Il 1968 rimane per molti una data simbolo, soprattutto per le contestazioni studentesche in vari paesi europei ed americani. Ma il 1968 è anche l’anno dell’uccisione di Martin Luther King (4 aprile) e di Robert Kennedy (5 giugno), della primavera di Praga, stroncata dalle truppe sovietiche nell’agosto successivo, e di analoghe speranze e delusioni in Polonia, del fallimento della “rivoluzione culturale” cinese organizzata dalle “Guardie rosse”, delle offensive dei Vietcong in Vietnam, che metteranno in grave imbarazzo, anche sul piano internazionale, le forze armate e il prestigio nel mondo degli Stati Uniti. Problemi in parte analoghi doveva affrontare anche l’Unione Sovietica, che vedeva aumentare la sua tensione con la Cina, alla quale si avvicinava l’Albania, che decideva di uscire dal patto di Varsavia.
In Polonia le manifestazioni vedevano come protagonisti le organizzazione studentesche, come d’altronde stava avvenendo in altri paesi: a partire da marzo in Brasile e in Francia, in aprile nella Repubblica federale tedesca e in Turchia, tra aprile e maggio negli Stati Uniti (dove le manifestazioni studentesche erano già iniziate nel 1964) e poco dopo in Senegal e ancora in Francia, in settembre in Messico, represse duramente dalla polizia, in ottobre in Gran Bretagna, ma anche in Giappone, Jugoslavia, Svizzera, Spagna, Argentina.
In Europa divenne un vero e proprio riferimento mitologico il maggio francese, con l’occupazione della Sorbona e i tentativi degli studenti di organizzare una forma di democrazia diretta con “l’immaginazione al potere”. In Italia divenne quasi un simbolo l’università di Trento, con la Facoltà di Sociologia che parve presentarsi come fonte e promotrice di tutte le grandi contestazioni, mentre facevano particolare scalpore le agitazioni studentesche che si verificavano a Milano all’Università cattolica del sacro Cuore (novembre 1967) che avrebbero provocato l’espulsione di alcuni studenti e le severe reazioni delle autorità accademiche. Le occupazioni si susseguirono in molte altre sedi universitarie, raggiungendo il culmine il primo marzo quando a Roma si svolge la “battaglia di Valle Giulia”, causata dall’occupazione della facoltà di architettura, una vera e propria battaglia urbana che provocò centinaia di feriti tra i manifestanti e le forze dell’ordine.
Vi furono in seguito manifestazioni del dissenso cattolico, il cui primo convegno si tenne a Bologna il 27 febbraio 1968. Tra le manifestazioni ebbero particolare rilievo l’occupazione della cattedrale di Parma, nel settembre 1968, e il caso dell’Isolotto, la parrocchia fiorentina il cui parroco, don Enzo Mazzi, rimosso dal cardinale, continuò le celebrazioni liturgiche in locale improvvisati o sulla piazza. Altri gruppi entrarono in dissenso con l’autorità religiosa, e vennero indicati con il termine piuttosto ambiguo di “comunità di base”. L’uso delle categorie marxiane sembrava introdurre nelle comunità ecclesiali alcuni concetti base del marxismo, identificando il Regno di Dio con l’utopia marxista, spingendo i cristiani ad operare in vista della trasformazione della società e presentando la prassi sociale come criterio della stessa vita religiosa. Gli studenti avrebbero poi cercato di coinvolgere il movimento operaio, assumendone anche le rivendicazioni.
In ambito ecclesiale, si protestava contro la mancata realizzazione di molte delle istanze del Concilio Vaticano II, di cui anzi si temeva il ridimensionamento. Si voleva un’ecclesiologia dove non si parlasse solo di gerarchie e di potere, ma di servizio e di ruoli. Sarebbe stato uno dei temi preferiti del gruppo di preti francesi che avrebbe dato inizio al movimento Echanges et dialogue, che rivendicava una maggiore libertà per il clero nella scelta delle proprie condizioni di vita.
Sul tema della recezione del Concilio si pronunciò l’episcopato sudamericano nell’incontro di Medellin (26 agosto – 7 settembre 1968), un evento destinato a diventare un punto di riferimento per la storia della Chiesa in America Latina. Tre libri, tradotti o pubblicati nel 1968, si possono poi considerare momenti fondamentali nella storia della teologia: Resistenza e resa, di D. Bonhoeffer, Introduzione al cristianesimo, di J. Ratzinger e Sulla teologia del mondo di J. B. Metz.
In ambito studentesco, si accusava la scuola di essere ancora una scuola di classe, che non permetteva alle categorie più disagiate di accedere agli studi superiori. Le prove di tale situazione venivano fornite da un testo che a torto divenne quasi il simbolo della contestazione, la Lettera a una professoressa (1967) di don Lorenzo Milani.
Un altro segno di un certo dissenso cattolico furono le reazioni, spesso critiche, all’enciclica di Paolo VI, Humanae vitae, pubblicata il 25 luglio 1968, dedicata in particolare al problema del controllo delle nascite. Reazioni che addolorarono il pontefice, che da qualche anno sentiva la difficoltà a capire e farsi capire su certi temi, come aveva spesso l’occasione di ribadire nelle udienze generali, e che aveva poi ricordato i limiti oltre i quali il credente non poteva andare nel Credo pronunciato il 30 giugno 1968, concludendo l’anno della fede, inaugurato l’anno precedente.
Con il passare degli anni, il ’68 è diventato una specie di mito; indica per alcuni il tempo della libertà, della fantasia al potere, del sogno di una società di uguali, del rifiuto delle gerarchie e delle regole dell’economia di mercato; per altri sembra il simbolo del rifiuto di ogni gerarchia sociale, di una specie di delirio collettivo distruttore di ogni forma di tradizione, principio dei diversi mali sociali e soprattutto premessa del futuro terrorismo.
Fonti e Bibl. essenziale
A. Agosti – L. Passerini – N. Tranfaglia (edd.), La cultura e i luoghi del 68, Angeli, Milano 1991; AA.VV., Echanges et dialogue ou la mort du clerc,Idoc, Paris 1975; AA.VV., Le radici del ’68, Baldini & Castoldi, Milano 1998; R. Beretta, Il lungo autunno. Controstoria del Sessantotto cattolico, Rizzoli, Milano 1998; M. Brambilla, Dieci anni di illusioni. Storia del Sessantotto, Rizzoli, Milano 1994; M. Cuminetti, Il dissenso cattolico in Italia. 1965-1980, Rizzoli, Milano 1983; C. Falconi, La contestazione nella Chiesa. Storia e documenti,Feltrinelli, Milano 1969; M. Flores – A. De Bernardi, Il Sessantotto,Il Mulino, Bologna 2003; A. Giovagnoli (ed.), 1968: fra utopia e Vangelo. Contestazione e mondo cattolico, Ave, Roma 2000; Insegnamenti di Paolo VI, Città del Vaticano, Roma 1963 e ss.; G.C. Marino, Biografia del Sessantotto, Bompiani, Milano 2004; P. Ortoleva, I movimenti del 68 in Europa e in America,Editori Riuniti, Roma 1998.
Con l’affermarsi della rivoluzione industriale si diffondono tra le classi lavoratrici nuove organizzazioni di rappresentanza collettiva: il sorgente associazionismo sindacale è una risposta alle difficoltà di vita e di lavoro connesse al rapporto di subordinazione del lavoro salariato, ai mutamenti introdotti nel processo produttivo e al diffondersi della condizione proletaria del moderno capitalismo. Quando, infatti, l’esigenza di difesa individuale della persona che lavora si proietta in un’azione solidale di tutela collettiva prendono forma i sindacati, associazioni permanenti di lavoratori dipendenti, salariati, che hanno per finalità di mantenere e di migliorare le condizioni di lavoro (sulla base di motivazioni immediate di natura economica, ma anche di principi politici e morali), in grado di darsi autonome e democratiche leadership. Ricevendo dall’iscritto il mandato a rappresentare i propri interessi in forma collettiva, col moltiplicarsi delle adesioni personali i sindacati realizzano un’alterazione nel senso del controllo associativo dell’offerta di lavoro rispetto al disequilibrio del potere sociale presente nell’impresa. Attraverso il dispiegamento dell’azione contrattuale e negoziale, responsabile verso il mandato associativo, e l’organizzazione confederale, che consente agli attori sociali di contribuire al generale sviluppo socio-economico, i sindacati affermano nuovi diritti attraverso una rappresentanza sociale che si distingue per natura, finalità e metodo d’azione dalla rappresentanza politica.
Nel corso del tempo e nei molteplici ambienti culturali, sociali e politici, il movimento sindacale si è articolato in una pluralità di forme organizzative ed orientamenti culturali. Così, è accaduto anche nel Regno d’Italia, durante il lento processo di industrializzazione del Paese. Il cambiamento di status dei lavoratori, in particolare nel settore tipografico e della seta, fece emergere l’esigenza di superare le esperienze del mutuo soccorso, che in alcuni casi avevano radici nelle corporazioni di mestiere, verso prime forme di federazioni sindacali e leghe di “resistenza”. Nell’ultimo ventennio dell’Ottocento, segnato dall’imporsi della questione sociale e dal moltiplicarsi degli scioperi, si diffuse una sindacalizzazione instabile negli ambienti industriali e nelle campagne; in alcune città, si costituirono le Camere del lavoro, presto collegate al nascente movimento socialista. Dopo il 1900, unioni professionali di soli operai sorte con una matrice confessionale arricchirono la diffusa presenza del movimento sociale cattolico italiano, contrastato dall’anticlericalismo e dai diversi riflessi politici di una questione romana ancora aperta.
La tolleranza dei sindacati nell’Italia giolittiana, che consente dopo il 1901 il costituirsi di permanenti federazioni sindacali nazionali e nel 1906 la nascita della socialista e riformatrice Confederazione Generale del Lavoro (CGdL), era finalizzata a un progetto politico e riformatore che favorì una certa marginalizzazione del sindacalismo cattolico. Nel 1906 le unioni professionali cattoliche esistenti raccoglievano circa 70.000 soci; tre anni dopo, sviluppatosi sul piano organizzativo, il sindacalismo “bianco” poteva vantare due federazioni nazionali, il Sindacato italiano tessili e il Sindacato nazionale ferrovieri. Solo nel marzo 1918, grazie all’opera di Giovan Battista Valente, i sindacati cattolici ormai diffusi anche nel settore agricolo, metallurgico e dell’impiego pubblico si raccoglievano nella Confederazione Italiana dei Lavoratori (CIL). Diretta prima da Giovanni Gronchi e poi da Achille Grandi, la CIL accompagna il sorgere del Partito Popolare Italiano e condivide il suo declino politico durante l’avvento violento del regime fascista. Il richiamo al carattere confessionale della CIL non le consentì alcuna protezione durante il periodo che va dal Patto di Palazzo Vidoni del 1925, che segnò la fine della libertà contrattuale, alla legge Rocco del 1926, che instaurò un sindacato unico obbligatorio giuridicamente riconosciuto.
L’impostazione politica e l’ordinamento giuridico degli anni tra le due guerre, orientato da suggestioni corporative, esercitarono il loro fascino anche nel dopoguerra, quando si avviò la ricostruzione sindacale nel quadro delle libertà democratiche. In tale contesto, i rappresentanti sindacali antifascisti del Partito socialista, della Democrazia cristiana e del Partito comunista firmarono nel giugno 1944 la costituzione di un sindacato unitario, la Confederazione Generale Italiana del Lavoro (CGIL). Nel mondo cattolico italiano, che influì nel dibattito che portò alla formulazione degli articoli 39 e 40 della Costituzione, si svilupparono diversi orientamenti tra coloro che volevano un sindacato giuridicamente regolato, strutturato in organizzazione professionali confessionali, e coloro che vedevano nella libertà associativa la chiave di volta per una rappresentanza responsabile dei lavoratori, in grado di partecipare alla formazione delle decisioni del processo d’industrializzazione che si doveva sviluppare nel Paese. Nel luglio 1948, dopo la proclamazione dello sciopero politico seguito all’attentato a Togliatti, la Corrente sindacale cristiana si separò da una CGIL ormai egemonizzata dalla maggioranza comunista, decidendo di dar vita alla Libera CGIL, sindacato che abbandonava la caratterizzazione confessionale: da allora in Italia non vi è stato più una confederazione sindacale “cristiana”.
Collegandosi al sindacalismo internazionale “libero” e democratico, col proposito di coinvolgere tutti i lavoratori in una rappresentanza sociale indipendente dai partiti, Giulio Pastore condusse la Libera CGIL in un processo di unificazione che approdò, nell’aprile 1950, alla costituzione della Confederazione Italiana Sindacati dei Lavoratori (CISL). Grazie alla riflessione scientifica del maggiore studioso del movimento sindacale contemporaneo, Mario Romani, la CISL introdusse in Italia i presupposti di una nuova soggettività sociale, promuovendo la formazione sindacale, rivendicando il sindacato in azienda e la contrattazione articolata, negoziando la produttività, invitando le parti sociali e le istituzioni alla concertazione e al dialogo sociale. Tra i cattolici italiani, in gran parte aderenti alla CISL, questo sindacato ha messo in discussione le tentazioni del collateralismo al partito democristiano e ha rinnovato la cultura delle loro associazioni. La CISL svolse così un ruolo decisivo in quel processo di emancipazione morale e materiale del mondo del lavoro che venne riconosciuto nel 1969. Dal 1972 la CISL partecipò all’esperienza rivendicativa della Federazione unitaria CGIL, CISL, UIL, conclusa nei primi anni Ottanta per la dipendenza del sindacato comunista dalle decisioni del partito. Dopo aver sostenuto gli accordi di concertazione dei primi anni Novanta, in un momento di grave crisi politica, la CISL ha spinto gli altri sindacati ad introdurre patti sociali e riforme nel sistema di relazioni industriali coerenti alle dinamiche socio-economiche della società industriale. La sua scelta europeista e di partecipazione sociale ai processi di unificazione internazionale dei mercati si è riflessa nella costituzione della Confederazione europea dei sindacati (CES), nel biennio 1973-1974, e della Confederazione internazionale dei sindacati (CIS) nel 2006, organizzazioni sorte grazie all’unificazione del sindacalismo laburista e del sindacalismo cristiano.
Fonti e Bibl. essenziale
A. Carera, L’azione sindacale in Italia, voll. 1-2, Editrice la Scuola, Brescia, 1979; V. Saba, Il problema storico della Cisl. La cittadinanza sindacale in Italia nella società civile e nella società politica (1950-1993), Edizioni Lavoro, Roma, 2000; V. Saba, Il sindacato come associazione, Rubbettino, Soveria Mannelli, 2001; A. Ciampani, Giancarlo Pellegrini (a cura di), La storia del movimento sindacale nella società italiana. Vent’anni di dibattiti e di storiografia, Rubbettino, Soveria Mannelli, 2005; A. Ciampani (a cura di), Mario Romani, Sindacalismo libero e società democratica, Edizioni Lavoro, Roma 2007; A. Ciampani, Emilio Gabaglio, L’Europa sociale e la Confederazione Europea dei Sindacati, Bologna, Il Mulino 2010; A. Ciampani, Giancarlo Pellegrini (a cura di), L’autunno sindacale del 1969, Rubbettino, Soveria Mannelli, 2013.
Complesso di ideologie, movimenti e dottrine definitesi nel corso della prima metà del XIX secolo, di concerto all’esplosione della questione sociale coniugata al prepotente sviluppo tecnologico, industriale e commerciale dell’Europa occidentale. Promosso dall’intento di dare risposta al desiderio di giustizia delle masse dei nuovi diseredati, il socialismo tende alla conquista di un regime di convivenza fondato sull’uguaglianza non solo giuridica ma anche socioeconomica di tutti cittadini, attraverso il superamento delle classi sociali e l’abolizione, in tutto o in parte, della proprietà privata dei mezzi di produzione e di scambio.
Al Manifesto del partito comunista (1848) di Marx ed Engels si lega la formulazione della distinzione tra socialismo «utopistico», qualificato come ottativo e velleitario, e socialismo «scientifico», sorretto da rigorosa indagine dello sfruttamento della forza-lavoro operaia. Karl Marx ne condurrà l’analisi ne IlCapitale (1867), cogliendo proprio nello sfruttamento della manodopera il presupposto oggettivo della nascita e dello sviluppo del capitalismo.
La logica della legge del plusvalore – la legge fondamentale della produzione capitalistica – è ineluttabile, obiettiva, scientifica. In questa luce, le lotte dei salariati di fabbrica per il miglioramento del loro tenore di vita appaiono decisive per ridurre lo sfruttamento e contenere l’espropriazione del plusvalore perseguito dal capitalista. L’obiettivo politico è poi quello di distruggere il sistema capitalistico e sostituirlo con un sistema socioeconomico nel quale il plusvalore non venga meno, ma appartenga all’intera collettività.
Socialismo e comunismo, nel pensiero marxista, rinviano, in un primo momento, a due diverse fasi del medesimo processo rivoluzionario: quella della lotta in vista della collettivizzazione dei mezzi di produzione e dell’instaurazione della «dittatura del proletariato»; quella tesa all’abolizione della società di classe e al congedo dello Stato borghese con i suoi postulati economici. Parimenti di matrice socialista, per quanto in aperta polemica con gli estremi del marxismo, è la dottrina anarchica di Pierre-Joseph Proudhon che ispirò, tra il 1871 e il 1872, una prima scissione in seno all’Associazione internazionale dei lavoratori (1864).
La definitiva distinzione fra la prospettiva socialista e quella comunista si ebbe con la rivoluzione bolscevica (1917) e la costituzione della Terza internazionale (1910), allorché l’ala massimalista del movimento, si andò organizzando nei partiti comunisti, mentre le formazioni orientate in senso riformista e inserite nei sistemi democratico-borghesi presero progressivamente le distanze dal marxismo, specie leninista, recuperando le istanze liberali del socialismo pre-marxista e definendo le linee programmatiche del socialismo democratico e del socialismo liberale.
In Italia, nell’agosto del 1872, nacque la Federazione dell’Associazione internazionale dei lavoratori, articolata in sezioni regionali attive specie in Emilia-Romagna e in Toscana, nelle Marche e nell’Umbria. L’internazionalismo italiano ebbe essenzialmente un carattere anarchico e libertario. Per tutto l’Ottocento, mancando ancora una classe operaia omogenea e cosciente, le tesi di Marx ed Engels registrarono uno scarso successo. A riscuotere consensi furono soprattutto le tesi del rivoluzionario anarchico russo Michail Alexandrovič Bakunin, di formazione ideologica hegeliana e assai influenzato dal pensiero di Proudhon.
Bakunin puntò sull’esasperazione del sottoproletariato urbano e sul latente ribellismo dei contadini meridionali già messo in luce dal fenomeno del brigantaggio. Il nuovo soggetto associativo raccolse esponenti del sottoproletariato, ma anche artigiani, salariati, ex mazziniani ed ex garibaldini animati da spirito di rivolta contro l’iniquità, da sentimenti solidaristici e da ardente fede nei propri ideali. Ingenuità, vistose carenze di coordinamento e di pianificazione politica saranno alla base degli insuccessi dell’organizzazione, presto oggetto delle aspre critiche di Marx ed Engels.
Il fallimento dei moti di Imola (1874) e del Matese (1877), gli arresti e gli esili, la messa fuori legge dell’Internazionale italiana spinsero il movimento ad accantonare il metodo insurrezionale a favore di una complessiva revisione critica delle strategie di lotta e dell’impegno a sottrarre la classe operaia dall’influenza delle vecchie società mutualistiche e cooperativistiche mazziniane e radicali.
Nel 1881, Andrea Costa fondò il Partito socialista rivoluzionario delle Romagne. Un anno più tardi, Osvaldo Gnocchi Viani dette vita, a Milano, al Partito operaio italiano, il quale, disinteressandosi della politica elettorale, si impegnò esclusivamente a favore delle rivendicazioni economiche e per la libertà di sciopero.
Il Partito operaio – persuaso che la politica fosse tutta nelle mani dei padroni – fu antiparlamentarista, antiborghese e anche contrario ad ogni sorta di socialismo autoritario. Le sue iniziative, in numerose occasioni, incontrarono le censure delle autorità e, sovente, i suoi militanti subirono arresti e condanne.
Il quinto congresso del Partito operaio (1890) segnò il suo avvicinamento al socialismo della Seconda internazionale (1889); il settimo congresso (1891) decretò invece la sua eclissi. L’anno successivo, la formazione politica, con il supporto esterno di intellettuali provenienti dalla Prima internazionale e di esponenti di matrice democratica radicale, quali Filippo Turati, fautore dell’abbandono della linea operaista, si trasformò in Partito dei lavoratori italiani, quindi, nel 1893, in Partito socialista dei lavoratori italiani e, nel 1895, in Partito socialista italiano.
L’organismo politico aveva base eterogenea: raccoglieva lavoratori di varia estrazione, provenienti dalle società di mutuo soccorso e dalle leghe democratiche, dalle cooperative, dalle organizzazioni contadine e dalle Camere del lavoro. Merito di Turati e con lui di Claudio Treves e di Anna Kuliscioff – la compagna e consigliera di Turati, la quale aveva contribuito alla sua evoluzione politica verso il socialismo scientifico – fu di creare un centro di unificazione delle varie esperienze socialiste italiane e di inserire il movimento nella realtà dei problemi sollevati dal processo di industrializzazione in atto nel Paese.
Malgrado i controlli e le repressioni poliziesche subite negli ultimi anni del secolo, il Partito socialista italiano – criticato dal filosofo napoletano Antonio Labriola in quanto ideologicamente immaturo e più positivista e umanitario che marxista – ebbe largo successo fra le masse lavoratrici. Si sviluppò però assai più nell’Italia settentrionale, fra gli operai e i contadini padani, che non nel Mezzogiorno.
Il Partito uscì trasformato dalla fine del primo conflitto mondiale. Nel 1912, aveva 30 mila iscritti; nel 1920-21, ne raggiunse 216 mila. In parlamento, nel 1913, contava su 52 deputati; nel 1919, ne ebbe 156. Ma ciò che più cambiò in seno alla formazione politica, profondamente divisa al suo interno, fu il suo orientamento ideologico. Nel 1919, durante il congresso di Bologna, si affermò la corrente massimalista, favorevole alla presa violenta del potere: l’esperienza russa e quella ungherese induceva a ritenere che anche l’Italia si trovasse ormai in una situazione rivoluzionaria. Il destino della borghesia era ritenuto segnato: la sua incapacità a fare fronte ai problemi del dopoguerra appariva l’indice del suo prossimo collasso. In questa prospettiva, qualunque gesto di collaborazione con il governo era considerato un tradimento della classe operaia. Ma i programmi dei massimalisti non si accompagnarono a un’effettiva analisi della situazione socioeconomica italiana, né l’organizzazione del Partito mutò in un senso anche solo vagamente somigliante a quello dell’organizzazione bolscevica.
La direzione socialista, mentre prometteva l’imminenza della rivoluzione e prefigurava l’erezione delle barricate e la vittoria sui nemici del popolo, si limitò appena a registrare i sintomi della supposta decomposizione della società borghese, la quale, in realtà, non era affatto alle porte come, due anni più tardi, con la compiacenza di tanta parte della vecchia classe dirigente moderata, la reazione alle giornate del settembre del 1920 avrebbe dimostrato.
Tutto sommato, quella socialista seguitava ad essere una specie di confederazione di circoli culturali e di astratta agitazione politica, mentre i sindacati, controllati da operaisti e riformisti, sottraendosi sostanzialmente agli indirizzi del Partito, facevano repubblica a sé e continuavano a sostenere programmi di strette rivendicazioni economiche. Anche il rapporto fra i vertici del Partito e il gruppo parlamentare era un rapporto carente e il fitto schieramento dei deputati socialisti impegnato ben al di sotto delle sue potenzialità. Il parlamento stesso era visto come uno strumento borghese. Di conseguenza, l’azione parlamentare socialista non si esprimeva con quella energia ed incisività che pure avrebbe potuto avere, mentre – naturalmente – difettava la forza per rovesciare l’istituzione e dare vita a un’assemblea rivoluzionaria, come avevano fatto i comunisti russi.
Il massimalismo si risolse appena nell’attesa un po’ messianica di una rivoluzione che non sarebbe venuta. Nel frattempo, mentre la formazione socialista, che pure raccoglieva la fiducia di grandi masse operaie e contadine, si dilaniava nelle lotte interne, nasceva un altro movimento destinato segnare profondamente la vita politica italiana del primo dopoguerra: il fascismo, guidato da Benito Mussolini.
La difficile convivenza in seno al Partito socialista italiano tra le prospettive programmatiche riformista e massimalista sfociò, durante il congresso di Livorno (1921), in una drammatica scissione. Una parte dei fuoriusciti daranno vita al Partito comunista italiano; un’altra, riformista, una volta espulsa, fonderà il Partito socialista unitario.
Dopo l’esperienza della clandestinità vissuta durante il ventennio fascista, nel 1943, nacque il Partito socialista italiano di unità proletaria che, nel 1947, riprenderà il nome di Partito socialista italiano. Sin dal 1846, il magistero pontificio espresse ferma condanna del socialismo. Presupposta l’ineluttabilità delle leggi economiche e la fatalità della povertà che accompagna la storia dell’umanità, la prospettiva dell’egualitarismo socioeconomico è ritenuta utopica e la minaccia alla proprietà privata inaccettabile. La radice dell’errore è nelle libertà moderne che ispirano l’individualismo, relegano la fede nella sfera privata e propugnano la separazione tra Chiesa e Stato. Il liberalismo discende dalla riforma protestante, dal principio del libero esame, dall’affermazione di immanenza, dalla rivoluzione del 1789. Il socialismo altro non è se non l’ultimo nefasto corollario di un’antica deriva.
La censura del socialismo e del comunismo echeggia nella Qui pluribus (1846), nella Nostis et nobiscum (1849), nella Quanta cura e nel Sillabo (1864). Nella Qui pluribus, Pio IX definisce il socialismo come un’ideologia sovvertitrice dei diritti e della proprietà e dissolutrice della società umana. Nella Nostis et nobiscum, gli ascrive l’intento di rovesciare ogni principio di autorità; nella Quanta cura, qualifica come esiziale una dottrina secondo la quale la famiglia riceve ogni ragione di esistenza dal solo diritto civile.
L’appena eletto Leone XIII si mosse sulla linea del predecessore. Nell’enciclica Quod apostolici muneris (1878), influenzata dal Sillabo e dalle inquietanti risonanze della Comune di Parigi (1871), esecra il socialismo e il nichilismo; riafferma il diritto di proprietà; raccomanda ai ricchi di concedere ai poveri i loro beni superflui ed esorta i bisognosi a dare prova di mansuetudine e di devota accettazione dell’ordine sociale stabilito. Nella Auspicato concessum (1882), papa Pecci tornò sul tema della composizione delle ragioni dei poveri e dei ricchi; sul valore della povertà; sulla fede come balsamo delle sofferenze dei lavoratori. I vigenti mali sociali avevano origine negli errori del laicismo e nell’ateismo; nell’illimitata libertà di coscienza e di culto; nell’ampiezza della libertà di pensiero e di stampa (Immortale Dei, 1885). Tutto ciò, a sua volta, rinviava alla pretesa sovranità della ragione umana, la quale aveva fatto di sé medesima l’unica fonte e criterio di giudizio (Libertas, 1888), quando la libertà non ha altro senso se non nella soggezione alla Verità che viene da Dio per mezzo della Chiesa.
Nel 1891, al termine di una lunga elaborazione, Leone XIII pubblicò la Rerum (1891), enciclica decisiva nella definizione del pensiero sociale cattolico. Il testo papale affronta con inedita profondità il tema della giustizia sociale ed economica. Ribadisce l’inviolabilità della proprietà privata; condanna la lotta di classe; definisce il socialismo una dottrina fuorviante e inaccettabile e, respinta l’idea del superamento delle classi sociali e l’utopia dell’uguaglianza, invita gli operai a rispettare i loro doveri nei confronti degli imprenditori e a rifiutare la violenza e lo sciopero come strumento di difesa dei loro diritti. Al tempo stesso, incoraggiando la fondazione di un nuovo corso cristiano nei rapporti tra capitale e lavoro, la Rerum novarum stigmatizza gli eccessi del capitalismo e la cinica visione economicista del profitto, pronta a fare torto alla dignità umana. Ugualmente, censura la sempre maggiore concentrazione della ricchezza nelle mani di pochi a fronte di un inarrestabile processo di proletarizzazione. Leone XIII si pronuncia altresì a favore dell’equa retribuzione del lavoro operaio e approva gli intenti associativi dei salariati in difesa dei propri diritti.
Filo rosso della Rerum novarum è il richiamo agli inalienabili diritti materiali e morali garanti dello sviluppo integrale dell’individuo. Al tempo stesso, connotato eminente dell’enciclica è la ferma condanna del socialismo, ritenuto falso e pericoloso in quanto negatore del diritto di proprietà sancito dal diritto naturale e conforme alla tradizione della Chiesa. La via prospettata dalla Rerum novarum è la riconciliazione fra le classi sociali mediante l’armonizzazione dei loro reciproci diritti e doveri; l’istituzione di organizzazioni professionali miste di imprenditori e di operai; l’intervento arbitrale dello Stato nell’economia a tutela della comunità, delle sue parti e del bene comune.
Mentre formulava la propria dottrina sociale e proscriveva il socialismo, la Chiesa intensificava la propria opera assistenziale nei confronti delle fasce di popolazione in stato di più acuto disagio, ricorrendo ad organismi associativi anche concorrenziali con quelli socialisti. L’insidia del socialismo, composta alle sue energiche strategie di attivazione del consenso, appariva del più alto grado. Tanto più che quella propaganda si avvantaggiava di stilemi religiosi ed ecclesiali: le «preghiere» e i «catechismi degli operai»; l’identificazione del primo maggio nella “Pasqua dei lavoratori”; le osterie e le case del popolo proposte come ritrovi domenicali alternativi alla parrocchia. Il movimento – il quale si spingeva addirittura a profilare la figura di Cristo come quella del “vero socialista”, nemico implacabile dei ricchi e dei loro alleati – affidava le sue strategie proselitistiche a un repertorio di parole d’ordine e di immagini simboliche che facevano della sua proposta un’opzione totalizzante, in grado di conferire senso all’esistenza intera mediante la dedizione alla causa del raggiungimento di una comunitaria felicità terrena. Siffatta speranza di redenzione materiale e morale si connetteva al supposto nucleo originario e più autentico di un cristianesimo tradito dalla degenerazione della Chiesa e dalle sue compromissioni con il potere politico ed economico.
L’incondizionata difesa del diritto alla proprietà privata e la ferma condanna del socialismo formulato dalla Rerum novarum costituirà un riferimento costante per tutta l’elaborazione cattolica successiva.
Lo stesso Paolo VI, quattro anni dopo la ferma denuncia dei guasti del colonialismo e delle responsabilità dei popoli opulenti nel sottosviluppo del Terzo mondo affidata alla Populorum progressio (1967) congiuntamente all’affermazione che il sottosviluppo non è un dato di natura di per sé scontato e immodificabile – argomento, quest’ultimo, che sollevò nei confronti dell’enciclica montiniana reazioni anche fortemente critiche (il «Wall Street Journal» giunse a bollarla come «warmed up marxism») –, nella lettera apostolica Octogesima adveniens (1971), nell’ottantesimo anniversario dell’enciclica leoniana, riaffermò con forza le errate concezioni del socialismo.
Giovanni Paolo II, il quale aveva vissuto in prima persona l’esperienza del totalitarismo comunista, nella Laborem exercens (1981), magistrale meditazione sulla natura dell’uomo, sulle umane attività produttive e sulla libertà, nella ricorrenza del novantesimo anniversario della Rerum novarum, ribadì le vive premure della Chiesa per la salvaguardia della dignità del lavoro. E, nella Centesimus Annus (1991), nel centenario dell’enciclica leoniana, dopo aver definito il socialismo un male, sottopose ad analisi l’eclissi del totalitarismo comunista; riaffermò l’ascendenza naturale del diritto alla proprietà e condusse un’acuta disamina comparativa del capitalismo tardo-ottocentesco e del moderno capitalismo di mercato, al quale concesse una sfumata approvazione. Karol Wojtyła, invoca infine la democrazia, la ricerca della verità nella libertà, la salvaguardia dei diritti umani, l’applicazione del principio di sussidiarietà.
Cinque anni prima, consapevole delle critiche subite dalla Populorum progressio, Giovanni Paolo II, nella Sollicitudo rei socialis (1987) ricondusse contenuti e verve dell’enciclica montinana alla cornice storica nella quale essa, un ventennio addietro, era maturata come evento scrittorio. Il papa polacco negò che Paolo VI avesse concepito quella sua enciclica come uno sprone all’azione politica. La Chiesa non desidera minimamente intromettersi nella politica degli Stati. Essa non prospetta alcuna terza via tra capitalismo e socialismo. La sua dottrina sociale trascende qualunque ideologia.
Fonti e Bibl. essenziale
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Le soppressioni liberali postunitarie. Se per le corporazioni religiose era stato duro il colpo ricevuto dai governi del periodo illuministico, non meno duro fu quello abbattutosi nel periodo risorgimentale e negli anni immediati dopo la istituzione del regno d’Italia. Già nel corso del 1848 si ebbe nel Regno di Sardegna (che allora comprendeva Piemonte, Lombardia, Liguria e Sardegna) la polemica atroce contro i Gesuiti e la loro espulsione, e nel 1855 la legge di soppressione degli ordini e istituti religiosi, eccettuati quelli dediti in modo specifico alla predicazione, all’istruzione e all’assistenza dei malati. Questa legge, che trovava le sue motivazioni soprattutto in quelle ideologiche anticlericali e anche avverse alla vita religiosa, veniva seguita da una serie di disposizioni legislative, applicate variamente agli stati e territori che man mano che, con i plebisciti, venivano annessi al Regno di Sardegna. Dopo la proclamazione dell’unità d’Italia il 17 marzo 1861, per sopperire al grave e disastroso deficit economico in cui l’Italia si trovava a causa della terza guerra d’indipendenza intrapresa contro l’Austria conquistando ai suoi confini il Veneto e anche per uniformare la pluralità legislativa che riguardava la soppressione delle corporazioni religiose, il Parlamento senza il successivo esame del Senato proclamò la legge del 7 luglio 1866 di soppressione degli ordini e corporazioni religiose. A questa legge si aggiunse quella del 15 agosto 1867 per la liquidazione dell’asse ecclesiastico. Seguirono poi i relativi regolamenti e decreti d’applicazione. Tutta questa legislazione venne anche estesa e applicata nel 1873 a Roma e alle province una volta formanti lo Stato Pontificio. Le case religiose colpite da queste leggi furono 4.474.
Lo Stato con la suddetta legislazione, definita come “leggi eversive”, operava per la prima volta una forma d’intervento diretto nell’economia, togliendo il riconoscimento di ente morale a tutti gli ordini, corporazioni nonché congregazioni di carattere ecclesiastico, sicché il demanio dello Stato acquisì tutti i relativi beni ecclesiastici. I fabbricati conventuali che vennero incamerati dallo Stato furono poi concessi ai Comuni e alle Province, previa richiesta di utilizzo per pubblica utilità entro un anno dalla presa di possesso. Nelle leggi del 1866 e 1867 non furono previste forme particolari di tutela dei fabbricati monastici, provocando spesso la dispersione dei beni artistici di molte chiese conventuali, mentre biblioteche e archivi erano destinati a musei e biblioteche pubbliche. Per evitare gli effetti dell’art. 33 della legge del 1866, e cioè la chiusura e l’acquisizione al demanio, alcune chiese vennero allora indicate come “monumentali”. Così si salvarono tra le altre le grandi abbazie di Montecassino, Cava dei Tirreni, S. Martino della Scala a Palermo, la Certosa di Pavia.
L’intervento istituzionale di privatizzazione operato nel 1866-1867 non era isolato. Già nel 1861 il nuovo Stato italiano iniziava a incidere sull’assetto della proprietà con la cosiddetta quotizzazione dei demani comunali, e nel 1862 con una legge del demanio dello Stato. Azione che culminava nel 1866 e 1867 con le due leggi di eversione dell’asse ecclesiastico. Complessivamente furono immessi nel mercato oltre 3 milioni di ettari (di cui ben 2,5 nel Sud) con modalità che vennero criticate.
In base ai dati ormai acquisiti dalla storiografia uno studioso osserva: «L’obiettivo delle leggi di eversione era quello di attuare una generale privatizzazione: ma il modo come venne attuata l’eversione dei beni ecclesiastici non poteva raggiungere l’obiettivo – probabilmente mai realmente perseguito – di risollevare le classi più povere, che nella maggior parte dei casi non si trovavano nelle condizioni di accedere alle vendite e che, anzi, ne furono escluse poiché era previsti che i beni nazionali andavano venduti esclusivamente ai creditori dello Stato, in cambio della restituzione dei titoli del debito pubblico. Si ottenne così l’effetto di far finire le nuove proprietà nelle mani di pochi privilegiati: i vecchi nobili, gli appartenenti alla borghesia degli affari e gli alti funzionari dello Stato. Pochi privilegiati, dunque, riuscirono ad accaparrarsi le terre demaniali ed i possedimenti ecclesiastici, aggravando in maniera rilevante le condizioni delle plebi contadine, che videro soppressi i precedenti usi civici», ossia i secolari diritti di pascolo, legnatico e erbatico. Lo Stato pertanto non ricavò tutti quei benefici economici che si attendeva dall’ingente massa delle proprietà ecclesiastiche.
L’operazione svolta con le leggi del 1866 e 1867 oltre a tradursi in una paurosa liquidazione dei beni dei religiosi e alla chiusura di moltissime case religiose, colpiva indistintamente moltissimi ordini e istituti religiosi, maschili e femminili, provocando gravissimi disagi sia all’organizzazione delle famiglie religiose, private di beni, di luoghi e della possibilità di accogliere novizi, sia ai singoli religiosi costretti a uscire dal chiostro, secolarizzandosi, ritornando in famiglia e, soprattutto per le vocazioni meno solide, abbandonando l’abito.
Le leggi eversive vennero applicate in tutto il Regno in modo abbastanza rapido, seguendo una procedura formalmente cortese ma inflessibile sostanzialmente. Non vi furono manifestazioni radicali, ed anche le reazioni dei religiosi e delle popolazioni non ricorsero mai ad una resistenza ad oltranza. La soppressione dei conventi avveniva seguendo un rituale uniforme. Nel giorno stabilito dal governo e comunicato alla comunità religiosa, il commissario regio, incaricato della liquidazione dell’asse ecclesiastico, giungeva al convento, riuniva tutti i religiosi presenti in esso, consegnava loro i libretti della pensione governativa, e faceva procedere all’inventario dei locali e dei beni in esso presenti. A questo punto, il superiore della comunità, secondo le istruzioni date dalla Santa Sede, leggeva una dichiarazione con cui rivendicava i diritti del proprio Ordine, ritenendo illegittima la confisca e affermando di cedere alla violenza solo per evitare mali maggiori. Durante la minuziosa operazione dell’inventario, non mancavano discussioni e contestazioni sull’esatta portata della legge, per salvare dall’incameramento gli oggetti usati abitualmente dai singoli religiosi e non dalla comunità. Nei giorni seguenti avveniva la dispersione della comunità.
Naturalmente le conseguenze dell’applicazione delle leggi eversive furono diverse secondo gli istituti. Con la legge del 1866 vennero soppresse 1.794 case religiose ed espulsi da esse 22.213 membri, mentre si sottrassero 385 case con 5.390 religiosi/e. Con al legge del 1873 nella provincia di Roma le case soppresse furono 131 con 2.888 religiosi, mentre rimasero in vita 87 case, di cui 15 a beneficio di stranieri, per un numero non precisato di religiosi/e. Tuttavia nessun ordine religioso scomparve interamente in conseguenza delle leggi eversive.
Inoltre non va dimenticato che dopo una rigorosa attuazione iniziale delle leggi di soppressione, in molte parti d’Italia si ebbero fenomeni di “sopravvivenza illegale” di conventi, dovuta a una certa tolleranza da parte delle autorità governative, che occupato l’edificio conventuale utilizzava a volte solo parte di esso, permettendo ai religiosi di rimanere nei pochi locali rimasti liberi. Ciò avveniva soprattutto nei conventi annessi a chiese molto frequentate o sede di parrocchia. Anche il divieto di indossare l’abito religioso in pubblico, fu sovente violato, senza gravi conseguenze.
La Santa Sede, al di là del conflitto giuridico con lo Stato, tenendo conto del modo con cui venivano applicate le leggi e i relativi regolamenti sulla soppressione e sui religiosi costretti a lasciare il chiostro, emanò una serie di provvedimenti-guida. In particolare raccomandava ai religiosi/e di continuare, magari in piccoli gruppi di almeno tre religiosi, la vita in comune se possibile ancora nei propri conventi o in case appositamente acquistate o affittate, rimanendo il legame con i propri superiori. Confermava anche la loro soggezione ai rispettivi superiori, e per chi fosse costretto a vivere da solo, la sottomissione all’Ordinario diocesano. Più interventi furono rivolti dalla Sacra Penitenzieria Apostolica ai religiosi di voti solenni esclaustrati a motivo del voto di povertà, concedendo non solo la possibilità di ricevere la pensione stabilita dalle leggi statali, ma anche quella di acquistare beni immobili a proprio nome o per interposta persona, purché venissero devoluti a beneficio di rispettivi ordini, una volta tornata la normalità. Si suggeriva anche per dare legale esistenza alle comunità religiose, di ricorrere al sistema escogitato da Don Bosco, la società tontitaria. Per lo Stato italiano la questione della pensione divenne un problema, come dimostrano le non poche cause intentate da religiosi contro il governo per dimostrare il loro diritto a riceverla.
Il regime di soppressione si andò attenuandosi progressivamente in concomitanza della nuova fase dei rapporti tra Stato e Chiesa. dalla seconda metà della decade degli anni ‘80, il nuovo corso instaurato da Leone XIII, il timore dell’avanzante socialismo e l’attenuazione del bieco anticlericalismo degli anni precedenti, un diverso clima internazionale e il consolidamento delle alleanze di politica estera del Regno d’Italia, resero più fluida la situazione. Così le famiglie religiose soppresse ripresero lentamente a ricostruirsi e si aggiunse la nascita di nuove congregazioni religiose maschili e femminili, modellando diversamente la vita religiosa italiana. Sintomatico risulta un intervento alla Camera dei Deputati nel 1895, in cui si ammetteva che lo Stato aveva perduto la sua battaglia contro gli ordini religiosi.
Le questioni nei rapporti tra Chiesa e Stato per l’incameramento dei beni ecclesiastici e per altre materie furono alla fine superate con gli accordi del Concordato del 1929.
Le soppressioni decretate dalla S. Sede. Nel periodo che stiamo considerando su ebbe la soppressione e l’estinzione conseguente di alcuni istituti religiosi da parte della S. Sede.
Le Missionarie adoratrici e riparatrici del s. Cuore di Gesù, fondate poco prima del 1930, furono soppresse dal S. Uffizio il 2 luglio 1930 per la mancanza di elementi validi per vivere in comunità religiosa. Non ottemperando le prescrizioni ricevute la loro soppressione venne confermata il 1 febbraio 1933. Seguì il 12 gennaio del 1933 la soppressione degli Eremiti di S. Gerolamo del b. Pietro Gambacorta, che contava allora 7 conventi con un totale di soli 15 sacerdoti e 4 laici. A causa della degenerazione in cui si trovava l’Ordine della Penitenza di Gesù Nazareno, i cui membri popolarmente erano detti gli Scalzetti, dopo numerose visite apostoliche si giunse alla sua soppressione de estinzione con il breve apostolico “Romanorum Pontificum” di Pio XI in data 20 aprile 1935. Infine, per l’esiguo numero dei membri furono soppressi il 13 febbraio 2972 i Frati della Carità, più noti come Frati Bigi.
Anche, se non proprio di soppressioni se si può ricordare l’operazione delicata e non priva di difficoltà operata dopo il 1929 dalla S. Sede per una revisione della consistenza e distribuzione delle diocesi. Fino agli anni ’50 scomparsero attraverso l’accorpamento o unione di sede e titoli, una trentina di diocesi. Infine il processo iniziato negli anni ‘60 giunse alla sua realizzazione con la ristrutturazione del 30 settembre 1986 con l’eliminazione (fusione) di un centinaio di diocesi. Con questo nuovo assetto le diocesi italiane risultano attualmente in numero di 225.
Fonti e Bibl. essenziale
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Negli anni immediatamente successivi alla costituzione dello Stato unitario italiano una parte di enorme rilievo del suo patrimonio artistico fu investita dal decisivo evento della soppressione delle corporazioni religiose. Per valore, storia, committenza e diffusione sul territorio, infatti, il loro patrimonio rappresenta parte rilevante della ricchezza artistica dell’intero territorio nazionale. Si trattò di un momento cruciale per la storia della gestione del patrimonio culturale che impegnò in modo incisivo le nuove strutture dello Stato ad essa preposte in un’articolata attività di conoscenza e tutela.
Aspetto prioritario acquistava, in questa epoca, la necessità di intervenire nel campo della legislazione ecclesiastica ed in particolare nel riordinamento delle sue vaste proprietà. La materia, infatti, presentava implicazioni economiche, politiche e sociali e dette origine a lunghi ed accesi dibattiti parlamentari. Alcune categorie di enti ecclesiastici erano reputate dallo Stato superflue per la funzionalità della Chiesa e dannose alla pubblica e privata economia per la sottrazione di molti beni, specie immobili, alla normale circolazione e ai tributi. Venne sancita, quindi, la soppressione di tali enti, vale a dire, fu tolta loro la personalità giuridica (cioè la capacità di acquistare e possedere) e fatto divieto che potessero riassumerla in avvenire. In questo quadro generale, il coinvolgimento del patrimonio artistico sembrava, all’epoca, assumere un’importanza limitata ma, in realtà, il nuovo Stato unitario dovette misurarsi con la complessità del lascito artistico e con l’inevitabile esigenza di tutelarlo.
L’origine della complessa vicenda può essere individuata nella legge 25 agosto 1848, n. 777, la quale sciolse le case e le congregazioni della Compagnia di Gesù in Piemonte, ai cui componenti fu vietato di continuare a vivere adunati. La successiva legge Cavour-Rattazzi sopprimeva, invece, gli enti ecclesiastici che «non attendevano alla predicazione, all’educazione o all’assistenza degli infermi» prevedendo la gestione dei loro beni da parte della “Cassa ecclesiastica”, ente autonomo appositamente istituito. Questa legge, con le annessioni dei nuovi territori, venne progressivamente estesa, una volta costituito il Regno d’Italia, all’Umbria (decreto Pepoli del dicembre 1860), alle Marche (decreto Valerio del gennaio 1861), alle Province napoletane (decreto Mancini del febbraio 1861) ed al Veneto (decreto del luglio 1866).
Il dibattito che si svolse in parlamento nel tentativo di formulare una legge nazionale su tale materia, denuncia la presenza di atteggiamenti di differenti matrici ideologiche. L’esame del progetto di legge portò all’approvazione del Regio Decreto 7 luglio 1866, n. 3036 che regolava, per tutto il territorio nazionale fino a quel momento annesso, la soppressione delle corporazioni religiose (cioè tutti gli enti regolari, pur conservando i religiosi, singolarmente considerati, il diritto di convivere sotto l’egida del diritto comune), non che molti enti secolari (capitoli collegiali, ricettizi ed enti analoghi, benefici semplici, legati pii perpetui autonomi e, nei capitoli cattedrali, i canonicati e cappellanie eccedenti rispettivamente il numero di dodici e sei). I loro beni, salvo alcune eccezioni, sarebbero stati incamerati dal demanio ed amministrati, nell’ambito del Ministero di Grazia, Giustizia e Culti, dall’amministrazione autonoma del Fondo per il Culto (art. 25). La legge 15 agosto 1867, n. 3848, infine, stabilì le disposizioni per la liquidazione dell’asse ecclesiastico.
Le questioni relative al patrimonio artistico, rimasero al margine del dibattito parlamentare il quale si limitò a chiarire che, tra i beni eccettuati dalla demaniazione, vi erano solo le chiese mantenute al culto, con il loro patrimonio artistico, e gli edifici, con le loro adiacenze, che rivestivano un carattere di monumentalità (art. 18, R.D. 7 luglio 1866, n. 3036). I «libri e i manoscritti, i documenti scientifici, gli archivi, i monumenti e gli oggetti d’arte o preziosi per antichità» che non erano nè esposti al culto né raccolti in collezioni erano considerati devolvibili ad istituti museali o a biblioteche, comunali o statali, ubicate nella provincia nella quale era situato il convento soppresso (art. 24, R.D. 7 luglio 1866, n. 3036). Il restante patrimonio era considerato alienabile.
Per comprendere, invece, la vastità della ripercussione sul patrimonio artistico, va ricordato che il numero di case religiose soppresse al 1877, ammonta a 4.000 e che, al 1874, ben 1.650 edifici claustrali furono indemaniati, vuotati degli arredi liturgici, destinati al riuso, venduti o distrutti. Il governo ebbe quindi a disposizione una massiccia massa architettonica per assolvere alle diverse necessità dell’amministrazione pubblica: finanziarie, militari, burocratiche…etc.
Nel 1873, poi, venne emanata la legge di soppressione speciale per Roma e provincia (legge 19 giugno 1873, n. 1402 2° serie), che ebbe un iter formativo particolarmente travagliato, a causa della necessità di salvaguardare le prerogative del pontefice e della particolare natura degli enti esistenti nel capoluogo del mondo cattolico. Delle 221 case religiose esistenti a Roma, 126 vennero soppresse ed i rispettivi fabbricati furono indemaniati. Di questi ultimi, sette furono chiusi al culto per esigenze di “pubblica utilità”. L’incameramento di questi beni avvenne tramite la Giunta liquidatrice dell’asse ecclesiastico, organo preposto alla gestione del patrimonio ex claustrale, costituito ad hoc per Roma.
Beni mobili. Di volta in volta venivano nominati commissioni o singoli commissari che provvedevano alla “presa di possesso” del convento redigendo un minuzioso verbale dei beni mobili presenti nell’edificio. Tali verbali erano composti da una serie di moduli nei quali dovevano essere elencate varie tipologie di oggetti. Particolare interesse riveste il quadro XI in quanto i beni che comparivano in questa parte del modulo, erano considerati devolvibili ad istituti museali o a biblioteche, dal momento che in essi era stato riconosciuto carattere di “artisticità” e non erano nè esposti al culto né raccolti in collezioni (art. 22 della normativa di soppressione per Roma).
Una volta incamerato dallo Stato con le prese di possesso delle case religiose, il relativo patrimonio mobile veniva quindi sottoposto ad una selezione. Le opere scelte (quelle registrate nel quadro XI) erano destinate, in accordo con il Ministero della Pubblica Istruzione, a pubbliche istituzioni mentre, quelle non ritenute d’interesse, venivano alienate con la procedura di pubblici incanti. E’ importante evidenziare, dunque, il peso delle scelte dei delegati governativi ai quali, di volta in volta, veniva demandato il potere di stabilire il destino delle opere d’arte interessate dal fenomeno soppressivo. Le decisioni assunte rispecchiavano, non solo le rispettive culture, ma anche i pregiudizi valutativi o l’ideologia delle personalità intervenute nonché la loro moralità. Eloquente, in tal senso, è il caso di un delegato governativo alle “prese di possesso” degli edifici ex claustrali romani presente tra gli acquirenti delle aste dei beni provenienti dagli edifici soppressi. D’altra parte la vastità della dispersione del patrimonio artistico a causa della secolarizzazione è difficilmente ricostruibile e misurabile. E’ da presumersi che molti trafugamenti si siano verificati, infatti, in violazione delle leggi allora vigenti e, salvo i casi di eventuali indagini giudiziarie, le tracce documentarie sono rarefatte.
Nel caso di Roma, per la scelta degli istituti ai quali devolvere le opere, nacquero dissidi tra le autorità municipali e quelle governative. I beni selezionati, se ritenuti di pregio (prevalentemente le opere pittoriche), erano destinati all’Istituto di Belle Arti (attuale Accademia di Belle Arti), e non alla Galleria Capitolina o al Museo Artistico Industriale, entrambi comunali. Sebbene l’Istituto di Belle Arti fosse stato quindi istituzionalmente privilegiato, la maggior parte del patrimonio venne devoluto al Museo Artistico Industriale (le cui collezioni vennero poi smembrate) che, con le sue scuole di arte applicata poteva raccogliere oggetti di arte minore (sculture frammentarie, frammenti architettonici, ceramiche, mobili etc.), prevalente tipologia di beni rinvenuti negli ex conventi.
Per gestire la particolare situazione di Firenze che, come Roma, vedeva coinvolto un enorme patrimonio, fu emanato il decreto 8 agosto 1867 con il quale vennero devolute alle Gallerie fiorentine tutte le opere della provincia, ad eccezione di quelle del comune di Empoli, Prato e Pistoia. Come nel caso di Roma, però, la maggior parte degli oggetti d’arte minore vennero dirottati verso il Museo del Bargello, che intendeva svolgere un ruolo educativo ed esornativo.
Se, in generale, tutte le Accademie di Belle Arti (Bologna, Parma, Modena, Genova, Siena) incrementarono le loro raccolte con opere pittoriche, ai musei nazionali di Napoli e Palermo vennero ceduti non solo la quasi totalità di beni ex claustrali delle rispettive provincie ma anche delle due regioni. Sebbene il dettato normativo prevedesse la devoluzione dei beni artistici a pubblici istituti esistenti nella provincia nella quale era ubicato il convento soppresso, nella prassi vennero spesso accettate le richieste dei municipi che, per non essere privati di opere ritenute importanti per la propria identità, si dotarono di nuovi musei civici. Particolarmente interessante è, in questo senso, il caso nei musei civici umbri che, con loro distribuzione capillare sul territorio, garantirono una conservazione decentrata dei beni artistici.
Beni immobili. L’imponente patrimonio edilizio delle corporazioni religiose fu indemaniato e destinato al riuso. Fanno eccezione le chiese mantenute al culto e i conventi dichiarati monumentali, spesso unica forma di conservazione per il contenitore ed i suoi arredi. Per la stesura dell’elenco degli edifici monumentali nacquero dissidi tra il Ministero della Pubblica Istruzione, animato da preoccupazioni conservative, ed il Fondo per il Culto, che tendeva a ridurre al minimo gli edifici monumentali la cui manutenzione sarebbe stata interamente a suo carico.
La generalizzata riconversione dei beni immobili, soprattutto urbani, permise la diffusione dei servizi pubblici in tempi relativamente brevi. Il riutilizzo più diffuso e di maggior impatto sugli edifici, che generalmente erano storici e di notevole interesse artistico ed architettonico, fu quello militare. Indicativo, in tal senso, è l’epiteto «della demolizione» usato all’epoca per definire gli ingegneri impegnati nei lavori necessari per gli adattamenti dei conventi. Nell’impossibilità di contrastare questa massiccia riconversione, spesso gli addetti alla tutela si limitavano a ricorrere a misure, anche minime, di primo intervento. Per salvaguardare i dipinti murali talvolta li si ricopriva con tavolati, misura che, però, rese difficile lo studio ed il controllo dello stato di conservazione degli affreschi e, alle volte, fu anche causa di danni. Talvolta si procedeva allo stacco dei dipinti murali, non solo nei casi non rari di demolizione dell’edificio, ma anche nell’intento di assicurarne la visione al pubblico con la devoluzione a pubblici istituti museali.
Il quadro conservativo degli edifici ex claustrali si aggravò quando, terminate le cessioni agli enti locali, individuate le chiese da mantenere al culto ed in via di riconoscimento quelli monumentali, il rimanente patrimonio immobiliare cominciò ad essere alienato dal demanio. Il Ministero della Pubblica Istruzione, se non poteva impedirne la vendita, richiese spesso la sua sospensione per il tempo necessario a trasportare altrove i beni artistici mobili o inserì nell’atto di vendita alcune clausole a garanzia della salvaguardia del bene.
Uno dei casi più rappresentativi di questo delicato e problematico tornante della storia del patrimonio artistico italiano è l’insieme delle vicende che portarono alla demolizione ed alla dispersione degli arredi della residenza pontificia al Campidoglio, la così detta “torre di Paolo III Farnese”, di proprietà dei Minori Osservanti del convento di Santa Maria in Aracoeli, ai quali il fabbricato era stato donato da Sisto V con motu proprio del 1585. Le vicende dei suoi affreschi, fortuitamente sopravvissuti, insieme a quelle di altri dipinti e sculture coinvolti nelle soppressioni, notevoli per qualità, stile e provenienza, nel loro insieme contribuiscono a delineare una visione del fenomeno nella sua portata di buone intenzioni, ma anche di devastazione e dispersione.
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Le politiche di secolarizzazione che hanno caratterizzato il passaggio dell’Unificazione hanno salvaguardato il ruolo sociale e pubblico della Chiesa e del suo tessuto istituzionale, attraverso una sorta di pratico agreement, che comporta di fatto il riconoscimento del principio dell’interesse pubblico al mantenimento della struttura ecclesiastica, anche nel momento in cui il conflitto interistituzionale assume forme di particolare durezza.
La soppressione delle corporazioni religiose e di molti enti secolari, con conseguente incameramento dei beni ecclesiastici, prima nel Regno di Sardegna, con le leggi del 1855, e poi a livello nazionale, con le leggi del 1866-67, comporta la costituzione di una gestione pubblica autonoma affidata a vari enti (Cassa Ecclesiastica nel Regno di Sardegna divenuto Fondo per il Culto dal 1866; Fondo per gli usi di beneficenza e di religione nella città di Roma, creato dopo il 1870; Aziende speciali di Culto) Il Fondo conserva la proprietà degli edifici sacri aperti al culto ritenuti necessari alle esigenze spirituali della popolazione, con gli annessi ritenuti correlati alle esigenze pastorali, mentre il restante, ingentissimo patrimonio viene devoluto al demanio, per essere utilizzato da varie amministrazioni statali o locali o alienato attraverso aste pubbliche. Sopravvivono invece a gestione ecclesiastica diretta i benefici connessi alla cura delle anime.
Con l’articolo 18 della cosiddetta Legge delle guarentigie, si prevede il riordino, la conservazione e l’amministrazione delle proprietà ecclesiastiche nel Regno. In pratica viene determinato un livello minimo di reddito (limite di congrua) secondo le varie categorie dei benefici ecclesiastici e lo stato interviene ad integrare i redditi ove questi risultino inferiori ai livelli predeterminati. Il Fondo per il culto, incardinato fino al 1932 nel Ministero della Giustizia e dei Culti e poi in quello dell’Interno, sopperiva alle insufficienze di reddito prodotte dei benefici e con altri istituti che si riconducono all’amministrazione centrale, concorreva a soddisfare determinate esigenze ecclesiastiche, dai restauri degli edifici di culto ai sussidi al clero povero.
Tale sistema, che implica penetranti controlli statali in materia di gestione dei benefici congruati o congruabili, resta sostanzialmente invariato anche attraverso il Concordato del 1929, mentre il contributo statale si è venuto progressivamente modificando, in virtù della automaticità degli adeguamenti, in particolare a partire dalla curva inflattiva del primo dopoguerra.
Così come quella degli enti, anche la questione del sostentamento del clero viene evidentemente posta all’ordine del giorno della revisione del Concordato, che necessariamente si deve determinare dopo l’approvazione della Costituzione repubblicana. Nelle successive bozze si comincia a delineare l’esigenza di una profonda revisione della materia.
La riforma del codice di diritto canonico del 1983 rappresenta un importante stimolo, contribuendo a creare i presupposti, nella struttura della Chiesa, di un nuovo assetto istituzionale. E’ anche il momento dell’accelerazione delle trattative per la revisione degli accordi concordatari.
Il 18 febbraio 1984 vengono firmati a Roma i protocolli di modificazione del Concordato lateranense, da Bettino Craxi e Agostino Casaroli. L’articolo 7, comma 6, istituisce una commissione paritetica per disciplinare la materia degli enti e dei beni ecclesiastici e per la revisione degli impegni finanziari dello Stato italiano. Essa viene immediatamente insediata il 23 febbraio. E’ co-presieduta dal vescovo mons. Attilio Nicora, giurista vescovo ausiliare di Milano, per parte vaticana e dal prof. Francesco Margiotta Broglio per la parte italiana. Nella relazione del 6 luglio la commissione, ribadita la necessità di «assicurare un decorso sostentamento del clero» sottolinea «l’indubbio interesse collettivo alla introduzione di forme moderne di finanziamento delle Chiesa attraverso le quali si agevoli la libera contribuzione dei cittadini per il perseguimento di finalità e il soddisfacimento di interessi religiosi». In concreto viene proposto «un meccanismo bilanciato e concorrente di finanziamento autonomo e orientato». Mons. Nicora affermerà che ai fini dell’accordo, oltre che la finestra di opportunità legata alla relativa stabilità politica garantita dal governo Craxi, «a risultare determinante fu il fattore generazionale», che permette di svincolarsi dai quadri di derivazione post-risorgimentale. L’accordo è formalizzato l’8 agosto e solennemente stipulato il 15 novembre, ancora con la firma di Craxi e Casaroli. E’ attuato con la Legge n. 222 del 20 maggio 1985, che reca Disposizioni sugli enti e beni ecclesiastici in Italia e per il sostentamento del clero cattolico in servizio nelle diocesi. (G.U. n. 129 del 3 giugno 1985). Seguiranno poi altre leggi che attuano le intese con altre confessioni religiose, ai sensi dell’articolo 8 della Costituzione.
Viene realizzata di fatto una via originale tra i vari sistemi in vigore nelle democrazie europee (tassa ecclesiastica nei paesi germanici, esenzioni fiscali in quelli anglosassoni, mantenimento statale in quelli protestanti del nord). Si mette in opera un sistema che porta a superare ogni contributo finanziario diretto da parte dello stato, ponendo in atto un meccanismo basato su due canali: la deducibilità fiscale entro il tetto massimo piuttosto limitato, fissato a due milioni di lire, delle oblazioni fatte dai cittadini mediante versamento su unico conto corrente intestato alla Conferenza Episcopale Italiana e riserva da parte dello Stato di una quota dell’ 0,8% della massa Irpef dichiarato ciascun anno, che può essere destinato a scopi sociali ed umanitari dello Stato, a scopi di carattere religioso a diretta gestione della Chiesa cattolica (sostentamento del clero, esigenze di culto della popolazione, interventi caritativi a favore della collettività nazionale o di paesi del terzo mondo) o di altre confessioni religiose interessate sulla base di intese con esse.
Il motivo per cui sono stati previsti due flussi finanziari ed è stata decisa la redistribuzione anche delle quote derivanti dalle scelte non espresse, è determinato dalla difficoltà di determinare con sufficiente certezza quale accoglienza il nuovo sistema avrebbe avuto da parte dei cittadini, per cui si è optato per la soluzione più garantista nei confronti delle confessioni religiose.
Sono previste puntuali rendicontazioni e un monitoraggio bilaterale periodico: ogni anno deve essere comunicato al governo e reso pubblico un rendiconto analitico circa l’utilizzazione delle somme e ogni tre anni una commissione paritetica, composta di membri nominati dal governo e dalla CEI è chiamata a valutare al rispondenza dei flussi finanziari così percepiti con i capisaldi del’accordo.
L’attuazione degli accordi accresce notevolmente il ruolo della CEI, cui è stato conferita personalità giuridica con l’art. 13 della già ricordata legge n. 222: nello specifico l’assemblea generale decide la ripartizione dei fondi assegnati alla Chiesa cattolica.
Per quanto riguarda in particolare il sostentamento del clero ad ogni sacerdote viene assegnato un determinato numero di punti, a seconda degli incarichi svolti, dell’età e di altri parametri, con una base minima per tutti di 80 punti. Il consiglio permanente della CEI aggiorna periodicamente il valore monetario del “punto” . La quota derivante dall’8 per mille si somma così, ai fini del fabbisogno complessivo alle remunerazioni proprie dei sacerdoti, all’apporto delle parrocchie e degli enti ecclesiastici, ai redditi degli Istituti per il sostentamento del clero.
Essa permetterà la realizzazione, da parte della Conferenza episcopale Italiana, della riforma del tradizionale sistema beneficiale, con l’erezione , a livello diocesano, di Istituti per il sostentamento del clero, che hanno una propria base patrimoniale costituita mediante trasferimento dei beni redditizi appartenenti agli ex benefici di tutta una serie di enti.
Gli istituti diocesani (o interdiocesani) di sostentamento del clero cono dotati di personalità giuridica canonica e civile quali enti ecclesiastici. Così, sulla base del nuovo codice di diritto canonico ed alle norme per la sua attuazione, hanno personalità giuridica canonica le diocesi, gli istituti per il sostentamento del clero e le parrocchie. Cessano di esistere come soggetti giuridici le mense vescovili, i benefici canonicali, parrocchiali, e vicariali curati, le chiese parrocchiali.
Viene rafforzato il sistema dei controlli canonici, per gli atti di straordinaria amministrazione occorre l’autorizzazione della Santa Sede, dopo avere acquisito il parere della Conferenza Episcopale Italiana.
Tra la fine del 1985 e il 1986 sono costituti l’Istituto centrale e gli istituti diocesani per il sotentamento del clero, il cui sistema permette di valorizzare il patrimonio precedentemente disperso. Il regime comincia ad entrare a regime il primo gennaio 1987: lo Stato non versa più le congrue, ma un anticipo, basato sullo storico (pari a 409 mld di lire). Dal primo gennaio sono possibili le offerte deducibili per il sostentamento del clero intestate all’Istituto Centrale Sostentamento Clero, che versa il 27 il primo assegno ai sacerdoti inseriti nel sistema. A maggio 1990 i contribuenti firmano per la prima volta per la destinazione dell’otto per mille del gettito complessivo dell’Irpef.
L’attuazione del nuovo sistema comporta la creazione, presso il Ministero dell’Interno, del Fondo Edifici di Culto, che subentra in tutti i rapporti attivi e passivi nel patrimonio dell’estinto Fondo Culto, con l’esclusivo compito di provvedere, mediante la gestione del suo patrimonio, alla conservazione, tutela e valorizzazione degli edifici di culto di proprietà statale.
La Conferenza episcopale italiana pubblica in data 14 novembre 1988 il documento Sovvenire alle necessità della Chiesa. Corresponsabilità e partecipazione dei fedeli. Nel ventesimo anniversario una Lettera dell’Episcopato del 30 maggio 2008, ribadisce il valore e l’attualità della scelta compiuta in occasione della revisione del Concordato Lateranense, abbandonando il sistema della congrua e del beneficio ecclesiastico, per affidarsi ai cittadini e ai fedeli e sottolinea il valore propositivo ed educativo del nuovo sistema in ordine ai valori
della corresponsabilità e della partecipazione ecclesiale.
L’attuazione del nuovo sistema, accompagnata da una certa preoccupazione ecclesiastica, conosce subito un significativo successo. In termini relativi modesta è la massa finanziaria, decrescente, derivante dalle offerte deducibili, arrivate nel 2007 a 16,8 mln di euro, che tuttavia risulta una delle raccolte fondo più cospicue in Italia. Rilevante è la percentuale delle scelte a favore della Chiesa cattolica e del complessivo gettito Irpef, che tocca il livello massimo con l’89,81% nel 2004, per un ammontare di circa 997 mln, per poi leggermente diminuire. La percentuale delle scelte espresse dai contribuenti è stabilmente sopra il 40%: escludendo dal computo coloro che non versano alcuna imposta la percentuale di partecipazione alla scelta di fatto si colloca almeno al 56%.
I principi della riforma hanno trovato attuazione, dispiegando gli effetti istituzionali anche in altre direzioni. Quelli delle altre confessioni religiose innanzi tutto, ma anche per una concezione della fiscalità come sistema, come servizio sociale, una leva che lo stato usa per un complesso di fini, che non sono necessariamente né soltanto quello del mero incasso di porzioni di reddito.
Fonti e Bibl. essenziale
Presidenza del Consiglio dei ministri, Un accordo di libertà. La revisione del Concordato, Roma, Istituto Poligrafico e Zecca dello Stato, 1986; Presidenza del Consiglio dei Ministri, Dall’accordo del 1984 al disegno di legge sulla libertà religiosa. Un quindicennio di politica e legislazione ecclesiastica, Roma, IPZS, 2000; U. Folena, L’avvio della promozione del nuovo sistema di sostegno economico alla Chiesa Cattolica. Libro intervista al Cardinale Attilio Nicora e a Pierluigi Bongiovanni, I quaderni del sovvenire, Roma, 2008; I. Bolgiani (ed.), Enti di culto e finanziamento delle confessioni religiose a c. di, Bologna, Il Mulino, 207, con un saggio sulla CEI di M. Rivella, 85-96.
Tracciare, in poche righe, un quadro sulla spiritualità italiana degli ultimi centocinquant’anni è praticamente impossibile. Ci limitiamo pertanto a stendere qualche veloce pennellata. Tentando una sintesi, dovremmo probabilmente concludere che l’avvenimento macroscopico di questi decenni consiste nel progressivo manifestarsi del fenomeno dell’incredulità. Fino al secolo dei lumi – vuoi per convenzione, vuoi per intima persuasione di coscienza – era abbastanza naturale per l’uomo europeo professarsi religioso. Dalla fine del Settecento in avanti questo non capita più. Per i cristiani il problema non è più l’eresia, cioè il rapporto con altri credenti possessori di una differente visione di Dio, ma l’ateismo. Inizialmente questo confronto sarà, da una parte e dall’altra, aggressivo e bellicoso. Poi s’appianerà. La notte mistica di Teresa di Lisieux assume tonalità inedite per tutta la tradizione del Carmelo: “il velo della fede non è più un velo per me, è un muro che si alza fino ai cieli e copre le stelle”. Da lei il cristiano imparerà, se questo non offende Dio, a stare alla tavola dei peccatori, e a cibarsi del loro stesso pane di angoscia. Ma lasciando da parte questo scenario, cerchiamo di osservare i tratti salienti della spiritualità italiana, cominciando, più o meno, dal cammino che ha portato alla sua unità per arrivare fino ai giorni nostri.
Una carità profondamente religiosa. Ad inizio Ottocento nulla pareggia la vivacità del cattolicesimo piemontese. Torino è la locomotiva industriale, politica e religiosa di tutta l’Italia. Non si fatica a cogliere qualche nome giustamente famoso di questo cristianesimo d’avanguardia: Giuseppe Cafasso, Pio Brunone Lanteri, Giuseppe Cottolengo, Leonardo Murialdo, Francesco Faà di Bruno, Giovanni Bosco. Benché le loro vicende siano diverse, si può facilmente indovinare l’elemento comune che le interseca. La vita di fede di questi precursori, alimentata da intenso fervore, produce un cristianesimo militante, fortemente sbilanciato sul lato sociale e caritativo. Diventare santi vuol dire trasformare la società: di qui il programma spirituale dell’opera salesiana, tesa a formare tanto il buon cristiano quanto l’onesto cittadino. Guai però a confondere questi giganti dell’azione con generici uomini altruisti. C’è una radice di grazia che irrora le loro intuizioni. Se ci s’impegna in favore dei carcerati, per la gioventù difficile o per i fratelli deformi è perché prima si è nutrita la propria anima. La fiducia del Cottolengo nei confronti della Provvidenza è cieca; Giovanni Bosco intesse con la Madonna Ausiliatrice un legame di totale abbandono; Leonardo Murialdo indica nella preghiera la forza più potente del mondo. È la religiosità a far da tonico e ad irrobustire le molte opere che sorgono all’ombra del campanile.
Questo filone, che fonde armoniosamente l’orazione ardente con l’impegno sociale, diventerà presto caratteristica del cattolicesimo di tutta la penisola. L’Ottocento, e poi anche il Novecento, vede fiorire un’immensa distesa di esperienze caritative, contraddistinte da un valore “religioso”. La lista rischia di essere interminabile: Maddalena di Canossa, fondatrice delle Figlie della Carità; Gaspare Bertoni, padre degli Stimmatini; Lodovico Pavoni, uno dei più interessanti preti educatori dell’Ottocento; Gaspare del Bufalo; Vincenzo Pallotti, fondatore della Congregazione dell’Apostolato cattolico; Vincenza Gerosa e Bartolomea Capitanio, iniziatrici delle suore di Maria Bambina; Annibale di Francia; Giacomo Cusmano; Luigi Guanella, apostolo dei poveri più abbandonati; Luigi Orione; Carlo Gnocchi, uno dei preti-simbolo dell’Italia in guerra; Giovanni Calabria; Giovanni Piamarta; Giacomo Alberione, primo apostolo dei “mass media”. Si tratta di figure trascinanti, capaci di generare posterità, che rivestono anche un importante ruolo sociale. Difficile pensare alla storia dell’Italia senza passare per la loro testimonianza. Normalmente uomini e donne che hanno vissuto la consacrazione a Dio come un passo inappellabile, irrevocabile, definitivo. Da lì in avanti la loro esistenza è tessuta da una dedizione sempre più estrema a Dio e al prossimo. I settori d’apostolato frequentati da questi uomini dello Spirito sono praticamente sconfinati: poveri, infanzia abbandonata, devianza sociale, sanità, educazione… Le famiglie religiose nate da queste forti personalità imboccheranno due strade distinte. Alcune opteranno per una specializzazione di ambiti, prediligendo un particolare campo dove rendere la propria testimonianza. Altre preferiranno mantenere una fisionomia indistinta: il vero tesoro di un istituto non è l’opera che si svolge, ma il genio spirituale che l’ha motivata.
Poche sono le novità, da un punto di vista più propriamente religioso, introdotte da questi pionieri della carità: è ancora lontana l’alba del concilio Vaticano II. La semplicità della preghiera cristiana è strozzata dal riferimento quasi anarchico a un numero di devozioni che risultano essere pressoché ingovernabili. C’è spazio per tutto: i santi sono venerati, e sono percepiti come compagni fedeli sia dei giorni felici che di quelli amari. La pietà mariana riveste per tutti un ruolo primario. Con questo non rimane offuscato il carattere cristocentrico della vita cristiana; l’amore per Gesù, contemplato nel crocifisso e adorato nell’eucaristia, è la base di ogni apostolato. Si tratta di uomini laboriosi: l’orazione funziona come pungolo per prendersi cura del prossimo. Raramente saranno religiosi fautori di restaurazione: ciò che a loro preme non è un particolare modello sociale o politico, ma il bene di chi soffre. Sposeranno per questo un’ascesi dura, che non correrà il rischio di scadere nel volontarismo. Il lavoro, l’infaticabilità, la resistenza alle avversità sono segnali di una fede genuina. Protagonisti della scena sociale italiana, ma anche capaci di combattere la propria superbia, qualcuno sospetterà si tratti di folli: il confine tra pazzia e santità a volte è proprio sottile.
La stessa radice spirituale si può ravvedere anche nei grandi istituti missionari sorti nell’Ottocento. I nomi da ricordare, in questo caso, sono soprattutto Daniele Comboni, moderno missionario dell’Africa sub-sahariana; Giuseppe Allamano, fondatore della Consolata; Guido Maria Conforti, padre dei Saveriani; il cardinal Guglielmo Massaia, pioniere della missione in Etiopia; Angelo Ramazzotti, fondatore del P.I.M.E.; Giovanni Battista Scalabrini; e infine la santa dei migranti, degli italiani costretti a cercare fortuna in altre terre, e che diventeranno numerosissimi tra Otto e Novecento: Francesca Saverio Cabrini.
La riflessione spirituale e l’esperienza mistica. Se nel campo dell’azione, l’Ottocento, e poi il Novecento, saranno secoli laboriosi come pochi, lo stesso discorso non si può ripetere a proposito della riflessione spirituale. Qui abbiamo molto poco, quasi nulla. Sembra che la spiritualità italiana viva di poche scontatissime novità e si limiti a ripetere un canovaccio consolidato, ritenuto ormai affidabile. Difficilmente s’incontrano autori che tentano un giudizio sul presente, e l’elaborazione di una nuova proposta spirituale. Tra i pochi possiamo forse sbalzare due soli nomi.
Il primo è il sacerdote genovese Giuseppe Frassinetti: ad un’intensa azione pastorale, unì una solerte riflessione spirituale. Scrittore facondo, ci ha lasciato un’opera imponente, tesa a richiamare i principi della devozione cristiana. Si caratterizza per una spiritualità antirigorista, ben incanalata nel solco tracciato da sant’Alfonso Maria de’ Liguori. Simpatizza per l’uomo, non lo sacrifica all’altare dei principi, cerca di illustrare la lentezza e la progressione del cammino che conduce al bene. La stessa eucaristia non verrà mai presentata come un premio riservati ai migliori, ma come il pane del cammino, che sostiene i propositi di santità di tutti, anche delle persone più fragili.
Molto più importante è soffermarsi sul secondo nome che caratterizza l’Ottocento italiano: Antonio Rosmini. Amico di Alessandro Manzoni, in lui riconosciamo un genio assoluto del pensiero cristiano. La sua bibliografia sterminata impedisce di ricomporre in poche righe un profilo completo. Contrariamente a ciò che registriamo in tanti altri autori spirituali, nei suoi scritti non c’è la riconferma, abbastanza scialba, dei principi fondamentali della vita cristiana, ma un nuovo tentativo di incarnazione degli stessi. La fine dell’assolutismo, le nuove filosofie che s’affacciano sullo scacchiere culturale europeo, i germi di una politica che desidera la ricomposizione di un’unità per la penisola, non chiedono tanto un cammino di santità che passi solo per dei propositi più fermi di ascesi, ma un’interrogazione sui compiti che spettano al cristiano oggi, nel tempo attuale. Di quest’opera di invenzione e di utopia “Delle cinque piaghe della santa Chiesa” rimarrà il manifesto più famoso. La santità del cristiano e dell’intera Chiesa è sempre opera di riforma e chiede non solo la presenza di uomini volenterosi, ma anche di uomini illuminati, che sappiano cogliere la chiamate dello Spirito per la stagione presente.
L’Ottocento non è un secolo fortunato nemmeno per l’esperienza mistica. In Italia (ma il fenomeno è più diffusamente europeo) non ci sono fatti significativi da segnalare. Probabilmente la situazione è impaludata, ancora incombe il pregiudizio anti-quietista; così tutto ciò che s’apparenta o solo s’avvicina all’esperienza mistica, specialmente se di natura spagnoleggiante, viene squadrato con sospetto. La vita cristiana ha più a che fare con il senso del dovere che con le grazie eminenti dell’orazione. Dalla sostanziale nebbia che avvolge per intero la penisola, emergono solo un paio di figure significative. Anzitutto Teresa Eustochio Verzeri, fondatrice dell’Istituto delle Figlie del Sacratissimo Cuore di Gesù, contemplativa sconosciuta ai più, ma che rappresenta uno dei pochi casi italiani catalogabili tra le “mistiche dell’assenza”, dove l’aspetto di oscurità nella relazione con Dio sopravanza la gioia della sponsalità. Molto più conosciuta è invece Gemma Galgani, laica toscana, prossima alla spiritualità dei passionisti. Conobbe una vita breve, molto travagliata, sia da un punto di vista umano che spirituale. Si contraddistingue per una pietà fortemente cristocentrica, segnata da sfumature emotive: la sua relazione con il mistero centrale della fede si manifesta in maniera vivida, a volte assumendo un linguaggio veemente. Nel suo cammino spirituale s’impone, poco per volta, una comprensione inedita dello scandalo dell’umanità peccatrice, meno caratterizzata dal giudizio e più dall’intercessione. Anche l’esperienza della sofferenza, così drammaticamente presente nella sua vita, riceverà poco alla volta una lettura positiva.
Nel campo del vissuto mistico siamo però alla vigilia d’una rinascita. Ad inizio Novecento, proprio nel bel mezzo del deserto positivista, prende inaspettatamente vigore l’interesse per il lato “grazioso” e meno ascetico della vita cristiana. L’uomo si riconcilia con il suo desiderio d’infinito. Il fenomeno è dilagante e tocca buona parte dell’Europa: di lì a poco saranno fondate le prime cattedre di “teologia ascetica e mistica”. Anche l’Italia farà la sua parte: istituzioni, riviste, associazioni, centri di formazione sono il volano di questo nuovo “sentire”, che sarà caratteristico di tutto il Novecento. Molti i fatti che si potrebbero citare per delineare questo nuovo clima, ma forse ne basta solo uno. Il secolo breve registrerà un fenomeno sconvolgente, capace di incidere profondamente e in maniera duratura sulla pietà popolare: la vicenda di padre Pio da Pietralcina. La sua figura finirà al centro di aspre dispute, qualcuno ne mette in dubbio la veridicità, ma – in fondo – poco importa, il risultato da un punto di vista sociale non cambia: “vir Dei”, nell’abisso della sua persona molti avvertono un’eco della vertigine di Dio. Pochi altri avvenimenti carismatici saranno capaci di generare un movimento di preghiera e di devozione come questo.
La santità laicale. Interessante è recensire il progressivo credito, concesso nel corso di questi ultimi decenni, alla santità laicale. Qui abbiamo a che fare con un fiume che ingrossa rapidamente le sue acque. Se ancora nell’Ottocento il cammino verso la santità è concepito come itinerario di consacrazione religiosa, che richiede una certa separatezza nei confronti del mondo, la cosa non si replicherà più negli anni successivi. I laici si muteranno in avanguardie, capaci di inoltrarsi là dove la Chiesa (o almeno la gerarchia ecclesiastica), per tanti motivi, è stata a lungo latitante. La vita sacramentale e l’orazione mentale sono la sorgente che sostiene la militanza cristiana nei confronti del mondo. Forse non c’è parola più azzeccata: militanza. I laici sono spronati a percorrere il loro cammino di sequela a Cristo, in obbedienza alla Chiesa. L’intensità della fede va di pari passo con un impegno sempre più viscerale nella propria professione, nella politica, nella docenza universitaria, nell’umile dedizione alle opere parrocchiali.
Anche qui, innumerevoli i nomi che si potrebbero citare. Alcuni di questi saranno capaci di formulare delle vere e proprie sintesi spirituali, che contengono al loro interno la speranza di un cristianesimo migliore. Altri assurgeranno a simboli: figure mitiche capaci di rappresentare un ideale cui tutti sono chiamati. Qualche nome: Contardo Ferrini; Giuseppe Moscati, il medico santo dei poveri di Napoli; Giuseppe Toniolo, fondatore delle Settimane sociali; Piergiorgio Frassati, la cui vita diventerà un modello per tutti i giovani italiani; Giuseppe Lazzati, per lunghi anni rettore dell’università cattolica; Giorgio La Pira, sindaco di Firenze; Alcide De Gasperi, Armida Barelli, Elena da Persico. Alcuni di questi daranno vita ad istituti secolari: una novità nel panorama della consacrazione cristiana. Si cerca una via, anche giuridica, per esprimere una santità assoluta che non strappi però un credente dalle ingarbugliate vicende del mondo.
Una parola a parte va spesa a proposito dell’Azione cattolica. Per lunghi anni essa sarà non solo lo strumento per canalizzare l’impegno sociale dei credenti, ma anche il luogo della loro formazione morale e spirituale. Preghiera, azione, sacrificio: intorno a questa triade si coaguleranno programmi di formazione laicale; brilleranno per metodo e capillarità, e saranno presenti pressoché in tutte le parrocchie della penisola. È soprattutto in questo esercito anonimo di persone che dedicano a Dio e al prossimo tutto se stessi, che si tocca la vitalità del laicato cattolico, capace di offrire allo Stato italiano, che non pochi traumi dovrà vivere nel Novecento, un’ossatura di persone integre, dedite al proprio dovere quotidiano.
Infine riserviamo almeno un cenno alla spiritualità famigliare e coniugale. Probabilmente si tratta di un fatto inedito nella storia della Chiesa, almeno per la forma e la cura che riceve in questi ultimi decenni. Tutti i grandi movimenti laicali sorti nel Novecento destinano una forza di pensiero e di azione in favore delle famiglie. Ma è un dovere avvertito anche dalle chiese particolari: la pastorale ordinaria di diocesi e parrocchie riserva uno spazio stabile per la spiritualità famigliare. C’è anche una pletora di fatti isolati, che segnala l’affermazione di questa nuova mentalità. In Italia trova accoglienza l’Equipes Notre Dame, fondata dall’abbè Cafferel: ma è solo uno dei tanti movimenti di spiritualità famigliare che attecchiscono facilmente sul suolo della penisola. In più ci sarebbe da citare la canonizzazione dei coniugi Beltrame Quattrocchi: anche la coppia, e non solo la somma dei singoli, viene riconosciuta come capace di un itinerario di santità.
Il grande crinale: il concilio Vaticano II. Di questa travagliata epoca, ricca di fermenti, il concilio Vaticano II sarà il grande crinale. Fino alla vigilia della sua celebrazione il rapporto del cristiano con il mondo è segnato da categorie quali la riparazione, o l’espiazione. Anche se si tratta di categorie che vanno interpretate, e non sono portatrici di un senso forzatamente negativo, esse lasciano sospettare un rapporto tra cristiano e società civile da intendersi in termini ostili. Nell’Ottocento le congregazioni religiose non hanno occhi che per i misteri del venerdì santo: ci si consacra al costato aperto, al preziosissimo sangue, alla passione di nostro Signore. Del mistero pasquale si lascia in secondo piano l’evento di risurrezione. La stessa “mistica del papato”, così caratteristica di questi ultimi secoli, sembra talora assumere un valore di contrapposizione, se non di vittimismo. Il concilio ha profondamente mutato questo quadro interpretativo. Ovviamente non l’ha fatto da solo: l’assise ecumenica, infatti, non ha che raccolto e potenziato alcuni germi che erano già presenti in ambito ecclesiale. Ne nascerà una visione più ottimistica dei rapporti del cristiano con il mondo.
A livello spirituale si recupera quel segmento di tradizione posto più in là dell’epoca moderna. Si riscopre il mondo dei Padri; le conquiste del movimento liturgico divengono patrimonio di tutto il popolo di Dio; le comunità cristiane, dopo secoli di assenteismo, prendono nuovamente in mano il testo delle Scritture. Per la spiritualità è una rivoluzione. Si apre così la possibilità di una nuova sintesi. Se la modernità ha ornato la letteratura spirituale con un evidente timbro psicologico, ora si tratta di ricreare quel nesso tra oggetto e soggetto della fede, che è buona base di ogni sintesi cristiana. Si cerca una spiritualità non costruita a lato delle grandi mediazioni del cristianesimo, ma innervata in esse, e, nel contempo, capace di non smarrire quel tono soggettivo che è vecchio quanto la devozione stessa.
La storia della ricezione del Vaticano II è la nostra storia. È abbastanza agevole catalogare gli avvenimenti più rilevanti di questi ultimi decenni. Guardando solamente il panorama italiano, possiamo osservare la sorprendente nascita di nuovi movimenti ecclesiali, capaci di unire laici e religiosi in uno stesso sentire: Comunione e Liberazione, Movimento dei Focolari, Cammino neocatecumenale, Comunità di S. Egidio, Rinnovamento nello Spirito, Associazione Papa Giovanni XXIII. Ognuno di essi presenta caratteristiche singolari, che non possono essere abbreviate “ad modum unius”, fuorché per qualche nota del tutto esteriore. Ciascuno di essi è latore, per la Chiesa intera, di un carisma singolare che, vista la tenacia che questi movimenti dimostrano, pare resistere nel tempo.
Il concilio ci ha regalato anche inedite esperienze monastiche, nel solco della tradizione, ma anche capaci di sviluppare nuovi germogli. Ricordiamo soprattutto: Comunità di Bose, Piccola Famiglia dell’Annunziata, Comunità dei Figli di Dio. È forse a queste esperienze, che spesso figurano come avanguardie, che dobbiamo guardare per trovare i tentativi di sintesi più compiuti, almeno per l’Italia, del nuovo clima spirituale postconciliare.
Una parola va spesa anche sulla spiritualità sacerdotale. Se è vero che il concilio ha consegnato alla Chiesa una più compiuta teologia del sacerdozio, è anche vero che nessun’altra figura cristiana, quanto il pastore d’anime, ha conosciuto in questi decenni una drammatica crisi e un nuovo tempo di gestazione. Per diversi anni è stato quasi un refrain, nella letteratura specialistica, discettare sulla “crisi di identità” del prete. Probabilmente non si tratta di una crisi teologica, ma spirituale: legata al definitivo tramonto, dovuto all’avvento di un nuovo mondo secolare, del modello borromaico di sacerdote e di formazione presbiterale. Ma la crisi di un modello, non è la crisi di un’istituzione. Il postconcilio italiano ha regalato alla Chiesa intera una significativa schiera di sacerdoti capaci di adoperare la sapienza dello scriba, quella che cerca di fare sintesi, quella che cerca di interpretare i segni dei tempi, e di estrarre dal suo tesoro “cose antiche e cose nuove”.
Fonti e Bibl. essenziale
AA.VV., «Italie», DSp, VII, 2141-2311; AA.VV., Storia della spiritualità, I-VII, Roma 1985-2002; AA.VV., Storia della spiritualità, I-X, Bologna 1970-; A. Favale, Segni di vitalità nella Chiesa. Movimenti e nuove comunità, Roma 2009; M. Guasco, Storia del clero in Italia dall’Ottocento ad oggi, Bari 1997; P. Guiducci, Mihi vivere Christus est. Storia della spiritualità cristiana orientale e occidentale in età moderna e contemporanea, Roma, 2011; M. Petrocchi, Storia della spiritualità italiana, Torino 1996; B. Secondin – T. Goffi, ed., Corso di Spiritualità. Esperienza – Proiezioni – Sistematica, Brescia 1989; P. Zovatto, ed., Storia della spiritualità italiana, Roma 2002.
Uno sguardo immediato e superficiale al fenomeno sportivo in Italia nei secoli XIX e XX mostra che la realtà ecclesiale è una delle protagoniste della diffusione popolare degli sport moderni. Ma dietro questa prima constatazione è necessario per lo meno affrontare due problemi di tipo storico: anzitutto il significato dello sport nella cultura italiana e più generalmente occidentale in questi due secoli, in secondo luogo il rapporto tra questo, che si può definire “sport moderno” e la comunità cristiana. Lo sport moderno, a differenza delle gare dell’antica Grecia, dei tornei medievali o di altre forme analoghe, si può empiricamente definire come “l’insieme delle attività fisico-motorie che per essere svolte richiedono un livello minimo di abilità o competenza intellettuale, quale si manifesta nella conoscenza e nell’assimilazione delle relative tecniche di gioco; hanno modalità di esecuzione che non dipendono dal volere dei partecipanti e non possono quindi essere modificate a piacere, ma al contrario si inscrivono in un reticolo di regole; hanno il loro scopo in un esito finale di carattere formale: vittoria o sconfitta; sono parte integrante di apposite istituzioni sociali che le hanno inserite nelle loro strutture di produzione e consumo” (Roversi 1998, 305). Già questa definizione apre ad alcune questioni che il cattolicesimo italiano si troverà ad affrontare nel suo approccio allo sport: è moralmente lecito e pedagogicamente utile proporre passatempi che si basano su “vittoria o sconfitta”, ossia sulla competizione? E’ necessario difendere fino in fondo uno sport essenziale e francescanamente alieno dal denaro, oppure ci si deve incrociare con finanziamenti, premi, ricompense? Fino a che punto gruppi e squadre nate in ambito confessionale devono entrare in organizzazioni aconfessionali quando non, più o meno velatamente, anticlericali, e comunque collegate istituzionalmente a quel Regno d’Italia che, almeno dal 1870 al 1929, era vissuto in maniera conflittuale dal mondo cattolico? Ma continuando a confrontarsi con gli approfondimenti storico-sociologici della realtà dello sport moderno, ci si trova ad avere a che fare con altre due questioni: la sua crescente secolarizzazione o de-sacralizzazione, e il suo contatto, diminuito rispetto alle competizioni antiche, ma sempre latente, con la violenza (Roversi 305.307-308).
Sarebbe interessante scrivere la storia, anche ecclesiale, del barbarismo “sport”, della sua irruzione nel vocabolario, ancora legato alla tradizione purista del cattolicesimo italiano, progressivamente sostituendo i termini più nostrani quali “ginnastica” e apparentati, o “diporto”. Un drappello di educatori, per lo più pratici e non teorizzatori, del XIX secolo, accolgono con attenzione quando non con entusiasmo le moderne manifestazioni, allora per lo più di tipo atletico-militare, nelle istituzioni da loro fondate e dirette: si pensi a don Giovanni Bosco che aveva inserito la “ginnastica” nei programmi educativi degli oratori salesiani. Dunque il primo impatto dello sport moderno, forse in quel momento ancora legato a modelli aristocratici o militari, sul cattolicesimo italiano sembra positivo, o per lo meno realistico.
Il momento di svolta va collocato nei primissimi anni del XX secolo: nel 1905 Pio X accoglie in Vaticano una delegazione di sportivi che stavano partecipando al primo convegno delle Società Cattoliche Sportive, nel 1906 nasce la Federazione delle Associazioni Sportive Cattoliche Italiane (FASCI), che in pochi anni raggiunge oltre duecento associazioni, ma anche la fondazione, ad opera di Giuseppe Micheli, dell’associazione “Giovane Montagna” nel 1899, come associazione che promuoveva l’escursionismo ma anche la promozione del territorio montano, bacino elettorale del fondatore, che nel 1909 sarà uno dei primi “cattolici deputati”, in cosciente contrapposizione al Club Alpino Italiano, nato nel 1863 ad opera di Quintino Sella, con chiara matrice liberale e massonica. Per valutare il significato di quel periodo vanno tenuti in considerazione altri due aspetti. Il primo è di tipo sportivo: la diffusione in Italia di sport destinati a diventare popolari, quali il ciclismo (nel 1890 nasce la prima società ciclistica a Milano) e il football (nel 1898 si ha la fondazione della federazione). L’altro fatto è invece l’esplodere di un’ondata anticlericale tra il 1900 e il 1910, sulla scorta del movimento francese che porterà alle leggi transalpine di secolarizzazione, e vedendo, in certo senso, per la prima volta come protagonisti di denunce, campagne di stampa, accuse di immoralità proprio in ambito educativo verso i cattolici i gruppi del socialismo, fino a quel punto spesso reticenti da un punto di vista religioso, insieme peraltro agli anticlericali “storici”. Dunque il movimento cattolico, che in quel momento era sostanzialmente privo di uno guida unitaria quale fu l’Opera dei Congressi, accolse la vera popolarizzazione dello sport in Italia, soprattutto nelle giovani generazioni, dando una struttura associativa e quindi “burocratica”, secondo le linee dello sport moderno. Ma a questo punto si pose il problema: sport confessionale o aconfessionale? Nel 1903 la Federazione Ginnastica Nazionale rifiutava la richiesta di affiliazione di due società cattoliche, di Bologna e Milano, proprio perché infrangevano il principio di “aconfessionalità”. Il successivo irrigidirsi delle posizioni della FGNI condusse nel 1906-1907 alla già citata fondazione, ad opera della Società della Gioventù Cattolica, della FASCI, una vera organizzazione sportiva di stampo confessionale.
Inoltre non mancarono immediate voci di scontento e dissenso proprio sul versante dell’utilità pedagogica dello sport: vescovi locali, come il Magani di Parma, cioè il vescovo della città di Micheli, grande fautore dell’escursionismo e del pedale; il Magani, in una sua pastorale del 1899, vedeva queste forme del movimento giovanile cattolico come cedimenti alla modernità: “… in questi ultimi anni s’aggiunsero società sportive, come le chiamano all’inglese, ciclistiche, alpinistiche, filodrammatiche, musicali e via via di questo passo ora si va sempre innanzi e a gran corsa. Siffatto movimento però è tale che sembra lasciare un ragionevole dubbio se l’accessorio, lungi dal giovare, non abbia invece a nuocere al principale… se la modernità, della quale tanto s’amplifica la importanza e quasi la necessità non abbia a degenerare in mondanità” (corsivi originali). Anche la tematica della competizione destava problemi, ed è significativo che ancora nel 1933 Luigi Civardi, sacerdote pavese (1886-1971) autore di un diffusissimo manuale dell’Azione Cattolica, affermava che lo sport ideale era la ginnastica ritmica, che sviluppava lo “spirito di obbedienza” ed evitava la competizione e la dimensione individuale dello sport.
Come spesso avviene, la realtà con le sue dinamiche finisce per superare le riserve teoriche. Lo sport si diffonde negli oratori e dei circoli giovanili. Si potrebbe dire che questi mondi da una parte si strutturano secondo la burocratizzazione tipica degli sport moderni, e quindi con società sportive, tra cui, ad esempio, la SPAL, ovvero “Società Polispostiva Ars et Labor”, fondata dal salesiano Pietro Acerbis, tutt’ora squadra di calcio cittadina di Ferrara, con una storia di partecipazioni alle serie A e B dei campionato italiano; federazioni, campionati. Dall’altra nel mondo ecclesiale c’è uno spazio tenuto aperto per l’informale, il non competitivo, quasi valvola di sfogo e giustificazione morale e pedagogica dell’esercizio fisico: la montagna dei campeggi e dei “campi-scuola”, con la figura esemplare di Piergiorgio Frassati, la bicicletta come escursione e record di grandi imprese di gruppo, come i percorsi fino a Lourdes. Tra l’altro questo movimento contribuì al tacito cadere dei draconiani decreti d’inizio secolo che vietavano ai sacerdoti l’uso del “velocipede”. Aggiungerei, come fenomeno storico non documentabile ma evidente, che nei cortili degli oratori e delle “parrocchie” il football continuava ad essere vissuto in analogia ai folk games del medioevo e dell’età moderna, dove la distinzione tra pubblico e giocatori cade completamente e dove i limiti di tempo, di ruoli, di uso della forza fisica prescritti dalle regole ufficiali vengono superati dalla spontaneità. Anche questi sono tratti trasgressivi e informali dello sport nel mondo cattolico rispetto alla fenomenologia moderna.
Un secondo momento critico fu affrontato dal movimento sportivo cattolico con l’avvento del fascismo, che, come è noto, puntò a fare dello sport uno degli elementi della propaganda ideologica del regime e a instaurare un vero monopolio educativo. Nel 1927, le leggi fasciste che restringevano la possibilità dell’associazionismo giovanile a favore dell’Opera Nazionale Balilla, dopo aver liquidato lo scoutismo cattolico posero fine anche alla FASCI, anche se negli oratori e nei centri giovanili cattolici lo sport continuava ad essere praticato informalmente. Lo scontro col regime mise in luce un’altra questione che attraversò i dibattiti della comunità cristiana italiana in questo ambito, ossia lo sport femminile. Se padre Agostino Gemelli teorizzava l’utilità dello sport per le ragazze nel 1923, e Armida Barelli inseriva nella Gioventù Femminile di AC dal 1924 al 1928 il movimento “Forza e Grazia” fondato l’anno precedente, non pochi vescovi e sacerdoti intervenivano pubblicamente su fenomeni quali una certa promiscuità, abiti succinti, movimenti “mascolini” che sembravano la degenerazione della femminilità modesta e devota della tradizione, e che però, per certi aspetti, mostravano anche il volto maschilistico, ideologico e moralmente ambiguo del fascismo. Al mondo cattolico dal 1931 al 1944 rimase l’aspetto informale dello sport, pur con qualche tolleranza di associazioni e pratiche di campionati all’interno dell’AC.
Con la fine del regime fascista e la nascita dell’Italia repubblicana riprese in pieno l’associazionismo sportivo cattolico, con il Centro Sportivo Italiano (1944), il Centro Turistico Giovanile (1949), dapprima appartenenti a quell’insieme articolatissimo di realtà che era l’AC di Luigi Gedda, più tardi indipendenti. Ma la scena fu occupata anche da altri movimenti di ispirazione o di legame cattolico: la “Libertas” collegata alla Democrazia Cristiana (1945), l’Unione Sportiva ACLI (1963), le Polisportive Giovanili Salesiane (1967) e altri. La frammentazione, quasi una “decomposizione del mondo cattolico”, si manifesta in anticipo nella realtà sportiva, che da una parte è accolta pienamente nella visione pedagogica di scuole, oratori, associazioni giovanili, dall’altra continua a sollevare problemi di aconfessionalità, competitività, sport femminile. Né mancano le voci critiche, quale ad esempio fu don Lorenzo Milani “Al terz’anno la situazione precipitò. In una memorabile scenata gli arnesi del ping-pong (ricomprati nuovi da alcuni giovani) volarono in fondo al pozzo. Il dado era tratto…” Esperienze pastorali, Firenze (LEF) 1957, 128 (cfr. 127-161)
. Intanto emergono figure di una mitologia dello sport cattolico, il già citato Frassati cui si intitolano centinaia di squadre in tutta Italia, Luigi (detto Gino) Bartali, campione del ciclismo, e altri più recenti come Gaetano Scirea e Giacinto Facchetti. Per certi aspetti anche la figura di Giovanni Paolo II, in Italia come altrove, ha dato origine a una sorta di paradigma dello sport.
Il post-concilio e la contestazione non scalfiscono questa sorta di parete osmotica tra cultura popolare e mondo cattolico che è lo sport, che continua a essere presente nel mondo ecclesiale, con la costituzione dell’ Ufficio pastorale del tempo libero, turismo e sport CEI (1987)
della Conferenza Episcopale*, dibattiti e approfondimenti, ma che continua a creare tensione tra i cattolici italiani, in particolare sulla forma di commercializzazione e spettacolarizzazione di massa assunta ormai pienamente dal fenomeno sportivo e anzi in piena evoluzione, ma capace di raggiungere anche le realtà di base degli oratori, con esempi di compravendita di atleti, contestazioni violente, fanatismo dei genitori. La tensione spinge al continuo recupero della dimensione educativa dello sport e del suo aspetto informale, in qualche modo incarnato del detto, ormai tipico del commento sportivo: “giocare alla viva-il-parroco”.
Fonti e Bibl. essenziale
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Il principio «Libera Chiesa in libero Stato», di ascendenza giansenista, riconducibile al cattolico liberale francese Charles de Montalambert, al riformato svizzero Alexandre Vinet, fatto proprio da Cavour all’indomani dell’unità d’Italia, segna una tappa importante nelle relazioni tra Stato e Chiesa in quanto riassume il difficile decennio precedente e cerca di delineare le linee guida per quello successivo alla luce degli eventi che portarono alla costituzione del Regno d’Italia; quelle parole tuttavia, al di là della chiarezza e dell’efficacia, nascondevano una serie di problemi politici, giuridici ed ecclesiologici circa la realizzazione pratica di quel principio, sullo sfondo di un difficile contesto di relazioni internazionali con lo Stato della Chiesa, ormai privato di buona parte dei suoi territori, e con le altre nazioni europee. Dal punto di vista della Chiesa non si poneva tanto l’accento sulla libertà dei due soggetti, ma si temeva la possibile inclusione della Chiesa nella sfera di controllo dello Stato.
Pio IX intuiva tutte le difficoltà della mancanza di un territorio per la Chiesa che avrebbe dovuto realizzare la sua universalità attraverso una sovranazionalità non ancora ipotizzabile e tanto meno definibile; al tempo stesso però comprendeva che ipotesi come quella neoguelfa non erano praticabili e anche l’avvicendarsi della classe politica di governo con l’avvento della sinistra storica al potere sembrava confermare l’irreversibilità del processo unitario.
Fin dal 1861, tra i problemi della nuova realtà, spiccava la Questione romana, ovvero quale ruolo attribuire all’Urbe, capitale dello Stato Pontificio e simbolo del potere temporale dei papi che la Chiesa intendeva come garanzia della propria libertà di azione (cf. allocuzione di Pio IX Maxima quidem laetitia del 9 giugno 1862 e, dopo i fatti di Porta Pia, cf. l’enciclica Ubi nos del 15 maggio 1871).
Già in epoca cavouriana, in buona parte della classe politica di governo, si era consolidata l’idea che trasferire a Roma la capitale del Regno d’Italia fosse una soluzione non solo percorribile ma a tratti doverosa. Da una tale ipotesi scaturirono i primi progetti di regolamentazione della difficile possibile coabitazione nella città, cui aggiungere tentativi di accordo e conciliazione fra le parti sotto la vigilanza della Francia; le truppe di Napoleone III insieme a quelle di Pio IX, infatti, nel 1867 respinsero a Mentana l’attacco di Garibaldi allo Stato Pontificio, non abbandonando successivamente quei territori, contrariamente a quanto previsto dalla convenzione italo-francese del 1864 nella quale, tuttavia, l’Italia si impegnava a non attaccare i territori papali.
L’escalation politica e militare del 1870 sul fronte franco-prussiano con il conseguente abbandono francese della piazza di Roma e l’entrata delle truppe sabaude, portò, nell’anno successivo, alla proclamazione di Roma capitale del Regno d’Italia, comportando la definitiva rottura tra Stato e Chiesa i cui rapporti, nell’ultimo decennio, si erano via via irrigiditi. Le relazioni tra i due soggetti, le prerogative del papa e della Santa Sede, venivano regolate unilateralmente dallo Stato con la Legge 13 maggio 1871, n. 214 per le guarentigie delle prerogative del Sommo Pontefice e della Santa Sede per le relazioni della Chiesa con lo Stato e non già con un atto di natura pattizia: a fronte del venir meno della sovranità territoriale sullo Stato della Chiesa, venivano garantiti l’inviolabilità del papa, gli onori sovrani, alcune immunità ed esenzioni, il diritto di legazione attiva e passiva, la possibilità di mantenere i tradizionali corpi armati a guardia dei palazzi lasciati al papa e la possibilità di poter usufruire di un proprio ufficio postale e telegrafico. Veniva inoltre prevista un’indennità annua che non fu mai riscossa dal papa, ma che fu fra le questioni affrontate dalla Convenzione Finanziaria nell’ambito dei Patti Lateranensi del 1929. Sul piano delle relazioni Stato-Chiesa, il titolo secondo della Legge delle Guarentigie, che ben rispecchiava il confronto parlamentare tra posizioni separatiste e posizioni giurisdizionaliste, prevedeva una minore ingerenza dello Stato nella vita e nell’organizzazione della Chiesa, pur mantenendo, salvo che per la diocesi di Roma e le sedi suburbicarie, il placet e l’exequatur su questioni patrimoniali e sulle nomine che comportassero gestioni patrimoniali. Il papa e la Curia Romana ribadivano il Non expedit, ossia vietavano la partecipazione alla vita politica del neonato soggetto statuale, così come avevano già fatto in diverse occasioni a partire dal 1868, sulla scia di provvedimenti analoghi già utilizzati da Pio VII durante la dominazione napoleonica e dallo stesso Pio IX a partire dal 1849 (la lettera apostolica Cum Catholica Ecclesia del 26 marzo 1860, promulgata da Pio IX dopo la perdita delle Romagne, per esempio, ribadiva la necessità del potere temporale e prevedeva la scomunica maggiore per chiunque avesse attentato all’integrità dello Stato Pontificio); lo scontro tra le parti finì col radicalizzarsi anche sul piano culturale.
Ma se la Questione romana continuò a dividere anche all’indomani della quasi contemporanea scomparsa nel 1878 di Pio IX e di Vittorio Emanuele II e all’avvicendarsi sul trono di Pietro di Leone XIII e su quello italiano di Umberto I, l’impegno sociale sembrava essere il nuovo fattore di coesione attraverso cui i cattolici italiani riuscirono a dare il loro apporto alla vita della nazione, contribuendo ad un lento e graduale mutamento del clima politico sul piano formale e su quello sostanziale. La capillare presenza dei cattolici a livello sociale, distribuiti nelle varie organizzazioni, fra cui spicca l’Opera dei Congressi, compensava la loro mancanza di partecipazione alla vita politica in senso stretto del Regno d’Italia; alla luce della Rerum Novarum anche la presenza dei cattolici a livello sindacale cominciò ad attestarsi. Si alternarono e si contrapposero idee di partecipazione alle elezioni e tentativi di conciliazione a posizioni intransigenti che rimarcarono l’insanabilità e l’irrimediabilità della frattura creatasi fra Regno d’Italia e Chiesa Cattolica.
Un interessante barometro del clima politico connesso alla Questione romana è rappresentato in tal senso dalle vicende legate ai tre giubilei ordinari (1875, 1900 e 1925) e a quello straordinario del 1933, così come, per altri aspetti ed in altro contesto lo sarà quello ordinario del 1950
Gli anni di governo della sinistra storica, caratterizzati sul piano culturale da un acceso scontro fra cattolici da una parte e correnti anticlericali di varia natura dall’altra (socialisti, massoni, positivisti, mazziniani), evidenziarono il progressivo allontanamento dal separatismo cavouriano di matrice liberale, facendo riaffiorare elementi di giurisdizionalismo che, già in occasione del dibattito parlamentare sulle «guarentigie», avevano preso posizione contro il principio stesso della concessione di garanzie, intese come privilegi, al pontefice e alla Santa Sede; tuttavia, ciò non si tradusse in una modifica della legge fondamentale che regolava i rapporti tra lo Stato e la Chiesa, limitandosi ad una serie di provvedimenti in materia amministrativa e patrimoniale, tra cui spicca la Legge 17 luglio 1890 n. 6972 sulle opere pie. L’evoluzione dello scenario politico italiano in senso ‘trasformista’ aveva comportato un rallentamento dell’offensiva anticlericale da parte del governo, individuando nel socialismo e nelle componenti radicali, avversari più temibili anche sul piano elettorale.
Francesco Crispi, siciliano come il segretario di Stato card. Mariano Rampolla del Tindaro e già consulente giuridico di Garibaldi, mitigò i toni anticlericali e giurisdizionalisti che avevano caratterizzato i suoi interventi nel dibattito parlamentare sulla Legge delle Guarentigie, facendo affiorare la sua anima mazziniana, risorgimentale e laicamente mistica, che non lo portò ad una totale chiusura in ambito religioso, ma lo condusse talvolta ad ipotizzare una soluzione ‘americana’ per comporre il conflitto con la Chiesa. Non va però dimenticato che fu Crispi a chiedere la destituzione del sindaco di Roma, colpevole di aver fatto giungere attraverso il cardinal vicario gli auguri a Leone XIII per il suo giubileo sacerdotale. I tempi non erano ancora maturi per una serena regolamentazione dei rapporti tra Stato e Chiesa che comportasse una qualsiasi forma di conciliazione, pur auspicata sia in ambienti cattolici (si pensi all’abate di Montecassino Luigi Tosti e al vescovo di Cremona Geremia Bonomelli) sia laici, e ancora nel 1886 venne ribadito il «Non expedit prohibitionem importat». Fra le parti nacque un’accesa dialettica nella quale i soggetti in causa sembravano chiedersi un passo indietro su argomenti che fino a quel momento erano stati motivo di separazione (beni e istituzioni sul versante ecclesiale e partecipazione alla vita politica del paese su quello statale). Un dato è certo: l’argomento stava a cuore e non era più oggetto di indifferenza o di silenzio, ma dal vivace dibattito intellettuale, parlamentare e anche ecclesiale non scaturirono soluzioni politiche ed istituzionali che risolvessero la Questione romana. Gli ultimi anni del XIX secolo furono un periodo ancora confuso ed inquieto che non offrì una soluzione pratica, ma che certamente si caratterizzò per l’abbondanza di contributi e di riflessioni.
Per la classe politica di governo non era praticabile un dialogo tra laici e cattolici che individuasse obiettivi comuni: l’autonomia etica doveva necessariamente comportare anche quella giuridica e non poteva dunque tradursi in nessuna forma di intesa tra lo Stato e la Chiesa. Era ancora lontana la “conciliazione conclamata” (A.C. Jemolo), ma cominciarono ad esserlo anche certi toni tipici dello scontro dei decenni precedenti, così come appare dal pensiero di Croce e dalla politica giolittiana di compromesso. L’individuazione di valori comuni tra laici e cattolici e la sua traduzione in una conseguente strategia elettorale, arriverà solo nel 1913 con il “Patto Gentiloni” con cui i cattolici non intransigenti, guidati dal presidente dell’Unione elettorale cattolica, Vincenzo Ottorino Gentiloni, fornirono appoggio elettorale alla compagine giolittiana in cambio della salvaguardia di valori ed interessi cattolici; il patto, che portò all’elezione di 79 deputati cattolici, si inserì in quel clima da tempo voluto da Pio X di attenuazione del non expedit. Giuseppe Sarto, che già da Patriarca di Venezia aveva lasciato intendere la sua visione delle relazioni Stato-Chiesa, eletto papa nel 1903, attuò un vivace processo di riforma della Chiesa in molti aspetti della sua vita, oltre alla nota opposizione al Modernismo, con cui non è tuttavia identificabile il suo pontificato. I rapporti con il Regno d’Italia si svilupparono all’insegna di un certo pragmatismo, grazie anche al ruolo dell’abile diplomatico e segretario di Stato card. Rafael Merry del Val y Zulueta, cercando soprattutto di consolidare il ruolo internazionale della Santa Sede. Nel 1905 l’enciclica Il fermo proposito, pur ribadendo la validità generale del non expedit, aveva di fatto concesso ai vescovi la facoltà, previa richiesta, di permettere ai cattolici di rappresentare «il popolo nelle aule legislative […] pel bene delle anime e dei supremi interessi delle vostre Chiese». Pio X, inoltre, identificava come un dovere dei cattolici quello di «prepararsi prudentemente e seriamente alla vita politica, quando vi fossero chiamati».
Sul piano internazionale, l’intensificarsi dell’attività diplomatica fra le nazioni, precedente la Prima guerra mondiale, vedeva il paradosso di una Santa Sede molto impegnata in tal senso, in virtù anche di quanto concesso dalle Guarentigie in materia di legazione attiva e passiva, ma della sua esclusione dalle grandi conferenze internazionali per il fatto, non trascurabile, di non essere uno Stato; a ciò si aggiungano anche le pressioni esercitate dall’Italia sulle altre nazioni, specialmente quelle legate da trattati di alleanza, affinché la notorietà, il prestigio e l’impegno della Santa Sede non si traducessero in richieste, da parte di paesi terzi, di concessioni territoriali che l’Italia avrebbe dovuto elargire al nuovo ipotetico stato papale. In più la guerra fece emergere, come prevedibile, la contraddizione di un soggetto con dignità internazionale, vocazione sovranazionale, ma inserito, suo malgrado, in un complesso e mutevole sistema di alleanze nel quale doveva pur muoversi, ma non più come uno stato sovrano. La Santa Sede rimaneva così esclusa, almeno sul piano formale, dai grandi consessi internazionali nei quali, prima, durante e dopo la Prima guerra mondiale, si discuteva il futuro dell’Europa e del mondo intero; in tale contesto si inseriscono i continui numerosi appelli alla pace di Benedetto XV, affiancati da un’intensa attività diplomatica e caritativa promossa dal Pontefice negli anni del conflitto. Il sistema degli equilibri fra le potenze giocava sia a favore sia a sfavore della Santa Sede per quanto riguardava la soluzione della questione territoriale, a seconda di quale potenza se ne faceva promotrice e di quali fossero le sue ragioni: il pontefice aveva intuito che una fase geopolitica si stava concludendo, una nuova se ne apriva e la Chiesa non poteva non inserirsi in questo nuovo scenario internazionale. Tuttavia, al di là della mancata soluzione sul piano del diritto internazionale, notevoli furono gli sviluppi sul piano politico che, a partire dalla Conferenza di Parigi del 1919, portarono ai Patti Lateranensi del 1929; il decennio in questione, infatti, vide consolidarsi su diversi fronti il ruolo dei cattolici italiani che contribuirono ad un vivace dibattito politico onnicomprensivo che non si limitò ad affrontare la sola questione territoriale, bensì tutti gli aspetti delle relazioni tra lo Stato Italiano e la Chiesa Cattolica. In tal senso, importante fu il contributo di Francesco Saverio Nitti, Vittorio Emanuele Orlando, per l’Italia, e di monsignor Bonaventura Cerretti e del cardinal Pietro Gasparri per la Santa Sede. Anche Alfredo Rocco, giurista fra i principali teorici del fascismo e ministro della Giustizia e degli Affari di Culto, avvertiva la necessità di una soluzione del problema fra le parti: la commissione incaricata di studiare la riforma della legislazione ecclesiastica (cui prendevano parte anche tre prelati) concludeva i suoi lavori presentando un progetto di revisione, che non ebbe seguito, e che tuttavia si sarebbe tradotto in una serie di provvedimenti legislativi e non in un accordo fra le parti.
Il fervido lavoro della politica e della diplomazia, portarono alla soluzione del 1929, nel contesto di un disegno internazionale più ampio e diversificato definito “svolta concordataria”, con la firma dei Patti Lateranensi, comprendenti il Trattato del Laterano, con cui si chiudeva la Questione romana e si istituiva lo Stato della Città del Vaticano, l’annessa Convenzione finanziaria e il Concordato. Il Governo di Mussolini concludeva dunque la pagina risorgimentale forse più complessa per intensità, durata ed implicazioni politiche nazionali ed internazionali; erano certamente lontani i toni mussoliniani anticlericali di pochi anni prima, tipici del Fascismo delle origini. Ma la conciliazione sancita dalle firme di Mussolini e Gasparri e dalle parole di Pio XI era destinata, di lì a breve, a mostrare alcune crepe già presenti da tempo e fisiologicamente generate dal confronto tra la Chiesa e il regime: un primo segnale in tal senso fu il dibattito parlamentare sulla ratifica degli accordi. Il dato di fatto fu comunque la conclusione della fase separatista e l’inizio di quella concordataria che, in quel determinato contesto, assumeva il significato di un gioco fra le parti teso ad inglobare la controparte nella realizzazione del proprio progetto ideologico (quello fascista per il regime, quello di ‘cristianità’ per la Chiesa), ma i fatti del 1931, denunciati dall’enciclica Non abbiamo bisogno, scritta in difesa dell’attività e delle finalità dell’Azione Cattolica, fecero emergere in modo conclamato quei problemi già presenti in fase di preparazione degli accordi. Tuttavia, la portata dei Patti firmati solo due anni prima, con gli annessi vantaggi di varia natura per entrambe le parti, riportò la situazione ad una «pace di compromesso, senza vincitori né vinti» (A.C. Jemolo) che durò fino al definitivo mutarsi dei rapporti, compromessi da nuovi scontri sul ruolo e l’attività dell’Azione Cattolica, dall’avvicinarsi alla Germania nazista, della promulgazione delle leggi razziali nel 1938 e al definitivo fallimento del progetto di assorbimento ideologico portato avanti da entrambe le parti.
L’utilizzo della modalità pattizia sortiva dunque l’effetto di evidenziare la delicatezza dell’equilibrio che legava lo Stato fascista alla Chiesa Cattolica e ciò fu ancora più evidente durante il pontificato di Pio XII, già successore di Gasparri alla Segreteria di Stato, caratterizzato nella prima parte, dallo svolgimento della Seconda guerra mondiale. A differenza del primo conflitto, vi era ora lo Stato della Città del Vaticano, che, circondato dalla capitale dell’Italia fascista, doveva mantenere la sua neutralità e le relazioni con le potenze belligeranti: furono per la Santa Sede anni di intensa attività diplomatica ed umanitaria.
La fine del conflitto, gli sviluppi politici ed istituzionali italiani riaccesero inevitabilmente a tutti i livelli e in diversi contesti il dibattito sulla natura e le modalità dei nuovi rapporti tra lo Stato e la Chiesa Cattolica; in questo dibattito decisivo fu il ruolo della Democrazia Cristiana che, particolarmente negli anni di lavoro dell’Assemblea Costituente e con l’apporto di altre forze politiche, seppe farsi portavoce del ruolo che i cattolici avevano svolto fin dalla caduta del regime fascista nel processo di ricostruzione politica del paese. In merito al tema dei rapporti con la Chiesa Cattolica, oltre ai dibattiti più ampi sui principi fondamentali della Costituzione e sulle libertà e sulle formazioni sociali, la discussione si concretizzò negli artt. 7 e 8 che affrontavano rispettivamente il tema delle relazioni tra la Chiesa e la Repubblica Italiana e quello del pluralismo confessionale. Lo Stato affermava la sua neutralità in materia religiosa, garantendo «l’eguale libertà di tutte le confessioni religiose davanti alla legge» e in merito ai rapporti con la Chiesa, affermava che «Stato e Chiesa Cattolica sono, ciascuno nel proprio ordine, indipendenti e sovrani» e che «i loro rapporti sono regolati dai Patti Lateranensi»; il dibattito, come immaginabile, fu acceso e si orientò in un compromesso fra chi voleva accentuare l’elemento della sovranità della Chiesa o quello della laicità. Il dato importante e non scontato in partenza fu comunque il riconoscimento a livello costituzionale dei Patti Lateranensi. Gli anni ’50 e ’60, infatti, videro lo sviluppo del “diritto concordatario” inteso come strumento di raccordo tra il diritto ecclesiastico e il diritto canonico (G. B. Varnier). L’analisi della fase concordataria repubblicana deve, ancor più delle precedenti, porre maggiore attenzione al concetto di “nazione cattolica” (A. Riccardi), da integrare con quelli di chiesa e di stato, rilevando continuità o discontinuità di modelli, ma soprattutto novità dovute ai profondi mutamenti culturali e sociali di quegli anni a livello planetario e nazionale. In questo contesto si inserì anche il Concilio Vaticano II che, pur non interessato direttamente agli aspetti tecnici delle relazioni tra gli stati e la Chiesa, tuttavia contribuì in modo profondo ad una nuova e più ampia visione dei rapporti tra comunità cristiana e comunità civile come poi sintetizzato nella costituzione conciliare Gaudium et spes.
IL CARDINALE AGOSTINO CASAROLI CON BETTINO CRAXI ALLA FIRMA DELL’ ACCORDO DI REVISIONE DEL CONCORDATO D’ ITALIA (Umberto Roazzi / Giacominofoto, ROMA – 1984-02-18) p.s. la foto e’ utilizzabile nel rispetto del contesto in cui e’ stata scattata, e senza intento diffamatorio del decoro delle persone rappresentate
Sul piano politico e giuridico si cercò di declinare una nuova concezione di laicità, su quello culturale la secolarizzazione occupò uno spazio crescente e sul piano ecclesiale, l’istituzione della Conferenza Episcopale Italiana nel gennaio del 1952, introdusse un nuovo soggetto protagonista delle relazioni tra lo Stato e la Chiesa che, come sarà evidente nell’Accordo di revisione del Concordato Lateranense del 1984 (cf. art. 13 n. 2) affiancò la Santa Sede nella gestione dell’accordo e dei successivi atti connessi. Circa l’interesse e il coinvolgimento degli italiani in merito al tema delle relazioni tra lo Stato e la Chiesa, vi è da rilevare come essi siano stati particolarmente intensi in concomitanza delle grandi battaglie politiche su temi etici come, per esempio, divorzio (1974), aborto (1981) e fecondazione assistita (2005), ma che invece si siano mantenuti su livelli piuttosto bassi in occasione dei momenti istituzionali in cui quei rapporti si traducevano in atti di portata storica; è il caso dei citati accordi di Villa Madama del febbraio 1984, in cui, per la seconda volta nella storia d’Italia, un non cattolico come il presidente del Consiglio dei Ministri Bettino Craxi, concludeva con il cardinale segretario di Stato Agostino Casaroli, il suddetto accordo di revisione del concordato, preceduto da un dibattito politico e giuridico ventennale sulla necessità e le eventuali modalità di procedere ad una revisione. Per rimarcare la portata non debitamente percepita di quegli accordi, si noti che al punto 1 del Protocollo addizionale veniva definitivamente sancita l’abolizione del principio della religione cattolica come sola religione dello Stato, di fatto già implicito nell’articolo 8 della Costituzione (cf. inoltre sentenza 203/1989 della Corte Costituzionale sul principio supremo di laicità dello Stato). Diversi gli scenari storico-politici e ancor più diversa la loro velocità di cambiamento: le relazioni Stato-Chiesa, oggi più che mai, non possono essere comprese se non con uno sguardo multidisciplinare e comparatistico, per i nuovi scenari sociali, politici ed internazionali in cui sia la Chiesa, sia gli Stati sono oggi inseriti. In tal senso fonti interessanti si rivelano i diari dei protagonisti della storia delle relazioni Stato-Chiesa, attraverso cui cogliere sia la complessità degli eventi e del contesto, sia quella degli individui (G. F. Pompei)
L’appartenenza dell’Italia all’Unione Europea, poi, pone un inevitabile confronto fra il diritto ecclesiastico degli Stati membri e sulla più ampia tematica delle loro relazioni con la Chiesa Cattolica e/o con altre chiese. Le relazioni con gli altri Stati, l’inserimento in organizzazioni internazionali o la partecipazione a convenzioni, così come la missione universale della Chiesa Cattolica, specialmente alla luce del Concilio Vaticano II, non possono più essere considerati elementi secondari: questa fu la grande intuizione e l’impegno dei pontefici nella seconda metà del ‘900. In particolare, l’elezione di Karol Wojtyła nel 1978, in uno dei momenti più difficili per il cattolicesimo italiano, fu un segno incontrovertibile di una tendenza a cui anche l’Italia non poteva sottrarsi: la “svolta concordataria” che aveva interessato anche l’Italia nel 1929, si riproponeva in un contesto totalmente diverso con Giovanni Paolo II e il già citato Accordo di revisione del Concordato del 1984, aveva la duplice valenza di inserirsi in una storia tutta italiana con le proprie radici nel Risorgimento, ma anche come uno dei 147 accordi firmati dalla Santa Sede tra il 1978 e il 2003.
Il decennio successivo, sullo sfondo della complessa ridefinizione del ruolo dei cattolici in politica (con particolare riferimento ai Convegni ecclesiali nazionali di Loreto 1985 e Palermo 1995), vide il declinarsi nel nuovo contesto di tematiche classiche del diritto concordatario legate ai rapporti finanziari tra Stato e Chiesa o agli interessi religiosi dei cittadini, ancora oggi oggetto di accesi dibattiti politici: si pensi, solo per citarne alcuni più noti, al finanziamento pubblico della Chiesa, al sostentamento del clero, all’assistenza spirituale nelle strutture obbliganti, alla condizione giuridica e fiscale degli edifici di culto che in Italia è resa ancora più particolare per l’elevato numero di quelli di valore storico, artistico e architettonico, al matrimonio concordatario. Una particolare menzione merita la questione dell’insegnamento della religione cattolica nelle scuole pubbliche, terreno di vivo confronto sul tema della laicità dello Stato e ambito di interesse multidisciplinare (M. Madonna).
Anche in Italia le relazioni tra lo Stato e la Chiesa sono interpellate e sfidate da nuove istanze culturali, politiche e religiose, ma anche da nuovi assetti geopolitici ed istituzionali. Si tratta allora di comprendere una relazione bilaterale, che tuttavia entra necessariamente sempre più in rapporto con un contesto globale, più conosciuto, ma anche profondamente diverso e mutevole rispetto a quello del 1861. In questo alveo si è mossa e si muove la storia delle relazioni tra la Chiesa e lo Stato, che ha assunto ed assume in Italia tratti assolutamente peculiari, per la millenaria presenza sul territorio della Santa Sede.
Fonti e Bibl. essenziale:
A.C. Jemolo, Chiesa e Stato in Italia. Dall’Unificazione ai giorni nostri, Einaudi, Torino 1981, G.F. Pompei, Un ambasciatore in vaticano: diario 1969-1977, Il Mulino, Bologna 1994; A. Acerbi (ed.), La Chiesa e l’Italia. Per una storia dei loro rapporti negli ultimi due secoli, Vita e Pensiero, Milano 2003; M. Mugnaini (ed.), Stato, Chiesa e relazioni internazionali, Franco Angeli, Milano 2003; G. Acquaviva (ed.), La grande riforma del Concordato, Marsilio, Venezia 2006; A. Giovagnoli, La Chiesa in Italia fra nazione e Stato, Vita e Pensiero, Milano 2004; M. Impagliazzo (ed.), La nazione cattolica. Chiesa e società in Italia dal 1958 a oggi, Guerini e Associati, Milano 2004; G.B. Varnier (ed.), Il nuovo volto del diritto ecclesiastico italiano, Rubbettino, Soveria Mannelli (CZ) 2004; I. Bolgiani, Enti di culto e finanziamento delle confessioni religiose: l’esperienza di un ventennio (1985-2005), Il Mulino, Bologna 2007; A. Riccardi, Il «partito romano». Politica italiana, Chiesa cattolica e Curia romana da Pio XII a Paolo VI, Morcelliana, Brescia 2007; F. Traniello, Religione Cattolica e Stato Nazionale. Dal Risorgimento al secondo dopoguerra, Il Mulino, Bologna 2007; G. Sale, Il Vaticano e la Costituzione, Jaca Book, Milano 2008; R. Astorri, I cattolici alla Costituente. Per una lettura del loro contributo sui rapporti fra Chiesa e Stato, in M. Bocci, Non lamento, ma azione. I cattolici e lo sviluppo italiano nei 150 anni di storia unitaria, Vita e Pensiero, Milano 2013, 347-359; L. Ceci, L’interesse superiore. Il Vaticano e l’Italia di Mussolini, Laterza, Roma-Bari 2013; M. De Leonardis (ed.), Fede e diplomazia. Le relazioni internazionali della Santa Sede nell’età contemporanea, EduCatt, Milano 2014; C. Cardia, Principi di diritto ecclesiastico. Tradizione europea legislazione italiana, Torino, Giappichelli, 20154; F. Margiotta Broglio, L’origine giansenista della formula cavouriana “libera Chiesa in libero Stato, in «Jus. Rivista di scienze giuridiche», 3(2015), 245-250; D. Durisotto, Istituzioni europee e libertà religiosa. CEDU e UE tra processi di integrazione europea e rispetto delle specificità nazionali, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli 2016; M. Madonna, Lo status giuridico degli insegnanti di religione cattolica tra diritto della Chiesa e ordinamento dello Stato, Libellula, Tricase (LE) 2018.
Lo Stato della Città del Vaticano nacque nel 1929 quando la Santa Sede e l’Italia conclusero il Trattato del Laterano, firmato in data 11 febbraio e ratificato il 7 giugno. Il Trattato era il primo dei tre documenti costituenti i cosiddetti Patti Lateranensi (gli altri due erano il Concordato e la Convenzione finanziaria), che posero fine alla Questione Romana sorta in seguito ai fatti del 20 settembre 1870 e all’estinzione dello Stato pontificio. Con una superficie di circa 44 ettari, lo SCV è il più piccolo stato indipendente esistente al mondo, delimitato dalle mura vaticane e dalla fascia di travertino bianco che davanti alla basilica di S. Pietro unisce le due ali del colonnato berniniano. Pertinenti ad esso sono alcuni edifici e basiliche extraterritoriali esistenti a Roma e la villa di Castel Gandolfo. Dispone di due corpi armati addetti alla sicurezza interna e alla vigilanza sulla persona del Pontefice (Guardia Svizzera e Gendarmeria), emette francobolli ed è dotato di una propria bandiera. La ragion d’essere di questa singolare entità statuale, del tutto anomala nel panorama storico-giuridico degli Stati, fu precisata da Pio XI in un discorso pronunciato proprio l’11 febbraio: “Assicurare alla Santa Sede una vera e propria e reale sovranità territoriale (non conoscendosi nel mondo, almeno fino ad oggi, altra forma di sovranità vera e propria se non appunto territoriale) necessaria e dovuta a Chi, stante il divino mandato e la divina rappresentanza ond’è investito, non può essere suddito di alcuna sovranità terrena”. Il concetto fu ribadito con altre parole da Paolo VI nel suo discorso alle Nazioni Unite del 4.10.1965: “Avete davanti a voi un uomo come voi; rivestito lui pure, se così vi piace considerarci, d’una minuscola, quasi simbolica sovranità temporale, quanto gli basta per essere libero di esercitare la sua missione spirituale, e per assicurare chiunque tratta con lui che egli è indipendente da ogni sovranità di questo mondo”.
Lo SCV – che non trova giustificazione in se stesso ma in funzione di un altro ente, la Santa Sede che lo governa – non è dunque una reviviscenza del vecchio Stato pontificio ma solo un presidio territoriale a garanzia dell’indipendenza della sede apostolica, intesa come massimo organo di governo della Chiesa Cattolica sparsa nel mondo, rispetto ad ogni altra potestà civile e politica. Anche la cittadinanza vaticana, che non è originaria ma legata alla residenza o alla funzione ricoperta nello Stato (attualmente compete ad un migliaio di persone), è peculiare e anomala, come eterogenea rispetto agli stati moderni è la sua forma di governo costituzionale, trattandosi di una monarchia elettiva nella quale il Sovrano, cioè il Sommo Pontefice, assomma in sé “la pienezza dei poteri legislativo, esecutivo e giudiziario” (nel periodo di sede vacante la sovranità è esercitata dal Collegio cardinalizio per i soli casi di urgenza e salvo ratifica del nuovo pontefice). L’organizzazione giuridica e la struttura interna dello SCV furono definite dal giurista ebreo Federico Cammeo, che operò su incarico di Pio XI, attraverso sei leggi (legge fondamentale, sulle fonti del diritto, su cittadinanza e soggiorno, sull’ordinamento amministrativo, sull’ordinamento economico, commerciale e professionale, sulla pubblica sicurezza) emanate nel 1929, contestualmente all’entrata in vigore dello Stato. La prima di tali leggi, denominata legge fondamentale, è stata successivamente modificata da Giovanni Paolo II nella versione promulgata il 26.11.2000 ed entrata in vigore il 22.2.2001. Essa prevede che il Pontefice eserciti la rappresentanza internazionale attraverso la Segreteria di Stato, il potere legislativo tramite una Commissione cardinalizia in carica per un quinquennio, quello esecutivo per mezzo del Presidente della Commissione coadiuvato dal Segretario generale e dal Vice Segretario generale, il potere giudiziario mediante i tribunali ecclesiastici. Ma va anche aggiunto che dal 1984 Giovanni Paolo II ha conferito alto e speciale mandato al cardinale Segretario di Stato di rappresentare il pontefice nel governo civile dello Stato, compresi i poteri inerenti alla sovranità temporale.
Lo SCV gode di personalità giuridica internazionalmente riconosciuta, è membro a vario titolo delle organizzazioni internazionali, partecipa alle conferenze fra gli Stati, dispone di una vasta rete di relazioni diplomatiche con i governi, costituita da poco meno di duecento nunziature. In ragione della duplice natura della Santa Sede, che al contempo è a capo di uno Stato e del cattolicesimo, i nunzi hanno una doppia funzione: rappresentare il Pontefice presso i rispettivi Stati e presso le Chiese locali. Trattandosi di un enclave interno al territorio italiano, lo SCV è dotato di tutti i servizi necessari al suo funzionamento (poste, telegrafi, telefoni, ferrovia e altri), garantiti da accordi bilaterali via via stipulati con l’Italia e raccordati agli analoghi servizi italiani.
Al suo interno, oltre ai Palazzi apostolici, alla sede del Governatorato e di altri uffici e servizi, si trovano l’Archivio Segreto, la Biblioteca Apostolica e i Musei Vaticani, tra le istituzioni culturali più importanti del mondo per la ricchezza, l’importanza e l’antichità del patrimonio conservato, frequentate da studiosi e visitatori provenienti da ogni paese; la Tipografia Vaticana, affidata ai salesiani; il giornale L’Osservatore Romano, quotidiano della Santa Sede; la Libreria Editrice Vaticana e altre istituzioni legate alle necessità della Santa Sede. Dal 1984 l’intero territorio dello SCV è stato incluso fra i siti dichiarati patrimonio dell’intera umanità per la sua importanza storica, culturale, artistica e architettonica.
Fonti e Bibl. essenziale
F. Cammeo, Ordinamento giuridico dello Stato della Città del Vaticano, Libreria Editrice Vaticana, 1932 (riedizione anastatica, Lev, 2005); W. Schulz, Leggi e disposizioni usuali dello Stato della Città del Vaticano, 2 voll., Pontificia Università lateranense, Roma, 1981; P.A. d’Avack, Vaticano e Santa Sede, a cura di C. Cardia, Bologna 1994; G. Barberini, Chiesa e Santa Sede nell’ordinamento internazionale. Esame delle norme canoniche, Giappichelli, Torino, 2003; Governatorato dello Stato della Città del Vaticano, 1929-2009. Ottanta anni dello Stato della Città del Vaticano, Città del Vaticano-Biblioteca Apostolica Vaticana, 2009; Id., Lo Stato della Città del Vaticano. Atti del Convegno sugli 80 anni (12-14 febbraio 2009), Lev, 2010; N. Picardi, Lo Stato Vaticano e la sua giustizia, Cacucci, Bari, 2009; A.C. Jemolo, Chiesa e Stato in Italia negli ultimi cento anni, Einaudi, Torino, 1971; R. Pertici, Chiesa e Stato in Italia dalla Grande Guerra al nuovo Concordato (1914-1984), il Mulino, Bologna, 2009.