Associazione Italiana dei Professori di Storia della Chiesa

Dizionario Storico Tematico La Chiesa in Italia
Dopo l'Unità Nazionale
Roma 2015
Copyright © 2015

Cattolici di rito orientale - vol. II


Autore: Giovanni Coco

Italo-greci. L’avvento del Regno d’Italia segnò il declino delle residue e languenti comunità italo-greche. Mentre a Livorno ebbe inizio un processo di definitiva latinizzazione, gli ortodossi di Napoli, avvalendosi delle nuove opportunità offerte dall’estensione dello Statuto Albertino, si appropriarono della chiesa italo-greca dei SS. Pietro e Paolo, spodestandone il parroco (1865); ne seguì una lunga vertenza ma, nonostante tutti gli sforzi, la chiesa da quel momento divenne sede della parrocchia greco-ortodossa. Nel tentativo di emulare quanto accaduto citra Pharum, anche gli ortodossi di Messina, approfittando delle leggi eversive che avevano posto fine all’asse ecclesiastico dell’Archimandritato del SS.mo Salvatore (1866), che tra l’altro era sede vacante dal 1839, impugnarono il diritto di proprietà della chiesa di S. Maria del Grafeo, ma la comunità italo-greca, più saldamente costituita, riuscì ad opporsi con successo; inoltre, per consolidare la posizione della parrocchia cattolica, nel 1883 Leone XIII unì aeque principaliter la secolare istituzione dell’Archimandritato all’Archidiocesi di Messina. Tuttavia questi sforzi vennero vanificati dal disastroso terremoto del 1908 che distrusse la chiesa parrocchiale, sotto le cui macerie perì il parroco Daniele Stassi. La ricostruzione trascurò gli italo-greci che, rimasti privi di luogo di culto, si dispersero nella diocesi di rito latino; solo nel 1997 l’arcivescovo di Messina, Ignazio Cannavò, ha provveduto a ripristinare la parrocchia italo-greca di S. Maria del Grafeo, dotandola nel 1999 di un nuovo parroco (Antonio Cucinotta), ma per le celebrazioni la comunità si appoggia tuttora alla parrocchia latina di Santa Maria dei Miracoli.

Un moto in controtendenza si è rilevato solo a Roma dove, presso la chiesa di S. Atanasio del Pontificio Collegio Greco, a partire dagli anni ’20 si è costituita spontaneamente una piccola comunità di fedeli, di origine levantina o italiani simpatizzanti del rito bizantino che, pur non costituendo un’entità parrocchiale, assiste regolarmente alla Divina Liturgia domenicale in lingua greca.

Il monachesimo basiliano. L’impatto con la nuova realtà politica e sociale fu ancora più devastante per il monachesimo basiliano. La Congregazione Basiliana d’Italia, che nel 1861 risultava composta solo dai monasteri siciliani e da quello di Grottaferrata (Roma), aveva cominciato una difficile e tormentata riforma interna, che avrebbe dovuto finalmente garantire ordine e stabilità alle residue comunità monastiche, ma l’estensione delle leggi eversive a tutto il territorio nazionale (1866) portò alla soppressione dei monasteri di Sicilia, riducendo l’intera Congregazione al solo cenobio criptense; davanti a tale prospettiva i monaci siciliani preferirono la via dell’incardinazione nelle diocesi dell’isola, e i pur lodevoli tentativi di costituire nuove comunità locali fallirono per il mancato sostegno da parte di Roma, decretando in tal modo la fine del monachesimo italo-greco di Sicilia. Nel contempo, nella superstite Badia di Grottaferrata, dichiarata dallo Stato Italiano “monumento nazionale” e scampata alla soppressione grazie alla nomina di alcuni monaci a suoi custodi (1874), già dal 1870 era cominciata anche un’ardua riforma rituale che avrebbe dovuto riportare i basiliani all’osservanza del rito greco puro (costantinopolitano); contestata dall’abate Nicola Contieri e da larga parte dei monaci che – come i confratelli siciliani – erano diffidenti verso quelle novità, la riforma fu voluta da Pio IX e ancora più fortemente da Leone XIII, che intendeva trasformare Grottaferrata in un centro di irradiazione dell’unionismo cattolico in Oriente. Allontanato l’ostile Contieri (1877), venne nominato in sua vece l’erudito Giuseppe Cozza-Luzzi (1879), deciso fautore del rito greco puro, reintrodotto ufficialmente nel 1881, ma tale successo fu vanificato dalle forti contestazioni dei confratelli, che nel capitolo del 1882 gli preferirono come successore Arsenio Pellegrini, partigiano dei refrattari. Nella sua nuova posizione l’abate Pellegrini si prodigò con determinazione affinché la comunità monastica accettasse la contestata riforma, che venne definitivamente accolta negli anni del suo lungo ed energico governo, un successo che gli valse il personale favore di Leone XIII. Tuttavia, il ripristino del rito greco puro non portò automaticamente il cenobio criptense ad assumere quel ruolo di punta nell’unionismo leonino, sia per la mancanza di nuove vocazioni, sia per la marginalità del cenobio, di storica grandezza ma di fatto isolato nell’orbe cattolico. Per ovviare a tali difficoltà i monaci si rivolsero alle comunità italo-albanesi dell’Italia meridionale, da dove giunsero nuove vocazioni e nuova linfa per la vita dell’ordine. Nel 1920 i basiliani riaprirono il monastero siciliano di Mezzojuso, e fondarono i nuovi cenobi di San Basile in Calabria (1932) e di Piana degli Albanesi in Sicilia (1949); inoltre, durante il governo dell’abate Isidoro Croce (1930-1960), la Badia di Grottaferrata fu elevata al rango di abbatia nullius (1937), e una missione basiliana venne aperta in Albania (1939-1946). Tuttavia, a partire dagli anni ’70-’80, si sarebbe segnalato un nuovo periodo di stagnazione, conseguenza della mancanza vocazioni sia dalle comunità italo-albanesi che dal retroterra “italiano, che avrebbe prodotto lo spopolamento attuale degli altri tre monasteri periferici.

Gli italo-albanesi. Le conseguenze del Risorgimento si fecero percepire anche nel risveglio della coscienza «nazionale» delle comunità italo-albanesi di Calabria e Sicilia, cattoliche di rito bizantino, da secoli identificate equivocamente come «greche»; questo sentimento ben presto rinforzò l’antica richiesta di avere finalmente diocesi e vescovi ordinari del proprio rito per non sottostare più alla giurisdizione dei locali vescovi “latini”, ponendo fine ad una forzata e subalterna convivenza che, in ossequio alla preastantia romani ritus, era stata spesso costellata da equivoci ed incomprensioni. Questo sentimento, cresciuto negli anni dell’unionismo leonino, si fece sentire più forte nei primi decenni del ‘900 ed ottenne il suo primo tangibile risultato nel 1919, allorquando Benedetto XV istituì l’eparchia greco-albanese di Lungro in Calabria, a cui sarebbero state aggregate le reisidue parrocchie greche di Lecce e Villa Badessa (Pescara), e nel contempo veniva nominato il suo primo ordinario, mons. Giovanni Mele. La positiva esperienza dei confratelli di Lungro indusse i siculo-albanesi ad insistere con maggiore forza nel perseguire il medesimo risultato, al quale tuttavia si opponeva la diversa distribuzione territoriale delle parrocchie: mentre infatti in Calabria i paesi e le parrocchie albanesi erano compatti e reciprocamente confinanti, in Sicilia le parrocchie greche erano disperse su un territorio più vasto, erano frammiste a quelle latine e, in più di un caso, nello stesso luogo coesistevano greci e latini. Tali ostacoli vennero superati per diretto intervento di Pio XI e del cardinale Eugène Tisserant, segretario della Congregazione Orientale, che vollero trasformare il caso dei siculo-albanesi in un manifesto programmatico dell’unionismo cattolico: nel 1937 venne eretta l’eparchia di Piana dei Greci (poi detta degli Albanesi), con co-cattedrale a Palermo (S. Nicolò dei Greci alla Maratorna), al cui ordinario greco sarebbero state sottomesse sia le parrocchie greche che quelle latine di Piana, S. Cristina Gela, Mezzojuso, Contessa Entellina e Palazzo Adriano. Inoltre, per ovviare alle proteste dei fedeli latini, come ordinario pro tempore fu nominato l’arcivescovo di Palermo, a cui venne affiancato un ausiliare di rito greco nella persona di papás Giuseppe Perniciaro, creato vescovo titolare d’Arbano, che solo nel 1967 avrebbe assunto la guida diretta dell’eparchia. Da quel momento il vescovo greco sarebbe stato l’unico ordinario per i due riti, perpetuando sotto diversa luce una convivenza che non ha cancellato diversi aspetti del suo antico retaggio.

Altre comunità. Oltre alla storica presenza armena a Venezia testimoniata dal cenobio mechitarista di San Lazzaro (1717), la cui preziosa funzione continua al presente, la prima significativa comunità cattolica “allogena” comparve sul territorio nazionale negli anni tra le due guerre, come conseguenza del moto di emigrazione dovuto alla Rivoluzione russa. Costituitasi a Roma e formata in gran parte da elementi convertitisi a condizione di mantenere il rito bizantino, la comunità russo-cattolica ebbe il suo baricentro nella chiesa di Sant’Antonio Abate all’Esquilino (1928) che, ricostruita nel 1932, sarebbe stata anche la chiesa del Pontificio Collegio Russicum, retto dai padri gesuiti di rito slavo. Più avanti fu la presenza a Roma del cardinale ucraino Josif Slipyj (1963), esule dopo anni di dura prigionia nei Gulag sovietici, a stimolare il costituirsi di un piccolo nucleo greco-cattolico con sede nella cattedrale di Santa Sofia alla Boccea, che negli anni ’90 sarebbe divenuto un centro di attrazione per il sempre crescente flusso dell’immigrazione ucraina.

Fonti e Bibl. essenziale

G. Coco, Pio XI e l’Unità dei Cristiani: le Chiese d’Oriente in «La sollecitudine ecclesiale di Pio XI», a cura di C. Semeraro, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 2010, 260-312; D. Como, L’Eparchia di Piana degli Albanesi, Palermo 1981; G.M. Croce, La Badia greca di Grottaferrata e la rivista “Roma e l’Oriente”: Cattolicesimo e Ortodossia fra Unionismo ed Ecumenismo, 1799-1923, II voll., Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 1990; E. Fortino, La Chiesa bizantina albanese in Calabria: tensioni e comunione, Bios, Cosenza 1994; E. Fortino, S. Atanasio: la liturgia greca a Roma, Roma 1970; Ines Murzaku, Returning Home to Rome. The Basilian Monks of Grottaferrata in Albania, Monastero di Grottaferrata, Grottaferrata 2009; J. Pelikan, Confessor between East & West: a portrait of Ukrainian Cardinal Josyf Slipyj, William B. Eerdmans, Grand Rapids 1990; C. Simon, Russicum: pioneers and witnesses of the struggle for Christian Unity in Eastern Europe, II voll., Opere religiose russe, Roma, 2001-2002.


LEMMARIO




Censura ecclesiastica - vol. II


Autore: Davide Cito

A metà dell’Ottocento l’assetto del sistema sanzionatorio ecclesiale, che si era andato via via formando soprattutto a partire dai secoli successivi alla riforma gregoriana, appariva, come del resto l’insieme della normativa canonica, come un grande comulo di norme sparso in numerose e antiche fonti il cui accesso e comprensione risultava difficile. Ciò peraltro non impedì che molti dei protagonisti del Risorgimento italiano fossero colpiti e assolti a più riprese da censure ecclesiastiche. Pio IX con la costituzione Apostolicae Sedis del 1869 aveva codificato un elenco dettagliato di 63 censure latae sententiae da considerarsi in vigore, con l’abrogazione di tutte le altre, ma tuttavia mancava un quadro organico del diritto penale ecclesiale che si avrà solo con il Codice del 1917.

Frutto soprattutto dei contributi dei canonisti F.X. Wernz e J. Hollweck, il libro V del Codex Iuris Canonici del 1917 si presentò come una trattazione completa del diritto penale canonico, nel quadro dell’ecclesiologia dell’epoca che poggiava sulla nozione di societas perfecta e pertanto facendo ricorso anche alle tecniche giuridiche sviluppatesi in quegli anni in ambito secolare. Esso ruotava intorno ai concetti di delitto e di pena, cui faceva seguito una particolareggiata elencazione dei comportamenti delittuosi. Allo stesso tempo questi concetti erano permeati dallo spirito proprio del diritto ecclesiale: innanzitutto il fatto che la sanzione penale non fosse l’unico né il principale rimedio al quale il legislatore canonico doveva far ricorso; il diritto penale, infatti, era all’interno di un codice che prevedeva tanti altri mezzi di ordine spirituale, sacramentale, morale e disciplinare. In secondo luogo l’esercizio della potestà coercitiva penale andava intesa entro la più ampia azione pastorale, come venne richiamato dal Concilio di Trento e riportato nel Codice del 1917 laddove si ricordava ai Vescovi e agli altri Ordinari che erano principalmente pastores non percussores. Si confermò anche la secolare vigenza delle pene latae sententiae, che in modo automatico colpiscono il reo di determinati gravi delitti anche occulti. Tra le pene, che principalmente privano il fedele di beni spirituali tra cui in particolare dell’amministrazione e ricezione dei sacramenti, si confermò la tradizionale divisione tra le censure e le pene vendicative. La differenza tra queste due categorie di sanzioni canoniche si basava sulla diversa finalità prevalente che le caratterizzava, vale a dire dirette all’emendamento del reo per le censure, che dal concilio Lateranense IV (1215) erano circoscritte alla scomunica, all’interdetto ed alla sospensione; dirette invece alla punizione del delitto erano le pene vendicative. Questa differenza di finalità prevalente si manifestava nel loro differente regime giuridico e in particolare sulla loro durata che, per quanto riguarda le censure, era sempre a tempo indeterminato ossia fino all’emendamento del reo e, per quanto riguarda la loro remissione o assoluzione, vigeva l’istituto della riserva, che concedeva solo a determinati soggetti la potestà di assolvere da esse tranne il caso del pericolo di morte.

La riforma del diritto ecclesiale, che fece seguito alla celebrazione del concilio Vaticano II, vide notevoli discussioni riguardanti il diritto penale. Attraverso i dieci principi direttivi stabiliti nel 1969 per guidare la revisione del diritto canonico, si ebbero alcune risposte alle problematiche sollevate. Innanzitutto venne rigettata la proposta della soppressione del diritto penale in quanto irrinunciabile da parte della Chiesa. Si affermò al contempo il principio della riduzione delle pene stabilite; inoltre si stabilì la direttiva che le pene in linea generale fossero ferendae sententiae, ossia da irrogare e rimettere solo con la relativa procedura. Si mantenne tuttavia l’istituto delle pene latae sententiae, ossia automatiche, da limitare però soltanto a pochissimi e gravissimi casi.

Da un raffronto con il Codice del 1917 balza subito agli occhi la drastica diminuzione dei canoni rispondente all’applicazione del principio di ridurre le pene nella vita della Chiesa. Un  altro motivo va ricercato nella semplificazione o abolizione di parecchi istituti come quelle relativi alla riserva della pena, delle pene latae sententiae, della remissione delle pene. Complessivamente la struttura della materia ricalca la codificazione pio-benedettina con le sottolineature relative allo spirito di mitezza e di misericordia, al ricorso allo strumento penale solo come ultima ratio una volta esauritesi inutilmente tutte le vie dettate dalla  giustizia, all’emendamento del reo (cf. can. 1341).

Il sistema penale vigente contenuto nel Codice di Diritto Canonico del 1983 conserva la distinzione tra pene medicinali o censure e le pene espiatorie (non più vendicative) con effetti e regime giuridico analogo al sistema precedente. Si afferma però che destinatari delle pene canoniche possono essere solo le persone fisiche e non più i collegi o i luoghi. Accanto alle pene troviamo altri strumenti quali le penitenze che sottolineano la dimensione emendativa sempre presente nelle sanzioni canoniche.

La normativa penale successiva al codice del 1983 è stata caratterizzata soprattutto dalle problematiche relative al delitto di abuso sui minori perpretrato da chierici che ha giustificato numerosi interventi pontifici di San Giovanni Paolo II di Benedetto XVI e di Francesco, tra i quali spicca il m.p. Sacramentorum sanctitatis tutela del 2001 aggiornato nel 2010, relativo ai delicta graviora di competenza della Congregazione per la Dottrina della Fede.

Fonti e Bibl. Essenziale

F.X. Wernz, Ius decretalium, T. VI, Ius poenale Ecclesiae catholicae, ex officina libraria Giachetti, Prati 1913; G. Michiels, De delictis et poenis: Commentarius libri V Codicis Juris Canonici, 3 voll., Typis Societatis S. Joannis Evangelistae, Pariis, Tournai, Romae, Neo Eboraci 1961; R. Metz, Il diritto penale nel codice di diritto canonico del 1917, in Concilium 11, fasc. 7 (1975)  49-60; V. De Paolis – D. Cito, Le sanzioni nella Chiesa, Urbaniana University Press, Roma 20012; C. Cardia, La Chiesa tra storia e diritto, cap. VII “Il diritto penale”, Giappichelli, Torino 2010, 311-361; J. Bernal, voce Censura, in Diccionario General de Derecho Canónico, vol. II, Thomson Reuters Aranzadi, Pamplona 2012, 49-51; B.F. Pighin, Diritto Penale Canonico, Marcianum Press,Venezia 20142; A. D’Auria – C. Papale (Cur.), I delitti riservati alla Congregazione per la Dottrina della Fede, Urbaniana University Press, Roma 2014.


LEMMARIO




Centri culturali - vol. II


Autore: Maria Teresa Falzone †

I centri culturali cattolici hanno svolto e svolgono un ruolo rilevante nella storia della Chiesa in epoca contemporanea, ora favorendo la ricomposizione della frattura tra fede e cultura, instaurando un dialogo aperto tra la Chiesa ed il mondo, ora sostenendo le posizioni ufficiali del Magistero, ora invece mantenendosi nella retroguardia, ponendosi anche a volte in posizione critica, più o meno apertamente, nei confronti dell’orientamento magisteriale. Oggi in modo particolare si costituiscono come forum pubblici, per la riflessione sulle sfide culturali del tempo e ricerca creativa di risposte ispirate dalla fede. Costituiscono una realtà ricca e diversificata, sia per quanto riguarda le denominazioni (centri o circoli, associazioni, accademie, istituti, ecc.) sia per gli orientamenti intorno a cui essi si muovono.

Dall’Unità d’Italia al secondo dopoguerra. Tanti e svariati sono i centri cattolici in tutto il mondo, ma indiscusso ne è il numero elevato in Italia, dove già da tempo essi sono una realtà viva, con un notevole crescendo dall’Unità d’Italia ai nostri giorni. C’è però da rilevare una differenza tra le prime deboli realizzazioni e la ricchezza ed efficienza dei molti centri dell’epoca odierna. A cominciare dalla torinese Amicizia cattolica di Bruno Lanteri, laicale, in cui nel 1817 sfociò l’anteriore Amicizia cristiana, ambedue espressione del movimento alfonsiano, lontane ancora dall’organizzazione di massa e dallo spirito che distinguerà poi il laicato cattolico. Pure negli anni sessanta, anche sotto l’influenza de «La Civiltà cattolica», ci fu un pullulare di associazioni, soprattutto a Bologna, Firenze e Roma; da ricordare soprattutto la bolognese Società cattolica italiana per la difesa della libertà della Chiesa in Italia (1865), che però ebbe vita breve, sciolta in seguito alla legge Crispi del 1866, sfociando poi nella Società della Gioventù cattolica.

Dopo Porta Pia la situazione slittò sempre più verso le forme intransigenti del Movimento cattolico >. Ma pur deboli furono le organizzazioni intorno al ’70, quando, all’esplosione della pubblicistica cattolica non corrisponde un’organizzazione di gruppi culturalmente costituiti; non si può infatti del tutto classificare sotto il titolo di “centro culturale” la Federazione Piana, che pur svolse a Roma un ruolo importante sotto i pontificati di Pio IX e di Leone XIII; fondata nel 1872 aggregava oltre venti società cattoliche romane, che operavano «a difesa della Fede e dei diritti della Chiesa» (Statuto). Così pure con certa titubanza possiamo fare cenno alle cosiddette riunioni di Casa Campello (1878), che ebbero protagonisti cattolici conservatori nazionali che intendevano accettare “i fatti compiuti” e che, fortemente osteggiati da «La Civiltà Cattolica», finirono presto il loro corso. C’è però da osservare che non pochi quotidiani e periodici cattolici del tempo, principalmente la rivista dei gesuiti, fecero da fulcro per un grande e vivace movimento culturale. Impiantata l’Opera dei Congressi, vi si incentra tutto il movimento cattolico nelle forme proprie dell’organizzazione. Pare però interessante, all’interno di essa, la formazione cristiano-sociale del Circolo di studi romani e la padovana Unione cattolica per gli studi sociali (1889), un centro che intendeva muoversi in modo autonomo nei confronti dell’Opera. Sciolta l’Opera dei Congressi, sbocco dell’interesse per gli studi sociali sarà il piccolo Centro di studi sociali (1904), divenuto poi Istituto cattolico di scienze sociali (Bergamo, 1910).

Il modernismo vede sorgere le prime organizzazioni nel campo del femminismo cattolico, sia pure alquanto osteggiate in campo ecclesiale, a cominciare dal vasto movimento di idee sollevato da Elena da Persico attorno alla rivista «Azione Muliebre» (Milano 1901-1949), inteso a scuotere le coscienze femminili. Ancor più stimolante l’azione della milanese Adelaide Coari, che promosse la nascita di associazioni femminili ed animò circoli di studio a sostegno ed a favore della donna, tra cui soprattutto il Cenacolo di Lentate, con un corso di didattica per le maestre impegnate nelle campagne. A Torino intanto nasceva l’Associazione Pro Cultura Femminile (1911) da un coraggioso gruppo di donne che si prefiggevano di “fare” cultura al femminile, costituendo un’apposita biblioteca dall’ampio patrimonio librario nel vasto panorama della cultura europea e sviluppando progressivamente anche interessi politici e musicali.

L’immediato primo dopoguerra vide un incremento dell’interesse culturale organizzato in appositi centri dalle dimensioni sempre più ampie ed impegnate, tra cui la monzese Procultura dei barnabiti (1921), la milanese Associazione Cardinal Ferrari, ma soprattutto l’Istituto Toniolo di studi superiori, sorto a Milano nel 1920, poco dopo la morte del grande sociologo, che si accompagnerà alla nascita dell’Università cattolica del S. Cuore, ambedue cooperanti alla formazione di una soda cultura cattolica universitaria. Progressivamente l’Università cattolica si andrà diramando e decentrando in varie località periferiche, opportunamente coordinate: oltre alle cinque sedi regionali, sono oggi tredici in tutta Italia i centri collegati in sistema stellare di rete istituzionale dell’Ateneo, finalizzati a creare nel territorio forme qualificate di formazione permanente. Sempre nei primi del Novecento nascevano anche non pochi centri che esprimevano la propria aderenza all’Azione cattolica, coordinati al Movimento ecclesiale d’impegno culturale, iniziato nel 1932-33 con il nome “Movimento laureati di Azione Cattolica” ed oggi diffuso in quasi tutte le regioni d’Italia, mentre, nell’alveo dell’Azione cattolica femminile, sorgevano i Convegni di cultura Maria Cristina di Savoia (Roma, 1937) quale “opera” dipendente dall’Unione Donne di Azione Cattolica, d’ispirazione monarchica e con scopi di formazione cristiana delle aderenti; costituiscono tuttora una rete non indifferente di centri in tutta Italia.

Fiorente e non raramente informata a spirito critico si presenta l’azione dei centri culturali durante il Fascismo, che vi esercitava un pesante controllo. Da ricordare la reazione dei gruppi dell’Università Cattolica >, a cui faceva anche riferimento la riunione settimanale in casa Padovani (1940), un gruppo sorto per iniziativa di Agostino Gemelli, oltre ad altre riunioni del genere in casa Spataro, Gonella, ecc., che in germe saranno la futura Democrazia Cristiana. Antifascista fu poi il Circolo “Dante e Leonardo” che, fondato a Roma prima dell’avvento del fascismo da dirigenti del Partito Popolare, fu negli anni del regime sede di incontri improntati al dialogo e che si rivelerà di notevole importanza per quel che riguarda le vicende interne della Sinistra cristiana e, più largamente, per le dinamiche politiche dell’intero movimento cattolico. Da ricordare i «Corsi sociali» istituiti in varie diocesi sotto l’egida dell’ICAS (Istituto Cattolico di Azione Sociale), in cui si trattavano i postulati della dottrina sociale della Chiesa, mentre di notevole rilievo appare il gruppo dei laureati cattolici di Piacenza che radunava buona parte della intellighentia cattolica, il cui organo era la rivista «Studium», gruppo definito da un rapporto della polizia fascista «il più pericoloso» tra le associazioni cattoliche. A Firenze contemporaneamente operava il gruppo di Giorgio La Pira, con un dibattito sulla posizione politica dei cattolici. Sarà l’humus in cui matureranno le scelte dei cattolici della Resistenza. Ad Assisi nel 1939 nasceva la Pro Civitate Christiana, la “Cittadella”, nella logica del consenso al regime, che pur diverrà laboratorio di confronto e di dialogo, fermento di cultura cristiana.

Intorno al Vaticano II. Tutto questo movimento culturale sfocia nel secondo dopoguerra in una grande ricchezza di centri culturali. Il card. Schuster, in collaborazione con Giuseppe Lazzati, fonda a Milano nel 1948 l’Ambrosianeum, strumento di dialogo e d’incontro, spazio di cultura cristiana. Giuseppe De Luca dà il via alla sua raccolta di fonti letterarie che porterà alla fondazione dell’Archivio per la storia della pietà (Roma, 1951) con il supporto delle Edizioni di storia e letteratura e con la fondazione dell’Istituto Sturzo (1951), che troverà in Gabriele De Rosa il più autorevole propulsore. Intanto molti centri nascono e si diramano in tutta Italia: il Centro culturale “S. Luigi di Francia” a Roma ad opera di J. Maritain (1945), oggi istituto francese d’insegnamento, l’Associazione A.I.A.R.T. ispirata all’Azione cattolica (1953), l’Akropolis di Roma e l’Istituto internazionale “Jacques Maritain” (1957), Veritas (Venezia, 1958), il Laurentianum dei cappuccini e tanti altri orientati alla cultura sacra in genere, alla musica, all’arte, alla letteratura, alla storia.

L’epoca conciliare ed immediatamente post-conciliare (1963-1980) vide un fiorire di centri che, recependo man mano le istanze del Concilio Vaticano II >, si aprivano a problematiche più ampie, provocati anche dai cambiamenti che caratterizzano via via la società e la Chiesa del tempo: crisi delle ideologie, problematica giovanile, bipolarismo in politica, globalizzazione, secolarizzazione, internazionalismo ed interculturalità. Non pochi si ponevano in modo nuovo nel confronto con i laici, credenti e non, non raramente in apertura al nuovo rapporto che si andava profilando con il cristianesimo orientale, nascendo pertanto anche come luoghi di incontri per il dialogo ecumenico. L’incremento, poi, degli anni successivi, fino ai nostri giorni, denota una grande estensione ed una notevole capillarità di presenza nel territorio nazionale, oltre all’ampiezza ed alla vastità delle tematiche in studio, che più frequentemente si imperniano su teologia, filosofia, educazione, arte, storia, ecumenismo, magistero della Chiesa, in riferimento agli orientamenti sociali, politici ed economici. Molti dei centri poi, ma non tutti, aderiscono al Progetto culturale della Chiesa italiana orientato in senso cristiano (1996), che si pone come uno dei compiti affidati al Pontificio Consiglio della Cultura onde facilitare il dialogo Chiesa-culture.

Da rilevare anzitutto la tipologia di massima: pur nella varietà – in rapporto all’origine, finalità e modalità espressiva – si possono sommariamente evidenziare tematiche ricorrenti, orientate a dare risposte illuminanti ai numerosi e stimolanti interrogativi che si pone l’uomo di oggi rispetto al modus vivendi ed alle finalità di vita che lo rimandano alla storia, lo pongono innanzi alle problematiche attuali e lo proiettano verso il futuro.

Oltre ai grandi fondatori poi ed alle figure eminenti degli istituti, religiosi e non, nel cui alveo sorgono alcuni centri – cappuccini, domenicani, francescani, gesuiti, focolarini, Comunione e Liberazione, ecc. -, varie sono le personalità di spicco a cui essi si ispirano e molto spesso si intitolano: Maritain, Peguy, Bachelet, La Pira, Escrivà, Tommaso d’Aquino, Rosmini, Toniolo, Frassati, Paolo VI, Giovanni Paolo II, Sturzo, Lazzati, Kolbe, ecc. Costituiscono l’ottica con cui essi guardano al mondo ed al territorio circostante, cercando di porre argine al pensiero debole imperante e proponendo uno sviluppo cristiano alla luce di una data esperienza spirituale eminente.

Mappa geografica dei centri. C’è poi da considerare la distribuzione geografica di tali centri, che evidenzia l’impronta di un’Italia che, benché segnata da disparità tra una zona e l’altra, dimostra una pur ricca e varia vivacità culturale. Da evidenziare soprattutto la Lombardia, con la stragrande quantità di centri, di Milano soprattutto, che da soli totalizzano più della metà dei centri italiani; oltre ai sopra ricordati, basta accennare al Centro francescano Rosetum (1964), al San Dionigi (1975), alla Fondazione Lazzati (1989), al San Fedele (1994) d’ispirazione gesuitica, al Centro Studi Paolo VI di Brescia, ecc. Il Piemonte, particolarmente con le diocesi di Cuneo e Torino che ne sono più dotate, accentua l’orientamento educativo. Ampio e vivace il movimento culturale nei molti centri del Veneto, tra cui particolarmente Padova e Venezia con l’attenzione alle comunicazioni sociali, oltre alle tematiche teologiche e culturali in genere, come pure alle ricerche storiche e socio-religiose. Da ricordare soprattutto Trento con l’Istituto storico italo-germanico, che molto deve all’impulso di Paolo Prodi, e con i tanti altri suoi centri. Né v’è da tralasciare la Liguria, soprattutto con il Centro studi culturali e politici Giuseppe Dossetti.

L’Italia centrale, pur non competendo con il Nord, è dotata di un grande numero di centri, e non pochi di notevole rilievo, quali soprattutto quelli dell’Emilia-Romagna, che nel dopo concilio sviluppa una ricca gamma di realtà culturali incentrati soprattutto a Bologna, ma pure sparsi per le altre province, ispirandosi anche ai movimenti o a spiritualità d’istituti religiosi. La Toscana continua in epoca contemporanea la vivacità culturale che l’ha caratterizzata in epoca fascista, principalmente con il Centro internazionale studenti “Giorgio La Pira” (Firenze, 1978), sviluppando notevolmente un confronto intellettuale inteso pure a conservare e valorizzare il patrimonio culturale del territorio. Da ricordare anche il Centro internazionale celestiniano de L’Aquila (1982), con la “Perdonanza” celebrata annualmente a Collemaggio. S’impone Roma, ed il Lazio in genere, per il numero e la qualità dei centri, ispirati a varie finalità culturali, non pochi nati anche da particolari spiritualità d’istituti religiosi.

Il Meridione d’Italia esprime anche coi suoi centri una vivacità intellettuale che, se non può equipararsi al Nord per il numero di essi, ne rileva una valenza che raramente gli è inferiore, particolarmente viva anche per le tematiche meridionaliste che pur vi vengono affrontate. Basti pensare ai centri campani, tra cui non ultimo il Centro di cultura “Mons. Raffaele Calabria” di Benevento, riferibile per la fondazione all’Università Cattolica (1971), attento anche al mondo rurale oltre alla trattazione di temi di ordine generale; il recente Centro studi sociali Bachelet (2005), ecc. Tra i molti e qualificati centri della Puglia ricordiamo soprattutto il Centro Studi storici di Bari (1989), dall’imponente collana di volumi finora pubblicati. La Calabria promuove pure non pochi centri di notevole rilievo, tra cui è da ricordare soprattutto l’équipe guidata e coordinata da Maria Mariotti, che opera in appoggio alla Deputazione di Storia patria per la Calabria, con l’approvazione della Conferenza Episcopale Calabra. La Sicilia infine offre un quadro non certo povero di interventi culturali. Basti pensare al Centro Studi per la cooperazione “A. Cammarata” (S. Cataldo, Caltanissetta), rigoglioso e fiorente di attività editoriali e culturali in genere, l’Istituto per la Documentazione e la Ricerca S. Paolo di Catania (1982), attento ad incrementare la cultura in Sicilia, con le sue molte pubblicazioni ed il suo organo «Synaxis»; l’Officina di studi medievali di Palermo, portato avanti dai conventuali, l’Istituto di formazione politica “P. Arrupe” dei gesuiti, il Centro Siciliano Sturzo e tanti altri sparsi per l’isola.

È una forte potenzialità che la Chiesa italiana possiede attraverso i tanti centri culturali che intessono il territorio italiano, quali punte di diamante della sua missione in un mondo che essa si impegna di impregnare evangelicamente.

Fonti e Bibl. essenziale

A. Gambasin, Il movimento sociale nell’Opera dei Congressi (1874-1904). Contributo per la storia del cattolicesimo sociale in Italia, Apud aedes Universitatis Gregorianae, Romae 1958; G. De Rosa, Il movimento cattolico in Italia dalla Restaurazione all’età giolittiana, Editori Laterza, Roma-Bari 1976; G.B. Guzzetti, Il movimento cattolico italiano dall’Unità ad oggi, Edizioni Dehoniane, Napoli 1980; Storia del Movimento Cattolico in Italia, diretta da F. Malgeri, 6 voll., Il Poligono editore, Roma 1981; Dizionario storico del movimento cattolico in Italia, a cura di F. Traniello e G. Campanini, 5 voll., Marietti, Casale Monferrato 1981-1994; Dizionario storico del movimento cattolico in Italia. Aggiornamento 1980-95, Marietti, Casale Monferrato 1997; P. Poupard, I Centri Culturali Cattolici. Idea, esperienza, missione, Città Nuova, Roma 1996; Conferenza Episcopale Italiana, Servizio Nazionale per il Progetto culturale, Centri culturali cattolici, voll. 4, Edizioni San Paolo, Cinisello Balsamo, 2003; Pontificium Consilium de cultura, Centres culturels catholiques, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 20054; G. Salvini, I centri culturali cattolici in Italia, «La Civiltà Cattolica» 160 (2009) II, 477-482.


LEMMARIO




Chiese Ortodosse - vol. II


Autore: Giovanni Coco

I greci. Dopo la proclamazione del Regno d’Italia, vi fu un progressivo ricambio nella presenza e consistenza delle comunità greco ortodosse. Le antiche e languenti comunità di Ancona, Livorno e Venezia colsero le opportunità offerte dall’estensione dello Statuto Albertino e, con diversa fortuna, riorganizzarono le primitive confraternite, assicurando con maggiore regolarità il servizio religioso, spesso precario nel passato. Altrove, come a Napoli, i greco-ortodossi si emanciparono dal controllo dei cattolici e ottennero il controllo della chiesa parrocchiale dei SS. Pietro e Paolo (1865), mentre a Roma venne eretta la chiesa di Sant’Andrea Apostolo come cappella della Legazione greca presso il Quirinale. Nel 1922, con l’istituzione dell’esarcato di Thyatira per l’Europa centrale ed occidentale sotto la direzione del metropolita Ghermanos Strinopoulos (1871-1951), il Patriarcato ecumenico riorganizzava le comunità d’Italia, alle quali si sarebbe aggiunta Milano (1925). L’ortodossia greca avrebbe conosciuto una seconda fase di stallo negli anni del secondo dopoguerra, ma un ulteriore sviluppo sarebbe sopraggiunto negli anni postconciliari grazie al clima più disteso creato dal dialogo ecumenico. Le nuove comunità, più diffuse sul territorio e di carattere più eterogeneo che in passato, si presentavano composte non solo elementi greci ma anche di italiani che, per interesse personale o per matrimonio misto, si erano avvicinati alla Chiesa ortodossa. Nel 1970, su proposta del patriarca Atenagora I, il sacerdote Ghennadios Zervós venne eletto vescovo ausiliare con il titolo di Cratea, e l’anno seguente fu consacrato in Napoli, dove rimase per due decenni a svolgere il ministero pastorale, primo vescovo ortodosso in Italia dopo 257 anni. Nel 1991 il Patriarcato ecumenico istituiva l’Arcidiocesi ortodossa d’Italia e Malta, con cattedrale nella storica chiesa di San Giorgio a Venezia, sede di cui il vescovo Zervós diveniva il titolare con il rango di metropolita; da quel momento si sono moltiplicate nella penisola le parrocchie e le comunità ellenofone, con un significativo sviluppo anche di piccoli centri monastici.

Una menzione a parte merita il caso di Montaner, comune italiano sito in diocesi di Vittorio Veneto. Nel 1967, in seguito alla nomina di un nuovo parroco da parte di mons. Albino Luciani, al tempo vescovo diocesano, la popolazione si ribellò a quel provvedimento con veri e propri atti di violenza che le costarono l’interdetto; per ritorsione una parte dei fedeli passò all’Ortodossia, costituendo una comunità che, dopo tristi vicissitudini, è stata infine incardinata nell’Arcidiocesi ortodossa d’Italia.

I russi. Nel corso del XIX l’Italia divenne sempre più meta di soggiorno dell’aristocrazia, dell’intellighenzjia e dell’alta borghesia mercantile russe, e questo fattore fu determinante per lo sviluppo di una presenza religiosa che, avvalendosi del più robusto ed influente sostegno dell’apparato statale e diplomatico di San Pietroburgo, nonchè del supporto economico del mecenatismo statale e privato, poteva rapidamente conquistare il vuoto lasciato dai confratelli greci. Una piccola chiesa russa (San Nicola il Taumaturgo), cappella dell’Ambasciata russa a Roma, era stata aperta al culto sin dal 1823, ma fu nel 1898 che l’archimandrita Kliment Vernikovskij propose la costruzione di un edificio di culto ortodosso nel cuore della “capitale del Cattolicesimo romano”. La progettazione e l’esecuzione richiesero tuttavia più decenni e la chiesa, eretta come parrocchia nel 1921 dall’archimandrita Simeon Narbekov, venne ultimata solo nel 1932. Inoltre, sotto la spinta del dinamico e discusso vescovo Vladimir Putjata, altre comunità russe si organizzarono sul territorio nazionale, e vennero erette le chiese parrocchiali di San Nicola a Firenze (1899-1903), e di Cristo Salvarore a Sanremo (1912-1913), mentre a Bari fu costruita la chiesa di San Nicola con annessa foresteria per i pellegrini russi (1912-1913). La presenza russa rimase immutata sino al 1918, quando gli eventi rivoluzionari in Russia e il sopraggiungere di numerosi esuli, tra i quali molti piccoli aristocratici, ecclesiastici o funzionari statali rovinati dalla Rivoluzione, cambiò definitivamente l’assetto delle comunità, scosse al loro interno una profonda crisi che, dal punto di vista religioso, culminò nel distacco dalla giurisdizione della chiesa madre di Mosca e nell’aggregazione all’Esarcato russo (oggi Arcidiocesi) in Europa occidentale, creato nel 1926 dal metropolita Evloghij Gheorghievskij (1864-1946) e posto sotto la tutela del patriarcato ecumenico (1930). Inoltre non mancarono crescenti difficoltà sul piano pratico ed economico; emblematica fu la vicenda della chiesa di Bari che, oltre alla chiusura, rischiò persino di essere ceduta al governo sovietico, provvedimento scongiurato anche grazie all’energico intervento di Pio XI, che ne chiese ed ottenne la destinazione al demanio italiano (1937). Unica eccezione in questo desolante panorama fu l’erezione di una chiesa a Milano, centro di attrazione per le nuove correnti di emigrazione. Dal 1945 sino al 1990, a causa del mancato ricambio generazionale, la presenza russa subì una flessione, ma a partire dagli anni ’90, grazie ai nuovi flussi migratori provenienti dagli stati dell’ex-Unione Sovietica, le comunità russofone si sono moltiplicate in quantità e numero. Al presente le comunità ortodosse russofone si presentano organizzate in due distinte giurisdizioni: il decanato d’Italia dell’Arcidiocesi russa per l’Europa occidentale, sotto la tutela del patriarcato di Costantinopoli, e il decanato d’Italia della diocesi di Cherson, appartenente al patriarcato di Mosca. Fanno eccezione la chiesa romana di Santa Caterina sul Gianicolo e di San Nicola di Bari, restituita al culto ortodosso nel 2008, che dipendono direttamente dal patriarcato russo. Inoltre singolare è la posizione della parrocchia di San Marco d’Efeso a Palermo, fondata nel 1985 dal prebistero Gregorio Cognetti: posta inizialmente sotto la giurisdizione di Mosca, attualmente è incardinata nell’Arcidiocesi d’Italia del patriarcato ecumenico.

Altre comunità. Negli ultimi anni il Patriarcato di Bucarest ha istituito sul territorio italiano una vasta diocesi (2007) per assistere i numerosissimi fedeli giunti in Italia, e significativa è anche la presenza di comunità copte, al punto che il Patriarca Shenouda III di Alessandria nel 1995 ha costituito due diocesi (Roma e Torino).

Fonti e Bibl. essenziale

G. Battaglia, L’ortodossia in Italia: le sfide di un incontro, Edizioni Dehoniane, Bologna 2011; A. Cazzago, Il cristianesimo orientale e noi. La cultura ortodossa in Italia dopo il 1945, Jaca Book, Milano 2008; V. Ciciliot, Il caso Montaner. Un conflitto politico tra chiesa cattolica e chiesa ortodossa, Venezia – Ca’ Foscari, 2004; R.G. Roberson, The Eastern Christian Churches: a brief survey, Orientalia Christiana, Roma 2008; Marija Šurgina, Vsja pravoslavnaja Italija ot Milana do Sicilii: spravočnik-putevoditel’ po monastyrjam i chramam: istorija i architektura; žitija, čudotvornye ikony, mošči, adresa, telefony, Blago Russkij chronograf, Moskva 2007; M. Talalay, Russkaja tzerkovnaja žizn’ i chramostroitel’stvo v Italii, Kolo, Sankt-Peterburg 2011; B.C. Wojcik, An Anthology of Orthodox Churches in Italy, University of Minnesota, Minnesota 1992.


LEMMARIO




Clero secolare - vol. II


Autore: Maurilio Guasco

Particolarmente numeroso nel corso del XVIII° secolo, anche il clero avrebbe subito le conseguenze dei rivolgimenti avvenuti in Europa durante il XIX° secolo. Verso la metà di questo secolo, i preti secolari e i religiosi assommano in Italia a circa 100.000 unità, per una popolazione di 23 milioni di abitanti. Tale cifra è però destinata a diminuire a partire dagli anni Cinquanta, causa i molti abbandoni dello stato clericale determinati dagli eventi politici, dalle leggi eversive e dall’incameramento dei beni ecclesiastici. Questo era dovuto in parte da una formazione religiosa e culturale alquanto carente, sia dalle possibilità che la nuova situazione offriva a quanti, dotati di una buona formazione, delusi dello stato sacerdotale o coinvolti nelle varie speranze rivoluzionarie, avevano la possibilità di trovare una lavoro soprattutto in campo scolastico. Casi come quelli di Bertrando Spaventa o Roberto Ardigò erano emblematici, ma non erano i soli. Lo stesso Giosuè Carducci avrebbe espresso un certo stupore per la rilevante presenza nelle scuole di preti che avevano abbandonato lo stato sacerdotale.

Non va neppure dimenticato che, nonostante il crescente conflitto tra lo Stato e la Chiesa, spesso le autorità locali si appoggiavano ai parroci, che continuavano a svolgere un ruolo fondamentale sia per l’educazione delle popolazioni, sia anche per facilitare alle stesse popolazioni l’accettazione della nuova situazione. Era spesso, come è noto, il canto del Te Deum in chiesa a legittimare i passaggi territoriali alle nuove autorità. Tutto questo mentre a livello nazionale si accentuava il conflitto tra Stato e Chiesa, con l’atteggiamento intransigente del pontefice, ma anche con l’autorità politica che non concedeva ai nuovi vescovi gli exequatur, incamerava i beni ecclesiastici e cercava di esercitare un controllo sulla vita religiosa e sui seminari.

Per meglio opporsi a simili atteggiamenti da parte dello Stato, diversi preti avrebbero fondato associazioni allo scopo di rivendicare i propri diritti. Si trattava di atteggiamenti che avrebbero impensierito anche l’autorità ecclesiastica, che temeva che i preti assumessero atteggiamenti rivendicativi anche nei suoi confronti, rompendo la prassi che vedeva un clero del tutto sottomesso all’autorità superiore, che regolava ogni aspetto della vita di quello che qualcuno avrebbe definito quasi un “proletariato di Chiesa”. Tra l’altro, le varie associazioni troveranno nel 1917 un punto di arrivo con la nascita della FACI (Federazione tra le Associazioni del Clero Italiano).

Il secondo Ottocento però vede anche una modifica profonda nei modelli ecclesiastici. Scompaiono alcune figure caratteristiche, tipo il precettore di famiglia, per lasciare il posto a un prete che si dedica maggiormente alle diverse attività pastorali, considerando tali anche le attenzioni dedicate alle problematiche sociali, un’attenzione fortemente diffusa nel mondo cattolico in generale, causa anche il rifiuto della partecipazione alla vita politica nel nuovo Stato, decisa da Pio IX per protesta contro l’occupazione di Roma. Se sono molto noti i “preti sociali” piemontesi, tipo don Bosco, Cottolengo e Murialdo, si può dire che in ogni città sono presenti figure analoghe di preti.

Lentamente, ma quasi inesorabilmente, si discuterà di un possibile ritorno alla vita politica: ed è emblematico che i primi veri e propri partiti politici siano fondati da due preti, Romolo Murri che dà inizio nel 1901 alla Democrazia cristiana e Luigi Sturzo nel 1919 al Partito Popolare. L’attività sociale e il dibattito sul ritorno alla vita politica determina anche, soprattutto a fine Ottocento, la nascita di molti settimanali diocesani, in massima parte diretti da preti.

Causa la proibizione da parte del pontefice nel primo caso, e la scomparsa dei partiti voluta dal regime fascista nel secondo, quelle organizzazioni politiche avranno vita breve, ma restano come il segno di un nuovo impegno dei preti nella vita del paese. Ma la proibizione che ferma Murri è anche causata dalla crisi modernista, mentre per Sturzo sarà la scelta, sostanzialmente obbligata, da parte della gerarchia cattolica di non accentuare i conflitti con il nascente regime fascista. Il risultato sarà lo spostamento da parte del clero verso un’attività più specificamente spirituale, nelle parrocchie o nelle associazioni, a loro volta impedite di fare attività che non sia di carattere eminentemente spirituale.

Fra le due esperienze però se ne colloca un’ altra, che segnerà fortemente il clero italiano, il trauma della prima guerra mondiale. Saranno 15.000 i preti richiamati alle armi, e tra questi 2.500 svolgeranno il ruolo di cappellani militari. La condivisione della vita dei soldati li porterà a scoprire nuove dimensioni del loro impegno pastorale; per alcuni invece sarà la premessa di simpatie verso il movimento nazionalista e poi fascista, che alimenterà le scelte di non pochi preti italiani.

Un’altra guerra avrà forti conseguenze sul clero di ogni regione e tendenza. Scarsamente coinvolto, come d’altronde non pochi italiani, negli entusiasmi bellicosi del fascismo, molti preti si ritroveranno coinvolti in un’opera di assistenza morale e materiale delle popolazioni, soprattutto negli ultimi due anni del conflitto. Sarà proprio l’opera di carità svolta verso tutti uno dei segni caratteristici della vita del clero italiano, in non pochi casi coinvolto o nella lotta di Resistenza contro il nazi-fascismo, o nella direzione ed assistenza di popolazioni abbandonate dalle autorità locali.

Anche l’opera di ricostruzione avrebbe coinvolto i preti a diversi livelli. Se persiste e si rafforza il modello pastorale, in tale modello molti includono anche l’attività politica che si sarebbe sviluppata collateralmente al partito considerato quasi il partito cattolico, la Democrazia cristiana, spesso tramite l’organizzazione dei Comitati civici, un’associazione che aveva come scopo evidente la collaborazione con la Democrazia cristiana soprattutto nell’opera di propaganda elettorale. Non poche sezioni di tale organismo avrebbero trovato la loro sede proprio nelle parrocchie.

Come quasi sempre in epoca di ricostruzione (o restaurazione), anche negli anni Cinquanta il clero italiano avrebbe avuto un forte aumento numerico, grazie alla forte crescita degli ingressi nei seminari. Continuava però un tipo di formazione molto tradizionale, con un clero quindi spesso molto ubbidiente e devoto, ma forse privo di quegli strumenti culturali che gli avrebbero permesso di risentire meno della crisi che avrebbe coinvolto anche le istituzioni ecclesiastiche negli anni successivi al Concilio.

Vi erano logicamente figure che proponevano modelli diversi di impegno pastorale. Tra queste, si può ricordare don Zeno Saltini, fondatore della comunità di Nomadelfia, o uno dei modelli più significativi di parroco, don Primo Mazzolari, o infine uno dei preti più discussi ma anche più significativo nel suo impegno per la formazione dei ragazzi più poveri, don Lorenzo Milani.

In quegli stessi anni poi cambiava la mentalità missionaria del clero. Si era diffusa, grazie a padre Paolo Manna, l’Unione missionaria del clero, ma non era previsto che un prete diocesano potesse partire per i territori di prima evangelizzazione senza entrare in una Congregazione religiosa. Pio XII, con l’enciclica Fidei donum del 1957, chiedeva alle diocesi europee di mettere a disposizione per un tempo determinato qualche prete che aiutasse le giovani Chiese a crescere e diventare autonome. Tale enciclica avrebbe spinto vari preti, indicati appunto con il termine di Fidei donum,verso territori di missione per un impegno a tempo. Una scelta che apriva orizzonti diversi anche alla formazione del clero, e contribuiva a creare un legame organico tra la diocesi da cui partiva il prete e quella in cui operava.

Il Concilio Vaticano II avrebbe segnato gli anni Sessanta, anche se i documenti concernenti il clero non erano molto innovativi. Sarebbe stato comunque non il Concilio, come non pochi hanno voluto sostenere, ma i cambiamenti sviluppatisi nella società che sfociarono negli eventi del 1968 ad accentuare una crisi generale che si andava diffondendo, determinando un forte abbandono del ministero sacerdotale da parte di molti preti e un’altrettanto forte crisi di identità che coinvolse anche quanti restarono nel ministero. Furono almeno 1.300 i preti italiani che abbandonarono il ministero tra il 1969 e il 1979, un fenomeno anche maggiore nei diversi paesi occidentali, con una punta massima nei Paesi Bassi, mentre sarebbe crollato il numero di giovani che entravano nei seminari. E non furono pochi i preti rimasti ai loro posti a vivere una forte crisi di identità, mentre alcuni di loro davano origini alle diverse comunità di base. Di fronte alla contestazione, che metteva in causa anche il celibato dei preti, Paolo VI il 24 giugno 1967 avrebbe ribadito la dottrina tradizionale con l’enciclica Sacerdotalis caelibatus.

Dalla Francia arrivavano gli echi di una delle vicende più significative della storia religiosa di quel paese, la storia dei preti operai, iniziata nel periodo finale della guerra, cresciuta dopo il 1945 e andata in crisi negli anni Cinquanta, fino alla sospensione del 1954 e alla definitiva chiusura del 1959. Il Concilio però aveva modificato le decisioni romane, lasciando aperta la possibilità di un lavoro salariato anche per i preti. Ma la prima esperienza francese avrebbe solo in parte segnato quanto si sarebbe svolto in Italia: fu don Sirio Politi a seguire l’esempio francese, ma senza grande seguito.

Verso la fine degli anni Sessanta però anche in Italia, dove rimane maggioritaria la presenza dei cappellani di fabbrica, si verifica il passaggio al lavoro di un numero non rilevante di preti, non sempre in accordo con l’autorità ecclesiastica. La scelta non era sempre originata, come era avvenuto in Francia, dalla ricerca di nuovi strumenti per la evangelizzazione della classe operaia, ma piuttosto dal desiderio di sentirsi membri di quella classe, che sembrava destinata a diventare il vero motore della trasformazione della società.

Al di là dei dibattiti che tale vicenda avrebbe suscitato, essa però aveva il merito di mettere in causa quel modello tridentino di sacerdozio che sembrava immodificabile e quasi eterno. Se il modello tridentino, di un prete la cui vita era tutta segnata dall’attività pastorale, rimaneva il modello maggiormente diffuso, si poteva parlare di modi diversi di vivere lo stesso sacerdozio, in un presbiterio che era nel suo insieme incaricato dell’evangelizzazione di un determinato territorio, e che in vista di questa poteva chiedere ai preti di svolgere delle funzioni diverse da quelle tradizionali, in una società diventata pluralista e complessa.

La promulgazione del nuovo codice di diritto canonico, avvenuta nel 1983, e la modifica dei patti lateranensi, ratificata nel febbraio 1984, prevedevano anche delle novità importanti per il clero, a partire dalla diversa organizzazione del suo sostentamento materiale, che contribuiva a superare quelle forti differenze, anche di carattere economico, che si erano formate tra i preti, anche se la garanzia della sicurezza economica toglieva ai preti la possibile scelta di una vita segnata dalla radicalità del messaggio evangelico.

Negli ultimi anni la situazione è ulteriormente cambiata. Alla difficoltà a ricoprire tutti gli incarichi pastorali, conseguenza della forte crisi numerica del clero italiano, sembra in parte ovviare la crescente presenza di preti provenienti dall’Africa, dall’Asia o dall’America latina. Questo aprirà un capitolo del tutto nuovo nella storia del clero in Italia.

Fonti e Bibl. Essenziale

P. Crespi, Prete operaio. Testimonianze di una scelta di vita, Edizioni Lavoro, Roma 1985; A. Erba, “Proletariato di Chiesa” per la cristianità. La FACI tra curia romana e fascismo dalle origini alla Conciliazione, 2 voll., Herder, Roma 1990; M. Franzinelli, Il riarmo dello spirito. I cappellani militari nella seconda guerra mondiale, Pagus, Paese (Tv) 1991; F. Garelli (ed.), Sfide per la Chiesa del nuovo secolo. Indagine sul clero in Italia, Il Mulino, Bologna 2003; M. Guasco, Storia del clero in Italia dall’Ottocento a oggi, Laterza, Roma-Bari 1997; M. Lupi, Clero italiano e cura pastorale in età contemporanea. Fonti e dibattito storiografico, in “Rivista di Storia della Chiesa in Italia”, LX (2006), n.1, 69-89; R. Morozzo della Rocca, La fede e la guerra. Cappellani militari e preti-soldati (1915-1919), Studium, Roma 1980; L. Pacomio, G. Ravasi, B. Maggioni (ed.), I preti. Da 2000 anni memoria di Cristo tra gli uomini, Piemme, Casale Monferrato 1991; M. Rosa (ed.), Clero e società nell’Italia contemporanea, Laterza, Roma-Bari 1992; R. Zecchin, I sacerdoti Fidei donum. Una maturazione storica ed ecclesiale della missionarietà della Chiesa, Pontificie Opere Missionarie, Roma-Padova 1990; M. Guasco, Il clero curato: modelli e sviluppi, in Cristiani d’Italia, II, Roma 2011, 869-880.


LEMMARIO




Colonialismo - vol. II


Autore: Giampaolo Malgeri

Gli esordi dell’espansione coloniale italiana nell’ultimo ventennio del XIX secolo coincidono con una fase di particolare complessità dell’azione internazionale della Santa Sede, impegnata in un difficile processo di ridefinizione della propria azione internazionale all’indomani della perdita del potere temporale. In questo nuovo quadro gli orientamenti della Chiesa nei confronti della questione coloniale assunsero un particolare rilievo, investendo la questione centrale del ruolo universale della cattedra di Roma nel mondo e della sua azione missionaria. Lo sviluppo e l’estensione geografica di quest’ultima, infatti, pur procedendo, soprattutto, nella seconda metà dell’Ottocento, spesso in collegamento e sotto tutela dell’espansione coloniale europea, fu però ben lungi dall’identificarsi con essa. La sovrapposizione tra logiche coloniali e logiche missionarie trovava un netto limite non soltanto nella inconciliabilità, sul piano dei principi, tra la prospettiva universalistica propria della evangelizzazione e gli stringenti interessi nazionalistici delle potenze coloniali europee, ma altresì nella determinazione con cui la Chiesa cattolica si mostrava attenta a proteggere il proprio ruolo universale.

In Italia il giudizio nei confronti della politica coloniale del governo di Roma era reso ancora più complesso dalla Questione romana e dai rapporti della Chiesa con lo Stato italiano. Nel periodo liberale, clero e mondo cattolico esprimevano infatti una diversificazione di posizioni pro e contro il colonialismo che riproduceva – a grandi linee – la contrapposizione tra conciliatoristi e intransigenti.

In questo contesto, tuttavia, l’atteggiamento della Santa Sede fu attento a smarcarsi dalla polemica interna e a ricondurre il problema sul piano dei principi, evitando, in particolare, di riconoscere alle iniziative coloniali qualunque dimensione e fisionomia religiosa. In occasione della guerra di Libia, in particolare, di fronte all’enfasi nazionalistica che pervase anche una vasta componente del mondo cattolico e dell’episcopato, nel quadro di quel processo di riavvicinamento registrato nei rapporti tra Stato e Chiesa in Italia nel corso del primo decennio del XX secolo, la Santa Sede fu ferma nel rivendicare con fermezza il ruolo universale della propria missione pastorale e la sua assoluta neutralità nel conflitto.

Questo nuovo approccio al tema dell’evangelizzazione veniva ripreso da Pio XI, anch’egli sensibile all’esigenza di separare gli interessi nazionali e quelli della Chiesa cattolica, come affermato nell’enciclica Rerum Ecclesiae, del 28 febbraio 1926. Un obiettivo che il nuovo pontefice perseguì anche attraverso una strategia di forte accentramento romano degli organi di governo delle missioni cattoliche, allo scopo di affrancarle dai condizionamenti delle politiche degli Stati ed enfatizzare la dimensione sovranazionale della Chiesa e la sua posizione di neutralità.

Anche nei confronti del colonialismo italiano Pio XI cercò di muoversi in coerenza con questa nuova prospettiva. Respinse nettamente, nel 1929, le pressioni del governo fascista per un coinvolgimento della Santa Sede nell’intensificazione del proselitismo cattolico in Eritrea funzionale ad un incremento dell’influenza italiana nell’area e cominciò, anzi, a promuovere una strategia di dialogo con la locale Chiesa copta, procedendo alla nomina di un vescovo autoctono, mons. Chidanè-Mariam Cassa, ad ordinario dei cattolici di rito etiopico dell’Eritrea

Di fronte allo scoppio della guerra d’Etiopia il pontefice apparve preoccupato per le negative ricadute che la vicenda poteva produrre sulla nuova strategia missionaria della Santa Sede. Mentre la gran parte del clero e del mondo cattolico italiano, ormai pienamente riconciliati con lo Stato nazionale, si schierarono in maniera piuttosto compatta a sostegno dell’impresa fascista, Pio XI, mosso dalla preoccupazione di tutelare il ruolo universale della Chiesa cattolica, si pronunciò in modo critico verso la guerra. Il pontefice sottolineò, in particolare, la necessità di evitare un approfondimento della frattura che divideva già il mondo occidentale dai cosiddetti “popoli di colore”, una frattura che egli giudicava nefasta per l’opera di evangelizzazione cattolica nel mondo.

Ma ormai un’epoca si veniva definitivamente chiudendo. Con lo scoppio della seconda guerra mondiale l’Italia perdeva per sempre i propri domini africani, mentre su un piano più generale tutto il sistema coloniale europeo iniziava un processo di rapido sfaldamento, con effetti importanti sul ruolo della Chiesa. La decolonizzazione politica dei Paesi extraeuropei si accompagnò, infatti, ad una chiara decolonizzazione dell’azione internazionale e missionaria della Chiesa, giungendo così a definitiva maturazione quel processo di distacco dal colonialismo che era in corso ormai da mezzo secolo. La Santa Sede si sganciava una volta per tutte dal rapporto preferenziale con la vecchia Europa, accelerava la costituzione di Chiese locali, esaltando sempre più il proprio ruolo universale e sopranazionale. Come dichiarò Pio XII nel radiomessaggio natalizio del 1945: “La Chiesa è (…) la madre di tutte le nazioni e di tutti i popoli (…) ella si presenta come uno scambio di vita e di energie tra tutti i membri del Corpo Mistico sulla terra”.

 Fonti e Bibl. essenziale

A. Canavero, I cattolici di fronte al colonialismo, in A. De Boca (a cura di), Adua. Le ragioni di una sconfitta, Roma-Bari, Laterza, 1998, 91-114; L. Ceci, Il papa non deve parlare. Clera, fascismo e guerra d’Etiopia, Roma-Bari, Laterza, 2010; F. Fonzi, La presenza della Chiesa cattolica e dell’Italia in Africa e in Oriente nella seconda età dell’Ottocento, in Fonti e problemi della politica coloniale italiana. Atti del convegno Taormina-Messina, 23-29 ottobre 1989, Roma, Ministero per i beni culturali e ambientali, Ufficio centrale per i beni archivistici, 1996, vol. I, 438-463 A. Giovagnoli, Pio XII e la decolonizzazione, in A. Riccardi (a cura di), Pio XII, Roma-Bari, Laterza, 1984, 179-209; A. Giovagnoli, Il Vaticano di fronte al colonialismo fascista, in A. Del Boca (a cura di), Le guerre coloniali del fascismo, Roma-Bari, Laterza, 1991, 112-131; G. Sale, Libia 1911. I cattolici, la Santa Sede e l’impresa coloniale italiana, Milano, Jaca Book, 2011.


LEMMARIO




Comunismo - vol. II


Autore: Fulvio De Giorgi

Chiesa italiana e comunismo. Nell’atteggiamento della Chiesa italiana verso il comunismo – come ideologia e come movimento storico – ebbe un notevole peso il magistero pontificio che, con una dimensione evidentemente non solo nazionale ma universale, affrontò di volta in volta la questione. Tale magistero fu sempre nel segno di una inequivocabile condanna: a partire dalle origini ottocentesche (Pio IX, Quanta cura, 1864, con annesso Sillabo; Leone XIII, Quod apostolici muneris, 1878) fino alle formulazioni novecentesche, successive alla rivoluzione russa (Benedetto XV, Bonum sane, 1920). Documento fondamentale fu l’enciclica Divini Redemptoris di Pio XI nel 1937. Nel secondo dopoguerra – quando l’egemonia sovietica aveva raggiunto paesi cattolici come la Polonia e il Partito Comunista Italiano era il più forte partito comunista dell’Occidente – ci fu la scomunica con un decreto del Sant’Uffizio del 1949. Ciò che era condannato era, innanzi tutto, il materialismo ateo.

I vescovi italiani e poi la stessa CEI, con le sue indicazioni elettorali, nonché la gran parte dell’elettorato cattolico assunsero posizioni anti-comuniste: molto forti in occasione delle elezioni del 1948; poi più sfumate, ma non meno ferme, dopo il Concilio Vaticano II (che non emise scomuniche, ma che criticò dottrina e regimi totalitari comunisti). La diversità del PCI, che si andava staccando dal comunismo sovietico, provocò nel 1976 lo scambio epistolare tra il vescovo di Ivrea Luigi Bettazzi e il segretario comunista Enrico Berlinguer, in seguito al quale il leader del PCI affermò che il suo partito non era ”né teista, né ateista, né anti-teista”. In questo contesto Aldo Moro, leader democristiano, aprì un confronto aperto con i comunisti italiani che portò ai governi di “solidarietà nazionale”, con il loro appoggio esterno. Lo scioglimento e la trasformazione del PCI, nonché il crollo del comunismo in Europa orientale, dalla fine degli anni ’80, segnarono la scomparsa dell’anti-comunismo nel magistero ecclesiale (se mai preoccupato dall’emergere di un capitalismo radicale), ma ci fu ancora una sua permanenza in alcuni settori dell’elettorato cattolico, che si tradusse in favore per i nuovi partiti di destra.

Comunismo e cattolicesimo italiano. I comunisti italiani riconobbero sempre un valore decisivo alla “questione cattolica”. Antonio Gramsci sviluppò un’analisi articolata della Chiesa, della sua gerarchia, del movimento cattolico italiano, anche nelle sue differenze regionali, considerando le espressioni politiche di ispirazione cattolica (come il Partito Popolare) sostanzialmente legate al mondo contadino e ad una visione democratica, destinata ad essere assorbita e superata dal movimento operaio e socialista. Tra le due guerre mondiali – e soprattutto nel 1936-38 – si promosse, da parte comunista, la politica della “mano tesa”, che ebbe una realizzazione particolare durante la Resistenza, con l’alleanza nel CLN, e poi nei governi dopo la Liberazione e fino al 1947 (quando De Gasperi, all’avvio della guerra fredda, estromise i socialcomunisti dal governo). Il frutto più importante di questa fase di convergenze e, in qualche modo, il suo culmine fu la comune stesura della Costituzione della Repubblica (con il forte passaggio simbolico dei discorsi di De Gasperi e Togliatti il 25 marzo 1947 e con il successivo voto del PCI, insieme alla DC, a favore dell’art. 7).

Togliatti, nell’aprile 1954, rivolse poi un appello ai cattolici per una reciproca comprensione per salvare la civiltà dal pericolo di una guerra nucleare. Questa impostazione togliattiana trovò la sua massima espressione nella conferenza di Bergamo del 1963 sul “destino dell’uomo”, in cui egli riconobbe che l’aspirazione alla società socialista poteva trovare uno stimolo nella coscienza religiosa (concetti che ritornarono ancora nel cosiddetto “Memoriale di Yalta”). Nella transizione post-togliattiana, mentre Giorgio Amendola guardava più ai partiti e ad un’unione di comunisti e socialisti in un partito unico, Pietro Ingrao si batteva per una linea alternativa, che ricercasse nella società l’alleanza con le masse cattoliche. Questa dialettica fu sintetizzata e superata, nel 1973, dal segretario Enrico Berlinguer, con la proposta del “compromesso storico” (cioè un’alleanza di governo tra PCI, DC e PSI). A fronte della grave crisi che l’Italia e il suo sistema politico vivevano in quegli anni, la DC – con Aldo Moro e Benigno Zaccagnini – rispose con una strategia dell’attenzione e del confronto, che portò, come si è detto, alla formazione dei governi di solidarietà democratica, con il PCI nella maggioranza. Tuttavia l’assassinio di Moro minò tale esperienza fin dal suo nascere. Il PCI ritornò all’opposizione. Berlinguer, nel discorso del 1983 al XVI Congresso del PCI, avvertì che i processi di secolarizzazione toccavano tanto il mondo cattolico quanto il mondo comunista. Nel 1991, con Achille Occhetto (il cui padre aveva militato nella Sinistra Cristiana) segretario, a fronte del crollo del comunismo nell’Europa orientale, si giunse alla fine del PCI e alla nascita del PDS, anche con il contributo di autorevoli esponenti del cattolicesimo democratico.

Cattolici comunisti. Con questo nome deve intendersi quel gruppo politico che, con successive denominazioni diverse (Movimento cooperativista sinarchico, Partito comunista cristiano, Sinistra giovanile cattolica, Movimento dei cattolici comunisti, Partito della sinistra cristiana), raccolse tra il 1937 e il 1945 alcuni giovani cattolici che intendevano il comunismo solo come realtà politica, perciò conciliabile con la fede cattolica. I più importanti esponenti furono Adriano Ossicini, Franco Rodano, Felice Balbo, Fedele d’Amico, Giorgio Ceriani Sebregondi, Gabriele De Rosa, Mario Motta. Diedero un notevole contributo alla Resistenza e pubblicarono le riviste “Voce operaia” e “Voce del Lavoratore”. Ebbero un interlocutore riservato in don Giuseppe De Luca e si illusero che gli esponenti della Curia romana (come Tardini o Ottaviani) favorevoli a più partiti cattolici potessero appoggiarli. Esplicitamente sconfessati – con articoli sull’“Osservatore romano” nel giugno 1944 e nel gennaio 1945 – decisero infine di sciogliersi, nel congresso straordinario del dicembre 1945, per confluire in gran parte (non però Ossicini) nel PCI.

Cattolici nel PCI. Nella sua settantennale storia (1921-1991) il PCI ebbe l’appoggio di molti cattolici: sia come elettori sia come militanti di base. Tale fenomeno fu certamente più diffuso nelle cosiddette ‘regioni rosse’, anche dopo la scomunica del 1949. Per quanto riguarda invece figure di spicco, vi furono innanzi tutto coloro che provenivano dal Partito della Sinistra Cristiana, come Balbo, Rodano, Ceriani Sebregondi, De Rosa e che militarono nel PCI dal 1946 ai primi anni cinquanta, dando anche vita alla rivista “Cultura e realtà” (1950-51). Tra il 1951 e il 1952 molti di loro (come Balbo, Motta, Ceriani Sebregondi, De Rosa) uscirono dal PCI, mentre altri (Rodano, Marisa Cinciari, Barca, Tatò) vi rimasero. Negli anni successivi e fino allo scioglimento del PCI il contributo cattolico interno più significativo fu quello dei ‘rodaniani’, anche attraverso la partecipazione ad alcune riviste (come lo “Spettatore Italiano”, tra il 1952 e il 1954, con esponenti dell’intellettualità crociana, e soprattutto come “Il Dibattito politico”, dal 1955 al 1959, con ex-democristiani, espulsi o usciti dalla DC fanfaniana, come i direttori Melloni e Bartesaghi, ex-gronchiani, e poi come Chiarante, Magri, Zappulli, Baduel, ex-basisti, entrati nel PCI) e la promozione di proprie (in particolare la “Rivista Trimestrale” con Claudio Napoleoni e i “Quaderni della Rivista Trimestrale”). L’influenza rodaniana sulla politica del PCI fu maggiore durante le segreterie Berlinguer (allora Rodano auspicò la confluenza di DC e PCI in un unico partito) e, in parte, Occhetto.

Alleati cattolici del PCI. In una posizione distinta dalle precedenti si devono considerare quei cattolici non comunisti che, in forma personale o associata, si allearono con il PCI o lo fiancheggiarono pubblicamente. Una figura di spicco, per la sua storica guida del ‘sindacalismo bianco’, fu quella di Guido Miglioli che nel 1945 pubblicò il volume Con Roma e con Mosca e che nel 1948 promosse, con Ada Alessandrini, Pio Montesi e altri, il “Movimento cristiano per la pace”, che entrò nel Fonte democratico popolare. Alessandrini promosse poi il “Movimento unitario dei cristiani progressisti”. Alcuni cattolici militarono pure nella successiva formazione dei Partigiani della pace, con i quali dialogarono anche Igino Giordani e don Primo Mazzolari.

Nel clima del Concilio Vaticano II (1962-65) e del post-concilio, si sviluppò la stagione del ‘dialogo’, che visse momenti diversi. Nel 1968 Adriano Ossicini divenne senatore (e lo fu ancora fino al 1992) della Sinistra Indipendente. Il culmine di questi processi si ebbe nelle elezioni politiche del 1976, quando un significativo gruppo di cattolici (Paolo Brezzi, Mario Gozzini, Raniero La Valle, Piero Pratesi, Angelo Romanò, Massimo Toschi e Tullio Vinai) si candidò, da indipendente, nelle liste comuniste. Dal 1978 La Valle promosse la rivista “Bozze” che dava voce agli ideali di quest’area.

Filosofi cattolici e marxismo. Una questione più particolare è quella dell’adesione di alcuni filosofi cattolici italiani al marxismo. Si possono ricordare Felice Balbo (1913-1964), che nel 1948, rifiutando il materialismo dialettico, leggeva il materialismo storico come ‘scienza’ politica (con un percorso analogo a quello compiuto in Francia da Althusser) e, più tardi, Giulio Girardi (1926-2012), autore del fortunato volume Marxismo e cristianesimo (1966).

Fonti e Bibl. essenziale

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LEMMARIO




Concili, Sinodi - vol. II


Autore: Carlo Pioppi

Il concilio provinciale è un istituto assai antico nella vita della Chiesa: esso è la riunione solenne, convocata e presieduta dal metropolita, dei vescovi di una stessa provincia ecclesiastica, e ha come scopo la produzione di una legislazione canonica locale, volta a offrire una migliore struttura pastorale e disciplinare dell’organizzazione e dell’attività ecclesiastiche, nonché a incrementare e difendere la fede dei cristiani e a migliorarne i costumi. Nell’età moderna e contemporanea una norma tridentina (sess. 24a, decr. di riforma, can. 2) stabiliva che tali raduni di vescovi dovessero essere convocati ogni tre anni (la frequenza fu portata a 20 anni dal can. 283 del Codice del 1917), ma essa fu quasi ovunque disattesa, risultando nella pratica impossibile o troppo gravosa; dal 1588 al 1967 gli atti, decreti, costituzioni di questi concili furono inviati alla S. Congregazione del Concilio (dal 1850 ca. al 1908 affiancata dalla Congregazione Speciale per l’Esame dei Concili e delle Adunanze Provinciali) per il processo di recognitio: ricevuta l’approvazione romana, essi erano pubblicati e divenivano una guida pratica per il clero nell’adempimento del suo ministero pastorale.

Con l’unificazione politica della penisola, la Chiesa italiana si trovò ad affrontare notevoli difficoltà, per lo più dovute al radicale cambiamento ambientale avvenuto per il passaggio da sistemi politici di Ancien Régime a uno stato liberale: il tutto fu poi aggravato dallo scontro dovuto all’irrisolta Questione Romana, che rese spesso tesi i rapporti tra autorità civili ed ecclesiastiche. Questa situazione insicura e avversa, insieme con numerosi casi di sedi diocesane vacanti, riconducibili anch’essi allo scontro in atto, fece sì che i concili provinciali – già non numerosi nella prima metà del sec. XIX – divenissero assai rari. Infatti, a fronte di sette concili provinciali convocati prima dell’unificazione (Firenze, Pisa e Siena nel 1850; Ravenna nel 1855; Capua, Urbino e Venezia nel 1859), tra la proclamazione del Regno d’Italia e lo scoppio della 1a Guerra Mondiale si rinvengono solamente due concili provinciali: quello di Cagliari del 1886 e quello di Milano del 1906; quest’ultimo ebbe la sua causa nello zelo pastorale del card. A.C. Ferrari che, ispirandosi al modello borromaico, dispiegò una grande attività in termini di adunanze conciliari e di visite pastorali. Inoltre va ricordato quello di Benevento del 1895, riguardo al quale però non è chiaro se vi sia stata o meno l’approbatio romana. Va ricordato anche il diffondersi della più agile figura dei conventus episcoporum, o conferenze episcopali, che nacque e si sviluppò proprio nel sec. XIX: essa permetteva ai vescovi di zone vicine d’incontrarsi in maniera informale, aggirando in tal modo le difficoltà spesso poste dai governi liberali, mostratisi di solito, in continuità con precedenti tradizioni regaliste, sospettosi verso i concili provinciali.

Dopo la Grande Guerra si assiste invece a una fioritura conciliare che sarebbe durata sino al Vaticano II, dovuta in primis alla promulgazione del Codice nel 1917 e alla necessità di adeguarvi la legislazione locale. Il codice (cann. 281-282) prevedeva, accanto al concilio provinciale, la figura di quello plenario, riunione di vescovi di varie provincie ecclesiastiche vicine presieduta da un legato pontificio. Al fine di dare un impulso a quest’attività conciliare, la Congregazione Concistoriale nel 1919 divise l’Italia in 15 regioni ecclesiastiche (escludendo però Veneto, Lombardia, Piemonte e Liguria, dove sarebbero stati ancora convocati concili provinciali); si ebbe così, fino al Vaticano II, una serie di 16 concili plenari di tali regioni: 1° Siciliano 1920 (Palermo), Umbro 1923 (Assisi), Sardo 1924 (Oristano), Abruzzese 1924 (Chieti), 1° Salernitano-lucano 1925 (Salerno), 1° Piceno 1928 (Loreto), Pugliese 1928 (Molfetta), Campano 1932 (Napoli), Emiliano 1932 (Bologna), Etrusco 1933 (Firenze), 1° Calabrese 1934 (Reggio), 2° Siciliano 1952 (Palermo), Laziale Superiore 1953 (Viterbo), 2° Salernitano-lucano 1955 (Salerno), 2° Piceno 1956 (Loreto), 2° Calabrese 1961 (Reggio). Mancarono quindi all’appello tre delle 15 regioni: Beneventano, Lazio Inferiore e Romagna; a Benevento però fu tenuto nel 1927 un concilio provinciale. Nelle quattro zone rimaste esenti dal regime regionale-plenario, si tennero i concili provinciali di Milano nel 1934 e di Genova nel 1950. In Piemonte, invece, si tenne alla fine un plenario, che includeva le provincie ecclesiastiche di Torino e Vercelli, nel 1927; lo stesso avvenne nel Veneto, dove si tennero due plenari: nel 1923 (con le provincie di Venezia e Udine) e nel 1951 (Venezia, Udine e Trento). Un’attività conciliare così intensa è un fenomeno piuttosto singolare nel panorama ecclesiale europeo del periodo tra le due guerre.

In totale, tra il 1861 e il 1961, si tennero 24 concili plenari e provinciali (senza contare il beneventano del 1895), così distribuiti per regioni: 4 in Campania-Lucania; 2 in Lombardia, Veneto, Marche, Calabria, Sicilia e Sardegna; uno in Piemonte, Liguria, Emilia, Umbria, Toscana, Lazio, Abruzzo, Puglia.

Un caso a parte è il Sinodo Intereparchiale di Grottaferrata del 1940; questo, voluto da Pio XI, ebbe come scopo di riunire gli ordinari dei tre territori di rito bizantino presenti in Italia: il Monastero Esarchico di Grottaferrata e le eparchie di Lungro e Piana degli Albanesi. Gli atti e decreti del concilio furono approvati in questo caso dalla Congregazione Orientale, e non da quella del Concilio. Il Secondo Sinodo Intereparchiale si è riunito nel 2004-2005.

Dopo il Vaticano II, i concili plenari e provinciali nella penisola divennero eventi alquanto rari, forse in quanto furono soppiantati dall’attività della Conferenza Episcopale Italiana, sorta nel 1954 come Conferenza dei Vescovi Presidenti delle Regioni Conciliari e trasformata in conferenza plenaria nel 1964. Tale situazione fu per così dire assunta dal Codice del 1983, che nel can. 440 rinunciò a esigere la cadenza ventennale. Una caratteristica che contraddistingue i plenari tenuti dopo il Vaticano II rispetto ai precedenti è la loro lunga durata, come il Concilio Marchigiano del 1985-1988; e quello Sardo, annunciato nel 1987, indetto nel 1992 e concluso nel 2001.

Il sinodo diocesano è la riunione del clero di una diocesi sotto la guida del vescovo. Il Concilio di Trento (sess. 24a, decr. di riforma, can. 2) prevedeva che il sinodo fosse convocato ogni anno: anche in questo caso si trattò di una norma non praticabile; se il Codice del 1917 impose una frequenza decennale (can. 356), quello del 1983 (can. 461) non determina scadenze. Ovviamente si tratta di riunioni molto più facili da organizzarsi rispetto ai concili provinciali e plenari e dunque se ne riscontra un numero notevolmente più elevato. S. Ferrari ha censito per l’Italia, dal 1860 al 1959, 401 sinodi diocesani: 185 tra il 1860 e il 1914 (nel suo studio v’è una discordanza di dati: egli propone il numero di 195, ma la somma della distribuzione per regioni ammonta a 185), e 216 tra il 1915 e il 1959. La ripartizione geografica per regioni amministrative attuali è la seguente: 11 in V. d’Aosta, 37 nel Piemonte, 17 in Liguria, 47 in Lombardia, 1 nel Trentino-A.Adige, 26 nel Veneto, 5 nel Friuli-V.Giulia, 37 in Emilia-Romagna, 35 in Toscana, 22 nelle Marche, 11 in Umbria, 27 nel Lazio, 17 in Abruzzo, 6 nel Molise, 36 in Campania, 21 in Puglia, 3 nella Basilicata, 13 in Calabria, 19 in Sicilia e 10 in Sardegna. Accorpando i dati, si trova dunque un’attività sinodale che presenta 181 sinodi al nord, 105 al centro e in Sardegna e 115 al sud.

La frequenza di sinodi in una diocesi dipende da diverse variabili: la presenza o meno di una consolidata tradizione sinodale (in genere poco presente nel sud, vuoi per un’incompleta recezione del Tridentino, vuoi per l’influsso del giurisdizionalismo borbonico); un secondo fattore è l’importanza concessa ai sinodi da singoli vescovi, come Gastaldi a Torino, Ferrari a Milano, Ciceri a Pavia, Scalabrini a Piacenza; una terza variabile è la connessione tradizionale tra visita pastorale e sinodo diocesano, convocato al termine di quella.

Negli ultimi decenni l’attività sinodale diocesana è rimasta abbastanza vivace. Dal 1960 al 2011 sono stati portati a termine almeno 119 sinodi; essi si caratterizzano per una durata più lunga dei precedenti. Effettivamente, sia i plenari che i provinciali e i diocesani, prima del Vaticano II, erano eventi piuttosto brevi. Ciò era dovuto a due fattori: d’un lato v’era un preciso e particolareggiato lavoro di preparazione e consultazione precedente la convocazione, nel quale praticamente si redigevano già i decreti, dall’altro un atteggiamento dirigistico delle curie che lasciava poco spazio, sebbene non lo escludesse del tutto nei provinciali e nei plenari, al dibattito durante il concilio stesso. L’aumento della durata dopo il Vaticano II va letto alla luce di una volontà di trasformare l’evento sinodale in un vero e proprio momento di riflessione, studio e dibattito di tutta la compagine ecclesiale; nella stessa linea va anche l’intervento di rappresentanti del laicato alle assise. Un’altra caratteristica dei sinodi postconciliari consiste nell’abbandono del terreno del diritto per rivolgersi alla esposizione di orientamenti pastorali giuridicamente poco delineati: segno di tale evoluzione è anche il mutamento dei documenti finali da una forma simile al codice verso espressioni diverse, caratterizzate comunque da minore precisione in campo normativo.

Tutti questi eventi conciliari hanno avuto come funzione quella di raccordare alle diverse situazioni ed esigenze locali il diritto canonico generale (o di livello superiore); per questo il loro studio è importante nell’ambito degli studi sulle Chiese locali; d’altro canto è utile, soprattutto in caso di un’attività sinodale intensa, studiare e verificare similitudini o dipendenze: a volte infatti gli atti di un concilio erano presi a modello da altri in tempi e/o luoghi diversi; un esempio è il Concilio di Cartagena (Colombia) del 1902, che presenta una singolare dipendenza dal Sinodo Diocesano di Pavia del 1878, fatto che si spiega con la presenza di un metropolita di origini lombarde, P.A. Brioschi.

Lo schema tipico di concili e sinodi presenta una suddivisione nelle seguenti parti: fede; sacramenti; persone; beni ecclesiastici. Almeno sino alla 1a Guerra Mondiale la parte sulla fede risulta di solito interessante e originale, in quanto vi sono presentate le tendenze del luogo e del tempo che possono condurre i fedeli alla sua perdita e gli strumenti per mantenerla salda: di solito in tale sezione si nota il disagio del mondo ecclesiastico di fronte a una società non più ufficialmente cattolica e un certo rifugiarsi in una mentalità da “fortezza assediata”; tracce del difficile rapporto fra politica e religione si rinvengono anche nelle parti concernenti i beni ecclesiastici. Dopo la codificazione la sezione sulla fede tese a scomparire dagli atti dei sinodi diocesani, ma non dei plenari, e non di rado si seguì lo schema del codice; dopo la 1a Guerra Mondiale si nota anche una variazione di toni dovuta alla soluzione del conflitto tra stato e Chiesa, e si trovano formule innovative nello spazio concesso all’associazionismo laicale; dopo il conflitto 1939-1945 si approdò gradualmente a una ripartizione più libera delle materie.

Fonti e Bibl. Essenziale (abbreviazioni da IATG3)

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Sitografia

Annuarium Historiae Conciliorum: http://ahc.pusc.it/


LEMMARIO




Concilio Vaticano I - vol. II


Autore: Alexandra von Teuffenbach

Il Concilio Vaticano I fu annunciato da papa Pio IX ai soli cardinali di curia – con la richiesta di indicare le loro opinioni – in una seduta della congregazione dei riti il 6.12.1864, due giorni prima della promulgazione dell’enciclica Quanta cura e del Sillabo. Fino a marzo 1865 avevano risposto in modo dettagliato solo quindici porporati, quasi tutti italiani: si contavano 13 favorevoli e 2 contrari, di cui uno riteneva però la decisione di convocare un Concilio di diritto esclusivo del papa. Il papa istituì quindi una Commissione, la “congregazione speciale direttrice per gli affari del futuro Concilio generale”, composta inizialmente da cinque cardinali: Costantino Patrizi, Antonio M. Panebianco, Giuseppe Andrea Bizzarri, Prospero Caterini e Karl August von Reisach, unico tedesco della congregazione, che risiedeva a Roma già dal 1856. A loro si aggiunsero nel tempo anche Alessandro Barnabò, Luigi Bilio, Annibale Capalti e Antonio de Luca. Fu nominato segretario della Commissione il vescovo titolare Pietro Giannelli che fin dalla prima seduta non fece mistero dell’avversione che provava per la “rivoluzione” che era in atto in Italia e per gli impedimenti che ne sarebbero derivati alla libera circolazione e alla partecipazione al Concilio dei vescovi italiani, tanto da sostenere che esso sarebbe potuto essere sufficientemente rappresentativo anche senza i vescovi italiani. Sulla scelta della sede di Roma ci furono varie perplessità, anche di natura politica.

Su suggerimento della commissione centrale il papa chiese a 36 vescovi latini di varie diocesi del mondo, tra cui 11 italiani, di indicare i temi che secondo loro si sarebbero dovuti trattare al Concilio. Successivamente la domanda fu rivolta anche a molti vescovi orientali.

La preparazione del Concilio ebbe una battuta d’arresto a causa della terza guerra d’indipendenza che non rese possibile l’attuazione del progetto originario, di indirlo cioè per il 29 giugno 1867 – a 1800 anni dal martirio di Pietro e Paolo. La situazione politica di Roma intanto era diventata instabile. Dopo il plebiscito che portò – grazie all’aiuto dei francesi – Venezia e Mantova alla casa piemontese, Vittorio Emanuele aveva espresso chiaramente l’intenzione di voler conquistare anche lo Stato Pontificio. L’11.12.1866 le truppe francesi lasciarono Roma e lo Stato Pontificio rimase sotto la protezione di Vittorio Emanuele. Il papa, seppure consapevole di quello che la mutata situazione poteva significare, invitò i vescovi di tutto il mondo alle solenni celebrazioni per l’anniversario del martirio di Pietro e Paolo.

Le continue scaramucce dei Garibaldini nei territori pontifici indussero Napoleone III – dal 30.10.1867 – a riportare lo stato pontificio sotto la protezione delle truppe francesi. Il Concilio poteva quindi celebrarsi con relativa sicurezza. Fin dall’inizio della preparazione del Concilio fu dichiarata più volte l’intenzione di coinvolgere esperti di tutto il mondo. Fu richiesto il parere di 96 consultori, di cui però solo 35 non erano romani.

Il Concilio iniziò l’8.12.1869 e vi parteciparono 774 padri, tra cui 49 cardinali e 10 patriarchi. Gli italiani erano il gruppo maggioritario, sia tra i cardinali, sia tra i 529 vescovi, di cui ben 122 erano italiani; per questo furono mosse alcune critiche relative alla sua insufficiente internazionalità. Molti romani, soprattutto le famiglie nobili dell’urbe, diedero ospitalità ai vescovi più poveri – anche italiani che avevano visto confiscati i loro beni – mettendo a disposizione dei futuri padri conciliari stanze e case.

Oltre ai padri Conciliari, per il funzionamento del Concilio, era necessaria la presenza di numerose persone, tra queste i presidenti del Concilio che erano tutti italiani in quanto von Reisach morì subito dopo l’inizio del Concilio e fu sostituito da Filippo de Angelis. Gli altri presidenti furono scelti tra i cardinali della congregazione centrale che aveva preparato il concilio: de Luca, Bizzarri, Bilio, Capalti. Come Custodi del Concilio furono nominati due nobili romani, rappresentanti delle famiglie Colonna e Orsini. Gli altri ufficiali del Concilio furono tutti italiani ad eccezione di Joseph Fessler, segretario del Concilio e vescovo di St. Pölten in Austria e di alcuni stenografi, scelti appositamente tra le varie nazioni. Era italiano anche l’architetto – Virgino Vespignani – che allestì la parte di basilica di San Pietro che fu adibita ad aula Conciliare.

Il giorno di apertura del Concilio sulla tribuna d’onore c’erano italiani come la famiglia reale di Napoli e il granduca di Toscana. Mancavano, chiaramente, i regnanti piemontesi. Fin da subito si formarono delle “fazioni” che criticarono il regolamento del Concilio e che composero delle liste in cui inserire nomi di prelati “infallibilisti” o “antiinfallibilisti” per pilotare l’elezione di candidati nella deputazione della fede e avere così la maggioranza in essa. Nelle liste che furono preparate risulta un vescovo italiano, Mons. Ghilardi di Mondovì. Furono poi eletti in quella deputazione anche i mons. d’Avanzo di Calvi e Teano, Cugini di Modena, Zinelli di Treviso e Cardoni vescovo di Edessa. Anche il presidente della deputazione, il card. Bilio, era italiano.

Il Concilio iniziò con la discussione dello schema sulla dottrina cattolica; dei 35 oratori 7 erano vescovi di diocesi italiane e 4 vescovi con titoli di diocesi orientali. Lo schema fu poi inviato alla deputazione della fede per essere completamente rivisto. Successivamente furono trattate alcune costituzioni disciplinari, sia sui vescovi e sui sinodi e vicari generali e sulla sede episcopale vacante (parlarono 37 padri di cui 10 italiani); sull’onestà dei Chierici (38 oratori, di cui10 italiani); infine fu discusso lo schema sul catechismo minore (41 oratori tra cui 9 italiani).

Passarono tre mesi dall’inizio del Concilio senza che esso avesse prodotto alcun risultato, per questa ragione il 20 febbraio fu presentato un nuovo regolamento con norme più rigide, contro cui furono fatte svariate proteste da parte dei vescovi d’oltralpe ed anche di un nutrito gruppo di vescovi del nord d’Italia.

Nella lunga pausa tra quelle che possono essere considerate come la prima (fino al 22.2.) e la seconda parte del Concilio (iniziata il 18.3.), venne ristrutturata l’aula conciliare per migliorarne l’acustica, ma fu anche completata la rielaborazione della costituzione sulla dottrina, ora chiamata “de fide catholica”, con la partecipazione di teologi gesuiti altoatesini e tedeschi, ma residenti a Roma come Franzelin, Schrader e – in questa fase – Kleutgen e il vescovo Gasser di Bressanone. Lo schema fu ripresentato in aula e trovò il plauso generale, anche degli italiani. Fu promulgato nella terza sessione pubblica il 24.4.1870.

Già a fine gennaio era stato distribuito ai padri conciliari lo schema sulla Chiesa, chiedendogli di mandare, per iscritto, la loro opinione. Allo schema fu aggiunto, dopo quello sul primato, un dodicesimo capitolo sull’infallibilità pontificia, dietro ampia richiesta di vari gruppi di padri. Il documento, nonostante il divieto assoluto di pubblicazione, fu dato alla stampa e provocò la reazione negativa di molti governi. In Italia però – e soprattutto a Roma – le idee gallicane non avevano potuto mettere radici e quindi questa problematica fu meno sentita. In seguito al Concilio furono pubblicati degli scritti polemici tra cui quello di Pomponio Leto, e qualche rivista critica, ma per quanto riguarda la stampa non si riscontrò in Italia il fermento e l’ostilità che caratterizzarono gli altri paesi. A questo proposito non è certo da sottovalutare il ruolo della Civiltà Cattolica da sempre su posizioni esplicitamente vicine alla maggioranza conciliare.

Tra gli anti infallibilisti, che non ritenevano fosse il momento adatto per promulgare un dogma sull’infallibilità, inizialmente non c’erano italiani, anche se nella stessa presidenza del Concilio non mancavano perplessità su tale promulgazione. Più tardi troveremo tra loro i vescovi Guttadauro di Reburdone di Caltanisetta, Montixi di Iglesias, Moreno di Ivrea, Losanna di Biella e l’arcivescovo di Milano Nazari di Calabiana. Tutti però aderirono al dogma entro l’anno successivo alla sua promulgazione. Tra i vescovi della maggioranza, in favore quindi della promulgazione del dogma, l’apporto italiano fu fondamentale, non tanto per la presenza di figure di spicco quanto per una generale, solida e costante adesione alla dottrina da promulgare.

A maggio 1870 uno degli ultimi attacchi degli anti infallibilisti fu sventato grazie al giudizio del consultore Sanguineti sj che sostenne la non necessaria unanimità dei padri conciliari nel definire questioni di fede. Dopo la promulgazione del dogma, recepito con favore in Italia, la guerra franco prussiana rese impossibile la prosecuzione del Concilio con un numero sufficiente di vescovi e dopo l’estate, ad un mese dalla fine dello Stato Pontificio, papa Pio IX lo sospese a tempo indefinito.

Fonti e Bibl. essenziale

Fonti: Joannes Dominicus Mansi, Sacrorum Conciliorum nova et amplissima collectio, vol. 48-51, Parigi 1901-1927; Acta et Decreta sacrorum conciliorum recentiorum. Collectio lacensis, vol. 7, Friburgo 1890. Opere generali: T. Granderath – K. Kirch, Geschichte des Vatikanischen Konzils von seiner ersten Ankündigung bis zu seiner Vertagung, 3 vol., Freiburg i.Br. 1903-1906; K. Schatz, Vaticanum I, 1869-1870, 3 vol. München-Paderborn 1992-1994; E. Cecconi, Storia del Concilio Ecumenico Vaticano: scritta sui documenti originali, 4 vol., Roma 1873-1879; Roger Aubert, Vatican I, Paris 1964. Opere diverse: J. Friedrich, Documenta ad illustrandum Concilium Vaticanum anni 1870, Nördlingen 1871; A.B. Hasler, Pius IX. (1846-1878), päpstliche Unfehlbarkeit und das l. Vatikanisches Konzil: Dogmatisierung und Durchsetzung einer Ideologie, 2 vol., Stuttgart 1977; F. Nobili Vitelleschi, Otto mesi a Roma durante il Concilio Vaticano: impressioni di un contemporaneo per Pomponio Leto, Firenze 1873. Diari: K. Schatz, Ein Konzilszeugnis aus der Umgebung des Kardinals Schwarzenberg: das römische Tagebuch des Salesius Mayer O. Cist. (1816-1876), Königstein 1975; L. Dehon, Diario del Concilio Vaticano I, a cura di V. Carbone, Vaticano 1962; C. Butler, The Vatican Council: the story told from inside, in bishop Ullathorne’s letters, 2 vol., London 1930, V. Tizzani, Il Concilio Vaticano I: diario di Vincenzo Tizzani (1869-1870), a cura di L. Pásztor, Stuttgart 1991.


LEMMARIO




Concilio Vaticano II - vol. II


Autore: Alexandra von Teuffenbach

La preparazione. Il Concilio Vaticano II fu annunciato pubblicamente dalla radio italiana a partire dalle ore 12,30 del 25 gennaio 1959. Solo quasi un’ora più tardi la notizia sarebbe stata data da papa Giovanni XXIII anche ai cardinali riuniti a San Paolo fuori le mura in occasione della chiusura della settimana di preghiera per l’unità dei cristiani. L’idea di celebrare un Concilio non era nuova. Soprattutto nell’ambito curiale romano era ben conosciuto sia il tentativo di papa Pio XI degli anni ’20 – poi lasciato da parte a favore di altri programmi più urgenti – sia quello, più articolato, di papa Pio XII. Questo secondo tentativo di preparazione si arenò quando Pio XII – di fronte all’alternativa di realizzare un Concilio lungo e complesso o un mero “spettacolo d’unità” – decise di interrompere ogni lavoro. Subito dopo la sua elezione al soglio pontificio Papa Giovanni XXIII espresse più volte in udienze private il suo desiderio di voler convocare un Concilio. Nell’annuncio ai cardinali a San Paolo aggiunse anche la sua intenzione di celebrare un sinodo per la città di Roma e di aggiornare il diritto canonico. La stampa italiana in linea di massima accolse positivamente e in modo corretto questo annuncio, ad eccezione del quotidiano Avanti! che non perse l’occasione di evidenziare in modo offensivo la differenza tra i pontificati di Pio XII e Giovanni XXIII, definendoli il primo oscurantista, il secondo conciliante.

Papa Roncalli diede una grande importanza alla preparazione del Concilio, anche prendendo a modello i sinodi da lui già celebrati in cui non aveva mai accettato alcuna discussione o scambio di opinioni, in quanto a suo avviso dovevano consistere principalmente in una solenne dimostrazione di unità della diocesi intorno al vescovo. Giovanni XXIII mise a capo della commissione antepreparatoria istituita il 17.5.1959 il suo cardinale segretario di Stato, Domenico Tardini, e chiamò ad esserne membri gli assessori o i segretari delle Congregazioni romane, tutti italiani ad eccezione di Acacio Coussa e Paolo Philippe. Alla commissione antepreparatoria fu affidato il compito di indicare i temi da proporre al futuro Concilio dopo aver sentito il parere dei vescovi sparsi nel mondo e di suggerire la composizione degli organi preparatori del Concilio. Alla grande inchiesta rispose il 76,4% degli intervistati nel mondo. Dei vescovi e abati italiani interpellati, l’86,3% diede un riscontro inviando i propri suggerimenti.

Il periodo preparatorio iniziò il 5 giugno 1960 con il motu proprio Superno Dei nutu in cui era stabilita l’istituzione di dieci commissioni preparatorie, due segretariati e una commissione centrale. Ad eccezione dei cardinali Agagianian e Bea, entrambi da anni in Italia, gli altri presidenti delle commissioni, segretariati e il segretario della commissione centrale erano italiani. Il papa infatti aveva voluto i prefetti e i segretari delle congregazioni romane corrispondenti a capo della preparazione più prossima del Concilio. Nella designazione dei membri della commissione centrale preparatoria invece si era posta particolare attenzione ad una scelta che indicasse la più grande internazionalità, come anche nella nomina dei segretari delle commissioni e dei segretariati. I soli italiani che troviamo tra loro sono Pericle Felici, segretario della Commissione preparatoria centrale, Cesare Berutti OP, Annibale Bugnini, delle commissioni per la disciplina del clero e della liturgia e Sergio Guerri del segretariato amministrativo.

Il 9 luglio alle commissioni fu inviato un fascicolo con i temi che il papa chiedeva fossero preparati. Da quel momento in poi – e fino all’esaurimento dei loro compiti – lavorarono alla preparazione del Concilio più di 880 persone, provenienti da quasi ottanta paesi. Non sempre è facile ricostruire per ognuno di loro di che nazionalità fossero, poiché non pochi tra loro vivevano in Italia da decenni e venivano contati per questo tra gli italiani. In ogni caso è sicuramente corretto sostenere che, tra italiani e “italiani di adozione”, la metà di loro viveva stabilmente nella penisola. Furono elaborati 70 testi, schemi disciplinari e dottrinali, tra i quali alcuni dovevano evidentemente essere unificati ad altri che trattavano una materia affine se non addirittura uguale, altri erano invece piuttosto capitoli di schemi che schemi veri e propri.

Mentre fervevano i preparativi da parte delle autorità ecclesiastiche, nell’estate 1962 il governo italiano promosse la formazione di un Comitato che doveva rendere onore, favorire l’ospitalità e facilitare il soggiorno dei Padri partecipanti al Concilio e delle personalità che si sarebbero riunite in quella occasione. Il 3 luglio 1962 il papa concesse un’udienza al presidente italiano Antonio Segni. A settembre Giovanni XXIII ricevette in udienza il presidente della regione Lazio che donò al papa una penna da tavolo per firmare i documenti conciliari e il sindaco di Roma – che aveva stabilito con tutto il consiglio comunale di stanziare 14 milioni di lire per le spese di rappresentanza in occasione del Concilio (si trattava di interventi relativi all’illuminazione, alla presenza di bandiere e, in genere, a rendere più bella la città) – donò al pontefice un calice con una scritta nel basamento a ricordo del Concilio.

Lo svolgimento: Primo periodo. Il Concilio si aprì l’11 ottobre 1962 con una solenne celebrazione che fu filmata dalla “RAI TV” e ripresa dalle televisioni di tutto il mondo. Non è mai stato calcolato il numero esatto di padri conciliari che presero parte alle cerimonie di apertura. Il 30 settembre 1962 erano stati contati 2908 tra vescovi e superiori religiosi aventi diritto alla partecipazione al Concilio; di questi 1089 erano europei e 430 italiani. Nelle congregazioni generali in cui si fece il conteggio dei padri però non si superarono mai i 2540 presenti, di cui 385 italiani. Il calcolo degli italiani presenti deve tuttavia essere rivisto a ribasso poiché non pochi vescovi esiliati dai loro paesi e impiegati in lavori in curia, come anche indistintamente tutti i cardinali di curia venivano conteggiati tra gli italiani.

Nei giorni precedenti avevano prestato giuramento gli ufficiali e i ministri che servivano il Concilio. Le famiglie nobili romane dei Colonna e dei Torlonia ricoprirono il compito di custodi del Concilio. L’Italia accolse positivamente la grande assise conciliare. Alle celebrazioni dell’11 ottobre fu presente nella tribuna d’onore il presidente della repubblica italiana Antonio Segni che mandò anche un messaggio augurale al Papa. Nello stesso giorno a Montecitorio, sotto la presidenza di Giovanni Leone, e a Palazzo Madama, sotto Cesare Merzagora, venne commemorato il Concilio di cui parlarono positivamente deputati e senatori di tutte le forze politiche. Anche il governo – nel consiglio dei ministri del 9 ottobre – si occupò del Concilio, e Amintore Fanfani, allora presidente del Consiglio, inviò un messaggio augurale. Inoltre il ministero degli esteri aveva rilasciato a tutti i padri Conciliari un documento speciale che dava loro diritto a varie facilitazioni. In quel primo giorno di Concilio la stampa italiana, anche quella di sinistra, fu positiva e elogiativa verso questo evento.

Con l’inizio dei lavori, il 13.10, si manifestò anche un certo nazionalismo, presto superato. Ogni conferenza episcopale elaborò infatti una lista di candidati per l’elezione dei 16 membri in ognuna delle dieci commissioni. La lista della conferenza episcopale italiana presentava 62 nomi, di cui 47 italiani. Questa lista fu poi molto lodata, per la sua “internazionalità”. Alla fine, quando anche il papa ebbe nominati i membri da aggiungere ad ogni commissione – erano undici con il segretariato ormai elevato a rango di Commissione – sui 274 membri che prestarono il loro servizio in seno a questi organi conciliari, 155 erano europei, di cui 52 italiani.

Un primo frutto del Concilio fu sicuramente la prima riunione nella storia dell’episcopato italiano, il 14 ottobre, sotto la presidenza del cardinale Siri. Le riunioni che ebbero luogo alla Domus Mariae diventarono presto settimanali e la formazione di questa conferenza episcopale aiutò ad una maggior consapevolezza nazionale e aprì ai vescovi la possibilità di agire in modo comune, come collegio. Dopo il nunzio al mondo, in questo primo periodo che terminò l’8.12, nell’aula conciliare si discusse dello schema della Liturgia, della Rivelazione, dei mezzi di comunicazione sociale, dell’ecumenismo e della Chiesa. Gli oratori italiani furono numerosi, si può dire infatti che uno su sei tra quelli che presero la parola, fu un padre conciliare italiano. Tra questi sono frequenti le prese di posizione – in aula e non – dei cardinali italiani, Montini, Siri, Ruffini, Lercaro e Ottaviani.

La Commissione di coordinamento istituita da papa Giovanni XXIII alla fine del primo periodo conciliare, composta da sette cardinali, rispecchiava l’internazionalità tipica di un Concilio ecumenico anche se sia il presidente – il segretario di Stato A.G. Cicognani – sia altri due cardinali – Urbani e Confalonieri – erano italiani. Nacquero in Italia svariate iniziative di supporto spirituale al Concilio, p.e. la Commissione diocesana di Roma per la preparazione (spirituale) al Concilio, poi ricevuta anche in udienza dal papa, e altre, come p.e. il pellegrinaggio nazionale a Loreto il 6 e 7 ottobre 1962, vennero sostenute e incoraggiate dalla Conferenza episcopale italiana. Il Concilio venne sospeso dopo la morte di papa Giovanni XXIII avvenuta il 3 giugno 1963.

Il secondo, terzo e quarto periodo Conciliare. Con l’elezione di Giovanni Battista Montini la Chiesa italiana aveva visto elevare al soglio pontificio uno dei suoi più attivi padri del Concilio. Fin dall’indomani dell’annuncio, il 26 gennaio 1959, Montini aveva spiegato, in una notificazione alla sua diocesi, l’importanza del Concilio ecumenico che sarebbe stato celebrato; aveva poi tenuto svariate conferenze e infine aveva mandato delle lettere alla diocesi durante la sua permanenza a Roma nel primo periodo conciliare. Anche come Pontefice rimase vicino alla Chiesa italiana come si può evincere sia dalla lettera che indirizzò solo poche settimane dopo la sua elezione al cardinale Siri – presidente della Conferenza Episcopale italiana –, sia ricevendo in udienza la conferenza episcopale italiana riunitasi in assemblea plenaria e presentando lui stesso il 14.4.1964 i temi del terzo periodo conciliare.

Nel secondo periodo conciliare erano stati trattati lo schema sulla Chiesa e quello sui vescovi, mentre lo schema sulla liturgia fu terminato e promulgato il 4.12.1963.

Con i giornalisti si venne in questo periodo ad una più stretta e ordinata collaborazione così da poter limitare, almeno in parte, i malintesi dovuti alle notizie – troppo frammentarie – che, nel primo periodo, erano uscite dall’aula Conciliare, malgrado il segreto che era stato imposto. Nel secondo periodo era stata formata un’équipe con due periti conciliari italiani – il padre Roberto Tucci SJ direttore della Civiltà Cattolica e Carlo Colombo, professore di dogmatica – insieme al direttore del centro di documentazione Mario Puccinelli come mediatore, pensata appositamente affinché incontrasse quotidianamente i giornalisti. La maggior parte dei giornalisti italiani erano tuttavia abituati a seguire gli avvenimenti che avevano luogo in Vaticano e questa abitudine si riverberò anche negli articoli relativi al Concilio che si lessero numerosi sulla stampa italiana. Questo non evitò che l’opinione pubblica italiana, pur riconoscendo il Concilio come un evento importante, non sapesse spiegare, neppure a grandi linee, che cosa fosse. In una indagine fatta al proposito, il 70% degli intervistati non seppe rispondere a questa domanda e solo un quarto di loro dichiarò di seguire con regolarità le notizie sul concilio (Caprile, Primo periodo, 485ss.)

Il terzo periodo conciliare, che era stato anticipato dal segretario generale Felici come sicuramente caratterizzato da intensissimo lavoro, vide la discussione e il perfezionamento dello schema sulla Chiesa, il decreto disciplinare sui compiti pastorali dei vescovi ed anche due appendici allo schema sull’ecumenismo: la dichiarazione sulla libertà religiosa e quella sugli ebrei e sui non cristiani. Ci furono alcune congregazioni riservate alla discussione sullo schema sulla divina rivelazione e poi su quello disciplinare sull’apostolato dei laici, come anche sulla vita e il ministero sacerdotale, le Chiese orientali, la vita religiosa, la missione, l’educazione cristiana. Fu riservato molto tempo al dibattito – iniziato il 20 ottobre 1964 e concluso solo il 10 novembre – riguardante lo schema che diventerà poi la costituzione Gaudium et Spes.

Soprattutto da parte della stampa non italiana fu enfatizzata molto la settimana, definita addirittura “nera”, che precedette la promulgazione della Costituzione dogmatica Lumen Gentium e dei decreti Unitatis Redintegratio e Orientalium ecclesiarum, durante la quale fu disposta da parte del papa l’aggiunta della Nota explicativa praevia al testo della Costituzione sulla Chiesa, per indicare in che senso dovevano essere letti alcuni passaggi della costituzione. Il papa chiese anche di inserire alcuni cambiamenti nel testo del decreto sull’Ecumenismo. L’apporto dei padri conciliari italiani fu costante e fu anche molto positivo il contatto che molti vescovi italiani mantennero con le loro diocesi cercando di presentare ai fedeli loro affidati il Concilio e le sue decisioni.

Il quarto periodo conciliare, che portò alla promulgazione dei restanti documenti conciliari grazie a un intenso lavoro nelle congregazioni generali e nelle commissioni, vide due momenti in cui il ruolo dei padri Conciliari italiani o della stampa italiana furono decisamente importanti.

Ci fu un forte interesse da parte del Coetus Internationalis Patrum – composto anche da influenti porporati italiani –, con l’apporto fattivo di Luigi Maria Carli, per ottenere l’inserimento nella Gaudium et Spes di una menzione relativa al comunismo. Firmarono la petizione in 334, ma per una irregolarità procedurale non si tenne conto di questa richiesta. A questo fatto fu dato ampio spazio dalla stampa, soprattutto da quella italiana. La stampa italiana fu ancora più interessata alla discussione sul celibato dei sacerdoti di cui si discusse solo brevemente poiché papa Paolo VI intervenne per evitare il proseguimento di un dibattito che stava provocando troppo scalpore. Anche la questione sulla libertà religiosa ebbe vasto eco sulla stampa internazionale.

Per il settimo centenario della nascita di Dante il 13 e 14 novembre 1965 furono invitati dall’arcivescovo di Firenze più di 500 padri conciliari a festeggiare il grande poeta italiano.

Per la conclusione del Concilio – che avvenne l’8 dicembre 1965 – il cardinale vicario di Roma chiese una più intensa preghiera ai fedeli di Roma e l’Azione cattolica italiana salutò con varie manifestazioni e scritti i padri conciliari; in questa occasione giunsero a Roma anche numerosi gruppi di pellegrini da varie diocesi italiane.

Paolo VI il 6 dicembre 1965 aveva già ricevuto l’episcopato italiano. Durante l’udienza spiegò quale spirito sarebbe stato necessario per attuare quanto aveva chiesto il Concilio, spiegando inoltre ciò che si sarebbe dovuto fare negli anni a venire. Qualche giorno prima il cardinale Urbani, aveva riassunto con parole assai positive l’apporto dell’episcopato italiano al Concilio. Carlo Colombo gli fece eco qualche anno più tardi dicendo, rispetto alla collaborazione dei vescovi e teologi italiani al Concilio: “Troppo facilmente si è scritto (…) che l’apporto italiano al Concilio è stato nullo o quasi. Ebbene, chi conosce come si è realmente svolto il lavoro conciliare sa che invece esso non è stato affatto scarso e insignificante: è stato almeno pari a quello degli Stati Uniti, che hanno un numero pressappoco uguale di cattolici praticanti, ed un complesso ben maggiore di mezzi e di uomini.” Dopo aver fatto qualche esempio di effettivo lavoro di vari padri conciliari italiani, Colombo concluse: “Non abbiamo quindi nessun complesso di colpa o di inferiorità per la partecipazione italiana al Concilio. E perdonino questa digressione, che mi sembrava non inutile, perché non si perpetuino come una leggenda giudizi storicamente superficiali e inesatti in mezzo ai nostri sacerdoti e ai nostri laici”. (Caprile, Primo periodo, 366.) Pur non essendo un Concilio ecumenico un evento nazionale, il fattore nazionale vi ha sempre giocato un ruolo importante, anche se minore da quando i regnanti cattolici non hanno più in esso una funzione attiva. In conseguenza non può essere sottovalutato il ruolo e l’apporto dell’Italia e degli italiani al Concilio Vaticano II.

Fonti e Bibl. essenziale

Fonti: Acta et Documenta Sacrosancto Concilio Oecumenico Apparando; Acta et documenta Concilio Oecumenico Vaticano II apparando; cura et studio Secretariae Pontificiae Commissionis Centralis Praeparatoriae Concilii Vaticani II, Vaticano 1960-1961; Acta Synodalia sacrosancti Concilii Oecumenici Vaticani II, Vaticano 1970-1999; Il Concilio Vaticano II. Cronache del Concilio Vaticano II edita da “La Civiltà Cattolica”, a cura di G. Caprile, 5 voll., Roma 1966-1969. Storie generali (libri): Storia del Concilio Vaticano II, diretta da Giuseppe Alberigo, a cura di A. Melloni, 5 voll., Bologna 1995-2001; G.F. Svidercoschi, Storia del Concilio, Milano 1967; R. de Mattei, Il Concilio Vaticano II. Una storia mai scritta, Torino 2010; J. O’ Malley, What happened at Vatican II, Cambridge, London 2008; R. Burigana, Storia del Concilio Vaticano II, Torino 2012; I. Ingrao, Il Concilio segreto, Milano 2013; P. Chenaux, Il Concilio Vaticano II, Roma 2012; F.S. Venuto, Il Concilio Vaticano II, Storia e recezione a cinquant’anni dall’apertura, Cantalupa (Torino) 2013; J. Ratzinger, Die erste Sitzungsperiode des Zweiten Vatikanischen Konzils. Ein Rückblick, Köln 1963; id., Das Konzil auf dem Weg. Rückblick auf die 2. Sitzungsperiode des 2. Vatikanischen Konzils, Köln 1963; id., Ereignisse und Probleme der dritten Konzilsperiode, Köln 1965; id., Die letzte Sitzungsperiode des Konzils, Köln 1966. Alcuni contributi più specifici (libri): G. Alberigo, Transizione epocale: studi sul Concilio Vaticano II, Bologna 2009; A. Marchetto, Il Concilio Ecumenico Vaticano II: contrappunto per la sua storia, Vaticano 2005; id., Il Concilio Ecumenico Vaticano II: per la sua corretta ermeneutica, Città del Vaticano 2012; I vescovi della Toscana e il Concilio Vaticano II, a cura di R. Burigana, Fiesole (FI) 2012; L. Ettore, Il PCI e il Concilio Vaticano II: dal partito dei cattolici al Cattolicesimo, Roma 2014; G. Colombo, Il Concilio Vaticano II: discorsi e scritti, a cura di Inos Biffi, Milano 2013; Giovanni XXIII e Paolo VI: i due Papi del Concilio, a cura di P. Chenaux, Città del Vaticano 2013; N. Bux, P. Gumpel, A. von Teuffenbach, Pio XII e il Concilio, Siena 2012; T. Cabizzosu, I vescovi sardi al Concilio Vaticano II: fonti, Cagliari 2013. Diari: G. Sale, Giovanni XXIII e la preparazione del Concilio Vaticano II nei diari inediti del direttore della “Civiltà Cattolica” padre Roberto Tucci, Milano 2012; U. Betti, Diario del Concilio, 11 ottobre 1962 – Natale 1978; A. von Teuffenbach, Konzilstagebuch Sebastian Tromp mit Erläuterungen und Akten aus der Arbeit der Theologischen Kommission, II. Vatikanisches Konzil, vol. I/1, I/2, Nordhausen 2006, vol. II/1, II/2, Nordhausen 2011; vol. III/1, III/2, Nordhausen 2014; vol. IV e V in preparazione. La documentazione bolognese per la storia del Concilio Vaticano II: inventario dei fondi G. Lercaro e G. Dossetti, a cura di Lorella Lazzaretti, Bologna 1995.


LEMMARIO