Associazione Italiana dei Professori di Storia della Chiesa

Dizionario Storico Tematico La Chiesa in Italia
Dopo l'Unità Nazionale
Roma 2015
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Storia della Pietà (Giuseppe de Luca) - vol. II


Autore: Luigi Michele de Palma

 

L’idea di una Storia della pietà ebbe una lunga gestazione nella mente e nel cuore di Giuseppe De Luca (1898-1962), geniale ed erudito sacerdote di origini lucane, naturalizzato romano. Insoddisfatto dei suoi studi giovanili di carattere filologico e letterario, De Luca provava insofferenza per la condizione d’immobilità in cui versavano la cultura cattolica italiana e gli studi ecclesiastici, entrambi stretti nella morsa dell’antimodernismo e in dipendenza dalla cultura straniera mitteleuropea. Era suo desiderio riscattare la storiografia italiana dalla soggezione estera ed emanciparla dalla cappa imposta dall’idealismo di G. Gentile e dallo storicismo di B. Croce. Nello stesso tempo egli criticava l’impostazione classica della storiografia ecclesiastica, incentrata sulla storia dei papi, dei vescovi, degli ordini religiosi e sulle grandi vicende che avevano pervaso ogni epoca, insomma una storia di vertici e delle istituzioni, poco attenta alla dimensione religiosa della vita degli uomini, così com’era, in generale, la storiografia politica, economica, militare e culturale. De Luca, invece, nutriva simpatia per l’approccio storico, concentrato sul vissuto religioso, suggerito da Lucien Febvre. E molto gli valsero le frequentazioni con André Wilmart, Henri Bremond e Joseph de Guibert per definire i contorni di una storia della pietà, lontana dalla storia delle dottrine teologiche quanto dalla storia delle religioni e del sentimento religioso.

Sul finire degli anni ’20 del Novecento, De Luca programmava la pubblicazione di una Storia della pietà italiana di carattere letterario – storia più nota e apprezzata all’estero – quindi, a seguito di una riflessione durata oltre un ventennio, giunse ad elaborare il progetto più ampio di un Archivio Italiano per la Storia della Pietà, concepito come uno spazio editoriale – parallelo alle Edizioni di Storia e Letteratura da lui fondate nel 1943 – entro cui comparisse la ricca documentazione relativa alla Pietà, rimasta per lungo tempo inesplorata.

Nel 1951 apparve il primo volume della serie, con una densa introduzione curata da De Luca, in cui egli illustrava il progetto e si soffermava a descriverne l’idea, i fini e il metodo. Innanzitutto egli spiegava la nozione di Pietà: non un concetto, non un vago sentimento, non la vaga religiosità e neppure il «solo vertice supremo ed esatto dell’unione mistica» (Introduzione, p. 7), ma lo stato in cui l’uomo avverte nella sua vita presente Dio sul piano del rapporto d’amore. Non una condizione momentanea e transitoria, bensì continua e duratura, anche «se non ininterrottamente in atto» (ibidem, p. 8), nonché onnicomprensiva dell’esistenza umana. Perciò – continuava De Luca – «si è pii come si è vivi» ed in ogni uomo è presente la pietà, anche se essa non è avvertita o viene espressamente negata, poiché, amata o odiata, la presenza di Dio viene parimenti percepita. Lo studio della Pietà – per don Giuseppe – comprende pertanto l’indagine sul suo contrario, cioè sull’empietà, perché anch’essa ha la medesima origine: la presenza di Dio nella vita dell’uomo.

Sebbene De Luca non abbia voluto tessere nessuna teoria o dottrina sistematica intorno alla Pietà, l’apparente indeterminatezza della nozione comporta la qualità dell’universalità. Qualunque uomo, di qualunque religione, seppure erronea, può essere pio e qualsiasi espressione della sua pietà può essere oggetto di studio. Tuttavia, De Luca era persuaso che l’unica vera religione fosse il Cristianesimo, nel cui seno la Pietà non coincide con l’ascetica, né con la spiritualità e neppure con la devozione, ma supera tutte perché si identifica con la carità. Il possesso di questa virtù consente al fedele più ignorante di superare, in forza della sua pietà, il teologo più acuto, per giungere a penetrare il supremo “mistero di pietà” (1Tim 3,16) compiuto in Cristo, nel quale la pietà divina e umana si sono perfettamente congiunte.

A De Luca la Pietà appariva come «un elemento nella vita, e dunque nella storia dell’uomo, che se non sorpassa e sovrasta, certo eguaglia tutti gli altri» (Introduzione, p. 31). La sua nozione, apparentemente indeterminata, consentiva di estendere senza limiti la ricerca a qualsiasi testimonianza che fosse espressione, in ogni tempo, luogo e religione, di una dimensione fra le più alte e segrete della vita degli uomini, e in essa di cogliere e scoprire la presenza di Dio nelle realtà più minute e sperdute dell’esistenza umana.

La nuova scienza fondata da De Luca colmava una lacuna presente nella storiografia contemporanea – specialmente italiana – dimentica di un tema dalla valenza incomparabile per l’indagine storica. Più che fissare principi ermeneutici, la Storia della pietà doveva fornire agli studiosi un repertorio variegato di fonti e di documentazione, facendo proprio il metodo storico-filologico e la ricerca erudita: entrambi sarebbero stati in grado di coinvolgere senza limiti qualunque ricercatore.

Secondo questa prospettiva – non senza difficoltà di vario genere, non ultime quelle economiche – si sviluppò la produzione pubblicistica delle Edizioni di Storia e Letteratura e la pubblicazione dell’Archivio. Numerosi furono gli studiosi e gli amici che collaborarono alle iniziative di De Luca, condivisero il suo progetto storiografico ed ereditarono il suo programma editoriale. I primi tre volumi dell’Archivio (apparsi nel 1951, 1959 e 1962) furono curati da De Luca, mentre, a seguito della sua prematura scomparsa (1962), la direzione dell’Archivio fu assunta da Romana Guarnieri – discepola e continuatrice di De Luca – la quale editò i vol. IV-VIII fra il 1965 e il 1980. Dal 1996, sotto la direzione di Paolo Prodi, fu avviata una nuova serie, curata da un Comitato direttivo e con periodicità annuale.

Nel frattempo lo studio della Storia della pietà ha suscitato larga risonanza nella compagine degli studi storici e così pure l’approfondimento del pensiero, della vita e della personalità del suo ideatore. Nel 1984 si svolse a Vicenza, presso l’Istituto per le ricerche di storia sociale e di storia religiosa, un seminario sul tema “Giuseppe De Luca la storia della spiritualità”, mentre un convegno, tenuto a Roma nel 1994, fu dedicato a “La Pietà e la sua storia”, durante il quale, alla ripresa delle pubblicazioni dell’Archivio, gli studiosi trassero un bilancio dello sviluppo di questo filone storiografico ed indicarono le ulteriori piste di indagine in attesa di essere percorse. Se per un certo tempo le intuizioni di De Luca hanno dato origine ad un particolare interesse, dovuto alla novità della proposta insieme al desiderio sotteso di provocare l’attenzione della storiografia laica per il tema religioso, in seguito esse sono rimaste alquanto appannate dinanzi allo sguardo degli studiosi. Ciononostante, il sommesso prosieguo delle indagini ispirate da De Luca ha allargato i confini delle ricerche, recuperando una massa insospettabile di testimonianze inerenti una storia ignorata dalla storiografia ufficiale, anche ecclesiastica. Gli studi sulla storia della pietà, invece, hanno rivelato ambiti rimasti a lungo sconosciuti perché ritenuti marginali, e tuttavia continuano a interrogare gli storici circa una dimensione della vita umana per nulla trascurabile. Se negli ultimi decenni il mercato italiano della pubblicistica ha corrisposto ad un’esigenza religiosa (o pseudo tale) piuttosto diffusa, dovuta almeno in parte al vuoto culturale e all’incertezza sociale, la serietà della proposta delucana consente tuttora di riprendere e di approfondire un campo di studio e di ricerca rimasto non del tutto dissodato.

In proposito, si deve ricordare la recente attenzione riservata alla pietas delucana da parte di alcuni teologi, impegnati prevalentemente nell’alveo della teologia fondamentale. La riflessione teologica sta tentando di tematizzare, intorno alla Pietà, l’indagine sui fenomeni religiosi contemporanei per sviluppare «una fenomenologia convincente della presenza amata di Dio in ogni afflato di pietas interumano, [e] farsi essa stessa umano motivo e ritmo di pietà, senza ridursi a solo umanesimo».

Fonti e Bibl. essenziale

G. De Luca, Introduzione alla Storia della Pietà, Roma 1961; G. Antonazzi, Don Giuseppe De Luca e una nuova scienza la Storia della Pietà, «Studi Cattolici», XII (1968), 606-617; R. Guarnieri, La pietà, storia e chiesa nella vita e negli scritti di don Giuseppe De Luca, «Communio», IV (1975), n. 20, 3-27; Atti del Seminario di studio su “Don Giuseppe De Luca e la storia della spiritualità” (Vicenza, 23-24 novembre 1984), «Ricerche di Storia Sociale e Religiosa», XIV (1985), n. 28, 6-220; Atti del convegno “La Pietà e la sua storia” (Roma, Palazzo Lancellotti, 9-10 dicembre 1994), «Archivio Italiano per la Storia della Pietà», IX (1996), p. 3-29, 319-411; G. de Candia, Don Giuseppe De Luca. La ragione erudita e l’afflato dell’amore, ibidem, XXIII (2010), 135-164; M. Sensi, Per scrivere una pagina di “storia della pietà”. Approccio con due tipologie di fonti: santuari ed edicole, in «Fede e storia. IRC e ricerca storica», a cura di F. Morlacchi, Roma 2008, 26-60; M. Sensi, Preti, tra erudizione e pietà. «Dedicati alla lettura, allesortazione e allinsegnamento» (1Tm 4,14), in «La missione del prete nella missione della Chiesa. “Noi, infatti, non annunciamo noi stessi, ma Cristo Gesù Signore” (2Cor 4,5)», a cura di M. Graulich – J. Pudumai Doss, Città del Vaticano 2010, 95-120.


LEMMARIO




Storiografia (età contemporanea) - vol. II


Autore: Saverio Xeres

Lo sdoppiamento dell’identità di Roma – divenuta, con l’Unità d’Italia, capitale di uno Stato nazionale oltre che centro della cattolicità – può ben rappresentare quel profondo divaricamento fra la storiografia assunta a disciplina scientifica autonoma, con metodi e strumenti propri, e la tradizionale storiografia ecclesiastica, ancora collocata in ruolo dipendente rispetto alla teologia e al Magistero. La nascente storiografia critica in Italia – sia quella protesa verso il massimo rigore documentario, sia quella attenta anche a ricuperare il valore attuale delle vicende passate – si attesta comunque prevalentemente su posizioni anticlericali. Più ancora che di ostilità, si deve parlare di indifferenza, secondo un atteggiamento imposto soprattutto dalla influente personalità di Benedetto Croce (1866-1952). D’altra parte, la ricerca storica in ambito ecclesiastico rimane a lungo renitente ad assumere i metodi di una storiografia “scientifica” che sembrava dovesse andare solo a discapito della Tradizione cristiana. L’iniziativa di Leone XIII che, nel 1883, con la lettera Saepenumero considerantes, comunicava l’avvenuta apertura dell’Archivio Vaticano alle indagini degli storici, se da un lato esprimeva ancora un intento difensivo nei confronti della storiografia “laica”, dall’altro riconosceva di fatto alla ricerca storica, anche in ambito ecclesiastico, un ruolo positivo e fecondo. Ora, però, significativamente, negli anni stessi in cui Roma – a seguito dell’iniziativa di Leone XIII – diventava sede dei diversi Istituti storici promossi dalle principali nazioni europee appunto al fine di sfruttare la formidabile miniera documentaria dell’archivio vaticano, il neo costituito Istituto storico italiano si distinse nel perseguire come scopo primario il ricupero delle fonti della storia “italiana” (con la collana Fonti per la storia d’Italia), oltre che il coordinamento delle diverse deputazioni locali di “storia patria”, in modo da fornire un fondamento storico e documentario all’identità nazionale. Con l’inizio del nuovo secolo, fu soprattutto all’interno del più ampio fenomeno denominato “modernismo” che si tentò di aprire anche le ricerche sul passato della Chiesa alle nuove metodologie storiche. Peraltro, proprio per tutelare i dati della tradizione rispetto alla critica storica, si giunse ad una nuova divaricazione tra “storia della Chiesa”, intesa come conferma nella vicenda storica di affermazioni di origine teologica, e “storia del cristianesimo”, limitata alla ricostruzione operabile sulla base dei soli dati razionalmente verificabili. Di fatto, i primi tentativi di attuare, in ambito ecclesiastico, una ricerca storica fondata sulla verifica rigorosa della tradizione, soprattutto di quella antica, incontrarono sospetti e condanne: emblematico il caso di uno storico molto legato all’ambiente romano, Louis Duchesne (1843-1922), la cui Histoire ancienne de l’Eglise venne condannata nel 1912.

Anche dopo l’avvenuta conciliazione tra Chiesa e Stato, con i Patti lateranensi del 1929, sopravvisse a lungo, in Italia, l’atteggiamento di scarsa considerazione nei confronti dell’apporto culturale cattolico, da parte degli ambienti ufficiali, dominati dal magistero di Croce oppure allineati alle esigenze del regime fascista. D’altro canto, ancora precoce, soprattutto per la vicinanza cronologica e la ancora insufficiente decantazione dei fatti, risultava la riproposizione storica dei tormentati rapporti fra l’iniziativa risorgimentale, la Chiesa romana e i cattolici italiani. Benché la repressione antimodernista avesse sostanzialmente congelato ogni pur timido germoglio di storiografia critica, qualche apertura si ebbe, negli anni successivi, ad esempio con la chiamata alla cattedra del Seminario Romano, da parte dello stesso papa Pio X, di Pio Paschini (1878-1962), ammiratore e seguace del già citato Duchesne o con l’opera del gesuita Pietro Tacchi Venturi (1861-1956). Prevaleva comunque l’interesse per la ricerca erudita, soprattutto orientata all’epoca antica – come nell’opera di Francesco Lanzoni (1862-1929) sull’origine delle diocesi italiane -, e di ambito locale, mentre l’insegnamento della storia della Chiesa continuava a restare confinata nell’ambito clericale: insegnata da preti (spesso impegnati in più discipline diverse) a seminaristi.

È solo nel secondo dopoguerra che prende inizio una vera e propria storiografia sulle vicende ecclesiastiche di epoca contemporanea in Italia. Di riflesso del nuovo protagonismo politico di socialisti e cattolici nella Resistenza e nella ricostruzione del Paese, si ricupera la consapevolezza del contributo offerto alla causa nazionale da parte di tali componenti sociali rimaste ai margini del movimento risorgimentale. Nasce, in quest’ottica, il fecondo filone di studio sul “movimento cattolico” (ossia sulla presenza e sulle iniziative dei cattolici nella società italiana), oggetto delle ricerche, oltre che di Fausto Fonzi, Pietro Scoppola (1926-2007), Angelo Gambasin (1926-1990), anche di storici marxisti (Giorgio Candeloro, 1909-1988) e liberali (Giovanni Spadolini, 1925-1994); sempre a partire dal contributo offerto alla causa nazionale, inizia anche un ricupero storico della presenza dei movimenti cristiani non cattolici in Italia. I nuovi studi sul “movimento cattolico” favoriscono anche l’ingresso di laici, professionalmente qualificati, nell’ambito della storiografia di area ecclesiastica. Intanto, iniziano a farsi sentire gli influssi della storiografia francese che sta portando anche in ambito religioso-ecclesiastico, con Gabriel Le Bras (1891-1970), quella nuova linea di storia “sociale” già iniziata con la rivista «Les annales» (1929-), orientando la ricerca storica – più che su personaggi e avvenimenti – alla ricostruzione della vita quotidiana e della “mentalità” dei gruppi sociali. In verità, in Italia, al di là di qualche sporadica inchiesta sociologica (peraltro preoccupata dell’aspetto pastorale, piuttosto che all’indagine storica), tale influsso si concretizza soltanto, negli anni ’50, nell’opera di Giuseppe De Luca (1898-1962) con il suo «Archivio italiano per la storia della pietà» (1951-), compresa quella dei semplici fedeli; le ricerche di storia locale continuano, invece, a procedere su una linea prevalentemente istituzionale. E’, di nuovo, nel secondo dopoguerra che, compiendo un desiderio a lungo coltivato, nasce la «Rivista di Storia della Chiesa in Italia» (1947-), dotata di un prezioso repertorio bibliografico in ogni fascicolo. Esplicitamente indirizzata, fin dal titolo, ad una storiografia di interesse soprattutto istituzionale ed ecclesiastico (non storia del cristianesimo, né storia religiosa), essa la apre comunque definitivamente alle istanze del metodo critico.

Gli anni ’60/’70 rappresentano un periodo assai vivace, in Italia, per il lavoro storiografico, con provocazioni e influssi positivi anche in ambito ecclesiastico. Se l’apporto della storiografia di ispirazione marxista, ad esempio – rappresentata in Italia dalla riflessione di Antonio Gramsci (1891-1937) – provoca la neonata storiografia sul movimento cattolico ad una maggiore attenzione per gli aspetti socio-economici (Sergio Zaninelli), il successivo decadere dalle grandi ideologie propizia, invece, il ricupero del valore religioso e, dunque, la ricerca sui retroterra ecclesiali di iniziative certo non riducibili alla sola sfera economica e politica. E’ soprattutto la preparazione e la celebrazione del concilio Vaticano II, nella prima metà degli anni Sessanta, ad offrire nuove visuali di Chiesa e, di conseguenza, a dare impulso anche alla ricostruzione della sua storia. Proprio in quanto frutto maturo di una nuova consapevolezza lentamente cresciuta lungo la prima metà del ‘900, anche in Italia, il concilio favorisce indubbiamente l’interesse per un passato recente non ancora indagato in profondità: la complessa vicenda del modernismo, ad esempio – avviata a migliore conoscenza anche grazie all’istituzione del Centro studi per la storia del modernismo, costituito da Lorenzo Bedeschi (1915-2006) presso l’Università di Urbino all’inizio degli anni ’70 -, la problematica relazione tra Chiesa e fascismo, la partecipazione dei cattolici e del clero alla Resistenza e alla ricostruzione economica e politica del Paese. E’ soprattutto il valore stesso della storia, riconosciuta nel suo pieno, autonomo spessore, che trapela da tutto l’insegnamento conciliare: una storia da discernere attentamente per cogliervi i “segni dei tempi”. Di qui un notevole impulso ad ampliare la ricerca sul passato, soprattutto quello recente, in un clima di grande libertà. Possono così venire a frutto i germogli apparsi negli anni ’50, orientando la ricerca verso temi inediti, attinenti la spiritualità e la devozione, pur senza arrivare ad una effettiva, sistematica messa in opera dei metodi della sociologia storica di origine francese. Nuova e più approfondita attenzione si pone alla conoscenza della storia del clero (in particolare con le ricerche di Xenio Toscani e Maurilio Guasco), indagando la sua formazione, i suoi legami sociali, le sue concrete condizioni di vita. Viene assunta esplicitamente nella considerazione storiografica anche la componente laicale della Chiesa in Italia, con le sue associazioni (l’Azione Cattolica in primo luogo) e i diversi movimenti, e anche con una nuova, specifica attenzione alla componente femminile (Paola Gaiotti de Biase). Si consolida l’indagine storica sulle comunità non cattoliche, con l’avvio di una collana di Storia del Movimento evangelico in Italia (1971-), e vi sono alcune prime indagini sulle comunità ebraiche e i loro rapporti con la Chiesa. Tale slancio storiografico ad ampio raggio è, ad un tempo, causa ed effetto di nuove iniziative di ricerca. La primogenitura, in tal senso, spetta indiscutibilmente al “Centro di documentazione”, poi “Istituto per le scienze religiose”, avviato a Bologna da Giuseppe Dossetti, fin dagli anni ’50, con la costituzione di una biblioteca aperta ad un orizzonte internazionale. Nel decennio successivo nascono i due Centri studi di Vicenza e di Salerno, rispettivamente «per le fonti della storia della Chiesa nel Veneto» e «per la storia del Mezzogiorno», guidati entrambi da Gabriele De Rosa (1917-2009). Sia pure con obiettivi e metodi diversi, gli intenti comuni sono la salvaguardia e l’utilizzo delle fonti archivistiche locali (le visite pastorali, innanzitutto) per giungere a quella conoscenza approfondita della mentalità e del vissuto di fede e devozione delle popolazioni rurali da tempo annunciata come la nuova frontiera della storiografia ecclesiastica in Italia, come già in Francia. Frutto di tali ricerche, oltre ad alcuni importanti convegni (tra cui, nel 1979, quello su La parrocchia in Italia nell’età contemporanea), sono la pubblicazione di un periodico («Ricerche di storia sociale e religiosa, 1972-), di una «Biblioteca di storia sociale» (1973-) e di una collana di regesti di visite pastorali (Thesaurus Ecclesiarum Italiae recentioris aevi, saecc. XVIII-XX). Un’iniziativa simile si registra anche in Piemonte, dove Franco Bolgiani, con alcuni colleghi dell’Università di Torino, fonda un «Centro studi sulla storia e sociologia religiosa del Piemonte» (1970) che concentra la propria attenzione specificamente sulle fonti ecclesiastiche locali di età contemporanea; per iniziativa dello stesso Bolgiani era nata, nel 1965, la «Rivista di storia e letteratura religiosa». Anche il nuovo e specifico settore di studio sul movimento cattolico può giovarsi, dal 1966, di una rivista specializzata, nella forma di “Bollettino” dell’Archivio del Movimento sociale cattolico in Italia, fondato nel 1962 da Mario Romani, economista dell’Università Cattolica di Milano. Sono sempre questi anni fecondi che vedono sorgere l’Associazione italiana dei professori di Storia della Chiesa (1967), prezioso strumento di coordinamento di un lavoro in crescita.

Negli ultimi due decenni del secolo XX, insieme ad una prevalente linea di continuità o, per meglio dire, di rinnovata insistenza sugli aspetti istituzionali o su singoli personaggi, si conferma e si approfondisce, in Italia, l’interesse della storiografia ecclesiastica – parallelamente a quanto avviene in quella generale – ai nuovi ambiti tematici e metodologici, di ordine spirituale (ad esempio, l’evolversi dei “modelli” di santità), culturale e sociale (la scuola, il sindacato, la riflessione politica), in ambito sia cattolico sia di altre confessioni cristiane, soprattutto quella valdese, con Valdo Vinay (1906-1990) e Giorgio Tourn. L’apertura di orizzonti vasti, quanto a metodo e a contenuti, caratterizza programmaticamente anche il nuovo periodico «Cristianesimo nella storia» che nasce a Bologna, all’aprirsi degli anni ’80, come emanazione del già citato Istituto di scienze religiose. A fronte di un ritardo piuttosto pesante, in Italia, nel predisporre repertori ed edizioni di fonti, vanno ricordate alcune iniziative notevoli. Tra i repertori, la Guida degli Archivi diocesani d’Italia (1990-1998) appare significativamente in una collana del Ministero dei beni culturali; per le edizioni di fonti, si segnalano i regesti delle lettere pastorali dei vescovi (1986-), a cura di Daniele Menozzi, e la pubblicazione, diretta da Silvio Ferrari, dei sinodi diocesani celebrati nell’Italia post-unitaria (1987-). Con il Dizionario storico del movimento cattolico in Italia – pubblicato tra il 1980 da F. Traniello e G. Campanini tra il 1981 e il 1984, arricchito, nel 1997, da un volume di Aggiornamento -, questo filone di studi avviato nel secondo dopoguerra giunge, non soltanto ad un punto significativo di sintesi, bensì anche alla piena assunzione di quell’ampio orizzonte tematico che si era andato progressivamente aprendo, così da mantenere e approfondire il collegamento con la storia della Chiesa in generale, da un lato, e con le vicende italiane, dall’altro. Nuove ricerche si avviano a riguardo di fenomeni caratterizzanti il cattolicesimo italiano del Novecento, quali l’Azione Cattolica e la Democrazia cristiana (Malgeri), o di alcune problematiche vicende, come le due guerre mondiali. Oggetto di un discreto interesse risultano anche le nuove iniziative monastiche di epoca contemporanea e le vicende degli Istituti religiosi la cui conoscenza, peraltro, è grandemente favorita dall’ampio Dizionario degli Istituti di perfezione (1974-2003), diretto da Giancarlo Rocca. Una certa distanza cronologica ormai raggiunta rispetto al concilio Vaticano II, avvenimento centrale per la Chiesa contemporanea, con stretti legami alla specifica situazione italiana, favorisce l’avvio di una intensa stagione di ricerche sul concilio, culminata, allo spirare del secolo, nell’imponente Storia in cinque volumi (1995-2001) prodotta nell’ambito dell’Istituto, poi Fondazione per le scienze religiose di Bologna, frutto di un ampio lavoro collettivo di reperimento delle fonti nonché di intensi confronti e collaborazioni internazionali, guidato con tenacia e lungimiranza da Giuseppe Alberigo (1926-2007); alle ricerche sul concilio si intrecciano quelle sui due papi che ne furono protagonisti: Giovanni XXIII e Paolo VI, per il quale va ricordato anche l’omonimo Istituto di Brescia, attivo dalla fine degli anni ‘70. Ravvivata dalla nuova consapevolezza offerta dal Vaticano II alle Chiese locali, la storia delle diocesi, dopo qualche tentativo a livello regionale – quale la Storia religiosa della Lombardia (1986-), o quella del Veneto (1991-) sembra incamminarsi, finalmente, ad una visione d’insieme, sia con i primi studi sulle conferenze episcopali (regionali e nazionale), sia con il dizionario de Le diocesi d’Italia (2008). I positivi sviluppi storiografici degli ultimi decenni si intrecciano, peraltro, con una produzione fin troppo ampia e dispersiva, spesso ripetitiva, con un eccesso, soprattutto, di pubblicazioni di carattere celebrativo (per fatti e personaggi del passato, ma anche per autori del presente).

Nel suo complesso, il lavoro storiografico sulla Chiesa in Italia dall’Unità ad oggi risulta intenso e fecondo, soprattutto se si tiene conto dell’arco cronologico ancora relativamente breve. Rimangono in atto, d’altra parte, limiti notevoli: una persistente separatezza, rispetto al panorama storiografico generale, delle ricerche di ambito ecclesiastico, a cui corrisponde specularmente una condizione di marginalità della dimensione religiosa ed ecclesiastica nelle stesse opere di sintesi sulla storia di un paese, come l’Italia, di così vasta e determinante presenza cattolica (o forse proprio in reazione a questo fatto). Ancora desiderata è una sistematica e continuativa pubblicazione di repertori e di fonti, così come un’efficace coordinazione nazionale del lavoro storico-ecclesiastico.

Fonti e Bibl. essenziale

G. Battelli, La recente storiografia sulla Chiesa Italiana nell’età contemporanea, «Rivista di storia della Chiesa in Italiaۚ», 61 (2007), 461-500; A. Canavero, La storia religiosa contemporanea in Italia (1980-1993), «Anuario de historia de la Iglesia», 4 (1995), 307-330; A. Canavero, Cinquant’anni di storiografia sul “movimento cattolico” italiano, in E. Fumasi (ed.), Mezzo secolo di ricerca storiografica sul movimento cattolico in Italia dal 1861 al 1945. Contributo a una bibliografia, La scuola, Brescia 1995, 7-72; F. Chiarini – L. Giorni (edd.), Movimenti evangelici in Italia dall’Unità ad oggi. Studi e ricerche, Claudiana, Torino 1990; F. de Giorgi, La storia locale in Italia, Morcelliana, Brescia 1999; L. de Rosa (ed.), La storiografia italiana degli ultimi vent’anni. Atti del convegno della Società degli storici italiani (Arezzo, 2-6 giugno 1986), III, Età contemporanea, Laterza, Roma- Bari 1989; La storiografia italiana negli ultimi vent’anni. Atti del I congresso nazionale di scienze storiche (Perugia. 1967), Marzorati, Milano 1970; G. Martina, Storia della storiografia ecclesiastica nell’Otto e Novecento (parte prima), Pontificia università gregoriana, Roma 1990, ristampa 2008; G. Martina, La storiografia italiana sulla Chiesa dal Vaticano I al Vaticano II, in Associazione italiana dei professori di storia della Chiesa (ed.), Problemi di storia della Chiesa dal Vaticano I al Vaticano II, Dehoniane, Roma 1998, 15-105; G. Penco, Gli studi italiani di storia della Chiesa nel secondo dopoguerra, «Renovatio», 14 (1979), 237-247; 373-383; G. Penco, La storiografia ecclesiastica italiana nel periodo fra le due guerre, «La scuola cattolica», 106 (1978), 461-477; S. Xeres, Storia della Chiesa, in G. Canobbio – P. Coda (edd.). La teologia del XX secolo. Un bilancio, I, Prospettive storiche, Città nuova, Roma 2003, 204-247.


LEMMARIO




Teatro - vol. II


Autore: Bernadette Majorana

Con l’unificazione nazionale la Chiesa non esercita più il potere politico e culturale che per quasi due millenni l’avevano resa attiva nel controllo e nella promozione delle manifestazioni teatrali: il contributo diretto del papato, della curia, degli ordini regolari, un tempo essenziale nel panorama spettacolare del Paese, e spesso dominante nella vita pubblica della società civile, diventa limitato e segmentato. Il legame fra teatro e fede permane in ambito popolare, col sostegno di vescovi e parroci: con quelle del calendario agricolo (maggio, Carnevale), canti, balli, narrazioni epiche o agiografiche, nel secondo Ottocento si rinsaldano forme drammatico-rituali legate alle maggiori feste cattoliche, soprattutto la Settimana santa e le feste patronali, espressione dei tempi forti dell’anno e di legami comunitari. Si afferma intanto, specialmente nelle città, una fitta offerta di spettacolo, articolata secondo i ritmi individuali della vita quotidiana e lavorativa. Il teatro è una pratica generalizzata, eterogenea, per tutti i ceti. In ogni centro del Regno si costruisce il teatro cittadino, emblema della progettualità civile e politica borghese: vi si dà soprattutto l’opera lirica, vero teatro nazionale. Il teatro drammatico è imperniato sui cosiddetti grandi attori, che accentrano su di sé tutta l’attenzione, incarnando prepotentemente il personaggio, subordinando alla interpretazione i testi (da Shakespeare ad Alfieri, a Goldoni, a Ibsen), dominando l’intero spazio scenico; gli autori operano per loro e spesso con loro. Acquistano influenza i critici professionisti.

Secondo la tendenza internazionale prevalente, la drammaturgia italiana si orienta verso il dramma borghese. L’impianto realista esalta i rapporti tra individuo e società e le psicologie dei personaggi (Verga, Giacosa, Carlo Bertolazzi); l’impiego del dialetto produce esiti notevoli. D’Annunzio compone le sue tragedie opponendosi al verismo (dal 1911, dopo l’ambigua sintesi erotico-sacra di Le Martyre de saint Sébastien, tutte le sue opere vengono messe all’Indice). Nelle inquietudini del Novecento, con mezzi sperimentali e rinnovati, da Pirandello, punto di riferimento della drammaturgia internazionale e della sperimentazione registica (Nobel per la letteratura 1934), al Massimo Bontempelli del realismo magico, all’espressionismo lirico di Pier Maria Rosso di San Secondo, all’inchiesta sulla verità e sulla responsabilità di Ugo Betti, la contraddizione tra intima autenticità e convenzioni sociali è sottoposta a critica radicale. I sacerdoti sono figure non rare sulle scene italiane: da buoni o da cattivi pastori partecipano delle tensioni delle coscienze, nel quadro minuto delle vicende quotidiane o negli scontri tra individui e morale comune, come l’abate infido del notissimo La morte civile di Paolo Giacometti (1861, con Ernesto Rossi) o i patrioti di Dall’ombra al sol di Libero Pilotto (1880, compagnia Moro Lin) e Prete Pero di Dario Niccodemi (1918, con Ermete Zacconi), sospeso dalla censura dopo gli attacchi della stampa cattolica; oppure sono provati da acuti patimenti interiori, come in Il piccolo santo di Roberto Bracco (1912, con Ferruccio Garavaglia). Al di là del credo degli autori e delle loro scelte estetiche, il teatro si fa anche documento culturale della religiosità degli italiani: rituale, superstiziosa quella di Cavalleria rusticana di Verga (1884, con Eleonora Duse) o di La figlia di Jorio di D’Annunzio (1904, con Irma Gramatica e Ruggero Ruggeri); bigotta, nell’universo familiare impietoso di Il rosario di De Roberto (1912, con Maria Melato); attraversata dalla tensione tra scienza e fede nei drammi di Enrico Annibale Butti; pervasa di una sacralità rivelata dalla bestemmia in Sagra del Signore della nave, o dogmatica, insidiata dal rifiuto del sacerdozio e dalla inspiegabilità del miracolo in Lazzaro, entrambi di Pirandello (1925, con Lamberto Picasso ed Egisto Olivieri; 1929, con Picasso e Marta Abba).

Più dei testi sono però la peculiare organizzazione degli attori italiani e il loro carisma recitativo a determinare il sistema teatrale e l’interesse degli spettatori. Riuniti in compagnie girovaghe, si spostano di città in città vivendo degli incassi delle rappresentazioni; fanno il loro apprendistato in scena (tranne pochi esperimenti, fino al 1935 non ci sono istituzioni accademiche per la formazione teatrale); i maggiori sono acclamati anche all’estero: la Duse esercita un’influenza senza pari in tutto il mondo. Guardano ai modelli recitativi dei professionisti anche le compagnie filodrammatiche, sorte negli ambienti più diversi. Il teatro è ritenuto un’utile pratica pedagogica nelle scuole, negli oratori, nelle parrocchie: si afferma in quest’ambito il teatro salesiano di don Bosco, inteso come esperienza edificante e ludica. In esso, il divieto di formare compagnie miste esprime il timore della promiscuità e delle seduzioni ravvisato nel teatro di mestiere, che in Italia è caratterizzato dalle famiglie d’arte, la cui vita fa tutt’uno col teatro, e dalla convivenza di uomini e donne al di fuori del sistema comunitario e domestico corrente. Benché non più richiamato in forma polemica, anche l’antico argomento teologico-morale della finzione come espressione della natura demoniaca di attori e attrici rimane sullo sfondo della percezione sociale che di essi generalmente si ha: un universo parallelo a quello delle persone comuni.

Il regime fascista attua una politica di accentramento dell’organizzazione delle tournée delle compagnie, a cui eroga finanziamenti statali, e della censura; controlla ugualmente le attività filodrammatiche. Nel 1933 si apre la sezione di prosa del Maggio musicale fiorentino: Jacques Copeau, uno dei massimi registi europei, allestisce nel chiostro di Santa Croce La rappresentazione di Santa Uliva, spettacolo subito leggendario, modello di una possibile rifondazione morale del teatro secondo la ricerca rigorosa e autenticamente religiosa di bellezza e verità, così come in Italia la concepisce anche Silvio D’Amico, critico e storico del teatro, poi fondatore dell’Accademia nazionale d’arte drammatica (Roma, 1935) e della Enciclopedia dello spettacolo, un progetto editoriale senza precedenti, avviato nel 1949. Dal 1934, a Venezia, è attiva la Biennale internazionale del teatro. Nel 1943, caduto Mussolini, alcuni giovani, marxisti e cattolici (Orazio Costa, Diego Fabbri, Gerardo Guerrieri, Vito Pandolfi, Tullio Pinelli), redigono un appello «Per un teatro del popolo», teatro d’impegno, libero di manifestare le aspirazioni morali e sociali degli italiani.

Col secondo dopoguerra, mentre provengono dalle scene meditazioni importanti come quelle di Eduardo De Filippo, attore-drammaturgo centrale nell’Italia a venire, il teatro s’impone come possibile condizione di ripresa civile. Vi contribuiscono alcune personalità del mondo cattolico: oltre a D’Amico, già molto autorevole, i citati Costa e Fabbri, l’uno regista e docente all’Accademia, dove forma generazioni di attori, l’altro drammaturgo, i cui personaggi sono posti sempre di fronte a un’opzione di fede, attivo nel nuovo sistema teatrale italiano; nonché Mario Apollonio, tra i fondatori del primo teatro stabile pubblico italiano, il Piccolo Teatro (Milano 1947), dal 1954 primo docente di storia del teatro in una università italiana, la Cattolica di Milano, dove esercita un influente magistero, basato sull’idea di comunità e coralità dell’esperienza teatrale.

I primi registi italiani (Costa, Giorgio Strehler, Luigi Squarzina, Pandolfi, Gianfranco De Bosio, Luchino Visconti) basano le messinscene su una concezione unitaria di spettacolo e stile recitativo. Con la fine degli anni ’50 ciò che non appartiene al binomio teatro di regia-teatri stabili, assurto a norma delle scene italiane, è respinto ai margini. Si formano allora attività minoritarie, intenzionalmente separate dal teatro ufficiale, da cui emergono personalità come quelle formidabili di Carmelo Bene e Dario Fo (Nobel per la letteratura 1997), che con la sua rielaborazione attoriale e drammaturgica delle antiche pratiche comiche e affabulatorie rilegge in chiave politico-ideologica il conflitto tra umili e potenti: nel 1977 la trasmissione televisiva del suo Mistero buffo, rappresentato sin dal 1969, produce un duro scontro con la Chiesa che lo accusa di blasfemia tramite «L’Osservatore romano» e «Avvenire».

Tendendo a costruire una drammaturgia del corpo e dello spazio che esautori le pratiche del teatro borghese, quello di intrattenimento come quello impegnato, gruppi e singoli artisti diversi per ispirazione e metodi si accostano a maestri delle scene internazionali (Living Theatre, Jerzy Grotowski, Tadeusz Kantor, Peter Brook, Eugenio Barba), i cui spettacoli e modelli di lavoro irrompono con gli anni ’60 nella riflessione teorico-pratica, e guardano attentamente a talune esperienze cruciali di performance e contaminazione delle arti (Bread and Puppet Theater, Meredith Monk, Robert Wilson). In questi ambiti, negli anni ’70 e ’80 e in seguito, si manifestano esperienze e si delineano percorsi che, ispirati da istanze partecipative, rituali, festive, riconsiderano le pratiche della tradizione cristiana e la possibilità di reinventarla.

Sono polemici sia con la scena ufficiale sia con quella d’avanguardia drammaturghi come Pier Paolo Pasolini, che fonda le sue tragedie sulla fiducia nella parola, e Giovanni Testori, per il quale il teatro è esperienza lacerante, rivelatrice della complessità carnale e psichica dell’uomo corrotto, compenetrato col peccato, e insieme della sua appartenenza all’eterno: nel 1961, L’Arialda, regia di Visconti, viene sospesa per oscenità e offesa al pudore.

Negli stessi anni ’70-’80 il teatro è anche strumento di animazione sociale: è presente nelle scuole, negli oratori, nelle fabbriche, nei manicomi, nei carceri, nei quartieri decentrati; il rifiuto del teatro come prodotto corrisponde alla importanza attribuita al processo creativo e al diritto alla espressione per tutti. Le esperienze di ricerca sono feconde lungo tre generazioni di artisti, comunità, spettatori: con molte trasformazioni e innovazioni, si configurano come eccezioni nel panorama del teatro commerciale, anche di alto livello, e aspirano a restituire l’essenza del teatro nella interazione fra etica ed estetica.

Fonti e Bibl. essenziale

M. Apollonio, Storia del teatro italiano, edizione critica a cura di F. Fiaschini, 2 voll., Rizzoli BUR, Milano, 2003; C. Bernardi, La drammaturgia della Settimana santa in Italia, Milano, Vita e Pensiero, 1991; C. Bernardi, Il teatro sociale. L’arte tra disagio e cura, Carocci, Roma, 2004; S. D’Amico, Dramma sacro e profano, Tumminelli, Roma, 1942; S. D’Amico, Storia del teatro drammatico, 4 voll., Rizzoli, Roma-Milano, 1939-1940; S. Dalla Palma, La scena dei mutamenti, Vita e pensiero, Milano, 2001; S. Dalla Palma, Il teatro e gli orizzonti del sacro, Vita e pensiero, Milano, 2001; C. Meldolesi, Fondamenti del teatro italiano. La generazione dei registi, Bulzoni, Roma, 2008 (prima ed. 1984); C. Meldolesi, La microsocietà degli attori. Una storia di tre secoli e più, «Inchiesta» (XIV/1984, n. 63-64), 102-111; O. Ponte di Pino, Il nuovo teatro italiano, 1975-1988. La ricerca dei gruppi. Materiali e documenti, La casa Usher, Firenze, 1988; P. Puppa, Tonache in scena, in T. Caliò – R. Rusconi (edd.), Le devozioni nella società di massa, «Sanctorum» (5/2008), 51-65; F. Taviani, Uomini di scena uomini di libro. Introduzione alla letteratura teatrale italiana del Novecento, Il Mulino, Bologna, 1995.


LEMMARIO




Teologia - vol. II


Autore: Gianfranco Calabrese

Premessa. La teologia, in qualche modo, dopo il concilio di Trento fino al Vaticano e anche dopo l’unità di Italia, ha tentato, con alterne vicende e non sempre lineari risultati, un percorso di rinnovamento metodologico della teologia per superare le contraddizioni che derivavano dal controllo severo e dalla reazione ultramontana come emerge con la crisi modernista. La teologia cerca di rinnovarsi fondandosi sulla rivelazione e sulla tradizione patristica. Per questo nel periodo post-tridentino e soprattutto dopo il Vaticano I, la teologia ha un notevole sviluppo e produce anche una molteplicità di opere, espressione di alcune scuole teologiche presenti in Italia come in altre nazioni europee: la scuola domenicana, la scuola francescana, la scuola romana. Tuttavia la divisione ecclesiastica lungo la penisola in tre grandi zone finisce per influenzare la stessa posizione culturale e teologica della Chiesa nei riguardi dell’età moderna. Nella zona settentrionale, dove sono presenti i centri religiosi e culturali più sensibili alle sollecitazioni dell’epoca moderna, si sviluppano circoli culturali e centri teologici aperti al rinnovamento della teologia e alla riforma della Chiesa. Nella zona centrale, costituita per la maggior parte dallo Stato pontificio, il governo pontificio opera una censura delle nuove idee e delle nuove richieste politiche, filosofiche e culturali. Quest’atteggiamento causa la crescita di un’opposizione anticlericale, soprattutto dopo l’unità di Italia. Infine, nella zona meridionale, che comprende anche le isole, il dominio spagnolo non aiuta il rinnovamento e facilita il tradizionalismo culturale e teologico, il conservatorismo rituale e devozionale nella pastorale. All’interno di questo panorama ricordiamo alcune figure significative come Angelo Maria Querini (1680-1775), attento al dialogo con le altre chiese cristiane, il cardinale di Bologna Prospero Lambertini (1675-1758), l’abate Antonio Rosmini (1797-1835) e, sul versante politico, lo stesso Vincenzo Gioberti (1801-1852). La parentesi della rivoluzione francese (1789) e l’invasione napoleonica con il concordato italiano (1803), invece, influenzano solo marginalmente la cultura cattolica e la teologia italiana. La restaurazione, poi, riproponendo la frammentazione territoriale della penisola, blocca ogni innovazione socio-politica e civile e ogni apertura culturale dei circoli cattolici e liberali. I moti rivoluzionari del 1830-31 e quelli seguenti accentuano ancora la divisione tra i cattolici: una minoranza liberale e una maggioranza conservatrice. La politica dello Stato pontificio, dopo le prime aperture di Pio IX, è caratterizzata da una ferma chiusura verso ogni tipo di dialogo con il mondo moderno e con le nuove correnti culturali, teologiche ed ecumeniche.

La presenza in Italia dello Stato pontificio e il forte anticlericalismo del governo italiano influiscono sullo sviluppo dell’unità politica dello Stato nazionale e sul rinnovamento culturale e teologico della Chiesa in Italia. La nascita dal XVII° al XIX°secolo a Roma di molti Collegi nazionali, per la formazione del clero e di molte Facoltà teologiche, sponsorizzate da alcune Congregazioni religiose, producono un vivace confronto teologico, condizionato dalla fedeltà al magistero pontificio, dalla concezione apologetica delle fonti e da un rinnovato interesse alla questioni bibliche e patristiche. I rappresentanti più autorevoli di questa corrente neotomista si collocano all’interno di una continuità della tradizione scolastica: Bartolomeo Cappellari (1765-1846), eletto nel 1831 papa con il nome di Gregorio XVI (1831-1846); Giovanni Perrone (1794-1876); Carlo Passaglia (1812- 1887); Johan Baptist Franzelin (1816-1886); Tommaso Maria Zigliara (1833-1893); Domenico Palmieri (1828-1909), Francesco Satolli (1839-1910), Camillo Mazzella (1833-1900). Questa riflessione teologica, attenta alla dimensione gerarchica e societaria della Chiesa ma poco sensibile al dialogo con le altre chiese e comunità cristiane, incide sulla contrapposizione tra la cultura illuminista, romantica e positivista e la teologica cattolica e permette l’evoluzione di una teologia manualistica.

Con Leone XIII la corrente neotomista trova, nell’enciclica “Aeterni Patris” (4 agosto1879) (DS 3135-3140), un appoggio e un incoraggiamento. Tale enciclica richiede una particolare cura nella metodologia teologica, nei riguardi delle scienze e, particolarmente, della filosofia, che deve essere insegnata nel rispetto della fede cattolica. Vengono sostituiti, per questo, nelle Facoltà Teologiche a Roma, a Piacenza e a Napoli e in altri luoghi i professori che non si conformano al neotomismo e all’impostazione neoscolastica. In Italia nel secolo XIX° la teologia è considerata in una scienza a servizio della dottrina cattolica e del magistero della Chiesa. Dal momento che in Italia la riforma protestante, escluse alcune zone del nord-Italia (le Valli valdesi del Piemonte), non aveva avuto molta diffusione, alla teologia cattolica manca un attento confronto con il protestantesimo. La struttura fortemente verticistica e “gerarcologica” della Chiesa in Italia e la scarsa attenzione nei riguardi delle sollecitazioni del mondo moderno, proprie dei secoli XVIII° e XIX°, hanno contribuito a giustificare una teologia difensiva e chiusa ad ogni dialogo culturale, impermeabile alla molteplici sollecitazioni, che emergono dalla vita del popolo di Dio e solo concentrata sulle problematiche interne e sulla tutela del ruolo dell’autorità nella gestione della vita della Chiesa.

Lo sviluppo della teologia dal concilio Vaticano I (1869-1870) e verso il concilio Vaticano II (1962-1964): la teologia tra difesa e rinnovamento. La formazione dell’unità nazionale del Regno d’Italia, con la perdita violenta dello Stato pontificio e del potere temporale, accentua, in modo radicale, la mutua diffidenza tra la cultura cattolica e la cultura moderna del nuovo Stato. La teologia in Italia, anche se non direttamente, è influenzata da questo radicale anticlericalismo, da questo ostracismo non del popolo ma della maggioranza degli intellettuali e dei politici, che, dopo l’unità d’Italia, condizionano la politica sociale e culturale dell’Italia unita sotto la monarchia sabauda. La Chiesa si oppone a questa prevaricazione, accentuando la propria visione teologica, istituzionale e culturale in senso reazionario e conservatore, attraverso alcune correnti tradizionaliste, che erano contrarie ad ogni dialogo, collaborazione e anche alle nuove libertà politiche e civili, affermate dal nuovo Stato unitario. La prima corrente accusava la Chiesa cattolica di opporsi al sogno risorgimentale e all’unità d’Italia, la seconda, invece, accusava lo Stato italiano di aver voluto realizzare l’unità socio-politica contro gli interessi della Chiesa cattolica e in nome di una visione naturale della religione, secondo una concezione positivistica, illuministica e massonica dell’uomo e della società. Il Vaticano I, convocato da Pio IX durante il periodo di maggiore tensione tra la Chiesa e i diversi Stati e Regni, è accolto non solo con diffidenza da parte dei circoli politici e culturali, liberali e nazionalisti, ma anche da alcune correnti interne alla Chiesa cattolica. In seguito, è anche interpretato, in modo ambiguo, da chi lo aveva compreso come un’occasione per ristabilire e rinforzare la centralità del primato e del magistero pontificio e della visione gerarchica della Chiesa (tesi della corrente ultramontana), in contrapposizione a tutti coloro che desideravano rispondere ad alcune esigenze culturali, sociali, politiche proprie della cultura moderna (tesi del cattolicesimo liberale).

La crisi modernista e la condanna di alcuni teologi e uomini di cultura, sensibili alle rivendicazioni del mondo moderno, del rinnovamento biblico, patristico, storico e politico, creano una situazione di conflitto e di tensione tra la Chiesa cattolica ed il nuovo Regno d’Italia. Di fatto, questo condiziona lo sviluppo e il rinnovamento della teologia in Italia. La corrente modernista ha, in Italia, molti centri di Formazione ecclesiastica: a Roma si possono ricordare tra gli altri il Seminario dell’Apollinare, il Collegio Capranica e l’Università Gregoriana; e altri in Lombardia, in Liguria, in Toscana, in Emilia Romagna, in Umbria e in Campania. Alcuni rappresentanti di questa corrente ecclesiastica, sono: Salvatore Minocchi (1869-1943), Giovanni Genocchi (1860-1926), Ernesto Bonaiuti (1881-1946), Giovanni Semeria (1867-1931) e, in campo sociale e letterario, Romolo Murri (1870-1944) e Antonio Fogazzaro (1842-1911). Mentre la corrente conservatrice trova la propria espressione nella scuola romana e napoletana, con gli scritti di Mons. Umberto Benigni (1862-1934), e la «Rivista di Filosofia Neoscolastica», fondata nel 1909 da padre Agostino Gemelli (1878-1959) ed appoggiata dallo stesso papa Pio X (1903-1914).

Il Concilio Vaticano I (1869-1870). Questo clima, che caratterizza il periodo dal XVIII° al XIX° secolo fino al concilio Vaticano II, accentua la contrapposizione tra i diversi Stati europei, il Regno d’Italia e la Chiesa cattolica, viene rafforzato da alcuni fattori esterni alla stessa teologia come la questione romana, le leggi Siccardi sulla proprietà ecclesiastica (1850), la breccia di Porta Pia (1870), il non expedit (1871) che vieta la partecipazione dei cattolici alla politica del nuovo Stato unitario; ma anche da alcuni fattori interni come la lotta contro il modernismo e contro il cattolicesimo liberale, il difficile svolgimento del concilio Vaticano I e la sua ambigua e pregiudiziale accoglienza e recezione. Il concilio, voluto e guidato con decisione da Pio IX, fin dall’inizio è influenzato da una prospettiva difensiva e intransigente rispetto alle istanze liberali e moderne da parte di una maggioranza conciliare, comprendente il segretario di Stato, il cardinale G. Antonelli (1806-1876). In seguito, è recepito dalla maggioranza dei cattolici, dagli stessi governi nazionali e dalla maggioranza dei vescovi come un tentativo estremo, per ristabilire la centralità della Chiesa di Roma e del potere pontificio.

L’interpretazione postconciliare delle decisioni dottrinali del Vaticano I può essere collocata, tranquillamente, all’interno della contrapposizione tra la teologia difensiva cattolica e la cultura a moderna. In questo senso la cultura della seconda metà del XIX° secolo si allontana sempre più dai principi e dai valori antropologici e teologici della Chiesa cattolica. L’interpretazione ultramontana e la concezione apologetica della teologia e dell’ecclesiologia, invece, contribuisce ad elaborare il trattato sulla vera Chiesa di Cristo, che è la Chiesa cattolica romana. Questa concezione impedisce ogni dialogo ecumenico tra la Chiesa cattolica e le altre Chiese e comunità cristiane.

Queste intenzioni sono affermate, in modo esplicito, prima dell’inizio del concilio Vaticano I dalla rivista dei gesuiti, “La Civiltà Cattolica”, e riprese da alcune personalità del mondo cattolico. Esse condizionano la riflessione teologica, durante e dopo il Vaticano I, e influiscono sulla stessa recezione dei suoi documenti: la costituzione dogmatica «Dei Filius» sulla fede cattolica (24 aprile 1870) (DS 3000- 3045) e la prima costituzione dogmatica «Pastor aeternus» sulla Chiesa di Cristo (18 luglio 1870) (DS 3050-3075). Il primo documento sulla fede cattolica vuole contrastare il razionalismo, il fideismo, lo scientismo e proporre una concezione armonica tra la fede e la ragione. Il secondo documento sul primato e sul magistero infallibile del Papa, ha lo scopo di definire la dottrina cattolica sul ministero petrino. Molteplici sono le cause del progressivo allontanamento della Chiesa e della teologia dalla vita e dalle esigenze reali del popolo cristiano presente in Italia: l’interruzione forzata del concilio, il clima ostile, la diffidenza nei riguardi del clero e della gerarchia da parte dell’élite culturale dominante, progressista e radicale, l’allontanamento della borghesia e della classe operaia dagli insegnamenti dottrinali, sociali e morali della Chiesa cattolica e dalle sue stesse strutture formative e pastorali ecclesiali.

L’attenzione del mondo cattolico e della gerarchia nei riguardi delle questioni assistenziali, il contributo della Chiesa all’istruzione delle classi più povere, e lo sviluppo di una molteplicità di opere sociali soprattutto nelle regioni settentrionali sono il segno della vitalità della presenza e dell’azione della Chiesa cattolica e del suo magistero, teologico e morale: G.B. Bosco (1815-1888); G.B. Cotolengo (1786-1842); Francesca Cabrini (1850-1917); G. Bonomelli (1831-1914); G.B. Scalabrini (1839-1905). La stessa formazione del clero, nell’ottocento e nel novecento in Italia, si caratterizza per la preoccupazione rituale della pastorale e devozionale della teologia e della spiritualità. Essa è legata ad una predicazione tradizionale, preoccupata più dell’ortodossia che del dialogo culturale con il mondo moderno, più attenta a difendere e custodire che a rispondere alle esigenze reali del popolo cristiano. Questo clima generale, di fatto, impoverisce la riflessione teologica in Italia e rallenta il necessario dialogo. Inoltre dopo alcune tenue aperture socio-politiche, alcune riforme nel campo della promozione del laicato e dell’associazionismo cattolico sotto il lungo pontificato di Leone XIII (1878-1903), a causa dell’intensificazione della lotta antimodernista da parte di Pio X (1903-1914) e della Curia romana ha un’accentuazione del clima di sospetto e di diffidenza nei riguardi degli intellettuali, seguaci delle nuove teorie filosofiche, scientifiche e politiche, legate al positivismo, all’idealismo e al romanticismo, e di alcuni teologi, vescovi e intellettuali cattolici, colpevoli semplicemente di voler dialogare con la nuova cultura. Essi, all’interno di alcuni Seminari, Università pontificie, Collegi di formazione, manifestano un particolare interesse con le nuove istanze di rinnovamento, per ricercare più adeguate espressioni di fede dei dogmi cattolici.

Alcuni teologi vogliono superare, anche in Italia, la teologia neoscolastica, troppo strutturata, spesso ripetitiva e poco attenta al rinnovamento della ricerca storico-esegetica e patristica del novecento. Il decreto del S. Uffizio «Lamentabili» (3 luglio 1907) (DS 3401-3466), è confermato da Pio X con il primo documento papale contro il modernismo, l’enciclica «Pascendi domini gregis» (8 settembre 1907) (DS 3475-3500) e il giuramento antimodernista, il Motuproprio «Sacrorum antistitum» (1 settembre 1910) (DS 3537-3550). Questo giuramento è obbligatorio per il clero impegnato nella pastorale, per gli insegnanti di religione e di teologia. L’abolizione per legge da parte dello Stato, sin dal 1871, della presenza delle Facoltà di teologia nelle Università pubbliche influisce ancor di più sull’allontanamento e sulla dicotomia tra la cultura laica e la teologia cattolica in Italia e sollecita la teologia a diventare una semplice disciplina, finalizzata alla formazione dottrinale, spirituale e pastorale del clero diocesano e dei religiosi nei seminari e nelle Facoltà teologiche. La teologia, in questo modo, lungo la via tracciata sia dal concilio di Trento sia dal Vaticano I, diventa sempre più manualistica, apologetica, preoccupata a difendere i dogmi ed a dimostrare le posizioni del magistero e della fede cattolica. Essa, nel periodo seguente al concilio Vaticano I, diventa sempre più confessionale e interessata a presentare la Chiesa cattolica romana come l’unica e vera Chiesa di Cristo e a combattere le eresie e le false concezioni filosofiche, sociali e teologiche del mondo moderno.

Verso il Vaticano II. Il dramma della prima guerra mondiale (1915-1918), la partecipazione dei cattolici al conflitto, il loro impegno nella difesa del territorio nazionale e nella ricostruzione post-bellica, il pontificato di Benedetto XV (1914-1922), attento alle relazioni diplomatiche e aperto all’impegno dei cattolici nella vita sociale e politica dell’Italia, sono le ragioni che hanno permesso la nascita del partito «popolare» di ispirazione cattolica, fondato nel 1919 da don Luigi Sturzo. La stessa attenzione, tuttavia, non si è manifestata da parte dell’Episcopato e del Papa nei riguardi del rinnovamento in campo teologico e dottrinale. La teologia in Italia, infatti, è rimasta negli anni precedenti al Vaticano II, confinata all’interno degli ambienti formativi e protetti dei Seminari e dei centri di spiritualità e, per questo, sotto lo stretto controllo dell’autorità dei vescovi diocesani e della stessa Curia romana, che con il S. Ufficio dovevano verificare l’ortodossia e la fedeltà dei teologi, dei loro scritti e del loro insegnamento. Questa linea di tendenza non si è attenuata sotto il pontificato sia di Pio XI (1922-1939) sia di Pio XII (1939-1958).

Dal punto di vista dell’impostazione e dello sviluppo della teologia si possono ricordare di Pio XI l’enciclica «Studiorum ducem» (29.06.1923) (DS 3665-3667) sul carattere vincolante della dottrina di Tommaso d’Aquino; l’enciclica «Mortalium animos» (06.01.1928) (DS 3683) sulla funzione e l’ambito del magistero ecclesiastico; la Costituzione «Deus Scientiarum Dominus» (24.05.1931) (AAS 23) sugli studi teologici; di Pio XII l’enciclica «Mystici corporis» (29.06.1943) (DS 3800-3822) sul mistero della Chiesa; l’enciclica «Divino afflante Spiritu» (30.09.1943) (DS 3825-3831) sull’adeguata ricerca storico-critica della sacra Scrittura; l’enciclica «Mediator Dei» (20.11.1947) (DS 3840-3855) sul significato della sacra Liturgia; la costituzione apostolica «Sacramentum Ordinis» (30.11.1947) (DS 3857-3861) sul sacramento dell’Ordine; la lettera del S. Uffizio all’arcivescovo di Boston (08.08.1949) (DS 3866-3873) sull’uso del principio «al di fuori della Chiesa nessuna salvezza»; l’enciclica «Humani generis» (12.08.1950) (DS 3875-3899) sui nuovi sviluppi e pericoli della teologia.

La teologia italiana, prima del Vaticano II, vede in questa prospettiva alcune influenti personalità, che hanno cercato di rinnovare, nel rispetto delle esigenze neo-scolastiche e del magistero ufficiale della Chiesa, la riflessione teologica: Pietro Parente (1891-1986) e Antonio Piolante (1911-2001). Un cammino teologico, originale, innovatore, più attento alle esigenze e alle sollecitazioni della teologia e alle richieste dei movimenti biblico, patristico ed ecumenico, può essere verificato in alcuni autori italiani, anche se in tono minore rispetto alla Germania, alla Francia, al Belgio, all’Olanda e alla Svizzera. Circa gli studi biblici è bene ricordare l’opera di Alberto Vaccari (1875-1965), di Giuseppe Ricciotti (1890-1964) e di Salvatore Garofalo (1911-1998). Per lo sviluppo del pensiero patristico in Italia è importante la pubblicazione di tutta una serie di opere e collane patristiche, anche se avvenuta in modo incostante, come «Nova Patrum Bibliotheca», «Corpus scriptorum latinorum Paravianum», «Corona Patrum» Salesiana e «Classici Cristiani» e gli studi di Ubaldo Mannucci sulle «Istituzioni di Patrologia» e di Umberto Moricca sulla «Storia della patrologia». Anche il movimento liturgico ha avuto rappresentanti autorevoli, che hanno influenzato la riflessione del Vaticano II sulla teologia e sulla liturgia: Dom Alfredo Ildefonso Schuster (1880-1954), in seguito cardinale a Milano; Giacomo Lercaro (1981-1976), in seguito cardinale a Bologna; l’abate Mario Righetti (1882-1975); a Genova, con l’Apostolato liturgico, Mons. Giacomo Moglia; Vagaggini Cipriano (1909-1999). La rinascita tomista, iniziata nel XIX secolo a partire da Leone XIII, rende l’Italia la culla del neotomismo con l’opera di Matteo Liberatore (1810-1892), Luigi Tappareli d’Azeglio (1793-1862), Geatano Sanseverino (1811-1865) e, nel XX secolo, Amato Masnovo (1880-1955), Cornelio Fabro (1911-1995), Francesco Olgiati (1886-1962), Sofia Vanni Rovighi (1908-1990). Dal punto di vista del rinnovamento della riflessione teologica incide l’opera teologica di Carlo Colombo (1909-1991) prima e durante il concilio Vaticano II e nella teologia post-concilio. Egli, nel suo insegnamento, presso la ripristinata Facoltà teologica del seminario di Milano, tenta di uscire dallo studio teologico presente in Italia, legato allo schema ripetitivo della manualistica e delle formule dogmatiche, per una nuova metodologia teologica. Carlo Colombo cerca di ripensare sia l’insegnamento teologico dogmatico sia lo statuto della teologia come “scienza” del mistero cristiano nella prospettiva storico- sistematica in dialogo con il pensiero filosofico soprattutto francese e tedesco. Per il teologo Colombo la riflessione teologica non è fine a se stessa, ma alla carità.

Dunque, la presenza del Papa, vescovo di Roma e guida della Chiesa universale, e l’influenza della Curia romana condiziona inevitabilmente lo sviluppo della ricerca teologica italiana, rallentano le richieste delle nuove correnti pastorali, culturali e teologiche in Italia e non tengono in giusta considerazione le esigenze, che emergevano dalla vita quotidiana del popolo di Dio. Tuttavia queste condizionamenti non impediscono la penetrazione in Italia e nella Chiesa italiana di alcuni movimenti di riforma, sorti in altre nazioni come la Francia e la Germania e che di fatto hanno il merito di preparare già nella prima parte del XIX° secolo, soprattutto, dopo la fine della seconda guerra mondiale (1939-1945) e negli anni 1950- 1960, le idee ispiratrici del concilio Vaticano II. La teologia si è lasciata guidare dalle prospettive originali ed ispiratrici dei movimenti biblico, liturgico, patristico, ecumenico e missionario. Questi movimenti non sono né ufficiali né organizzati, eppure hanno il merito di sostenere gli studi e le ricerche di alcuni teologici e storici, che, spesso nella diffidenza della Chiesa e, alcune volte, nell’incomprensione, influiscono per il loro ruolo nell’insegnamento e per la loro funzione pastorale e culturale nella preparazione di teologi e pastori. Essi permettono e preparano il rinnovamento e la riforma del concilio Vaticano II: Romano Guardini (1885-1968); Odo Casel (1886-1948); Karl Rahner (1904-1984); Ugo Rahner (1900-1968); Marie-Dominique Chenu (1895-1990); Jean Daniélou (1905-1974); Henri De Lubac (1896-1991); Yves Congar (1904-1995); Hans Urs von Balthasar (1905-1988); Edward Schillebeeckx (1914-2009); Hans Küng (1928); Joseph Ratzinger (1927). La conoscenza e lo studio di questi autori stranieri è possibile per il fatto che in Italia si è ha la possibilità di accedere alle loro opere in lingua originale e alla traduzione italiana, per merito di alcune case editrici. Nonostante alcuni autorevoli rappresentanti di questi movimenti, prima del concilio Vaticano II, siano stati costretti al silenzio e all’isolamento, le loro opere sono diventate, tra i teologi italiani, uno stimolo di riflessione e di approfondimento. Alcuni teologi italiani, in alcune occasioni, insieme ai loro colleghi stranieri hanno avuto la fortuna di partecipare a congressi, conferenze e seminari di studio, durante i quali questi teologi hanno condiviso le loro scoperte, le loro intuizioni e le loro proposte di rinnovamento. Infine, un ruolo non secondario al rinnovamento della teologia deve essere riconosciuto alle riviste teologiche e filosofiche, che hanno permesso la conoscenza e la diffusione delle nuove ricerche in campo teologico, storico-biblico, patristico, liturgico e filosofico.

La teologia italiana nel concilio Vaticano II e nel post-concilio in dialogo con le altre scienze. L’attuazione del concilio Vaticano II è un’occasione provvidenziale per il rinnovamento e lo sviluppo della teologia italiana. Infatti, molti teologi italiani hanno avuto la possibilità di collaborare con i vescovi e con gli altri colleghi stranieri sia nella fase della consultazione (1959-1960), nella commissione teologica preparatoria e nell’elaborazione e nella definizione degli stessi documenti conciliari. Per molti aspetti è possibile verificare l’influsso di alcuni teologi su molte affermazioni del Vaticano II. Il concilio ha certamente inciso sull’elaborazione di una rinnovata concezione della natura e della funzione della teologia come risulta da affermazioni contenuti in importanti documenti conciliari: OT 15-16-17; PO19; GS 53-54.62. Da questi e da altri testi conciliari è possibile indicare alcuni principi di rinnovamento, che il Vaticano II ha ribadito rispetto alla natura, alla funzione e alla missione della teologia: a) la Scrittura è «anima di tutta la teologia»; b) l’importanza dello studio dei santi Padri; c) il necessario rapporto tra la teologia, la filosofia e le scienze umane e, in generale, con la cultura; d) la valorizzazione della spiritualità. Per la teologia la santità, l’agiografia e la prassi testimoniale devono essere accolte come «luoghi teologici pratici»; la stessa teologia deve porsi a servizio della crescita e della maturazione della vita spirituale dei credenti; e) l’attenzione della teologia al laicato.

Queste prospettive permettono di descrivere una rinnovata visione della natura e della funzione della teologia in ordine alla missione della Chiesa nel mondo. Dall’esperienza conciliare la teologia può abbozzare, anche in Italia, un proprio e originale percorso innovativo. D’altronde, lo stesso linguaggio magisteriale conciliare nel periodo postconciliare è certamente cambiato rispetto all’epoca precedente. Esso è maggiormente attento alla storia, alla cultura, alla dimensione salvifica e missionaria dell’annuncio evangelico per la vita dell’uomo, della società e del popolo di Dio. Questo stile è l’unica ragione che può giustificare il rinnovamento e la maturazione nella comunità cristiana di un più attento dialogo con il mondo e con le diverse culture dell’uomo e di una valorizzazione di una concezione antropologica e teologica, attenta all’evangelizzazione e alla promozione del bene comune e dell’armonia cosmica.

Il contributo della teologia italiana all’elaborazione della dottrina del Vaticano II non è oggettivamente né determinante né decisivo rispetto alle prospettive teologiche, elaborate in altre nazioni europee. Tuttavia, non si deve dimenticare il ruolo di alcune personalità e teologici italiani, che hanno influito sulla elaborazione di una innovativa e originale ricerca teologica. La teologia nel periodo postconciliare sa fondare il rinnovamento della fede e della morale nella tradizione dei primi secoli dell’era cristiana, in ascolto delle esigenze del mondo. Il ritorno alle fonti e l’apertura al mondo sono i due aspetti che permettono lo sviluppo, anche in Italia, della teologia, scienza e riflessione critica della fede sulla vita dell’uomo, del mondo e della Chiesa. La teologia del XX° e del XXI° secolo elabora un percorso idoneo e scientifico, capace di incidere culturalmente sulla Chiesa e sulla società contemporanea. Questa potenzialità critica richiede ancora uno sviluppo reale e conseguenziale.

Nel periodo post-conciliare il sodalizio tra il magistero ecclesiastico e il ministero teologico ha alterni e contraddittori sviluppi. Infatti, la teologia ha il grande merito di mantenere viva la recezione del concilio Vaticano II, di vigilare e di stimolare, al tempo stesso, sul magistero e sulla comunità cristiana a riguardo della reale rilevanza pastorale ed istituzionale delle indicazioni dottrinali conciliari. Questo ruolo in alcune occasioni si è sostituito al ruolo ministeriale del magistero gerarchico. Per questo, l’interpretazione teologica, in alcune occasioni, non ha rispettato la recezione dei documenti conciliari, ne ha modificato la finalità e ha finito, in modo consapevole o inconsapevole, per forzare le stesse intenzioni dei Padri e dei testi conciliari. Il dissenso cattolico in Italia è un esempio paradigmatico di quella corrente teologico-pastorale, che in nome dello “spirito del concilio”, ha tentato di contrapporre la prassi della Chiesa, popolo di Dio, con la dottrina della Chiesa gerarchica, la Chiesa «popolare» alla gerarchia, la comunità di base con la Chiesa ufficiale. In questa prospettiva si comprende anche il rapporto della teologia postconciliare con i movimenti e le associazioni legate al movimento studentesco del ’68, condizionato da una concezione marxista e socialista del cristianesimo. Lo sviluppo, ambiguo e contraddittorio, della teologia in Italia in questi ultimi quarant’anni giustifica anche una reazione forte da parte di alcuni settori tradizionalisti, presenti nella Chiesa e nella teologia. Essi, non avendo accolto con entusiasmo il rinnovamento conciliare, tentano di recuperare, nella dottrina e nella pastorale, alcune istanze conservatrici e reazionarie in nome della fedeltà e della purezza del concilio e della tradizione. Anche questo conflitto non permette lo sviluppo di un’effettiva collaborazione, anche se dialettica, tra la teologia e il magistero nella Chiesa cattolica. La teologia continua, in Italia, ad essere considerata una disciplina funzionale, che ha come fine primario la formazione del clero e dei laici impegnati, che si esercita all’interno di alcune strutture ufficiali e che si struttura all’interno della difesa e della giustificazione del magistero e dei dogmi della Chiesa. Certamente sono aumentati i Centri di ricerca teologica, le Facoltà teologiche, gli Istituti superiori di Scienze religiose. Sono aumentati i soggetti interessati alla studio della teologia e sono sorti promettenti Centri Interdisciplinari, dove la teologia è considerata all’interno della formazione come disciplina fondamentale: l’Università Cattolica di Milano e la Libera Università di Urbino e di Roma. Tuttavia questo non aiuta, in generale, la qualità e la stessa scientificità della proposta teologica, né permette alla teologia di incidere sulla cultura italiana.

Le diverse riforme della «Ratio studiorum» delle Facoltà teologiche e dei Centri di Formazione teologica da parte della Congregazione per l’educazione cattolica non producono un’armonizzazione sui criteri e sui percorsi disciplinari, riguardo anche la formazione dei docenti e degli studenti. Ma aumenta, purtroppo, la confusione e l’ambiguità, e il rinnovamento della teologia in Italia è rallentato da posizioni conservatrici e all’interno di un sistema centralizzante. Sono aumentati gli strumenti di lavoro teologico come le riviste, i dizionari e i manuali, sono sorte nuove associazioni teologiche (la prima associazione teologica italiana ATI è nata nel 1967 a Napoli), ma il rinnovamento della teologia, secondo le indicazioni del Vaticano II, resta ancora latente, soprattutto per quanto riguarda il dialogo ecumenico ed interreligioso, l’apertura alla cultura e la ricerca di uno specifico e scientifico statuto metodologico delle scienze teologiche. Occorre investire maggiormente nella formazione dei docenti, dei presbiteri, dei religiosi, dei laici, soprattutto di coloro che sono chiamati a svolgere a tempo pieno la funzione di ricerca e di insegnamento teologico. È necessario, per questo, investire economicamente negli Istituti di ricerca e nelle biblioteche interne alla Facoltà teologiche. È fondamentale stimolare una maggiore e più incisiva collaborazione tra gli Istituti di ricerca teologica e gli Istituti universitari statali, sfruttando i nuovi spazi di comunicazione come la Rete e il Web. Inoltre, in virtù delle sfide culturali e pedagogiche, presenti anche in Italia, e in ragione della globalizzazione si devono superare alcune riduttive e provinciali concezioni della natura e della funzione della teologia: la teologia come semplice disciplina finalizzata alla formazione e alla conoscenza catechistica del cristianesimo. È necessario, anche, smascherare la falsa visione di coloro che considerano la teologia come un’attività accademica che non ha nessuna rilevanza pastorale, o di coloro che riducono la pastorale a pura strategia di evangelizzazione, senza alcun riferimento teologico e culturale. Invece, la teologia del terzo millennio deve promuovere la competenza professionale del teologo, stimolare la Chiesa a riconoscere nella ministerialità del teologo un dono ed un servizio per la crescita della comunità cristiana. Occorre ampliare e sollecitare la collaborazione tra il magistero e i teologici ed investire in luoghi di dialogo tra la teologia e la cultura. Queste prospettive potranno contribuire, a rendere la teologia uno spazio idoneo per la maturazione cristiana e civile degli uomini e dei credenti, come è accaduto nella storia della Chiesa, e, in questo modo, formare una mentalità e una sensibilità civile, sociale e religiosa adeguata alla proposta cristiana nel contesto europeo e mondiale ed a servizio della società e della Chiesa in Italia.

Fonti e Bibl. essenziale

A. Giuseppe, Il cristianesimo in Italia, Bari 1997; P. Ciardella – A. Montan ( a cura di), Le scienze teologiche in Italia a cinquant’anni dal concilio Vaticano II. Storia, impostazioni, metodologie, prospettive, Leumann (Torino) 2011; R. Fisichella ( a cura di), Storia della teologia. 3. Da Vitus Pichler a Henri de Lubac, Roma – Bologna 1996; J.-Y. Lacoste (ed), Storia della teologia, Brescia 2011; A. Marranzini, La teologia italiana dal Vaticano I al Vaticano II, in Bilancio della teologia del XX secolo diretto da R. Vander Gucht e H. Vorgrimler Volume II: La teologia del XX secolo, Roma 19972, 95-112; G. Occhipinti (a cura di), Storia della teologia. 2. Da Pietro Abelardo a Roberto Bellarmino, Roma-Bologna 1996; B. Mondin, Storia della teologia Volume 4: epoca contemporanea, Bologna 1997; Id, Le teologie del nostro tempo, Roma 1975; R. Osculati, La teologia cristiana nel suo sviluppo storico. II- Secondo millennio, Cinisello Balsamo (Milano) 1997; G. Trabucco – M. Vergottini, Il concilio Vaticano II e il nuovo corso della teologia cattolica, in G. Angelini – S. Macchi (ed.), La teologia del Novecento. Momenti maggiori e questioni aperte, Milano 2008, 297-377; C. Vasoli, La crisi del tardo Umanesimo e le aspettative di Riforma in Italia tra la fine del Quattrocento ed il primo Cinquecento, in Storia della teologia. III: Età della Rinascita, Casale Monferrato (AL) 1995, 397-485; G. Verucci, La Chiesa nella società contemporanea, Laterza, Bari 1988.


LEMMARIO




Terrorismo - vol. II


Autore: Maurilio Guasco

Non sono pochi coloro che diffondono un equivoco di fondo, parlando di una continuità logica tra il ’68 e il terrorismo. Ora, vi furono certamente alcuni giovani che avendo vissuto la delusione delle mancate riforme sperate dalle manifestazioni del ’68, passarono prima ad altre forme di lotta, per poi teorizzare e praticare la lotta armata. Ma non tutti i protagonisti del ’68 passarono alla lotta armata, e non tutti i protagonisti della lotta armata venivano dal ’68.

Si può constatare che vi fu qualche rapporto tra i due eventi. Nel momento in cui si realizzò un legame tra il movimento studentesco e il movimento operaio, i primi, accettando la teoria marxiana della classe operaia come elemento trainante della trasformazione della società, iniziarono ad agire dentro la stessa classe operaia, spesso anzi scegliendo il lavoro salariato. Lentamente, finirono per contestare sia il sindacato sia il Partito comunista, accusato il secondo di perdere gradualmente lo slancio rivoluzionario. Tale contestazione avrebbe portato al rapimento e uccisione di Aldo Moro, l’uomo a ragione considerato il responsabile del lungo processo che aveva portato il Partito comunista, o almeno parte di esso, ad accettare le regole del gioco democratico. In effetti, non solo si era realizzato lo strappo da Mosca, ma a metà degli anni Settanta il segretario del partito, Enrico Berlinguer, con i dirigenti francesi e spagnoli, aveva parlato di vie nazionali al socialismo, scelta indicata allora come “eurocomunismo”, e accettava il dialogo con la Democrazia cristiana, che lo avrebbe portato a condividere le responsabilità di governo, in quello che venne definito “compromesso storico”.

Il passaggio di alcuni alla lotta armata avvenne gradualmente. Prima vennero organizzati sequestri dimostrativi, durati pochi giorni: si voleva mettere in ridicolo e intimorire il personale direttivo delle diverse strutture produttive. Poi i sequestri aumentarono nel numero e nel significato. Il 18 aprile 1974, il sequestro del sostituto procuratore della repubblica di Genova Mario Sossi assunse un significato emblematico: il giudice era considerato il nemico di classe, i giorni del sequestro vennero a coincidere con la campagna elettorale del referendum sul divorzio, che a sua volta veniva visto come una svolta importante nella storia della cultura e dei costumi italiani, e anche con la prima grande rivolta in un carcere, che ebbe come conseguenza in Alessandria la morte di sette persone, tra ostaggi e sequestratori

Inoltre, i sequestratori del giudice avevano chiesto la liberazione di alcuni loro compagni, incriminati anche per omicidio, minacciando l’uccisione del giudice se non avessero ottenuto quanto richiesto.

Era oramai evidente che i responsabili del sequestro avevano compiuto il passo decisivo, quello che li portava a passare dai sequestri alla lotta che non escludeva la possibilità dell’uso, spesso indiscriminato (“colpiscine uno per educarne cento” era uno degli slogan), della violenza omicida.

I terroristi, come si iniziò a definirli, avevano una loro organizzazione, nota come le Brigate rosse, cui poi si aggiunsero altre sigle, quali i NAR (Nuclei Armati Proletari) e Prima linea. Alcuni vi vedevano lo sbocco, anche in questo caso non inesorabile, delle varie organizzazione che erano nate in quegli anni: Lotta continua, Potere operaio, Avanguardia operaia.

Prima di loro, si erano costituite altre organizzazioni di estrema destra, che avevano dato inizio già nel dicembre 1969 alla “strategia della tensione”, con attentati dinamitardi sulle piazze, nelle stazioni e sui treni. Rimane poco chiaro quanto agissero anche in collegamento con quelli che venivano considerati i servizi segreti deviati.

Gli anni Settanta furono così segnati dal sangue, spesso innocente: giudici, giornalisti, uomini delle forze dell’ordine divennero bersaglio di “gambizzazioni” o furono uccisi da organizzazioni di estrema destra o di estrema sinistra. Tra la fine degli anni Sessanta e gli anni Novanta vennero rapite 361 persone. Il numero di attentati e di episodi di violenza fu drammatico: si tratta di diverse migliaia

Tutto questo coinvolse un numero molto alto di terroristi o di loro fiancheggiatori, tra i mille e i duemila, prevalentemente giovani. Alcune centinaia sarebbero poi fuggiti all’estero, soprattutto in Francia, dove in base a quella che venne definita la “dottrina Mitterand” furono considerati rifugiati politici e quindi non estradati in Italia.

L’elenco dei morti e dei feriti di quelli che vennero definiti gli “anni di piombo” è impressionante, così come quello delle attività dei terroristi di destra e di sinistra. Il sequestro di Aldo Moro, avvenuto il 16 marzo 1978 con l’uccisione della sua scorta, sequestro concluso con l’uccisione di Moro, il 9 maggio, avrebbe rappresentato quasi il culmine, ma anche l’inizio del declino del movimento, messo in crisi anche dalla collaborazione offerta alle forze dell’ordine da diversi pentiti. Ci sarebbero stati ancora alcuni attentati mortali: si può ricordare quello che portò alla morte del senatore Roberto Ruffilli, il 16 aprile 1988.

Quando si iniziò a ricostruire gli album di famiglia non destò sorpresa lo scoprire che non pochi brigatisti venivano dalla cultura cattolica o da quella marxista: due correnti di pensiero che possono facilmente portare a forme diverse ma ugualmente pericolose di fondamentalismo.

Alcuni terroristi decisero di abbandonare le armi consegnandole alle autorità religiose: molto noto l’evento che portò alla consegna di armi a Milano, affidandole al cardinale Martini; così come impressionò moltissimo la preghiera con cui il pontefice Paolo VI, molto legato a Moro, si rivolse al Signore nel corso del funerale dello stesso Moro, quasi rimproverando Dio di non aver dato ascolto alle preghiere per un “uomo buono, mite, saggio, innocente e amico”. Tra l’altro, il papa sarebbe morto pochi mesi dopo, il 6 agosto 1978.

Il giudizio su La notte della Repubblica, come ebbe a definire quegli anni un noto giornalista, rimane controverso: si trattò di una vera e propria guerra civile, secondo alcuni, di una rivolta contro lo Stato, della degenerazione criminale di una lotta che aveva all’inizio delle ragioni comprensibili. Ma rimane sempre difficile per una coscienza civile accettare che un qualsiasi cambiamento debba essere pagato dalla morte di tante persone innocenti.

Fonti e Bibl. essenziale

E. Betta, Memorie in conflitto. Autobiografia della lotta armata, in “Contemporanea”, XII (2009), n. 4, 673-701; G. Bocca, Il terrorismo italiano, 1970-1978, Rizzoli, Milano 1978; A. Cazzullo, I ragazzi che volevano fare la rivoluzione. 1968-1978: storia di Lotta continua, Mondadori, Milano 1998; P. Corsini e L. Novati (edd.), L’eversione nera: cronache di un decennio (1974-1984), Angeli, Milano 1985; G. Fasanella – A. Franceschini, Che cosa sono le Br. Le radici, la nascita, la storia, il presente, Rizzoli, Milano, 2004; G. Galli, Piombo rosso. La storia completa della lotta armata in Italia dal 1970 a oggi, Baldini e Castoldi, Milano 2007; M. Gotor, Il memoriale della Repubblica. Gli scritti di Aldo Moro dalla prigionia e l’anatomia del potere italiano, Einaudi, Torino 2011; A. Giovagnoli, Il caso Moro. Una tragedia repubblicana, Il Mulino, Bologna 2005; H. Hes, La rivolta ambigua. Storia sociale del terrorismo italiano, Sansoni, Firenze 1991; A. Moro, Lettere dalla prigionia, a cura di M. Gotor, Einaudi, Torino 2008; D. Novelli – N. Tranfaglia, Vite sospese. Le generazioni del terrorismo, Garzanti, Milano 1988; G. Panvini, Cattolici e violenza politica. L’altro album di famiglia del terrorismo italiano, Marsilio, Venezia 2014; A. Valle, Parole opere e omissioni. La Chiesa nell’Italia degli anni di piombo, Rizzoli, Milano 2008; S. Zavoli, La notte della Repubblica, Mondadori, Milano 1992.


LEMMARIO




Tradizionalismo - vol. II


Autore: Francesco Saverio Venuto

Origine e significati storici del Tradizionalismo. Il tradizionalismo rappresenta un complesso e composito fenomeno storico di carattere filosofico, politico, e teologico. Apparso in Francia all’inizio del XIX secolo e poi diffusosi nel resto dell’Europa come reazione ai “dogmi” della Rivoluzione francese, esso è stato innanzitutto una teoria filosofica con conseguenze politiche e, in seguito, anche una tesi teologica. J. De Maistre (1754-1821), L. de Bonald (1754-1820) e F. de Lamennais, suoi principali sostenitori, intesero condannare, pur con differenti sfumature di contenuto, le idee fondamentali dell’Illuminismo (razionalismo, individualismo, scetticismo) ritenute la fonte ispiratrice del movimento rivoluzionario francese. Secondo tali pensatori, soltanto la “restaurazione” della religione cattolica, unitamente alla proclamazione dell’infallibilità pontificia in senso massimalista (ultramontanismo), dell’istituzione monarchica secondo l’Ancien régime e della loro reciproca autorità, avrebbe potuto garantire la costituzione di una “giusta” società, pienamente adeguata alla “verità metafisica”. Questa non si manifesta come un’evidenza raggiunta con la sforzo di un’impotente ragione individuale, quanto piuttosto come un’autorità da accogliere per “tradizione” (secondo il senso letterale del termine latino tradere), ovvero come una “primitiva” rivelazione da parte di Dio verso l’uomo, trasmessa per senso comune attraverso i secoli alla società degli uomini (ragione collettiva). Al teatino napoletano Gioacchino Ventura (De methodo philosophandi, 1828) si deve la divulgazione e l’interpretazione in Italia di questa “scuola” di pensiero francese e, in particolare, delle tesi di F. de Lamennais, che ebbero soprattutto il merito di offrire una voce più persuasiva a posizioni filosofiche similari e già presenti in ambito italiano, piuttosto che influenzarle. Il Ventura, diversamente dai “fondatori del tradizionalismo”, non escluse del tutto un’autonomia argomentativa della ragione naturale, riguardo all’esistenza di Dio, all’immortalità dell’anima e ai fondamenti della morale, sebbene continuò a difendere una previa e necessaria rivelazione da parte di Dio verso gli uomini, almeno per una loro prima conoscenza. Gregorio XVI con le encicliche Mirari vos (1832) e Singulari nos (1834) riprovò i teoremi del tradizionalismo, anche se fu il Concilio Vaticano I con la Costituzione Apostolica Dei Filius (1870) a condannarne in modo più puntuale le erronee tesi in ambito filosofico e teologico, riaffermando una piena fiducia nella possibilità della ragione umana di poter giungere per analogia alla conoscenza dell’esistenza di Dio dalle cose create, all’immortalità dell’anima e ai fondamenti della legge naturale, e allo stesso tempo, la necessità della Rivelazione per poter accedere alle realtà divine di per sé inaccessibili alla sola ragione umana.

Un “nuovo” Tradizionalismo: Chiesa e modernità. Il tradizionalismo, nonostante l’esplicito anatema di carattere filosofico e teologico da parte del Vaticano I, sopravvisse attraverso una serie di particolari trasformazioni e denominazioni. In Italia tra il XIX e il XX secolo si attestò come mentalità politico-ecclesiale. Fenomeni come l’intransigentismo (posizione contraria a qualsiasi forma di collaborazione e partecipazione politica con espressioni politiche di stampo liberale della nascente Italia) e l’integralismo (derivazione acritica di scelte e forme politiche dalla fede) caratterizzarono una gran parte del cattolicesimo italiano attraverso l’Opera dei Congressi della seconda metà del XIX secolo di fronte al nascente Stato italiano. La crisi dei regimi liberali e l’affermarsi di forti ideologie politiche anticristiane nella prima metà del XX secolo concorsero a rafforzare le tesi di alcune correnti di pensiero cattolico, secondo le quali tali fenomeni altro non erano che un’ulteriore e nociva evoluzione dei principi di libertà, di fraternità e di uguaglianza della Rivoluzione Francese. Movimenti come l’Action française di Ch. Maurras (1868-1952) o, come nel caso italiano, esponenti cattolici di rilievo laici ed ecclesiastici, di fronte al dilagare dell’ateismo del comunismo di stampo marxista-leninista favorirono una collaborazione con il regime fascista nell’illusione che esso, pur se di natura ideologica, potesse essere considerato meno pericoloso di altri affini e quindi facilmente cristianizzato. Per quanto tali movimenti venissero presentati come difensori dei valori cristiani di fronte al pericolo del socialismo reale, furono esplicitamente condannati dal magistero di Pio XI, perché costituivano una strumentalizzazione e una subordinazione della fede e della religione alla politica. Nonostante la disapprovazione ufficiale del pontefice rispetto ad alcuni orientamenti ambigui del clero e del laicato, soprattutto in ambito associativo, il tradizionalismo come sistema filosofico e teologico non scomparve. Esso, trasformatosi nelle sue espressioni, mantenne tuttavia invariati i principi teorici di fondo.

Agli inizi degli anni ’60, con il Concilio Vaticano II e poi nella fase successivo ed esso, il tradizionalismo come sistema filosofico-teologico comparve nuovamente, polemizzando all’interno degli ambienti ecclesiali contro la legittimità di un aggiornamento ecclesiale di carattere dottrinale e pastorale, sulle possibili realizzazioni, e principalmente sull’ipotesi di avviare un dialogo tra Chiesa e modernità, congiuntamente alle pericolose conseguenze che esso avrebbe inevitabilmente comportato. Proprio a partire dal confronto con la modernità, la quale con i suoi principi filosofici veniva considerata la causa prima di un pericoloso relativismo e snaturamento del bimillenario depositum fidei della Chiesa, il tradizionalismo si propose innanzitutto il compito di difendere la Tradizione, non soltanto salvaguardandone l’integralità, ma evitandone anche la necessaria ermeneutica. Esso riconduceva la Tradizione ad un archetipo ipostatico, alieno alla storia e alle sue dinamiche, considerate le premesse di un’insanabile corruzione del patrimonio della fede cristiana. Alcune tra le principali forme storiche della Chiesa, relative al dogma, alla morale, alla liturgia, alla disciplina e all’istituzione, estrapolate acriticamente dalla dinamica storico-ecclesiologica di Tradizione-Progresso, divengono così espressione di una riflessione teologica sclerotizzata, nettamente separata dalla storia. Un tale fenomeno non potrebbe essere pienamente compreso se non si facesse riferimento al Vaticano II, al post-Concilio con il ’68 e al progressismo, espressione teologica di segno opposto. Il Concilio, con il suo programma di aggiornamento interpretato e riletto, senza le necessarie distinzioni, specialmente in relazione agli avvenimenti posteriori, veniva così definito il concilio dell’anti tradizione e della vittoria del fronte progressista, ovverosia di quella posizione filosofico-teologica che sottometteva in modo ipercritico la fede alla storia, relativizzandola fino al punto di assecondare un’apostasia generale all’interno della Chiesa. Per tali ragioni il Vaticano II, in relazione alla liturgia, al rapporto Tradizione-Scrittura, alla collegialità episcopale, all’ecumenismo e al dialogo interreligioso e alla libertà religiosa doveva essere rifiutato. Il principale capofila del tradizionalismo fu Mons. Marcel Lefebvre, fondatore della Fraternità Sacerdotale di San Pio X per la difesa della Tradizione. Il movimento tradizionalista del presule francese si è diffuso anche in Italia (Albano Laziale in provincia di Roma), pur se in modo limitato, caratterizzandosi attorno ad alcuni temi: l’appartenenza della Fraternità alla Chiesa Cattolica, unitamente alla neutralizzazione della scomunica comminata al vescovo francese per aver consacrato dei vescovi senza il mandato della Santa Sede, e il rifiuto categorico del Concilio Vaticano II. Queste e altre tesi sono diffuse attraverso la rivista Si Si No No, ideata e realizzata a partire dal 1975 dal sacerdote italiano don Francesco Putti con la fedele collaborazione del biblista don Francesco Spadafora. Un consenso maggiore, tuttavia, fu raggiunto da un movimento più radicale e in disaccordo con quello lefebvriano, soprattutto in relazione all’autorità del pontefice romano e alla possibilità di interpretare il Vaticano II alla luce della Tradizione: il sedevacantismo. Questo, oltre a ripudiare in modo radicale il Concilio, sostiene la tesi per cui dopo la morte di Pio XII la Chiesa non avrebbe più avuto una sua guida, secondo alcuni in senso assoluto o secondo altri soltanto in senso formale, perché i successori di Pacelli avrebbero apostatato dalla fede con gli insegnamenti conciliari. Espressione di questa corrente è la rivista Sodalitium, a cura dell’Istituto Mater Boni Consilii (Verrua Savoia in provincia di Torino), all’interno della quale, oltre che sulla critica alla debole posizione di Mons. Lefebvre, si insiste nel collegare la crisi della Chiesa al malefico influsso congiunto tra ebraismo e massoneria. In ogni caso entrambi i movimenti rappresentano un’appendice di un fenomeno ecclesiale tipicamente francese in Italia.

Nell’ambito del cattolicesimo italiano, sul tema del tradizionalismo è doveroso tenere presenti due particolarità.

Primo. È opportuno distinguere l’accezione “tradizionalismo” da quella di “conservatorismo”. Con quest’ultimo termine si definisce una scelta che a livello ecclesiale coincide con l’atteggiamento di coloro che rimangono ancorati ad alcune particolari strutture come espressioni della dimensione istituzionale della Chiesa e del suo rapporto con il mondo (per esempio, preferenza per un regime di cristianità, piuttosto che per uno laico basato sulla libertà religiosa), oppure ad una particolare impostazione e modalità teologica nel formulare la dottrina. In questo secondo caso l’espressione “conservare” rappresenta, insieme a quella complementare di progresso, una delle forze necessarie nella dinamica dello sviluppo dottrinale. In questo senso deve essere ugualmente giudicata la posizione teologica della cosiddetta “minoranza” conciliare, che si espresse anche attraverso il raggruppamento del Coetus Internationalis Patrum, all’interno del quale hanno assunto un ruolo significativo alcune tra le più significative personalità dell’episcopato italiano del tempo, come l’Arcivescovo di Genova, Card. Giusppe Siri, l’Arcivescovo di Pelermo, Card. Ernesto Ruffini, e il Vescovo di Segni, Mons. Luigi Carli. Questi presuli, insieme ad altri dello stesso gruppo conciliare, non si opposero in senso aprioristico all’aggiornamento del Vaticano II, non sostennero mai una definizione rigida della Tradizione, ma furono piuttosto orientati ad una più moderata introduzione di riforme. Gli stessi, inoltre, si distinsero per una comune adesione e fedeltà alla scuola teologica romana di impianto neotomista, differente dal tentativo di un rinnovamento biblico-patristico della teologia di area franco-tedesca, e soprattutto rifiutarono di appoggiare l’atteggiamento e i toni di Mons. Lefebvre verso la Santa Sede.

Secondo. Se il “tradizionalismo” tende a confluire nel “conservatorismo”, rispetto al quale differisce sostanzialmente per il fatto che rifiuta in modo assoluto e radicale che la Tradizione possa essere oggetto di un possibile sviluppo insieme al dogma, il conservatorismo può in alcuni casi assumere toni tradizionalisti, senza tuttavia identificarsi pienamente con esso. Questo è il caso tipico italiano. Il tradizionalismo in generale ha tratteggiato alcuni ambienti ecclesiali italiani di stampo conservatore, specialmente nella difesa della Tradizione (per esempio l’esperienza di due riviste: Chiesa viva, fondata dal sacerdote Luigi Villa, sostenuta dai Cardinali Pietro Parente, Pietro Palazzini, Alfredo Ottaviani e da Mons. Antonio Piolanti; Renovatio, voluta dal Cardinale Giuseppe Siri, e affidata dallo stesso a Gianni Bager Bozzo). Ma diversamente, dal movimento lefebvriano, il tradizionalismo italiano si è dimostrato fin dall’inizio contrario ad atti di ribellione contro la Santa Sede e fedele ad essa, agli insegnamenti dei Pontefici, e al Vaticano II interpretato secondo la Tradizione e limitatamente alla sua natura strettamente pastorale. Nel caso italiano la discussione postconciliare da parte del tradizionalismo-conservatorismo si è concentrata su due grandi temi: gli sviluppi della riforma liturgica e l’identità della dottrina sociale della Chiesa. Il primo argomento trova ampio spazio nella sezione italiana della rivista e associazione Una Voce, in difesa della liturgia tradizionale-gregoriana secondo il Messale del 1962, con osservazioni assai critiche verso la riforma liturgica attuata da Paolo VI. La difesa della dottrina sociale della Chiesa si coagula intorno al gruppo di Alleanza Cattolica e alla sua rivista Cristianità, con connotazioni fortemente controrivoluzionarie.

Fonti e Bibl. essenziale

R. Amerio, Iota unum. Studio sulle variazioni della Chiesa Cattolica nel secolo XX, Lindau, Torino 2009; Cl. Bresolette, Tradizionalismo, in J.Y. Lacoste (ed.), Dizionario critico di teologia, Borla-Città Nuova, Roma 2005, 1370-1371; N. Buonasorte, Tra Roma e Lefebvre. Il tradizionalismo cattolico italiano e il Concilio Vaticano II, Edizioni Studium, Roma 2003; Y. Congar, La crisi nella Chiesa e Mons. Lefebvre, Queriniana, Brescia 1976; É. Coreth – W.M. Neide – G. Pfligerdsdorffer (edd.), La filosofia cristiana dei secoli XIX e XX, Città Nuova, Roma 1994-1995; Chr. Gabrieli, Uno scisma moderno. La comunità lefebvriana, EDB, Bologna 2012; D. Menozzi, L’anticoncilio (1966-1984), in G. Alberigo – J.-P. Jossua (edd.), Il Vaticano II e la Chiesa, Paideia, Brescia 1985, 433-464; G. Miccoli, La chiesa dell’anticoncilio. I tradizionalisti alla riconquista di Roma, Laterza, Roma-Bari 2011; M. Ravera (ed.), Introduzione al tradizionalismo francese, Laterza, Roma-Bari 1991; A. Riccardi, Intransigenza e modernità. La Chiesa cattolica verso il terzo millennio, Laterza, Roma-Bari 1996.


LEMMARIO




Visite ad limina - vol. II


Autore: Angelo Turchini

Anche se le vicende storiche influenzano la realizzazione delle visite ‘ad limina’e la conseguente trasmissione delle relazioni a Roma – fra 1853 e 1870 a Milano ad esempio ci fu una interruzione delle relazioni, poi riprese con regolarità – non cambia molto per quanto concerne la pratica, che nella prassi segue una tradizione secolare consolidata; anche se gli argomenti trattati restano sostanzialmente quelli tradizionali e, in genere, quelli di carattere preminentemente istituzionale, la stesura talora sembra più libera, al di là di schemi prestabiliti.

Alcune innovazioni circa le scadenze relative alla visita e alla relativa relazione arrivano con il CIC del 1917 (can. 340-342), che obbliga alla presentazione della relazione alla Sede apostolica ogni 5 anni (c. 340), adeguandosi al decreto A remotissima (31 dicembre 1909), con cui Pio IX aveva portato la scadenza a cinque anni per i vescovi europei (e a dieci per gli extraeuropei), ribadendo l’obbligo di effettuare la relazione quinquennale (can. 380) anche nel giuramento di fedeltà alla Sede apostolica prima della consacrazione episcopale.

Il vescovo è poi tenuto a relazionare secondo il formulario e le modalità predeterminate dalla Sede apostolica, con riferimento ai decreti Ad sacra limina del 28 febbraio 1959 e Ad Romanam Ecclesiam del 29 giugno 1975; quest’ultimo prevede anche che la relazione sia da inviare alla congregazione competente in anticipo (da non meno di tre a sei mesi prima) per permettere una adeguata conoscenza preliminare della realtà locale, utile in quanto finalizzata per eventuali colloqui; della Congregazione dei vescovi si vede pure l’apposito Formulario per la relazione quinquennale (Città del Vaticano 1981).

Successivamente il CIC emanato nel 1983 (can. 399-400), affermando che “il vescovo diocesano è tenuto a presentare ogni cinque anni una relazione al sommo Pontefice sullo stato della diocesi affidatagli, secondo la forma e il tempo stabiliti dalla Sede apostolica” (can. 399), mette in primo piano la relazione ovviamente connessa alla visita ‘ad limina’; infatti solo poi precisa che “il vescovo diocesano nell’anno in cui è tenuto a presentare la relazione al sommo Pontefice… si rechi nell’Urbe per venerare le tombe dei beati apostoli Pietro e Paolo e si presenti al romano Pontefice” (can. 400).

L’importanza della visita ‘ad limina’ viene inoltre focalizzata da alcune precisazioni, soprattutto nel richiamo alla configurazione come giusta causa per l’assenza del vescovo dalla residenza in diocesi (can. 395, § 2) in quanto obbligo “personale” cogente, al punto da essere soddisfatto in caso di legittimo impedimento (come da tradizione secolare consolidata) tramite vescovo coadiutore o ausiliare o “sacerdote idoneo” (can. 400, § 2).

Poi, a partire dal CIC 1983, con la costituzione Pastor bonus del 28 giugno 1988 papa Giovanni Paolo II ricorda la visita quinquennale e la relazione da farsi da parte dei vescovi (art. 28-35), sottolineando in appendice l’importanza pastorale della visita ‘ad limina’, il nesso fra chiesa particolare e chiesa universale, il consolidamento di una collegialis conformatio dei vescovi e insieme della comunione gerarchica; infatti se il singolo vescovo è tenuto a visitare in pellegrinaggio il sepolcro degli Apostoli, ed è possibile l’incontro fra vescovo e pontefice per un colloquio personale, le visite sono però organizzate per gruppi episcopali della stessa conferenza episcopale che magari indirizzano istanze comuni alla Sede apostolica; resta appieno la possibilità di contatto con le varie realtà della Curia romana per problemi, questioni, richieste, chiarificazioni, informazioni, precisazioni.

Da ultimo un Direttorio per la visita ‘ad limina’ (Città del Vaticano 1988) significativamente emanato nella stessa data della Pastor bonus da parte della Congregazione per i vescovi precisa le modalità di adempimento.

Fonti e Bibl. essenziale

Cfr. V. Cárcel Orti, Nota storico giuridica, in Direttorio per la visita ‘ad limina’, Città del Vaticano 1988, 31-34; Id., Historia, derecho y diplomatica de la visita ‘ad limina’, Valencia 1990; F.M. Cappello, De visitatione liminum, I-II, Roma 1912-1913; G. Ghirlanda, La visita ‘ad limina Apostolorum’, “Civiltà cattolica”, 140/II, 1989, 359-382; E. Apeciti, Visita ‘ad limina’, in Dizionario della Chiesa ambrosiana, VI, Milano 1993, 3978-3979; U. Dovere, La chiesa di Napoli nel 1860. Considerazioni in margine a una relazione ‘ad limina’, “Campania sacra”, 26, 1995, 7-98.


LEMMARIO




Visite apostoliche - vol. II


Autore: Maurilio Guasco

Interrotte nel corso del XVII e XVIII secolo, riprese in qualche occasione nel periodo della Restaurazione, le visite apostoliche divennero nuovamente uno strumento importante nel corso del XX secolo, soprattutto come elemento di preparazione della riforma di alcuni settori della Chiesa, o per verificare l’applicazione di documenti romani particolarmente significativi. Dopo le timide riprese fatte da Leone XII, Gregorio XVI e Pio IX, sarebbe stato soprattutto Pio X a ricorrere a tale strumento di governo fin dai primi anni del pontificato e in vista di quelle ampie riforme che intendeva introdurre nella curia romana e nella vita delle diocesi. Pio XI poi vi avrebbe fatto ricorso in vista o dopo la Costituzione Deus scientiarum Dominus (1931) che avrebbe provocato una profonda trasformazione nella formazione del clero, causa la quasi totale soppressione delle facoltà teologiche nei diversi paesi.

Era stato Leone XIII, tramite la Congregazione del Concilio, a prevedere nel 1902 una visita apostolica, che venne però realizzata da Pio X in vista delle riforme che intendeva attuare già nei primi anni del suo pontificato; una visita che avrebbe coinvolto le diocesi e i seminari e che sarebbe proseguita negli anni di Benedetto XV, anche se con criteri modificati essendo nata la Congregazione dei seminari e delle Università Cattoliche. Non vi è d’altronde da stupirsi se si prende atto che i criteri e la nomina dei visitatori risentissero dei ruoli, e anche del potere, che le singole Congregazioni e i loro Prefetti avevano in base agli orientamenti dei pontefici e ai ruoli attributi alle Congregazioni stesse. In questo senso, le Visite decise da Pio X avevano anche come scopo di preparare da un lato una riforma che ribadisse alcune linee ecclesiologiche proprie del pontefice, e dall’altro tenessero conto del clima di repressione del modernismo, che per Pio X rappresentava il pericolo assoluto, la sintesi di tutte le eresie, secondo la definizione che ne aveva dato lo stesso pontefice. Per dare una certa uniformità alle diverse visite, la Congregazione del Concilio aveva anche preparato delle “Regole per la Visita Apostolica” e un “Regolamento personale e questionario del visitatore apostolico”.

Benedetto XV avrebbe poi fatto ampio ricorso alle visite apostoliche concernenti diverse istituzioni e diocesi italiane. Lo stesso futuro Pio XI, mentre era Prefetto della Biblioteca Apostolica Vaticana, nel 1918 era stato inviato in Polonia come visitatore apostolico. Divenuto papa, Pio XI nel 1931 avrebbe istituito la carica di “visitatore apostolico” per i seminari italiani, attribuendogli dei poteri molto ampi, mentre avrebbe fatto spesso ricorso a visite apostoliche soprattutto nelle Chiese dell’Europa Orientale, ma anche in diocesi di altri paesi.

Nel corso degli anni ’20 aveva inviato visitatori apostolici nei seminari e nelle facoltà teologiche, spesso presenti nei seminari. Avrebbe così potuto constatarne la vita difficile, nominando quindi una commissione che avrebbe preparato la Costituzione Deus scientiarum Dominus, che avrebbe determinato, come è già stato ricordato, la soppressione di molte facoltà teologiche. Dopo la Costituzione, Pio XI avrebbe indetto altre visite apostoliche, che avevano il compito di verificare l’attuazione di quella Costituzione che aveva sollevato non poche riserve, per esempio in Spagna.

La prassi delle visite è rimasta in vigore anche in anni recenti, promosse spesso dalle Congregazioni romane e rivolte ad aspetti specifici delle singole Chiese locali. Lo stesso Giovanni Paolo II vi ha fatto ricorso, anche se spesso, causa la delicatezza di certe visite, le ragioni e le indicazioni fornite alla Santa Sede sono rimaste segrete.

Fonti e Bibl. essenziale

L. Bedeschi (ed.), L’antimodernismo piemontese. b) Relazioni dei visitatori apostolici, in “Fonti e Documenti”, n. 9, 1980, 55-95 (nei numeri successivi della rivista si trovano altre relazioni concernenti diverse regioni); V. Cárcel Ortí, Informe de la visita apostolica a los seminarios españoles en 1933-1934. Edicion del Informe y estudio sobre “La formacion sacerdotal en España (1850-1939)”, Salamanca 2006; F. Iozzelli, Roma religiosa all’inizio del Novecento, Edizioni di Storia e Letteratura, Roma 1985; G. Tuninetti, Facoltà teologiche a Torino. Dalla Facoltà universitaria alla Facoltà del’Italia Settentrionale, Piemme, Casale Monferrato 1999; G. Vian, La riforma della Chiesa per la restaurazione cristiana della società. Le visite apostoliche delle diocesi e dei seminari d’Italia promosse durante il pontificato di Pio X (1903-1914), Herder, Roma 1998.


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Visite pastorali - vol. II


Autore: Angelo Turchini

Il XIX e il XX secolo non sono parchi di visite pastorali, occorre piuttosto studiarle più di quanto sia stato fatto, per uno studio non solo della vita sociale e religiosa, centrata sempre più sulla parrocchia sia al Nord che al Sud del nuovo stato unitario, una realtà non chiusa ai moti della società civile e religiosa, riflettendosi in esse la storia della chiesa calata nei contesti locali, presentando magari situazioni in lenta evoluzione, andando al di là di mode elevate a criterio di scienza e di verità, ritornando alle fonti che obbligano all’umiltà della ricerca.

In questo senso G. De Rosa, riferendosi al Veneto dopo l’unità, annota: “L’annessione del ’66, liberando parroci e vescovi dal legame di una stretta sudditanza al monarca e limitando la proprietà ecclesiastica, scristianizzò il popolo o non piuttosto mise in luce le insufficienze di un’educazione religiosa protetta? Come vide e visse il clero, che aveva responsabilità di cura d’anime, questa crisi civile, che sembrò infirmare anche l’autorità religiosa? E, all’inverso, fu cristianizzazione la corsa affannosa a recuperare le masse, portando politica, economia, ideologia in chiesa?” (De Rosa, 331).

Si ricalca magari il modello di visite precedenti, si segue la tradizione che vede la visita locale e personale (più i decreti), ma al di là della disposizione del materiale, che dipende sempre dalla personalità e dalla sensibilità del vescovo, si affrontano o si toccano contenuti nuovi. Si evidenzia attenzione alle specifiche, effettive necessità del momento, agli obbiettivi generali e tradizionali calati nelle realtà concrete, adeguati ai problemi contemporanei.

Nel 1917 si ha la pubblicazione del CIC, con cui cambia la struttura della visita, con un questionario abbastanza fisso e determinato: il vescovo visiti la diocesi almeno in parte ogni anno e per intero una volta ogni cinque anni – di fatto con diverse tornate di visita, con un inizio e una fine, si tratti di una visita generale (uffici e persone in genere) o speciale (con oggetto particolare) – guardando a quanto serve all’esercizio pubblico del culto, ai benefici, alle fondazioni e ai legati pii, ai beni ecclesiastici, alle cause pie, ai luoghi sacri pubblici e semipubblici, luoghi pii (più diritto di resa dei conti can. 1492, §1), non escludendo gli esenti (i regolari come da tradizione) per quanto concerne la cura delle anime, e gli ordini femminili.

Il vescovo, tramite questo strumento di inchiesta sulle parrocchie e sulla vita religiosa della diocesi, prende conoscenza diretta, mediante ispezione, del territorio a lui affidato, per provvedervi adeguatamente (can. 343),emanando eventuali decreti e precetti; ma nella visita il pastore deve procedere in forma paterna per ciò che riguarda l’oggetto della visita; il questionario eventualmente predisposto diventa più che per il passato come uno strumento di lavoro per i parroci disposti ad interrogarsi sui più diversi aspetti della vita parrocchiale, dalla statistica socio-religiosa alla prassi sacramentaria dei fedeli, dal regime beneficiale al patrimonio artistico, dalle fabbricerie alle associazioni, dalla catechesi degli adulti e organizzazione della dottrina cristiana per i bambini, alle devozioni ed opere di pietà e via dicendo.

Dopo il concilio Vaticano II cambia l’attenzione non tanto all’elemento gerarchico (al rapporto esistente fra vescovi e sacerdoti in cura d’anime andando oltre una visione più interna) quanto al modo di sentire la vita religiosa da parte del popolo dei fedeli nel suo rapporto continuo, amministrativo e comunitario, con il pastore.

Così nel CIC del 1983 si ricordano i molteplici scopi della visita, ribadendo quelli consolidati della tradizione: sono soggetti alla visita ordinaria le persone (chierici e laici), istituzioni come le scuole cattoliche, gli oggetti e i beni ecclesiastici, i luoghi sacri (chiese, oratori, cimiteri), mentre la visita ai membri di istituti religiosi di diritto pontificio e alle loro case può avvenire solo nei casi espressamente previsti (can. 397); si aggiunge inoltre che la visita offre materiale per compilare oggettivamente la relazione ‘ad limina’ quinquennale, con cui stabilisce un nesso formale.

Ma soprattutto la visita diventa quasi un atto finale di un lavoro preparatorio precedente (magari anche con Carlo Borromeo), di un rinnovato impegno del clero parrocchiale per la riorganizzazione della parrocchia in funzione dell’incontro visitale; la preparazione diventa importante più che gli atti seguenti ai fini di una rinascita religiosa e morale, di una mobilitazione di energie, come atto di rilievo comunitario pubblico maggiore che per il passato.

Fonti e Bibl. essenziale

Cfr. G. De Rosa, Vescovi popolo e magia nel Sud, Napoli 1971 (il saggio di ordine generale Introduzione alle visite dei vescovi veneti nell’Ottocento, già in La visita pastorale di Ludovico Flangini nella diocesi di Venerzia, 1803, a c. di B. Bertoli, S. Tramontin, Roma 1969) e la collana Thesaurus ecclesiarum Italiae recentioris aevi [sec. XVIII-XX], Roma 1976 ss.


LEMMARIO




Web - vol. II


Autore: Chiara Giaccardi

Web significa “ragnatela” e anche “rete”, ed è comunemente usato come abbreviazione di world wide web (www), ovvero “grande rete mondiale”.

Al cosiddetto web 1.0 degli anni ’90, composto prevalentemente di siti statici e fruibili nella forma della navigazione (visualizzazione di documenti ipertestuali, collegati da link) grazie ai motori di ricerca (Google il più usato) è subentrato il web 2.0, che presenta un più elevato livello d’interattività, un’enfasi sulla condivisione di materiali piuttosto che sulla consultazione e un affermarsi delle forme più collaborative e “sociali” di uso della rete: “il web 2.0 non è che questo: la Rete trasformata in un network sociale, luogo di partecipazione e di condivisione” (A. Spadaro, Web 2.0, Milano, San Paolo 2010, 5). Tra le forme di condivisione e costruzione partecipata del sapere più diffuse sono le applicazioni wiki, un software collaborativo che consente la costruzione aperta di contenuti ipertestuali cui gli utenti hanno accesso, potendo collaborare all’aggiornamento, alla modifica e all’implementazione dei contenuti esistenti (come Wikipedia, nata nel 2001).

La tecnologia si è sviluppata nel segno di una “convergenza” delle piattaforme grazie al digitale (H. Jenkins, Cultura convergente, Milano, Apogeo 2007), ma è l’uso della rete, il modo in cui questo ambiente digitale viene “abitato”, che ne ha orientato il cambiamento nella direzione di uno spazio di esperienza sempre più integrato nella vita quotidiana. Il fenomeno attualmente più significativo è quello dei Social Network, in particolare Twitter e Facebook. Twitter (letteralmente “cinguettìo”) è nato nel 2006 e si basa sulla possibilità di condividere testi di non oltre 140 caratteri inviati da computer o smartphones. Per la facilità e velocità di utilizzo, questa piattaforma ha svolto un ruolo importante nelle mobilitazioni politiche, dalle elezioni presidenziali americane a diverse manifestazioni di protesta, comprese quelle che hanno dato inizio alla “primavera araba” del 2010.

Facebook è certamente il più popolare tra i Social Network (tra gli altri Linkedin, MySpace, Ning, Google Plus, Badoo). Nato nel 2004 da uno studente di Harvard, Mark Zuckerberg, per mettere online i profili degli studenti del college, si estende rapidamente ad altre università americane, per diffondersi anche in Europa dal 2006 e in Italia soprattutto dal 2008. La capacità di mettere in contatto le persone è il punto di forza di Facebook, che consente di mantenere, allargare, condividere le cerchie degli “amici” (così si chiamano i “contatti”). Facebook rappresenta un ambiente comunicativo accessibile, un luogo per la “manutenzione delle relazioni” e per stare con altri, anche se in forma smaterializzata, dove gli usi relazionali tendono a prevalere su altre forme di utilizzo come l’intrattenimento, la consultazione, la performance (C. Giaccardi, a cura di, Abitanti della rete. Giovani, relazioni e affetti nell’epoca digitale, Milano, Vita e Pensiero, 2010). Secondo il fondatore, nell’ottobre 2011 sono circa ottocento milioni le persone iscritte a Facebook.

Il web in Italia. I dati storici di diffusione di Internet nel nostro paese sono non di rado discordanti, soprattutto per quanto riguarda gli anni ’90. Ciononostante, sembra possibile riconoscere quattro fasi distinte nella diffusione dell’utenza di Internet, secondo i dati raccolti a livello mondiale dalla World Bank:

Utilizzando i più dettagliati dati Audiweb, aggiornati all’Ottobre 2011, per uno sguardo ravvicinato agli scenari contemporanei, in Italia il numero di persone con accesso a Internet risulta salito al 73,6% (35,388 milioni), con una crescita del 7,3% rispetto ai 68,6% dell’anno precedente, e con l’accesso da dispositivi mobili che cresce di oltre il 73% in un anno (dall’11,1% al 19,3%). Rispetto al profilo dei soggetti che hanno accesso alla rete, persiste, benché attenuandosi, una certa disparità di genere (75,7% uomini contro il 71,5% donne), mentre più marcata risulta la disparità relativa all’età anagrafica (con le fasce tra gli 11 e 54 anni tutte sopra all’80%, e con una brusca contrazione al 45,2% per la fascia dai 55 ai 74 anni). Rilevante risulta anche il livello di scolarizzazione ( 98% laureati, 38% dei senza titolo di studio).

Chiesa e web. Se oltre l’80% delle persone tra gli 11 e i 54 anni ha accesso al web, questo significa che anche in Italia viviamo ormai in un ambiente “ipermediale”, dove i media non sono più strumenti da usare quando servono, ma costituiscono un sistema integrato sempre attivo nel quale siamo immersi quasi costantemente. La nostra esperienza quotidiana si articola quindi tra i territori reali e quelli smaterializzati del web senza soluzione di continuità e soprattutto senza contrapposizione. Questa situazione inedita presenta rischi, ma anche opportunità, e la Chiesa negli ultimi 10 anni ha manifestato grande attenzione e consapevolezza rispetto a quello che ormai definisce un “nuovo contesto esistenziale” (Orientamenti Pastorali della CEI per il decennio 2010-2020 “Educare alla vita buona del Vangelo, n.51).

Una delle prime riflessioni sulla rete è il documento del Pontificio Consiglio delle Comunicazioni Sociali La Chiesa e Internet (2/2/2002). Riconoscendo appunto che «l’esperienza umana in quanto tale è diventata una esperienza mediatica » (n. 4), il documento afferma che comprendere Internet « è necessario al fine di comunicare efficacemente con le persone, in particolare quelle giovani, immerse nell’esperienza di questa nuova tecnologia, ma anche per utilizzarlo al meglio» (n. 5). Viene inoltre espressa chiaramente la necessità di distinguere, soprattutto riguardo a liturgia e sacramenti, l’esperienza che la rete rende possibile rispetto a quella che ha luogo nelle situazioni di compresenza fisica: “La realtà virtuale non può sostituire la reale presenza di Cristo nell’Eucarestia, la realtà sacramentale degli altri sacramenti e il culto partecipato in seno a una comunità umana in carne e ossa. Su Internet non ci sono sacramenti. Anche le esperienze religiose che vi sono possibili per grazia di Dio sono insufficienti se separate dall’interazione del mondo reale con altri fedeli” (n. 9).

Le due realtà, materiale e digitale, sono dunque contigue e integrate, ma data la loro intrinseca differenza l’una non può sostituire l’altra.

Caratteristica della riflessione della Chiesa sul web è l’opzione antropologica, che precede e illumina la pur indispensabile comprensione degli aspetti tecnologici. Nel Direttorio sulle Comunicazioni Sociali Comunicazione e missione, (CEI 2004) la centralità di tale questione è esplicitamente messa a tema, riconoscendo come l’universo dei media costituisca il «primo areopago del tempo moderno […]. L’innovazione tecnologica, all’origine di profonde trasformazioni sociali, sta determinando una nuova visione dell’uomo e della cultura» (n. 2). Nell’enciclica Caritas in Veritate (2009) Benedetto XVI sottolineando i rischi di una mentalità tecnicista che fa coincidere il vero con il fattibile (n. 79), riconosce altresì come “nella tecnica si esprime e si conferma la signoria dello spirito sulla materia” (n. 69) e come i media non siano puri strumenti, ma “opere che recano impresso lo spirito del dono” (n. 37). Per questo “il senso e la finalizzazione dei media vanno ricercati nel fondamento antropologico. Ciò vuol dire che essi possono divenire occasione di umanizzazione non solo quando, grazie allo sviluppo tecnologico, offrono maggiori possibilità di comunicazione e d’informazione, ma soprattutto quando sono organizzati e orientati alla luce di un’immagine della persona e del bene comune che ne rispecchi le valenze universali” (n. 73).

Il web offre dunque l’occasione per promuovere una “nuova sintesi umanistica” che valorizzi la tecnica, ma sia orientata alla promozione umana: “la dimensione spirituale deve connotare necessariamente tale sviluppo perché possa essere autentico. Esso richiede occhi nuovi e un cuore nuovo, in grado di superare la visione materialistica degli avvenimenti umani e di intravedere nello sviluppo un ‘oltre’ che la tecnica non può dare. Su questa via sarà possibile perseguire quello sviluppo umano integrale che ha il suo criterio orientatore nella forza propulsiva della carità nella verità” (n. 77).

I messaggi della Giornata Mondiale delle Comunicazioni Sociali sono un altro luogo in cui il Papa ha affrontato questioni antropologicamente cruciali come i mutamenti delle relazioni, della pastorale e della testimonianza nel nuovo contesto esistenziale “misto” (XLIII Nuove tecnologie, nuove relazioni: promuovere una cultura di rispetto, di dialogo, di amicizia, 2009; XLIV Il sacerdote e la pastorale nel mondo digitale, 2010; XLV Verità, annuncio e autenticità di vita nell’era digitale, 2011).

Da sottolineare anche il lavoro dell’Ufficio Nazionale delle Comunicazioni sociali della Cei sul tema del digitale, con la promozione di ricerche, convegni (a partire dal convegno internazionale Testimoni Digitali, 22-24 aprile 2010), incontri nelle diocesi, pubblicazioni (D. Pompili, Il nuovo nell’antico. Comunicazione e testimonianza nell’era digitale, Milano, San Paolo 2010), il sito (www.chiesacattolica.it/comunicazione/).

Dal 2007 la Fondazione Comunicazione e Cultura della CEI, valorizzando le opportunità dell’E-learning, ha promosso la realizzazione di corsi online per l’alta formazione degli animatori della comunicazione e della cultura (Anicec), giunto alla terza edizione.

La fede ai tempi del web. Una delle sfide che il web pone alla fede va oggi oltre la questione della sua “comunicabilità”, e arriva a toccare il tema della “pensabilità” e la nuova intelligenza della fede al tempo del web. Come si legge in Le sfide della cultura digitale (Discorso del Santo Padre alla plenaria del Pontificio Consiglio delle Comunicazioni Sociali, 28 febbraio 2011): “Non si tratta solamente di esprimere il messaggio evangelico nel linguaggio di oggi, ma occorre avere il coraggio di pensare in modo più profondo, com’ è avvenuto in altre epoche, il rapporto tra la fede, la vita nella Chiesa e i mutamenti che l’uomo sta vivendo (…) domandandosi: quali sfide il cosiddetto ‘pensiero digitale’ pone alla fede e alla teologia? Quali domande e richieste?”.

Si colloca in questo filone la riflessione sulla “cyberteologia” condotta da p. Antonio Spadaro sulle pagine di La Civiltà Cattolica, e sul sito (www.cyberteologia.it): “La cyberteologia è non riflessione sociologica sulla religiosità in Internet, ma frutto della fede che sprigiona da se stessa un impulso conoscitivo in un tempo in cui la logica della Rete segna il modo di pensare, conoscere, comunicare, vivere” (A. Spadaro “Verso una cyberteologia?”, in La Civiltà Cattolica I, 2011, 15-27).


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