Associazione Italiana dei Professori di Storia della Chiesa

Dizionario Storico Tematico La Chiesa in Italia
Dopo l'Unità Nazionale
Roma 2015
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Concilio Vaticano II, Recezione - vol. II


Autore: Francesco Saverio Venuto

Definizione generale di recezione: componenti, dinamiche e periodizzazione. Con il termine “recezione” si intende generalmente «un processo di carattere spirituale attraverso cui un concilio e le sue decisioni vengono assimilati e integrati nella vita di una comunità eccle­siale come espressioni viventi della fede apostolica» (G. Routhier, La réception d’un concile, Editions du Cerf, Paris 1993, 69). L’espressione, desunta dall’am­bito giuridico, è stata introdotta nella riflessione storico-teologica cattolica, principalmente per descrivere dinamiche relative allo sviluppo del dogma e alla prassi ecclesiale, da due insigni teologi: Alois Grillmeier e Yves Congar. Entrambi hanno contribuito a definire il significato storico e teologico della recezione, differenziandolo da interpretazioni giuridiche di stampo conciliarista e gallicano, secondo le quali la recezione equivarrebbe ad un’approvazione necessaria dal basso. Una lettura sincronica e diacronica della Tradizione della Chiesa e, in particolare della storia dei concili, ha consentito loro di descrivere gli elementi portanti di un processo recettivo: il soggetto operante (la comunità ecclesiale), il contenuto (l’avvenimento conciliare e le sue codificazioni), le dinamiche (la relazione tradizione-progresso) e, non ultimo in ordine di importanza, i soggetti intermediari, meglio identificati come “agenti della recezione” (persone, istituzioni, mezzi d’informazione), che in modi e gradi di influenza differenti favoriscano o, al contrario, limitano un fenomeno recettivo, fino al punto di impedirlo e annullarlo. I suddetti fattori sono indice della complessità delle dinamiche recettive di un’assise conciliare, in riferimento alle quali è opportuno distinguere due precisi momenti. Primo: la fase ermeneutica, ossia la comprensione e l’interpretazione dell’avvenimento conciliare e delle sue decisioni in relazione ad un presente e ad un vissuto ecclesiali. Secondo: l’applicazione, vale a dire la realizzazione totale o parziale dei dettami conciliari da parte della competente autorità. In tal modo, il processo recettivo di un concilio non si esaurisce con il solo atto ermeneutico, e neppure con quello semplicemente applicativo, ma dipende dalla sinergia di entrambi. Nel caso specifico del Concilio Vaticano II, in ambito storiografico si è generalmente concordi nel suddividere la periodizzazione della recezione – dalla conclusione nel 1965 al discorso del 2005 di Benedetto XVI alla Curia Romana, relativo all’ermeneutica conciliare (riforma-continuità-discontinuità-rottura) – in due ventenni: dal 1965 al 1985 e dal 1985 al 2005. La fase intermedia tra questi due periodi coincide con la convocazione del Sinodo Straordinario dei Vescovi del 1985, promosso da Giovanni Paolo II per commemorare il primo ventennio dalla chiusura del Concilio e per verificarne soprattutto la recezione nella Chiesa.

Informazione e orientamenti ermeneutici sul Vaticano II. «Il concilio, così concluso, segna un punto di svolta, grazie alla costituzione sulla chiesa e all’apertura espressa; esso aziona degli scambi, ma in quest’istante storico non sappiamo ancora dire dove arriverà il treno, poiché le forze della tradizione e del progresso combattono fra loro». (H. Jedin, Storia della mia vita, Morcelliana, Brescia, 1987, 323).

All’interno del dibattito sulla dinamica Tradizione-Progresso, caratterizzante in particolare il Vaticano II, non principalmente i vescovi o i decreti sinodali ricoprirono un ruolo fondamentale, bensì i mezzi d’informazione, che già dalla fase preparatoria e poi durante l’intera celebrazione orientarono la recezione, non soltanto in ambito ecclesiale, ma anche rispetto all’opinione pubblica generale. Riviste ecclesiali, divulgative e scientifiche e, per la prima volta, documentari televisivi raggiunsero le molteplici componenti della Chiesa italiana. Periodici internazionali come Concilium e Communio in edizione italiana ebbero una larga diffusione e favorirono un processo recettivo del Vaticano II ampiamente favorevole alle istanze di rinnovamento e riforma, pur se con differenti indirizzi: Concilium, più disposto a una riforma radicale delle istituzioni ecclesiali (promozione della collegialità episcopale, della sinodalità nel governo della Chiesa, e della responsabilità del laicato) e a un confronto più aperto con il mondo; Communio, intenzionato a formulare una più incisiva ripresentazione della fede cristiana di fronte ai repentini cambiamenti del mondo, pur mantenendo rispetto ad esso una tensione, dal momento che questa era giudicata necessaria per la custodia dell’identità del dogma cristiano. Ben presto apparvero altri periodici, rappresentativi delle principali tendenze diffuse tra i Padri conciliari soprattutto in relazione all’attuazione dell’aggiornamento ecclesiale secondo le intenzioni di Giovanni XXIII. In accordo con le istanze della minoranza conciliare, favorevole ad un rinnovamento ecclesiale piuttosto moderato, il periodico Renovatio, espressamente voluto dal Cardinale Giuseppe Siri (Arcivescovo di Genova e Presidente della Conferenza Episcopale Italiana durante l’intero svolgimento del Vaticano II), intese difendere l’integrità della dottrina cristiana in opposizione alle audaci tesi “progressiste” della rivista internazionale Concilium. Diversamente, periodici come Testimonianze, Il Regno, Idoc, Il Gallo si espressero per un aggiornamento più radicale in campo dottrinale ed ecclesiologico e per un libero e più aperto dialogo con la modernità, superando per certi aspetti le posizioni della maggioranza conciliare. Ben presto le tesi più estreme di alcuni periodici e pubblicazioni prevalsero: gruppi “tradizionalisti” (simpatizzanti del vescovo francese Mons. Lefebvre) e comunità di base (Isolotto di Firenze, Comunità del Vandalino a Torino), contrari i primi, e favorevoli le seconde, al “rivoluzionario” rinnovamento del Vaticano II – così da entrambi qualificato –, contestarono apertamente l’autorità ecclesiale, ritenuta la principale responsabile dello stravolgimento della Tradizione per gli uni, o della mancata riforma profetica della Chiesa per le altre.

Anche le cronache e i diari conciliari, le ricostruzioni storiche e i commentari teologici sul Concilio contribuirono ad animare il dibattito post-Vaticano II. Specialmente presso gli Istituti teologici e i Seminari, ebbero un’ampia diffusione in traduzione italiana le opere dei più importanti esponenti della teologia rinnovatrice di area franco-olandese-tedesca (Y. Congar, M.-D. Chenu, H. de Lubac, E. Schillebeeckx, H. Küng, K. Rahner, J. Ratzinger). Le cronache conciliari, soprattutto quelle del gesuita G. Caprile e di R. La Valle, di stampo giornalistico, insieme a molte altre, in traduzione o in lingua originale (Y. Congar Diario del Concilio, Torino 1964; H. Fesquet Diario del Concilio. Tutto il Concilio giorno per giorno, Milano 1967; X. Rynne Letters from Vatican City, 4 vol., London 1963-1966; A. Wenger Vatican II, 4 vol., 1963-1966; R. Wiltgen The Rhine flows into the Tiber. The Unknown Council, New York 1967), divennero un importante riferimento per l’ambiente ecclesiale italiano. La televisione ebbe per la prima volta un ruolo decisivo. Già durante il Concilio furono realizzate trasmissioni televisive (Diario del Concilio, a cura del giornalista Luca di Schiena), che in modo più immediato e persuasivo raggiunsero un pubblico più vasto, anche al di là degli ambienti strettamente ecclesiali. Un dato comune, tendenzialmente mitizzante, sembra unificare e caratterizzare i diversi orientamenti sul Concilio amplificati dai mezzi di comunicazione. Il Vaticano II più che significare una raccolta di documenti dottrinali e pastorali, ai molti appariva come un evento epocale, un’atmosfera, una rinnovata e creativa Pentecoste, se non addirittura un’utopia (G. Zizola, L’utopia di papa Giovanni, Cittadella, Assisi 1973).

Recezione del Vaticano II e il fenomeno del ’68: contestazione e pluralismo. Paolo VI, già dal 1965, dovette confrontarsi con due realtà: un’opinione pubblica sempre più critica verso la Chiesa e l’affermarsi di un pluralismo ideologico all’interno degli ambienti ecclesiali. Se da un parte Montini, in linea con il suo mandato di pontefice per l’intera Chiesa, considerava fondamentale il ruolo centrale di Roma nell’applicazione e realizzazione dei dettami conciliari, dall’altra riteneva doverosa anche una collaborazione sinodale con le periferie. Il Papa guardava così all’Italia e in particolare alla sua “giovane” Conferenza Episcopale, invitandola in qualità di Primate dei Vescovi italiani all’unità e alla corresponsabilità per far fronte collegialmente ai nuovi problemi delle diocesi italiane e favorire l’applicazione del Vaticano II. Era necessario un nuovo episcopato e in tal senso si orientò la nomina dei vescovi per le più importanti diocesi italiane: Pellegrino a Torino, Ursi a Napoli, Pappalardo a Palermo, Colombo a Milano, Dell’Acqua e poi Poletti Vicari di Roma, Ballestrero a Bari e poi a Torino, e Poma a Bologna. Ma gli entusiasmi che contrassegnarono le prime riforme conciliari (la liturgia, la catechesi, la pastorale) furono smorzati al punto tale da mettere in discussione le novità introdotte e, addirittura, lo stesso Concilio di fronte ad un’inattesa crisi, correlata al fenomeno “rivoluzionario” del ’68, secondo alcuni, o culminante con esso, secondo altri. L’unità del mondo cattolico italiano subì una frantumazione. La Tradizione con le sue relazioni di continuità e sviluppo venne messa in discussione. La ricerca emotiva del nuovo e la soggettività, condivise in modo trasversale per età e per posizione da numerose componenti del laicato e del clero, prevalsero nel modo di interpretare la volontà e i contenuti di riforma del Vaticano II, fino al punto che la stessa istituzione ecclesiale fu radicalmente criticata sulla base di concetti idealizzati, come “popolo di Dio” e “assemblea”.

Le tesi del teologo H. Küng (Veracità per il futuro della Chiesa, Queriniana, Brescia 1968 e La Chiesa, Queriniana, Brescia 1969) divennero fonte di ispirazione per esperienze che ritenevano possibile un’autoriforma spontanea della Chiesa a partire dalla base. Parma, Torino (la Comunità del Vandalino), Firenze (l’Isolotto di don Mazzi), Milano (l’Università Cattolica), Ravenna (il Vescovo Baldassarri), Roma (l’Abate Fransoni), divennero così luoghi simboli di movimenti che aspiravano a cambiare la Chiesa. Tuttavia, il dissenso secondo il modello italiano differiva da quello di altri luoghi. Esso non si delineò come il tentativo di dare vita ad una Chiesa parallela scismatica, quanto piuttosto nell’inseguire modelli ecclesiali alternativi e pluralisti. In Italia questo fenomeno si orientò generalmente nel cercare nuove espressioni di presenza cristiana in politica: bisognava rompere il collateralismo con il partito cristiano di maggioranza, ovverosia la DC e, soprattutto, aprire un intenso dialogo con il marxismo. Questo significò la messa in discussione dell’unità politica dei cattolici, verso la quale Montini non fece mai mancare il suo accorato sostegno. Tuttavia, le spinte della base prevalsero e le conseguenze di questo orientamento si evidenziarono con l’esito contraddittorio del referendum sul divorzio (1974). I repentini cambiamenti, ma specialmente lo stato di crisi e, in alcuni casi, di ingovernabilità venutisi a creare allarmarono l’episcopato italiano. I giudizi, le reazioni e le scelte pastorali furono assai diversi: segno di un pluralismo ormai affermatosi. Alcuni attribuivano la crisi direttamente all’interpretazione “progressista” del Concilio, se non addirittura direttamente ad esso, e per tal ragione auspicavano drastici interventi di restaurazione. Altri ritenevano necessario proseguire sulla via delle riforme, ma come conseguenza di una “conversione” alla vita cristiana. Questa posizione fu ampiamente condivisa dai nascenti movimenti e comunità ecclesiali. Altri ancora imputavano a Paolo VI e a gran parte dell’episcopato la responsabilità di aver “bloccato” le spinte innovatrici del Vaticano II. L’autorità della Chiesa si trovò in stato di smobilitazione. Questo si rese ancora più evidente nella contestazione contro di essa, specialmente in seguito alla pubblicazione da parte di Paolo VI dell’enciclica Humanae vitae (1968) e alle dimissioni del Card. Lercaro, uno dei protagonisti del Vaticano II.

Dalla crisi al rinnovamento: da Paolo VI a Giovanni Paolo II. Uno dei segni maggiori della crisi della Chiesa si manifestò nel drastico calo delle vocazioni. I seminari si svuotavano, ma soprattutto era l’identità tradizionale del sacerdote ad essere radicalmente criticata. Paolo VI si trovò così a dover concedere a sacerdoti in crisi sempre più dispense dal loro ministero. La CEI prese coscienza delle difficoltà e dell’inadeguatezza del clero di fronte alle nuove sfide pastorali, ma in particolare dell’invito montiniano a superare la polarizzazione intorno all’interpretazione del Vaticano II e a guardare ad esso piuttosto come ad una fonte di rinnovamento. L’episcopato italiano promosse iniziative in vista di una piena recezione del Vaticano II: il rinnovamento della catechesi e della liturgia (Evangelizzazione e sacramenti: 1972-1975), l’elaborazione di un Liber pastoralis per rispondere alle problematiche del clero, e nel 1976 un convegno, Evangelizzazione e promozione umana. Questo meeting della Chiesa italiana sembrò offrire l’opportunità alle diverse anime del laicato di ascoltarsi reciprocamente e di tendere, pur nella legittima articolazione, ad un modello unitario di presenza ecclesiale. Se il clero e le istituzioni furono più colpite dalla crisi post-conciliare, il laicato, pur se non esente da essa, viveva un periodo di particolare fermento. Nel mondo laicale italiano era venuta meno la compattezza intorno all’Azione Cattolica che tuttavia tentò un rinnovamento: la discussa “scelta religiosa” e, quindi, la separazione dal diretto impegno politico. Accanto al tradizionale associazionismo, si ebbe una fioritura di nuovi movimenti ecclesiali: alcuni in polemica con la gerarchia (Cristiani per il socialismo); altri (Comunione e Liberazione, Movimento dei Focolari, Cammino Neocatecumenale, Rinnovamento nello Spirito), al contrario, in risposta all’appello per l’evangelizzazione. L’episcopato italiano, temendo l’azione dei primi, non sempre dimostrò un’immediata simpatia verso queste nuove realtà che difficilmente riusciva ad inquadrare nei propri piani diocesani. Il pluralismo divenne ormai un elemento qualificante della Chiesa in Italia: Paolo VI chiese ai vescovi di “vegliare” che questa diversificazione non diventasse causa di scontro ideologico. L’avvento di Giovanni Paolo II con la sua ferma convinzione di continuare e portare a compimento la recezione e l’applicazione del Concilio contribuì ulteriormente a superare alcune difficoltà. Il pontefice offrì ai vescovi due importanti appuntamenti sinodali. Nel 1985 fu convocato un sinodo in forma straordinaria per celebrare il primo ventennio dalla chiusura del Vaticano II e per verificarne le modalità recettive. Nel 1987 un secondo sinodo ebbe come oggetto di riflessione la missione dei laici. Wojtyła, in continuità con Paolo VI, incoraggiò lo sforzo per una nuova evangelizzazione, offrendo piena fiducia alle nuove comunità e movimenti ecclesiali, espressione più genuina del rinnovamento conciliare in ambito laicale. Giovanni Paolo II incoraggiò la celebrazione di un secondo convegno per la Chiesa italiana (Riconciliazione cristiana e comunità degli uomini). Sotto la guida del Card. Ballestrero, Presidente della CEI, furono affrontati alcuni nodi ecclesiali (rapporto tra Chiesa locale, associazioni e movimenti; spazi di partecipazione all’interno della Chiesa; pluralismo culturale) che in chiusura del pontificato montiniano rischiavano di lacerare la spinta missionaria e l’azione pastorale della Chiesa in Italia.

Gli entusiasmi e le tensioni di fronte alla recezione del Vaticano II – ancora nella sua fase iniziale in Italia e nel resto del mondo – non permettono una qualificazione globale dell’avvenimento conciliare dal punto di vista storico e teologico. In ogni caso, il dibattito ermeneutico e la sua recezione continuano. “Riforma”, “continuità-discontinuità” e “rottura”, come di recente ha sottolineato anche Benedetto XVI nel suo intervento alla Curia Romana del 22 dicembre 2005, sono le categorie che animano ultimamente il confronto ecclesiale sul Vaticano II.

Fonti e Bibl. essenziale

Il Concilio Vaticano II. L’ermeneutica della riforma, LEV, Città del Vaticano II 2013; G. Alberigo – J.-P. Jossua (edd.), Il Vaticano II e la Chiesa, Paideia, Brescia 1985; W. Brandmüller – N. Bux – A. Marchetto, Le «chiavi» di Benedetto XVI per interpretare il Vaticano II, Cantagalli, Siena 2013; Y. Congar, La réception comme réalité ecclesiologique, RSPhTh, 56 (1972), 369-403; M. Faggioli, Intepretare il Vaticano II. Storia di un dibattito, EDB, Bologna 2013; M.T. Fattori – A. Melloni (edd.), L’Evento e le decisioni. Studi sulle dinamiche del Concilio Vaticano II, Il Mulino, Bologna 1997; A. Grillmeier, Konzil und Rezeption. Methodische Bemerkungen zu einem Thema der ökumenishen diskussion der Gengewart, ThPh, 45 (1970), 321-352; R. Latourelle (ed.), Vaticano II: bilancio e prospettive venticinque anni dopo 1962-1987, Cittadella, Assisi 1987; A. Marchetto, Il Concilio Vaticano II. Contrappunto per la sua storia, Città del Vaticano, LEV 2005; Id., Il Concilio Ecumenico Vaticano II. Per una sua corretta ermeneutica, LEV, Città del Vaticano 2012; A. Riccardi, La ricezione del concilio in Italia, in M. Tagliaferri (ed.), Il Vaticano II in Emilia Romagna. Apporti e ricezioni, EDB, Bologna 2007; G. Routhier, Il Concilio Vaticano II. Recezione ed ermeneutica, Vita e Pensiero, Milano 2007; Id., La recezione del Concilio. Mentalità, soggetti e tempo di un percorso laborioso, RCI, XCI 4 (2010), 263-285; D. Saresella, Dal Concilio alla contestazione. Riviste cattoliche negli anni del cambiamento (1958-1968), Morcelliana, Brescia 2005; L. Scheffczyk, La Chiesa. Aspetti della crisi post-conciliare e corretta interpretazione del Concilio Vaticano II, Jaca Book, Milano 1998; M. Tagliaferri, La recezione del Concilio Vaticano II: il recente dibattito storiografico fra teologia e storia, RTE, X 20 (2006), 401-427; Chr. Theobald, La recezione del Vaticano II.Tornare alla sorgente, EDB, Bologna 2011; M. Vergottini (ed.), La Chiesa e il Vaticano II. Problemi di ermeneutica e recezione conciliare, Glossa, Milano 2005; Fr. S. Venuto, La recezione del Concilio Vaticano II nel dibattito storiografico dal 1965 al 1985. Riforma o discontinuità?, Effatà, Cantalupa (To) 2011; Id., Il Concilio Vaticano II. Storia e recezione a cinquant’anni dall’apertura, Effetà, Cantalupa (To) 2013; Id., Il Concilio Vaticano II e la sua recezione. Il dibattito ermeneutico dal 1965 al 1985, RCI, XCV 1 (2014), 35-59.


LEMMARIO




Concordati - vol. II


Autore: Carlo Fantappiè

Nel corso del Novecento la posizione giuridica della Chiesa in Italia è stata definita, in maniera organica, dai concordati dell’11 febbraio 1929 e del 18 febbraio 1984, che revisiona il precedente di comune accordo dello Stato e della Santa Sede allo scopo di armonizzare i Patti Lateranensi rispettivamente con i princìpi sanciti dalla Costituzione italiana e con i princìpi del concilio ecumenico Vaticano II. Sebbene di diverso rilievo, queste due date scandiscono differenti regimi legislativi che, se analizzati in modo comparativo tra loro e con la legislazione liberale in materia ecclesiastica, permettono di ricostruire sinteticamente l’intera parabola dei rapporti tra Stato e Chiesa in Italia dall’Unità ad oggi. Il taglio storico di questo Dizionario non permette di soffermarsi sui profili dottrinali e interpretativi, pure rilevanti, e neppure sulla storia delle trattative politiche preliminari, su cui esiste una ricca bibliografia. L’attenzione sarà rivolta, invece, sulle conseguenze istituzionali e organizzative dei due concordati nella storia della chiesa italiana. Per l’applicazione della legislazione concordataria vigente si rinvia all’Enchiridion della Conferenza episcopale italiana.

I Patti Lateranensi del 1929 si compongono di due separate convenzioni con specifica finalità. Col Trattato si pone fine alla «questione romana», ossia al dissidio che si era originato dopo la presa di Roma del 1870 tra la Santa Sede e il Regno d’Italia, mediante la costituzione dello Stato Città del Vaticano e la concessione di speciali prerogative al papa per tutelare, in modo stabile e completo, l’indipendenza e la libertà della sua persona e della missione religiosa universale della Chiesa: garanzie che lo Stato italiano aveva varato unilateralmente il 13 maggio del 1871 ma che la Santa Sede aveva sempre respinte come inadeguate. Col Concordato, invece, viene fissata in modo bilaterale un’apposita disciplina giuridica per enti, persone e cose della chiesa cattolica in Italia, che modifica radicalmente la legislazione ecclesiastica statale emanata dopo il 1861.

Le norme concordatarie del 1929, infatti, mentre sostituiscono la regolamentazione di diritto comune o di diritto singolare che lo Stato liberale aveva varato in vari momenti col duplice scopo di garantire la libertà religiosa dei cittadini e di limitare l’organizzazione e l’attività della chiesa cattolica, introducono una legislazione speciale che pone quest’ultima in una condizione privilegiaria rispetto alle altre confessioni o «culti ammessi» (per i quali è emanata una legge apposita del 24 giugno 1929, n. 1159).

All’interno di una ripristinata concezione confessionalista dello Stato (art. 1 del Trattato), presente nello Statuto albertino ma modificata dalla legislazione dei governi della Destra e Sinistra, il Concordato opera un riassetto giuridico delle istituzioni ecclesiastiche su molteplici livelli, a cominciare dalla figura della Chiesa nel suo complesso. Mentre lo Stato giurisdizionalista laico considerava la Chiesa un’associazione meramente privata soggetta al diritto comune, ora se ne riconosce l’autonomia sostanziale perché l’ordinamento canonico è considerato un ordinamento giuridico primario al pari di quello dello Stato.

La prima applicazione di questo principio si ha nell’affermazione delle garanzie di libertà della Chiesa nell’ordinamento italiano. Il concordato lateranense le assicura sia l’esercizio del potere spirituale, del culto e della giurisdizione, sia la comunicazione della Santa Sede con i vescovi e di questi col clero e con tutti i fedeli, sia la pubblicazione degli atti di governo spirituale dei fedeli (artt. 1-2). Con ciò sono aboliti i classici istituti del giurisdizionalismo (v.) fino allora in vigore (exequatur, regio placet, regalia, regio patronato sui benefici) (artt. 24-25), le forme di sorveglianza e di controllo sui patrimoni ecclesiastici (art. 30, c. 1-2), le limitazioni al riconoscimento degli enti ecclesiastici (artt. 29, 31-32).

A tali garanzie si aggiungono prerogative personali per i chierici e religiosi non previste dal diritto preconcordatario. In particolare i chierici e religiosi sono esenti dal servizio militare, dall’ufficio di giurato, dall’obbligo della testimonianza (art. 3-4, 7), dalla pignorabilità degli stipendi e assegni derivanti dall’ufficio (art. 6) e godono di speciali cautele in caso di procedimenti penali o condanne (art. 8). Mentre lo Stato liberale nutriva una decisa avversione verso la condizione dei religiosi e non riconosceva i loro ordini e congregazioni, adesso si ammette l’erezione degli ordini e delle loro strutture in enti morali dotati di personalità giuridica (art. 29 b). L’ordinazione e i voti hanno rilevanza giuridica per gli effetti civili delle sentenze e provvedimenti emanati dall’autorità ecclesiastica e per la privazione dell’abito religioso (art. 29 i).

Le leggi soppressive del 1866-67 (D. legisl. 7 luglio 1866, n. 3036 e legge 15 agosto 1867, n. 3848) avevano diviso gli enti in «soppressi» e «conservati» e tassativamente ridotto la categoria e il numero alle mense vescovili, abbazie, prelature nullius, capitoli cattedrali, 12 canonicati e 6 benefici nelle Cattedrali, benefici parrocchiali e coadiutoriali, chiese palatine. Il concordato del 1929 non pone limiti di categoria al riconoscimento di nuovi uffici eretti dall’autorità ecclesiastica (art. 31), anche se prevedeva una riduzione del numero esorbitante delle diocesi in accordo con la Santa Sede (art. 16) (v. Diocesi).

Nella riforma concordataria dell’organizzazione della chiesa italiana rientrano, oltre le diocesi, i cui confini dovevano corrispondere alle province dello Stato: i santuari, sopravvissuti di fatto alle soppressioni ed amministrati da chierici e laici sotto il controllo della pubblica amministrazione; le chiese palatine, legate alle famiglie regnanti negli ex-Stati, per le quali lo Stato rinuncia ai privilegi di esenzione dalla giurisdizione ecclesiastica per regolare le nomine e provviste di benefici secondo il diritto comune, fatta eccezione per il clero di alcune chiese e in particolare del capitolo del Pantheon addetto ai servizi religiosi della casa reale (art. 29 g); l’ordinariato militare, il cui arcivescovo è capo del Pantheon e i cui sacerdoti svolgono l’ufficio di cappellani militari prestando servizio di assistenza spirituale alle forze armate dello Stato (artt. 14-15).

Oltre a sopprimere o ridurre molti enti ecclesiastici nel 1866-1867, lo Stato aveva anche provveduto nel 1890 a trasformare le istituzioni di beneficenza e di assistenza per adeguarle ai tempi (legge 17 luglio 1890, n. 6972). Avevano subìto un mutamento di scopo e una diversa destinazione del patrimonio i seguenti enti: a) i conservatori o educandati, gli ospizi per pellegrini, i ritiri, gli eremi; b) le confraternite e congreghe; c) le opere pie, i lasciti e legati di culto con alcune eccezioni. Il concordato lateranense interviene sulle confraternite (v.), anche laicali, con scopo di culto per garantirne la stabilità e farle dipendere esclusivamente dall’autorità ecclesiastica (art. 29 c). Con disposizioni di poco successive si fissano criteri per il riconoscimento civile di nuove confraternite e associazioni laicali con scopo di religione o di culto. Vi sono compresi: i Terzi ordini, le Pie unioni, le Conferenze di San Vincenzo, le Dame di carità, e le organizzazioni dell’Azione cattolica (per la cui attività si fissano però restrizioni nell’art. 43).

Per quanto il concordato del 1929 non abbia ripristinato gli enti soppressi né restituito i loro beni, tuttavia ha disposto, tra l’altro, indennizzi e donazioni di chiese alla Santa Sede (le basiliche della Santa Casa di Loreto, di San Francesco di Assisi e di Sant’Antonio da Padova, art. 27), dotazioni alle chiese palatine (art. 29 g) e la restituzione delle chiese aperte al pubblico già appartenenti ad enti soppressi (art. 29 a). Inoltre per tutti gli enti ecclesiastici abroga il divieto di possedere beni immobili ed elimina ogni intervento statuale nella gestione dei beni ecclesiastici secolari e regolari, eccetto che per i benefici ecclesiastici dotati in maniera insufficiente. Per questi ultimi continua a provvedere in modo indiretto col c.d. «supplemento di congrua», erogato dal Fondo per il culto, costituito nel 1866 dai beni provenienti dagli enti soppressi e alimentato dalla «quota di concorso» versata dagli enti conservati (art. 30).

Nel campo dell’insegnamento e dell’educazione è garantita alla Chiesa la piena autonomia per i seminari, accademie, collegi, università e altri istituti di cultura (art. 39). Sono riconosciuti i titoli di laurea in teologia e di diploma vaticano (art. 40), mentre per le scuole di istruzione media tenute da ecclesiastici o religiosi resta l’esame di Stato (art. 35). La nomina dei professori all’Università Cattolica del Sacro Cuore è subordinata al nulla osta della Santa Sede (art. 38).

La posizione di favore del cattolicesimo si evidenzia specialmente nell’istruzione religiosa e nella disciplina del matrimonio canonico (nel Codice penale del 1930 anche con la tutela del sentimento religioso). L’insegnamento della religione cattolica nelle scuole pubbliche era stato introdotto come obbligatorio dalla legge Casati del 1859, ma la prassi governativa dopo il 1876 l’aveva reso facoltativo sia per gli alunni che per i comuni. Nel 1923 il regime fascista aveva dichiarato la dottrina cattolica «fondamento e coronamento dell’istruzione pubblica». Il concordato del 1929 estende l’obbligo di tale insegnamento dalle scuole pubbliche elementari alle scuole medie e lo affida a maestri e professori approvati dall’autorità ecclesiastica, cui «spetta anche il controllo dei libri di testo» (art. 36).

Lo Stato post-unitario considerava proprio diritto esclusivo regolare il matrimonio come fondamento della famiglia e della nazione, mentre la Chiesa poteva dare ad esso una sanzione religiosa che però era irrilevante per lo Stato. Per evitare i gravi inconvenienti della validità esclusiva del matrimonio civile, la Chiesa aveva imposto ai parroci di accertare che il rito religioso fosse accompagnato dal rito civile. Il concordato lateranense elimina il regime della doppia celebrazione, riconosce gli effetti civili «al sacramento del matrimonio, disciplinato dal diritto canonico» tramite la «trascrizione», concede ai tribunali e dicasteri ecclesiastici la riserva di competenza nel decidere le cause di nullità dei matrimoni canonici e nel pronunciare lo scioglimento dei matrimoni «rati e non consumati» mediante ordinanze della Corte di appello competente. Le cause di separazione personale dei coniugi sono affidate ai tribunali civili (art. 34).

Il principio dell’autonomia della Chiesa rispetto allo Stato trova tuttavia limitazioni e eccezioni di diversa portata. Si è detto della conservazione del patronato regio sui canonici del Pantheon e della collazione straordinaria del clero addetto alle basiliche palatine. Ancora più penetranti sono però le ingerenze statuali sulle nomine dei vescovi e dei parroci. I loro nomi devono essere comunicati rispettivamente al governo e al prefetto per verificare che non vi siano ostacoli di carattere politico o gravi ragioni, anche pastorali che ne sospendano la nomina (artt. 29 e 21). Una volta nominati, i vescovi devono prestare giuramento nelle mani del Capo dello Stato e promettere di non partecipare ad atti contro lo Stato e l’ordine pubblico e di evitare danni contro lo Stato (art. 20). Tutti gli investiti negli uffici e benefici devono possedere i seguenti requisiti: la cittadinanza italiana, la conoscenza della lingua nazionale, non avere motivi per cui il governo si opponga alla loro nomina (artt. 19, 21, 22). In estrema sintesi: la «conciliazione» del 1929 rappresenta il passaggio dall’atteggiamento di ostilità verso la Chiesa da parte dello Stato liberale alla valorizzazione nazionale del cattolicesimo da parte del regime fascista. Questa implica la modifica della neutralità statale in materia religiosa in un sistema privilegiario per la Chiesa italiana che risente dell’intreccio di motivi confessionalistici e giurisdizionalisti.

Assai differente è la cornice politica e sociale che fa da sfondo al nuovo concordato del 1984-1985. Tra il 1929 e il 1984 si inserisce la Costituzione italiana del 1947 che ha modificato la forma dello Stato e posto a suo fondamento la neutralità in materia religiosa come conseguenza del diritto di libertà religiosa, di uguaglianza e pari dignità dei cittadini ed uguale libertà di tutte le confessioni religiose. Il passaggio dallo Stato corporativo allo Stato democratico e l’ulteriore declinazione dello Stato democratico nello Stato sociale hanno poi introdotto nuovi princìpi regolativi che contribuiscono a spiegare l’abbinamento del nuovo concordato con le intese con le altre confessioni. Sulla base dell’articolazione pluralistica della società e dell’autonoma “valenza contrattuale” riconosciuta alle formazioni sociali si tende ad attuare un riequilibrio istituzionale, un ampliamento dei diritti e degli ambiti sociali di presenza e di intervento delle confessioni religiose.

Questi princìpi costituzionalistici si vengono poi a coordinare, per un verso, con le novità del concilio Vaticano II in materia di libertà religiosa, di rinuncia ai privilegi della Chiesa, di autonomia delle realtà terrene e di collaborazione con la società civile e con gli Stati; per un altro con la riforma del diritto canonico attuata nel Codex del 1983.

Sotto il profilo formale, gli Accordi del 18 febbraio (con Protocollo addizionale) e del 15 novembre 1984 e relative leggi di esecuzione del 25 marzo 1985 n. 121 e del 20 maggio 1985 n. 206, presentano due significative innovazioni rispetto ai Patti lateranensi: 1) estendono la materia pattizia alla «tutela del patrimonio storico e artistico» (art. 12); 2) prevedono «per ulteriori materie» specifiche «intese» con la Conferenza episcopale italiana. Ad esse si è dato corso, dal 1985 in avanti, circa la riforma degli enti e dei beni ecclesiastici, i rapporti finanziari, l’insegnamento della religione cattolica nelle scuole pubbliche, il riconoscimento dei titoli accademici conferiti dalle Facoltà approvate dalla Santa Sede, le festività religiose, la regolamentazione dell’assistenza spirituale nell’ambito delle n.d. strutture obbliganti, i beni culturali.

I punti più significativi della revisione concordataria del 1984-1985 scaturiscono dalle premesse generali sopra indicate. Innanzi tutto l’abrogazione del principio della religione cattolica come «sola religione dello Stato italiano», già decaduto con la Costituzione (Protocollo addizionale, n. 1). Inoltre il principio di non ingerenza che, riferendosi all’indipendenza dell’ordine civile e religioso, impegna Stato e Chiesa al «pieno rispetto nei loro rapporti della reciproca sovranità e indipendenza», a sua volta collegato con il principio di «reciproca collaborazione per la promozione dell’uomo e il bene del paese» (art. 1), da intendere come il superamento di vecchie diffidenze e una convergenza ideale di interessi.

Particolare sviluppo ha il principio dell’autonomia della Chiesa rispetto alle disposizioni del concordato lateranense. L’art. 2 degli Accordi riconosce la potestà giurisdizionale ecclesiastica alle materie spirituali e disciplinari («piena libertà della Chiesa di svolgere la sua missione pastorale, educativa e caritativa, di evangelizzazione e di santificazione»), che implica l’indifferenza dello Stato rispetto a quelle materie, a meno che non sia leso con un provvedimento un interesse o un diritto tutelato costituzionalmente dalle leggi dello Stato (Protocollo addizionale, n. 2 c). L’art. 3, nell’affermare che «la nomina dei titolari di uffici ecclesiastici è liberamente effettuata dall’autorità ecclesiastica», elimina le ingerenze giurisdizionaliste e confessionaliste del concordato del 1929 sul giuramento dei vescovi (artt. 20), sulle preghiere per la prosperità della nazione (art. 43), sulle nomine dei vescovi e dei parroci (artt. 19 e 21), fermo restando il requisito della cittadinanza italiana per ricoprire gli uffici ecclesiastici fuori della città di Roma. È altresì abolito l’istituto giurisdizionalistico delle chiese palatine restituendo la nomina del relativo clero agli ordinari diocesani. Con l’art. 4 dell’Accordo cadono anche i privilegi favorevoli e sfavorevoli del clero; l’esenzione dal servizio militare per sacerdoti, diaconi e religiosi è sostituita da tre diverse soluzioni (esonero, assegnazione al servizio civile sostitutivo o adempimento degli obblighi). Il rispetto dell’autonomia organizzativa della Chiesa implica anche la libera determinazione delle circoscrizioni ecclesiastiche (art. 3 n. 1), il divieto di requisire, occupare, espropriare o demolire edifici aperti al pubblico così come quello di entrare in essi con la forza pubblica senza previo accordo con l’autorità ecclesiastica (art. 5 n. 1 e 2).

L’art. 7 promuove il riordino del quadro legislativo degli enti ecclesiastici in rapporto alla loro tipicità, attività e pluralità. Si afferma il principio di non discriminazione rispetto alle altre persone giuridiche che operano nell’ambito dello Stato e si distingue tra gli enti con finalità di religione e di culto, e gli altri enti per i quali si deve procedere singolarmente all’accertamento, con la conseguenza di sottoporre le altre attività diversamente graduate (assistenza e beneficenza, istruzione, educazione e cultura, commercio o lucro) alle leggi civili e al diritto comune anche per ciò che attiene il regime tributario. Le categorie di enti subiscono un adattamento alla molteplicità delle situazioni reali anche con l’introduzione di una figura mista, che potrà essere riconosciuta come persona giuridica privata anche se regolata nella sua struttura statutaria e attività dall’ordinamento canonico. Uno dei vantaggi di questa riforma è quello di evitare l’identificazione della missione della Chiesa, che investe virtualmente ogni sfera umana, con gli strumenti o enti di cui essa si serve nella società civile.

Si segnalano alcune conseguenze istituzionali. La Conferenza episcopale italiana acquista la personalità giuridica civile quale ente ecclesiastico. In accordo col nuovo codice canonico i capitoli cattedrali o collegiali che non rispondono «a particolari esigenze o tradizioni religiose e culturali» perdono il riconoscimento civile. Il riconoscimento della personalità giuridica per gli istituti religiosi di diritto diocesano sorti dopo il 1929 necessita del previo assenso della Santa Sede e di garanzie di stabilità; per quello delle società di vita apostolica e delle associazioni pubbliche di fedeli oltre l’assenso della Santa Sede, è richiesto che non abbiano carattere locale.

Un’innovazione storica radicale è stata introdotta nei beni e nel sistema del sostentamento del clero per effetto della riforma del sistema beneficiale (can. 1272 CIC1983) e della volontà dello Stato di evitare il finanziamento diretto della Chiesa. Gli assegni di congrua ai parroci, stabiliti dallo Stato liberale e confermati dal concordato lateranense, erano ormai divenuti, col decorrere degli anni, una sorta di contributo stipendiale per i titolari dei benefici e la loro gestione comportava controlli amministrativi statali. Di comune accordo con la Conferenza episcopale, si prevede la creazione di Istituti per il sostentamento del clero che provvedano direttamente a garantire un più equo assegnamento a tutti sacerdoti che svolgono servizio nella diocesi mediante i fondi degli ex-benefici, ora concentrati in tali Istituti, e l’eventuale integrazione finanziaria da parte di un Istituto centrale, che ha anche compiti di coordinamento e di programmazione del nuovo sistema di sostentamento e che riceve le entrate provenienti dallo Stato in virtù dei nuovi rapporti finanziari tra Stato e confessioni religiose.

Va osservato che la riforma di questa delicata disciplina esclude sia la posizione confessionalista (finanziamento diretto), sia la posizione separatista (sostegno esclusivo dei fedeli), essendo fondata sul principio della manifestazione di volontà dei cittadini. Al di là, infatti, delle erogazioni volontarie, i cittadini possono destinare ogni anno, al momento della dichiarazione dei redditi, una quota pari all’8 per mille del gettito complessivo IRPEF alternativamente allo Stato, alla chiesa cattolica o alle altre confessioni religiose che hanno stipulato un’intesa. La destinazione delle quote per la chiesa cattolica sono predeterminate per esigenze di culto della popolazione, per il sostentamento del clero, per interventi caritativi a favore della collettività nazionale o di paesi del terzo mondo.

Nel campo dell’istruzione si sostituisce il principio confessionalistico dell’obbligatorietà dell’insegnamento della religione col principio della facoltatività, motivandolo col fatto che «i princìpi del cattolicesimo fanno parte del patrimonio storico del popolo italiano» (art. 9 n. 2). L’assistenza spirituale alle forze armate, alla polizia, ai degenti in ospedali, case di cura o di assistenza pubblica o a coloro che si trovano negli istituti di prevenzione e pena è assicurata da ecclesiastici designati dall’autorità ecclesiastica e nominati da quella civile (art. 11).

Data la complessità della materia, il nuovo concordato non ha fornito una soluzione organica e lineare alla riforma della disciplina matrimoniale varata nel 1929. Da un lato ha riaffermato la connessione della normativa canonica con l’ordinamento civile in quanto, insieme con gli effetti civili dei matrimoni celebrati col rito cattolico, si continua a dare rilevanza alle norme canoniche sugli impedimenti e cause di nullità. Dall’altro ha introdotto tre princìpi innovativi consistenti nella riconoscibilità del matrimonio canonico solo nel caso in cui sussista la possibilità di un matrimonio civile valido; nella rilevanza della volontà delle parti per decidere l’acquisto degli effetti civili o l’efficacia delle eventuali sentenze di nullità; nel sottoporre le sentenze di nullità canoniche ad un giudizio di delibazione dello Stato analogo a quello previsto per le sentenze straniere.

Fonti e Bibl. essenziale

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LEMMARIO




Conferenza Episcopale Italiana - vol. II


Autore: Francesco Sportelli

Nella seconda metà degli anni Quaranta del Novecento iniziano a profilarsi esigenze di una organizzazione centrale per i vescovi italiani, distinta dalle strutture della Santa Sede. La prima idea risale al 1946 e si rivela all’interno della Commissione episcopale nominata dalla Santa Sede per la preparazione dei nuovi statuti dell’Azione cattolica italiana dove viene presentato un progetto per una commissione di presidenti delle conferenze regionali allo scopo di studiare i problemi della Chiesa in Italia. Il progetto è giudicato prematuro e si nomina una Commissione episcopale per l’alta direzione dell’Azione cattolica. Fra il 1947 e il 1948 è il gesuita Riccardo Lombardi ad inviare al papa un progetto per rinnovare il cattolicesimo, all’interno del quale c’è l’istituzione di un organismo ecclesiastico nazionale per l’intero episcopato.

Nel 1951 il cardinale di Palermo Ernesto Ruffini compie passi decisivi per la costituzione di un organismo unitario dell’episcopato italiano. Chiede a Pio XII di farsi promotore di una riunione dei presidenti delle conferenze regionali e il papa acconsente. La congregazione Concistoriale invia il 12 dicembre 1951 una lettera riservata a tutti i cardinali e i vescovi presidenti delle conferenze regionali convocandoli dall’8 al 10 gennaio 1952 a Firenze per discutere i problemi del clero e del laicato cattolico. Inizia così la vicenda della Conferenza episcopale italiana, denominazione utilizza già nel 1952 nel verbale del primo incontro. Altre riunioni della CEI si tengono a Sestri Levante e Pompei. Nel febbraio 1954 viene pubblicata la prima lettera pastorale collettiva dei presidenti delle conferenze episcopali regionali a nome di tutti i vescovi italiani, mentre il 1° agosto 1954 è approvato il primo statuto provvisorio della CEI. I primi incontri della CEI rappresentano un osservatorio di interesse estremo per leggere l’Italia cattolica dei primi anni Cinquanta. Si riscontrano poche vocazioni perché, secondo i vescovi della Conferenza, è diminuito il senso cristiano delle famiglie. Preoccupano le condizioni economiche dei preti che non sono assicurati contro le malattie, l’invalidità e la vecchiaia. C’è molto imbarazzo nell’affrontare il problema dell’eccessivo numero delle diocesi, quasi trecento e molto diverse fra loro. C’è ignoranza sulle verità religiose, i vescovi vorrebbero una revisione del catechismo di Pio X e una maggiore presenza degli adulti agli incontri. Nei primi dibattiti si trova molta attenzione per la situazione politica, soprattutto per il partito dei cattolici e per il comunismo, forte avversario. I primi itinerari della CEI sono fortemente condizionati e diretti dagli uffici vaticani. Una funzione decisiva è svolta da Montini e dal segretario della Concistoriale, Piazza, che si occupa dei vescovi e dirige l’unica struttura episcopale nazionale, la commissione per la direzione dell’AC. Il problema che si pone per l’Italia è quello del rapporto tra il ministero del papa e l’azione collettiva dell’episcopato, ma è un problema risolto alla partenza, visto che l’episcopato italiano non esprime una volontà di distacco da Roma, anzi moltiplica durante le prime riunioni della CEI gli attestati di fedeltà al papa.

Negli anni della modernizzazione dell’Italia i vescovi della CEI studiano intensamente i temi emergenti dalla realtà ecclesiale e dalla società civile. Profonde trasformazioni stanno cambiando l’Italia. Durante gli anni Cinquanta alla CEI si discute sui cambiamenti del costume, le migrazioni, la disgregazione della famiglia, le condizioni delle periferie urbane e la scristianizzazione, le difficoltà dei preti, l’adeguamento dell’istruzione religiosa, la situazione del Sud. Alla CEI sono preoccupati della trasformazione delle campagne, ma ci sono problemi anche nel laicato organizzato. Lo sforzo di analisi dei vescovi alla CEI è notevole e talvolta spietato. Le questioni politiche sono molto intrecciate con i problemi religiosi. L’Italia sta entrando nel boom economico e i vescovi della CEI capiscono che molti equilibri tradizionali stanno per essere sconvolti. Giudicano positivamente la modernizzazione italiana, che provoca avanzamento e miglioramento generale delle condizioni economiche, ma criticano gli effetti: allontanamento dalla religione, diffusione di orientamenti morali distorti, laicizzazione della vita collettiva. Nel 1958 muore Pio XII, gli succede Angelo Giuseppe Roncalli che ha partecipato alle riunioni della CEI.

Nel 1959 la CEI ha un nuovo statuto, rispetto al vecchio criterio che dava la presidenza al cardinale decano si stabilisce che il direttivo indichi il nominativo del candidato al papa, al quale rimane riservata la nomina. Così Giuseppe Siri viene designano e nominato presidente nell’ottobre 1959. Al Vaticano II l’Italia presenta l’episcopato più numeroso del mondo, 430 convocati. Dopo tre giorni dall’apertura tutti i vescovi d’Italia si incontrano alla Domus Mariae, è la prima riunione dell’intero episcopato italiano. Al concilio la CEI arriva con una struttura in via di consolidamento, non produce interventi collettivi e concordi, come altri episcopati. Il concilio, però, porta l’episcopato italiano ad uscire da un lungo periodo di particolarismo istituzionale per accedere a punti di riferimento unitari e capaci di approfondimenti, proposte e sintesi per l’intero paese. E’ al Vaticano II che si delinea la fisionomia di una chiesa “italiana”, dovuta allo sforzo di Paolo VI che vive intensamente il ruolo di primate d’Italia. Il 16 dicembre 1965 viene approvato un nuovo statuto che tiene conto delle indicazioni conciliari. Scompare la CEI dei presidenti regionali. La CEI rinnovata dal concilio comprende tutti i vescovi italiani che costituiscono l’assemblea generale, massimo organo dell’episcopato. A questa CEI tocca il compito di lavorare per la recezione del concilio fra problemi delicati e in anni carichi di fermenti innovatori in campo ecclesiale e civile. Ha inizio un nuovo periodo nella storia della Chiesa italiana, l’impostazione di una pastorale globale per l’intero Paese è il punto di arrivo. Una delle tappe imprescindibili è il riordino delle diocesi che arriverà nell’ottobre 1986 quando verrà varato un definitivo riordinamento che ridurrà da 325 a 228 le diocesi in Italia. Il 4 febbraio 1966 Paolo VI nomina Giovanni Urbani presidente della CEI. Il tema dell’introduzione del divorzio sollecita la CEI a parlare dell’unità dei cattolici in politica. Alla CEI si discute di “mediocre” cultura teologica italiana, di clima anticoncordatario, contestazione studentesca all’Università Cattolica, scelta socialista delle ACLI. Urbani con pazienza e mediazione tiene insieme le tessere della Chiesa italiana e traghetta la CEI dai vecchi incontri di cardinali e presidenti alle nuove assemblee, diventando uno degli esponenti più caratteristici della “via italiana” alla recezione del Vaticano II. La CEI degli anni Settanta è guidata da Antonio Poma, arcivescovo di Bologna. In questi anni la CEI elabora il piano pastorale pluriennale “Evangelizzazione e sacramenti” che segna la fine esplicita del collateralismo alla DC. E’ un piano per una nazione in crisi e afferma il primato dell’evangelizzazione. Il cambiamento conciliare porta al rinnovamento della catechesi, con la stesura di nuovi catechismi che modificano in profondità l’educazione alla fede delle nuove generazioni e all’approvazione dei nuovi libri liturgici e del nuovo messale che rinnovano l’immagine della Chiesa che prega. Nasce anche la Caritas che modifica l’impegno sociale dei cattolici. In questo cammino si inserisce il 4 settembre 1972 Enrico Bartoletti, nominato da Paolo VI segretario generale della CEI in sostituzione di Andrea Pangrazio. La sua segreteria assume un ruolo di propulsione; il papa lo ascolta e lo utilizza per compiti e contatti spesso lontani dal suo ruolo istituzionale.

La partenza dei piani pastorali e la stabilizzazione statutaria postconciliare concorrono fortemente ad una definizione di coscienza unitaria dei vescovi. La CEI è ormai un organismo consolidato, articolato, funzionale e maturo per assumere la guida della Chiesa italiana. Nel 1976 si svolge a Roma il primo convegno ecclesiale della chiesa italiana, “Evangelizzazione e promozione umana”, una esperienza non immaginabile prima del Vaticano II. L’elezione di un papa non italiano non porta al cambiamento immediato della Chiesa in Italia, ma l’avvento del nuovo papa rappresenta un crinale per i rapporti fra Chiesa e società. L’impostazione del nuovo pontefice è alternativa rispetto alla linea della CEI voluta da Montini. Giovanni Paolo II attende dal cattolicesimo italiano un annuncio esplicito delle verità cristiane e un ruolo attivo dentro la vita della nazione. Il 18 maggio 1979 il papa nomina presidente della CEI il carmelitano Anastasio Ballestrero, arcivescovo di Torino; nel 1985 gli succederà Ugo Poletti, vicario del papa per la diocesi di Roma. Per gli anni Ottanta la CEI vara un piano pastorale sul rapporto fra comunione e comunità, seguito dal documento “La Chiesa italiana e le prospettive del paese” che qualifica in modo nuovo la presenza e il coinvolgimento della chiesa nei problemi del paese. La CEI organizza il secondo convegno ecclesiale a Loreto nell’aprile 1985 dove il papa interviene e sottolinea che l’identità storica del popolo italiano non è separabile dal cristianesimo.

Dopo Loreto per la CEI e per la Chiesa italiana si apre una nuova fase. L’impostazione di papa Wojtyla alla CEI si armonizza e si incontra con la revisione del Concordato del 1984 e con l’attuazione per l’Italia del Codice di diritto canonico del 1983. Nel nuovo statuto del 1985 si riconosce alla CEI una competenza distinta da quella della Santa Sede per trattare con le autorità civili, questa valorizzazione della CEI non è estranea al progetto di Giovanni Paolo II per l’Italia. In questo decennio la CEI riprende le settimane sociali, si occupa del Mezzogiorno e lancia gli orientamenti pastorali per gli anni Novanta sul tema dell’evangelizzazione e la testimonianza della carità. Il segretario generale Ruini guida il potenziamento della CEI che coincide con il processo di rinnovamento wojtyliano della Chiesa italiana. Agli inizi del 1991 Ruini è il nuovo presidente della CEI, avverte subito l’esigenza di una nuova inculturazione della fede. Al convegno ecclesiale nazionale di Palermo del 1995 viene proposto un “progetto culturale ispirato e orientato in senso cristiano”.

La settimana sociale di Napoli del 1999 si interroga su “quale società civile per l’Italia di domani?”. È una domanda che proietta la CEI, e con essa la Chiesa italiana, nel terzo millennio. Nel 2005 muore Giovanni Paolo II, Benedetto XVI chiede alla CEI di “proseguire nel lavoro che avete intrapreso perché la voce dei cattolici sia costantemente presente nel dibattito culturale italiano”. Le linee pastorali della CEI per il primo decennio degli anni 2000 riguardano gli aspetti della comunicazione del Vangelo in un mondo che cambia. Il quarto convegno ecclesiale di Verona dell’ottobre 2006 costituisce un momento di questo piano pastorale in cui domina l’attenzione alla speranza. Il 7 marzo 2007 termina la presidenza di Ruini e il papa nomina Angelo Bagnasco, arcivescovo di Genova.

Fonti e Bibl. essenziale

G. Bonicelli, Conferenza Episcopale Italiana, in F. Traniello, G. Campanini (edd.), Dizionario Storico del Movimento Cattolico in Italia, I/2, Marietti, Torino 1981, 226-229; Enchiridion della Conferenza Episcopale Italiana, 1-8, Edizioni Dehoniane, Bologna 1985-2011; G. Alberigo, Santa Sede e vescovi nello Stato unitario. Verso un episcopato italiano (1958-1985), in G. Chittolini – G. Miccoli (edd.), La Chiesa e il potere politico dal medioevo all’età contemporanea, Einaudi , Torino 1986, 855-879; F. Sportelli, La Conferenza Episcopale Italiana (1952-1972), Congedo, Galatina 1994; La Conferenza Episcopale Italiana, in “Communio”, 149 (1996), 5-94; F. Sportelli, I vescovi italiani al Vaticano II: il ruolo della Conferenza Episcopale Italiana, in “Rivista di Scienze Religiose”, 23 (1998), 37-90; G. P. Milano, Santa Sede, Conferenza Episcopale Italiana, Conferenze episcopali regionali, province ecclesiastiche, vescovi diocesani: gerarchia delle fonti e ripartizione delle competenze, in G. Feliciani (ed.), Confessioni religiose e federalismo, Il Mulino, Bologna 2000, 127-155; P. Gheda, La Conferenza Episcopale Italiana e la preparazione del Concilio Vaticano II, in P. Chenaux (ed.), La PUL e la preparazione del Concilio, Mursia, Roma 2001, 99-119; A. Riccardi, I cinquant’anni della Conferenza Episcopale Italiana. Alle origini di una storia, supplemento a “L’Osservatore Romano”, Città del Vaticano, 2002, 3-22; A. Acerbi, La Chiesa italiana dalla conclusione del Concilio alla fine della Democrazia cristiana, in La Chiesa e l’Italia. Per una storia dei loro rapporti negli ultimi due secoli, A. Acerbi (ed.), Vita e Pensiero, Milano 2003, 449-520; G. Feliciani, La Conferenza episcopale come soggetto della politica ecclesiastica italiana, in “Quaderni di diritto e politica ecclesiastica”, 12 (2004), I, 249-256; R. Astorri, La Conferenza episcopale italiana, in M. Impagliazzo (ed.), La nazione cattolica. Chiesa e società dal 1958 a oggi, Guerini e associati, Milano 2004, 117-146; L. Bianco, La Conferenza Episcopale Italiana. Profilo storico e giuridico, Pontificia Universitas Gregoriana, Roma 2005; A. Acerbi A. – G. Frosini, Cinquant’anni di Chiesa in Italia. I convegni ecclesiali da Roma a Verona, Edizioni Dehoniane, Bologna 2006; F. Sportelli, CEI – Conferenza Episcopale Italiana, in Dizionario storico Le diocesi d’Italia. I, Le regioni ecclesiastiche, E. Guerriero, L. Mezzadri, M. Tagliaferri (edd.), Edizioni San Paolo, Cinisello Balsamo (Milano) 2007, 278-286; F. Sportelli, La Cei e la collegialità italiana, in A. Melloni (ed.), Cristiani d’Italia. Chiese, società, stato. 1861-2011, 2, Treccani. Istituto della Enciclopedia Italiana, Roma 2011, 841-852.


LEMMARIO




Conferenze Episcopali Regionali - vol. II


Autore: Francesco Sportelli

I processi risorgimentali degli anni Venti e Trenta dell’Ottocento, le rivoluzioni del 1848 e la creazione dello Stato unitario nel 1861, con la conseguente legislazione, pongono in maniera urgente ai vescovi italiani l’esigenza di abbandonare il proprio particolarismo diocesano e di intraprendere forme di collaborazione tali da permettere una azione efficace ed adeguata rispetto ai nuovi problemi che la Chiesa è chiamata ad affrontare. Con tale scopo si riuniscono conferenze regionali di vescovi nel luglio del 1849 a Villanovetta di Saluzzo, per la provincia torinese; a Napoli, per il Mezzogiorno d’Italia, nel novembre dello stesso anno e successivamente in Liguria, in Umbria, nella provincia di Vercelli. Dopo l’invito del papa dell’8 dicembre 1849 con l’enciclica Noscitis et Nobiscum, si riuniscono nel 1850 i vescovi delle Marche, della provincia di Urbino, della Sardegna, della Sicilia e della Toscana. Dopo il 1861 l’azione collettiva dell’episcopato italiano si sviluppa ulteriormente con proteste collettive contro la politica e le legislazioni ecclesiastiche del governo. L’episcopato italiano diventa, così, consapevole della positività e della fecondità di una azione episcopale concordata a livello territoriale. Fra il 1881 e il 1887 la Congregazione vaticana per gli Affari Ecclesiastici Straordinari avvia una riflessione per l’Italia sulle strutture di collegamento dei vescovi a base territoriale. A partire dal 1887 si fa serrato il dibattito vaticano teso ad abbandonare la formula del coinvolgimento solo di alcuni vescovi in ogni regione italiana e passare al coinvolgimento diretto di tutti i vescovi accorpati per aree geografiche al fine di far funzionare efficacemente il rapporto fra centro e periferia. Nel marzo del 1889 gli interrogativi romani vengono interrotti da un quesito dei vescovi delle “tre Puglie” che chiedono alla Santa Sede di rivedere la ripartizione ecclesiastica della loro area geografica e di giungere alla creazione di un vero e proprio “corpo regionale”.

L’iniziativa è dell’arcivescovo di Taranto Pietro Alfonso Jorio che nella lettera di accompagnamento al quesito sottolinea che i fatti accaduti in Italia dopo l’unificazione nazionale hanno reso necessaria una unione maggiore ed un aiuto reciproco fra i vescovi ed inoltre afferma che è ormai indispensabile una ripartizione dell’Italia meridionale in “tanti centri quante sono le regioni”. Leone XIII incarica i componenti della Congregazione per gli Affari Ecclesiastici Straordinari di discutere la richiesta. Questa Congregazione elabora la proposta di inviare all’episcopato italiano una lettera circolare che attribuisce ad “alcuni Arcivescovi e Vescovi d’Italia” la richiesta delle riunioni episcopali collettive e che suddivide l’Italia in regioni ecclesiastiche, prescrivendo adunanze collettive annuali. Si giunge così all’invio da parte della Congregazione dei Vescovi e Regolari della “Lettera circolare”, con la data del 24 agosto 1889, che indica i confini di 17 regioni ecclesiastiche in cui viene divisa l’Italia. Il documento vaticano chiede che le Conferenze regionali si riuniscano almeno una volta all’anno e promuovano l’uniformità della disciplina ecclesiastica, redigano atti collettivi, individuino linee comuni per superare le difficoltà di governo delle singole diocesi, uniformino nell’ambito regionale la formazione del clero, potenzino l’attività religioso-sociale del laicato.

Nel giro di pochi anni tutti gli episcopati delle nuove regioni ecclesiastiche italiane iniziano l’organizzazione e la celebrazione delle conferenze episcopali. Le norme vaticane del 1889 vengono confermate negli anni successivi: nel 1919 vengono ribadite dalla Congregazione Concistoriale e nel 1932 dalla Congregazione del Concilio. L’istituzione della Conferenza episcopale italiana, avviata nel 1952 e istituzionalizzata con uno Statuto nel 1954, non svuota di significato le conferenze regionali, ma ne valorizza l’importanza inquadrandole in un più ampio contesto di collaborazione, attribuendo alle conferenze regionali funzioni rilevanti all’interno della conferenza nazionale. Lo statuto della CEI del 1985 si preoccupa di assicurare che le conferenze regionali non costituiscano una sorta di riunione privata di vescovi, ma le raccorda con il contesto ecclesiale e sociale, esigendo che le conferenze regionali promuovano ed accolgano “la collaborazione dei presbiteri, dei diaconi, dei membri di istituti di vita consacrata e di società di vita apostolica, dei laici, attraverso i loro organismi istituzionali regionali” e lo stesso statuto richiede alle conferenze regionali di mantenere “rapporti con le autorità civili e con le realtà culturali, sociali e politiche delle regioni civili, al fine di contribuire, in spirito di sincera collaborazione, alla promozione umana delle popolazioni delle regioni stesse”. L’esplicita menzione delle conferenze regionali nell’Accordo di revisione del Concordato lateranense del 18 febbraio 1984 costituisce un riconoscimento significativo dell’importanza che esse assumono nella Chiesa italiana come elementi integranti nella sua struttura istituzionale. L’identità delle conferenze regionali italiane viene modificata e integrata da una serie di decreti con cui il 4 novembre 1994 la Congregazione per i vescovi attribuisce alle Regioni ecclesiastiche italiane la personalità giuridica canonica pubblica e contemporaneamente provvede ad approvare lo statuto di ogni Conferenza allo scopo di ottenere il riconoscimento delle Regioni ecclesiastiche quali enti ecclesiastici civilmente riconosciuti.

Fonti e Bibl. essenziale

M. Costalunga, De episcoporun conferentiis, in “Periodica de re morali canonica liturgica”, 49 (1968), 268-273; G. Feliciani, Azione collettiva e organizzazioni nazionali dell’episcopato cattolico da Pio IX a Leone XIII, “Storia contemporanea”, 3 (1972), 325-363; G. Feliciani, Legislazione ecclesiastica ed azione collettiva dell’episcopato italiano (1861-1878), in Studi in onore di Pietro Agostino d’Avack, II, Giuffré, Milano 1976, 225-275; G. Feliciani, Le regioni ecclesiastiche italiane da Leone XIII a Giovanni Paolo II, in G. Feliciani (a cura), Confessioni religiose e federalismo, Il Mulino, Bologna 2000, 103-155; A. Marani, Una nuova istituzione ecclesiastica contro la secolarizzazione. Le conferenze episcopali regionali (1889-1914), Herder editrice e libreria, Roma 2009.


LEMMARIO




Confessione, Penitenza - vol. II


Autore: Alessandra Costanzo

Nel XX secolo il percorso della teologia e della prassi penitenziale è segnato da alcune tappe decisive avvenute in Italia. Nel 1905 il decreto sulla comunione frequente, promulgato da papa Pio X, introduce la pratica di confessarsi altrettanto frequentemente (DS 3375-3383) prima di ricevere l’eucaristia. L’invito di Pio X viene recepito dai fedeli e trova un adeguato sostegno nell’attività penitenziale del frate cappuccino Pio da Pietrelcina. Ricevuta l’ordinazione presbiterale nel 1910 a Benevento, dal 1916 fino alla sua morte, avvenuta nel 1968, Padre Pio esercita il suo ministero a S. Giovanni Rotondo, ponendo al centro del suo apostolato l’amministrazione del sacramento della penitenza. Il suo carisma penitenziale attira per oltre 50 anni innumerevoli pellegrini, che egli accoglie con pronta disponibilità nel suo confessionale, rendendosi “generoso dispensatore della misericordia divina”, come ricorderà papa Giovanni Paolo II nell’omelia in occasione della canonizzazione di Padre Pio, avvenuta il 16 giugno 2002.

Intanto, pochi anni prima della morte del frate cappuccino, tra il 1962 e il 1965, si svolge il Concilio Vaticano II, che nella Costituzione sulla Sacra Liturgia richiede un rinnovamento del rito della penitenza in modo da esprimere più chiaramente il vero significato del sacramento (SC 72). Il Concilio si limita ad avanzare tale richiesta, senza entrare direttamente nella questione. Tuttavia la prospettiva ecclesiale, presente in tutti i documenti conciliari, e che ricorre anche laddove si parla del sacramento della penitenza (cfr. LG 11 b; PO 5 a; LG 11 b; 8 c, 65, UR 3,7) offre già un’indicazione utile per operare quel rinnovamento, richiesto dalla SC, relativamente alla celebrazione del sacramento. Prima di realizzare tale compito passano circa 10 anni.

Nel frattempo, all’indomani del Concilio, il 17 febbraio 1966, papa Paolo VI promulga la Costituzione apostolica Paenitemini, sulla disciplina penitenziale. Il documento, articolato in tre parti, in cui vengono presi in esame gli aspetti biblici e teologici, pratici e normativi della penitenza, recepisce la prospettiva ecclesiale indicata dal Vaticano II, ritenendo la Chiesa santa per vocazione divina, ma allo stesso tempo continuamente bisognosa di conversione nelle sue membra (LG 8). La penitenza dunque, pur essendo un atto religioso personale, che richiede un intimo e totale cambiamento interiore, capace di esprimersi in forme penitenziali visibili, riguarda tutti i fedeli, chiamati a partecipare all’opera di Cristo.

L’anno di promulgazione della Paenitemini, il 1966, segna anche l’inizio del lavoro delle commissioni per la riforma del rito, promossa dal Concilio; lavoro che trova il suo compimento solo il 2 dicembre 1973, quando papa Paolo VI promulga il nuovo Ordo paenitentiae (l’edizione italiana è dell’8 marzo 1974). Nel frattempo infatti era emersa in piena luce la crisi del sacramento della penitenza, sicché non ci si poteva limitare alla riforma del rito, ma si dovevano analizzare tutti gli elementi (storici, teologici e pastorali) per rispondere ai problemi che affliggevano la prassi sacramentale e operare un efficace rinnovamento rituale. Necessaria è stata un’attenta riflessione sulla natura del sacramento, che si è alimentata del confronto con il decreto tridentino e la fonte biblica. Il nuovo Ordo riprende lo schema classico del Concilio di Trento per la struttura del sacramento, che si compone di quattro parti; tuttavia ne modifica l’ordine, iniziando non più dall’assoluzione, ma dagli atti del penitente, che acquistano così un rilievo non ancora conosciuto a Trento. Dalla fonte biblica il nuovo Ordo recupera il concetto di metanoia, intesa come “conversione del cuore”, che diviene l’elemento chiave sul quale si fonda tutta la riforma, a livello teologico, pastorale e rituale. Ogni singola componente del sacramento viene infatti definita in rapporto alla metanoia, che si rivela così l’elemento unificante di tutte le parti. Il rilievo dato alla conversione del cuore si riflette anche sul ruolo del ministro, considerato non più, come a Trento, simile a un giudice, ma, in linea con le immagini bibliche, simile a un Padre e Pastore, rappresentante di Cristo e dell’intera Chiesa che, come insegnano il Vaticano II e la Paenitemini, partecipa attivamente all’opera di conversione del peccatore attraverso la carità, l’esempio e la preghiera. All’interno di questo quadro ecclesiologico, il nuovo Ordo prevede, oltre al rito ordinario per la riconciliazione dei singoli penitenti, anche altre due forme rituali non ordinarie: il rito per la riconciliazione di più penitenti con confessione e assoluzione individuale e quello per la riconciliazione di più penitenti con confessione e assoluzione generale. Entrambe queste forme presentano carattere di eccezionalità, nella misura in cui sono concretamente realizzabili in piccole comunità (secondo rito) o laddove si presenti una grave necessità (terzo rito). Coerentemente con il rilievo dato alla metanoia, il nuovo Ordo prevede inoltre la possibilità di celebrazioni penitenziali non sacramentali, che pur essendo prive del momento rituale dell’assoluzione (dunque ben distinte dal sacramento della penitenza), intendono tuttavia suscitare, attraverso l’ascolto della Parola di Dio, la conversione del cuore.

Dieci anni dopo la promulgazione dell’Ordo paenitentiae, nel 1983, si riunisce il Sinodo dei vescovi sulla “Riconciliazione e penitenza nella missione della Chiesa”, da cui scaturisce, nel 1984, l’Esortazione apostolica di papa Giovanni Paolo II Reconciliatio et paenitentia. Il documento si apre con un proemio, nel quale dall’invito a riscoprire le parole del vangelo di Marco – “convertitevi e credete al vangelo” – sorge la domanda sulle ragioni della conversione. L’analisi dei segni di divisione presenti nel mondo e nella stessa realtà ecclesiale conduce il papa ad individuare nel peccato la radice di tutte le lacerazioni e a riscoprire nella nostalgia della riconciliazione la possibilità di un cammino di autentica metanoia. Dopo il proemio, l’Esortazione prosegue articolandosi in tre parti: nella prima, il papa rileva che sia compito della Chiesa operare per la conversione del cuore e la riconciliazione degli uomini, sottolineando però che per essere riconciliatrice la Chiesa deve essere riconciliata, testimone di riconciliazione anzitutto al suo interno. Nella seconda parte del documento, il papa riflette sul peccato come rottura della relazione con Dio e con i fratelli, ed individua, come peccato del secolo, attivo nel mondo e nella Chiesa, la perdita del senso del peccato. Invita così a recuperare il mysterium iniquitatis da parte dell’uomo, ma anche a riscoprire il mysterium pietatis da parte di Dio, che è l’amore più potente di ogni peccato. Nella terza parte dell’Esortazione, il papa si occupa della pastorale della penitenza, considerando la catechesi e i sacramenti come strumenti fondamentali attraverso i quali la Chiesa può suscitare la conversione e offrire il dono della riconciliazione. Benché il sacramento della penitenza non esaurisca in se stesso il cammino della metanoia (che si esprime anche in altre forme), tuttavia il papa si sofferma sul quarto sacramento come segno efficace della misericordia divina; ne sottolinea il carattere terapeutico e la dimensione personale ed ecclesiale, che sostengono il penitente nel suo sforzo di autentica conversione del cuore e di vita.

L’esigenza della conversione, che l’Esortazione apostolica estende dalla realtà ecclesiale al mondo, viene ribadita dal secondo convegno della Chiesa italiana, che si svolge a Loreto dal 9 al 13 aprile 1985, sul tema “Riconciliazione cristiana e comunità degli uomini”. La riflessione del convegno si colloca in un delicato momento storico del Paese, messo a dura prova dagli anni bui del terrorismo, e quindi particolarmente sensibile alla domanda di riconciliazione. Il discorso di papa Giovanni Paolo II, tenuto l’11 aprile, affronta in modo sistematico i nodi fondamentali della difficoltà della riconciliazione, sia all’interno della Chiesa che nel suo rapporto con la realtà sociale italiana. Come nell’Esortazione apostolica Reconciliatio et paenitentia, il papa sottolinea l’importanza di una Chiesa internamente riconciliata per poter essere primizia del mondo riconciliato. Il pontefice invita inoltre a riscoprire il sacramento della penitenza nella pienezza della sua dimensione personale e comunitaria, e richiama l’attenzione sul rapporto tra la celebrazione della misericordia e la rigenerazione di un impegno morale che corrisponda alla misericordia ricevuta, attraverso il contributo che la Chiesa è chiamata a dare, in ambito culturale, sociale e politico, alla costruzione della comunità degli uomini.

In linea con questa riflessione sulla relazione Chiesa-mondo, il 30 dicembre 1987 viene pubblicata l’enciclica Sollicitudo rei socialis, in cui il papa affronta le questioni inerenti la condizione di grave disparità sociale ed economica che affligge il mondo contemporaneo, e propone il rispetto e la promozione della dignità della persona perché si possa realizzare un autentico sviluppo a vantaggio di tutti. Nella sua “lettura teologica dei problemi moderni” (capitolo V del documento, che si articola in 7 capitoli), il pontefice individua alcune “strutture di peccato”, cui il mondo risulta sottomesso. Egli rileva che tali strutture, radicate nel peccato personale – come già aveva sostenuto nell’Esortazione apostolica Reconciliatio et paenitentia – sono introdotte dalla brama del profitto e dalla sete di potere, ricercati a qualunque prezzo. Di qui l’invito, rivolto a tutti gli uomini, anche a quelli privi di una fede esplicita, a prendere coscienza dell’urgente necessità di un cambiamento degli atteggiamenti spirituali per ridefinire il rapporto con se stessi, con gli altri e con la natura. In particolare, ai cristiani il papa rivolge il suo appello alla conversione, attraverso la quale possano vincere le strutture di peccato, sostituendo alla brama del profitto e alla sete di potere gli atteggiamenti opposti della disponibilità a perdersi in favore e a servizio dell’altro.

A distanza di cinque anni dall’enciclica Sollicitudo rei socialis, nel 1992 viene pubblicato il Catechismo della Chiesa cattolica, che dedica al sacramento della penitenza un’ampia sezione, articolata in ben 62 paragrafi (parr. 1422-1484), a cui ne seguono altri 13 di sintesi (parr. 1485-1498). Il Catechismo offre dunque una trattazione teologica che intende comprendere tutti gli aspetti del quarto sacramento, nella quale confluiscono le acquisizioni maturate nel corso della riflessione teologica precedente, in particolare quelle espresse nel decreto tridentino e nell’Ordo paenitentiae.

Di assoluta novità è invece il documento Memoria e riconciliazione: la Chiesa e le colpe del passato, ad opera della Commissione Teologica Internazionale, pubblicato il 7 marzo 2000, in occasione della celebrazione del Giubileo. Il documento viene redatto infatti in vista della Giornata del perdono, che si tiene alcuni giorni dopo (il 12 marzo) nella basilica di S. Pietro a Roma: si tratta di un atto penitenziale senza precedenti nella storia, in cui il papa, a nome della Chiesa, chiede perdono delle colpe commesse dai cristiani nel passato. Il riconoscimento di tali colpe sorge dall’esigenza di una “purificazione della memoria”, della quale avevano già sottolineato l’importanza, al fine di vivere la grazia del Giubileo, la Lettera apostolica Tertio Millennio Adveniente (10 novembre 1994) e la Bolla di indizione dell’Anno Santo del 2000, Incarnationis mysterium (29 novembre 1998). La purificazione della memoria si fonda sulla fiducia nella forza della Verità ed è volta alla glorificazione di Dio, nella misura in cui la confessione della sua misericordia si realizza attraverso la confessione delle colpe. Il documento Memoria e riconciliazione si compone di sei capitoli e si propone di chiarire i presupposti che rendono fondato il pentimento relativo a colpe passate. Il giudizio storico deve infatti coniugarsi con quello teologico per individuare le implicanze morali, pastorali e missionarie del pentimento. Come nell’Esortazione apostolica Reconciliatio et paenitentia, il papa riconosce che il peccato è personale, e pertanto nessuno può sostituirsi al peccatore nella sua richiesta di perdono; tuttavia è la stessa particolare natura del soggetto ecclesiale – per cui la comunione nell’unico Spirito fa sì che i cristiani di oggi si sentano legati a quelli di ieri – a rendere ragione della domanda di perdono delle colpe passate. Così, a nome della Chiesa, papa Giovanni Paolo II opera la purificazione della memoria, chiedendo perdono, per la prima volta nella storia, dei comportamenti dei cristiani che hanno contraddetto il Vangelo (per citarne solo alcuni: la divisione delle Chiese; l’uso della violenza nell’evangelizzazione; i pregiudizi antigiudaici; la responsabilità per i mali di oggi). Dal riconoscimento delle colpe e dalle richieste di perdono formulate dal papa scaturisce il monito a non ripetere gli errori del passato e a favorire un percorso di rinnovamento e riconciliazione. Al tempo stesso però la purificazione della memoria costituisce un esempio, che richiama ogni uomo ad un esame di coscienza attento e onesto del proprio operato in vista della riconciliazione.

Due anni dopo la pubblicazione del documento sulle colpe del passato, il 7 aprile 2002 papa Giovanni Paolo II pubblica la Lettera apostolica Misericordia Dei su alcuni aspetti della celebrazione del sacramento della penitenza per favorire un modo migliore di amministrarlo. Egli rileva con preoccupazione che in alcuni luoghi si tende sempre più a trascurare la confessione personale in favore di un ricorso abusivo all’assoluzione generale, dimenticando che questa è un mezzo straordinario previsto in situazioni del tutto eccezionali. Il papa invita dunque a ricordare che la confessione individuale è l’unico modo ordinario attraverso il quale il fedele è riconciliato con Dio e con la Chiesa e che le altre forme rituali della celebrazione sono possibili solo in casi di estrema necessità. Nel 2009 viene indetto l’Anno sacerdotale, dedicato alla figura del curato d’Ars, san Giovanni Maria Vianney (1786-1859), del quale ricorre il 150° anniversario della morte. Frutto dell’Anno sacerdotale sarà, nel 2011, il sussidio della Congregazione per il Clero, dal titolo Il sacerdote ministro della misericordia divina, che vuole essere uno strumento utile alla riscoperta del valore della celebrazione del sacramento della riconciliazione e della direzione spirituale.

Fonti e Bibl. essenziale

Studi: E. Mazza, La celebrazione della penitenza. Spiritualità e pastorale, EDB, Bologna 2001; G. Pasquale, Padre Pio. Maestro e guida dell’anima. Le lettere del santo di Pietrelcina, San Paolo, Cinisello Balsamo (Milano) 2006; J. Ramos-Regidor, Il sacramento della penitenza. Riflessione teologica biblico-storico-pastorale alla luce del Vaticano II, ElleDiCi, Leumann (Torino) 1972; A. Costanzo, Cambiare vita. Epoche, parole e fonti del “fare penitenza”, San Paolo, Cinisello Balsamo (Milano) 2014. E. Mazza, La liturgia della penitenza nella storia. Le grandi tappe, EDB, Bologna 2013. W. Kasper, Misericordia. Concetto fondamentale del vangelo – Chiave della vita cristiana, Queriniana, Brescia 2013. Documenti magisteriali (in ordine cronologico): Paolo VI, Costituzione apostolica Paenitemini del 17/02/1966; Ordo paenitentiae del 2/12/1973; Giovanni Paolo II, Esortazione apostolica Reconciliatio et paenitentia del 2/12/1984; Id., Enciclica Sollicitudo rei socialis del 30/12/1987; Il Catechismo della Chiesa cattolica, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 1992, nn. 1422-1498; Commissione Teologica Internazionale, Memoria e riconciliazione: la Chiesa e le colpe del passato del 7/03/2000; Giovanni Paolo II, Lettera apostolica Misericordia Dei del 7/04/2002; Congregazione per il Clero, Il sacerdote ministro della misericordia divina. Sussidio per confessori e direttori spirituali, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 2011. Integrazioni bibliografiche: Associazione italiana “Noi siamo Chiesa”, Confessione addio?, edizione la meridiana paginealtre, 2005; Giuseppe Sovernigo, L’umano in confessione: la persona e l’azione del confessore e del penitente, Edizioni Dehoniane: Bologna, 2003; Jan Dohnalik, Il precetto pasquale: la normativa sulla Comunione e la Confessione annuale (cann. 920 e 989) alla luce della tradizione canonica, Pontificia Università Gregoriana: Roma, 2015; Vincentius Kraljic, La celebrazione liturgica della penitenza comunitaria come forma penitenziale autonoma e propria: analisi liturgico-dogmatica, Angelicum, Roma, 1974; Bronislaw Sienczak, Partecipazione dei fedeli al sacramento della penitenza, Pontificia Università Gregoriana, 1974; Pietro Hui Nam Kim, La penitenza: il sacramento della conversione e riconciliazione: riflessione teologico-pastorale alla luce del Concilio Vaticano II, Pontificia Università Urbaniana, Roma, 1991; Fabio Fabbi, La confessione dei peccati nel cristianesimo, Ed. Pro Civitate Christiana, Assisi, 1947.


LEMMARIO




Confraternite laicali - vol. II


Autore: Emanuele Boaga †

La situazione delle confraternite laicali (= c.) agli inizi dell’unità d’Italia rifletteva in gran parte le alterne vicende da esse subite nella prima metà del secolo XIX e che avevano avviato per molte di esse un lento ma inesorabile affievolimento di presenza nel tessuto sociale e religioso. A peggiorare questo stato giunse da parte del governo italiano una serie di leggi emanate tra il 1870 e il 1890 per regolare la situazione delle c. nel contesto dei criteri da seguire in vista del riconoscimento statale degli enti di beneficenza. Ciò portò un profondo sconvolgimento del mondo confraternale, con l’estinzione di una gran numero di c., alcune già del tutto esaurite ed altre ancora vitali e ben presenti nella vita associativa cittadina. In questo contesto si ebbe anche la pubblicazione di opuscoli di propaganda e libelli degrignatori che diedero vita a polemiche molte accese. Così il termine c. divenne sinonimo di associazione ristretta, di arretratezza, e di malevoli preconcetti. Inoltre la legge del 18 luglio 1904, n. 390, stabiliva che le c. erano sottoposte alla commissione provinciale di assistenza e pubblica beneficenza per l’approvazione dei bilanci e per gli atti eccedenti la semplice amministrazione. Solo più tardi, con l’articolo 29 del Concordato del 1929 tra lo Stato Italiano e la S. Sede, verrà stabilito che le c., aventi scopo esclusivo o prevalente di culto, dipendono dall’autorità ecclesiastica; e per tutte le c. esistenti prima del 1929 verrà riconosciuta la loro personalità giuridica.

Sul finire del secolo XIX in varie c. si registrava un impegno ad affrontare i problemi che venivano posti per la loro esistenza, in rapporto alla loro finalità di culto e di beneficenza. Per portare un esempio, nel 1899 a Pisa fu creata l’Unione Federativa delle Misericordie (divenuta in tempi più recenti la Confederazione Nazionale delle Misericordie).

Con la promulgazione del Codice di Diritto Canonico del 1917 si ebbe un organico complesso normativo sia per le c. “storiche” sia per quelle nuove. Così il Codice pio-benedettino riconosceva ai fedeli il diritto di associarsi, il riconoscimento giuridico e l’erezione formale delle conseguenti associazioni, e per le c. stabiliva norme circa la loro istituzione, l’amministrazione dei beni temporali, lo stabilire statuti, il tenere adunanze, il cambio di sede. Inoltre l’atteggiamento ecclesiastico verso le c. sottolineava in quegli anni che le c. non portassero alcun pregiudizio ai diritti del parroco nella chiesa parrocchiale, e in casi di dubbio e di contestazione la decisione spettasse all’Ordinario del luogo.

Dopo la prima guerra mondiale per la vita delle c. conobbe un’altro periodo di difficoltà abbastanza lungo e che si è protratto fino ai tempi dopo il Concilio Vaticano II, e la conseguente fase iconoclastica, durante la quale venne spesso a mancare la dovuta e indispensabile attenzione da parte di chi aveva il compito di proteggerle e vivificarle. Così si verificava un progressivo abbandono e la fine per inedia di molte c. Un’eccezione fu l’attenzione dei vescovi pugliesi al mondo confraternale, per il quale scrissero una lettera pastorale collettiva.

Dagli anni ‘80 del secolo scorso il cammino storico delle c. italiane viene segnato da due aspetti. Il primo presenta una ripresa di queste istituzioni, assai rilevanti per la pietà popolare, anche con un interessante diffondersi di nuove c. Questo risveglio comprende certamente tante cose, piccole o grandi, ma sicuramente la più importante è quella di adeguare ancor più lo stile della vita confraternale al messaggio del Concilio Vaticano II, trasformando il partecipare alla vita della c. stessa in esperienza personale e comunitario di “cammino di fede”. Così l’attenzione ad una serie di valori e di gesti rafforza e motiva l’impegno dei membri delle c. Ormai risulta chiaramente dalle numerose pagine web di c. che la loro vita non viene più ridotta ad alcune attività con al centro la processione annuale in onore dalla Madonna o di un santo patrono, o per la Settimana Santa, ma si apre sempre più a una intensa vita di preghiera, di partecipazione a celebrazioni liturgiche attraverso il calendario mensile delle attività, la carità come solidarietà aiuto, amicizia e comunione con le persone del territorio. Realtà che stanno divenendo la chiave di lettura dell’agire confraternale e la ragione, ancor oggi, della sua esistenza vitale radicata nel territorio. Un contributo notevole a questa ripresa e revisione della vita confraternale è stato dato e viene ancora offerto dalla rivista Confraternite oggi pubblicata dal 1983-1984, e soprattutto dalla Confederazione delle Confraternite delle Diocesi d’Italia, eretta dalla C.E.I. il 14 aprile 2000 con sede in Roma.

Il secondo aspetto riguarda invece quelle confraternite che risultano non più operanti. Negli ultimi anni la Conferenza Episcopale Italiana ha invitato i vescovi diocesani a procedere alla soppressione di queste c. “quiescenti”. In sintonia con tale orientamento il Ministero degli Interni ha promosso un’attività di rilevazione di tali c. per verificare, tramite le Prefetture-Uffici territoriali di Governo e le Diocesi competenti, se esistano ancora, se siano operanti, se abbiano mutato natura giuridica, al fine di eliminare dall’ordinamento italiano tutti quegli enti ritenuti inutili o non più funzionanti. Nel decreto di estinzione della c. emanato dall’ordinario diocesano di competenza, deve venire specificato l’ente ecclesiastico cui sono devoluti i beni mobili e immobili.

In questo contesto si apre la via anche ad un’altra soluzione, quella di riattivare le c. dormienti. Un esempio è l’azione vigile svolta dai Priorati diocesani di Genova e Savona che, in sintonia con le varie curie, e mettendo in atto le disposizione della C.E.I., hanno proceduto a sensibilizzare e a valorizzare confratelli sfiduciati e stanchi riuscendo a rivitalizzare diverse c. salvandole così dall’estinzione.

Fonti e Bibl. essenziale

Finora manca uno studio sul percorso delle c. in Italia dal 1861 in poi. Si sono utilizzate informazioni date da monografie locali, e dalle pagine web di molte confraternite e in modo particolare www.chiesacattolica.it/confraterniteoggi.


LEMMARIO




Congregazione degli Affari Ecclesiastici Straordinari - vol. II


Autore: Roberto Regoli

La Congregazione degli Affari Ecclesiastici Straordinari nasce con papa Pio VII il 19 agosto 1814, quale istituzione permanente, di natura consultiva, a disposizione della Segreteria di Stato nella trattazione degli affari ecclesiastici. Essa è progettata quale aiuto principale al Papato nell’opera di Restaurazione.

Struttura

La Congregazione è costituita dai cardinali membri, che ne determinano le decisioni. In funzione del lavoro esiste una struttura stabile, operativa ed amministrativa, composta da un segretario, da un sottosegretario, da minutanti ed archivisti. I cardinali membri sono i più rilevanti per il loro ruolo in Curia. A seguito della riforma della Curia del 1908 (costituzione Sapienti Consilio), l’organico della Congregazione viene inserito nella nuova Segreteria di Stato, in una sezione denominata “prima”. Da allora gli officiali della Congregazione sono anche gli officiali della Segreteria di Stato. Sulla struttura interviene una riforma di Pio XI nel 1925, che oltre a stabilire i membri di diritto della Congregazione, determina che a capo vi sia un vero e proprio prefetto, così come avveniva per tutte le altre strutture similari, e stabilisce che lo sia il segretario di Stato. Si esce così dall’anomalia, unica del suo genere, di una Congregazione permanente priva di un prefetto.

Competenze

Le questioni rimesse alla Congregazione concernevano inizialmente i complessi rapporti tra Stato e Chiesa, i problemi spirituali, dogmatici, morali e disciplinari. Era di fatto una competenza vasta ed indeterminata, che a volte invadeva ambiti non evidentemente propri, come l’esame nel febbraio del 1848 dell’opera «Il Gesuita moderno» di Gioberti, che sarebbe stata questione propria dell’Indice. Le competenze rimasero tali fino alla riforma curiale del 1908, quando l’azione della Congregazione è limitata agli affari per i quali occorre alla Santa Sede procedere d’intesa con i Governi civili, massimamente in relazione ai concordati. Allo stesso tempo, alcuni territori (le province dell’America Latina, le diocesi in Russia e i possedimenti coloniali portoghesi d’Asia e d’Africa) vengono sottratti alla sua giurisdizione, eccezion fatta per le questione inerenti la stipulazione dei concordati con le autorità civili, mentre altri le sono affidati (Inghilterra, Scozia, Irlanda, Olanda, Lussemburgo, Canada, Terra Nuova e Stati Uniti d’America fino a quel momento sotto Propaganda Fide). In definitiva, l’influsso della Congregazione rimane pressoché invariato, anche se tende ad essere più significativo nel cosiddetto blocco occidentale, dove il cattolicesimo è meglio strutturato, all’interno di regimi politici più stabili. Le attribuzioni della Congregazione vengono ulteriormente confermate e meglio definite nel Codice di Diritto Canonico del 1917, al canone 255, specificando la sua competenza in relazione alle nomine episcopali per i paesi in cui ci sono accordi («pacta»). Nonostante la chiarificazione delle competenze, si hanno diverse testimonianze di frizioni con la Congregazione Concistoriale in relazione alle nomine vescovili, sicuramente in Francia (dopo la reprise del 1921) e in Italia (dopo il concordato del 1929). In quest’ultimo paese solo poche nomine passano di fatto per gli Affari Ecclesiastici Straordinari (nel 1929 L’Aquila, Crema, Pinerolo e Pontremoli), ma senza incisività in quanto alla fine le decisioni dei cardinali sono cambiate da Pio XI, anche là dove c’era unanimità di voti. In quello stesso anno, il papa fa presente che per l’Italia «non è favorevole ad una sollecita riduzione di diocesi, potendosi far peggio, però esige che per il mantenimento di diocesi si abbia la garanzia di un minimo per la vita conveniente e prospera di esse». A volte le due Congregazioni devono necessariamente cooperare alla pari, come nel caso della diocesi di Gorizia e del suo vescovo (1925), quando quest’ultimo viene contestato davanti al governo italiano e al papa da pochi preti per mancanza di lealtà governativa. L’ambito operativo della Congregazione si allarga nel 1922, quando le sono affidate Svezia, Norvegia, Danimarca e Finlandia, e nel 1923, quando i territori coloniali africani ed asiatici del Portogallo rientrano nuovamente nella sua giurisdizione. Rispetto alla Segreteria di Stato, si nota una graduale fagocitazione della Congregazione, sin da inizio Novecento. La Congregazione diviene di fatto sempre più luogo di riflessione di fronte alle emergenze e crisi degli anni Trenta del Novecento: si pensi in particolare alla situazione politico-religiosa in Spagna e Germania. Le grandi questioni sono affiancate da altre meno rilevanti. Per il Regno d’Italia, ad esempio, la Congregazione tratta nel 1924 dell’Ordine militare Costantiniano sotto il titolo di S. Giorgio, dal quale la Santa Sede prende distanza. Alcune questioni che possono apparire secondarie, come l’aumento di congrua ai capitoli minori di Roma (16 agosto 1925), vanno comprese ed affrontate in una visione politica più ampia, che dice del rapporto Chiesa-Stato in Italia:la Santa Sede nel tempo della legge delle guarentigie non può permettere a nessun capitolare romano o suburbicario di chiedere aumenti di congrua al governo italiano, perché corrisponderebbe ad una legittimazione del Regno.

Funzionamento

Le riunioni della Congregazione possono essere plenarie (quando è convocato l’insieme dei suoi membri), particolari (una parte dei suoi componenti) o miste (insieme a cardinali membri di altre Congregazioni). Durante il pontificato di Leone XIII (1878-1903) esiste un’altra modalità di riunione denominata commissione, includente uno stretto numero di cardinali. La Congregazione tratta le tematiche che le vengono trasmesse dalla Segreteria di Stato ed è il segretario di Stato a dare corso alle risoluzioni approvate. Le riunioni cardinalizie sono discontinue, dipendono dalla volontà superiore (papa e cardinale segretario di Stato) di voler coinvolgere la Congregazione o meno. Anche là dove vi è una sua chiara competenza, come per le questioni concordatarie, non sempre è convocata. La stessa constatazione vale per le nomine episcopali, gli ordinamenti ecclesiali, le relazioni diplomatiche e via dicendo. Il reale spazio operativo della Congregazione dipende dalle esigenze dei papi e dei segretari di Stato, cioè dal loro temperamento, carattere, cultura, progetto di governo e visione ecclesiale. Nel tempo si arriva all’eliminazione del ruolo decisionale dei cardinali membri della Congregazione, quando questa si trasforma da Congregazione cardinalizia a Gabinetto di Governo, divenendo prima Consiglio per gli Affari Pubblici della Chiesa (costituzione di Paolo VI Regimini Ecclesiae universae del 1967) e poi l’attuale seconda sezione della Segreteria di Stato (costituzione Pastor Bonus del 1988, firmata da Giovanni Paolo II). La seconda parte del Novecento costituisce la lenta agonia della Congregazione, che, cambiando il nome nel 1967, muore nel 1988, essendo soppiantata da una Segreteria di Stato sempre più forte e presente nei lavori della Curia.

Riguardo all’Italia

Dando uno sguardo all’Italia, la Congregazione interviene su più ambiti sin dal tempo degli Stati pre-unitari, come anche sotto il Regno d’Italia. Proprio al 1861 risalgono le riunioni che si preoccupano delle soppressioni di congregazioni religiose, collegiate, abbazie, cappellanie, conventi, ecc. attuate da parte del nuovo governo italiano per i territori umbri e marchigiani (cioè del precedente Stato Pontificio). Delle soppressioni, in realtà, quella Congregazione se ne era occupata anche negli anni precedenti per i diversi territori italiani, secondo la più ampia categoria interpretativa delle «pretenzioni» e «usurpazioni» governative sull’amministrazione ecclesiastica. Nell’attenzione all’orbe cattolico, si erano seguiti da vicino gli avvenimenti del 1848 e il processo di unificazione italiana. È in questo contesto che nel 1860 i vescovi italiani ottengono speciali facoltà. E sono proprio questi che nel 1865 chiedono istruzioni sulle elezioni parlamentari, tanto che i cardinali della Congregazione devono discuterne. Questione che sarà dibattuta ancora nel 1868. Curiosamente i cardinali non si occupano per niente dell’Italia tra il 1870 ed il 1875, un periodo stranamente lungo, nonostante le evidenti tensioni tra le due sponde del Tevere. A partire da quel tempo, le questioni presentate ai cardinali riguardano affari ecclesiastici ma con implicazioni e conseguenze politiche relative al governo italiano (regio exequatur, provviste di priorati, ecc.). Un esempio particolare riguarda l’atteggiamento della Sede Apostolica in occasione della morte e dei funerali del re italiano Vittorio Emanuele (1878). Questioni più volte affrontate dai cardinali hanno a che fare con le nomine episcopali (là dove il governo italiano pretende la nomina regia) o le collazioni di benefici ecclesiastici. Per tutta l’ultima parte del XIX secolo, le nomine episcopali sono la questione principe, affiancata dalla ricerca da parte dei porporati dell’individuazione di atteggiamenti e modi di procedere dell’episcopato italiano nel contesto politico-religioso di allora. La Congregazione si occupa della partecipazione dei cattolici alle elezioni politiche sin dal 1882, ma è sul finire del pontificato di Leone XIII che i maggiori temi di attualità politica e del movimento cattolico entrano nelle discussioni cardinalizie: la Democrazia Cristiana ed il più ampio movimento sociale cattolico (1899-1903). Con un papa pastore (Pio X) ed un segretario di Stato non italiano (Merry del Val), la Congregazione ha una visione più mondiale e per niente italiana. Le problematiche peninsulari vengono affrontate solo in una riunione nei primi mesi del pontificato, che appare più una conclusione di un dossier del precedente pontificato, che un nuovo impulso, trattandosi ancora una volta della Democrazia Cristiana e dell’Opera dei Congressi. Secondariamente si affronta in una sola riunione la politica del governo italiano, ma in relazione ai missionari dello Chan-si. È con un papa diplomatico e politico (Benedetto XV) che l’Italia ridiviene significativa, ma ancora marginale nelle discussioni della Congregazione, sia in relazione alle contingenze della prima guerra mondiale, sia nella problematica più tipicamente peninsulare circa la partecipazione dei cattolici italiani alle elezioni politiche. Tra le due guerre mondiali (per lo più sotto Pio XI) le problematiche italiane sono affrontate, ma solamente quelle secondarie (ad esempio non si discute dei Patti Lateranensi del 1929). Il papa è attento all’ordinamento ecclesiastico dell’Etiopia (in quel momento colonia italiana) per la quale richiede un’adunanza in sua presenza (1937). Si può allora comprendere che a partire dal pontificato di Pio X le questioni italiane sono trattate direttamente dal papa e dalla Segreteria di Stato, evitando il più possibile di passare per le istanze collegiali della Congregazione. L’attività di questa Congregazione aiuta a vedere effettivamente il pensiero e lo sguardo della Santa Sede sulla società ed il paese Italia, come la reale consistenza del rapporto tra episcopato nazionale e mondo romano, che veramente determina ed indirizza le forme ecclesiali della Penisola.

 

Fonti e Bibl. essenziale

Alessandro Colombo, Una fonte per la storia del movimento sociale cattolico tra Otto e Novecento. L’archivio della S. Congregazione degli AA.EE.SS., in«Bollettino dell’Archivio per la storia del movimento sociale in Italia», 33 (1998) 267 – 273. Niccolò Del Re, La Curia romana. Lineamenti storico-giuridici, Edizioni di storia e letteratura, Roma 19984, 428-434. François Jankoviak, La Curie romaine de Pie IX à Pie X : le gouvernement central de l’Eglise et la fin des Etats pontificaux (1846-1914), (Bibliothèque des Ecoles françaises d’Athènes et de Rome, 330), Ecole française de Rome, Rome, 2007. Lajos Pásztor, La Congregazione degli Affari Ecclesiastici Straordinari tra il 1814 e il 1850, in «Archivum Historiae Pontificiae», 6 (1968), 191–318. Lajos Pásztor, Archivio della Congregazione degli Affari Ecclesiastici Straordinari, in Id., (a cura di), Guida delle fonti per la storia dell’America Latina negli Archivi della Santa Sede e negli archivi ecclesiastici d’Italia, Libreria Editrice Vaticana,Città del Vaticano 1970, (Collectanea Archivi Vaticani, 2), 305 – 328. Laura Pettinaroli, Les sessions de la congrégation des Affaires ecclésiastiques extraordinaires : évaluation générale (1814-1939) et remarques sur le cas russe (1906-1923), in MÉFRIM 122/2 (2010), pp. 493-537. Diego Pinna, Leone XIII, la Congregazione degli Affari Ecclesiastici Straordinari e l’Italia. Direttive papali e orientamenti cardinalizi nel primo decennio del pontificato leonino (1878-1887), in “Chiesa e Storia”, 2 (2012), 331-354. Roberto Regoli, Il ruolo della Sacra Congregazione degli Affari Ecclesiastici Straordinari durante il pontificato di Pio XI, in C. Semeraro (a cura di), La sollecitudine ecclesiale di Pio XI. Alla luce delle nuove fonti archivistiche. Atti del Convegno Internazionale di Studio. Città del Vaticano, 26-28 febbraio 2009, Città del Vaticano, 2010 (Pontificio Comitato di Scienze Storiche. Atti e Documenti, 31), pp. 183-229. Roberto Regoli,Congrégation pour les Affaires ecclésiastiques extraordinaires, in Christophe Dickès, (dir.), Dictionnaire du Vatican et du Saint-Siège, con la collaborazione di Marie Levant e Gilles Ferragu, Robert Laffont, Paris 2013, 309-312. Roberto Regoli, Decisioni cardinalizie ed interventi papali. Il caso della Congregazione degli Affari Ecclesiastici Straordinari, in Laura Pettinaroli (ed.), Le gouvernement pontifical sous Pie XI. Pratiques romaines et gestion de l’universel, École française de Rome, Rome 2013 (Collection de l’École française de Rome, 467), 481-501.


LEMMARIO




Congregazione del Sant'Uffizio - vol. II


Autore: Francesco Castelli

I primi mesi del pontificato di Pio X (1903-1914) segnarono, per il Sant’Uffizio, l’inizio di un periodo di intensa elaborazione normativa e di definizione (sia pur in continuità con il passato) dei propri aspetti istituzionali e procedurali. I primi interventi legislativi si ebbero già il 17 dicembre 1903 quando con il motu proprio Romanis Pontificibus Pio X trasferì al Sant’Uffizio la funzione di provvedere all’elezione dei vescovi italiani.

Il 29 giugno 1908, riformando la Curia Romana con la costituzione apostolica Sapienti Consilio Pio X assegnò al dicastero il nome ufficiale di «S. Congregazione del Sant’Uffizio». Significative furono le innovazioni in materia di funzioni e competenze. Soppressa la S. Congregazione per le indulgenze, furono trasferite al Sant’Uffizio «universa res de Indulgentiis, sive quae doctrinam spectet, sive quae usum respiciat». Furono invece sottratti alle competenze della Congregazione il compito di provvedere all’elezione dei vescovi d’Italia e di provvedere alle dispense dei voti religiosi.

Alla pubblicazione della Sapienti Consilio seguì, pochi mesi dopo, quella dell’Ordo servandus in Sacris Congregationibus Tribunalibus Officiis Romanae Curiae. Nelle Normae Peculiares si stabiliva che officiali maggiori del Sant’Uffizio, «post Cardinalem a secretis, sunt Adsessor et Commissarius». Oltre a disposizioni minori, si decretava che la Congregazione doveva quanto prima promulgare il proprio mos procedendi. Il documento, preparato al termine di una visita apostolica affidata al cardinale Domenico Ferrata e José Calasanz Vives y Tutó nonché ai sottovisitatori il cappuccino Pie de Langogna e il redentorista Willem Marinus van Rossum, fu approvato da Pio X il 7 settembre 1911 e denominato Lex et Ordo Supremae Sacrae Congregationis S. Offici. Nel testo confluiva la secolare tradizione giuridica della Congregazione con opportune modifiche e innovazioni. Prefetto della Suprema era il Sommo Pontefice. Membri della Congregazione erano alcuni cardinali, detti inquisitori generali i quali, in assemblea (detta anche congresso o più abitualmente congregazione dei cardinali), erano presieduti da un cardinale «segretario», con funzioni di prefetto. Il loro numero non era definito. In ordine di importanza, seguiva immediatamente la figura dell’assessore, con le stesse funzioni di un segretario degli altri dicasteri. A capo della sezione istruttoria delle cause criminali c’era il commissario, scelto tra i frati dell’ordine dei Predicatori il quale, a differenza di quanto stabilito nel secolo XVI, costituiva una figura principale ma secondaria rispetto all’assessore. Lo affiancavano due figure: il primus socius il quale «absente vel impedito Patre Commissario, eius in omnibus vices gerit» e il secundus socius. Una figura di primo piano era anche l’«advocatus fiscalis» (dal 1920 denominato «promotore di giustizia») con la mansione di proporre gli accertamenti giudiziari (figura che conferiva al Sant’Uffizio elementi del modello accusatorio). Era previsto un «advocatus reorum». Esistevano poi altre figure particolari, non deputate ad assumere decisioni, ma a favorire lo svolgimento delle attività della Congregazione: il sommista, chiamato a stendere i sommari delle cause ed a scrivere i voti dei consultori proposti dopo il loro congresso; l’archivista, il notaio con 5 sostituti, due scrittori e un protocollista, addetti alla cancelleria; un economo, un bidello, un portiere. Oltre a tali figure comparivano – e non in modo secondario per l’andamento dei lavori – i consultori: membri del clero secolare e regolare, o anche patriarchi, arcivescovi o vescovi, noti per le doti intellettuali, erano chiamati a svolgere un ruolo puramente consultivo, quasi mai decisionale. Svolgevano un ruolo di consulenza anche altri ecclesiastici detti qualificatori. La macchina processuale del Sant’Uffizio, stando alle indicazioni del regolamento, aveva tempi precisi. I lavori si svolgevano secondo un programma ben definito che indicava in quali giorni, detti feriae, dovessero tenersi le adunanze all’interno della Suprema. Ogni settimana si tenevano tre congregazioni: dei consultori il lunedì, dei cardinali il mercoledì, e il congresso particolare il venerdì o il sabato. Il giovedì, invece, l’assessore si recava dal Papa a riferire le decisioni dei cardinali e a ottenerne l’approvazione.

La Congregazione Particolare costituiva in realtà la prima tappa della quasi totalità dei procedimenti allestiti nel Sant’Uffizio. Era un’adunanza interna alla Congregazione, composta unicamente da alcuni officiali del Sant’Uffizio. Vi partecipavano l’assessore, il commissario con il primo socio, l’avvocato fiscale. Durante i suoi lavori, l’assessore e il commissario dovevano riferire circa le cause, gli affari ma anche le lettere e i documenti che avevano ricevuto. La Congregazione Particolare, che a partire dal 1916 fu presieduta dal cardinale segretario, doveva esaminare le singole questioni, decidere quali di esse dovessero essere inserite in un protocollo segretissimo, valutare l’opportunità di richiedere un voto ad un consultore o ad un qualificatore su specifiche questioni o promuovere ulteriori indagini su affari ancora non chiari. Se il procedimento non riceveva un reponatur o non si suggeriva la stesura di un voto orientativo da parte di perito, la pratica passava all’esame dei consultori. La rispettiva congregazione era così composta: oltre a tutti i consultori era presente l’assessore, che presiedeva l’assemblea, il commissario, il primo socio e l’avvocato fiscale qualora svolgeva simultaneamente l’ufficio di consultore. Nelle cause criminali compariva anche l’avvocato dei rei per la difesa. L’assemblea dei consultori doveva emettere un voto solo consultivo «de omnibus communibus quaesitis, dubiis, causis ac negotiis alicuius momenti vel difficultatis ad S. Congregationem delatis».

La pratica esaminata con i voti dei consultori veniva così trasmessa per la feria IV. La seduta cardinalizia del mercoledì era suddivisa in due riunioni, l’una successiva all’altra. Alla prima, detta segreta, «prendevano parte insieme ai cardinali soltanto l’assessore, il commissario e il procuratore fiscale: vi si trattavano le materie più delicate, con le ricusazioni degli inquisitori e vi si esaminavano i documenti inviati dalla segreteria di Stato o dalle altre congregazioni». Alla seconda riunione, detta generale o pubblica, potevano essere ammessi anche i consultori.

Oltre agli affari esaminati dai consultori, i cardinali dovevano esaminare tutte le cause e le questioni trattate in Congregazione. All’apertura dei lavori, l’assessore riferiva quanto, nell’ultima udienza, era stato ordinato dal pontefice. Prendeva dunque la parola il cardinale segretario e introduceva i lavori. Dopo il dibattimento collegiale, si formulava una decisione detta decreto o sentenza che veniva poi riferita al Sommo Pontefice per la sua approvazione. Questa era, almeno nelle linee essenziali, la struttura e la ratio agendi del Sant’Uffizio a partire dal 1911. Una parziale modifica avvenne nel 1916: il cardinale segretario fu formalmente investito di tutti i poteri degli altri ufficiali e incaricato di presiedere la Congregazione Particolare. Nella sostanza, comunque, i compiti e le responsabilità dell’assessore rimasero molto ampie. Prima del 1965, l’ultima modifica al regolamento, sinora conosciuta, avvenne l’anno successivo, il 25 marzo 1917. Con il motu proprio «Alloquentes» Benedetto XV soppresse la S. Congregazione dell’Indice annettendone le funzioni ad una sezione del Sant’Uffizio e trasferì la sezione delle indulgenze, sino ad allora di competenza del Sant’Uffizio, alla Penitenzeria Apostolica. Si discusse più tardi anche della possibilità di riformare l’ufficio dell’Indice (v. Congregazione dell’Indice) ma il progetto rimase inattuato.

Dal Concilio Ecumenico Vaticano II sino ad oggi. Il 7 dicembre 1965, con il motu proprio Integrae servandae Paolo VI modificò il nome della Congregazione in Congregazione per la Dottrina della Fede. Rimanendo invariate le finalità della Congregazione, furono modificate alcune procedure. In particolare, nel caso di esame dei libri, era indispensabile convocare l’autore per ascoltare la sua difesa. L’assetto della Congregazione conobbe nuove modifiche con la riforma della Curia Romana compiuta da Giovanni Paolo II tramite la costituzione apostolica Pastor Bonus del 28 giugno 1988. L’innovazione più significativa fu la riformulazione delle finalità della Congregazione: scopo del dicastero diveniva non solo tutelare ma anche favorire la promozione della fede.

Aspetti tematici. La vicenda del confessore di Cavour, fra’ Giacomo da Poirino; il modernismo: i casi di Ernesto Buonaiuti e Olinto Marella; Sant’Uffizio, «affettata santità», stimmate; la condanna delle opere di Benedetto Croce e Giovanni Gentile; il rapporto tra il Governo italiano e il Sant’Uffizio; le relazioni di Agostino Gemelli con il Sant’Uffizio

La vicenda del confessore di Cavour, fra’ Giacomo da Poirino. In attesa di studi specifici sull’attività del Sant’Uffizio durante il Risorgimento, una prima esplorazione del fondo archivistico attesta che il dicastero raccolse carte relative ai movimenti di alcuni settari (ad esempio di Paolo Perelli) avversi al potere temporale. Nell’archivio si conservano anche alcune lettere autografe di Giuseppe Mazzini. Comunque, allo stato attuale della ricerca, sono ancora limitatissime le notizie circa l’attività della Congregazione negli anni precedenti l’unificazione o immediatamente successivi ad essa. Di sicuro, il dicastero fu coinvolto in alcuni casi politici quando questi presentavano anche risvolti dottrinali o morali. Tra questi merita speciale menzione la questione relativa al confessore di Cavour fra’ Giacomo da Poirino, sospeso a divinis per aver assolto il morente (e irretito dalla scomunica papale) Camillo Benso senza però esigere alcuna ritrattazione dell’operato politico, secondo le disposizioni canoniche per simili casi. Le ricerche hanno consentito di appurare tre nuovi dati, ovvero la totale estraneità dell’Inquisizione Romana al provvedimento di sanzione canonica del frate; l’esistenza di una ‘supplica’, datata 26 aprile 1882, indirizzata dal religioso a Leone XIII per la propria riabilitazione; la tempestività con la quale, i cardinali membri del Sant’Uffizio, investiti dell’affare, concessero il nulla osta alla riabilitazione il 7 giugno 1882.

Il modernismo: i casi di Ernesto Buonaiuti e Olinto Marella. Gli studi sul modernismo condotti sulle fonti della ‘Suprema Congregazione’ sono ancora numericamente limitati per la recente apertura agli studiosi dell’archivio della Congregazione per la Dottrina della Fede (1998). Anche le singole vicende di vari personaggi italiani (si pensi ad esempio a Umberto Fracassini, Francesco Mari, Tommaso Gallarati Scotti, Francesco Ferrari, Brizio Casciola, Giovanni Genocchi, Mattia Federici, Bacchisio Raimondo Motzo, Luigi Salvatorelli, Giuseppe Filograssi, Luigi Piastrelli, Angiolo Gambaro, Primo Vannutelli, Alessandro Ghignoni, Olinto Marella) non sono state analiticamente ricostruite e, salvo rari casi (si pensi a quello ben documentato di Giovanni Semeria) disponiamo principalmente di primi saggi di esplorazione e di approfondimento. Di sicuro, per uno studio della Curia Romana durante la crisi modernista e per una definizione dell’antimodernismo in Italia la documentazione del dicastero offre nuovi apporti, revisioni di giudizi e apertura di altri percorsi d’indagine. Si noti, ad esempio, come siano ancora nell’ombra personaggi come p. Joseph Lemius la cui centralità in diverse questioni inquisitoriali è ancora poco conosciuta. Analoga considerazione vale per il frate carmelitano e poi vescovo e cardinale Carlo Raffaello Rossi, la cui attività pur centrale in diverse vicende (Semeria, Buonaiuti ma anche per gli scritti di Teresa di Lisieaux) non ha ancora sufficiente rilievo nella storiografia. Simili osservazioni possono farsi anche sulla lunghissima attività del Promotore di Giustizia Giuseppe Latini che per circa quarant’anni occupò un ruolo centrale in tutte le questioni del dicastero. Si tratta, in altri termini, di definire come l’antimodernismo italiano studiato sino ad oggi (si pensi ai preziosi apporti di Lorenzo Bedeschi et alii) sia stato effettivamente presente e operante tra le mura del Sant’Uffizio.

Tra le vicende che più impegnarono la Congregazione vi è indubbiamente il lungo, teso e non facile rapporto con don Ernesto Buonaiuti. Si tratta, nonostante molti studi e lavori scientifici già pubblicati sul caso, di una storia ancora incompleta non essendo state studiate a fondo le fonti conservate in proposito nell’Archivio della Congregazione per la Dottrina della Fede. Sinora, alcuni nuovi elementi sono stati acquisiti solo riguardo alla censura dell’opera s. Girolamo, a firma di Buonaiuti. Ne richiamiamo i dati essenziali. Nel 1919 B. sottopose al Sant’Uffizio una biografia ancora inedita di s. Girolamo chiedendo, per l’occasione, l’imprimatur. Per l’esame del testo, diversamente dalla prassi, fu il pontefice in prima persona a stabilire il revisore. L’incarico cadde sull’apprezzato ed equilibrato carmelitano fra’ Carlo Raffaello Rossi. Dopo uno studio analitico e meticoloso (Rossi aveva individuato la letteratura scientifica cui Buonaiuti aveva fatto ricorso; aveva esaminato la correttezza della traduzione dei passi di Girolamo e suggerito alcune correzioni; aveva riflettuto sulle espressioni adoperate forse in chiave polemica contro il primato di giurisdizione del papa e sottolineato la forzatura di alcune ricostruzioni) suggerì di consentire la pubblicazione ma anche di comunicare all’autore alcune correzioni prima della stampa. Le osservazioni di Rossi, trasmesse a Buonaiuti, non furono condivise integralmente dall’autore. Appresa la notizia, Benedetto XV «diede ordine che il medesimo consultore [Rossi] a fianco delle bozze stesse segnasse gli emendamenti opportuni; ingiungendo poi al Buonaiuti di stamparli come sono: sotto minaccia di una eventuale condanna in caso contrario». Questa volta Buonaiuti non esitò e, corretto, il volume lo diede alle stampe. Per futuri approfondimenti sul rapporto tra Buonaiuti e il Sant’Uffizio, alcune lettere del cardinale Pietro Gasparri (conservate nell’Archivio della Congregazione) potranno dare altri utili elementi.

Un altro caso di particolare interesse di cui ebbe a occuparsi il Sant’Uffizio fu quello di d. Olinto Marella (1882-1969). Di ottime doti intellettuali, sospettato di coltivare aperture verso il modernismo, per l’accoglienza offerta in casa propria a d. Romolo Murri, già scomunicato vitando, fu sospeso a divinis nel 1909. In quella situazione il sacerdote rimase per lunghi anni, tra povertà e disagi personali, fino a quando chiese di essere riabilitato sul finire del 1922. La Congregazione, acquisite le necessarie informazioni, lo reintrodusse alla vita ministeriale inizialmente ad annum. Da allora Marella esercitò un intenso apostolato, in particolare nell’ambito della pastorale giovanile. Chiedendo l’elemosina per raccogliere contributi per le proprie iniziative pedagogiche, promosse diverse istituzioni assistenziali ed entrò in contatto con parecchi ecclesiastici quali il card. Angelo Roncalli, padre Pio da Pietrelcina, il card. Giovan Battista Montini. Attualmente è in corso il processo di beatificazione.

Sant’Uffizio, «affettata santità», stimmate. Sin dal suo sorgere, la Congregazione fu il tribunale competente sui fenomeni di presunto misticismo e su quanto poteva essere rubricato sotto la voce di affettata santità. A partire dalla fine della Prima Guerra Mondiale, tale campo d’indagine e di giudizio fu sempre più praticato dal dicastero, come mai era avvenuto nella storia inquisitoriale. Il falso misticismo divenne una materia preoccupante quasi quanto questioni dottrinali, al punto tale che si è parlato di nuova invasione mistica. Non si trattò di una scelta strategica del dicastero ma di una questione imposta dall’alto afflusso di denunce. Le segnalazioni giunsero in buona parte dall’Italia. Si riferiva del fiorire, ad opera di singolari personaggi, di nuovi ambiziosi ordini religiosi animati dalla velleità di imprimere un’accelerazione positiva alla vita della Chiesa e alla santificazione del clero. Le denunce spesso lamentavano l’infondatezza di pretesi miracoli, di profezie e visioni, di stimmate. A questo proposito, tra le due Guerre mondiali, oltre al caso di padre Pio da Pietrelcina, dall’Italia giunse in dicastero notizia di altri stimmatizzati, o meglio di altre stimmatizzate. Si posero così sotto osservazione le stimmatizzate Lina Salvagnini (Padova), Ester Moriconi (Montelupone), Elena Aiello (Cosenza), Lina Barone (Fiumefreddo, Calabria). Il caso del cappuccino del Gargano fu certamente quello più complesso: da parte del Sant’Uffizio vi fu la richiesta della collaborazione da parte dell’autorità civile ad altissimo livello (Mussolini compreso). Meno documentata è la vicenda di Elena Aiello, un caso protrattosi nel tempo senza che la Congregazione riuscisse ad acquisire elementi sufficienti per una valutazione. Le indagini su Lina Salvagnini, Ester Moriconi e Lina Barone si chiusero invece con una decisa smentita della soprannaturalità dei fenomeni.

La condanna delle opere di Benedetto Croce e Giovanni Gentile. Il 21 marzo 1932, dopo aver ricevuto il volume dal papa Pio XI, la Congregazione iniziò l’esame dottrinale della Storia d’Europa nel secolo decimonono di Benedetto Croce. Affidata la censura al consultore Marco Sales, l’opera fu messa all’indice 13 luglio 1932. Sorte analoga ebbero la Storia d’Italia e la Storia del Regno di Napoli, sebbene, temporaneamente, la pubblicazione della decisione fu sospesa in vista di un esame globale dell’opera omnia di Croce. Nel luglio 1932, durante lo studio delle opere del filosofo napoletano, si decise, peraltro, di esaminare la produzione intellettuale di Giovanni Gentile perché, osservavano i consultori, «l’idealismo crociano non differiva sostanzialmente da quello di Gentile» (Verucci).Il «voto» sulle opere di Gentile fu affidato per volontà di Pio XI ad Agostino Gemelli il quale presentò la sua censura (probabilmente coadiuvato dai due professori Francesco Olgiati e Amato Masnovo) nel gennaio 1933. Per lo scienziato francescano esistevano gravi elementi che giustificavano una condanna dell’opera di Gentile ma in tale ipotesi si sarebbe corso il rischio di alimentare una polemica contro la riforma scolastica di Gentile, pure meritevole di apprezzamento per alcune innovazioni dal punto di vista religioso e cattolico. Nel maggio 1933, dunque, il caso si arrestò temporaneamente per quella che appare, stando agli studi più recenti, una lunga pausa di riflessione. L’iter della causa sulle opere di Croce e Gentile riprese ad un anno esatto. Nel maggio 1934, con l’arrivo di una nuova relazione di Gemelli che dichiarava superate le preoccupazioni e le perplessità avanzate l’anno precedente, il 20 giugno 1934 i cardinali ordinarono la condanna delle opere dei due filosofi.

Il rapporto tra il Governo italiano e il Sant’Uffizio tra le due Guerre Mondiali. In diverse occasioni, le carte del Sant’Uffizio mostrano il rapporto diretto, e a volte intenso, che la Suprema Congregazione ebbe con le autorità politiche italiane. Entrando nello specifico, per il disbrigo dei loro affari o per la conduzione delle inchieste, i membri, gli officiali o i consultori del Sant’Uffizio non disdegnarono il ricorso alla collaborazione dell’autorità civile, e in particolare del Governo italiano, anche in situazioni di generale tensione diplomatica tra i rappresentanti delle due parti. Di seguito si riporta qualche esempio. Nel 1920, ancora lontani dai Patti Lateranensi, i consultori del dicastero suggerirono di condurre una trattativa con il Capo del Governo italiano per il trasferimento di padre Pio da Pietrelcina in altra sede. Sempre per risolvere questo problema che si sarebbe rivelato di non facile soluzione, in udienza con l’assessore del Sant’Uffizio Nicola Canali, nell’aprile 1931 Pio XI – nel mezzo della crisi per l’Azione Cattolica – ordinava alla Congregazione di preparare una relazione sul caso e di trasmetterla a Mussolini per conoscerne il giudizio. Un nuovo episodio, sinora inedito, di collaborazione tra la Suprema Congregazione e Mussolini si verificò nel 1933 quando padre Tacchi Venturi fu incaricato di sollecitare l’impegno di Mussolini per far ritirare dal commercio alcuni libri dal contenuto dottrinale non ortodosso.

Le relazioni di Agostino Gemelli con il Sant’Uffizio. Un uomo non di secondo piano nell’attività del Sant’Uffizio fu Agostino Gemelli, il fondatore dell’Università Cattolica. Gemelli si trovò coinvolto, o per sua iniziativa o per essere stato interpellato dalla Congregazione, nelle vicende relative a opere e pubblicazioni di Giovanni Gentile, Teilhard de Chardin, Fréderic Marie Bergounioux, Maurice Blondel, Manfredo Baronchelli, Ernesto Buonaiuti, Erich Przywara, Gaetano Durante, Piero Martinetti, Giovanni Semeria, Alberto Del Fante, Carl Adam, Primo Mazzolari, Giuseppe Zamboni, Benedetto Croce, Gabriele D’Annunzio. Egli, peraltro, fu molto attivo in materia di «affettata santità» inviando, o suggerendo di inviare, al Sant’Uffizio segnalazioni sui casi di non pochi personaggi che presentavano il fenomeno delle ‘stimmate’, e ciò allo scopo di verificarne l’autenticità: padre Pio da Pieltrecina (San Giovanni Rotondo), Lina Salvagnini (Padova), Elena Aiello (Cosenza), Ester Moriconi (Montelupone), Therese Neumann (Konnesreuth, diocesi di Regesburg), Marie Naud (Lourdes). Da ricerche recenti emerge che le autorità della Congregazione, pur affidando allo scienziato studi e analisi su questioni dottrinali, preferirono non coinvolgerlo mai in alcun caso di presunto misticismo, neanche nei casi in cui egli stesso domandava verifiche e approfondimenti.

Fonti e Bibl. essenziale

A seguito dell’apertura dell’Archivio della Congregazione sono stati offerti alcuni contributi, di cui almeno si vedano: A. Borromeo (a cura di), L’inquisizione. Atti del Simposio internazionale. Città del Vaticano, 29-31 ottobre 1998, Biblioteca Apostolica Vaticana, Città del Vaticano 2003; A. Del Col, L’Inquisizione in Italia. Dal XII al XXI secolo, Mondadori, Milano 2006; A. Gentili, Il processo al P. Semeria nella documentazione inedita dell’ex SantOfficio (1909-1919), in «Studi Barnabiti» (2010), 187-260. Sulle innovazioni legislative durante il pontificato di Pio X, sul card. Rossi e l’affettata santità, nonché su Ernesto Buonaiuti e Agostino Gemelli si veda: F. Castelli, Padre Pio e il Sant’Uffizio. Fatti, protagonisti, documenti inediti, Studium, Roma 2010. Per un resoconto bibliografico sino al 2010 si veda: A. Prosperi, diretto da, Dizionario storico dell’Inquisizione, IV vol., Edizioni della Normale, Pisa 2010. Indispensabile l’opera di H. Wolf, Prosopographie von Römischer inquisition und index kongregation, 1814-1917, 2 vol., Ferdinand Schöningh Verlag, Paderborn – München – Wien – Zürich 2005; ora si veda anche il più recente Id., Prosopografphie von Römischer Inquisition und Indexcongregation 1701-1813, 2 vol., Ferdinand Schöningh Verlag, Paderborn – München – Wien – Zürich 2011.


LEMMARIO




Congregazione dell'Indice - vol. II


Autore: Francesco CastelliCastelli

Istituita da Pio V il 14 aprile 1571 con la costituzione In apostolicae, la Congregazione dell’Indice era incaricata di esaminare i testi potenzialmente nocivi alla vita spirituale dei fedeli e di pubblicare (periodicamente aggiornato) l’Indice dei libri proibiti nel quale erano inseriti i titoli delle opere condannate. Con la costituzione Sollicita ac provida (1753) Benedetto XIV introdusse alcuni cambiamenti rispetto alla precedente legislazione e stabilì una rigorosa procedura per la censura delle opere. Si trattò di un intervento legislativo di grande importanza che sostanzialmente rimase invariato fino alla soppressione della Congregazione e che costituì un’ulteriore espressione dell’inclinazione giuridica di papa Lambertini, assai sensibile al disciplinamento normativo (si pensi ad esempio al De servorum Dei beatificatione et beatorum canonizatione).

Agli inizi dell’Ottocento si aprì un periodo particolarmente complesso per l’attività e il funzionamento della Congregazione. In modo graduale ma sempre più evidente si impose ai membri e ai funzionari della Congregazione (come anche ai vescovi diocesani) l’impossibilità di conoscere tempestivamente, segnalare ed esaminare in modo adeguato la sempre maggiore quantità di libri che venivano pubblicati in un mercato librario costantemente in crescita. Allo stesso tempo si faceva largo la necessità di non promuovere solo un’azione repressiva ma di favorire la sensibilizzazione dei credenti alle ‘buone letture’ e di agevolarne la produzione. Tali elementi fecero strada all’ideazione di un progetto di riforma della Congregazione, esaminato nel 1868 da una commissione istituita da Pio IX in vista di una discussione nell’assise del Concilio Ecumenico Vaticano I. Le proposte pervenute suggerirono di trasferire ai vescovi diocesani il compito di esaminare i libri pubblicati nelle rispettive diocesi riservando alla Congregazione dell’Indice la funzione di ‘tribunale di seconda istanza’ nonché la revisione di bibbie e opere di teologia. Il lavoro prodotto dalla commissione non fu discusso dal Vaticano I ma, almeno nei contenuti, gli orientamenti furono sostanzialmente ripresi negli anni successivi. Nel frattempo, dal 1866 al 1878 la Congregazione aveva messo all’Indice circa una novantina di libri tra opere di pregio e testi di scarso valore che presto sarebbero finiti nel dimenticatoio. In tale arco di tempo, tra i libri non condannati ma sottoposti a esame, vi furono anche quelli di autori molto noti e zelanti sacerdoti. Si pensi a mons. Luigi Martini (1803-1887), già rettore del seminario di Mantova, e perfino a don Bosco la cui opera Il centenario di s. Pietro fu oggetto di precisi rilievi del segretario della Congregazione p. Vincenzo Modena. Stando agli studi sin qui condotti e che costituiscono ancora l’alba di maggiori approfondimenti, si evidenza un netto scarto tra gli atteggiamenti delle autorità della Congregazione e quello del papa Pio IX, ben più moderato e alieno da aspra intransigenza che talvolta emerge nel tono delle osservazioni dei censori. Anche in questo arco di tempo si conferma la scarsa efficacia pastorale (almeno nell’immediato) delle condanne e non appare in modo subitaneo se vi fosse o meno una precisa strategia nei criteri di scelta delle opere da porre sotto esame.

Sul finire del secolo, nella costituzione apostolica Officiorum ac munerum (25 gennaio 1897), Leone XIII modificò la normativa della Congregazione. Confermando la validità della Sollicita ac provida circa la procedura di censura dei libri, Leone XIII abrogò tutte le altre norme precedenti, indicò le materie da ritenersi proibite e ribadì ai vescovi le responsabilità loro affidate in ordine alla vigilanza sui libri. La costituzione fu pubblicata nelle pagine introduttive della nuova edizione dell’Indice dei libri proibiti del 1900, dove il nuovo catalogo non presentava più i testi condannati prima del 1600 (quali le opere di Petrarca, Boccaccio, Macchiavelli) e i libri posteriori a quella data ma nel frattempo divenuti irrilevanti o non realmente pericolosi per la vita spirituale dei lettori. Durante la crisi modernista, il dicastero fu in prima linea nella condanna di opere ‘infette’ e, proprio all’azione censoria dell’Indice più che a quella del Sant’Uffizio, si deve il maggior numero di condanne.

Prima della fine della Grande Guerra, Benedetto XV diede attuazione a un progetto da tempo meditato e, con il motu proprio Alloquentes proxime (25 marzo 1917), mise fine alla Congregazione istituendo, presso il Sant’Uffizio, una sezione de censura librorum (composta da un sostituto con funzioni di archivista e da un protocollista-scrittore).

Tale provvedimento arrivava al termine di lunghe discussioni sull’efficacia e la tempestività della condanna dei libri. Di fronte a un mercato librario oramai divenuto vastissimo, nel 1929 il Sant’Uffizio emanò un’istruzione sollecitando i vescovi a sentirsi coinvolti in prima persona nella questione e a vigilare con solerzia sui libri pubblicati nelle proprie diocesi. La necessità di un effettivo controllo sull’editoria fu formalmente discussa all’interno della Congregazione a partire dal 1934. Fu richiesto unparereintroduttivoa un consultore, Ernesto Ruffini (poi cardinale e arcivescovo di Palermo) il quale suggerì di affidare la vigilanza sulle pubblicazioni alla Congregazione dei Seminari e delle Università degli Studi. La vicenda sembrò arenarsi. Nel 1936 il Sostituto della Censura dei libri Giuseppe Monti fece notare che, a partire dal 1917, le denunce pervenute al suo ufficio erano state ben poche e su opere spesso di poca o nessuna rilevanza. Si riprese a riflettere e a domandare a diversi ecclesiastici pareri e soluzioni. La questione della vigilanza sulla stampa rimase, comunque, in uno stato di stallo, senza approdare ad alcuna effettiva decisione. Commentando la situazione, Pio XI rilevò vivacemente la paralisi in cui si era finiti («è da parecchio tempo che mi si vengono a riferire tali costatazioni, e intanto non si fa mai niente; si cominci dunque a fare meno chiacchiere e qualche cosa di fatto»). Si giunse pertanto alla stesura di un Progetto di Statuto dell’Ufficio di vigilanza della stampa. Il nuovo ufficio non vide di fatto la luce, almeno sino alla fine del pontificato di Pio XI (a partire dal quale non è possibile consultare la documentazione successiva). Nel frattempo Benito Mussolini aveva promosso un’intensa attività di controllo e di repressione del dissenso politico mostrandosi poco disposto a pressioni e/o condizionamenti da parte vaticana in materia libraria: nel 1926 la pubblicazione del Testo unico di Pubblica Sicurezza (con il quale l’autorità civile si attribuiva la più vasta competenza in materia di autorizzazioni e di censura libraria) sancì formalmente la volontà governativa di avocare a sé il controllo dell’editoria.

Dell’Indice dei libri proibiti l’ultima edizione fu pubblicata nel 1948. Fu definitivamente abrogato il 15 novembre 1966.

A fronte dell’assenza di studi sistematici sulla Congregazione, di seguito ci limitiamo a una prima messa a fuoco di alcune questioni. In primo luogo merita una certa attenzione la consistenza del monitoraggio sulla produzione libraria, l’efficacia e la tipologia delle condanne comminate dal dicastero romano a partire dall’unificazione italiana. Sembra che, a partire dal Regno d’Italia e con la scomparsa di inquisitori locali e dunque con l’indebolimento della rete di segnalatori periferici, nella maggior parte dei casi il dicastero fu alquanto frenato nella sua attività.

Con la fine dell’ancien régime, peraltro, le autorità del Regno d’Italia si dimostrarono gelose della propria giurisdizione anche in materia di controllo della stampa. Sguarnita della collaborazione del ‘braccio secolare’ (e dunque impossibilitata a compiere sequestri od a comminare pene pecuniarie), la Congregazione dell’Indice assistette anche ad un’eterogenesi dei fini: le poche condanne finirono in molti casi per favorire la diffusione dei testi garantendo alle opere incriminate notorietà e interesse (come avvenne di fatto per quelle di Gabriele D’Annunzio). Non mancò chi, ironicamente, volle scrivere alle autorità del dicastero per ‘ringraziare’ dell’inserimentonell’Indice. Nel complesso le personalità messe sotto esame non poche volte furono di profilo minore. I preti, in particolare,risultarono i principali destinatari del monitoraggio della Congregazione e comunque le figure più sanzionabili dal dicastero.

L’attività di controllo censorio da parte dell’autorità ecclesiastica suscitò spesso timori e acredine, sia per la scelta della Congregazione di non rivelare le ragioni della condanna con una chiara indicazione delle affermazioni erronee sia per la prassi di tenere all’oscuro l’autore inquisito e di impedirgli una sua qualsivoglia difesa (salvo il caso di alcune eccezioni, quale quella offerta a A. Rosmini per intervento diretto e personale di Pio IX).

Tra i documenti del dicastero meritevoli di menzione e di studio un posto particolare meritano i voti, ossia i pareri scientifici redatti dai consultori per la messa all’Indice delle opere. Alcuni di essi sono particolarmente sintomatici e rivelatori del metodo, della mentalità e delle finalità dei funzionari del dicastero: si pensi a quelli sul volumeStato e Chiesa  di Marco Minghetti (personaggio a lungo presente sulla scena politica italiana), quelli sulle opere di Giacomo Leopardi e sul Santo di Antonio Fogazzaro ma anche ai voti sulle opere di personaggi risorgimentali quali Filippo De Boni e Terenzio Mamiani della Rovere. Interesse suscita anche la censura sull’opera di Giuseppe Ferrari, filosofo della rivoluzione e tra i più noti esponenti dell’anticlericalismo risorgimentale, poi deputato in Parlamento dopo l’unificazione.

Per un’adeguata conoscenza del dicastero, futuri studi dovrebbero mettere a punto una proposografia dei funzionari, dei consultori e dei membri del dicastero unita alla ricostruzione degli interventi e delle consulenze prodotte nello svolgimento delle rispettive mansioni. Andrebbe ad esempio ricostruita l’attività di don Giuseppe Pennacchi (1831-1913), del cappuccino Pie de Langogne (1850-1914) o del servita Gavino Secchi Murro (1794-1868): le loro analisi e la loro opera di censori fu richiesta in misura molto maggiore rispetto a quella degli altri consultori. Quali ragioni spinsero le autorità del dicastero ad avvalersi in modo prevalente dell’opere di tali consulenti?

Lungo, complesso e a tratti tortuoso ma utile per conoscere l’attività della Congregazione, le sue relazioni e gli eventuali conflitti di competenze con il Sant’Uffizio,fu il caso del gesuita fondatore della Civiltà Cattolica Carlo M. Curci. La produzione intellettuale di Curci fu monitorata dai due dicasteri volta per volta, libro per libro, senza alcuna apparente collaborazione tra i due organismi vaticani. Gli ecclesiastici chiamati allo studio dei suoi testi furono consultori ora dell’una, ora dell’altra, ora di entrambe le Congregazioni (Smeulders, Bausa, De Martinis, Guarino, Eschbach) ma non è ancora definito in quale misura si avvalsero degli studi dei precedenti censori e se, in certa misura, si esercitassero influenze reciproche.

Non trascurabile appare l’impatto dell’Indice dei libri proibiti sulla mentalità e sul costume del clero e dei cattolici in Italia. Non è sempre facile definire cosa abbia spinto a una denuncia quanti si decidevano a una segnalazione, se cioè essi fossero mossi dall’intento di preservare la fede da testi infetti o sentissero la pressione inconsciamente esercitata da obiettivi personali e/o da eventuali risentimenti. Si ha a volte la percezione che nei denuncianti fossero in movimento antiche gelosie e rivalità, a volte inconfessabili e inconfessati malumori, per il successo di validi colleghi e di colti ecclesiastici.

Una considerazione specifica merita l’incidenza dei divieti di lettura emanati dall’Indice. Gli studi mostrano che, soprattutto a partire dall’unificazione, essi furono ora ignorati ora elusi abilmente dai lettori. Ciò, tuttavia, non significò l’irrilevanza dell’attività del dicastero.  A volte, il pericolo di una condanna spingeva l’autore a fare ricorso all’anonimato o allo pseudonimìa; in altre circostanze, indirizzava l’autore verso un atteggiamento prudente fino al conformismo. Per non dire di quella autocorrezione dei testi e dell’autocensura frutto delle tensioni tra autori ed editori che costituisce interessanti e complessi percorsi di ricerca ancora inesplorati.

Fonti e Bibl. essenziale

G. Martina, Pio IX (1867-1878), Editrice Pontificia Università Gregoriana, Roma 1990, 282-288; H. Wolf, Storia dell’Indice. Il Vaticano e i libri proibiti, Donzelli Editore, Roma 2006; M.I. Palazzolo, La perniciosa lettura. La Chiesa e la libertà di stampa nell’Italia liberale, Viella, Roma 2010; E. Rebellato, v. Congregazione dell’Indice, in Dizionario storico dell’Inquisizione, diretto da A. Prosperi, 4 vol., Pisa 2010, 386-388; M. Dissegna, Italiani all’Indice. Le opere messe all’Indice dei libri proibiti dall’Unità d’Italia in poi, in A. Melloni (a cura di), Cristiani d’Italia. Chiese, società, Stato, 1861-2011, Istituto dell’Enciclopedia Italiana, vol. II, Roma 2011, 1514-1528; per alcune considerazioni desumibili da un catalogo di Indici dei libri proibiti: D. Pattini-P. Rambaldi, Index Librorum prohibitorum. Note storiche attorno a una collezione, Aracne editrice, Roma 2012; A. Cifres-D. Ponziani, La censura degli archivi del Sant’Ufficio e dell’Indice, «Dimensioni e problemi della ricerca storica», 1 (2012), 297-321; M. Brera, Gabriele d’Annunzio e la Santa Sede. Il processo e la condanna del 1911 nei documenti della Congregazione dell’Indice, «Quaderni del Vittoriale», Nuova serie 8 (2012), 27-43; Id., Il Poeta, il Papa e il Dittatore. L'”Opera omnia” di Gabriele d’Annunzio all’Indice e i difficili rapporti tra Stato e Chiesa all’ombra del Concordato, «Quaderni del Vittoriale», Nuova serie 9 (2013), 43-67; sullo sfondo di alcune questioni utile la lettura di P. Delpiano, Liberi di scrivere. La battaglia per la stampa nell’età dei Lumi, Latenza, Bari 2015. Indispensabile l’opera di H. Wolf, Prosopographie von Römischer inquisition und index kongregation, 1814-1917, 2 vol., Ferdinand Schöningh Verlag, Paderborn – München – Wien – Zürich 2005; ora si veda anche il più recente Id., Prosopografphie von Römischer Inquisition und Index congregation 1701-1813, 2 vol., Ferdinand Schöningh Verlag, Paderborn – München – Wien – Zürich 2011.

Immagine: Edizione dell’Indice dei Libri proibiti (anno 1564).


LEMMARIO




Congregazione per gli Istituti di vita consacrata e le Società di vita apostolica - vol. II


Autore: Alejandro M. Dieguez

Degli affari riguardanti i religiosi nell’Italia unitaria la S. Sede continuò ad occuparsi sia per mezzo della Congregazione dei Vescovi e Regolari, che della Congregazione della disciplina regolare e della Congregazione sopra lo stato dei Regolari, che con la prima condividevano lo stesso prefetto e segretario. Solo nel 1906 Pio X concentrò tutta la materia dei religiosi nella Congregazione dei Vescovi e Regolari, poco prima di affidarla alla nuova ed autonoma Congregazione dei Religiosi (negotiis religiosorum sodalium praeposita), istituita con la riforma della curia (cost. Sapienti consilio, del 28 giugno 1908) e confermata dal CIC 1917. Pio XII gli affidò poi la competenza sugli istituti secolari (cost. Provida Mater, del 2 febbraio 1947), quindi con la riforma della curia romana di Paolo VI (cost. Regimini Ecclesiae universae, del 15 agosto 1967) il dicastero fu denominato Congregazione per i Religiosi e gli Istituti Secolari, strutturando la sua attività in due sezioni paritetiche dedicate a queste due forme di vita consacrata. La riforma di Giovanni Paolo II (cost. Pastor bonus, del 28 giugno 1988) gli assegnò il nome attuale di Congregazione per gli istituti di vita consacrata e le società di vita apostolica.

Oltre alle questioni di cui la Congregazione della disciplina regolare (1694-1906) si occupava in questo periodo (novizi e noviziati, pratica del voto di povertà, facoltà di ottenere benefici ecclesiastici, acquistare beni, alienare oggetti ritenuti inutili per sostentare le opere di restauro edilizio, fare testamento, secolarizzazione ed altri indulti e dispense), dopo il 1872 il dicastero dovette affrontare i complessi problemi che la soppressione «cum violenta manu» (cioè per effetto della legislazione «eversiva») degli ordini religiosi aveva creato alla disciplina regolare in Italia. Esortò quindi i superiori maggiori a fare tutti gli sforzi per confortare i religiosi «dispersi nel secolo» e ripristinare la vita comune separando, se necessario, dagli istituti, «quelle disgraziate individualità, che, perduto lo spirito di vocazione ed il santo timor di Dio, anziché profittare della tribolazione per emendarsi, ne usarono per emancipare senza ritegno detestabili passioni» (1872).

La Congregazione sopra lo stato dei Regolari (1846-1906), istituita per migliorare la disciplina, l’osservanza e lo stato dei religiosi, andrà incontro ad un progressivo decadimento nel periodo unitario italiano, affrontando solo affari di ordinaria amministrazione (dubbi circa la validità di alcuni voti solenni, recezione di elenchi e relazioni concernenti l’ammissione al noviziato e altre questioni disciplinari).

La Congregazione dei Vescovi e Regolari, per la parte relativa ai religiosi, esercitò oltre a funzioni amministrative anche quelle giudiziarie, trattando sia cause contenziose che criminali. Di particolare importanza, soprattutto in Italia, fu il compito di concedere l’approvazione ai nuovi istituti religiosi, ai quali impose l’obbligo di trasmettere relazioni periodiche sul proprio stato (prima triennali, poi, con il Codice del 1917, quinquennali), codificando la normativa con le Normae secundum quas… del 1901.

Dal 1908 la Congregazione dei Religiosi continuò anzitutto ad occuparsi, come si veniva già facendo dal 1890 con una apposita commissione, dell’esame delle richieste di approvazione pontificia dei nuovi istituti, che nel Novecento conobbero una particolare fioritura (decreto di lode, decreto di approvazione definitiva degli istituti, decreto di approvazione delle costituzioni).

Continuò ad esercitare la sua giurisdizione sulle persone giuridiche e fisiche, cioè sugli istituti religiosi e sui loro membri, per quanto riguardava l’erezione, costituzione, approvazione, divisione, soppressione degli istituti; il loro governo, con l’elezione, scadenza, mutazione, rimozione dei superiori; la disciplina interna ed esterna: formazione e studi, amministrazione dei beni, concessione di privilegi e dispensa dalle norme canoniche comuni e dalle costituzioni approvate dalla S. Sede, e sanazione delle invalidità. Le stesse competenze, esercitò, mutatis mutandis, nei confronti delle società di vita comune senza voti e degli istituti secolari. In seguito ai Patti Lateranensi il dicastero emanò ripetutamente precise istruzioni affinché gli istituti avviassero le pratiche occorrenti per ottenere dallo Stato italiano il riconoscimento della personalità giuridica (1930, 1935).

Per quanto riguarda gli studi dei religiosi, nel 1931 la congregazione ribadì in modo riservato il divieto di iscrizione alle università civili, indicando l’Università cattolica del S. Cuore di Milano e l’Istituto apostolico del Sacro Cuore di Castelnuovo Fogliani come istituzioni da preferire, rispettivamente, per gli studi superiori dei religiosi e delle religiose d’Italia. Una particolare attenzione fu rivolta a diversi ambiti specifici dell’apostolato dei religiosi: nel 1932 si notificò a tutti i superiori la costituzione di un Ufficio centrale per le scuole ed istituti cattolici in Italia presso la Congregazione dei Seminari e delle Università degli Studi. Con circolare dello stesso anno si esortarono gli istituti femminili a conformarsi quanto prima alle prescrizioni della legislazione corrente per le infermiere, «per non esporsi al pericolo certo di vedersi limitate ad opere secondarie e puramente materiali nell’assistenza ai malati»; veniva quindi istituito un Ufficio scuole-convitto per infermiere che promuovesse l’apertura di tali istituti professionali per religiose infermiere e, con altra circolare del 1940, si indicavano delle prudenti “misure di riserva” alle quale le stesse religiose dovevano attenersi nell’assistenza ai malati di sesso maschile.

Nel 1953 fu istituito presso il dicastero un Segretariato per le monache d’Italia, il quale si prodigò per offrire sostegno e assistenza alle monache e religiose inferme. Nel clima di rinnovata partecipazione civile alla vita del Paese, un pressante appello a tutti i superiori religiosi italiani fu rivolto con circolare del 1952, in vista delle elezioni politiche dell’anno successivo, affinché si accertassero della regolarità della posizione anagrafica ed elettorale dei singoli dipendenti. Allo stesso motivo si deve probabilmente il divieto imposto ai superiori nel 1954 di non trasferire all’Estero, fino a nuovo ordine, religiosi e religiose italiani.

La congregazione sostenne poi la costituzione di diversi raggruppamenti per affinità di attività o di apostolato (come le Federazioni italiane di Religiose ospedaliere, di Religiose educatrici e Religiose rieducatrici, ecc.) e promosse congressi e corsi di aggiornamento. In seguito al primo Congresso generale sugli stati di perfezione del 1950, per dare nuovo vigore alla vita religiosa italiana, favorì la costituzione dell’Unione delle superiori maggiori d’Italia e della Conferenza italiana superiori maggiori. Promosse, in seguito al Concilio Vaticano II e in armonia con i superiori maggiori, uno spirito di maggiore fraternità e collaborazione tra gli istituti e un maggiore coordinamento con la gerarchia ecclesiastica. Oltre ad essere stata la prima congregazione romana ad avere nel proprio organico delle donne – suore di diversa nazionalità –, dal 2004 una religiosa italiana è assunta alla carica di sottosegretaria.

Anche se non sempre è possibile distinguere delle norme esplicitamente varate per l’Italia tra le disposizioni generali del dicastero, molte di queste hanno avuto origine da situazioni verificatesi a livello nazionale, oltre ad avere poi una singolare ricaduta sull’Italia. Si pensi ad esempio al notevole influsso esercitato sulla vita religiosa italiana da atti come le istruzioni postconciliari Renovationis causam sull’aggiornamento della formazione alla vita religiosa e Venite seorsum sulla vita contemplativa e la clausura monacale (1969) e l’istruzione Mutuae relationes sui rapporti fra vescovi e religiosi nella Chiesa (1978). Come per altri dicasteri pontifici, il filo conduttore nell’interazione con l’Italia sembra volgere da una posizione inizialmente difensiva rispetto alla novità dello Stato unitario ad un atteggiamento di promozione e stimolo pastorale, secondo le nuove esigenze sociali, risentendo di volta in volta degli orientamenti dei diversi pontificati e del proprio personale direttivo.

Fonti e Bibl. essenziale

Enchiridion de statibus perfectionis, vol. I: Documenta Ecclesiae sodalibus instituendis, Officium Libri Catholici, Roma 1949; N. Del Re, La curia romana. Lineamenti storico-giuridici, Edizioni di storia e letteratura, Roma 19984, 174-182. Si vedano, all’interno della voce Sacre Congregazioni Romane del Dizionario degli istituti di perfezione, i capitoli dedicati da Lajos Pásztor alla S.C. dei Vescovi e Regolari (DIP, VIII, coll. 188-192), alla S.C. della Disciplina Regolare (ibid., coll. 210-215), alla S.C. sopra lo Stato dei Regolari (ibid., coll. 223-229), e quello redatto da Jesús Torres sulla S.C. per i Religiosi e gli Istituti secolari (ibid., coll. 229-251); L’attività della S. Sede, 1939-2005; F. Jankowiak, La Curie romaine de Pie IX à Pie X. Le gouvernement central de l’Église et la fin des États pontificaux (1946-1914), École française de Rome, Rome 2007, 578-579; L. Leidi, La Congregazione per gli Istituti di vita consacrata e le Società di vita apostolica. Ruolo, competenze e funzionamento, in Ephemerides iuris canonici 50 (2010), 249-278; D. Salvatori, Congregación para IVC y SVA, in Diccionario general de derecho canónico, II, Universidad de Navarra-Thomson Reuters Aranzadi, Navarra 2012, 552-554.


LEMMARIO