza.

Presto però da una parte la crisi del modernismo, poi lo scoppio della prima guerra mondiale e poi la tragedia del fascismo sembrano far passare in secondo piano il lavoro di indagine scientifica e il rapporto tra scienza e fede.

La scienza italiana raggiunge risultati importanti, in particolare con la scuola di fisica di Enrico Fermi e con la scuola di matematica di Vito Volterra, ambedue laureati a Pisa alla scuola Normale Superiore. Ma ben presto una tragedia interesserà tutta la società italiana e quindi anche l’ambiente scientifico e sarà l’adesione alla teoria della razza. Per alcuni fu una adesione entusiasta per altri una silenziosa ma pur sempre colpevole accettazione di una discriminazione inaccettabile. Purtroppo le leggi razziali faranno sì che Volterra finisca per sparire dalla scena culturale italiana e Fermi emigri negli Stati Uniti e con lui molti giovani e non più giovani scienziati ebrei.

Ma intanto all’estero alcune figure importanti cominciano a essere conosciute e discusse. Il matematico belga Padre Lemaitre lavorando sulla cosiddetta fuga delle galassie, mostra come esse si allontanino da un punto che può essere considerato il momento della loro origine nel tempo e nello spazio e che egli chiama: l’uovo cosmico. L’evoluzione animale e umana tornano prepotentemente alla ribalta grazie al lavoro di due religiosi francesi, il padre H. Breuil e il Padre P. Teilhard de Chardin. Quest’ ultimo, gesuita, comincia ad abbozzare una importante sintesi tra teologia cattolica ed evoluzione, che ruota attorno al concetto di muovere verso: la materia muove verso la complessità e la vita muove verso la complessità e la coscienza. Viene descritta una progressiva complessificazione delle strutture in particolare di quelle cerebrali, che porta alla origine della coscienza riflessa e quindi del pensiero. A questo punto la storia della vita diviene grazie alla accettazione dell’alleanza da parte della creatura libera anche storia di alleanza e salvezza che si concluderà nel momento della seconda venuta di Cristo. L’evoluzione riporta in primo piano l’idea dell’umanità in cammino verso il futuro e affianca alla prospettiva escatologia della salvezza del singolo in Paradiso, quella dell’umanità che su questa terra muove verso la seconda venuta di Cristo. Si tratta di idee importanti, sia dal punto di vista scientifico (l’evoluzione come muovere verso) sia dal punto di vista filosofico (la ricezione dell’evoluzionismo come sistema generale di pensiero) sia dal punto di vista teologico (l’evoluzione come muovere verso il futuro, con un progetto di perfezione che non è da ricercarsi nel passato in un ipotetico giardino dell’ Eden, ma nel futuro sulla Terra costruita grazie all’alleanza).

Purtroppo le gerarchie cattoliche vietarono a Teilhard de Chardin di pubblicare in vita i suoi scritti filosofici e teologici. La condanna al silenzio è un comportamento sempre profondamente sbagliato perché le idee circolano ugualmente ma non è permesso più il libero e aperto confronto. Frammenti del pensiero di Teilhard de Chardin cominciamo a diffondersi ma solo dopo la sua morte essi verranno conosciuti e nonostante la condanna divengono tra le linee portanti del Concilio Ecumenico Vaticano secondo (da qui in poi semplicemente Concilio). E sul Concilio occorre andare in profondità dal momento che tratta del più importante documento magisteriale del ventesimo secolo e che ha dato precise indicazioni dottrinali che sono fondamentali per il rapporto chiesa e scienza in particolare nella Gaudium et Spes.

In questa costituzione infatti il Concilio ha definito i rapporti tra la chiesa ed il mondo moderno, rapporti che non debbono essere conflittuali, ma di aiuto reciproco. In particolare va sottolineato come al numero 44 si definisca come la chiesa riceva un aiuto importante dal mondo contemporaneo: “Come è importante per il mondo che esso riconosca la Chiesa quale realtà sociale della storia e suo fermento, così pure la Chiesa non ignora quanto essa abbia ricevuto dalla storia e dallo sviluppo del genere umano”.

L’esperienza dei secoli passati, il progresso della scienza, i tesori nascosti nelle varie forme di cultura umana, attraverso cui si svela più appieno la natura stessa dell’uomo e si aprono nuove vie verso la Verità, tutto ciò è di vantaggio anche per la Chiesa.” Ecco il progresso della scienza che diviene fondamentale perché concorre a comprendere meglio la natura stessa dell’uomo e ad aprire nuove vie verso la verità. Le conquiste della scienza, ben lontane dall’essere fonte di crisi e di dubbio con cui confrontarsi spesso con difficoltà talvolta addirittura con sospetto, divengono uno strumento per aprire nuove vie verso la Verità.

Inoltre al numero 36 la Gaudium et Spes , parlando della autonomia delle realtà terrene, chiarisce l’aspetto dell’autonomia delle scienze “Se per autonomia delle realtà terrene intendiamo che le cose create e le stesse società hanno leggi e valori propri, che l’uomo gradatamente deve scoprire, usare e ordinare, allora si tratta di una esigenza legittima, che non è solo postulata dagli uomini del nostro tempo, ma anche conforme al volere del Creatore. Infatti è dalla loro stessa condizione di creature che le cose tutte ricevono la loro propria consistenza, verità, bontà, le loro leggi proprie e il loro ordine; e tutto ciò l’uomo è tenuto a rispettare, riconoscendo le esigenze di metodo proprie di ogni singola scienza o arte. Perciò la ricerca metodica di ogni disciplina, se procede in maniera veramente scientifica e secondo le norme morali, non sarà mai in contrasto con la fede, perché le realtà profane e le realtà della fede hanno origine dal medesimo Iddio”.

In fondo, è importante il riferimento all’autonomia del metodo: la scienza nell’accertare strumenti che aprono nuove vie verso la verità, non risponde né alla teologia, né al magistero, ma risponde al proprio metodo. Quindi nulla nella scienza come approfondimento di conoscenze sulla natura e sull’uomo è negativo; semmai fondamentale è il giudizio etico su come si raggiunge la conoscenza e come questa conoscenza viene poi applicata.

Il concilio apre una stagione fecondissima che ovviamente a questo punto possiamo riassumere in poche parole e ancora col riferimento ad alcune figure importanti. Innanzitutto ancora Teilhard de Chardin. Nell’immediato secondo dopo guerra, terminata l’esperienza cinese, era venuto a Roma nella speranza di avere la autorizzazione a pubblicare lo scritto a cui teneva di più: Il Fenomeno Umano e a Roma aveva visitato uno dei principali siti italiani di paleoantropologia, al Circeo, accompagnato da Alberto Carlo Blanc. E Blanc pubblicò la traduzione di alcuni suoi scritti in un volumetto intitolato: L’avvenire dell’Uomo.

Inizia qui l’influenza teilhardiano sui geologi, i paleontologi e i paleoantropologi latini che si concretizzerà nel gruppo di ricercatori francesi italiani e spagnoli che si riuniscono a Sabadell, in Catalogna. Il gruppo, riprendendo in pieno la lezione teilhardiana, affronterà il tema dell’ evoluzione cercando un approccio più ampio di quello basato sulla biologia delle popolazioni. Cercherà di spiegare alcuni passaggi importanti come la stabilità di parametri nei tempi lunghi come risultato degli equilibri degli ecosistemi e di meccanismi di evoluzione armonica. In particolare in Italia Piero Leonardi, riprendendo anche la tradizione italiana sulle interazioni tra specie e gli equilibri degli ecosistemi di Vito Volterra e Umberto D’Ancona, sottolineerà la necessita di indagare sugli equilibri della Biosfera e arriverà a parlare di simbiosi generale della Biosfera. Ma se siamo in grado di riferirci ad una vera e propria scuola latina, più difficile è delimitare contorni di scuola italiana di evoluzionisti collegati in vario modo all’esperienza culturale cattolica. Di fatto però vi è lo sviluppo della tradizione antropologica con a Pisa, Raffaello Parenti, e in Gregoriana Padre Marcozzi, ma forse l’esperienza più interessante è ancora quella che parte dalla riflessione su Teilhard de Chardin e ha origine dall’opera svolta a Firenze, all’Istituto Stensen dal gesuita padre Alessandro Dall’Olio. A Firenze si svolgono importanti convegni su Teilhard de Chardin, Darwin e dopo la morte di Padre Dall’Olio, su Mendel. E la rivista dell’Istituto, Il Futuro dell’ Uomo, ospita articoli di numerosi scienziati che in vario modo rispondono alle sollecitazioni dell’opera di Teilhard de Chardin.

Fondamentale è il problema sollevato dalla più importante evoluzionista italiana, Maria Gabriella Manfredi Romanini, che fu anche presidente della sezione di Pavia del Movimento Ecclesiale di Impegno Culturale. Come si può in maniera consapevole costruire la Terra, di fronte a scelte quali quelle delle biotecnologie, scelte difficili da spiegare e quindi difficili da proporre all’interno di un processo democratico di cittadini attivi? Con grande lucidità veniva previsto e discusso uno dei problemi posti dalla scienza contemporanea, quello del difficile rapporto tra partecipazione democratica e scelte operative su temi intellettualmente difficili.

Ma non possiamo non concludere ricordano anche il lavoro svolto da due importanti matematici: in particolare Ennio De Giorgi che ha sviluppato una visione sapienziale delle scienza e che ha culminato nella proposta di un linguaggio semi-formale che superasse i limiti del riduzionismo e infine sempre in matematica l’opera di Giovanni Prodi che ha rilanciato in Italia la consuetudine di incontri in cui si discutessero temi di confine tra scienza e fede.

Un’ultima considerazione: ci siamo concentrati sul magistero del concilio perché nulla del magistero papale successivo ha aggiunto alla chiarezza delle posizioni del Concilio Vaticano secondo, come del resto è giusto che sia visto che nessuno dei Papi che si sono succeduti dopo la chiusura del Concilio ha usato del magistero straordinario. Il Concilio rimane dunque ancora il riferimento fondamentale su questi temi anche se i bibliografia sono stati aggiunto i riferimenti a Paolo VI, Giovanni Paolo II e Benedetto XVI di cui ricordiamo gli interventi al convegno di Castel Gandolfo su Creazione ed Evoluzione.

Fonti e Bibl. essenziale

AA.VV., Creazione ed Evoluzione, un convegno con Papa Benedetto XVI, Bologna, 2007; F. Facchini – F. Badiali, Vivere una doppia cittadinanza. La teologia della creazione nei quaderni de “La civiltà cattolica” Bologna, 2013; L. Galleni, Scienza e Teologia, proposte per una sintesi feconda, Brescia 1992; L. Galleni, Darwin, Teilhard de Chardin e gli altri… le tre teorie dell’evoluzione, Pisa, 20122; L. Galleni – M.P. Palla, Descrizione dei documenti dell’Archivio del cardinale Maffi che riguardano la Specola Vaticana, Pontedera, 2005; G. Giacobini – G.L. Panattoni, Il Darwinismo in Italia, Torino, 1983; Giovanni Paolo II On science and religion, Città del vaticano, 1989; S. Maffeo, La specola vaticana, nove papi e una missione, Città del Vaticano, 2001; Paolo VI, Insegnamenti sulla scienza e sulla tecnica, Brescia, 1986; P. Teilhard de Chardin, Le singolarità della specie umana, trad. it. Milano, 2013.


LEMMARIO




Scismi - vol. II


Autore: Francesco Saverio Venuto

Lefebvriani. Lo “scisma” lefebvriano, consumatosi nel giugno del 1988, è la conseguenza della decisione di Mons. Marcel Lefebvre – vescovo francese tradizionalista, contestatore di alcuni orientamenti e interpretazioni del Concilio Vaticano II, soprattutto in relazione ai temi della collegialità episcopale, dell’ecumenismo, del dialogo interreligioso e della libertà religiosa – di consacrare vescovi, senza il necessario mandato della Sede Apostolica, quattro membri della Fraternità Sacerdotale San Pio X, da lui fondata per la salvaguardia della Tradizione. Il movimento scismatico lefebvriano è presente in Italia con tre centri: la “casa madre” ad Albano Laziale in provincia di Roma e due priorati, san Carlo Borromeo a Montalenghe nel Torinese e Madonna di Loreto a Rimini. Il ramo italiano del tradizionalismo lefebvriano si esprime anche attraverso la pubblicazione di una rivista, La Tradizione Cattolica. All’interno di essa vengono proposti articoli di vario genere su alcune questioni nodali della presenza del movimento di Mons. Lefebvre in territorio italiano: lo statuto canonico delle comunità lefebvriane, specialmente in relazione ad una convinta appartenenza alla Chiesa Cattolica, nonostante le difficoltà giuridiche derivanti dal rifiuto del Vaticano II e dallo scisma del loro fondatore; la critica al valore dogmatico del Vaticano II in conformità ai giudizi critici di Mons. Lefebvre; il rapporto della Chiesa con il mondo contemporaneo; l’azione pastorale ispirata dal Concilio, particolarmente in campo ecumenico e nel dialogo con le altre religioni; l’apostasia all’interno della Chiesa, innanzitutto nei suoi pastori; e non ultima, in ordine di importanza, la riforma liturgica. I tre centri lefebvriani presenti in Italia sono impegnati nell’organizzazione di convegni di studio finalizzati a promuovere un ritorno alla “vera” Tradizione, unico rimedio di fronte alla situazione assai critica della Chiesa post-conciliare (diffusione di una mentalità anticristiana e drastico calo delle vocazioni sacerdotali) e di un annuale pellegrinaggio nazionale da Bevagna ad Assisi. In Italia, accanto al movimento più fedele alle tesi di Mons. Lefebvre, si è diffusa anche una forma di contestazione più radicale e critica rispetto a quella del presule francese, nota come sedevacantismo. Questo ulteriore scisma all’interno dello scisma lefebvriano non si esprime soltanto a favore una disobbedienza contro i papi quando insegnano contro la Tradizione della Chiesa, ma ritiene che i pontefici che convalidano e professano con il loro magistero l’errore del Vaticano II sono privi in senso assoluto dell’autorità pontificia oppure, se la posseggono, la esercitano tuttavia in senso materiale, ma non formale. La prima forma di sedevacantismo fa capo all’Associazione Santa Maria Salus Populi Romani in Feletto (To) e possiede una propria rivista Il Nuovo Osservatore Cattolico, mentre la seconda fa capo all’Istituto Mater Boni Consilii con una sede anche in Italia in Verrua Savoia (To) e si esprime attraverso il periodico Sodalitium.

I Vetero-Cattolici. Il movimento scismatico dei vetero-cattolici dipende da tre differenti avvenimenti storici dai quali si sono sviluppate e dipendono tre realtà ecclesiali. La prima di esse è da collegarsi ad un gruppo di giansenisti olandesi con sede a Utrecht, i quali avendo rifiutato la condanna del giansenismo contenuta nella bolla Unigenitus del 1713 di Papa Clemente XI, si separarono da Roma ottenendo nel 1723 l’ordinazione episcopale del loro leader Cornelius Steenhoven (1662-1725). La seconda si è costituita in seguito alla contestazione e al rifiuto del dogma dell’infallibilità del Pontefice, proclamato al Concilio Vaticano I (1869-1870), da parte dei teologi-discepoli del sacerdote e professore di Storia ecclesiastica Ignaz von Döllinger (1799-1890). Uno di essi, il tedesco Josef Hubert Reinkens (1821-1896), riuscì a procurarsi dai vescovi olandesi della sede giansenista di Utrecht la consacrazione episcopale, divenendo nel 1873 “vescovo cattolico dei vetero-cattolici”.

L’ultima realtà è più recente e si presenta come un tentativo di coordinare comunità ecclesiali di origine nazionale e separatasi da Roma, ispirandosi ai principi ecclesiologici che soggiacciono alla Chiesa d’Inghilterra. Nell’insieme le tre specifiche realtà professano la validità dei sette sacramenti della Chiesa Cattolica romana, il possibile accesso delle donne al ministero ordinato, un’ecclesiologia di tipo episcopale-sinodale, e utilizzano molteplici forme liturgiche, dal rito romano (antico e nuovo) alla liturgia di San Giovanni Crisostomo.

In Italia sono presenti due particolari realtà: la Chiesa Vetero-Cattolica dell’Unione di Utrecht e la Chiesa Vetero-Cattolica Italiana. La prima forma ecclesiale conta un centinaio di fedeli, alla cui guida sono preposte anche delle donne-sacerdote, e si presenta al suo interno divisa su questioni di carattere teologico-pastorale (matrimoni tra persone dello stesso sesso). Essa adotta differenti liturgie, alcune di esse con forme provenienti dai movimenti carismatici (imposizione delle mani e unzioni). La Chiesa Vetero-Cattolica Italiana si collega idealmente ad alcuni tentativi politici di costituire in Italia una Chiesa nazionale divisa da Roma. Un primo progetto fu realizzato nel 1808 dal vescovo Domenico Forges Davanzati (1742-1810) con l’istituzione del Magistero Catechetico civile Laicale, costituitosi prima in Associazione dei Protocattolici (1862) e successivamente in Chiesa Cattolica Nazionale Italiana (1882). Un secondo tentativo è da attribuire a Filippo Cicchitti Suriani (1861-1944), fondatore del Centro Culturale Cattolico Antico, e a Ugo Janni (1865-1938), cultore di teologia pancristiana. Questo movimento, ereditato da Mario De Conca (1901-1970) e, più tardi, da Luigi Caroppo (1933-2004), un ex servita, è rimasto fino al 1997 congiunto all’Unione di Utrecht, dalla quale si è separata per il rifiuto di ammettere all’orinazione sacerdotale le donne. La Chiesa Vetero-Cattolica Italiana professa un credo simile a quello della Chiesa Cattolica romana, riletto tuttavia secondo i principi vetero-cattolici, ed utilizza una liturgia che compendia diversi riti (romano, ambrosiano e bizantino). In ambito pastorale questa realtà ecclesiale è orientata ad opere di carattere sanitario (psicoterapia) e alla diffusione di un bollettino a contenuto ecumenico, Il Dialogo.

Fonti e Bibl. essenziale

AA.VV., La Chiesa cattolica: centro, periferia e scismi, in M. Introvigne – P. Zoccatelli (ed.), Le religioni in Italia, Elledici, Leumann 2006, 37-40; AA.VV., Tradizionalisti e sedevacantisti, in M. Introvigne – P. Zoccatelli (ed.), Le religioni in Italia, Elledici, Leumann 2006, 51-57; N. Buonasorte, Tra Roma e Lefebvre. Il tradizionalismo cattolico italiano e il Concilio Vaticano II, Edizioni Studium, Roma 2003, 110-158; Chr. Gabrieli, Uno scisma moderno. La comunità lefebvriana, EDB, Bologna 2012; D. Menozzi, L’anticoncilio (1966-1984), in G. Alberigo – J.-P. Jossua (edd.), Il Vaticano II e la Chiesa, Paideia, Brescia 1985, 433-464; G. Miccoli, La chiesa dell’anticoncilio. I tradizionalisti alla riconquista di Roma, Laterza, Roma-Bari 2011; AA.VV., Le Chiese vetero-cattoliche, in M. Introvigne – P. Zoccatelli (ed.), Le religioni in Italia, Elledici, Leumann 2006, 44-51; C. Milaneschi, Ugo Janni. Pionere dell’ecumenismo, Claudiana, Torino 1979; L. Minervini Gadaleta, Pancristianesimo. Da Forges Davanzati a Giovanni Paolo II, Edizioni La  Meridiana, Molfetta 1997; A. Cicchitti Suriani, Il Vecchio Cattolicismo in Italia, in BSSV, CII 12 (1957), 73-77.


LEMMARIO




Scuola - vol. II


Autore: Raffaele Savigni

Il nuovo Stato unitario favorì una progressiva laicizzazione della scuola pubblica, anche se nei territori dell’Italia meridionale restò a lungo piuttosto forte l’influenza della Chiesa in campo educativo. La libertà della scuola non statale non era tutelata costituzionalmente, ma era affidata alla legge ordinaria, e quindi sottoposta ai condizionamenti politico-ideologici, anche se il Consiglio di Stato frenò le spinte anticlericali. Da parte sua l’intransigentismo cattolico difese la famiglia come luogo educativo originario, chiamato a resistere alla pretesa educativa dello Stato liberale.

L’insegnamento religioso nella scuola pubblica, mantenuto dalla legge Casati (1859) perlomeno nei primi due anni della scuola elementare (ove veniva impartito dal maestro unico), venne successivamente marginalizzato dalla legge Coppino (1877) e dai nuovi programmi del 1888, che lo resero facoltativo, sostituendolo con l’insegnamento obbligatorio delle «nozioni dei doveri dell’uomo e del cittadino». Due decreti del 1895 e del 1908 prevedevano che l’insegnamento di Religione fosse impartito a cura dei padri di famiglia che lo richiedessero, a meno che la maggioranza dei consiglieri comunali non decidesse di organizzarlo a carico del Comune; esso fu reintrodotto dalla riforma Gentile (1923) e quindi reso di fatto obbligatorio (salva la possibilità di chiedere l’esonero) dal Concordato del 1929, in quanto «fondamento e coronamento dell’istruzione pubblica» (un principio poi ripreso nel 1955 dalla legge Ermini). Con la revisione del Concordato (1984) tale insegnamento è divenuto opzionale, ma lo Stato si è impegnato «ad assicurare, nel quadro delle finalità della scuola, l’insegnamento della religione cattolica nelle scuole pubbliche non universitarie di ogni ordine e grado». Non ha avuto fortuna la proposta di introdurre il cosiddetto“doppio binario”, ossia un insegnamento aconfessionale gestito dallo Stato ed obbligatorio per tutti, affiancato da un insegnamento facoltativo a carattere confessionale per chi lo richiedesse.

Dopo il ventennio fascista il Codice di Camaldoli (1943-45) rivolse l’attenzione anche all’educazione, ribadendo l’impossibilità di una scuola “neutra” e “laica”, ed il primato della famiglia nell’educazione: «famiglia e Chiesa hanno una missione essenzialmente educatrice. La Chiesa ha il diritto indipendente dallo Stato di stabilire scuole di ogni grado per l’educazione e l’istruzione dei suoi figli [….] Il diritto della famiglia di educare i figli è anteriore a qualsiasi diritto della società civile e dello Stato, è inviolabile in quanto è naturale». Veniva inoltre chiaramente affermato il principio democratico, che implicava il superamento di metodi coercitivi, anche se alcune affermazioni contenute nel Codice (come la netta preferenza per una educazione separata degli alunni dei due sessi) risultano oggi datate. La Costituzione italiana riconobbe ad enti e privati «il diritto di istituire scuole ed istituti di educazione, senza oneri per lo Stato» (art. 33): su quest’ultimo inciso si sviluppò un vivace dibattito, anche se il proponente Corbino aveva precisato, di fronte all’Assemblea Costituente, che non si intendeva escludere ogni forma di sostegno economico alle scuole non statali da parte dello Stato, ma soltanto eventuali rivendicazioni di una sorta di diritto automatico a riceverla. Nel 1945 nacque la Federazione degli Istituti di attività educative (FIDAE), poi strutturata giuridicamente nel 1974, che raggruppa istituti non statali riconosciuti dall’autorità ecclesiastica (quindi “scuole cattoliche” in senso stretto, non semplicemente “scuole di ispirazione cristiana”), difendendone il ruolo in base al principio della libera scelta educativa delle famiglie. Il suo organo ufficiale è il mensile “Docete”, fondato nel 1946.

Nel 1944-45 sorsero anche l’AIMC (associazione dei maestri cattolici) e, nell’ambito del Movimento laureati di Azione cattolica, l’UCIIM (Unione cattolica insegnanti medi), che, sotto la guida di G. Nosengo (1906-1968) e poi del noto pedagogista Aldo Agazzi, promosse il rinnovamento della scuola, nello spirito di un autentico pluralismo, ispirandosi alla filosofia personalista di J. Maritain e di L. Stefanini. Soprattutto l’UCIIM favorì un graduale superamento della contrapposizione cultura umanistica-lavoro ed appoggiò l’introduzione (nel 1958) dell’insegnamento dell’educazione civica, e la riforma istitutiva della scuola media unica (1962), anche a prezzo di qualche polemica con l’AIMC (che propugnava una scuola post-elementare per il soddisfacimento dell’obbligo scolastico).

I documenti conciliari rivendicarono per i genitori «il diritto di determinare la forma di educazione religiosa da impartirsi ai propri figli» (Gravissimum educationis, 3), e quindi «il diritto di scegliere, con vera libertà, le scuole e gli altri mezzi di educazione» (Dignitatis humanae, 5): la libertà di educazione viene quindi considerata un’espressione della libertà religiosa. In questa prospettiva il principio di sussidiarietà implica «il diritto della Chiesa a fondare liberamente e a dirigere scuole di qualsiasi ordine e grado», caratterizzate da «un ambiente comunitario permeato dallo spirito evangelico di libertà e carità» e dalla ricerca di una sintesi tra la cultura umana ed il messaggio di salvezza (Gravissimum educationis, 8).

Per adattare alla situazione italiana le indicazioni generali espresse dalla sacra Congregazione per l´educazione cattolica col documento La scuola cattolica del 1977, la CEI emanò nel 1983 il documento La scuola cattolica oggi in Italia, nel quale si afferma (al n. 58) che «anche la Scuola Cattolica deriva il motivo fondamentale della propria identità e della propria esistenza dall’appartenenza alla Chiesa locale, in cui è chiamata a vivere e a servire». Dopo il Convegno nazionale sulla scuola cattolica del ‘91 la CEI ha costituito il Centro studi per la scuola cattolica (CSSC), che dal 1999 prepara e pubblica un Rapporto annuale. Nel primo Rapporto (Scuola cattolica in Italia, La Scuola, Brescia, 1999) mons. C. Nosiglia ribadiva che «la comunità di fede è il soggetto educante naturale della scuola cattolica», prospettando quest’ultima come «luogo di una “inedita conciliazione epistemologica” tra fede e cultura, tra azione pastorale propria della comunità cristiana e riflessione critica specifica della scuola, per consentire a ogni persona la crescita integrale di se stessa nella libertà e nella comunione con gli altri». G. Dalla Torre sottolineava l’esigenza di rispettare la specificità delle scuole che non hanno fini di lucro ma un progetto educativo specifico, proponendo di interpretare il vincolo costituzionale «senza oneri per lo Stato» come riferito alle istituzioni scolastiche, ma non alle famiglie, per cui il finanziamento pubblico si giustificherebbe sulla base dei principi della libertà di educazione e del diritto allo studio (art. 30 e 34 della Costituzione).

Nel secondo guerra i governi a guida democristiana, sottoposti a pressioni contrastanti, non riuscirono a realizzare quella legge sulla parità scolastica che il ministro Gonella aveva progettato tra il 1946 ed il 1951. Solo nel 2000 fu approvata la legge n. 62, «Norme per la parità scolastica e disposizioni sul diritto allo studio e all’istruzione», che definì un sistema pubblico integrato di istruzione, comprensivo di scuole statali e non statali. Essa riconosceva che «il sistema nazionale di istruzione è costituito dalle scuole statali e dalle scuole paritarie private e degli enti locali» (art. 1), per cui «alle scuole paritarie private è assicurata piena libertà per quanto concerne l’orientamento culturale e l’indirizzo pedagogico-didattico. Tenuto conto del progetto educativo della scuola, l’insegnamento è improntato ai princípi di libertà stabiliti dalla Costituzione» (art. 3). Venivano poi elencate le condizioni richieste per il riconoscimento della funzione pubblica delle scuole e per il loro conseguente inserimento nel “sistema nazionale di istruzione”. A giudizio di G. Tettamanti, che è intervenuto nel XII Rapporto sulla Scuola Cattolica in Italia, A dieci anni dalla Legge sulla parità (La Scuola, Brescia, 2010), l’applicazione di questi principi ideali sarebbe tuttavia ancora incompleta. Se le scuole cattoliche sono state a lungo gestite in prevalenza dagli Istituti religiosi, il XIII Rapporto del CSSC, L’impegno delle Chiese locali. Scuola cattolica in Italia (a cura di G. Malizia, La Scuola, Brescia, 2011) sottolinea il legame tra scuola cattolica e Chiesa locale, auspicando un coinvolgimento più diretto delle diocesi e delle parrocchie. In un contesto segnato dalla crisi degli Ordini religiosi che avevano individuato nell’impegno educativo il loro carisma, attualmente un numero sempre maggiore di scuole è gestito da movimenti cattolici, che talora privilegiano la dimensione dell’affinità carismatica.

Nel secondo guerra l’AIMC e l’UCIIM si sono fortemente impegnate per qualificare in senso culturale e democratico la scuola pubblica, concepita come «comunità educante», fondata sul coinvolgimento nel progetto educativo di insegnanti, famiglie, alunni. Nel 1968 diverse associazioni di genitori si riunirono costituendo l’A.G.E., un’associazione nazionale di genitori che intendeva favorire il dialogo educativo con la scuola in un periodo di notevoli tensioni. L’istituzione, coi decreti delegati (1974), degli organi collegiali della scuola favorì una partecipazione alla gestione della scuola pubblica, che vide coinvolti anche gruppi di ispirazione cristiana, i quali intendevano superare tanto un’idea di scuola come istituzione separata, quanto un’enfatizzazione unilaterale del protagonismo studentesco. Non mancarono vivaci dibattiti sull’interpretazione del principio della libertà di insegnamento. Alcuni gruppi sottolinearono più decisamente la centralità dell’identità cattolica: “Comunione e liberazione” teorizzò negli anni ’70 un’articolazione della scuola pubblica in sezioni culturalmente omogenee, incentrate su precisi progetti educativi, ma successivamente privilegiò il sostegno alla scuola cattolica. In quegli anni fu promossa anche l’esperienza del “tempo pieno”, che, nata come risposta alle esigenze dei ceti popolari in un contesto di espansione del lavoro femminile, suscitò qualche riserva in ambienti cattolici che intravvedevano il rischio di ridimensionare eccessivamente il ruolo educativo della famiglia. Alcuni sacerdoti cercarono di ridefinire le modalità del processo educativo in situazioni di frontiera: nacque così la scuola di Barbiana di don Milani, i cui ragazzi scrissero nel 1967 la Lettera a una professoressa, mettendo sotto accusa una scuola selettiva che emarginava i ragazzi più poveri; e don Roberto Sardelli avviò con i ragazzi delle baracche romane esperienze scolastiche alternative, da cui nacque il libro Scuola 725: non tacere (Libreria Editrice Fiorentina, 1971).

Recentemente la CEI ha cercato di rispondere all’emergenza educativa elaborando gli Orientamenti pastorali per il decennio 2010-2020 Educare alla vita buona del Vangelo, ove si ribadisce (n. 48) che «la scuola cattolica e i centri di formazione professionale d’ispirazione cristiana fanno parte a pieno titolo del sistema nazionale di istruzione e formazione. Nel rispetto delle norme comuni a tutte le scuole, essi hanno il compito di sviluppare una proposta pedagogica e culturale di qualità, radicata nei valori educativi ispirati al Vangelo». Una grande sfida concerne, nell’attuale contesto multiculturale, la capacità della scuola cattolica (che ha visto ridursi progressivamente il numero degli alunni: 625.781, ossia il 7 % della popolazione scolastica complessiva, nel 2006, mentre erano il 9 % nel 1992) di riqualificarsi e di aprirsi ai bisogni di alunni provenienti da tutti i ceti sociali. Una interpretazione aperta del principio della libertà di educazione può contribuire a realizzare una «convivialità delle differenze», recuperando (al di là degli aspetti discutibili) talune istanze di Ivan Illich (Descolarizzare la società, Mondadori, Milano, 1972), il quale aveva polemicamente teorizzato una “descolarizzazione della società” come difesa delle culture popolari e valorizzazione della creatività personale contro i rischi di omologazione culturale a suo avviso insiti nella diffusione su scala mondiale del sistema scolastico dell’Occidente.

Fonti e Bibl. essenziale

V. Sinistrero, La politica scolastica 1945-1965 e la scuola cattolica, FIDAE, Roma, 1967; G. Tettamanti, Scuola cattolica e libertà di educazione, La Scuola, Brescia, 1981; Quale scuola per una società più libera? Atti del convegno del Coordinamento nazionale per la libertà di educazione (Roma, 2 maggio 1986), Roma, FIDAE, 1986 (Suppl. alla rivista «Docete», 1987, n. 7); L. Pazzaglia (ed.), Chiesa e progetto educativo nell’Italia del secondo dopoguerra (1945-1958), La Scuola, Brescia, 1988; G.C. Boccardi (ed.), Libertà di educazione e pluralismo scolastico, Pellegrini, Cosenza, 1991; A. Gaudio, Scuola, Chiesa e fascismo: la scuola cattolica in Italia durante il fascismo, 1922-1943, La Scuola, Brescia, 1995; L. Pazzaglia (ed.), Cattolici, educazione e trasformazioni socio-culturali in Italia tra Otto e Novecento, La Scuola, Brescia, 1999; M. A. Manacorda, Scuola pubblica o privata: la questione scolastica tra Stato e Chiesa, editori Riuniti, Roma, 1999; L. Pazzaglia (ed.), Chiesa, cultura e educazione in Italia tra le due guerre, La Scuola, Brescia, 2003; L. Corradini (ed.), Laicato cattolico, educazione e scuola in Gesualdo Nosengo. La formazione, l’opera e il messaggio del fondatore dell’UCIIM, Elledici, Torino, Leumann, 2008; G. Campani, Dalle minoranze agli immigrati: la questione del pluralismo culturale e religioso in Italia, Unicopli, Milano, 2008; P. Liberace, Contro gli asili nido: politiche di conciliazione e libertà di educazione, Rubbettino, Soveria Mannelli, 2009; F. De Giorgi, L’ istruzione per tutti: storia della scuola come bene comune, La scuola, Brescia, 2010.


LEMMARIO




Segreteria di Stato - vol. II


Autore: Paolo Valvo

La duplice dimensione “universale” e “romana” della Chiesa cattolica fa del Vaticano un punto naturale di incontro tra l’Italia e il mondo. Dal 1861 ad oggi, in particolare, le direttive dell’azione globale della Santa Sede sono state elaborate all’interno di una Segreteria di Stato che, divenuta “italiana” a tutti gli effetti diverso tempo dopo la breccia di Porta Pia, solo in tempi relativamente recenti ha visto l’avvio di una lenta e progressiva internazionalizzazione del proprio personale.

Per questa ragione, la storiografia ha cercato di mettere in luce l’influsso del quadro culturale e politico italiano sull’operato dei membri della Curia, anche in riferimento a contesti diversi dall’Italia. L’indagine storica deve peraltro considerare anche la dinamica contraria, che dal “mondo” procede verso la realtà italiana: l’esperienza internazionale del servizio diplomatico, infatti, accomuna molti membri della Segreteria di Stato, in misura crescente nel XX secolo. Ne consegue la necessità di studiare attentamente le biografie dei singoli, per comprendere gli intrecci originali tra formazione culturale ed esperienze vissute, sempre tenendo presente la centralità dell’elemento teologico-pastorale nell’azione politico-diplomatica della Santa Sede.

Nel Novecento, importanti riforme della Curia hanno definitivamente riconosciuto la posizione privilegiata della Segreteria di Stato come organo di governo della Chiesa universale. La realtà concreta tuttavia sfugge spesso alle formulazioni di principio delle costituzioni apostoliche; anche qui il “fattore umano” gioca un ruolo decisivo, generando rapporti di fiducia che non sempre rispecchiano una divisione dei ruoli precisa e coerente. Di particolare interesse, a tale riguardo, il rapporto che si crea di volta in volta tra il pontefice e il cardinale segretario di Stato, suo principale collaboratore.

Volendo prendere in considerazione il ruolo della Segreteria di Stato in riferimento alle vicende italiane a partire dal 1861, si può individuare una prima grande fase, dominata dalla “Questione Romana”, che si conclude con la stipula dei Patti Lateranensi nel 1929. Nei primi decenni dell’Italia unita la legislazione anticlericale e il Non expedit (1874) indeboliscono le basi “reali” del “paese legale”, mentre sul piano internazionale la Santa Sede è alla ricerca di una sponda europea che possa appoggiare le sue rivendicazioni. A questo proposito Leone XIII (1878-1903) mostra inizialmente di appoggiare la linea favorevole alla Triplice Alleanza di mons. Luigi Galimberti, potente segretario della Sacra Congregazione degli Affari Ecclesiastici Straordinari. Per il disbrigo degli affari interni, papa Pecci preferisce affidarsi al “gabinetto segreto dei Perugini” – composto da prelati di sua fiducia conosciuti negli anni del ministero episcopale – piuttosto che alla Segreteria di Stato dell’anziano cardinale Ludovico Jacobini, dimostrando una volontà centralizzatrice che emergerà anche in successivi pontificati. Nel 1887 un primo tentativo di “conciliazione” vede protagonista insieme al presidente italiano Francesco Crispi non un membro della Segreteria di Stato ma l’abate benedettino Luigi Tosti.

La fine del Kulturkampf in Germania è il risultato più importante di Galimberti e dei suoi collaboratori, ma con l’arrivo del nuovo segretario di Stato Mariano Rampolla del Tindaro (1887) il quadro muta sensibilmente. Deciso a tenere saldamente le redini del governo, il cardinale Rampolla riduce considerevolmente il potere del gabinetto dei Perugini e promuove una politica estera filo-francese il cui obiettivo è lo scardinamento della Triplice Alleanza per isolare l’Italia attraverso un riavvicinamento franco-austriaco. Esito di questa politica, più radicale di quella “evoluzionista” di Galimberti, è il ralliement dei cattolici francesi alla Terza Repubblica e l’avvicinamento della Santa Sede alla Francia, che durerà fino alla rottura delle relazioni diplomatiche nel 1905.

Meno attivo sulla scena internazionale, Pio X (1903-1914) dà un grande impulso all’attività della Curia, che viene riformata con la costituzione Sapienti consilio (1908), recepita pienamente dalla codificazione del 1917. La Segreteria di Stato risulta ora suddivisa in tre sezioni, la prima delle quali, guidata da un segretario, si identifica sostanzialmente con la Congregazione degli Affari Ecclesiastici Straordinari; gli affari ordinari e la corrispondenza con i rappresentanti diplomatici della Santa Sede rientrano nelle competenze della seconda sezione (guidata da un sostituto), mentre la terza – la Cancelleria dei Brevi Apostolici – cura la preparazione e la spedizione dei brevi pontifici. Anche papa Sarto, tuttavia, privilegia una forma di governo accentrata, che lo porta ad affidare gli affari più importanti a una segreteria particolare (la “Segretariola”). È questo ufficio a occuparsi delle questioni relative all’Italia, tra le quali spiccano la crisi modernista, le vicende del sacerdote Romolo Murri, la riforma dell’Opera dei Congressi e i rapporti sempre delicati con le autorità civili; l’attività della Segreteria di Stato del cardinale Rafael Merry del Val sembra concentrarsi principalmente sui rapporti con gli altri Stati.

Con l’avvento al soglio pontificio di Giacomo Della Chiesa (Benedetto XV, 1914-1922), che come segretario di Rampolla e sostituto della Segreteria di Stato aveva dato in precedenza un importante contributo al conciliatorismo, prende avvio una “conciliazione ufficiosa”, che trova nella Segreteria di Stato un attore fondamentale. Se da una parte la guerra non migliora i rapporti ufficiali con il governo – si pensi all’esclusione della Santa Sede dalle trattative di pace, stabilita nel Patto di Londra su richiesta dell’Italia, e alla ricezione della “Nota di pace” del papa (1° agosto 1917) –, dall’altra una mediazione discreta e costante, come quella esercitata in Vaticano dal barone Carlo Monti, pone le basi di importanti sviluppi successivi. Nel 1919 il cardinale segretario di Stato Pietro Gasparri invia in tutta fretta mons. Bonaventura Cerretti a Parigi, per dare autorevolmente seguito ai pourparlers sulla soluzione della Questione Romana iniziati a titolo personale da un prelato americano, mons. Francis Clement Kelley, con il presidente Vittorio Emanuele Orlando. Molto importante è anche la positiva collaborazione tra Gasparri e Francesco Saverio Nitti, risalente ai tempi delle trattative tra Italia e Austria-Ungheria del 1917, attivamente sostenute dalla Santa Sede. Le buone disposizioni del Vaticano verso l’Italia si manifestano anche in ambito internazionale: nel 1924 la Segreteria di Stato favorisce la ratifica del Trattato di Roma tra Italia e Jugoslavia, agendo sui deputati cattolici croati e sloveni del parlamento jugoslavo attraverso il nunzio a Belgrado mons. Pellegrinetti. L’avvio del pontificato di Pio XI (1922-1939) e l’inizio della dittatura fascista non alterano radicalmente tale contesto nel quale, nonostante la tensione suscitata a più riprese dalle pretese totalitarie del regime, nel 1926 prendono corpo le trattative che porteranno l’11 febbraio 1929 alla conclusione dei Patti Lateranensi, che comprendono un Trattato internazionale, un Concordato e una convenzione finanziaria.

I Patti chiudono definitivamente la Questione Romana, riconoscendo alla Santa Sede la sovranità territoriale sulla Città del Vaticano; pur rappresentando il più importante successo di Gasparri, essi allo stesso tempo sanciscono il distacco definitivo di quest’ultimo da papa Ratti, che pochi mesi dopo nomina segretario di Stato il cardinale Eugenio Pacelli, già nunzio a Berlino. All’origine vi è una notevole differenza di vedute sui rapporti con l’Italia (Gasparri non condivide l’insistenza di Pio XI sull’inscindibilità del vincolo tra Concordato e Trattato), ma più ancora l’incompatibilità tra un segretario di Stato – esperto giurista e diplomatico – abituato ad agire con una certa autonomia, e un pontefice dal temperamento autoritario, che in Pacelli vede un collaboratore più disponibile a eseguire le sue direttive. Anche Pacelli, inizialmente, subisce le iniziative di Pio XI, ad esempio nel 1931, quando durante lo scontro con il governo italiano sull’Azione Cattolica il papa “scavalca” in almeno un’occasione la Segreteria di Stato, agendo di concerto con il nunzio in Italia Francesco Borgongini-Duca. Il conflitto con Mussolini fa emergere i malumori presenti nel Sacro Collegio, dove diversi cardinali non condividono lo stile di governo di papa Ratti e lamentano di non essere stati consultati nelle trattative per la conciliazione; da questa crisi, tuttavia, l’autorità di Pacelli sugli altri porporati esce rafforzata: è l’inizio di una nuova fase di centralizzazione nel governo della Curia, destinata a protrarsi anche nel successivo pontificato.

Negli anni che precedono l’“accelerazione totalitaria” del regime fascista, la Segreteria di Stato è un luogo dove vengono condivisi con il governo italiano importanti indirizzi di politica estera (si pensi allo sforzo comune per difendere l’indipendenza dell’Austria dall’espansionismo hitleriano, almeno fino alla fine del 1935), mentre per i problemi più prettamente “italiani” la Santa Sede si avvale, oltre che della Segreteria di Stato e della nunziatura, anche del fondamentale contributo del gesuita Pietro Tacchi-Venturi, che fin dal 1923 svolge il ruolo di tramite ufficioso del Vaticano con Mussolini. Il progressivo avvicinamento dell’Italia alla Germania nazista suscita reazioni negative Oltretevere – l’incaricato d’affari austriaco presso la Santa Sede riferiva nel 1936 che secondo Pacelli «gli italiani non avevano carattere, e gli faceva semplicemente schifo leggere i giornali italiani, cosa alla quale era obbligato dal suo ufficio» (F. Engel-Janosi, Il Vaticano fra fascismo e nazismo, 228) – ma di un’effettiva volontà di denunciare unilateralmente il Concordato, attribuita a Pio XI negli ultimi mesi del suo pontificato, non si è avuta ad oggi una convincente prova documentaria.

Eletto papa dopo soli tre scrutinii il 2 marzo 1939, Eugenio Pacelli – ora Pio XII – nomina segretario di Stato il nunzio a Parigi Luigi Maglione, ma alla morte di quest’ultimo (1944) sceglie di non designare un successore, continuando ad avvalersi dell’opera del sostituto agli Affari Ordinari Giovanni Battista Montini e del segretario agli Affari Ecclesiastici Straordinari Domenico Tardini, al quale ultimo il pontefice confida di non volere «collaboratori, ma esecutori». L’assenza di un superiore, che si protrae fino alla fine del pontificato (nel 1952 sia Tardini che Montini vengono nominati “prosegretari di Stato”), non impedisce alla Segreteria di Stato di accrescere la propria importanza nel governo della Chiesa. Anche se è Tardini, diplomatico romano di impostazione “gasparriana”, a occuparsi più da vicino degli affari politici della Santa Sede, il bresciano Montini rappresenta un punto di riferimento per Alcide De Gasperi e la nuova classe dirigente democristiana, anche a seguito del suo precedente impegno nell’Azione Cattolica (e in particolare nella Fuci).

All’indomani della fine del conflitto mondiale, la Santa Sede segue con attenzione i lavori dell’Assemblea Costituente, mantenendosi in contatto con i principali esponenti politici (non solo democristiani) attraverso molteplici canali, Segreteria di Stato in primis: insieme a Tardini e Montini, è significativo il ruolo svolto dal minutante Angelo Dell’Acqua (che subentrerà come sostituto a Montini, nominato arcivescovo di Milano, nel 1954). In materia di rapporti tra Stato e Chiesa, il Vaticano appoggia la formulazione dell’art. 5 (divenuto poi art. 7) di Giuseppe Dossetti, pur manifestando una certa preoccupazione per l’appoggio ambiguo del PCI di Togliatti.

In quegli anni il giudizio sulle vicende italiane fa emergere importanti differenze tra le due anime della Segreteria di Stato di Pio XII: mentre Montini è un convinto sostenitore dell’unità dei cattolici nella Democrazia Cristiana, nel quadro di una maggiore autonomia dei laici nell’azione politica, Tardini è più cauto, non disapprovando un pluralismo di posizioni nella vita politica del Paese ma escludendo aperture a sinistra; entrambi, in ogni caso, sono contrari alla formazione del blocco cattolico-conservatore prospettato da Luigi Gedda nel 1947. Anche l’ingresso dell’Italia nell’Alleanza Atlantica suscita opinioni discordanti: piuttosto contrario Tardini, che guarda con favore alla neutralità italiana e teme un coinvolgimento della Santa Sede; favorevole invece Montini, che anche in questa occasione conferma la sua vicinanza alla linea di De Gasperi. Le preoccupazioni di Tardini sono condivise dal papa che tuttavia, rassicurato dal governo italiano, approva la scelta atlantica.

I pontificati di Giovanni XXIII (1958-1963) e Paolo VI (1963-1978) attraversano anni cruciali per la Chiesa italiana: il clima di ottimismo suscitato dal Concilio Vaticano II (1962-1965) si scontra con la realtà del progressivo allontanamento della popolazione dalla fede praticata e vissuta, e con l’insofferenza di settori non trascurabili del clero e del laicato per l’autorità della Santa Sede e il magistero pontificio (si pensi alle reazioni suscitate dall’enciclica Humanae vitae del 1968). Lo spirito di rinnovamento del Concilio investe la Curia, che viene profondamente riformata dalla costituzione Regimini Ecclesiae universae (1967) di papa Montini; con la soppressione della Cancelleria dei Brevi Apostolici e la trasformazione della prima sezione (Affari Ecclesiastici Straordinari) nel Consiglio per gli Affari Pubblici della Chiesa, la Segreteria di Stato viene unificata e diventa a tutti gli effetti “segreteria del Papa”: la pluralità dei soggetti con i quali essa è ora chiamata a intrattenere relazioni esprime la visione ecclesiologica conciliare. Nonostante la centralità che anche Paolo VI, come i suoi predecessori, attribuisce alla Segreteria di Stato – dove il sostituto Giovanni Benelli ha maggiormente il “polso” della situazione italiana rispetto al segretario di Stato, il cardinale francese Jean-Marie Villot – papa Montini non disdegna di servirsi di altri canali per intervenire nelle questioni italiane, di cui è spettatore attento e partecipe: quando i rapporti della Santa Sede con l’Italia sono messi a dura prova dall’introduzione della legge sul divorzio (con il successivo referendum abrogativo) e dalle prime discussioni sulla revisione del Concordato, un interlocutore privilegiato del pontefice è il segretario della CEI Enrico Bartoletti, insieme al quale l’ambasciatore italiano Gian Franco Pompei elabora la prima bozza del nuovo Concordato.

Il maggiore protagonismo della Conferenza Episcopale è peraltro un tratto distintivo del pontificato di Giovanni Paolo II (1978-2005), per quanto riguarda l’Italia. Sebbene essa non venga coinvolta nelle fasi decisive dei negoziati per l’accordo-quadro del 1984, quest’ultimo ne fa il soggetto competente a trattare con le autorità civili in numerose e importanti materie, tra cui i beni culturali e il finanziamento pubblico alla Chiesa cattolica. Negli stessi anni la Segreteria di Stato viene ulteriormente riformata: la costituzione Pastor bonus (1988) la ripartisce in due sezioni (Affari Generali / Rapporti con gli Stati), coordinate rispettivamente da un sostituto e da un segretario; nella seconda sezione confluisce il Consiglio per gli Affari Pubblici della Chiesa. Sul piano giuridico la riforma sottolinea il legame di tutta la Curia con il pontefice; per quanto riguarda l’Italia la Segreteria di Stato rinuncia alle sue prerogative nelle provviste episcopali a vantaggio della Congregazione dei Vescovi (ma la seconda sezione le mantiene per l’Europa dell’Est e la Russia).

Nel confuso quadro generato dalla “fine della Prima Repubblica”, con la diaspora politica dei cattolici che ne è conseguita, le istituzioni italiane hanno trovato nella CEI presieduta dal cardinale Ruini un interlocutore privilegiato, in sintonia con il magistero e le direttive pastorali di papa Wojtyla. Il quadro sembra essere parzialmente mutato con l’avvento al soglio pontificio di Benedetto XVI: in una lettera al presidente della CEI Angelo Bagnasco (25 marzo 2007), infatti, il segretario di Stato Tarcisio Bertone ha rivendicato implicitamente un ruolo più attivo per sé nei rapporti con le autorità civili. A questo riguardo, è lecito supporre che l’attuale situazione di crisi economica e politica, che ripropone in termini cogenti il problema del ruolo dei cattolici nell’arena pubblica (evidenziato dal cardinale Bagnasco in numerosi interventi), offrirà sicuramente nuove occasioni di confronto e spunti di riflessione.

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LEMMARIO




Seminari - vol. II


Autore: Maurilio Guasco

Tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento si ebbero nei seminari i primi cambiamenti significativi, introdotti da Leone XIII e Pio X. Il primo, già da arcivescovo di Perugia, aveva emanato un regolamento per i chierici esterni, cioè per quanti si preparavano al sacerdozio restando nelle loro case e frequentando, neanche sempre, le scuole del seminario. Diventato papa, fra i primi suoi atti vi sarebbe stata la pubblicazione dell’enciclica Aeterni Patris (1879) con la quale metteva ordine nei vari orientamenti filosofici presenti nei diversi seminari, imponendo a tutti la dottrina di san Tommaso come base dell’insegnamento della filosofia e premessa indispensabile per lo studio della teologia: si tornava così alla vecchia concezione della filosofia come ancilla della teologia.

Diversi altri provvedimenti emanati dal pontefice avrebbero potuto avere influssi significativi sulla vita del seminario: si pensi in particolare all’apertura degli archivi vaticani, all’insistenza del pontefice sulla necessità degli studi storici e biblici e la sua attenzione ai problemi sociali che avrebbe facilitato il diffondersi di quello che verrà definito “il prete sociale”, cioè il prete che non disdegna di occuparsi dei problemi della società civile.

In effetti, tutto questo non ebbe influssi di particolare rilievo nei seminari, che sempre più venivano considerati istituzioni chiuse e autosufficienti, dove il seminarista doveva essere tenuto al riparo dagli influssi del mondo esterno; anche se, logicamente, le grandi trasformazioni e i dibattiti che ne conseguivano non potevano non avere un’eco significativa anche nei seminari.

Nel frattempo, la diminuzione dei chierici esterni, i periodi di vacanza che vengono sistematicamente abbreviati, i regolamenti disciplinari sempre più severi preparano quella che sarà la svolta del XX secolo, con la scomparsa del chiericato esterno e l’obbligo di residenza in seminario per almeno un quadriennio prima dell’ordinazione sacerdotale.

Nel programma generale di riforme, messo in atto da Pio X, rientravano anche gli interventi dedicati al miglioramento degli studi nei seminari, da ottenersi, ove necessario, anche con la soppressione di seminari troppo piccoli, e quindi non in grado di adeguarsi alle nuove esigenze, e la conseguente nascita di nuovi istituti di carattere interdiocesano o regionale.

Il pontefice aveva nominato una commissione che, dopo un’accurata analisi della situazione, aveva preparato una serie di norme e programmi che il papa rendeva operativi. Contemporaneamente, una visita apostolica a tutte le diocesi offriva a Pio X ulteriori elementi per i suoi interventi riformatori, comprendenti anche i seminari.

Veniva quindi deciso che tutti i chierici erano obbligati alla residenza in seminario, possibilmente fin dalla prima media, ma comunque nel quadriennio degli studi teologici, un quadriennio che doveva essere svolto integralmente, senza che vi fossero deroghe alla sua durata né possibili anticipi per la recezione degli ordini maggiori. Diventava così impossibile compiere gli studi privatamente, e venivano anche abolite le varie scuole ecclesiastiche vescovili che erano ancora aperte presso alcuni capitoli delle cattedrali.

Il curriculum prevedeva la divisione in scuola media, ginnasio, liceo e teologia e la base degli studi dalla scuola media al liceo diventavano i programmi governativi, con qualche aggiustamento per gli anni del liceo, che prevedano un più alto numero di ore dedicate alla filosofia scolastica. Vi era stato un dibattito particolarmente vivace tra quanti ritenevano che l’introduzione dei programmi governativi nelle scuole dei seminari fosse un cedimento alla cultura laica e un incoraggiamento a quanti sarebbero entrati in seminario solo allo scopo di compiere gli studi umanistici, e quanti ritenevano che la scelta di quei programmi, senza modificare il cammino vocazionale, avrebbe lasciato maggiormente liberi i giovani nello scegliere il loro futuro, senza sentirsi costretti a restare in seminario anche alla vigilia della teologia causa la totale mancanza di qualsiasi titolo scolastico legalmente riconosciuto.

Pio X portava così a compimento l’opera del Concilio di Trento, che aveva suggerito di aprire in ogni diocesi un seminario; realizzando anche un altro dei suggerimenti del Tridentino, che prevedeva per quelle diocesi impossibilitate a fare da sole di aprire insieme seminari interdiocesani o regionali.

Di conseguenza, nel volgere di pochi anni sarebbero sorti vari seminari regionali, soprattutto nel Centro-Sud, affidati per l’insegnamento al clero secolare, con cinque eccezioni riguardanti i gesuiti. Le nomine dei preti secolari come docenti vennero in genere decise a Roma, data la difficoltà che insorse quando i vescovi locali dovettero provvedere alle scelte dei docenti e spesso anche delle località in cui collocare il seminario.

Nel 1908 nasceva così a Lecce il regionale pugliese, poi trasferito a Molfetta nel 1915. Nello stesso anno nasceva il regionale di Chieti, mentre nel 1909 quello di Fano diventava interdiocesano e iniziava la costruzione di quello di Bologna, inaugurato nel 1919. Nel 1914 venivano inaugurati i regionali di Catanzaro e di Napoli. Nel 1911 diventava regionale il seminario di Anagni e nel 1912 quello di Assisi. L’ondata di fondazioni sarebbe poi ripresa negli anni Venti e Trenta con i seminari di Cuglieri, Potenza, Benevento, Reggio Calabria, Salerno e Viterbo. Nel 1953 si sarebbe aggiunto anche quello di Siena.

Gli anni di Pio X sono però segnati anche dalla crisi modernista. Di fronte al clima di rinnovamento e anche di entusiasmi sollevati nei seminari dalle opere di coloro che venivano condannati per la loro eterodossia, l’enciclica Pascendi (1907) corse ai ripari prescrivendo anche per i seminari delle norme disciplinari particolarmente rigide. Sulla base delle relazioni preparate dai visitatori mandati da Roma nei diversi seminari, non pochi insegnanti vennero esautorati, furono censurati e proibiti manuali e testi in uso nei seminari considerati poco ortodossi, si impose una oculata vigilanza su superiori e professori, i quali poi furono tutti costretti al cosiddetto “giuramento antimodernista”, un testo preparato a Roma che condannava tutte quelle dottrine che contenessero anche un minimo sospetto di eresia modernista e che doveva essere prestato da tutti i preti che accedessero a qualche nuovo ufficio, ma doveva anche essere ripetuto ogni anno dai professori del seminario.

Nel frattempo, il seminario accentuava la sua immagine di istituzione globale, lontana da ogni eco mondana: veniva proibito ogni contatto con l’esterno, per esempio attraverso la lettura di quotidiani, quindi assolutamente proibita, e fortemente limitato l’uso di biblioteche e riviste, mentre il tempo delle vacanze in famiglia veniva ulteriormente limitato. Ne avrebbe tratto vantaggio la formazione spirituale, a scapito però di una formazione culturale diventata sempre più carente. Nasceva così l’immagine del prete non troppo colto ma ubbidiente, mentre si diffondeva ulteriormente il falso mito del curato d’Ars, Giovanni Maria Vianney, santo proprio perché poco colto.

Nel 1917 si concludevano anche i lavori di preparazione del nuovo codice di diritto canonico, durati diversi anni: venivano così ratificate molte norme entrate in vigore negli anni precedenti. Veniva soppresso il chiericato esterno, si consigliava la presenza in ogni diocesi di due sedi per il seminario, una riservata al seminario minore, una al maggiore. Veniva precisata l’età minima necessaria per accedere agli ordini: il suddiaconato al compimento del ventunesimo anno di età, e al termine del terzo anno di teologia; il diaconato a ventidue anni e all’inizio del quarto anno di teologia, il presbiterato dopo la metà del quarto anno di teologia e al compimento del ventiquattresimo anno (salvo dispense da Roma). Venivano anche precisate le materie che avrebbero dovuto costituire la base indispensabile per una buona preparazione al sacerdozio. L’attuazione delle varie norme veniva affidata alla Congregazione dei seminari e delle università degli studi, costituita nel novembre 1915 da Benedetto XV con la Lettera apostolica Seminaria clericorum.

Superate le difficoltà e le conseguenze della guerra, che avrebbe visto un numero molto alto di preti e seminaristi al fronte, un nuovo documento romano, l’Ordinamento dei seminari, pubblicato dalla neonata Congregazione il 26 aprile 1920, ribadiva le varie norme e direttive emanate negli anni precedenti.

Un ultimo segno della chiusura al mondo e della scelta di conservare i seminaristi, in Italia, immuni da rapporti con la società civile, veniva dato dalla firma dei Patti Lateranensi, del’11 febbraio 1929, che contenevano per i seminaristi l’esenzione dal servizio militare.

Una svolta significativa nella storia del clero italiano, e poi anche dei seminari, era costituita dalla fondazione, nel 1916 per opera del padre Paolo Manna, della Unione missionaria del clero, consigliata a tutte le diocesi dallo stesso pontefice. In un primo momento, tale opera veniva sconsigliata, per non dire proibita, nei seminari. Questi, secondo gli orientamenti del tempo, dovevano provvedere a formare i preti in vista dell’attività pastorale nelle loro diocesi di origine. Parlare di missione nei seminari poteva distogliere i seminaristi da tale orientamento. Chi avesse voluto dedicarsi alle missioni, doveva entrare in una Congregazione missionaria. E i rettori avevano qualche timore che il pensiero delle missioni potesse distogliere i seminaristi dal loro compito, o addirittura portarli ad abbandonare il seminario.

Ci vorranno anni prima che si riscopra da un lato il ruolo essenzialmente missionario della Chiesa, dall’altro la responsabilità di ogni cristiano nei confronti dell’annuncio missionario, oltre i compiti specifici che ognuno deve svolgere nella comunità dei credenti.

A partire dagli anni Trenta però gli orizzonti si sarebbero allargati, al punto che nel 1931 sarebbero stati introdotti nel piano di studi dei seminari, anche se non tra le discipline fondamentali, gli insegnamenti di Storia delle missioni e di Missiologia.

In quello stesso anno, 1931, un provvedimento di Pio XI era destinato a modificare profondamente la storia dei seminari e dei loro piani di studio. Con la Costituzione Deus scientiarum Dominus il pontefice presentava le condizioni richieste perché una facoltà teologica fosse abilitata a rilasciare titoli accademici. Il risultato sarebbe stato la pratica soppressione, con qualche piccola eccezione, di tutte le facoltà teologiche presenti in molte delle diocesi, non solo italiane. Rimanevano, e modificavano i loro piani di studio, soprattutto le facoltà teologiche romane, dove era ormai indispensabile recarsi per acquisire titoli accademici. Ne sarebbe derivato un evidente arricchimento della ricerca teologica anche per i seminari periferici, dal momento che veniva introdotta la necessità di una tesi di ricerca per conseguire il dottorato, e gradualmente gli insegnanti dei seminari, spesso improvvisati, venivano sostituiti da giovani formati nelle università ecclesiastiche romane. Questo avrebbe poi riaperto il dilemma tra il rischio di formare dei pastori con scarsa preparazione teologica, o dei bravi studiosi ma poco esperti di problematiche pastorali.

La seconda guerra mondiale non avrebbe visto, come era successo nel corso della prima, la partenza per il fronte di seminaristi e preti, esentati grazie ai Patti Lateranensi dal servizio miliare. Sarebbero però partiti diversi cappellani militari, mentre molti seminari rimanevano chiusi o perché in zone di guerra o perché utilizzati come base militare o come ospedali di campo. Ne avrebbe subito gravi danni la formazione soprattutto culturale, dal momento che i corsi si tenevano solo sporadicamente e spesso in luoghi improvvisati. Questo però non avrebbe impedito a molti giovani preti di occuparsi di problemi politici, connessi con la propaganda elettorale negli anni dell’immediato dopoguerra. E non furono pochi i seminaristi che furono anche coinvolti nella propaganda elettorale.

La società italiana però usciva profondamente modificata dagli anni della guerra, e anche nei seminari tornavano le vecchie discussioni sulla apertura al mondo, sulla opportunità di presentarsi agli esami di Stato, sulle materie nuove da inserire nei programmi di studio. Venivano quindi introdotte alcune nuove materie sia di carattere sociologico (anche se all’inizio tale termine indicava la dottrina sociale della Chiesa) che di carattere economico, mentre si dava maggiore importanza all’insegnamento della catechesi. Alcuni cambiamenti erano stati anche richiesti dallo stesso Pio XII nel settembre 1950 con l’esortazione apostolica Menti nostrae, nella quale tra l’altro si chiedeva una maggiore attenzione alla formazione umana dei futuri preti.

I cambiamenti più significativi avvenivano nell’ambito missionario. Erano stati i vescovi francesi ad aprire la strada con la fondazione della Mission de Paris, dedicata alla evangelizzazione del mondo operaio, ma soprattutto con la fondazione della Mission de France, che aveva alla base la constatazione della cattiva distribuzione del clero. Entrare nel seminario della Mission de France significava mettersi a disposizione della Chiesa francese che avrebbe destinato i giovani preti alle diocesi dove era maggiore la carenza di clero. Qualche vescovo italiano aveva applicato lo stesso criterio con paesi di missione, inviando alcuni preti della propria diocesi al servizio di diocesi dove stava iniziando l’annuncio del Vangelo.

Tale criterio sarebbe stato ratificato e diffuso dall’enciclica Fidei donum di Pio XII, dell’aprile 1957; il papa invitava i vescovi occidentali a mettere alcuni loro preti a disposizione dei territori di missione, per periodi determinati e con l’accordo del vescovo che avrebbe accolto quei preti. Si trattava in un primo momento di aiutare le nuove diocesi africane a formare i loro pastori, per poter presto permettere la nascita di vere Chiese locali. A partire dagli anni Sessanta tale prassi si sarebbe estesa ad altri paesi e ad altri servizi pastorali, finendo per indicare quanti sceglievano quel servizio come “preti Fidei donum”.

Si trattava di una svolta significativa anche per la vita dei seminari, poiché permetteva di modificare gli orizzonti della formazione seminaristica, superando il cosiddetto egoismo diocesano: il seminarista entrava in un’ottica diversa, scopriva lentamente che si veniva ordinati al servizio della Chiesa universale, e non di una Chiesa particolare. Le necessità pastorali avrebbero indicato il luogo specifico in cui svolgere il ministero. Inoltre, si apriva ai giovani la possibilità di un servizio pastorale da svolgere, per alcuni anni, in terra di missione, senza bisogno di entrare in una Congregazione religiosa. Un clima nuovo che veniva facilitato dalla costituzione in molti seminari dei “circoli missionari”, dedicati all’animazione missionaria in seminario, mentre nel 1962 sarebbe stato fondato a Verona il CEIAL (Centro Ecclesiale Italiano per l’America Latina), seguito dall’apertura nel 1965, ancora Verona, di un seminario per formare i preti destinati all’America Latina.

In quegli stessi anni poi stava cambiando non solo la geografia vocazionale (aumentavano i seminaristi non occidentali) ma anche l’anagrafe nei seminari. La maggior parte dei seminaristi adulti proveniva ancora dai seminari minori. Giungevano però in seminario le cosiddette “vocazioni adulte”, giovani cioè che entravano nel seminario maggiore dopo una formazione culturale ed umana diversa: il che avrebbe portato a riflettere anche sui nuovi modelli formativi.

Cosa che in parte avrebbe fatto il Concilio Vaticano II, convocato da Giovanni XXIII nel gennaio 1959 e apertosi l’11 ottobre 1962. Il documento sulla formazione del clero, Optatam totius, sarebbe stato approvato il 28 ottobre 1965. Tra le novità del testo, da ricordare che i Padri insistevano sul fatto che il risveglio e la cura delle vocazioni non dovevano essere riservate agli addetti ai lavori, ma a tutta la comunità cristiana. Le singole Conferenze Episcopali venivano poi invitate a preparare un regolamento di formazione sacerdotale, da sottoporre alla Santa Sede, affinché le necessarie norme generali fossero adattate alle situazioni dei singoli paesi. Restava il richiamo a una formazione filosofica e teologica fondata sulla dottrina tomista, ma si chiedeva anche una maggiore attenzione alle diverse correnti filosofiche contemporanee, mentre si precisava che uno dei pilastri della formazione sacerdotale doveva essere la pastoralità. In altri termini, ai tre grandi riferimenti indicati dal Concilio di Trento, pietà-studio-disciplina, ora si affiancava la formazione pastorale, aggiungendo che era proprio questa che doveva fondare la vita spirituale del presbitero.

Il Italia la Ratio fundamentalis veniva presentata il 22 luglio 1972, in uno dei momenti più problematici della storia dei seminari. Tra la fine degli anni Sessanta e gli inizi degli anni Settanta si verificava la più grave e in parte inattesa crisi nella storia del clero: crollavano gli ingressi nei seminari, con la conseguente chiusura di non pochi di questi, mentre numerosi preti abbandonavano il ministero, facilitando una discutibile e troppo comoda analisi che vedeva nel Concilio e quindi nel cosiddetto Sessantotto le cause di tale situazione. Il numero dei seminaristi, che nel 1962 aveva raggiunto la cifra più alta del secondo dopoguerra con 30.595 unità, si riduceva a 25.570 nel 1968 per precipitare a 9.853 nel 1978. Nel 1970 vi erano aperti 375 seminari, ridotti a 259 nel 1978. In un decennio erano dunque stati chiusi 68 seminari minori e 48 maggiori.

Cambiava ulteriormente la geografia vocazionale, non solo a livello mondiale, ma anche locale, poiché il numero di seminaristi che non provenivano dal seminario minore era in continua crescita. Questo avrebbe portato alcune diocesi ad aprire dei seminari specifici per le vocazioni adulte, ma anche molti seminari a modificare i loro programmi di studio e di formazione spirituale. La scelta di aprire seminari destinati a categorie particolari si stava diffondendo anche tra i movimenti ecclesiali: non erano poche le vocazioni cresciute in quei movimenti, e i loro responsabili ritenevano che fosse giunto il momento di formare preti che avessero gli stessi orientamenti e la stessa spiritualità dei movimenti dai quali provenivano. Sceglievano tale orientamento, ad esempio, il Cammino neocatecumenale, il Rinnovamento dello Spirito, i Focolarini e altri. Il che naturalmente sollevava nuovi problemi e nuove prospettive, rendendo più problematica la scelta di una pastorale diocesana indicata dai vescovi, e non dai responsabili dei singoli movimenti.

I vescovi italiani preparavano intanto un decreto, presentato nel maggio 1980, che teneva presenti i cambiamenti avvenuti, a livello istituzionale, nel cammino di preparazione al sacerdozio. Venivamo modificati i cosiddetti “ordini minori” e soppresso il suddiaconato. L’ingresso nell’ordine clericale sarebbe avvenuto con il conferimento del diaconato, che restava come ultimo gradino verso il sacerdozio, ma veniva affiancato dal diaconato permanente, conferito a quanti ricevevano il diaconato solo come servizio da prestare alla comunità ecclesiale, senza però avviarsi al sacerdozio.

Le varie modifiche presentate anche per i piani di studio venivano poi recepite nella Ratio studiorum per i seminari maggiori italiani, pubblicata nel giugno 1984. Il tema della missionarietà sarebbe stato ripreso nel Sinodo dell’ottobre 1990, dedicato a La formazione dei sacerdoti nelle circostanze attuali, mentre sulle esigenze della formazione pastorale sarebbe tornato Giovanni Paolo II nella Pastores dabo vobis, l’esortazione apostolica del 25 marzo 1992, anch’essa dedicata a La formazione dei sacerdoti.

Lo stesso Giovanni Paolo II aveva pubblicato nel 1979 la Sapientia christiana, con la quale modificava la Deus scientiarum Dominus, la Costituzione di Pio XI del 1931 che era rimasta sempre in vigore, solo con qualche parziale modifica suggerita nel maggio 1968 dalla Sacra Cogregatio pro Institutione Catholica. La Sapientia christiana indicava le nuove norme necessarie per il conseguimento dei titoli accademici nelle Università pontificie.

Anche in queste si stavano verificando in quegli anni cambiamenti significativi. La ricostituzione in alcune città italiane di facoltà teologiche finiva per fare diminuire il numero di seminaristi che si recavano a Roma per completare gli studi, determinando un ulteriore modifica delle presenze di giovani seminaristi o preti a Roma. Diminuivano cioè le presenze di giovani provenienti dai paesi europei, mentre aumentano le presenze di africani ed asiatici, con la conseguente necessità di nuovi adeguamenti nei piani di studio. Qualcosa di analogo avveniva nei seminari italiani, dove aumentavano le presenze di giovani non italiani, spesso venuti solo per completare gli studi e poi incardinati nelle diocesi che li avevano accolti.

In Italia veniva anche discussa la possibilità di introdurre nelle facoltà teologiche alcune modifiche che rispecchiassero le riforme in corso nelle diverse facoltà statali: tale possibilità sarebbe stata indicata come il “processo di Bologna”.

Sono le nuove sfide del futuro: anche il presbiterio e il seminario stanno diventando lo specchio dei una società multietnica e multiculturale. Si tratta di una nuova realtà con cui dovranno confrontarsi i seminari e le diocesi italiane.

Fonti e Bibl. essenziale

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LEMMARIO