Associazione Italiana dei Professori di Storia della Chiesa

Dizionario Storico Tematico La Chiesa in Italia
Dopo l'Unità Nazionale
Roma 2015
Copyright © 2015

Assistenza - vol. II


Autore: Tiziano Civiero

Premessa. Già annunciata dai rivolgimenti dei secoli precedenti, dopo l’Unità d’Italia, giunta a realizzazione piena solo nel 1870, con la presa di Roma e la sua proclamazione a capitale del neonato Regno d’ Italia, l’attività assistenziale della Chiesa subisce una svolta epocale, poiché le nuove forze politiche, economiche e sociali convergono nel favorire l’assunzione di tale attività da parte dello Stato, facendo così cessare il predominio degli Ordini religiosi in questo campo, da loro monopolizzato, se non altro per mancanza di sensibilità assistenziale da parte di soggetti civili interessati, soprattutto a partire dalla fondazione degli Ordini ospedalieri, educatori e assistenziali in genere.

Il passaggio è graduale e non senza resistenze, a volte perché ancora legati a un modello assistenziale del passato, fondamentato esclusivamente su motivazioni religiose; ma è comunque inevitabile, mano a mano che matura, da parte della società civile, la coscienza che il benessere, la salute, l’istruzione, l’assistenza in genere, ricadono nell’ambito dei così detti diritti della persona, che devono essere garantiti dalla società tutta e assicurati dall’amministrazione pubblica dello Stato, senza discriminazione alcuna per nessuno.

Tutto ciò si affermerà in maniera definitiva solo dopo la seconda guerra mondiale e fino agli anni ’90 del Novecento, quando inizierà una fase nuova anche per l’assistenza pubblica, dovuta in parte al trasferimento dell’industria manifatturiera europea in Asia, in Latino-America o in Paesi est-europei appena usciti dal comunismo, e in parte alla crescente denatalità e all’ingresso, sempre più ritardato, dei giovani nel mercato del lavoro, che porterà a rivedere tutto il sistema pensionistico per anziani e lavoratori, non più rivitalizzato dal flusso dei contributi di nuovi assunti al lavoro. Pur con feroci opposizioni non resterà che innalzare l’età della pensione, per evitare di aggravare ancora di più il deficit dello Stato. Per effetto domino, dopo le pensioni, stesso ridimensionamento toccherà a scuola, sanità e posti di lavoro in genere, con una sempre maggiore delega ai “privati” in questi campi: al momento di scrivere la tendenza è di “privatizzare” tutti i così detti servizi sociali, con il conseguente riflusso di percentuali sempre più elevate di fasce di popolazione verso la mensa vescovile, alias Caritas diocesana, e verso le opere di assistenza gestite dagli Istituti religiosi. La crisi del sistema assistenziale pubblico, dunque, sta dando maggiori responsabilità e carichi alle opere caritative della Chiesa.

Il secolo del Liberalismo. Ma, per non rimanere nel vago, ecco qualche dato, riferito alle iniziative più conosciute, che vedono impegnati anche i papi, in particolare Pio VII (1800-1823), che, nel 1821, conferma ufficialmente la fondazione dell’ospedale “Tata Giovanni”; mentre Leone XII (1823-1829) istituisce, nel 1826, la così detta “Commissione dei sussidi”, continuata anche da Gregorio XVI (1831-1846), per soccorrere i bisognosi. Altre iniziative sorgono a Genova, dove la “Scuola di carità” di don Lorenzo Garaventa (†1783), operante nel campo della rieducazione, sarà rilevata, nel 1837, dai Fratelli delle Scuole Cristiane; a Verona, dove sono attivi il p. C. C. Bresciani, il B. Carlo Steeb e la Fratellanza, fondata dal Servo di Dio, don Pietro Leonardo; a Torino, dove il Lanteri avvia la Pia Unione di S. Paolo Apostolo con finalità caritative e apostoliche, mentre S. Giuseppe B. Cottolengo, S. Giuseppe Cafasso, S. Giovanni Bosco e la marchesa Giulia di Barolo incarnano l’animo caritativo cattolico, soccorrendo le fasce più emarginate con ospedali per i reietti umani e assistenza ai condannati a morte; con scuole, oratori e avviamento al lavoro per i giovani disadattati della società piemontese; con aiuto alle ragazze di strada ed educazione delle fanciulle. A Genova lo scolopio G.B. Assarotti (†1829) avvia l’assistenza ai sordomuti, imitato anche fuori dell’Italia, a Siena, a Milano, a Modena e a Cuneo; mentre il prete mantovano Ferrante Apporti (†1858) istituisce, nel 1827, i primi asili infantili, dando nuovo impulso alla pedagogia, allora ai primi passi. Dal canto suo, Maddalena di Canossa (1774-1835) brilla di luce propria, assolutamente originale e innovativa, con un’attività multiforme, che va dall’educazione delle bambine povere all’assistenza ai vecchi e agli ecclesiastici, alla formazione delle maestre di campagna, tratte dalla campagna e destinate a ritornarvi per svolgere la loro opera educatrice, e, infine, all’istituzione di corsi di esercizi spirituali per donne, affiancati da corsi annuali per donne di ogni ceto sociale. Senza parlare dei veneziani fratelli Cavanis e di altre innumerevoli Congregazioni femminili, fondate allo scopo, occupandoci dell’assistenza cattolica nell’800, non si possono tralasciare le celebri Società (dette anche Conferenze) S. Vincenzo De Paoli: fondate a Parigi da F. Ozanam, e dai suoi sette volontari, nel 1835, allo scopo di formare “gruppi di credenti desiderosi di aiutare il prossimo”, e introdotte a Roma negli anni 1836-1842, si diffusero abbastanza rapidamente in parecchi Stati italiani preunitari, distribuendo aiuti materiali tramite la visita alle famiglie bisognose, l’avviamento dei giovani alla istruzione e alla professione, e con l’istituzione della Cassa degli affitti, che aiutava i più indigenti a pagare l’affitto, e il Pane di Sant’Antonio, che assicurava ai più miserevoli una dignitosa sopravvivenza; propagando inoltre il catechismo e la buona stampa. “Il forte richiamo che il progetto suscitava in tanti cristiani stava tutto nel fatto che l’esercizio della carità ne costituiva la ragione essenziale”. Ritenute politicamente innocue, perché composte in maggioranza da aristocratici, esse riuscirono, anche dopo il 1870, a non confondersi con le altre organizzazioni del mondo assistenziale cattolico italiano, mantenendo una loro autonomia e differenziazione che le avrebbero caratterizzate anche nei decenni a venire.

Il Novecento. Il nuovo secolo si apre con un grande fervore di iniziative assistenziali in campo cattolico, come ci testimonia, tra gli altri, anche mons. G. Bonomelli, vescovo di Cremona (1871-1914), nella sua lettera pastorale del 1900 Il secolo che muore. Il prelato non è famoso solo per le sue “aperture” al nuovo corso politico italiano, ma soprattutto per le opere da lui fondate a favore degli emigranti italiani (Opera Bonomelli), degli operai e dei contadini. Lo slancio caritativo dei cattolici italiani non si era, dunque, affievolito al volgere del secolo, ma conosceva una nuova primavera di realizzazioni, assicurando così alla Chiesa ancora una lunga presenza nelle attività tradizionali di assistenza e di formazione professionale, che, per effetto della legge Crispi del 1890, godevano ora anche degli aiuti governativi. Nell’enumerare le iniziative più importanti va ricordato innanzittutto il S. Leonardo Murialdo (†1900), benemerito dell’assistenza ai lavoratori e del movimento operaio cattolico, mentre per quanto riguarda la tradizione pedagogica (rappresentata nell’800 da giganti quali l’Assarotti, l’Aporti, il Lambruschini, il Don Bosco) non ci sono grandi novità, ma solo prosecuzione di quanto fino ad allora attuato. Anche altre istituzioni, come asili, ospizi, case di riposo e altri si adeguano alle mutate condizioni, rinnovando sedi e metodi assistenziali. Nuovi orfanatrofi sorgono per opera di don Annibale Maria di Francia (†1927), sacerdote messinese, fondatore dei Rogazionisti del Cuore di Gesù. Molteplici iniziative, soprattutto nel campo dell’educazione e dell’assistenza, che rimasero sempre i due pilastri fondamentali della sua azione, furono approntate anche da Mons. Giovanni Antonio Farina, vescovo di Treviso (1850-1860) e di Vicenza (1860-1888). Infatti, alla sua morte, la Congregazione delle Suore Maestre di S. Dorotea, Figlie dei Sacri Cuori, da lui fondata nel 1836, gestiva quattordici (14) scuole elementari, una (1) scuola per sordomute, una (1) per cieche; cinque (5) asili infantili, una (1) scuola di lavoro, cinque (5) collegi annessi alla scuola elementare; un (1) convitto per ragazze di scuola superiore, quattro (4) orfanatrofi e due (2) brefotrofi; quattordici (14) ospedali, tre dei quali avevano incorporato il reparto manicomio; cinque (5) case di ricovero per anziani, una casa di riposo per suore anziane, una cucina economica per i poveri. Uno dei frutti della Rerum Novarum (1891) di papa Leone XIII (1878-1903), che poneva i fondamenti della questione sociale in termini assolutamente nuovi, e inauditi per i cattolici, cioè di giustizia e non più solo di carità, fu la fondazione di numerosissime Casse rurali, circa 2000 tra il 1900 e il 1914, allo scopo di sovvenire con il credito le attività delle campagne, settore fino ad allora assai marginalizzato nel campo dell’assistenza sociale. Spesso queste iniziative avevano come promotori proprio gli stessi parroci di campagna, che intuivano le possibilità di promozione economica e umana, offerte dalle nuove realtà finanziarie dell’associazionismo, della redistribuzione di quanto accumulato e del risparmio. Infatti, a fianco del prete solo pastore di anime, negli anni successivi all’Unità d’Italia va affermandosi la figura del prete animatore sociale. Le prese di posizione sulla necessità, o meno, che i preti uscissero dalla sacrestia, come si diceva allora, per essere accanto alle necessità concrete della povera gente erano numerose in seno al clero cattolico e, spesso, anche autorevoli, con l’appoggio, più o meno esplicito, di qualche vescovo. Come detto sopra, una rete enorme di casse rurali e di cooperative, piccole banche e di associazioni, vedono quasi sempre il ruolo determinante di un prete: ruolo che passa attraverso varie fasi. Dapprima ci sono i così detti preti sociali: la espressione è usata soprattutto a Torino, specialmente nei confronti di don Bosco e di Leonardo Murialdo. Tuttavia, “figure analoghe sono presenti in quasi tutte le diocesi italiane, dove i preti sociali sono tutti impegnati in un’azione caritativa di vario genere, si rivolgono a varie categorie di persone, privilegiano l’assistenza alle persone più povere ed emarginate”. A Modena don Severino Fabriani (1792-1849) si dedica ai sordomuti, primo in Italia ad organizzare un’assistenza specifica per essi, tanto da scrivere anche una Grammatica per sordomuti. A Cesena don Giovanni Ravaglia (1864-?), vivace ingegno intellettuale e fondatore de Il Savio, anima le attività riguardanti le emergenze sociali; allo stesso tempo, e allo stesso modo, agiscono don Giuseppe lo Cascio (??) a Palermo, don Carlo De Cardona (1871-1958) a Cosenza, mentre a Verona, a Parma, a Cremona, a Piacenza, a Torino, preti, o anche vescovi, fondano Congregazioni dedite all’annuncio missionario in paesi lontani. In seguito però le cure dei preti sociali “si rivolgono a contadini, operai e imprenditori, fondando associazioni, cooperative, casse rurali”. Una delle prime latterie sociali è fondata da un prete, don Antonio della Lucia (1824-1906), a Forno di Canale (oggi Canale d’Agordo) nel 1872. Il suo modello di latteria sociale è esportato in tutto il Regno d’Italia e don Antonio, perciò, è insignito del titolo di cavaliere del Regno. Non solo, ma egli fonda anche il primo asilo rurale, le prime biblioteche circolanti, i cui libri viaggiavano su carretti, le cooperative di consumo, le società di mutuo soccorso per gli animali bovini. “Altri danno vita a forni, mulini, farmacie cooperative; un altro fonda nel Friuli la Federazione delle cooperative. Un prete veneziano, Luigi Cerutti (1865-1934), diventa il profeta della cassa rurale, e scrive testi in difesa dei contadini” e della loro realtà, rimanendo per lungo tempo l’animatore di questa nuova forma di cooperativismo sociale cattolico.

A ciò si affiancarono gli Uffici del lavoro e i cappellani del lavoro. Mentre per quanto riguarda l’emigrazione (in poco più di un secolo, 1861-1964, sono usciti dall’Italia circa 30 milioni di persone), anche se hanno operato in altri Paesi, si sono distinti S. Maria Francesca Cabrini, mons. G.B. Scalabrini (1839-1905), vescovo di Piacenza dal 1876, fondatore della Società dei Missionari di S. Carlo; mons. G. Bonomelli (1831-1914), vescovo di Cremona dal 1871, e la sua Opera di Assistenza agli Emigranti. Il vescovo di Cremona si occupò costantemente anche della questione operaia e dei rapporti degli operai con il movimento socialista, per cui si adoperò per creare casse rurali e società di mutuo soccorso. Insieme alla promozione economica il movimento associazionista cattolico si preoccupa sempre anche della promozione umana delle persone coinvolte nell’attività assistenziale. A Firenze il prof. R. Bettazzi (†1941) fonda, nel 1902, l’Istituto della Protezione della giovane, emanazione di un’analoga organizzazione internazionale, allo scopo di proteggere e aiutare le giovani che andavano a lavorare in città; nel 1912 dà vita alla Associazione cattolica italiana contro l’alcoolismo, iniziativa apprezzata e sostenuta anche dalla gerarchia. A sua volta Filippo Crispolti (1857-1942) avvia il Movimento antiduellista e don A.

Argiolas (†1914), sacerdote sardo, svolge attività a favore dei sordomuti anche attraverso la pubblicazione di scritti a ciò dedicati. Un grande contributo all’elevazione delle classi operaie e del laicato cattolico in genere lo ha dato mons. G. Radini Tedeschi, vescovo di Bergamo, di cui fu segretario il giovane don Angelo G. Roncalli (1881-1963), futuro papa Giovanni XXIII (1958-1963), dal 27 aprile 2014 S. Giovanni XXIII: nell’autunno del 1909, si schierò pubblicamente con gli scioperanti di Ranica, lavoratori di una fabbrica tessile, aderenti al sindacato cattolico, che chiedevano una riduzione dell’orario di lavoro, allora di 11 ore giornaliere per sei giorni alla settimana, e fu accusato per questo di modernismo e progressismo. Nell’occasione soccorse i più bisognosi di essi.

Non va tralasciato il settore sportivo, che ha sempre avuto una certa rilevanza in ordine all’educazione della gioventù, specialmente cattolica. Nel campo delle attività sportive si distinse dapprima la Federazione delle Associazioni Sportive Cattoliche, dalla sua fondazione (1906) e fino alla sua soppressione da parte del Fascismo (1927). Ad essa è succeduto il Centro Sportivo Italiano, fondato dal prof. Luigi Gedda, presidente dell’Azione Cattolica Italiana, il 5 gennaio 1944: raccogliendo il testimone ideale della prima organizzazione sportiva cattolica, il nuovo organismo, fin dal cambiamento della propria denominazione esprime l’idea di aprire i propri impianti anche ai giovani non cattolici. Fornito di uno Statuto, di organi dirigenti, di una sede centrale (Roma), di sedi periferiche (Regioni), per complessivi 17 Comitati regionali, 92 Comitati provinciali, 60 Comitati zonali, 3.000 Società sportive, circa 80.000 tesserati nel 1955, di una rivista ufficiale, Stadium, lo sport del CSI si forma inizialmente all’ombra dei campanili: le sue Società sportive si coagulano attorno agli Uffici Sportivi Diocesani e sono espressione, per la maggior parte, di Parrocchie (Oratorio) e di Istituti religiosi. Il suo motto è: educare attraverso lo sport, cui va affiancato quell’altro, che recita: a ognuno il proprio sport.

Importanti si rivelarono soprattutto le Settimane Sociali, avviate in seguito alla soppressione dell’Opera dei Congressi da parte di Pio X (1904): la prima fu celebrata a Pistoia nel 1907 sotto la presidenza del card. Maffi; dopo di che, e fino al 1935, se ne celebrarono ben diciotto, che dibatterono i più scottanti problemi sociali allora in auge. In generale, però, va detto che “nella secolare storia dell’associazionismo [cattolico e non], solamente durante il ventennio fascista il volontariato organizzato dovette confrontarsi con il potere politico per assecondarne indirizzi e orientamenti”, in quanto il regime fascista scoraggiava fortissimamente l’associazionismo che non fosse sua diretta emanazione, per cui “molte associazioni furono chiuse o costrette a farlo, mentre il regime colpiva il movimento cooperativo in maniera sistematica”. Solo la Società di S. Vincenzo potè salvarsi, dando assistenza ai bisognosi.

La post-Modernità. Nel secondo dopo guerra l’attività assistenziale e caritativa della Chiesa ha continuato a operare, abbracciando anche le nuove emergenze che via, via andavano prendendo piede nella società. A tutt’oggi l’elenco dell’impegno assistenziale e caritativo cattolico è molto lungo e copre praticamente tutto l’ambito del sociale. Si va dalle scuole agli ospedali, dagli oratori alle colonie marine (ora in via di cessazione), dall’assistenza agli operai a quella ai profughi, ai prigionieri, ai reduci, alle nuove famiglie, agli immigrati. Dopo la Seconda Guerra Mondiale, si va dalle associazioni di assistenza agli alcolisti alle molte comunità di recupero per i tossicodipendenti, dei malati di AIDS, delle giovani, soprattutto extracomunitarie, sfruttate dal mondo della prostituzione, dei giovani disadattati, vere piaghe della società postmoderna: la maggior parte di queste associazioni sono attivate e animate da preti, continuando così, in altri settori del disagio sociale, l’esperienza animatrice dei preti della seconda metà dell’Ottocento. Iniziativa affatto originale è stata Nomadelfia, fondata nel 1941 da don Zeno Saltini (1900-1981) come Opera Piccoli Apostoli per dare una famiglia ai piccoli abbandonati e riconosciuta da Giovanni Paolo II nel 1980. In questo scorcio di secolo è doveroso ricordare, se non altro per la vastità delle sue realizzazioni, un gigante quale è stato p. Ottorino Marcolini (1897-1978), bresciano, della Congregazione dell’Oratorio, amico personale di Paolo VI, “prete fuori serie” come ebbe a definirlo lo storico (mons.) Antonio Fappani, il prete-muratore, il prete-imprenditore. Nella provincia bresciana, stremata dalla guerra, con l’iniziativa “una casa per la famiglia” egli costruì le prime case, che sarebbero diventate migliaia e migliaia in tutta Italia, (in trent’anni, a partire dal secondo dopoguerra, 30.000 alloggi in 12 Province!), utilizzando spesso la tipologia del villaggio, all’interno del quale, con spazi dedicati alla preghiera, allo svago, al gioco, “le famiglie possono vivere a misura d’uomo, incontrandosi negli spazi comuni ed occupando il tempo libero in un fazzoletto di orto e di giardino”. Questo prete, così geniale e tenace, che mai per un momento ha dimenticato la preghiera e la vita interiore, è stato tanto dinamico e benefico da meritarsi l’appellativo di “muratore di Dio”. La sua opera richiama considerazione, perché, essa ci dà l’idea esatta di come preti, laici, organismi, istituzioni ecclesiali siano continuativamente impegnati a soccorrere i più bisognosi. Notevole anche lo sforzo, da parte della Chiesa, di coordinare, centralizzandola, tutta l’attività assistenziale, dandole una caratteristica di razionalizzazione di attività e risorse economiche: ne è un chiaro esempio la Pontificia Opera di Assistenza (P.O.A.). Fondata da papa Pio XII nel 1946 come Pontificia Commissione di Assistenza con il compito di occuparsi dei prigionieri, profughi e reduci di guerra, nel 1953 fu trasformata in Pontificia Opera di Assistenza, estendendo la sua competenza anche ad altri ambiti di bisogno sociale. Sciolta nel 1970, perché il suo compito si era esaurito, Paolo VI pensò ad un nuovo organismo che recepisse le indicazioni del Vaticano II (1962-1965), in particolare della costituzione pastorale Gaudium et spes, per cui ad essa subentrò la Caritas Italiana, avviata concretamente dalla Conferenza Episcopale Italiana nel 1971, e affidata alla guida di don Luigi Nervo. Questo evento influenzò profondamente sia il mondo dell’assistenza, che quello del volontariato: “Si trattò di una vera e propria rivoluzione culturale nel campo dell’assistenza: il volontariato comprese che era giunto il momento di rivedere i propri obiettivi per superare un assistenzialismo troppo angusto, assai poco in sintonia con l’idea di promozione umana al centro dell’attenzione conciliare e ormai ampiamente condiviso dall’opinione generale”.

Un valido contributo a questa trasformazione è venuto sia dalle grandi encicliche giovannee Mater et Magistra e Pacem in terris, sia dalla costituzione conclliare Gaudium et spes, sia dall’enciclica di Paolo VI Populorum Progressio e, prima ancora, dalle riflessioni di don Primo Mazzolari (1890-1959) ne La parola ai poveri.

Non si può non accennare qui, per le evidenti connessioni con tutta la problematica della regolazione artificiale della fecondità umana, attraverso la così detta interruzione volontaria della gravidanza, alias aborto, al Movimento per la vita (MOvit), organizzazione sorta nel 1975 e operativa su tutto il territorio nazionale mediante i Centri di aiuto alla vita. “Culturalmente e religiosamente il Movimento s’ispira al magistero della Chiesa cattolica, che sul tema della vita fa riferimento alle encicliche Humanae vitae ed Evangelium vitae di Paolo VI e Giovanni Paolo II del 1968 e del 1995”.

Un ulteriore campo di intervento per l’attività assistenziale dei cattolici si è aperto, a partire dal 2000 e andato via, via intensificandosi fino ad assumere le caratteristiche di una vera e propria emergenza sociale, con la progressiva intensificazione dei flussi migratori in ingresso sul territorio nazionale italiano. Ma vanno ricordati anche i vari ostelli per i poveri gestiti dalla Caritas, in sinergia con le Ferrovie dello Stato Italiane, nei locali delle grandi stazioni Termini di Roma e Centrale di Milano, non che in parecchie altre. Le molte mense Caritas, aperte anche agli extracomunitari, e presenti in ogni città; le molte “Messe della Carità”, organizzate presso i Santuari mariani. Mentre, sempre a Roma, va segnalata l’attività assistenziale ai barboni di strada, svolta dalla Comunità di Sant’Egidio. Nelle nuove povertà che avanzano la Chiesa trova spazio per la sua opera assistenziale, che si prefigura, a volte, come una supplenza, anche se non dichiara e non esplicitamente riconosciuta, delle attività sociali dello Stato, non sempre puntuali ed esaustive.

Conclusione. A imitazione del loro Signore, Gesù, che passava beneficando e risanando quanti erano sotto il potere del male, fin da subito i primi cristiani affiancarono alla predicazione della buona Novella le opere di assistenza ai bisognosi. Infatti, la comunità cristiana nella sua attività di evangelizzazione fin dalle origini non ha potuto, e non ha voluto, separare la diffusione della Parola di Dio dalla manifestazione delle premure di Dio per la sua gente, visibile nelle opere di assistenza dei bisogni materiali delle persone evangelizzate. Nel concludere la sezione di mia competenza ho voluto richiamare, brevissimamente, i primi tempi della Chiesa, perché i principi ispiratori iniziali dell’attività assistenziale della Chiesa sono rimasti immutati nei secoli, tanto che se ne può condividere una definizione ormai classica, che recita che l’assistenza [sociale] “è l’aiuto agli uomini, che si trovano in necessità e pericolo fisico, morale ed economico. L’obbligo dell’assistenza sociale deriva dal precetto divino della carità”). Ma, un po’ alla volta, accanto a questo quadro, certamente illuminante, le comunità cristiane vedono associarsi altre tematiche, quali la proprietà privata, l’uso dei beni della Chiesa e la definizione di chi è veramente il povero: è, cioè, l’emergere, sia pure lento e, a volte, anche contrastato, di quella che, ai giorni nostri, viene comunemente chiamata la questione sociale e che nei secoli precedenti all’Unità d’Italia era conosciuta semplicemente come le opere di misericordia. Mi pare questo il grande cambiamento intervenuto nell’assistenza da parte della Chiesa: senza trascurare i perenni principi evangelici della carità, la sua organizzazione da parte della Chiesa, dopo l’Unità d’Italia (1861-1870), ha assunto anche la caratteristica della giustizia nel rispetto della dignità della persona assistita, prendendo dalla società civile le forme nuove e più recenti della giustizia sociale. Non più, dunque, e non più soltanto “il contare i poveri”, come si esprimeva il parroco di Barbiana, ma “il far parlare i poveri”.

Fonti e Bibl. Essenziale

G. Penco, Storia della Chiesa in Italia, II, Dal Concilio di Trento ai nostri giorni, 257-264 (capitolo terzo, L’Ottocento: uomini ed eventi, 3. Attività caritativa); 451-462 (capitolo quinto, Il Novecento: la parabola di un secolo, 2. Attività apostolica e caritativa), (Già e non ancora, 38), Jacka Book, Milano 1978. Per una più ampia informazione sui Papi degli ultimi due secoli cfr. Enciclopedia dei Papi, 3 voll., Istituto della Enciclopedia Italiana Treccani, Roma 2000, ora anche in rete (www.treccani.it/catalogo/catalogo_prodotti/i…/papi.html); “Custode di mio fratello”. Associazionismo e volontariato in Veneto dal medioevo ad oggi, a cura di F. Bianchi, 213-336 (Parte Terza, L’Organizzazione della solidarietà in Età contemporanea, di Giovanni Silvano), Istituto per le ricerche di storia sociale e religiosa-Vicenza, Marsilio, Venezia 2010; Assistenza sociale, in Dizionario del cattolicesimo nel mondo moderno, Edizioni Paoline, Alba (CN) 1964, 47-48; P. Consiglio per la Giustizia e la Pace, Compendio della dottrina sociale della Chiesa, Città del Vaticano 2004; Enciclopedia di Pastorale, a cura di Seveso B. – Pacomio L., 4, Servizio Comunità, Edizioni Piemme. Casale Monferrato (AL) 1993; Chiesa e territorio (a cura della Caritas Italiana), Roma 1981. Consulta Nazionale delle Opere Caritative e Assistenziali, Chiesa ed emarginazione in Italia, Rapporto n. 2, 2 voll., Torino 1990; Assistenza [specialmente A. sociale], in Dizionario di Antropologia pastorale, EDB, Bologna1980, 104-115; G.A. Farina – F. De Maria, Memorie storiche. Sulla istituzione della Casa di educazione in parrocchia di S. Pietro di Vicenza per le fanciulle povere e abbandonate dai propri genitori, Suore Maestre di S. Dorotea Figlie dei Sacri Cuori, Vicenza 2011; M. Guasco, Il Clero Curato. Modelli e Sviluppi, in Cristiani d’Italia, Dizionario Biografico degli Italiani, Roma 2011; L. Monchieri, Grazie, Padre! Memoria marcoliniana per i Cinquant’anni delle B.I.M., Edizioni Bréssa, Brescia 1996. Per i personaggi citati nel presente contributo cfr. Dizionario Biografico degli Italiani, Istituto dell’Enciclopedia Italiana Treccani, 72 voll. fin’ora editi, Roma 1960-…, ora anche on line (www.treccani.it/biografie/).


LEMMARIO




Associazionismo cattolico - vol. II


Autore: Guido Formigoni

In epoca post-unitaria, accanto alla continuazione delle varie forme associative consegnate dalla tradizione (pie unioni, terz’ordini religiosi, confraternite, “amicizie cristiane”, congregazioni mariane ecc.), si svilupparono nuove forme aggregative di credenti, legate ai concetti di “movimento cattolico” o di “azione cattolica”, che allora passavano sostanzialmente per sinonimi.

Si trattava di gruppi di laici cattolici, spesso strettamente collaboranti con alcuni preti e religiosi, che intendevano assumere un’esplicita testimonianza pubblica, per difendere e promuovere gli interessi della Chiesa nello spazio creato dalle nuove istituzioni civili laiche, basate sul principio di libertà. Nello Stato italiano unitario, i primi esperimenti di aggregazione di cattolici che volevano assumere un ruolo pubblico militante incorsero nei rigori polizieschi (fu sciolta ad esempio un’Associazione Cattolica Italiana per la difesa della libertà della Chiesa fondata a Bologna nel 1864, che pure aveva tentato di non presentarsi come legittimista e anti-statale). Altre esperienze, come la Società della Gioventù Cattolica Italiana (Sgci), che unificava dal 1868 vari circoli cittadini, ebbero maggior durata e sfuggirono ai controlli, per i loro caratteri meno evidentemente politici. Secondo l’espressione di Giovanni Acquaderni, uno dei fondatori, questi giovani intendevano essere “cattolici di professione”. Fu attorno al gruppo direttivo della Sgci che si coagulò l’idea di convocare un grande congresso cattolico nazionale, come avveniva in altri paesi. Sotto la spinta del peggioramento del giudizio sullo Stato unitario, dopo il 1870, i fatti di Porta Pia e l’aggravamento della “questione romana”, l’intransigentismo ritenne necessario passare all’azione. Nel 1874 a Venezia un Congresso cattolico mise le basi di quella che l’anno seguente divenne la struttura permanente dell’Opera dei Congressi e dei Comitati cattolici in Italia.

L’Opera era una sorta di organismo federativo nazionale che per trent’anni avrebbe funzionato da alveo coordinatore di tutte le molteplici esperienze spirituali, ecclesiali, economico-sociali e anche elettorali (soprattutto in campo amministrativo) dei cattolici intransigenti. Un comitato permanente e alcuni gruppi di lavoro nazionali coordinavano un magma in espansione di comitati regionali, diocesani e parrocchiali. Dagli anni ’80, fu piuttosto attivo e autonomo, in particolare, il II gruppo, che si interessava di questioni sociali, guidato da Stanislao Medolago Albani sotto l’influenza di Giuseppe Toniolo. A queste strutture facevano capo circoli locali, società cattoliche, strutture economico-sociali (casse rurali, cooperative, società di mutuo soccorso, via via anche leghe sindacali), quotidiani cittadini ecc. Il coordinamento era in realtà spesso molto blando, anche perché il localismo era forte: l’orgoglio di bandiera gestito da una prevalente struttura democratica interna induceva ogni realtà a difendere i propri margini di autonomia. L’occasione di incontro privilegiata era il Congresso cattolico nazionale: se ne celebrarono 19 nei trent’anni di vista dell’Opera. Dopo inizi non sempre floridi, segnati da divisioni interne e grandi discussioni con i transigenti, le incertezze legate al cambio di pontificato del 1878 e alle ipotesi conciliatoriste degli anni ’80 rallentarono l’insediamento dell’Opera. Fu dopo il fallimento di questi tentativi, negli anni ’90, che l’Opera conobbe il suo vertice, con la presidenza del conte veneziano Giovanni Battista Paganuzzi. Al congresso di Milano del 1897, il comitato permanente mostrava un bilancio piuttosto imponente: esistevano 17 comitati regionali, 188 diocesani, 3982 parrocchiali, 708 sezioni giovani (promosse in polemica con la Sgci, che aveva avuto uno sviluppo ritenuto troppo transigente), 17 circoli universitari, 588 casse rurali, 688 società operaie, 24 quotidiani e 155 periodici. La dimensione sociale aveva trovato slancio dopo la pubblicazione della Rerum Novarum nel 1891. Nella crisi di fine secolo, rilanciando l’intransigentismo, l’Opera entrò nel mirino della repressione politica dei gruppi ritenuti sovversivi (i “neri” come i “rossi”): nel 1898 furono incarcerati alcuni attivisti (tra cui il focoso prete milanese don Davide Albertario), furono sciolti molti comitati, mentre quello permanente nazionale si salvò solo per un equivoco poliziesco.

Gli anni iniziali del secolo videro però forti contrapposizioni interne tra gli anziani intransigenti, ancora abbarbicati alla questione romana, e i giovani che si cominciavano a chiamare democratici-cristiani, i quali interpretavano ormai il ruolo del movimento cattolico nel promuovere lo sviluppo sociale e civile e la crescita economica delle masse popolari, preparando anche futuri sbocchi politici in senso democratico. Nel 1904 il nuovo papa Pio X sciolse quindi l’Opera, non tollerando la divisione interna al movimento. Si allungavano anche le ombre delle polemiche contro il “modernismo”, di cui qualche integrista additava la variante “sociale”. Dalla scelta del papa, con l’enciclica Il fermo proposito del 1905, derivò una riorganizzazione del movimento attorno a tre Unioni (Unione popolare; Unione economico-sociale; Unione elettorale), che configuravano una prima e ancor timida specializzazione dell’apostolato. L’Unione popolare, che doveva riunire gli adulti su un progetto formativo e di testimonianza laicale capillare, per la verità non decollò molto. Fino alla prima guerra mondiale si sviluppò invece fortemente il movimento sociale: una inchiesta del 1910 censiva 1.800 società operaie di mutuo soccorso, 1.750 cooperative, 1.611 casse rurali e operaie, 102 banche e 374 organizzazioni sindacali locali con 104.614 iscritti. Anche in campo elettorale si misero le basi di un percorso di organizzazione che fece eleggere i primi “cattolici deputati” e preparò quello che nel 1919 doveva divenire il Partito popolare.

Nel frattempo nascevano altre esperienze destinate a un ruolo importante. Nel 1896, alcuni circoli di universitari cattolici davano luogo a una federazione nazionale, la Fuci, sotto l’influsso di don Romolo Murri, impegnandosi in una nuova ricerca sui rapporti fede-cultura (che qualcuno sospettò di modernismo). Il modello inglese dello scoutismo venne invece importato da alcuni ambienti, tra cui spiccava un gruppo genovese guidato da Mario Mazza. Nel 1916, con la presidenza del conte Mario di Carpegna, venne fondata un’Associazione Scautistica Cattolica Italiana (Asci), che conobbe una certa diffusione, in competizione con lo scoutismo di ispirazione nazionale del Cngei, accusato di influenze massoniche. Nel 1906 nasceva anche una Federazione delle Associazioni Sportive Cattoliche Italiane (Fasci), che coordinava parecchie società ricreative e sportive in tutto il paese. Nel 1908, dopo molti dibattiti e confronti con il nascente femminismo laico, alcune donne cattoliche dei ceti aristocratici, tra cui Cristina Giustiniani Bandini, promossero un’Unione fra le donne cattoliche italiane.

Il primo dopoguerra, sotto la spinta dell’emersione definitiva di una società di massa e nella logica di un tentativo di democratizzazione inedito delle istituzioni monarchiche e liberali, anche il mondo cattolico fu attraversato da un ulteriore fermento associativo, che mobilitò nuovi gruppi e ambienti. Nacquero una Confederazione delle cooperative e una Confederazione dei sindacati “bianchi”, tra 1918 e 1919. I circoli dei giovani della Sgci e della Fuci, ma anche società sportive, scoutistiche e ginnastiche, svilupparono forti capacità di mobilitazione e impegno, trovandosi anche spesso coinvolti in scontri con socialisti e fascisti. A partire da una esperienza milanese, Armida Barelli lanciò l’originale progetto di una Gioventù femminile cattolica (Gf), che iniziò a coinvolgere molte ragazze, non più solo delle classi abbienti. Il tentativo di Benedetto XV di rafforzare le capacità di coordinamento dell’”azione cattolica” da parte di una Giunta nazionale, però, fu molto faticoso.

La fase di fervore si chiuse con l’avvento del fascismo, che dopo le violenze degli anni di transizione e a seguito della svolta autoritaria del 1925-’27, provvide a sciogliere d’autorità la gran parte degli enti autonomi dal partito e dallo Stato. Le associazioni sportive e ricreative cattoliche, oltre quella scout (l’Asci), furono sciolte in occasione della nascita dell’Opera Nazionale Balilla (Onb), che voleva monopolizzare l’educazione dei giovani. Il movimento cattolico fu allora più strettamente radunato da Pio XI sotto la sigla della nuova Azione cattolica (v.), che con gli Statuti del 1923 configurava una struttura accentrata e strettamente dipendente dalla gerarchia, divisa in “rami” per età e per genere, oltre che capillarmente presente nelle parrocchie. Il Concordato del 1929 tutelava la sua autonomia, cosa voluta fortemente dalla Santa Sede, salvaguardando il suo ruolo di uno dei pochi spazi associativi indipendenti dal regime. L’Aci di massa fu così uno degli spazi più significativi della dialettica che si venne a costituire tra Chiesa e fascismo, che intrecciò strettamente un compromesso formale e una serrata competizione per il controllo delle anime (non senza momenti di tensione e di scontro aperto, come nel 1931 e nel 1938). Collegati strettamente a tale esperienza, poterono svilupparsi i movimenti intellettuali, cioè la già citata Fuci e il nuovo Movimento dei Laureati cattolici, germinato dallo stesso ambiente fucino nel 1934, sotto la regia e con la sensibilità di mons. Montini (che della Fuci stessa era stato assistente nazionale dal 1925 al 1933).

La ripresa democratica del secondo dopoguerra non poteva che riaprire un percorso di innovazione e disseminazione associativa. Il movimento cattolico veniva ancora pensato da papa Pio XII come fortemente unitario e accentrato, unificato attorno alla Chiesa-istituzione, che assumeva essa stessa connotazioni movimentiste (si pensi a eventi come il Giubileo del 1950 e la Crociata del gran ritorno). L’Azione cattolica, nello statuto riformato del 1946, doveva quindi essere formalmente il centro coordinatore di un universo specializzato. La regia di mons. Montini dalla segreteria di Stato fu importante in questa direzione. Di fatto,però, il pluralismo crebbe. Già nel 1944 erano state fondate le Associazioni cristiane dei lavoratori italiani (Acli), come organismo formativo e aggregativo dei lavoratori, pendant della realizzazione di un sindacato unitario con comunisti e socialisti. Dopo la scissione sindacale del 1948 e la nascita di un sindacalismo democratico e non confessionale nella Cisl, le Acli si ricollocarono come “movimento operaio cristiano” fuori dall’orizzonte strettamente sindacale. Ripresero vita anche organismi cooperativi, sociali, assistenziali. Un’esperienza innovativa fu la Confederazione dei coltivatori diretti (Coldiretti), che assunse il ruolo di lobby agricola nella Dc e nelle istituzioni pubbliche. Nel 1944, nell’alveo della Giac, prendeva le mosse un Centro Sportivo Italiano (Csi), con il parallelo femminile di una Federazione Attività Ricreative Italiane (Fari): era la ripresa di una specifica tradizione soppressa dal regime. Il movimento dei Laureati promosse varie unioni professionali di cattolici che, condividendo lo stesso ruolo lavorativo, riflettevano assieme sul senso spirituale della loro attività e sul rinnovamento cristiano degli ambienti sociali (Unione cattolica insegnanti medi, Uciim; Associazione dei maestri cattolici, Aimc; Unione dei giuristi cattolici italiani, Ugci; Unione cristiana imprenditori e dirigenti, Ucid). Lo scoutismo dell’Asci riprese vita, dopo lo scioglimento forzato, avvalendosi anche di qualche sperimentazione di attività clandestina nell’epoca del regime e della guerra: tra 1943 e 1944 naufragò un tentativo effimero di riunificazione con lo scoutismo aconfessionale del Cngei. L’epoca postbellica vide anche il primo solido sviluppo di uno scoutismo femminile, raccolto nell’Associazione guide italiane (Agi), con figure come Giuliana di Carpegna e Josette Lupinacci. Alcuni sodalizi già consolidati da qualche decennio, ispirati al modello della consacrazione personale di una vita condotta “nel secolo” vennero formalizzati secondo la nuova categoria degli “istituti secolari” (v.).

Nascevano anche nuove realtà, ancor più esterne rispetto al circuito dell’Ac. Nel 1944 si formò un Movimento di Rinascita cristiana, ispirato al pensiero dell’abate Cardjin, partendo da un riflessione sugli effetti della guerra nella società mondiale. Nel 1947 a Trento otteneva riconoscimento diocesano l’Opera di Maria, fondata da Chiara Lubich, che poi si evolverà nel Movimento dei Focolari. Dal 1950 il tronco delle congregazioni mariane di ispirazione gesuita dava vita a un percorso di rinnovamento in cui cresceva il ruolo dell’elemento laicale. Roma divenne nel frattempo sede attrattiva di movimenti nati in altri paesi (i Legionari di Cristo, l’Opus Dei, la Legione di Maria), che aprirono punti di riferimento italiani.

La stagione conciliare, collegata direttamente o indirettamente all’evento del Vaticano II fu indubbiamente un ulteriore momento di grande fermento e di passaggio nella storia dell’associazionismo ecclesiale. Il forte appello conciliare alla coscienza battesimale del cristiano nel popolo di Dio e la sua riflessione sulla “universale chiamata alla santità” ebbero un immediato riflesso nella critica al modello del primato dell’Azione cattolica, come via privilegiata dell’apostolato laicale. La stessa Ac si dovette profondamente ripensare come una via particolare di apostolato, mentre altre esperienze germinavano. Il carattere immediato e anti-istituzionale della cultura-ambiente dell’epoca influenzò parecchie esperienze aggregative. Ci fu un fiorire di “gruppi spontanei” che assunsero posizioni critiche di “dissenso” rispetto alla gerarchia, criticando le fragilità nella recezione del concilio, e arrivarono a tentare nel 1968 di costruire anche un coordinamento nazionale. Nacquero varie Comunità di base, utilizzando un modello fortemente radicato nell’America Latina: alcune di esse furono piuttosto effimere, altre molto durature; alcune iniziarono un percorso di rapida politicizzazione nell’esplosione dei movimenti sociali di fine decennio, altre cercarono un percorso più rigorosamente evangelico. Il coordinamento di tali comunità espresse posizioni politicamente radicali, vicine al movimento dei Cristiani per il socialismo (fondato nel 1973). Alcune esperienze valorizzarono il messaggio di emancipazione e crescita che veniva in quei frangenti dal Terzo Mondo, avviando duraturi rapporti di cooperazione internazionale (Mani Tese sorse nel 1964; l’Operazione Mato Grosso nel 1967, mentre dal decennio precedente operava a Milano il Celim). Movimenti giovanili e laicali si coagularono anche attorno ad alcune delle principali congregazioni religiose missionarie. Nel 1972, sul tronco di precedenti esperienze federative, nacque una Federazione degli organismi cristiani di servizio internazionale volontario (Focsiv). Tra le esperienze che svilupparono il ribellismo giovanile in un orizzonte di servizio ai poveri e di spiritualità essenziale va ricordata la Comunità di Sant’Egidio, fondata a Roma, nel quartiere di Trastevere, nel 1968. Essa ebbe nei decenni successivi una evoluzione sempre più cordialmente inserita nella trama istituzionale ecclesiastica e diretta a uno specifico lavoro per la pace internazionale e il dialogo tra i popoli e le religioni.

A parte il fiorire molto appariscente ma anche minoritario di queste realtà, va ricordato che nella stessa pastorale parrocchiale la formula del “gruppo di fedeli” divenne abituale, soprattutto a livello giovanile. Una ricerca del 1982 censiva più di 2000 gruppi, dediti a percorsi soprattutto formativi e spirituali, ma anche aggregativi e di solidarietà. Inoltre, negli anni ’70 in Italia ebbero luogo svolte significative all’interno di esperienze consolidate. Le Acli conobbero un’evoluzione classista e anticapitalista, che le portò a formulare una “ipotesi socialista” per lo sviluppo della società, denunciando il collateralismo con la Dc. La decisione della Cei di ritirare gli assistenti ecclesiastici e la “deplorazione” di Paolo VI furono l’acme di uno scontro che doveva essere ricucito solo lentamente, verso la fine del decennio ’70. Nel caso degli scout cattolici, la diffusione di posizioni favorevoli all’impegno sociale e politico non spostò la tradizionale centralità della questione educativa, ma un grosso ripensamento portò all’unificazione delle due associazioni, maschile e femminile, in un’unica Associazione guide e scout cattolici italiani (Agesci), che prese vita nel 1974, sottolineando valori nuovi quali quelli democratici e partecipativi, non senza parecchie fatiche. Prese invece definitivamente le distanze dall’Aci nel 1972 il movimento che si era sviluppato a partire dal 1954 come Gioventù studentesca (Gs) nell’ambito dell’Ac milanese, ad opera di don Luigi Giussani. Il percorso di Gs era diventato molto autonomo fin dagli anni ’60, sottolineando alcuni elementi come la testimonianza nell’ambiente di vita e la centralità dell’”incontro” con Cristo nell’attività del movimento. Dopo una sbandata nel clima della contestazione del ’68, il gruppo legato a Giussani diede vita a un nuovo movimento, del tutto indipendente dall’Ac, con il nome di Comunione e liberazione (Cl).

Altre forme aggregative nacquero e fiorirono in quegli anni, indirettamente sostenute dal clima creativo post-conciliare, introducendo in Italia modelli nati altrove. Si pensi ai carismatici cattolici del Rinnovamento nello spirito, che videro un primo gruppo Emanuele fondato a Roma nel 1973 e una convocazione nazionale di diversi gruppi nel 1978. Nel 1968 invece approdò a Roma il primo esperimento italiano di comunità del Cammino neocatecumenale, promosso qualche anno prima in Spagna da Kiko Argüello e Carmen Hernández: nel giro di qualche anno furono parecchie decine le comunità che presero piede. Nel campo della spiritualità familiare, si diffusero in quest’epoca anche in Italia le Équipes Notre-Dame, nate nel dopoguerra in Francia.

Di qualche anno più tardiva, ma sempre collegata all’eco conciliare, fu la stagione dell’esplosione di gruppi di volontariato cattolici di tipo nuovo (che oltrepassavano il modello assistenziale “istituzionalizzato” del passato). La nascita nel 1975 della Caritas italiana rappresentava l’istanza ecclesiale di coordinare e promuovere questo fermento, oltre che di inserire stabilmente nella pastorale l’istanza dell’attenzione agli ultimi. Ma ben oltre i gruppi collegati direttamente alla struttura ecclesiale tramite la Caritas, nacquero molteplici esperienze, spesso legate al carisma di un prete fondatore (don Luigi Ciotti e il Gruppo Abele, don Oreste Benzi e la Comunità Giovanni XXIII, don Franco Monterubbianesi e la Comunità di Capodarco, don Antonio Mazzi e il gruppo Exodus). Tra queste esperienze, quelle più sensibili a una dimensione politica forte del volontariato, avviavano dal 1982 il percorso di collegamento nazionale nel Coordinamento nazionale delle comunità di accoglienza (Cnca).

La stagione che cominciò a essere chiamata la “primavera” dei movimenti ecclesiali spontanei pose ben presto il problema di un coordinamento con la pastorale ordinaria. A parte gli ambienti critici del cosiddetto “dissenso”, infatti, i movimenti cercavano riconoscimento, ma non sempre la loro autonomia era ben vista. Negli anni ’70 in Italia si discusse molto del nesso tra la nuova dimensione movimentistica e la struttura locale delle diocesi e delle parrocchie, fino all’approvazione nel 1981 da parte della Cei di una “Nota sui criteri di ecclesialità di gruppi, movimenti e associazioni di fedeli”. Il testo tentava di coordinare l’apertura alle novità con una distinzione di ruoli e di rapporti con la pastorale, distinguendo tale collocazione in tre livelli: le associazioni “scelte e promosse” dall’autorità ecclesiastica, le aggregazioni “riconosciute” (il che implicava la partecipazione alle “consulte” o forme di coordinamento del laicato organizzato) e le aggregazioni “libere” e spontanee.

Il papato di Giovanni Paolo II è riconosciuto come uno dei momenti in cui la nascita di varie aggregazioni e movimenti ecclesiali ha ottenuto una visibilità centrale nella Chiesa. Il papa tutelò e promosse con grande enfasi nel 1981 un primo convegno internazionale dei “movimenti” – l’espressione divenne da allora dominante, appiattendo un poco modelli che originariamente erano stati anche pluralistici – e accelerò i processi di riconoscimento di alcuni movimenti che pendevano di fronte alla Cei e alla Santa Sede (nel caso italiano, si possono ricordare le situazioni di Cl, di Rns, dei neocatecumenali, degli stessi Focolari, mentre a livello globale significative furono scelte come la concessione della prelatura nullius all’Opus dei). La questione del governo della molteplicità di carismi e di spiritualità dei movimenti fu affidata a una forte sottolineatura del legame con la sede di Pietro e dell’obbedienza al papa. Scelta percepita e rilanciata da molti movimenti, che superarono difficoltà di inserimento nelle chiese locali con un rinnovato slancio “papalino”. In conseguenza di queste novità, la stessa Cei aggiornò nel 1993 la Nota pastorale del 1981, con riferimento al nuovo Codice di diritto canonico e all’enciclica Christifideles laici, con un tono generalmente più positivo verso i movimenti, chiamati a collaborare alla “nuova evangelizzazione”. L’unico, significativo, cenno all’esistenza di qualche problema sotterraneo fu la messa in guardia dal rischio di «ritenersi come unica interpretazione o realizzazione autentica della Chiesa».

Fonti e Bibl. essenziale

A. Canavero,I cattolicinella società italiana. Dalla metà dell’800 al Concilio Vaticano II, La Scuola, Brescia 1991; M. Faggioli, Breve storia dei movimenti cattolici, Carocci, Roma 2008; A. Favale (a cura di), Movimenti ecclesiali contemporanei. Dimensioni storiche, teologico-spirituali e apostoliche, Las, Roma 19914.


LEMMARIO




Azione Cattolica - vol. II


Autore: Guido Formigoni

Associazione ecclesiale di laici, strettamente legata alla gerarchia, sviluppatasi nel sec. XX sul tronco del “movimento cattolico” ottocentesco. Il concetto generico di “azione cattolica”, già nell’800, coincideva con l’insieme delle esperienze organizzate di associazionismo (v.) che il cattolicesimo intransigente aveva messo in atto per rispondere alla secolarizzazione e alla modernità, utilizzando i nuovi spazi creati dalle libertà moderne. In questo orizzonte, alcune esperienze avevano esplicita finalità formativa, spirituale e religiosa, come la Società della Gioventù Cattolica Italiana (Sgci), promossa nel 1868 da due animatori di circoli cattolici cittadini: il viterbese Mario Fani e il bolognese Giovanni Acquaderni. Tali giovani si dichiaravano “cattolici di professione”, intendendo alludere a un’intenzione di acquisizione personale e approfondita della fede, espressa anche in una testimonianza pubblica.

Dopo qualche difficoltà iniziale, attorno alla Sgci nel 1874, con la benedizione di Pio IX, prese forma l’Opera dei congressi e dei comitati cattolici (v. associazionismo cattolico). Dalla scelta di Pio X di sciogliere l’Opera nacque una prima specializzazione nelle forme dell’apostolato laicale, con la formazione nel 1905 di un’Unione popolare (Up), più attenta alla mobilitazione religiosa e morale, e di altri organismi distinti, dedicati a coordinare la presenza sociale e persino elettorale dei cattolici. A livello diocesano, una Direzione diocesana dell’Ac si proponeva di coordinare le diverse organizzazioni, con un modello esteso nel 1915 a livello nazionale. L’Up però stentò a crescere. Fu invece papa Pio XI (1922-1939) a istituzionalizzare l’Azione Cattolica come massima forma di “partecipazione dei laici all’apostolato gerarchico della Chiesa”, in virtù di un vero e proprio “mandato” ecclesiastico. In conseguenza di tale impostazione, si consolidò lo schema tipico dell’Azione Cattolica italiana, sigla ufficializzata con la riforma statutaria del 1923. Radicata capillarmente nelle parrocchie, si costruiva su quattro “rami” nazionali, cioè associazioni distinte per genere ed età (Gioventù femminile di Ac, Gf e Unione donne di Azione cattolica; Gioventù italiana di Ac, Giac, erede della Sgci, e Unione Uomini di Ac). A ogni livello, dal parrocchiale al nazionale, esistevano “giunte” di coordinamento tra i rami, presiedute da una figura unitaria. I dirigenti erano di nomina ecclesiastica, andando oltre le forme democratiche delle origini. Questa Ac prese caratteri di massa, arrivando nel secondo dopoguerra a 3.500.000 aderenti. Era il miglior simbolo di una risposta ecclesiale alle dinamiche e alle regole della mobilitazione delle masse, tipiche della società successiva alla prima guerra mondiale. Intendendo preservare e mobilitare i cattolici attorno alla Chiesa-istituzione, questo modello acquisiva al contempo forme di esperienza centralizzate e standardizzate, tipiche dei tempi moderni. Ai quattro “rami” si aggiunsero federativamente organismi specializzati per studenti universitari (la Fuci, già nata alla fine dell’800) e per Laureati e professionisti.

Nel ventennio fascista, tale struttura fu una delle poche realtà associate autonome dal regime (la Santa Sede volle tutelarla con il Concordato del 1929): anche se prevalentemente acquiescente allo stato di cose politiche, poté elaborare una formazione morale e religiosa “totalitaria” (l’espressione è di papa Ratti stesso) senz’altro autonoma dall’ideologia fascista. Si è parlato di “afascismo” per definire tale impostazione. Nel dopoguerra, con Pio XII, il modello venne rilanciato e il clima della democrazia condusse tale formazione morale e religiosa ad avere diversi sbocchi possibili: per alcuni dirigenti, si trattava di animare attraverso forme di partecipazione democratiche partitiche distinte dall’Ac le nuove istituzioni costituzionali; per altri, di mobilitarsi come forma di pressione permanente per affermare gli interessi cattolici (anche condizionando i governi a guida democristiana e prendendo forti posizioni nel dibattito civile). La costituzione di Comitati civici nel 1948, a fianco dell’Ac, ad opera del presidente degli Uomini, Luigi Gedda, fu l’avvio di una prevalenza progressiva del secondo modello, che ebbe occasione di svilupparsi nella presidenza nazionale dello stesso Gedda, dal 1952 al 1959.

Dopo il Vati­cano II, con la rivalutazione del carisma battesimale e della vocazione all’apostolato e alla santità di ogni cristiano, l’Azione Cattolica di massa consegnata dalla tradizione ha conosciuto un’indubbia crisi. La diaspora degli aderenti fu forte, ma l’associazione, con la presidenza di Vittorio Bachelet (affiancato dall’assistente mons. Franco Costa) si ricollocò nella linea prevista dal decreto AA (n. 20). La cosiddetta “scelta religiosa”, istituzionalizzata con un nuovo Statuto nel 1969, puntava a una concentrazione sull’essenziale, prendendo le distanze dall’ipotesi di condizionare la politica, e trovando la propria specifica collocazione ecclesiale, meno esclusiva che in passato, in una cooperazione stretta con i pastori al servizio della vita pastorale ordinaria delle comunità cristiane. In questa veste, l’Ac fu un importante tramite per la recezione capillare dell’impostazione conciliare, mirata a realizzare il primato dell’evangelizzazione in una prospettiva comunitaria, con la centralità della Parola e della liturgia. Non a caso l’espressione “scelta religiosa” venne in seguito utilizzata per delineare una strategia pastorale di tutta la Chiesa italiana. Scesa attorno a 600.000 aderenti negli anni ‘70, l’Ac ha continuato a essere, nei decenni successivi, una delle più cospicue e radicate associazioni laicali nella Chiesa.

Fonti e Bibl. essenziale

M. Casella, L’Azione cattolica nell’Italia contemporanea (1919-1969), Ave, Roma 1992; G. Formigoni, L’Azione cattolica italiana, Ancora, Milano 1988; E. Preziosi (a cura di), Storia dell’Azione cattolica. La presenza nella Chiesa e nella società italiana, Rubbettino, Soveria Mannelli 2008.


LEMMARIO




Bibbia - vol. II


Autore: Giovanni Rizzi1

Sono tre le linee guida per le moderne traduzioni scientifiche della Bibbia nelle chiese occidentali: una sempre migliore aderenza ai testi biblici originari in edizioni critiche adeguate; l’aggiornamento delle lingue della traduzione in rapporto alle sue evoluzioni epocali; il progresso delle conoscenze linguistiche, filologiche, culturali, archeologiche e storiche del mondo biblico. Nelle edizioni più di carattere pastorale sono presenti in misura diversa le stesse linee guida, o talvolta compare qualche altro criterio specifico. Permane la caratteristica nella traduzione della Bibbia di riflettere la fede, la preghiera, l’esegesi, l’interpretazione e il canone dei testi sacri. Si assiste a un’evoluzione rapida delle traduzioni moderne; in vari casi, la traduzione, per quanto curata, non è sentita come sufficiente per un’adeguata comprensione del testo biblico, così che si ritiene necessario corredarla di ampie introduzioni e di copiose note.

Possiamo caratterizzare la storia delle edizioni della Bibbia in Italia in cinque fasi principali: la crisi «modernista»; dalla Divino Afflante Spiritu (1943) al Concilio Ecumenico Vaticano II; la fioritura postconciliare; le edizioni della Bibbia curate dalla Conferenza Episcopale Italiana (CEI).

La crisi «modernista». Non erano mancati eminenti studiosi italiani, che avevano curato importanti edizioni critiche relative alla LXX (A. Mai, 1857; C. Vercellone e G. Cozza, 1868-1881), alla Siroesaplare (A.M. Ceriani, 1874), o imponenti lavori fondamentali in vista di un’edizione critica della Vulgata (C. Vercellone, 1860-1864), ma la chiesa cattolica italiana, nonostante vari tentativi di traduzione di qualche libro biblico dalle lingue originali, aveva camminato nel solco delle indicazioni tridentine, attenendosi alla traduzione dalla Vulgata e alle spiegazioni esegetiche ed ermeneutiche del magistero, corredate dalle tradizioni patristiche. Ciò aveva contribuito a creare un significativo e doloroso ritardo rispetto ad altre aree della chiesa cattolica di lingua francese, inglese e tedesca per l’esegesi biblica, le scienze orientalistiche e la traduzione stessa della Bibbia nelle lingue moderne.

L’affermarsi a livello divulgativo del genere della «Storia sacra», epitome di episodi biblici selezionati e parafrasati, corredati da didascalie e illustrazioni, sanciva nell’area cattolica italiana un profondo distacco tra gli studiosi, più aperti alle istanze delle moderne scienze bibliche orientalistiche, e la gente comune, con un progressivo allontanarsi di persone più colte o con esigenze culturali più vivaci dalla vita stessa della chiesa. Nel 1902 sorgeva in Vaticano la Pia Società S. Girolamo per diffondere a prezzi minimi e in milioni di copie i Vangeli, inizialmente tradotti in italiano da G. Clementi, annotati da G. Genocchi e presentati da G. Semeria, che guardò anche ai nuovi orientamenti dell’esegesi moderna; tra i collaboratori e promotori dell’impresa c’era Mons. Giacomo Della Chiesa, divenuto poi Benedetto XV.2

Gli interventi della Pontificia Commissione Biblica (PCB) erano prevalentemente di condanna di posizioni ritenute errate (1905-1933) nelle ipotesi-quadro o nelle affermazioni degli studiosi «modernisti», avvertite come pericolose per la fede e la comunità cristiana. Le contromisure magisteriali di Pio X (decreto Lamentabili 1907; enciclica Pascendi 1907) riguardarono soprattutto l’esegesi, l’ermeneutica e le teologie proposte dall’avanzamento degli studi biblici e orientalistici, fino a coinvolgere non solo le ricostruzioni storiche del mondo biblico ma anche la teologia sistematica e la morale cattolica. Due erano le questioni centrali: la priorità della ricerca storico-critica o dell’impianto teoretico-filosofico nei nuovi sviluppi delle scienze bibliche e orientalistiche; la portata e limiti dei nuovi metodi di analisi. La tesi di Pio X era che l’ideologia teoretico-filosofica avesse influenzato lo studio dei testi biblici; i biblisti dell’epoca erano convinti del contrario e che eventualmente ci fossero stati degli eccessi; la vera questione era epistemologica, sulla portata e sui limiti dei metodi elaborati.

Perplessità verso le moderne scienze bibliche e orientalistiche e diffidenza verso il magistero ecclesiale stesso dopo le condanne «antimoderniste» (inizio del sec. XX) contribuirono a incrementare il distacco della gente comune dalla Bibbia, ma anche nel clero e nei religiosi, che non avevano ordinariamente un libero accesso alla lettura integrale della Bibbia stessa. Sospetti e condanne verso le «Società bibliche», cresciute nelle chiese riformate e destinate alla divulgazione della Bibbia anche nelle missioni, furono superati solo con il Concilio Vaticano II, dopo il quale si intensificarono invece le collaborazioni.

Studiosi cattolici come L. Tondelli, P. Vannutelli, G. Ricciotti e altri possedevano le conoscenze necessarie per portare un contributo agli studi biblici e a una traduzione dell’intera Bibbia in italiano dalle lingue originarie, ma fu necessario l’impulso di altre scuole presenti o conosciute in Italia per poter affrontare la reazione anti-modernista. Limiti e portata dei nuovi metodi storico-critici e letterari nello studio della Bibbia furono il centro della controversia tra la scuola francese, guidata J.-M. Lagrange, fondatore dell’École Biblique di Gerusalemme (1890), la scuola del Pontificio Istituto Biblico (1909, voluto da Pio X), rappresentata da A. Vaccari, e la scuola di Milano. Non fu facile raggiungere un’intesa sulle questioni aperte, a fronte degli interventi del magistero pontificio, variamente intesi, e di quelli della PCB.

Alcuni studiosi italiani si mossero all’interno di queste coordinate, cercando un “compromesso all’italiana”, tra istanze pastorali di aggiornamento ormai inderogabili, limitazioni permanenti da parte dell’autorità ecclesiastica e necessità di svecchiamento degli stereotipi tradizionali alla luce delle nuove acquisizioni scientifiche e culturali: La Sacra Bibbia (Firenze 1929), voluta da G. Rossi, superiore generale della Compagnia di S. Paolo, e curata da G. Castoldi con un qualificato gruppo di collaboratori si collocava ancora in una fase calda della polemica tra «modernisti» e «anti-modernisti».

Dalla Divino Afflante Spiritu (1943) al Concilio Ecumenico Vaticano II. Perché in Italia si sbloccasse la situazione fu decisivo l’impulso magisteriale di Pio XII con l’enciclica Divino Afflante Spiritu (1943), che promuoveva anche le traduzioni bibliche dai testi originali, aprendo la porta ai metodi moderni di indagine storico-critica. Finita la seconda guerra mondiale, A. Vaccari guidava un nutrito gruppo di biblisti nella prima traduzione scientifica dalle lingue originali dei testi biblici in italiano (Firenze 1957-1958, 10 voll., ridotti poi a 1 vol.), realizzando finalmente un desiderio di Pio X (lettera del 29/9/1913 al superiore generale dei Gesuiti). L’attenzione andava anche per nuove traduzioni, fedeli ai testi originali ma accessibili alla gente comune e conformi all’interpretazione della chiesa cattolica, come quella voluta da G. Alberione (Roma 1958), o più accurate come quella di F. Nardoni (Firenze 1960), con brevi note al testo.

Nel 1960 usciva la prima e unica versione italiana a tutt’oggi completa dell’Antico Testamento dal testo greco della Septuaginta, ad opera di Aristide Brunello: La Bibbia secondo la versione dei Settanta; il traduttore affermava di essersi basato sull’edizione allora critica del testo greco di A. Rahlfs (1935; quinta edizione nel 1952), così come essa si presentava, e annotava dove il testo si allontanava dalla Vulgata latina, o dove la Vulgata o il testo greco omettevano qualche versetto. Lo scopo principale era valorizzare l’autorità della Bibbia Greca dei Settanta che aveva costituito un tempo la Bibbia ufficiale della Chiesa anche Latina e che godeva nella Chiesa e nella Liturgia Bizantina. G. Perniciano, vescovo ausiliare di Piana degli Albanesi, evidenziava nella prefazione all’opera in due volumi, che la traduzione italiana della Septuaginta era destinata principalmente all’Eparchia di Piana degli Albanesi e all’Associazione Cattolica Italiana per l’Oriente Cristiano. L’antica versione greca della Septuaginta per l’AT è ancora oggi il testo della Liturgia Bizantina. Si può così ritenere che la versione di A. Brunello abbia un’autorevolezza “scritturistica”, in quanto testo accolto e pregato da una viva comunità cristiana di lingua italiana.

Il Concilio Ecumenico Vaticano II (1962 – 1965), con la costituzione dogmatica Dei Verbum, promuoveva il rinnovamento biblico nella teologia come nella vita della chiesa cattolica, accogliendo e discernendo le varie istanze emergenti: l’incoraggiamento all’uso dei moderni metodi di analisi dei testi biblici, la sottolineatura sul loro senso storico-letterale e l’attenzione ai generi letterari dovevano portare a evidenziare la sinergia tra l’ispirazione del testo sacro e l’attività degli antichi agiografi nel loro contesto culturale; ma l’interpretazione della Bibbia nelle sue singole parti doveva avere ben chiara l’unità teologica dell’AT e del NT nella centralità del mistero di Gesù Cristo. Nell’accuratezza delle traduzioni dai testi originali, il lavoro esegetico doveva avvenire in un contesto effettivamente ecclesiale, senza ridursi a un’operazione puramente filologica e razionalistica.

Durante la seconda e la terza sessione del Vaticano II, S. Garofalo curava La Sacra Bibbia (Casale Monferrato 1963; 3 voll.), sotto la direzione di F. Vattioni per l’AT e L. Algisi per il NT; lo stesso anno E.R. Galbiati, A. Penna e P. Rossano proponevano La Sacra Bibbia (Torino), che sarebbe diventata la base per l’edizione ufficiale nel 1971 della Bibbia della Conferenza Episcopale Italiana (CEI). B. Mariani guidava un gruppo di biblisti francescani per La Sacra Bibbia, tradotta dalle lingue originali (Milano 1964). Qualche contrapposizione alle aperture conciliari si manifestò ancora nella riedizione della traduzione di A. Martini dalla Vulgata (Roma 1967-1972, 3 voll.).

Poco dopo la fine del Vaticano II, usciva l’edizione critica della Vulgata, curata da R. Weber (Stuttgart 1969, Editio Minor), che il Concilio di Trento avrebbe voluto intraprendere e per la quale Pio X aveva dato l’incarico ai benedettini nel 1907; ma, durante il Vaticano II, Paolo VI voleva che si arrivasse a una revisione della Vulgata stessa, rendendola conforme ai testi originali, là dove essa si era allontanata; l’operazione fu ultimata con la Vulgata Nova (Typis Poliglottis Vaticanis 1979; 1998), promulgata da Giovanni Paolo II come testo ufficiale della chiesa cattolica e proposta come modello di traduzione, a cui avrebbero dovuto guardare tutte le traduzioni della Bibbia nelle lingue parlate. La traduzione più recente curata dalla CEI (2008), ha cercato di tenere presente questa istanza magisteriale. Si può affermare che con la Vulgata Nova si chiude il processo di inculturazione della fede cristiana nella tradizione originariamente di lingua latina. Ci sono voluti circa 1500 anni perché dalla prima grande traduzione geronimiana della Vulgata dai testi originali si potesse arrivare a disporre degli strumenti necessari per revisionare criticamente sui testi biblici nelle lingue originali in edizioni critiche affidabili l’antica versione latina, di importanza fondamentale per circa un millennio per tutte le chiese occidentali. Girolamo, secondo la fede della comunità cristiana cui apparteneva, non poté rinunciare a evidenziare il senso cristiano anche dell’AT e neppure i revisori attenti della Vulgata Nova hanno voluto cancellare le tracce più essenziali e riconfermate dalla tradizione liturgica di questa lettura cristiana della Bibbia.3

La fioritura postconciliare. Gli interventi della PCB sono sempre più diventati di orientamento all’interno delle discussioni emergenti (1941-1990), fino al più recente documento: L’interpretazione della Bibbia nella Chiesa (Città del Vaticano 1993), dove si è cercato di tratteggiare una dialettica tra metodi diacronici e sincronici, nuovi approcci e riposizionamento dell’ermeneutica patristica dei testi biblici, mettendo in guardia verso nuove tendenze fondamentaliste. I metodi d’indagine diacronici, ormai molto più sviluppati e raffinati rispetto agli inizi della critica moderna, sono posti alla base dell’interpretazione della Bibbia, non solo per la ricerca degli studiosi, ma anche nella formazione dei seminari e degli altri istituti di formazione pastorale; si evidenzia il valore integrativo fondamentale dei metodi sincronici di analisi del testo biblico, per una corretta ed efficace comprensione della Bibbia; accanto a questi strumenti basilari sono presi in considerazione altri approcci, di varia origine e natura, che possono dare utili spunti per significativi approfondimenti del testo biblico, anche se la loro utilizzazione non è così strutturante come quella dei metodi diacronici e sincronici. Il recupero dell’esegesi e dell’ermeneutica biblica dei padri della Chiesa avviene in un contesto soprattutto inter-ecclesiale; è un’operazione necessaria, ma forse non è ancora chiarito al meglio il suo rapporto con l’esegesi moderna: si riconosce e si ribadisce il valore irrinunciabile dell’esegesi e dell’ermeneutica dei padri della Chiesa, ma non è chiaro il suo statuto epistemologico in rapporto all’esegesi scientifica moderna. Una linea recente tende a sviluppare un concetto di metodo nella tradizione patristica intorno al principio della relatività del testo scritto in quanto tale, di fronte al primato della Parola impressa nel cuore dell’uomo (G.I. Gargano, Il sapore dei Padri della Chiesa nell’esegesi biblica, Cinisello Balsamo 2009).

La dimensione ecumenica (cattolici, riformati e ortodossi) e interreligiosa (ebrei), ispirantesi al Vaticano II, si faceva strada nel mondo italiano con la La Bibbia Concordata (Milano 1968). Più avanti, nella Parola del Signore (Torino – Roma 1976-1985), una traduzione interconfessionale in linguaggio italiano corrente, si rifletteva in Italia qualcosa di una sensibilità già largamente corrente nel mondo francofono e nelle missioni: il ricorso agli «equivalenti culturali» di una lingua parlata nel tradurre la Bibbia; nel mondo italiano l’interesse per l’esperimento non è durato a lungo; corso effimero hanno avuto anche alcune traduzioni parziali o anche complete della Bibbia nei dialetti locali di alcune regioni italiane. Nel frattempo le prime due edizioni della traduzione della Bibbia, curate dalla CEI (1971; 1974) erano entrate effettivamente nell’uso corrente della chiesa italiana. L’arricchimento di materiale didascalico sulla base del testo della CEI proseguiva con la Bibbia di La Civiltà Cattolica (Roma 1974; 1978); Bibbia. Parola di Dio per noi, (Torino 1980, 3 voll.) e con la Bibbia per la formazione cristiana (Bologna 1993). La Bibbia. Nuovissima versione dai testi originali (Roma 1983) concludeva un iter editoriale iniziato nel 1967, offrendo di fatto un vero e proprio commentario all’intera Bibbia, come si è verificato anche per La Bibbia (Casale Monferrato, 1995).

Il progresso delle scienze bibliche e orientalistiche stava portando a maturare nuove ipotesi-quadro sulla formazione dei corpi letterari formanti la Bibbia, come dei singoli libri, fino a modificare profondamente alcune precedenti impostazioni, ormai di lungo corso. Nell’«Introduzione alla Torah» per la riedizione del 1995 delle Miqrā’ôt, in ebraico con traduzione italiana a fronte (D. Disegni, Torino 1960-1967), si tendeva invece a ritornare in modo troppo semplicistico e affrettato all’interpretazione tradizionale.

L’impegno pastorale e divulgativo della Bibbia, attraverso una selezione delle sue parti accurata, scientifica e accessibile al gran pubblico, ha trovato in E.R. Galbiati, coadiuvato da vari collaboratori, un autorevolissimo interprete in una trilogia: Il Vangelo di Gesù (Pessano 1966) La storia della salvezza nell’Antico Testamento (Pessano 1969), La Chiesa delle origini negli Atti degli Apostoli e nei loro scritti (Pessano 1972); i volumi, corredati da ottime illustrazione e opportune didascalie, con numerose riedizioni a larghissima tiratura e tradotti anche in altre lingue, sono stati adottati spesso come libri di testo nelle scuole e soprattutto per i pellegrinaggi in Terra Santa, contribuendo in modo decisivo a far conoscere la Bibbia al gran pubblico italiano in epoca post-conciliare.

Più recentemente, si è affacciata una nuova sensibilità per le antiche versioni della Bibbia attraverso edizioni di singoli libri, come il targum del Cantico dei cantici (cfr. U. Neri, Roma 1976), di Isaia (G. Lenzi, Genova 2004), di Rut (E. Poli, Genova 2010); oppure la Septuaginta del Pentateuco (L. Mortari, Roma 1999); o anche la sinossi con apparato critico per il testo masoretico, la Septuaginta e il targum dei Profeti Minori (S.P. Carbone – G. Rizzi, Bologna 1993-2001). La caratteristica comune di queste traduzioni, precedute o concomitanti ad altre imprese editoriali più cospicue di lingua francese, spagnola, tedesca e inglese, è di provenire da un unico contesto monastico, che pratica la lectio divina del testo biblico e l’omelia dialogata sui testi liturgici.

Più recentemente, ha preso corpo una versione italiana con il testo greco del corpus letterario della Septuaginta a fronte, sotto la direzione di P. Sacchi con molti altri collaboratori, nell’impresa editoriale presso la Morcelliana: a tutt’oggi sono stati pubblicati 4 volumi (Pentateuco 2012; Libri storici I-II 2016; Libri poetici 2013); manca ancora il volume sul corpus dei Libri profetici. L’edizione è corredata da introduzioni ai corpi letterari e ai singoli libri biblici, con note al testo della traduzione.

Largo riscontro sta incontrando anche l’edizione in corso in vari volumi della Bibbia Ebraica Interlineare, dove la traduzione italiana interlineare è affiancata dalla LXX e dalla Vulgata; l’iniziativa si rivela preziosa per gli studenti delle facoltà teologiche e dei seminari, ma anche nei gruppi ecclesiali con nuove esigenze culturali.

Le traduzioni curate dalla CEI. La pubblicazione di La Bible de Jérusalem a cura dei professori dell’École Biblique et archéologique française di Gerusalemme (Parigi 1948-1953, 43 voll.; in formato manuale 1955; 1973; 1998) è stata la conclusione della lunga e controversa evoluzione degli studi biblici e orientalistici in area cattolica, severamente messa alla prova dalle polemiche «moderniste» e «antimoderniste». Con essa si era raggiunta un’opinione comune più consolidata ed equilibrata, ormai desiderosa di avere una Bibbia tradotta direttamente dalle lingue originali, corredata di introduzioni e note, che illustrassero il senso storico-letterale originario dei testi biblici, accogliendo i dati aggiornati dell’esegesi moderna. L’autorevolezza e l’influsso di questa impresa editoriale sul mondo non solo cattolico fu enorme. In Italia la nuova traduzione divenne di dominio pubblico in concomitanza con il Concilio Ecumenico Vaticano II e anche la seconda edizione della traduzione italiana della Bibbia curata dalla CEI (1974) ne tenne esplicitamente conto, soprattutto per le introduzioni e le note esplicative ai testi biblici.4

Nel 1965 la segreteria della CEI aveva iniziato a progettare una nuova traduzione italiana della Bibbia dalle lingue originali dei testi, che fosse adatta all’uso liturgico, secondo le indicazioni del Concilio Vaticano II (Dei Verbum 22); si voleva esattezza teologica, in conformità con le interpretazioni della Sacra Scrittura fatte lungo i secoli da Tradizione e Magistero e in accordo con la Vulgata; modernità e bellezza della lingua italiana; eufonia della frase per favorirne la proclamazione; ritmo che permettesse la possibilità di musicare, cantare, recitare i testi, in particolare i Salmi e gli inni contenuti negli altri libri biblici; introduzioni e note esplicative che accogliessero adeguatamente i dati dell’esegesi moderna. Si ritenne più agevole avvalersi della traduzione già esistente curata da E.R. Galbiati, A. Penna e P. Rossano (Torino 1963); si arrivò all’Editio princeps in 2 voll. (Roma 1971): il primo conteneva la traduzione; il secondo le note al testo, senza alcun carattere di ufficialità.

L’uso della nuova traduzione ne fece emergere anche i limiti, che si cercò di correggere nella seconda edizione, curata dalla CEI (1974). La nuova traduzione trovò subito uno sbocco editoriale di larghissima diffusione nell’edizione dell’EDB (Bologna 1974, con una trentina di riedizioni), che desumeva introduzioni e commenti da La Bible de Jérusalem (1973), traendone anche titoli e le referenze marginali per i passi paralleli; un gruppo di biblisti italiani, sotto la direzione di F. Vattioni, curava le note di critica testuale, soprattutto là dove l’edizione della CEI aveva scelto una lezione diversa da La Bible de Jérusalem, offrendone le motivazioni. L’edizione bolognese divenne il testo più diffuso in Italia per la catechesi, per il gruppi ecclesiali, nei seminari e negli altri istituti di formazione per la vita pastorale, per i religiosi e le religiose. L’influsso francese proseguiva nella traduzione italiana della Traduction Oecuménicque de Bible (TOB), con testo della CEI (Torino 1976-1979).

La larghissima diffusione e il prolungato uso della traduzione della CEI del 1974 nelle edizioni, che vi avevano fatto ricorso, ne stava mettendo in risalto anche i limiti, così che la CEI cominciò a progettarne nel 1986 una terza edizione, che giunse a termine nel 2008, dopo aver consultato anche la Federazione delle chiese Evangeliche d’Italia e l’Assemblea dei Rabbini d’Italia.5

Con l’edizione del 2008 si è cercato di costruire, nell’ambito propriamente religioso, uno specifico patrimonio lessicale mantenendo in italiano vari calchi dei termini biblici originari, attraverso il latino o il greco, per non impoverire concetti importanti, conservando per quanto possibile una terminologia religiosa specifica, ormai attestata grazie alle precedenti traduzioni. Rispetto alle precedenti edizioni, la traduzione del 2008 presenta un testo corredato da introduzioni concise, sobriamente modificate in base all’evoluzione degli studi, con pochissime note, limitando le indicazioni dei passi biblici paralleli a quelli tra 1-2Re e 1-2Cr e dei Vangeli Sinottici. Alcune importanti interpretazioni nuove sono emerse per l’AT e per il NT.

Tra le novità più rilevanti c’è lo spazio nuovo dedicato all’antica versione della Septuaginta: il libro di Ester, comprendente anche sei ampie sezioni deuterocanoniche provenienti dalla Septuaginta, è stato accolto nella chiesa cattolica fino al Vaticano II in una forma comprendente la traduzione dal testo ebraico, mettendo invece in appendice le parti deuterocanoniche. Le due precedenti edizioni della CEI avevano integrato queste sezioni negli specifici punti del testo di Ester, così da offrire un traduzione continuata del libro mescolando il testo ebraico con quello greco. Secondo la chiesa cattolica, entrambe le forme testuali, ebraica e greca, sono da considerarsi canoniche, così che nell’ultima revisione la CEI ha scelto di tradurre entrambe integralmente, ponendo nella parte superiore della pagina la traduzione del testo greco e in quella inferiore la traduzione del testo ebraico. In nota sono segnalate le differenze con la Nova Vulgata.

Il libro del Siracide è stato trasmesso in due forme testuali in greco, una più lunga e una più breve; è nota anche una tradizione testuale in ebraico in due forme diverse incomplete; il siriaco presenta una traduzione completa dal testo ebraico, che non coincide al meglio con quanto conosciamo del testo ebraico, e una traduzione dal testo greco; la tradizione cristiana ha utilizzato una versione latina tratta dal testo greco più lungo, ma con varie aggiunte. La revisione del 2008, ha adottato il più autorevole testo greco corto, ma pone in corsivo le aggiunte presenti nel testo greco lungo; nelle note si segnalano alcune differenze con l’ebraico e passi in cui ci si distacca dalle scelte della Nova Vulgata.6

Questo genere di scelte editoriali porterebbe riaprire questioni importanti, come il ruolo di testo ispirato della Septuaginta anche per gli altri libri della Septuaginta, tradotti dall’ebraico e non solo per per le parti deuterocanoniche, assenti nei libri appartenenti al testo ebraico del canone cristiano dell’AT, e per i libri deuterocanonici (Tobia, Giuditta, 1-2 Maccabei, Baruc e Lettera di Geremia, Sapienza e Siracide). D’altra parte, il recente documento della Pontificia Commissione Biblica, Ispirazione e verità della Sacra Scrittura (2014) non ha voluto trattare esaustivamente tutte le questioni connesse all’ispirazione della Sacra Scrittura, cercando invece di esemplificare nel modo più chiaro e semplice possibile i problemi aperti sulla storicità della Bibbia nei suoi variegati generi letterari emergenti dagli studi diacronici e sincronici dei testi biblici, con specifica attenzione ai temi della violenza e dello statuto sociale della donna nella Bibbia.

A un anno di distanza dall’edizione della Bibbia CEI 2008, è uscita una nuova edizione della Bibbia di Gerusalemme (EDB, Bologna 2009), giunta ora all’ottava ristampa (marzo 2017), che presenta il testo italiano dell’edizione della CEI 2008, ma si avvale delle note e dei commenti di La Bible de Jérusalem (1998); gli aggiornamenti delle introduzioni e delle note, adattate queste ultime da un gruppo di biblisti italiani alla nuova versione della CEI, tengono conto dell’evoluzione attuale degli studi biblici e delle scienze orientalistiche.

Fonti e Bibl. Essenziale

Edizioni: Biblia Sacra iuxta vulgatam versionem, a cura della Commissione pontificia per la revisione della Vulgata, Tipografia Poliglotta Vaticana, Roma 1926-1995; La Sacra Bibbia, Tradotta dai testi originali con note, a cura del Pontificio Istituto Biblico di Roma, Salani, Firenze 1943-1958; Biblia Sacra iuxta Vulgatam versionem, a cura di R. Weber – B. Fischer – J. Gribomont – H.F.D. Sparks – W. Thiele, Deutsche Bibel Gesellschaft, Stuttgart 1983; Nova Vulgata Bibliorum Sacrorum Editio, sacrosancti oecumenici Concilii Vaticani II ratione habita, iussu Pauli PP. VI recognita, auctoritate Ioannis Pauli PP. II promulgata, Editio typica altera, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 1998; La Sacra Bibbia, Tradotta in lingua italiana e commentata da G. Diodati, a cura di M. Ranchetti – M. Ventura Avanzinelli, Mondadori, Milano 1999; La Bibbia di Gerusalemme, Testo biblico di La sacra Bibbia della CEI 1971, Note e commenti di La Bible de Jérusalem (1973; 1984), Edizione italiana e adattamenti a cura di un gruppo di biblisti italiani sotto la direzione di F. Vattioni, EDB, Bologna 200017; La Sacra Bibbia, CEI-UELCI, Libereria Editrice Vaticana, 2008. Documenti: Pontificia Commissione Biblica, L’interpretazione della Bibbia nella Chiesa, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 1993; Pontificia Commissione Biblica, Ispirazione e verità della Sacra Scrittura. La parola che viene da Dio e parla di Dio per salvare il mondo, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 2014. Cataloghi: Istituto centrale per il catalogo unico delle biblioteche italiane e per le infomazioni bibliografiche, Bibbia, Catalogo di edizioni a stampa (1591-1957), Roma 1983. Studi: R.E. Brown – T.A Collins, Pronunciamenti della Chiesa, in Nuovo Grande Commentario Biblico, a cura di R.E. Brown – J.A. Fitzmyer – R.E. Murphy, edizione italiana a cura di F. Dalla Vecchia – G. Segalla – M. Vironda, Queriniana, Brescia 1997, 1535-1445; G. Rizzi, Edizioni della Bibbia nel contesto di Propaganda Fide. Uno studio sulle edizioni della Bibbia presso la Biblioteca della Pontificia Università Urbaniana, voll. I-III, Urbaniana University Press, Roma 2006; G. Rizzi, Le antiche versioni della Bibbia. Traduzioni, tradizioni e interpretazioni, San Paolo, Cinisello Balsamo (Milano), 2009; M. Gilbert, Il Pontificio Istituto Biblico: cento anni di storia (1909-2009), traduzione dal francese di C. Valentini, PIB, Roma 2009; G. Rizzi, Le versioni italiane della Bibbia. Dalla Bibbia del Malermi (1471) alla recente versione della CEI (2008), San Paolo, Cinisello Balsamo (Milano), 2010; La Bibbia di Gerusalemme, Testo biblico di La Sacra Bibbia della CEI (editio princeps 2008), Note e commenti di La Bible de Jérusalem (1998), Direzione editoriale A. Filippi, EDB, Bologna 2017; G.I. Gargano, Il sapore dei Padri della Chiesa nell’esegesi biblica. Una introduzione a una letteratura sapienziale della Scrittura, San Paolo, Cinisello Balsamo (Milano), 2009.

Immagini: 1) Carlo Vercellone: frontespizio delle Variae lectiones Vulgatae latinae (1864); 2) Giovanni Semeria (Coldirodi, 26/9/1867 – Sparanise, 15/3/1931); 3) Nova Vulgata: Bibliorum Sacrorum Editio, Libreria Editrice Vaticana 1986; 4) Enrico Rodolfo Galbiati  (Giussano, 4/2/1914 – Verano Brianza, 4/3/2004); 5) Edizione elettronica su Tablet della Bibbia secondo l’edizione curata dalla Conferenza Episcopale Italiana (2008); 6) Pontificia Commissione Biblica, documento sull’ispirazione e verità della Sacra Scrittura (2014).


LEMMARIO




Biblioteche - vol. II


Autore: Federico Gallo

L’Unità d’Italia si aprì con un capitolo dolorosissimo per le biblioteche ecclesiastiche. Il governo dei Savoia infierì sui patrimoni e i possessi ecclesiastici, confiscando una quantità immensa di beni mobili ed immobili appartenenti alla Chiesa. Queste manovre ebbero inizio nel regno sabaudo nel 1855, quando furono soppresse le comunità religiose che non fossero impegnate in attività di assistenza sociale, incamerandone i beni; tale legge fu applicata all’intero territorio del nascente Regno d’Italia nel 1860-1861. Un regio decreto del 1866 estese le soppressioni a tutte le comunità religiose di vita comune; nel 1873 anche Roma subì il medesimo destino. I libri appartenuti agli enti religiosi furono incamerati dallo Stato e finirono nel Fondo per il culto; rimasero in loco soltanto le biblioteche delle grandi istituzioni abbaziali, ad esempio Montecassino e Subiaco. Come già al tempo delle spoliazioni napoleoniche, furono risparmiate le biblioteche appartenenti ad istituzioni diocesane, ossia episcopî, capitoli, parrocchie, seminari.

Fortunatamente fu scelto di non confiscare i libri dando loro una destinazione di tipo centralizzato, bensì di lasciarli nella provincia di appartenenza. La sorte di tale patrimonio bibliotecario fu dunque non tanto la perdita del legame con il proprio luogo di appartenenza, che pure ci fu, quanto invece la destinazione a biblioteche laiche, le quali, generalmente, non erano in grado di valorizzare quel tipo di patrimonio librario e si limitavano a tenerlo accatastato nei propri locali. Emblematica a questo riguardo la frequente destinazione dei libri delle case religiose soppresse alle biblioteche comunali di competenza. Tali biblioteche ricevettero molti manoscritti e volumi di contenuto non utile, o non adatto alla fruizione del pubblico: opere di contenuto teologico o canonistico, delle quali erano chiaramente ricche le biblioteche ecclesiastiche, non potevano trovare lettori a loro interessati negli italiani di media cultura che accedevano o avrebbero potuto accedere alle biblioteche del loro comune di residenza. Tali opere subirono dunque un vero e proprio esilio, dal quale non sono mai ritornate.

Oltre a questa situazione impropria, le soppressioni sabaude causarono anche uno sviluppo disomogeneo e disarmonico nelle biblioteche ecclesiastiche rimaste in vita o ricreatesi. Derubate del loro patrimonio storico, esse dovettero poco alla volta ricostituirsi ex novo senza poter contare sulla sedimentazione di materiale acquisito nel corso dei secoli, patendo talvolta evidenti squilibri dal punto di vista della completezza di panorama nella scelta delle materie. Lo stesso accadde per le biblioteche ecclesiastiche permesse dal governo (quelle dei seminari, ad esempio) che in qualche maniera riuscirono ad ereditare i libri delle biblioteche soppresse. In questi casi si verificò una sorta di innesto su un corpo estraneo, per esempio facendo confluire nella biblioteca di un seminario diocesano o di un episcopio un vasto fondo proveniente dalla casa soppressa di un ordine religioso. Ancora una volta, con un risultato disarmonico e disomogeneo.

Restarono in vita le biblioteche di pertinenza diocesana; quelle monastiche, conventuali e religiose rinacquero con le difficoltà or ora esposte; proseguirono il loro cammino le grandi istituzioni come la Vaticana e l’Ambrosiana; altre, come la biblioteca dell’Università pontificia «La Sapienza», passarono di proprietà allo Stato. Tra le biblioteche particolarmente significative dell’Italia unita vi furono quelle dei seminari. Esse vennero sempre accrescendosi e ammodernandosi, per accompagnare la formazione dei futuri pastori con strumenti copiosi e adatti. Una biblioteca molto ricca e celebre è quella del Seminario Arcivescovile di Milano, che ha attualmente sede a Venegono Inferiore (Varese). Furono altrettanto interessanti e idealmente complementari le biblioteche “popolari” cattoliche, sórte soprattutto nelle parrocchie sùbito dopo l’Unità d’Italia a servizio dei fedeli, con una diffusione non omogenea sul territorio nazionale e con caratteristiche altrettanto disomogenee per estensione, periodo di attività e tipologia di libri. La Federazione italiana delle biblioteche cattoliche nacque a Milano nel 1904. Vanno annoverate anche le biblioteche delle Congregazioni religiose moderne, come pure quelle degli istituti missionari.

Un settore molto importante nato, o perlomeno sviluppato in modo nuovo, nel Novecento riguarda le biblioteche degli atenei. Sorte contestualmente all’istituzione, esse ne sono parte essenziale e vivace. Vi sono anzitutto le Università pontificie romane con i loro numerosi Istituti: Gregoriana, Lateranense, Urbaniana, Angelicum, Salesiana, Santa Croce, Antonianum, Anselmianum, Regina Apostolorum; e le Facoltà Teologiche Seraphicum, Teresianum, Marianum. Fuori Roma vi sono le Facoltà Teologiche di Torino, Milano, Padova, Bologna, Firenze, Bari, Palermo, Cagliari. Vanno inoltre menzionate le biblioteche degli Istituti di Scienze religiose; esse talvolta, oltre al patrimonio di testi per lo studio della teologia, sono ricche anche di opere di interesse religioso. Oltre agli atenei delle facoltà e degli istituti teologici, sono da annoverarsi altri enti cattolici: in primis l’Università Cattolica del Sacro Cuore, con le sue sedi e relative biblioteche a Milano, Brescia, Piacenza, Cremona, Roma, Campobasso. Vi sono poi le biblioteche degli istituti culturali, delle riviste e delle pubblicazioni cattoliche, dei centri culturali, dei collegi vescovili e delle associazioni cattoliche.

Per quanto concerne la legislazione ecclesiastica riguardante le biblioteche, nulla si può trovare nei Codici di Diritto Canonico del 1917 e del 1983, che legiferano invece a proposito degli archivi. Delle biblioteche si occuparono alcune lettere circolari della Santa Sede dirette ai vescovi italiani, la prima delle quali fu emanata da Leone XIII nel 1902; essa contiene una serie di indicazioni molto puntuali di carattere biblioteconomico. A questa lettera ne seguirono altre sotto i pontificati successivi, segno che le esortazioni ad una migliore e più moderna gestione delle biblioteche venivano puntualmente disattese, oppure che al progredire della dottrina biblioteconomica non sapeva tenere il passo l’impegno dei vescovi, specie nel periodo delle due Guerre Mondiali. Particolarmente ricche e particolareggiate sono le lettere circolari redatte negli anni dal 1942 al 1950 dal prefetto della Biblioteca Vaticana Giovanni Mercati.

L’urgenza della salvaguardia del patrimonio culturale ecclesiastico, prima ancora che di una sua corretta vita di studio e di incremento, sollecitò una lettera circolare della Sacra Congregazione per il Clero nel 1971 e un documento della CEI nel 1974: entrambi riguardavano l’intero patrimonio storico e artistico della Chiesa in Italia.

A partire dal 1978 le biblioteche ecclesiastiche possono contare su un’associazione che tutte le riguarda: l’ABEI (Associazione Bibliotecari Ecclesiastici Italiani). Essa sorse in quell’anno con l’intento di enumerare tutti gli istituti bibliotecari di natura ecclesiastica, di qualificarne il profilo professionale, di favorire l’adeguamento alle norme biblioteconomiche e di raccordare esperienze ed iniziative; fu riconosciuta dalla CEI nel 1990, anno in cui fu pubblicato un primo elenco delle biblioteche, suddiviso per regioni d’Italia, oggi costantemente aggiornato e consultabile all’indirizzo elettronico dell’ABEI.

La revisione del Concordato lateranense firmata nel 1984 stipulò che per la conservazione e la consultazione delle biblioteche ecclesiastiche si dovessero comporre delle intese tra gli organi competenti; l’esecuzione dell’intesa fu firmata poi nel 1996. Nel 1988 fu creata la Pontificia Commissione per la conservazione del patrimonio artistico e storico della Chiesa e nel 1989 la Consulta nazionale per i beni culturali ecclesiastici; nel 1992 fu emanato un documento della CEI relativo ai beni culturali della Chiesa. Molto rilevante per le biblioteche fu l’intesa tra lo Stato e la CEI firmata nel 2000; tale documento mette esplicitamente a tema i punti di importanza fondamentale per le biblioteche, ovvero la loro conservazione, consultazione e valorizzazione.

Il bibliotecario ecclesiastico odierno necessita di alcune caratteristiche precise. Anzitutto egli deve possedere una formazione qualificata, che lo renda in grado di occuparsi del patrimonio librario con competenza, frutto di una preparazione scientifica in campo bibliografico e biblioteconomico: la conoscenza sempre aggiornata e l’utilizzo consapevole dei moderni criteri di gestione e di conservazione sono oggi irrinunciabili. In secondo luogo egli deve conoscere la storia e le caratteristiche dell’istituzione ecclesiastica presso la quale opera: un’antica biblioteca capitolare non richiederà le medesime attenzioni della moderna biblioteca di un istituto teologico, ad esempio, e viceversa. Inoltre, il bibliotecario ecclesiastico deve sapersi porre in relazione con le realtà ecclesiastiche alle quali la sua istituzione è correlata: l’appartenenza ad una diocesi o a un ordine religioso non sono caratteristiche estrinseche.

Al servizio della formazione di bibliotecari e di archivisti, anche ecclesiastici, sono attive due scuole pontificie: la Scuola Vaticana di Paleografia, Diplomatica e Archivistica, fondata nel 1884 da Leone XIII, e la Scuola Vaticana di Biblioteconomia, fondata nel 1934 da Pio XI, che era stato Prefetto della Biblioteca Ambrosiana prima e della Biblioteca Vaticana poi. La Scuola di Paleografia intende offrire una formazione soprattutto per gli archivisti e per coloro che lavorano nel campo dei manoscritti; la Scuola di Biblioteconomia è rivolta più specificamente ai bibliotecari.

Le odierne biblioteche ecclesiastiche – a differenza delle biblioteche monastiche e conventuali di un tempo – non richiedono soltanto la presenza di personale qualificato per il loro funzionamento e per la valorizzazione e la tutela del patrimonio librario; esse necessitano sin dalla loro fondazione anche di un’attività amministrativa, che ne assicuri il sostentamento e il regolare incremento.

Vi sono due biblioteche la cui storia ed entità garantisce loro una struttura particolarmente articolata: la Vaticana e l’Ambrosiana. La Biblioteca Apostolica Vaticana, affidata sin dal Medioevo ad un bibliothecarius, a partire dal 1550 è presieduta da un cardinale, che porta il titolo di Archivista e Bibliotecario di Santa Romana Chiesa. Da esso dipendono il Prefetto e il Vice Prefetto, che presiedono al lavoro dei Direttori dei dipartimenti. Completano l’organico gli scriptores, i curatori, gli assistenti, l’economo, il segretario, gli addetti ai molteplici servizi. La Veneranda Biblioteca Ambrosiana di Milano è retta dal Collegio dei Dottori, tutti ecclesiastici, coordinati dal Prefetto; ai diversi servizi sono deputati gli addetti. La Congregazione dei Conservatóri, presieduta dal Presidente e assistita dal Segretario Generale, si occupa della gestione amministrativa.

La vita delle biblioteche ecclesiastiche odierne presenta problemi e prospettive. Anzitutto necessita, come già detto, che il personale sia qualificato; esso può essere affiancato da volontari, oggi piuttosto disponibili sullo scenario italiano, ma soltanto per quelle mansioni e responsabilità che non richiedano competenze specifiche. In secondo luogo, il personale deve sì occuparsi della conservazione e dell’aggiornamento del patrimonio librario secondo la scienza biblioteconomica, ma occorrono anche indicazioni diocesane e nazionali e una rete coordinata di rapporti tra biblioteche e istituzioni culturali. Vi è poi il problema concreto delle sedi antiche da mantenere e di quelle nuove da aprire, così come della dotazione di strumenti moderni e funzionali di consultazione. Infine, la possibilità di studio nelle biblioteche ecclesiastiche presenta talvolta, presso le realtà più periferiche o senza personale, difficoltà notevoli; da questo scaturisce la necessità di una particolare attenzione da parte degli organi superiori, nel campo dei patrimoni librari, verso le ricchezze e le potenzialità più nascoste e neglette, perché non vadano ammalorandosi o scomparendo per disattenzione.

Fonti e Bibl. essenziale

Biblioteca, in Enciclopedia italiana di scienze, lettere ed arti, Istituto Giovanni Treccani, Roma 1930, VI, 942-969; Biblioteca, in Enciclopedia cattolica, Ente per l’Enciclopedia cattolica e il libro cattolico, Città del Vaticano 1949, II, coll. 1591-1617; G. Vigini, Le biblioteche parrocchiali, NED, Milano 1979; E. Bottasso, Storia della biblioteca in Italia, Editrice Bibliografica, Milano 1984; A. Serrai, Storia della bibliografia, Bulzoni, Roma 1988-2001; Associazione Bibliotecari Ecclesiastici Italiani, Annuario delle biblioteche ecclesiastiche italiane, Editrice Bibliografica, Milano 1990; Le biblioteche ecclesiastiche alle soglie del Duemila. Bilancio, situazione, prospettive, Atti del Convegno (Salerno, 22-23 giugno 1999), a cura di M. Guerrini, Palermo, L’Epos, 2000 (De charta, 3); Circolare della CEI sull’Intesa 18 aprile 2000 per la conservazione e la consultazione degli archivi di interesse storico e delle biblioteche appartenenti ad enti ed istituzioni ecclesiastiche, in Bollettino di informazione ABEI 10 (2001) 1, 15-23; La biblioteca ecclesiastica del Duemila. La gestione delle raccolte, Atti del Convegno (Trento, 20-21 giugno 2000), a cura di M. Guerrini e F. Ruggeri, Palermo, L’Epos, 2001 (De charta, 4); A. Petrucciani – P. Traniello (edd.), La storia delle biblioteche. Temi, esperienze di ricerca, problemi storiografici (Convegno nazionale. L’Aquila, 16-17 settembre 2002), Associazione italiana biblioteche, Roma 2003; Le carte della Chiesa. Archivi e biblioteche nella normativa pattizia, a cura di A.G. Chizzoniti, Bologna, Il Mulino, 2003 (Religione e società, 26); La biblioteca centrale diocesana. Obiettivi, organizzazione, servizi alla luce dell’Intesa del 18 aprile 2000, Atti del Convegno (Trani, 26-27 giugno 2001), a cura di F. Ruggeri, Milano, Lampi di stampa, 2004 (Saggi e documenti, s.n.); A. Serrai, Breve storia delle Biblioteche in Italia, Sylvestre Bonnard, Milano 2006; A. Ledda, Uno sguardo sulle biblioteche ecclesiastiche in Italia tra Settecento e Ottocento, in E. Barbieri (ed.), Chiesa e cultura nell’Italia dell’Ottocento, EDB, Bologna 2009, 119-140; E. Barbieri – F. Gallo (edd.), Claustrum et armarium. Studi su alcune biblioteche ecclesiastiche italiane tra Medioevo ed Età moderna, Bulzoni, Milano 2010; Archivi e biblioteche ecclesiastiche del Terzo millennio: dalla tradizione conservativa all’innovazione dei servizi, Atti della 18. Giornata nazionale dei beni culturali ecclesiastici (Roma, 18 maggio 2011), a cura dell’Ufficio nazionale per i beni culturali ecclesiastici della CEI, Roma, Gangemi, 2012; P. Traniello, Storia delle biblioteche in Italia. Dall’Unità a oggi, Bologna, Il Mulino, 2014 (2° ed.); Biblioteche universitarie ecclesiastiche: nuove sfide e nuovi servizi nel 25. anniversario di URBE, Atti della giornata di studio (Roma, 9 giugno 2016), a cura di S. Danieli e M. Guerrini, Roma, Marianum, 2017.


LEMMARIO




Catechesi, Catechismi - vol. II


Autore: Luigi La Rosa

Negli anni che hanno visto la nascita dell’Unità d’Italia e nel trentennio immediatamente successivo, la Chiesa ha concepito se stessa come una cittadella assediata dalle forze anticlericali, liberali, massoniche e laiciste, per cui ha sentito il bisogno di compattare le fila dei suoi fedeli intorno alla gerarchia, che aveva il suo fulcro nel papa. Ha prevalso così il modello ecclesiologico istituzionale-piramidale, difeso ad oltranza dal clero intransigente, fautore di una pastorale difensiva, fondata sul binomio: pastore-gregge. Di fronte al pastore, soggetto attivo, sta il gregge dei fedeli, affidato alla cura della gerarchia, assistita dall’azione dello Spirito Santo. Espressione di questa pastorale sono state: una fitta rete di organizzazioni di fedeli laici in completa dipendenza dalla gerarchia; un progetto catechistico teso a salvaguardare la fede del popolo dai pericoli del secolo; la formazione alla vita devota mediante il controllo della religiosità popolare e l’opera formativa delle missioni; e soprattutto la formazione di un clero più preparato, culturalmente secondo la tradizione tomista, spiritualmente mediante la vita devota, caratterizzata dai sacramenti della confessione e della comunione, e pastoralmente mediante l’acquisizione della consapevolezza del proprio compito di pascere (amministrare i sacramenti), docere (fare il catechismo) e praedicare. La meta dell’institutio catechetica è in stretta continuità con quella dei secoli precedenti: si vuole “formare” il “devoto cristiano praticante”, ricco di sentimenti di fede, speranza e carità, capace di instaurare un rapporto individuale con il Signore, come fondamento di tutta la vita. Ogni credente, attraverso il disciplinamento della pratica sacramentale, è chiamato a divenire un buon cristiano e per ciò stesso un buon cittadino, abituato alle regole della “creanza cristiana”. Egli deve essere consapevole che nella vita quotidiana, nell’attimo presente si gioca l’affare più importan­te della sua esistenza, cioè l’eternità. Ma le voci critiche non mancano e sottolineano la sterilità di tanta istruzione cristiana, fatta di formule e pratiche devozionali. Cito due personaggi, posti agli estremi di un periodo di lunga durata: Mons. Filangeri, arcivescovo di Palermo e autore di un Breve Compendio della Dottrina Cristiana, mons. Ange­lo Ficarra (vescovo di Patti dal 1936 al 1957). Il Filangeri in una sua lettera pastorale del 1770 si lamentava che «la cristiana religione… salvoché in pochissimi, ormai è spenta: siamo Cristiani ma­teriali, e di solo nome, senza averne lo spirito. No che non è vero Cristiano colui, che solo si prefigge l’ascoltare cotidianamente la Messa, il frequentare i Sagramenti, il di­giunare ne’ prescritti giorni, lo udire le prediche, il concorrere alle processioni, il reci­tare alcune preci, il portare addosso delle Reliquie de’ Santi, il baciarne le Immagi­ni; simiglianti azioni, quantunque sante e lodevolissime, non costituiscono però il ve­race spirito del Cristiano, che Gesù Gristo ne’ suoi seguaci richiede…». Ciò che do­veva essere un mezzo, e cioè la pratica delle devozioni e la stessa sacra­mentalizzazione, unito a una persistente e profonda ignoranza, a dispetto di tanti catechismi, si era tradotto nell’animo popolare in un “materiali­smo religioso” greve e poco evangelico. Allo stesso modo il Ficarra scriveva nel 1923 (Le devozioni materiali, La Zisa, Palermo 1990, 62): «Una gran parte del nostro popolo non concepisce la religione come una liberazione dalla pressura del male, una purificazione interiore e un’elevazione spirituale, ma come un complesso di riti, di mezzucci, di pratiche esterne, di palliativi, di devonzioncelle, di talismani, di pannicelli caldi da mettere sulla coscienza incancrenita».

Così l’età contemporanea si apre con il grido battagliero “Torniamo al catechismo” e si proietta in avanti, tesa tra nostalgia del passato e rischio creativo, tra consapevolezza della necessità di superare il modello della catechesi tradizionale e l’esaltazione del ruolo della dottrina per contrastare il relativismo e il soggettivismo del tempo post-moderno, in modo da cercare un nuovo paradigma catechistico personalizzante, iniziatico, ermeneutico significativo, comunitario, aperto al dialogo, fatto di discernimento evangelico e di simpatia, con il mondo e la storia, luogo delle mirabilia Dei. Il momento spartiacque di questo movimento è costituito dal Vat. II (1962-1965), che, pur non avendo una trattazione specifica sulla catechesi, contiene molte suggestioni operative che traghettano il concetto di catechesi da atto di istruzione a processo formativo (cf. CD 13-14 e 44; GE 2; SC 64; AG 44) adatto alla mentalità, alle capacità e alle condizioni di vita degli uditori per guidarli al raggiungimento della statura della pienezza di Cristo, alla capacità di testimoniare la fede e di promuovere l’elevazione in senso cristiano del mondo, e inoltre fornisce risposte nuove sulla rivelazione, come parola-evento, sulla fede, sulla Chiesa, sull’uomo e sul mondo, elementi tutti essenziali per la prassi catechistica. Il momento di inizio di questo movimento può essere indicato nel Congresso catechistico del 1889, organizzato dalla rivista Il Catechista cattolico (nata nel 1876 per opera di G.B. Scalabrini). Esso galvanizza intorno a sé gli interessi, le proposte, le problematiche di tutti coloro che hanno a cuore le sorti del catechismo. Gli argomenti di discussione riguardano la necessità dei catechismi per ogni ordine di età (a cominciare dagli adulti), la concentrazione cristocentrica del contenuto della fede e suo svolgimento storico-biblico, la centralità del mistero pasquale, la necessità del rinnovamento metodologico facendo posto al metodo intuitivo-induttivo. Alcune idee del Congresso vengono riprese da Pio X nell’enc. Acerbo nimis (1905) e realizzate, in parte, con il Catechismo maggiore (1905) e il Catechismo del 1912 (un piccolo compendio teologico neoscolastico con un formulario ritmico facile per la memorizzazione) e da Pio XI nel decreto Provido sane(1935), che dà nuova linfa al movimento catechistico attraverso un’accurata organizzazione (erezione del Sodalizio della dottrina cristiana in ogni parrocchia, istituzione della scuola domenicale di catechismo, il catechismo per gli adulti, erezione dell’U.C.D., nomina degli ispettori di religione nelle scuole pubbliche, istituzione della giornata catechistica, formazione dei catechisti). Si attua intanto una svolta metodologica con il superamento del metodo deduttivo, grazie allo sviluppo delle nuove esperienze pedagogiche (Herbart, Piaget, Freinet, Ferrière, Decroly, Montessori, Agazzi, Dewey) che rifluiscono nella prassi catechistica (Metodo di Monaco, Metodo Quinet, Metodo psicologico di Fargues, metodo storico-induttivo e metodo educativo liturgico).

In Italia si afferma l’organizzazione catechistica in forma di vera scuola con metodo ciclico-intuitivo di Pavanelli (1876-1945) e Vigna (1876-1940), che affiancano il Catechismo di Pio X con una batteria di sussidi didattici Fede mia, vita mia!, con relative Guide didattiche. Il loro insegnamento viene emulato da tanti altri, come per es. da Vincenzo Bonetti S.J. che nel 1915 pubblica a Palermo una serie di sussidi con il titolo Fede Legge Grazia. Con il secondo dopoguerra si afferma come metodo proprio del catechismo l’attivismo, per merito degli studi di Mario Casotti, Gesualdo Nosengo, Silvio Riva, per l’azione teorico-pratica di Candido Chiorra e di Francesco Tonolo, per l’attività vasta e frenetica di Leone di Maria, e per l’esperienza pratica dell’A.C. (le Guide didattiche annuali CENAC) che produce i primi testi attivi di cultura religiosa Il Credo, la Legge, la Grazia ed è condiviso dal primo direttore dell’Ufficio catechistico centrale Carlo Maria Veneziani. Tuttavia, bisogna sottolineare che in moltissimi ambienti parrocchiali sostenuti, da pubblicazioni come Il Prontuario del Catechista. Il Buon Maestro che attraversa il tempo dagli anni trenta agli anni sessanta mettendo al centro la spiegazione del catechismo di Pio X, non viene colto il valore dei nuovi orientamenti pedagogici e metodologici, per cui ripetizione, memorizzazione meccanica e interrogazione sono considerati strumenti idonei alla fissazione e all’interiorizzazione, anche senza una piena comprensione. Ricordiamo la contestazione di don Milani negli anni cinquanta. Il movimento catechistico viene sostenuto, promosso e diffuso dai Fratelli delle Scuole cristiane, che già nel 1910 (Manuale del Catechista. Metodica per l’insegnamento della religione) introducono le conquiste della didattica nel catechismo, da vari Centri catechistici come quello Salesiano e Paolino, dalle Riviste catechistiche, dalle Collane editoriali insieme alle pubblicazioni di metodologia catechistica e dai Congressi (fondamentali quelli di Milano (1910) Brescia (1912), Roma (1929) ).

Il primo Centro, fondato da Pietro Ricaldone nel 1939 a servizio della Congregazione salesiana, estende la sua azione a tutta la Chiesa italiana nel 1947 per sensibilizzare le comunità ecclesiali ai problemi della catechesi e dell’I.R. nella scuola ed offrire strumenti di lavoro ai catechisti e ai catechizzandi. Il secondo viene costituito nel 1952 per volontà di Giacomo Alberione con il chiaro proposito di portare “tutto l’uomo (volontà, mente e cuore) a Cristo, Via Verità e Vita”. Le riviste catechistiche italiane nate tra il 1919/1950 sono: Catechesi, Via Verità e Vita, Catechisti parrocchiali, Rivista del Catechismo e Sussidi per la Catechesi,L’Informatore). Fra le Collane ricordiamo quelle della LDC Fondamenti di una catechesi rinnovata, Quaderni di Pedagogia catechistica e quella delle Paoline Bibbia e Catechesi. Fra gli anni ’43 e ’60 si prende coscienza dei limiti dell’approccio metodologico seguito, che intanto si arricchisce degli apporti del movimento personalistico (insistenza sulle categorie pedagogiche di personalizzazione e socializzazione) con il metodo dei modelli di Antonio Cojazzi, con gli interventi sull’educazione religiosa scolastica di Angelo Zammarchi sulla rivista Scuola Italiana Moderna e con la psicologia personalistica di Roberto Zavalloni. Non solo bisogna salvaguardare l’originalità della rivelazione e della trasmissione della fede, ma ci si rende conto che il metodo coinvolge il problema dei fini e del contenuto stesso della catechesi (termine che soppianta ed include il termine “catechismo”, che viene affiancato da “sussidi” e perfino sostituito dal “quaderno attivo”).

La prassi catechistica si muove tra due indirizzi: quello che insiste sulla trasmissione di verità (opzione dottrinale e coscienza di chiesa piramidale gerarchica) legato strettamente al formulario da memorizzare, e quello preoccupato di tracciare itinerari di fede nella storicità del divenire della salvezza (opzione esistenziale e coscienza di chiesa comunionale). Intanto bisogna riconoscere all’A.C. il merito di essere uscita dalle strettoie contenutistiche tradizionali fornendo con i suoi testi un vero e proprio itinerario catecumenale post-battesimale e ai Convegni catechistici “Amici di Catechesi”, organizzati dal Centro Catechistico Salesiano (1959, 1960, 1962, 1966), di avere affrontato i temi della natura dell’atto catechistico, delle mete, del metodo e del contenuto, considerato come storia della salvezza nella triplice dimensione biblica, liturgica ed ecclesiale, luogo di incontro tra Dio e l’uomo in Cristo. Ma già dal 1950, data del 1° Congresso catechistico internazionale di Roma, il movimento catechistico italiano si è aperto sempre più al movimento più vasto di tutta la Chiesa, risentendone un benefico influsso e uno stimolo fecondo di nuovi sviluppi, che lo vedono protagonista durante le varie fasi, che denominiamo: kerigmatica, antropologica e politica. La fase kerygmatica, lanciata dal Congresso catechistico di Eichstat del 1960 sostiene le seguenti linee per una nuova catechesi: la c. si situa nella missione della Chiesa; il vero problema della c. non è il metodo, ma il contenuto; il cristianesimo non è un insieme di verità, ma un messaggio-persona e cioè Cristo, salvezza del mondo, cosicché la c. deve essere personalistica, cristocentrica e relazionale. Si abbandona l’ordine logico dei catechismi e la catechesi diventa fondamentalmente biblica, narrativa e dialogica; essa vuole narrare la storia della salvezza, che il credente vive nell’oggi della sua esistenza alla luce del mistero pasquale di Gesù. La prima realizzazione riuscita di questa fase è stato il Catechismo cattolico delle diocesi tedesche (1955), in cui le lezioni sono svolte in maniera espositiva, tendente a spiegare non formule dottrinali, ma la vita cristiana. In Italia, il più bel testo di questo indirizzo è La scoperta del Regno di Dio, che mantiene un raro equilibrio tra le varie dimensioni dell’atto catechistico: Bibbia, liturgia, vita, sono considerati fatti-segni per un incontro con Cristo, che trova un momento di riflessione nella dottrina. L’approfondimento dell’indirizzo kerygmatico porta, come a sua naturale conseguenza, alla fase antropologica poiché il messaggio salvifico è rivolto all’uomo, che è chiamato ad accoglierlo con libertà e responsabilità. Non si può parlare di Dio senza parlare dell’uomo.

Siamo di fronte alla fase antropologica, che si specifica come esistenziale ed esperienziale sulla scia della riflessione teologica (J. Mouroux, P. Roqueplo, P. Tillich, E. Scillebeeckx, K. Rahner, L. Boff, L. Sartori, J. Gevaert, A. Godin, Z. Trenti et alii), che introduce nella catechesi i concetti di correlazione, di concentrazione cristocentrica, di ermeneutica, di interpretazione-illuminazione dell’esistenza come intervento salvifico di Dio. La Settimana catechistica internazionale di Bangkok (1962) e il Congresso di Manila (1967) si fanno promotori della fase antropologica parlando non solo di adattamento e, quindi, di pre-evangelizzazione e di pre-catechesi, ma anche di incarnazione del messaggio nelle varie culture e della necessità del dialogo. Come frutti possiamo indicare il Catechismo Olandese (1966) e il Nuovo Catechismo tedesco (1969). Intanto il riconoscimento della centralità del soggetto apre la strada dell’accoglienza nella prassi catechistica delle teorie dell’apprendimento, della dinamica di gruppo, della ricerca di una didattica olistica, della programmazione curricolare, dei linguaggi multimediali e di quelli non verbali, delle riflessioni sulle esigenze della comunicazione. Particolarmente significative e utilizzate nella prassi catechistica sono state le analisi della psicologia umanistica, la teoria del campo di K. Lewin e la non-direttività di C. Rogers. Dal punto di vista del Magistero l’accoglienza della via antropologica trova il suo punto più alto nella Redemptor hominis con l’affermazione che l’uomo è <la prima e fondamentale via della Chiesa> (nn. 10-14).

Con la II conferenza del CELAM a Medellin (1968) esplode la fase politica, che sottolinea il ruolo del messaggio cristiano nella salvezza integrale dell’uomo e quindi il suo incarnarsi nei processi di promozione umana, superando ogni tipo di dualismo, con l’opzione per una Chiesa povera che sa parlare ai poveri e ne sostiene le rivendicazioni di giustizia e di pace. Così il metodo si arricchisce, sostenuto anche dalla riflessione pedagogica di Paulo Freire e di Ivan Illich, dei criteri metodologici di liberazione, esperienzialità, esistenzialità, situazionaltà, coscientizzazione, creatività, descolarizzazione, contestualizzazione e i testi catechistici che vi si ispirano sono: Mondo più giovane e il Catechismo dell’Isolotto di Firenze Incontro a Gesù (1968-69), ritmato sulla triade metodologica “dalla vita-al vangelo-alla vita”. La catechesi liberatrice, che ha trovato il suo fulcro nella vita della Chiesa latino-americana, è stata tradotta in Europa, all’interno di una pedagogia liberatrice, come liberazione dell’uomo da ogni forma di schiavitù/alienazione o di dipendenze che feriscono la dignità dell’uomo per vivere l’amore universale di Cristo, con responsabilità e partecipazione, nel concreto divenire storico vissuto dagli uomini e dalla comunità cristiana. Questo orientamento è presente anche nel II Congresso Internazionale della Catechesi (Roma 1971).

Lo “spirito del concilio” con i suoi tre slogans “aggiornamento”, “sviluppo”, “ritorno alle fonti” fa sorgere una nuova primavera nella Chiesa, spinge ad andare avanti, apre spazi al dialogo, al pluralismo teologico (riabilitazione della nouvelle théologie e superamento dei manuali teologici caratterizzati da metodi giuridici e astorici), alla ricerca di un modo nuovo di essere chiesa tenendosi lontani da ogni orizzontalismo puramente intramondano o verticalismo ignaro della vita degli uomini. Ma le tensioni sono forti tra i cosiddetti progressisti e i tradizionalisti, si ha paura che il vangelo venga snaturato e la chiesa destrutturata per cui si afferma una corrente normalizzatrice del Concilio, che fa sentire il suo influsso determinante anche sulla nuova catechesi spingendola o riducendola verso le forme “tradizionali” del “sapere”. È il primato della “verità”, del depositum fidei (pensato come intangibile e sostanzialmente immutabile), custodito autorevolmente dal magistero nella sua purezza e interezza, e che deve essere trasmesso nella sua integrità. L’apprendimento di tutti i punti della dottrina, definita nella sua oggettività, costituisce una sorta di vademecum, che consente alle persone, credenti o non di abbracciare facilmente l’intero patrimonio della chiesa, e, nel contempo, la sua piena accettazione costituisce la via della liberazione e della salvezza dei popoli. I tre nuclei dottrinali fondamentali per Giovanni Paolo II (espressi già a Puebla nel 1979) sono: Cristo (la sua persona, il suo insegnamento, la promessa del Regno); la Chiesa, germe e inizio del Regno, che ha la missione fondamentale di evangelizzare, come soggetto unitario; l’uomo, la cui dignità, espressa nella creazione e nella redenzione, viene difesa dalla Chiesa sia a livello individuale (libertà, libertà religiosa, integrità fisica e morale, accesso ai beni essenziali della vita) sia a livello sociale e politico (diritto di partecipazione, diritto di non essere sottoposti a coercizioni ingiuste e illegittime). Queste verità insieme alle esigenze etiche che ne derivano e alla dottrina sociale della Chiesa devono essere il contenuto della nuova evangelizzazione, che si potrà attuare con la preghiera, i sacramenti, il precetto domenicale, l’educazione dei giovani, la chiamata alla santità e alla conversione interiore. Questo pensiero diventa più stringente nell’impianto apologetico di papa Ratzinger (dal Rapporto sulla fede del 1985 a Regensburg (2006) e a numerosi interventi in qualità di pontefice) quando stabilisce un nesso intrinseco tra libertà e verità, tra Dio e uomo, che trova in lui la sua dignità, tra ragione e fede per cui l’ortodossia si traduce inevitabilmente nell’ortoprassi, pena lo snaturamento dell’una e dell’altra, e vede la sintesi catechistica della verità nei quattro pilastri dottrinali/morali: Credo, sacramenti, decalogo e preghiera. Questa centralizzazione della dottrina è bene espressa dalla pubblicazione del Catechismo della Chiesa Cattolica (1992), offerto alla Chiesa universale non solo come punto di riferimento per l’elaborazione dei catechismi nazionali, ma come testo da usare direttamente nella catechesi; dal Compendio del Catechismo della Chiesa Cattolica (2005), che il Motu proprio di approvazione, per la sua brevità, chiarezza e integrità, offre a <ogni persona che,vivendo in un mondo dispersivo e dai molteplici messaggi, desidera conoscere la Via della Vita, la Verità, affidata da Dio alla Chiesa del suo Figlio>; e da Youcat (2011), offerto, nellaPremessa”, da Benedetto XVI ai giovani con l’esortazione:<Dovete sapere che cosa credete; dovete conoscere la vostra fede con la stessa precisione con cui uno specialista di informatica conosce il sistema operativo di un computer>. Compito della catechesi è la trasmissione e volgarizzazione delle verità cristiane in modo razionalmente convincente per tutti e in modo da raggiungere una fede adulta, criterio basilare per discernere tra vero e falso, tra inganno e verità.

Ma se consideriamo l’insieme dei documenti magisteriali (Christus Dominus 1965; Rinnovamento della Catechesi 1970; Direttorio catechistico generale 1971 e Direttorio generale della Catechesi 1997; Evangelii nuntiandi 1974; Messaggio al Popolo di Dio del IV Sinodo dei Vescovi 1977; Catechesi tradendae 1979; Codice di Diritto Canonico 1983, Catechismo della Chiesa Cattolica 1992, Itinerario per la vita cristiana 2000, le tre Note della CEI 1997, 1999, 2003 con gli Orientamenti pastorali per il decennio del 2000), anche quelle parti che tendono a ridurre il ruolo della catechesi alla conoscenza e al sapere, accanto alla riflessione catechetica (ricordo i primi due manuali italiani di catechetica: Catechetica voll. 1-3 di Anselmo Balocco del 1950 ed Educare, vol. 1-3, edito dal PAS nel 1964) ci troviamo di fronte a un’idea di catechesi di ampio respiro, fedele a Dio e all’uomo: essa è contemporaneamente e in maniera indissolubile istruzione/apprendimento, educazione e iniziazione (DGC68). In quanto istruzione la c. tende all’apprendimento/interiorizzazione da parte del soggetto delle verità di fede in maniera certa, chiara ed ortodossa; da qui l’importanza della elaborazione e memorizzazione dei Simboli della fede, della realizzazione dei catechismi-compendio, delle molteplici strategie didattiche attente all’oggettività e integrità del contenuto, al rispetto della gerarchia delle verità, al cristocentrismo e alle esigenze di una comunicazione efficace. In quanto azione educativa la c. tende allo sviluppo di una personalità umana e cristiana fino al raggiungimento della mentalità di fede (cf. Convegno di Assisi 1960). Si attua come un processo educativo permanente attento a far sì che la trasmissione-elaborazione delle conoscenze di fede si intrecci con la maturazione di esperienze umane basilari, che sono il presupposto di ogni autentica crescita cristiana e, nello stesso, tempo si preoccupa di interpretare la cultura e la vita dei soggetti alla luce della fede e di ripensare le verità di fede alla luce e alle istanze della cultura e alle sfide della vita, in modo che la parola di Dio che risuona sulla bocca del catechista sia <un’apertura ai propri problemi, una risposta alle proprie domande, un allargamento ai propri valori ed insieme una soddisfazione alle proprie aspirazioni>(RdC 52).

La c. viene così a strutturarsi in un cammino educativo, intessuto di fede, speranza e carità, per formare il discepolo di Cristo, iniziandolo all’incontro con Lui e, progressivamente, sviluppando nel soggetto la conoscenza e l’accoglienza della fede, nutrendolo con la parola di Dio, introducendolo alla celebrazione sacramentale e qualificandolo al servizio della comunità umana, in modo che egli realizzi una vera integrazione tra fede e vita. Proprio per questo si realizza pienamente come iniziazione, cioè come tirocinio di vita cristiana. ad itinerario catecumenale e mistagogico, sviluppato nel contesto di una comunità-comunione che annuncia, testimonia e celebra la sua fede e, quindi, capace di facilitare un’esperienza integrale di vita cristiana. Siamo di fronte a una nuova impostazione della pastorale catechistica, non più all’interno della “cura animarum” ma del tentativo di attualizzazione del mistero della salvezza nella storia, da parte di tutta la Chiesa con la partecipazione di tutti i suoi membri. La c. così intesa è come un grande albero che affonda le sue radici, attraversando molteplici percorsi storici e strutturandosi in modalità varie a seconda della particolare coscienza ecclesiologica, delle correnti esperienziali e/o teologiche, delle circostanze, degli ambienti, dei destinatari e dei metodi, nella c. apostolica e patristica.

Penso che sia un merito della Chiesa italiana di mantenere, anche se in un instabile equilibrio, la complessità della prassi catechistica con il suo “Progetto catechistico”, che affonda le sue radici ne Il Rinnovamento della catechesi (1970). Tra gli anni 1970/1982, a partire da questo documento base, che ha lo scopo di preparare le comunità cristiane all’esercizio responsabile della nuova catechesi e all’accoglienza dei nuovi catechismi, vengono pubblicati ad opera della CEI otto testi diretti ad ogni fascia di età e tali da costituire insieme l’unico catechismo nazionale per la vita cristiana. È un periodo di grande fervore e dinamismo catechistico, che coinvolge tutte le regioni e si prolunga negli anni 1984-1987, come tempo di verifica che sfocia nella nuova redazione dei testi stessi (1991-1997) con delle significative variazioni, attenti al “sapere della fede”, inserito nel processo di iniziazione cristiana. Cosicché la catechesi si configura essenzialmente come kerigmatica-esperienziale, attenta a trasmettere l’integrità della fede in maniera ciclica e induttiva, al soggetto, considerato nel suo dinamismo verso la maturità di fede, e alla comunità come luogo di esperienza di fede, mentre cerca di intrecciare in sapiente equilibrio la dimensione biblica, esperienziale, liturgica e dottrinale, offrendo ai catechisti la possibilità di realizzare, a seconda del contesto, vari itinerari (biblico-dottrinali, liturgico-spirituali, relazionali-ecclesiali, educativo-esperienziali) tesi al conseguimento della mentalità di fede e, quindi, necessariamente aperti agli apporti delle scienze umane. Questo impianto viene ribadito nei due Convegni catechistici nazionali di Roma (1988 Catechisti per una chiesa missionaria e 1992 Testimoni del Vangelo nella città degli uomini), nel documento Annuncio e catechesi per la vita cristiana (2010) e negli orientamenti pastorali per il decennio 2010-2020 Educare alla vita buona del Vangelo. Nel frattempo il movimento catechistico si coniuga e si inserisce nel rinnovamento della pastorale (1973 ad oggi) della chiesa italiana che ha fatto suo, il primato dell’evangelizzazione articolandolo in varie tappe decennali (Ev. e sacramenti; Comunione e comunità; Ev. e testimonianza della carità; Comunicare il Vangelo in un mondo che cambia; Educare alla vita buona del Vangelo) e ritmandolo con i Convegni ecclesiali (Ev. e promozione umana – Roma 1976; Riconciliazione cristiana e comunità degli uomini – Loreto 1985; Il vangelo della Carità per una nuova società in Italia – Palermo 1995; Testimoni di Gesù risorto, speranza del mondo – Verona 2006 ).

Prima di concludere è necessario dire una parola sulla “catechesi scolastica”. Così indica il DB l’insegnamento della religione (IR) nella scuola, considerato come espressione della cura educativa della Chiesa nei confronti dei suoi figli, ma già aperto al rispetto della natura e delle finalità della scuola stessa. Tale apertura fa sì che si arrivi alla costituzione dell’IRC come autentica disciplina scolastica (anche se atipica), riconosciuta dalla revisione del Concordato del 1984 e dai relativi Accordi di Villa Madama. L’IRC è presente nella scuola secondo le potenzialità e le finalità della scuola pubblica dello stato laico; è una disciplina scolastica curricolare; contribuisce, paradossalmente, con la sua presenza a salvaguardare la laicità stessa della scuola, poiché l’esclusione radicale della dimensione religiosa della vita e del fenomeno religioso sarebbe puramente laicismo emarginante e quindi non democratico. Possiamo dire di essere passati da una “laicità escludente”, tipica dello stato liberale positivista, a una “laicità inglobante”, realizzatasi con la riforma Gentile, a una nuova “laicità dialogante”. A partire dalla netta separazione tra sfera pubblica e privata e in base alla convinzione che la religione è un fatto privato e tale deve rimanere la Sinistra (storica) al potere si mosse decisamente, con un insieme di circolari, decreti e regolamenti, per estromettere la religione dalla scuola pubblica: nel 1870 il ministro Correnti rendeva facoltativo l’IR nelle elementari; nel 1877 veniva abolito l’ufficio del Direttore spirituale, che curava l’IR nelle superiori, e la Legge Coppino, regolamentando l’obbligo scolastico dai 6 ai 9 anni, dimenticava di inserirlo nei programmi; nel 1883 l’IR veniva abolito nelle magistrali; nel 1904 con la nascita della scuola popolare (classi V e VI delle elementari) se ne escludeva del tutto l’IR; nel 1908 il Regolamento Rava ne riconfermava la facoltatività e lo abbandonava all’arbitrio dei Consigli comunali; subito dopo seguiva la mozione Bissolati alla Camera dei Deputati affinché venisse definitivamente abolito l’IR anche nelle elementari; anche se la mozione venne respinta la situazione restò nella sua ambiguità e nella reale difficoltà di espletare l’insegnamento nella scuola (basta pensare al Decreto Credaro del 1910 che prescriveva di tenere l’istruzione religiosa fuori dai locali e dagli orari scolastici e si proibiva ai Comuni di distribuire alle famiglie i moduli per farne richiesta per i propri figli) fino a quando si arrivò al compromesso politico con il Patto Gentiloni, voluto da Giolitti in cambio dei voti dei cattolici ai liberali moderati.

Con il cambiamento culturale provocato dall’idealismo la religione è entrata a pieno diritto nella scuola, non per la sua intrinseca identità, ma in quanto momento del divenire dialettico dello Spirito (arte, religione, filosofia) che si incarna nella Nazione. Su questa premessa si affermava la valenza culturale della religione come iniziazione alla comprensione elementare della realtà e di fondamento della formazione morale. Cosicché nella Riforma Gentile, non solo l’IR rientrava nella scuola elementare come fondamento e coronamento secondo la forma ricevuta dalla tradizione cattolica (e quindi il catechismo che ne è lo strumento tipico), ma con il Concordato del 1929 di tutta l’istruzione pubblica. Oggi, forse siamo su una “via italiana” della laicità dialogante, lontana dal laicismo anticlericale o dalla strumentalizzazione ideologica, e intesa, non come indifferenza o addirittura negazione di ogni ruolo pubblico della religione, ma come garanzia dello Stato per salvaguardare la libertà di religione in un contesto di pluralismo religioso e culturale e di servizio nei confronti della centralità della persona in una scuola pubblica e democratica. Credo che ciò sia possibile perché non ci troviamo più di fronte a uno Stato giurisdizionalista, o confessionale o etico, ma ad uno Stato che si pone a servizio della persona e delle concrete istanze della coscienza civile e religiosa dei cittadini; ci troviamo di fronte ad una scuola pubblica, luogo di cultura, che, educando in rete, vuole essere “scuola di tutti, per tutti e mediante tutti”; e siamo di fronte a un nuovo volto di Chiesa, aperta al mondo e impegnata nel dialogo sincero con la cultura/e e le religioni. Per cui lo Stato laico può riconoscere pieno diritto alle religioni di avere uno spazio pubblico e di stringere accordi su determinate materie in vista del bene comune. La sua neutralità e la sua autonomia consistono nel trovare i valori, i criteri e le norme con cui regolare la vita associata nelle tradizioni che sostanziano la sua Costituzione. Cosicché alla luce dei principi costituzionali di sussidiarietà, di equità e di solidarietà, insieme al rispetto della natura e delle finalità (Riforma 2003) della scuola pubblica, luogo autonomo (1999) di trasmissione/produzione della cultura e di educazione attraverso l’istruzione, ci può essere spazio per un IRC culturale, realizzato come un servizio offerto alla persona del cittadino per la sua formazione integrale; come strumento di socializzazione che permette di vivere consapevolmente il proprio contesto socioculturale; come strumento per acquisire competenze e valori utili alla vita democratica; come strumento di alfabetizzazione, di ricerca e di confronto critico alla realtà della religione cattolica e delle religioni.

Problemi aperti. La catechesi è prassi, realtà storica, un divenire che sente tutte le sollecitazioni della vita ed è chiamata ad accoglierne le sfide differenziandosi in una molteplicità di forme e di itinerari, alla luce delle scienze della formazione e di indirizzi teologici, adatti a guidare una nuova reinterpretazione (capace della prudenza dell’audacia) del vangelo incarnato nelle culture: anzitutto, la sfida dell’ideologia, che in quanto sistema di pensiero ordinato alla prassi coinvolge tutti, credenti e non, per cui la c. è servita da instrumentum regni, ha educato ad essere sottomessi convincendo della bontà dell’alleanza trono ed altare, ha insegnato la sopportazione passiva delle ingiustizie (anche uomini di grande spiritualità e di attenzione alle necessità degli uomini sono stati ciechi, per es. Las Casas che spese la vita per la libertà degli indios accettò la schiavitù dei neri, per poi farne ammenda alla fine della sua vita, o Valignano, fautore del “metodo soave” e dell’inculturazione del vangelo presso cinesi e giapponesi, non lo riteneva possibile presso gli altri popoli); ciò che rende l’ideologia un fatto negativo, poiché diventa falsa coscienza, è l’acriticità, l’unilateralità, la rigidità assolutista, la pretesa di definitività, tutti aspetti che possono essere combattuti nel seno stesso della catechesi con il discernimento, realizzato con il pensiero critico e la profezia che diventano dialogo, con la ragione e la fede, con la verità e l’amore; la sfida educativa posta dalle nuove generazioni in una società complessa e post-cristiana; la ricerca di una identità umana (dell’umanità dell’uomo) di fronte alle antropologie dell’oltre umano e/o del post-umano; la sterilità dell’iniziazione cristiana; la centralità formativa della parrocchia insieme alla famiglia nonostante i grandi limiti e la precarietà; la presa di coscienza che la catechesi non può essere più un fatto isolato, ma esige una comunità educante, una collaborazione in rete con tutti gli enti formativi e coinvolge necessariamente l’ambiente vitale dei soggetti, tentando di rileggere dal suo interno il vangelo; la necessità inattuale di realizzare una catechesi “lenta”, cioè capace dei tempi lunghi per favorire apprendimenti qualitativamente significativi (valori, relazioni personali, emozioni) nel rispetto dei ritmi individuali e dello sviluppo di una personalità cristiana armonica, intessuta di fede, speranza e carità; la necessità di riscoprire il linguaggio della fede come linguaggio di amicizia nei confronti di questo mondo amato da Dio e, quindi, la realizzazione di un vero dialogo profetico con gli uomini, le culture, le religioni, come espressione della carità-dono per la crescita di tutti verso la pienezza di umanità.

Fonti e Bibl. Essenziale

A. Amato – E. dal Covolo – A.M. Triacca, La catechesi al traguardo. Studi sul Catechismo della Chiesa Cattolica, Las, Roma 1997; C. Betti, Sapienza e timor di Dio. La religione a scuola nel nostro secolo, La Nuova Italia, Firenze 1992; G. Biancardi – E. Genre, Catechesi e catechismo nell’Italia unita, in Cristiani d’Italia, Chiese, società, stato, 1861-2011, Ist. Enciclopedia Ital., Roma 2011, 487-508; E. Buttturini, La Religione a scuola. Dall’unità ad oggi, Queriniana, Brescia 1987; S. Calabrese (ed), Catechesi e formazione, Ldc, Leumann 2004; M. Carminati, Un trentennio di storia della catechesi italiana (1900-1930). Lorenzo Pavanelli e Luigi Vigna e il “Catechismo in forma di vera scuola”, Ldc, Leumann1995; P. Ciardella – A. Montan (ed), Le scienze teologiche in Italia a cinquant’anni dal Concilio Vaticano II, Ldc, Leumann 2011; Franchini, Il rinnovamento della pastorale. Guida alla lettura della pastorale della CEI 1970-1991, Dehoniane, Bologna 1991; G. Gariselli, Dal catechismo di Pio X al catechismo dei fanciulli, EDB, Bologna 1983; U. Gianetto (ed), Catechismi italiani. Bibliografia generale 1970-1997, UPS, Roma 1998; L. Guglielmoni, Il Rinnovamento catechistico in Italia a 25 anni dal “Documento Base”, Ldc, Leumann 1995; D. Marin, I convegni e i congressi catechistici in Italia. Le idee e la prassi catechistica alla luce dei convegni e congressi catechistici nazionali e di alcuni diocesani dal dopoguerra ai nostri giorni, Ldc, Leumann 1995; G. Miccoli, In difesa della fede, Rizzoli, Milano 2007; F. Moog – J. Molinario (ed), La catechesi e il contenuto della fede, Ldc, Leumann 2012; L. Nordera, Il catechismo di Pio X. Per una storia della catechesi in Italia (1896-1916), Las, Roma 1988; E. Preziosi, Piccola storia di una grande associazione. L’Azione cattolica in Italia, AVE, Roma 2013; S. Riva, Il movimento catechistico italiano, dal Vaticano II al sinodo della catechesi, Dehoniane, Bologna 1977; Id., La pedagogia religiosa del novecento in Italia, Antonianum-La Scuola, Roma-Brescia 1972; G. RONZONI, Il progetto catechistico italiano. Identità e sviluppo dal Concilio Vaticano II agli anni ’90, Ldc, Torino 1997; G. Ruta, L’Annuncio di Cristo. Approccio storico al movimento catechistico italiano nel XX secolo, Ed. Oftes, Palermo 1992; Idem, Catechetica come scienza, ITST-Ldc, Messina-Torino 2010; SERVIZIO NAZIONALE PER L’IRC, Insegnamento della religione cattolica: il nuovo profilo, La Scuola, Brescia 2006; G. Ziviani -G. Barbon (ed), La catechesi a un nuovo bivio?, Messaggero, Padova 2010; G. Biancardi-U. Gianetto, Storia della catechesi. 4. Il movimento catechistico, LAS, Roma 2016.


LEMMARIO




Cattolicesimo intransigente - vol. II


Autore: Guido Formigoni

La corrente cattolica che si ispira a un netto e deciso rifiuto della modernità, in quanto identifica nel portato delle trasformazioni moderne la causa della rottura del tradizionale assetto di “cristianità”. In Italia, un aspetto specifico di questa polemica era la condanna del processo risorgimentale, in quanto la costruzione politica di uno Stato italiano unitario era giudicata come frutto di correnti anticlericali, laiciste e massoniche, il cui effetto era stato visto dominante in ultima analisi nell’irreversibile frattura con la Chiesa, sedimentatasi attorno alla “questione romana”. La mentalità intransigente affondava le sue radici in una serie di posizioni controriformistiche, anti-illuministe e anti-rivoluzionarie sviluppatesi da parecchi secoli, ma si codificò soprattutto nel corso dell’800. Il contributo di alcuni autori dell’età della Restaurazione venne poi sintetizzato e tradotto in una vera prospettiva collettiva e di massa nell’epoca post-unitaria.

Le origini del movimento cattolico e dell’associazionismo cattolico (v.) post-unitario furono ispirate in modo largamente maggioritario da questo tipo di mentalità. Il rifiuto dell’aggiunta di “aggettivi” al cattolicesimo (si aborriva soprattutto la formula “cattolicesimo liberale”), fu espressa nella “dichiarazione” letta dal conte Vito d’Ondes Reggio al primo congresso cattolico nazionale di Venezia nel 1874 e poi ribadita nei successivi congressi: “Il congresso è cattolico e nient’altro che cattolico. Imperocché il cattolicismo è dottrina compiuta, la grande dottrina del genere umano. Il cattolicismo non è liberale, non è tirannico, non è d’altra qualità; qualunque qualità vi si aggiunga, da per sé è un gravissimo errore…” (Primo congresso cattolico italiano tenutosi in Venezia dal 12 al 16 giugno 1874, Bologna 1874, vol. I, p. 43).

In questa visione rientrava non solo la polemica contro lo Stato. C’era una più ampia battaglia contro le dimensioni culturali della modernità: la laicità delle istituzioni, la libertà religiosa, l’indifferentismo morale, lo scientismo positivista. Non a caso, per fare un solo esempio, gli intransigenti continuarono a opporsi alla concessione dei pieni diritti civili alle minoranze non cattoliche (ebrei e protestanti). Fa parte di uno dei grandi paradossi della modernità, peraltro, il fatto che gli intransigenti cominciassero a sfruttare proprio gli spazi costitituzionalmente protetti della libertà di parola, di associazione, di stampa per avviare un progetto di contestazione radicale dell’ordine esistente. Quando nel 1876 a Bologna incidenti organizzati da militanti anticlericali indussero il prefetto a sciogliere il congresso cattolico, gli intransigenti aprirono una forte polemica contro il mancato rispetto della libertà.

Il primo problema degli intransigenti appariva quindi organizzare l’”Italia reale” contro l’”Italia legale”. Tutto ciò approfondiva il solco decisivo scavatosi tra la coscienza cattolica e le modalità concrete del costituirsi dell’Italia in Stato nazionale. La preoccupazione della classe dirigente liberale per questa deriva all’opposizione di una consistente organizzazione cattolica era evidente: i “neri” rischiavano di indebolire l’ordine pubblico quasi come i “rossi” sovversivi. Quando il movimento, negli anni ’80 e ’90, iniziò a organizzare crescenti strati popolari in nome di una istanza “sociale”, tali caratteri divennero ancora più pressanti. Giocava però a smorzare gli aspetti più battaglieri di questo indirizzo un altro elemento, che mitigava la contrapposizione politica ai “fatti compiuti”: la cultura della sostanziale sottomissione alle autorità costituite, che era un perno indiscusso della mentalità politica degli intransigenti, dato il lungo retaggio di un’interpretazione delle pagine paoline sul potere che insisteva fortemente sul carattere sostanzialmente divino e praticamente indiscutibile dell’autorità civile. Tale cultura ora impacciava e limitava gli intransigenti, proprio mentre organizzavano un’operazione politica sostanzialmente extra-costituzionale. C’era poi in questa stessa direzione una remora di ordine sociale: i primi dirigenti dell’Opera dei congressi erano sostanzialmente degli aristocratici o degli alti borghesi, che tendevano a ritenere l’ordine sociale un bene sostanzialmente da non discutere e quindi non immaginavano di dare contenuto rivoluzionari alla propria protesta anti-statuale.

Sul tronco delle posizioni intransigenti, venne via via a delinearsi una divisione di prospettive, che esplose dopo le repressioni del 1898. I dirigenti più anziani, della generazione del conte Paganuzzi, presidente dell’Opera, erano attestati su posizioni polemiche contro lo Stato, motivate sostanzialmente dalla “questione romana”. I più giovani organizzatori sociali, o coloro che verso la fine del secolo si cominciarono a chiamare “democratici cristiani”, sviluppavano l’intransigentismo in un’altra direzione: la polemica contro lo Stato era motivata soprattutto dalla necessità di appoggiare la spinta all’emancipazione delle masse popolari escluse e sfruttate. Le divergenze dovevano diventare insanabili, come si accorse Pio X, che nel 1904 fu costretto a sciogliere l’Opera. L’”equivoco politico-religioso” dell’intransigentismo veniva così al pettine: prendendo parte alle vicende del paese, finivano ingloriosamente le illusioni di poter evitare le scelte di tipo sociale e politico (cioè appunto di non “aggettivare” il proprio cristianesimo).

La cultura intransigente non spariva però affatto dalla scena dopo il fallimento di tale prima versione del movimento cattolico. Rimaneva anche lungo tutto il ‘900 come un fiume carsico, molto diffusa nel cuore della cristianità italiana, anche se non doveva più riuscire a esprimere una specifica e incisiva posizione culturale e politica. L’intransigentismo doveva ad esempio animare la polemica antimodernista del primo decennio del secolo. Doveva continuare a esprimere posizioni polemiche contro il cattolicesimo liberale e le esperienze democratiche. Minoranze intransigenti al tempo della prima guerra mondiale sostennero ad esempio la neutralità italiana per impedire la guerra alla cattolica Austria degli Asburgo. Il popolarismo fu avversato dagli intransigenti, che si scoprirono per certi versi filofascisti, almeno in quanto il fascismo combatteva l’odiato Stato liberale.

Occorre d’altronde specificare come l’intransigentismo radicale (che venne ad essere nominato anche “integrismo” ai tempi della lotta antimodernista), rimase circoscritto ad alcune riviste, alcuni circoli, alcuni ristretti ambienti ecclesiastici. Che in gran parte confluiranno nell’attiva minoranza anticonciliare all’epoca del Vaticano II. Anche a parte questi gruppi estremisti, la mentalità intransigente condizionò comunque ancora per decenni il corpo ecclesiale italiano. L’epoca “movimentista” avviata dai pontificati di Pio XI e Pio XII fu caratterizzata da una grande ondata di attività volte all’obiettivo di una riconquista cristiana della società di massa. Una parte di questo fervore era ormai animato da una prospettiva di prevalenza dell’interiorità, dall’ipotesi di una animazione dall’interno dei nuovi spazi sociali e civili, oltre che da una riflessione inedita sulla “qualità” della fede da far rivivere. Ma la gran parte di questo attivismo restava segnato da una prevalente mentalità intransigente di “rivincita” sulla modernità. L’utilizzo dei mezzi moderni era condotto fino a prospettive molto spregiudicate: si pensi ai mezzi di comunicazione, ai modelli organizzativi, ai rapporti verticistici e alle forme della mobilitazione del consenso. Ma senza alcuna intenzione di un rapporto critico e costruttivo con i portati della modernità.

Non è un caso che al momento della fondazione della repubblica e della democrazia, in cui una parte dei cattolici italiani forniva un contributo politico e ideale significativo, continuassero a esprimersi remore diffuse e critiche di altre componenti cattoliche verso il modello civile moderno e la stessa democrazia. Nella visione di una parte dello stesso movimento cattolico organizzato, la grande vittoria elettorale della Democrazia cristiana del 1948, fu interpretata come l’occasione per utilizzare finalmente il braccio politico per una ricristianizzazione del paese. L’idea di un governo a prevalente guida cattolica che tollerasse l’esistenza di stampa anticlericale o magari immorale, oppure conservasse agibilità ai nemici ideologici della religione, non era una prospettiva facilmente accettabile da parte degli epigoni dell’intransigentismo.

È stato osservato non senza ragione come proprio questa diffusa eredità intransigente spieghi una parte cospicua del disorientamento cattolico nell’epoca della secolarizzazione. Disabituati al discernimento e all’indagine critica, affidati a una prospettiva di massiccia fiducia nell’abitudine e nella tradizione, molti cattolici esposti alla crisi dei modelli tradizionali sono stati travolti e si sono trovati spesso a divenire – per contraccolpo – estremisti dell’assenso a qualsiasi proposta o ideologia che apparisse come il vero portato della modernità. L’acquisizione di una matura mentalità critica, nella logica presente ad esempio nell’approccio del Vaticano II, capace di sceverare il portato evangelico della rivoluzione moderna, mettendo in guardia dalla sua assolutizzazione o dalle sue forme di sacralizzazione di aspetti della vita umana, non è stata maggioritaria nel cattolicesimo italiano.

In quest’ottica, alcuni dei nuovi movimenti cattolici sorti o diffusisi nella seconda metà del ‘900 hanno rilanciato un’impostazione che è stata non a torto definita “neointransigente”. Di essa non fa più parte – salvo esempi marginali – una velleità di rivincita globale contro la modernità. Il sogno del ripristino della cristianità, che ancora correva fino al secondo dopoguerra in molti ambienti cattolici anche “centrali”, è stato abbandonato sotto i colpi della secolarizzazione. Al suo posto è emersa piuttosto l’ipotesi di organizzare in forme visibili minoranze religiose ispirate a una militanza forte e compatta, che si confrontino nello spazio civile con le altre minoranze, in nome dell’affermazione dei valori cristiani nella società.

Fonti e Bibl. essenziale

D. Menozzi, La Chiesa cattolica e la secolarizzazione, Torino 1993; A. Riccardi, Intransigenza e modernità. La Chiesa cattolica verso il terzo millennio, Bari-Roma 1996; D. Secco Suardo, I cattolici intransigenti. Studio di una ideologia e di una mentalità, Brescia 1962. M. Tagliaferri, L’Unità Cattolica. Studio di una mentalità, Roma 1993.


LEMMARIO




Cattolicesimo liberale - vol. II


Autore: Fulvio De Giorgi

Con la presa di Roma nel 1870 e con Quintino Sella, l’egemonia si spostò progressivamente su un laicismo massonico, che infine si espresse con vivacità nei governi della Sinistra storica. Del resto, i tentativi transigenti e conciliatoristi di Luigi Tosti (1887) e di mons. Geremia Bonomelli (1889) fallirono, per l’irrigidimento vaticano. Il nascente movimento cattolico organizzato (l’Opera dei Congressi) si attestava su posizioni intransigenti. Il cattolicesimo liberale non ebbe, da allora, mai più in Italia il grande ruolo storico che aveva avuto nella prima metà dell’Ottocento e fino al primo decennio post-unitario.

Con lo sviluppo delle correnti democratiche, repubblicane, radicali e infine socialiste, il liberalismo si spostò sempre più a destra: in qualche modo, anzi, il liberalismo di sinistra e che tendeva ormai alla liberaldemocrazia (Zanardelli, Giolitti, Nitti) esibiva un’identità laica, se non anticlericale. Il cattolicesimo liberale divenne sempre più una corrente politica conservatrice di destra: dagli sfortunati tentativi di dar vita ad un partito conservatore nazionale (con il torinese Sclopis, il lombardo Stefano Jacini sr., il gruppo romano di casa Campello) fino alle iniziative editoriali (il giornale “Lega lombarda”) e politiche (l’Associazione per gli interessi pubblici Religione e Patria) di Carlo Cornaggia Medici, eletto in parlamento dal 1904, vicino a Sonnino e a Salandra, favorevole alla guerra di Libia.

Un caso di grande valore culturale ma di relativa incidenza civile fu l’esperienza della rivista “Rassegna Nazionale” che coniugò un conservatorismo politico con un riformismo religioso. Essa rappresentò l’ideale passaggio alle nuove correnti primo-novecentesche, stimolate dal confronto con la giovane democrazia cristiana. Figure principali di questa transizione tra XIX e XX secolo furono due intellettuali – il giurista Contardo Ferrini e il romanziere di grande successo Antonio Fogazzaro, in cui confluivano rosminianesimo e cavourismo – e il sen. Tancredi Canonico, sensibile alla mistica di Towianski, molto più che i politici ‘gentilonizzati’ e clerico-moderati dell’età giolittiana.

Il nuovo Cattolicesimo liberale. Nell’eccitante rigoglio culturale del primo Novecento, quando il modernismo rappresentò la più seria ripresa di ideali tanto di conciliazione tra cattolicesimo e civiltà moderna quanto di riforma cattolica, si ebbe l’avvio di un nuovo cattolicesimo liberale, più aperto e progressivo, che guardava con simpatia al murrismo e dunque si evolveva in senso liberaldemocratico. La figura principale fu quella di Tommaso Gallarati Scotti, ma si possono ricordare anche Alessandro Casati e Stefano Jacini jr. Sul piano spirituale ebbe molta influenza il barnabita Semeria. La rivista “Il Rinnovamento” raccolse molti di questi nuovi spiriti, valorizzando pure l’eredità risorgimentale.

Costituendo un filone minoritario dell’interventismo democratico, questa sensibilità di liberalismo rinnovato giunse al primo dopoguerra, non confluì nel Partito Popolare e si trovò accanto a Gobetti, ad Amendola, a Parri nell’esprimere un netto antifascismo, coniugato ad un liberalismo di sinistra (mentre alcuni anziani cattolici liberal-conservatori, come Cornaggia Medici, diventavano clerico-fascisti). Assieme a Gallarati Scotti vanno ricordate le figure di Giacomo Noventa, di Novello Papafava, di Alessandro Passerin d’Entrèves. Variamente emarginate nel periodo fascista, queste figure riemersero nel periodo resistenziale.

Nella Repubblica italiana. Costituitasi la Repubblica, con istituzioni democratiche, e affermatasi alla guida del governo italiano la Democrazia cristiana, come partito unitario dei cattolici, il cattolicesimo liberale praticamente scomparve come presenza politica, per quanto minoritaria e senza organizzazione unitaria. Ci furono, certo, alcuni membri autorevoli del Partito Liberale che nutrivano, nel privato della coscienza, una fede cattolica: il più importante di tutti fu Luigi Einaudi. Il vecchio fondatore del Partito Popolare, don Luigi Sturzo, tornato in Italia dall’esilio, espresse tesi liberiste di politica economica. All’interno della Democrazia Cristiana, mentre comune era la tensione anti-totalitaria e liberaldemocratica, vi furono pure esponenti di area moderata, sensibili alla tradizione risorgimental-rosminiana o favorevoli ad una politica liberista: ma né loro né Sturzo si possono propriamente considerare cattolici liberali.

Sul piano delle elite culturali, una certa continuazione ideale del “nuovo cattolicesimo liberale” della prima metà del Novecento si ebbe sia nei cenacoli ex-azionisti e radicali (si veda la collaborazione di Arturo Carlo Jemolo a riviste come “Il Ponte” di Piero Calamandrei e “Il Mondo” di Mario Pannunzio) sia, soprattutto, in quel luogo di incontro tra intellettuali liberali di sinistra e cattolici ‘liberal’ (che cioè guardavano all’esperienza della cultura statunitense) che furono la rivista e l’editrice “Il Mulino” (dal 1951): Luigi Pedrazzi e, poi, Pietro Scoppola ed altri. Viva fu, in questi cenacoli, l’attenzione alla laicità delle istituzioni, all’autonomia delle scelte politiche, ai diritti civili. Negli anni ’70 molti di questi intellettuali sarebbero stati tra i promotori della Lega Democratica (1975-1987). Un particolare ambito intellettuale fu, poi, quello della storiografia. Alcuni storici si dedicarono cioè allo studio del cattolicesimo liberale italiano (dell’Ottocento, ma anche del primo Novecento e del modernismo) con atteggiamento simpatetico e, in forma diversa, con una identificazione ideale: Arturo Carlo Jemolo, Ettore Passerin d’Entrèves, Pietro Scoppola, Nicola Raponi, Francesco Traniello.

Alla fine del XX secolo e nell’avvio del XXI, il superamento del sistema politico nato nel dopoguerra (con la fine dell’unità politica dei cattolici e della DC e con la nascita di nuovi partiti di centro-destra) ha fatto emergere piccole formazioni politiche che si sono rifatte al cattolicesimo liberale.

Fonti e Bibl. essenziale

O. Confessore, Conservatorismo politico e riformismo religioso. La «Rassegna Nazionale» dal 1898 al 1908, Bologna, Il Mulino, 1971; U. Gentiloni Silveri (a cura di), Cattolici e liberali. Manfredo da Passano e «La Rassegna Nazionale», Soveria M., Rubbettino, 2004; A.C. Jemolo, Chiesa e Stato in Italia negli ultimi cento anni, Torino, Einaudi, 1949; E. Passerin d’Entrèves, Il cattolicesimo liberale in Europa e il movimento neoguelfo in Italia, in AA.VV., Nuove questioni di storia del Risorgimento e dell’Unità d’Italia, Milano, Marzorati, 1961, vol. I, 565-606; N. Raponi, Cattolicesimo liberale e modernità. Figure e aspetti di storia della cultura dal Risorgimento all’età giolittiana, Brescia, Morcelliana, 2002; F. Traniello, Religione cattolica e Stato nazionale. Dal Risorgimento al secondo dopoguerra, Bologna, Il Mulino, 2007.


LEMMARIO




Cattolicesimo politico - vol. II


Autore: Andrea Ciampani

Le conseguenze socio-politiche della Rivoluzione francese e dell’Impero napoleonico produssero negli Stati della penisola italiana un dibattito sull’evoluzione delle strutture di antico regime e sugli scenari politici proposti dalle tendenze costituzionali. Mentre si costituiva una “Santa Alleanza” tra la Prussia protestante, l’ortodosso impero russo e il cattolico impero asburgico, la sovranità temporale del papato si era indebolita. Nel contesto della Restaurazione europea e della nascita di nuovi Stati costituzionali (come nel caso del Belgio del 1831), le classi dirigenti cattoliche e lo stesso clero si confrontarono con le proposte che tendevano ad affermare l’autonomia dell’azione politica dalla religione e, talora, l’interferenza della prima nella sfera d’azione della seconda. Nell’epoca romantica si segnalò, peraltro, come ricorderà Tocqueville ancora nel 1848, “un ritorno generale e quasi inatteso […] verso le cose religiose” di molti ceti nazionali.

Nella riflessione dottrinaria e nel concreto confronto pubblico della classe politica europea ottocentesca, comunque, era presente una significativa schiera di personalità cattoliche, espressione della società che rappresentavano. Anche all’interno delle élites degli Stati preunitari esponenti del cattolicesimo italiano animarono la discussione sui diversi profili del confronto politico e, naturalmente, sull’evoluzione dell’unificazione nazionale, partecipando anche ai moti del Risorgimento, cui presero parte anche sacerdoti e religiosi. Alcune figure si segnalarono non solo per aver indirizzato il dibattito del moderatismo liberale con i loro scritti, ma per il ruolo politico svolto, come al governo del Regno di Sardegna dopo la concessione dello Statuto albertino: tra gli altri, Cesare Balbo, Massimo d’Azeglio e Vincenzo Gioberti, che disegnò i tratti ideologici di un neoguelfismo. In una ben diversa e più ampia prospettiva di rinnovamento ecclesiale, l’abate Antonio Rosmini giungeva a delineare nel 1848 un percorso di unità nazionale frutto di una federazione di Stati, secondo un “modo […] giusto ed onesto”, “quello che è al di sopra della politica”.

Durante il pontificato di Pio IX, intanto, emergeva l’esigenza di una sempre maggiore distinzione del governo della Chiesa cattolica dagli interessi temporali dello Stato pontificio, collocando l’autorità ecclesiale in una posizione superiore al congiunturale conflitto politico, nazionale e internazionale. Nel 1848 la concessione delle prime riforme statutarie nello Stato pontificio e la stessa allocuzione del 29 aprile sembravano assecondare tale dinamica. Nel novembre dello stesso anno, tuttavia, l’assassinio politico del costituzionalista posto a capo del governo pontificio, Pellegrino Rossi, bloccò il processo avviato: la drammaticità del nesso allora instauratosi tra la sorte politica dello Stato pontificio e il processo verso l’unità statuale italiana fu evidenziato dalla seguente fuga del papa a Gaeta e dall’effimero insediamento della Repubblica romana del 1849. Il prevalere della “guerra regia” sabauda sulla prospettiva di una “lega” italiana all’interno dello schieramento patriottico moderato e la rivendicazione politica di Roma capitale d’Italia, rafforzatasi dopo la spedizione garibaldina nel Mezzogiorno, influirono sulla riflessione dei gruppi dirigenti cattolici alla vigilia della costituzione dello Stato unitario del 1861. Ancora in quell’anno, mentre don Margotti sosteneva per la prima volta le ragioni di un astensionismo per le elezioni del primo parlamento italiano, Vito d’Ondes Reggio, già partecipe dei moti siciliani del 1848 e poi vicepresidente dell’Opera dei Congressi nel 1874, veniva eletto alla Camera dei deputati, esprimendovi aperto consenso alla proclamazione del regno d’Italia. Il congiungersi della politica ecclesiale dei governi italiani (riprovata dalla Chiesa) con il profilo anticlericale che assunse la questione romana porrà alcuni esponenti parlamentari di fronte al problema di conciliare rappresentanza delle istituzioni e fedeltà al papato, sollecitando una riflessione sulla possibilità di rappresentare politicamente l’opinione pubblica cattolica.

Nel confronto apertosi all’interno al mondo cattolico sui caratteri della società moderna, i credenti che operavano all’interno delle Camere parlamentari degli Stati costituzionali, sedendo spesso nei banchi della Destra (nel Belgio identificata tout court come “partito cattolico”), venivano additati come sostenitori di un cattolicesimo liberale. In tale situazione gli episcopati e le classi dirigenti cattoliche si rivolgevano sempre più frequentemente al Vaticano per avere un orientamento in una polemica dai confini incerti; nel 1864 la pubblicazione dell’enciclica “Quanta cura”, contenente il Sillabo degli errori della modernità, non portò a una definitiva chiarificazione sull’applicazione dei principi affermati circa le relazioni tra la Chiesa e lo Stato. In effetti, considerata la prassi politica ottocentesca, la questione della partecipazione cattolica all’elettorato attivo e passivo veniva ancora esaminata a Roma considerando il piano della personale condotta morale del credente all’interno delle congiunture politiche delineate dall’attività legislativa parlamentare e dalle iniziative governative. La congregazione della Penitenzieria apostolica acquisiva, in questi anni, un particolare rilievo in margine ai comportamenti delle personalità cattoliche coinvolte nella vita politica, svolgendo un ruolo centrale nel dibattito vaticano, avviato nel 1864, sull’accesso dei cattolici italiani al voto politico, ritenuto praticabile fino al novembre 1867. Solo dopo le leggi eversive dell’asse ecclesiastico e la spedizione garibaldina a Mentana si delineò uno scenario nel quale alla S. Sede apparve “moralmente impossibile col concorso alle elezioni procurare un rimedio e rimuovere i gravissimi mali”: nel gennaio 1868 per la prima volta la curia romana si espresse a favore del non expedit.

La questione di un orientamento pubblico dei cattolici italiani in politica, infine, assunse una propria dimensione dopo il 1870. In quell’anno il Concilio Vaticano I, che aveva proclamato il dogma dell’infallibilità pontificia ex cathedra, contestato dalle Potenze europee, venne interrotto dalla conquista militare di Roma da parte delle truppe italiane che poneva fine alla sovranità temporale del papa. Per sostenere la protesta pontificia e la rivendicazione della sua libertà e indipendenza, Pio IX rilanciò con forza il suo appello alla Chiesa universale e ai popoli cattolici. Gli episcopati incoraggiarono lo sviluppo di un sempre più articolato movimento cattolico, che tendeva ad assumere distinti orientamenti: al tradizionale conservatorismo politico delle classi dirigenti transigenti coinvolte nel processo e nella cultura liberal-costituzionale, si affiancava un movimento intransigente e socialmente avanzato, organizzato nella società civile e nelle parrocchie. Si spostava sul terreno politico il confronto, fino allora prevalentemente ecclesiale e pastorale, tra cattolici transigenti e intransigenti, e fuori d’Italia si sviluppava un movimento ultramontano a favore dei diritti del papato, che spesso la Santa Sede si troverà a dover moderare. Rafforzato in un primo tempo il non expedit per le elezioni politiche italiane, come protesta per i “fatti compiuti”, il Vaticano favorì l’irrobustirsi di un associazionismo cattolico, avviato negli anni Sessanta con la nascita della Gioventù cattolica, sostenendo nel 1874 la nascita dell’Opera dei Congressi cattolici, che fece propria la protesta di libertà per il pontefice privato di una sovranità territoriale. La questione romana, posta ora dalla S. Sede, veniva ad articolarsi in molteplici profili: la posizione del papa nel sistema internazionale; l’esercizio del magistero pontificio in Roma; l’intervento del movimento cattolico nelle responsabilità economiche, sociali e politiche del Regno d’Italia. L’interdipendenza tra questi differenti piani emerse nella congregazione cardinalizia che già nel 1876 delineò l’obiettivo del superamento del non expedit, ritenendo in linea di massima non solo essere lecito, ma anche essere “un dovere rigoroso dei cattolici di prender parte alle elezioni politiche”. Occorreva, tuttavia, creare un consenso nella curia romana sulle condizioni e sugli effetti di un tale intervento politico e predisporre l’opinione pubblica cattolica, per ottenere un positivo risultato dal concorso alle urne.

Con l’elezione di Leone XIII, così, nel 1878 si affermò un articolato “centro cardinalizio” in grado di attrarre intorno al papa esponenti moderati degli schieramenti intransigente e transigente, coniugando una ferma ortodossia in materia di fede con un’apertura alla partecipazione politica di esponenti cattolici nelle istituzioni italiane nel quadro di una mobilitazione del movimento cattolico rispettoso delle “esigenze altissime” della S. Sede; una posizione, questa, che fu sintetizzata in una distinzione tra tesi e ipotesi che ribadiva posizioni di principio e tollerava opportune sperimentazioni nell’operare. Tale attitudine avrebbe permesso anche un’azione unitaria del mondo cattolico italiano, preoccupazione fondamentale per una S. Sede che vedeva indebolirsi l’incidenza pubblica del magistero della Chiesa. Con l’avviarsi del dibattito sulle forme organizzative del cattolicesimo politico italiano si apriva un’appassionata discussione sulle modalità e sugli effetti di un eventuale partito cattolico in Italia. Le cosiddette riunioni di “casa Campello” nel 1879 chiarirono le difficoltà di un movimento conservatore nazionale che avrebbe subordinato un “partito cattolico” alla politica di una parte della Destra liberale. Piuttosto, negli anni seguenti, l’orientamento vaticano pro nunc non expedire offrirà una prospettiva politica agli “unionisti” romani che, col sostegno vaticano, nella lotta capitolina promossero una permanente associazione elettorale, giungendo a sostenere anche candidati liberali, buoni amministratori e rispettosi della religione, in qualunque partito militassero. Durante l’età della trasformazione dei partiti operata da Depretis, posta al riparo della Triplice Alleanza la stabilità internazionale del regno d’Italia, col consenso degli ambienti monarchico – costituzionali fu possibile all’Unione romana partecipare dal 1883 al governo municipale della Capitale; si realizzò, allora, un’esperienza esemplare per lo sforzo organizzativo del laicato cattolico e per la capacità di costruire alleanze con le componenti dei partiti liberali, presupposto per una proiezione nella politica nazionale del movimento cattolico connessa a possibili ipotesi di riconciliazione.

La politica di Crispi dell’autunno 1887, sotto il segno dell’anticlericalismo, frantumò gli equilibri raggiunti in Campidoglio, introducendo ulteriori diffidenze tra i governi nazionali e il movimento cattolico che aspirava a partecipare alla guida dei diversi settori della nazione. Nel protrarsi dell’irrisolto conflitto Chiesa-Stato, il rafforzarsi della presenza cattolica nei governi locali e nelle associazioni economico-sociali (particolarmente dopo la Rerum novarum del 1891), con un sempre più attivo ruolo del laicato alla formulazione di programmi e strategie d’azione, evidenziò una “politicizzazione” del movimento sociale cattolico. Si giunse, così, nel 1898 al momento più critico tra il governo italiano e l’associazionismo cattolico, oggetto di provvedimenti repressivi come organizzazione eversiva. All’interno dell’Opera dei congressi, intanto, sorgeva una divisione generazionale e di orientamento politico tra gli esponenti del primo intransigentismo e i sostenitori di un concetto cristiano di → democrazia a favore del popolo. Di fronte alla crescente questione sociale, nel giubileo del 1900, infine, si colse l’occasione di una prima tacita riconciliazione nazionale; tra l’enciclica Graves de communi del 1901 e lo scioglimento dell’Opera nel 1904, così, il movimento cattolico tornava a interrogarsi sul significato della democrazia cristiana e delle sempre maggiori brecce aperte dall’episcopato cattolico nel divieto ai credenti di partecipare alle elezioni politiche.

Incoraggiato dall’iniziativa di Giuseppe Toniolo, il mondo cattolico ricercò una rinnovata unione d’intenti nell’articolazione dell’Unione popolare, promossa dalla S. Sede nel 1904, come pure nell’avvio delle Settimane sociali dei cattolici italiani, sull’esempio di quelle francesi. Nel movimento democratico cristiano, in cui si segnalavano il lombardo Filippo Meda e il siciliano don Luigi Sturzo, si distinguevano i percorsi di coloro che immaginavano di riprendere il cammino degli accordi negoziati con candidati liberali (additati come clerico – moderati) e i sostenitori dell’affermazione di uno specifico programma socio-politico. In questo contesto, era stato eletto alla Camera un gruppo di “cattolici deputati”, che enfatizzavano la responsabilità personale e rifiutavano di farsi identificare in un partito confessionale. Profili religiosi e dinamiche politiche tornavano a sovrapporsi nel dibattito tra i cattolici italiani, intrecciandosi talora con la polemica sul modernismo: dopo aver costituito la Lega democratica nazionale, don Romolo Murri entrò in parlamento, tra il 1907 e il 1909, appoggiato da socialisti e radicali e condannato dal Vaticano.

A fronte dei blocchi popolari anticlericali, la finanza e la stampa cattolica come le organizzazioni cristiano – sociali, sviluppate nel movimento cooperativo e nei sindacati “bianchi”, aspiravano a veder riconosciuto il loro ruolo nelle istituzioni dell’Italia giolittiana in un Paese cattolico investito da un processo di secolarizzazione della vita pubblica. Nel 1913 si giunse, infine, a formulare le condizioni del “patto Gentiloni”, dal nome del presidente dell’Unione elettorale, perché l’elettorato cattolico nel suo complesso potesse influire, generalmente in senso moderato, sul risultato delle prime elezioni a suffragio elettorale maschile dell’epoca liberale: alcune rivendicazioni politiche (dal rispetto per le scuole cattoliche al rifiuto del divorzio) avanzate dal movimento cattolico sarebbero state sottoposte ai singoli candidati liberali che avrebbero richiesto il voto dei cattolici. Forte era la preoccupazione di Pio X, impegnato in un’ampia riforma della Chiesa, di mantenere in quella delicata congiuntura l’unione del popolo cattolico alla gerarchia, con l’intento di evitare una traslazione sul piano ecclesiale delle differenti scelte che si erano manifestate sul piano politico.

L’avvenuta “nazionalizzazione” del mondo cattolico italiano comportò, peraltro, il suo sostegno alla guerra di Libia e la condivisione dello sforzo bellico del primo conflitto mondiale, sebbene una parte significativa dell’opinione pubblica cattolica manifestasse inizialmente remore all’entrata in guerra: l’opzione di una “neutralità condizionata” prendeva le distanze dalla retorica nazionalista e promuoveva, contemporaneamente, un’identificazione tra le sorti dell’Italia cattolica e la politica dello Stato unitario che avrebbe dovuto facilitare la riconciliazione. In effetti, nel “fronte interno” i cattolici italiani contribuirono alla coesione sociale del Paese, mentre nelle zone di combattimento l’afflato religioso favorì la solidarietà nelle drammatiche sofferenze dell’“inutile strage” condannata da Benedetto XV. Alla fine del conflitto, peraltro, i colloqui parigini del 1919 tra mons. Bonaventura Cerretti e il presidente del Consiglio Vittorio Emanuele Orlando mostravano accessibile un percorso di conciliazione tra Chiesa e Stato sulla base di negoziati accordi bilaterali.

Nel frattempo, inserendosi nella tendenza ad un’adesione di massa ai partiti politici del dopoguerra, nel novembre 1918 Luigi Sturzo aveva promosso nei locali dell’Unione romana la costituzione di un partito nel quale potessero riconoscersi tutte le componenti del movimento cattolico impegnato a recuperare una centralità nella vita politico-istituzionale nazionale e orgogliosamente partecipe delle sorti della patria italiana. Con l’appello a “tutti gli uomini liberi e forti” del gennaio 1919 nasce il Partito Popolare Italiano, che, ispirandosi “ai saldi principi del Cristianesimo”, mirava ad orientare con la sua presenza parlamentare i governi di un’Italia scossa dall’azione di un partito socialista massimalista e dalle convulsioni sociali della “vittoria mutilata”. La segreteria di Stato vaticano permise il tentativo del Ppi come partito aconfessionale, affiancato dal sindacato della Confederazione Italiana del Lavoro, rimarcando una chiara distinzione con l’Azione cattolica destinata ad assumere nel pontificato di Pio XI il carattere di un’associazione laicale di collaborazione all’apostolato gerarchico della Chiesa. Di fronte alla chiusura delle classi dirigenti liberali, all’aggressiva propaganda socialista e al sorgente squadrismo fascista, tuttavia, si manifestò presto la tendenza a sovrapporre la militanza cattolica con la contemporanea adesione alla Ac, alla Cil e al Ppi; così l’appartenenza all’azione cattolica sembrava identificarsi con l’azione dei cattolici più impegnati nella politica dei popolari.

Dopo la marcia su Roma del 1922 e la formazione di un gabinetto di coalizione da parte di Mussolini, si acuirono nel Ppi le tensioni irrisolte che laceravano il cattolicesimo politico italiano, portando alle dimissioni di Sturzo da segretario politico del Ppi, al dissenso di Guido Miglioli sulle lotte sociali, all’espulsione dal partito di esponenti dell’ala destra, come Egilberto Martire (nel 1924 nascerà un piccolo partito, il Centro nazionale, che fiancheggerà i fascisti fino al 1930). Riemergeva, così, la preoccupazione vaticana che caratterizzazioni d’indole puramente politica fossero portate in seno all’azione cattolica, rompendo la concordia dell’apostolato cristiano. L’atteggiamento di Mussolini, che affiancava le aperture al Vaticano alla violenza contro le opposizioni politiche e sociali, condurrà la gerarchia cattolica italiana a concentrare il proprio impegno nella difesa della presenza educativa e religiosa di fronte al tentativo avviato nel 1925 di edificare un regime totalitario. La difficoltà a sostenere uno scontro diretto con la Chiesa e la ricerca del consenso cattolico spinsero il fascismo a negoziare i Patti Lateranensi del 1929: il trattato internazionale e la convenzione finanziaria mettevano fine al conflitto tra Italia e S. Sede, mentre il concordato stabiliva le norme dei rapporti tra la Chiesa e lo Stato. La tolleranza nel regime dell’organizzazione cattolica sul piano dell’eduzione religiosa, peraltro, provocò un latente conflitto tra fascisti e azione cattolica, che talora si acuiva come nello scontro con la Fuci del 1931. Arrestandosi di fronte alla “politica dell’altare”, comunque, il fascismo trovò un ostacolo deciso alla sua penetrazione nella vita sociale italiana.

Se gli ambienti del cattolicesimo conservatore inclinarono al filofascismo, enfatizzando le opportunità di restaurare una nazionale cattolica, sotto l’ombrello delle associazioni cattoliche si alimentava la speranza degli antifascisti ridotti al silenzio, mentre parte significativa della Chiesa italiana coltivava nell’afascismo un’alterità morale e religiosa che si asteneva dall’impegno socio-politico. Nelle associazioni cattoliche degli anni Trenta si formava, così, una “gioventù pura” affidata ai ritiri, alle catechesi, alle processioni e all’apostolato, dai tratti talora militareschi. Il varo delle leggi razziali contro gli ebrei nel 1939 incrinò l’instabile equilibrio raggiunto tra il regime e la Chiesa italiana, nel reciproco tentativo di delimitare i confini tra spazio politico e religioso. Durante la guerra i cattolici che avevano potuto giovarsi di proprie strutture educative erano in grado di avviare una fase di elaborazione di strategie per il periodo successivo ad un’eventuale caduta di Mussolini. Dopo il luglio 1943, mentre l’Azione cattolica si proponeva di dare un apporto alla ricostruzione civile del Paese, gruppi di cattolici parteciparono alla formazione dei Comitati di liberazione nazionale, agendo poi nella clandestinità come partigiani nella Resistenza.

Il partito della Democrazia cristiana, costituitosi attorno ad Alcide De Gasperi con l’ambizione di raccogliere insieme alla dirigenza popolare prefascista nuove generazioni di intellettuali e militanti cattolici, poteva organizzarsi col sostegno di ampi settori dell’episcopato. Tra continuità e fratture, comunque, occorreva misurarsi con l’eredità del Ventennio sull’impegno civile del cattolicesimo italiano nella vita democratica; un processo che si prolungò sino alla crisi degli anni Cinquanta. Maturavano differenti progettualità per declinare l’impostazione “morale” dell’impegno cristiano sul piano “temporale”: i principi del Codice di Camaldoli, disegnando nuovi scenari socio-politici, posero la questione di una distinzione tra la “professione d’apostolato” e il “fare professione politica”. Tra il 1944 e il 1946, intanto, numerosi giovani dirigenti dell’azione cattolica e della Fuci, come Giulio Andreotti, si formarono alla politica facendo politica nella Dc, mentre ancora nelle associazioni si coltivava un sospetto verso l’agire politico. Altri venivano attratti dal movimento dei Cattolici comunisti e dal Partito della sinistra cristiana di Franco Rodano, che nel 1945 confluì nel Pci, o dal socialismo cristiano che alimentò il Partito cristiano sociale di Gerardo Bruni tra il 1946 e il 1948.

Alla vigilia del referendum costituzionale e delle elezioni per l’Assemblea costituente, dunque, l’Azione cattolica s’impegnò ad educare gli associati (che raggiungevano i due milioni di iscritti) al superamento dell’apoliticità, mantenendo un’apartiticità che avrebbe conservato l’unione dei credenti. Dopo aver contribuito alla formulazione della Costituzione italiana tra il 1946 e il 1947, il mondo cattolico italiano percepì chiaramente l’importanza che per la sua attuazione avrebbero avuto le elezioni della prima legislatura repubblicana. Il costituirsi dell’alleanza politica social-comunista nel Fronte popolare fece maturare il convincimento che la Chiesa italiana dovesse contribuire all’emergenza politica costituita dalle elezioni del 18 aprile 1948. Si svolsero missioni religioso-sociali come campagna di “educazione civica” nelle diocesi italiane, coordinate infine da Giuseppe Lazzati, mentre si costituivano i Comitati civici, affidati a Luigi Gedda, per mantenere l’azione dei cattolici militanti a sostegno della propaganda democristiana su di un piano prepartitico. La vittoria della Dc e la sua conferma come perno di ogni possibile coalizione per il governo del Paese pose ben presto il cattolicesimo italiano di fronte a un’ulteriore questione: la centralità della politica democristiana nella vita politica repubblicana di un Paese aderente al sistema politico occidentale e atlantico nel confronto mondiale bipolare. Dal 1950 la presenza di De Gasperi accanto al francese Robert Schuman e al tedesco Konrad Adenauer tra i padri dell’integrazione europea giunse ad evocare l’idea di un’Europa vaticana.

Da allora, e fino al crollo del Muro di Berlino nel 1989, il dibattito sul cattolicesimo politico italiano coinciderà con le problematiche della Dc, sul piano interno (le formule di governo, le politiche di alleanze, la costituzione delle “correnti” democristiane) e sul piano delle relazioni internazionali (in particolare rispetto agli interlocutori statunitensi, alla politica mediterranea e mediorientale). Assunto il ruolo di “partito della nazione”, la Dc pure non rinunciava alla sua interlocuzione con la gerarchia cattolica, assumendo col tempo non solo un ruolo di mediazione degli interessi che questa esprimeva, ma anche una capacità di orientamento della presenza cattolica nella società: già negli anni Cinquanta, alcuni ambienti dell’associazionismo cattolico chiedevano al partito di non usare la Chiesa come organizzazione collaterale. Le classi dirigenti democristiane, nei ripetuti governi di Amintore Fanfani, di Aldo Moro e di Mariano Rumor, introdussero graduali riforme nell’Italia che s’industrializzava, in un sistema economico di economia mista, ricercando un sempre più ampio consenso politico delle forze liberali e socialiste, nell’impossibilità di un’alternanza di governo in presenza di un’opposizione guidata dal più forte partito comunista occidentale.

Negli anni Sessanta, peraltro, il mondo cattolico si trovò di fronte a nuove difficoltà per la trasformazione dei tradizionali modelli della famiglia e per i riflessi sull’esperienza politica dell’eco del Concilio Vaticano II. Così, mentre si radicava il primato dei partiti nella società, l’affermarsi della “terza generazione” di leader democristiani accompagnava l’inaridimento della formazione giovanile nel partito e l’ampliarsi del dissenso del mondo cattolico si proiettava nell’arena politica: all’opzione socialista nelle Acli seguirono le esperienze dell’Associazione di Cultura Politica (Acpol) e del Movimento Politico dei Lavoratori (Mpl), cui si affiancò l’esperienza dei Cristiani per il socialismo negli anni Settanta. Sotto il pontificato di Paolo VI non mancarono richiami all’unità politica dei cattolici di fronte all’affacciarsi di tematiche come il divorzio e l’aborto che spingevano a una nuova riflessione sul significato sulla presenza pubblica dei cattolici italiani. La stessa Dc non mancò di collegarsi con alcuni ambienti, come la Lega democratica e il Movimento popolare, che esprimevano una proiezione prepartitica di un rinnovato associazionismo cattolico, non più maggioritario nella società italiana. In effetti, la crisi della Dc non diede vita ad un rinnovamento interno della classe dirigente e della sua cultura negli anni Ottanta, frantumandosi il dibattito sugli assetti del partito, senza intercettare le modificazioni profonde della società italiana e le sue ripercussioni sui corpi intermedi promossi dal mondo cattolico.

La stessa Chiesa italiana, durante il pontificato di Giovanni Paolo II, vide crescere il ruolo della Conferenza episcopale per suscitare nel laicato impegnato nella società civile una rinnovata etica politica e condivise risposte agli emergenti temi della biopolitica. Dopo l’esaurirsi dell’esperienza democristiana nel 1994, la collocazione di esponenti cattolici in diverse formazioni politiche ha aperto nuovi interrogativi sulla rappresentanza dei cattolici, in un contesto di cambiamento epocale delle dinamiche socio-economiche e degli scenari internazionali. L’occasione dei centocinquanta anni di storia d’Italia, peraltro, ha consentito di apprezzare l’incidenza storica della presenza dei cattolici nella vita pubblica dello Stato unitario. Ricordando che la Chiesa non ha “soluzioni tecniche da offrire” nell’arena politica e “non pretende minimamente d’intromettersi nella politica degli Stati” (così ancora nella Caritas in Veritate di Benedetto XVI del 2009), dunque, il cattolicesimo italiano s’interroga sulle modalità con le quali esercitare una libertà responsabile a favore di “una società a misura dell’uomo, della sua dignità, della sua vocazione”.

Fonti e Bibl. Essenziale

Dizionario storico del movimento cattolico in Italia, a cura di F. Traniello e G. Campanini, vol. I, Tomi 1-2, Editrice Marietti, Torino, 1981; Aggiornamento 1980-1995, Marietti, Torino, 1997; F. Fonzi, I cattolici e la società italiana dopo l’unità, Studium, Roma 19824; K.-E. Lönne, Il cattolicesimo politico nel XIX e XX secolo, Il Mulino, Bologna, 1991; A. Canavero, I cattolici nella società italiana: dalla metà dell’800 al Concilio Vaticano II, La Scuola, Brescia 1991; M. Casella, 18 aprile 1948. La mobilitazione delle organizzazioni cattoliche, Galatina, Congedo editore, 1992; C.M. Fiorentino, Chiesa e Stato a Roma negli anni della destra storica, 1870-1876: il trasferimento della capitale e la soppressione delle Corporazioni religiose, Istituto per la storia del Risorgimento italiano, Roma, 1996; P. Scoppola, La repubblica dei partiti: evoluzione e crisi di un sistema politico, 1945-1996, Il Mulino, Bologna 1997; A. Ciampani, Cattolici e liberali durante la trasformazione dei partiti: la questione di Roma tra politica nazionale e progetti vaticani, 1876-1883, Istituto per la storia del Risorgimento italiano, Roma, 2000; N. Raponi, Cattolicesimo liberale e modernità. Figure e aspetti di storia della cultura dal Risorgimento all’età giolittiana, Morcelliana, Brescia 2002; F. Traniello, Religione cattolica e Stato nazionale. Dal Risorgimento al secondo dopoguerra, Il Mulino, Bologna 2007; M. Belardinelli, Il Risorgimento e la realizzazione della comunità nazionale, Roma, Studium 2007; A. Ciampani, Il dibattito sulle origini di un partito cattolico in Italia e l’Unione romana, in “Archivio della Società romana di storia patria”, vol. 134 (2011), 81-126.


LEMMARIO




Cattolici del dissenso - vol. II


Autore: Angelo Manfredi

Sotto l’etichetta “cattolici del dissenso”, comoda e introdotta soprattutto dai mezzi di comunicazione, ma spesso rifiutata da coloro che sono protagonisti degli anni della contestazione, raggruppiamo quella varietà di fenomeni che non si esaurirono nella “contestazione” ma tentarono di proporre e dare durata a alternative all’interno dello stesso mondo ecclesiale.

Al di là dei problematici legami o “fili rossi” rispetto al modernismo di inizio XX secolo, già negli anni ’40-’50 emergevano nella Chiesa italiana figure e gruppi che per vari motivi non si sentivano interamente interpretati dal blocco della militanza di AC. Alcuni di essi daranno vita a realtà del dissenso, altri invece saranno all’origine di alcuni movimenti ecclesiali.

Il fenomeno del dissenso, tuttavia, difficilmente si può ricondurre a queste forme di insofferenza rispetto a un modello di presenza pastorale e sociale tipico dell’AC dei “tre Pii” (X, XI e XII). Molti degli esponenti del cattolicesimo della contestazione, alla conclusione del Concilio Vaticano II che portava con sé molte aspettative, produceva documenti di grande equilibrio ma vedeva gran parte dell’episcopato italiano in posizione di arretratezza e di diffidenza, fecero riferimento, più che alla “lettera” del concilio, percepita come inadeguata, a una sorta di “spirito” conciliare. In contemporanea, si diffondeva in tutto il mondo occidentale la contestazione giovanile, fenomeno sostanzialmente estraneo alla vita ecclesiale ed alle sue esigenze, ma che si saldò, per contemporaneità, sintonia nell’ambito della “rivoluzione” e dell’antiautoritarismo, sensibilità personali, con i fermenti di una parte del mondo cattolico, italiano e non solo.

Molti studiosi sembrano concordi sull’individuare, tra le caratteristiche prima della “contestazione” e poi del “dissenso” cattolico in Italia: la sensibilità giovanile verso i movimenti di liberazione del cosiddetto “terzo mondo”, come la guerra in Viet Nam e le guerriglie di sinistra in America Latina; la scelta di passare a un impegno politico diretto, mentre i gruppi che poi saranno all’origine dei “movimenti ecclesiali” si sganciarono dalla lotta politica; l’assunzione, variamente modulata, di categorie di pensiero di origine marxista per comprendere e vivere efficacemente la lotta politica scelta come impegno dei cattolici “nell’ora attuale”; infine la richiesta di riforme, anzi di una “rivoluzione” interna alla stessa Chiesa: “La presenza dei cristiani nella rivoluzione suppone ed esige la presenza della rivoluzione nella Chiesa, nei suoi modelli di vita, nelle sue abitudini di pensiero” (P. Ricoeur, M.-D. Chenu e altri teologi nel 1969, cit. in Martina 1977, 160).

Si potrebbero distinguere nel processo che denominiamo “dissenso cattolico” in Italia alcune fasi. Una prima fase, più direttamente di contestazione, vide una serie di eventi simbolici: nel 1967, l’occupazione studentesca dell’Università Cattolica di Milano; l’anno successivo, il “controquaresimale” degli studenti davanti alla cattedrale di Trento, l’occupazione della cattedrale di Parma, la lettera di solidarietà a queste vicende del parroco del quartiere fiorentino dell’Isolotto, don Enzo Mazzi, e la sua rimozione da parte dell’arcivescovo E. Florit. Una seconda fase è quella della formazione dei gruppi o comunità di base, quasi “antiparrocchie” e incarnazioni di una Chiesa del popolo. Una terza fase, tra il 1971 e il 1974, vide il nascere di alcuni movimenti propriamente politici come i “cristiani per il socialismo”, il “movimento 7 novembre” e la “scelta socialista” delle ACLI, con un impegno durante il referendum promosso dalla DC contro la “legge Fortuna” che per la prima volta in Italia autorizzava il divorzio.

Una delle differenze tra i “movimenti ecclesiali” rimasti poi in seno alla comunità cattolica e queste aggregazioni, è che i movimenti ecclesiali non politici riuscirono ad imprimere una durata alla propria aggregazione, mentre si può affermare che i cattolici del dissenso appartengano sostanzialmente a una generazione. Molti degli esponenti e dei militanti di quegli anni hanno vissuto drammatiche separazioni rispetto alla compagine ecclesiale e alla fede, altri al contrario hanno ripudiato la scelta marxista spesso assumendo posizioni polarmente opposte. Altri ancora hanno successivamente fatto riferimento a iniziative e ambiti che in vario modo interpretavano i loro antichi ideali, come ad esempio la piattaforma proveniente dai paesi tedeschi e denominata “Noi siamo Chiesa”.

Via via che il tempo pone la necessaria distanza critica rispetto al post-concilio in Italia, emergono punti di certezza, come ad esempio la rilevanza delle riviste impegnate del mondo cattolico, e questioni aperte, come il rapporto di questi gruppi con la realtà conciliare, lo spessore laicale o clericale della leadership, la realtà elitistica o di massa del fenomeno, la capacità della Chiesa italiana di recepire le istanze più autentiche della contestazione, le motivazioni dei singoli partecipanti e l’efficacia nell’incidere nel tessuto sociale, culturale e politico.

Fonti e Bibl. essenziale

1968: fra utopia e Vangelo. Contestazione e mondo cattolico, a cura di A. Giovagnoli, Roma (AVE) 2000; S. Burgalassi, Dissenso cattolico e comunità di base, in Dizionario storico del movimento cattolico in Italia (1860-1980), I/2, Torino (Marietti) 1981, 278-284; M. Guasco, Chiesa e cattolicesimo in Italia (1945-2000), Bologna (EDB) 2001; Fr. Malgeri, La Sinistra Cristiana (1937-1945), Brescia (Morcelliana) 1982; G. Martina, La Chiesa in Italia negli ultimi trent’anni [1946-1976], Roma (Studium) 1977; D. Saresella, Dal concilio alla contestazione. Riviste cattoliche negli anni del cambiamento (1958-1968), Brescia (Morcelliana) 2005.


LEMMARIO