Associazione Italiana dei Professori di Storia della Chiesa

Dizionario Storico Tematico La Chiesa in Italia
Dopo l'Unità Nazionale
Roma 2015
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Congregazione per i Vescovi - vol. II


Autore: Alejandro M. Dieguez

L’attività dell’attuale Congregazione per i Vescovi all’indomani dell’Unità d’Italia, è da indagare sotto un duplice aspetto. Quello della Congregazione Concistoriale, istituita da Sisto V con la costituzione Immensa aeterni Dei del 22 gennaio 1588 per la preparazione degli atti relativi alle decisioni da sottoporre in concistoro per l’approvazione formale dei cardinali, e quello della Congregazione dei Vescovi e Regolari, per quanto riguarda la competenza sui vescovi, da Pio X affidata alla Concistoriale con la riforma della curia romana.

Con la Sapienti consilio del 29 giugno 1908, appunto, la Concistoriale uscì notevolmente rafforzata: oltre all’antico compito di predisporre gli atti preparatori ed esecutivi per i concistori, acquistò giurisdizione personale e completa sui vescovi: preparava gli atti di provvista, sceglieva i candidati e li proponeva al pontefice per l’approvazione e la nomina; sorvegliava la loro attività, esercitando la vigilanza e la tutela sul governo delle diocesi e sullo stato economico delle mense vescovili ed esaminando le relazioni diocesane presentate alla S. Sede ogni cinque anni. Provvedeva inoltre alla nomina dei coadiutori, ausiliari, amministratori apostolici e altri ordinari particolari, come quello militare. Quanto alle diocesi (incluse le prelature ed abbazie nullius), la sua competenza si estendeva dall’erezione, unione, soppressione delle stesse, alla rettifica dei confini, alla costituzione dei capitoli cattedrali o collegiali e ad ogni provvedimento riguardante la costituzione, conservazione e stato di esse – nominando, nel caso, dei visitatori apostolici –, nonché la costituzione delle province ecclesiastiche e delle regioni conciliari.

Dal punto di vista territoriale esercitava la sua giurisdizione sulle diocesi latine di diritto comune. Invece ogni volta che per la nomina dei vescovi e l’erezione delle diocesi occorreva trattare con i governi civili in base a concordati o convenzioni, come nel caso dell’Italia in seguito ai Patti Lateranensi del 1929, la competenza spettava alla Congregazione degli Affari Ecclesiastici Straordinari, alla quale la Concistoriale subentrava solo per la redazione degli atti esecutivi e per la giurisdizione sul governo diocesano.

La Concistoriale ebbe inoltre il compito di vigilanza sui seminari, i collegi e le scuole dipendenti dall’autorità ecclesiastica dal 1908 al 1915, quando fu istituita la nuova Congregazione dei Seminari e delle Università degli Studi. Nel 1912, Pio X decretava un ulteriore ampliamento delle competenze della Concistoriale affidandole l’assistenza spirituale di tutti gli emigranti di rito latino ed il controllo dell’emigrazione dei sacerdoti. Con la costituzione di riforma generale della Curia romana Regimini Ecclesiae universae del 15 agosto 1967, Paolo VI confermava sostanzialmente tali disposizioni, ridefinendo però alcune delle competenze del dicastero e attribuendogli l’attuale denominazione di Congregazione per i Vescovi.

Rispetto all’Italia unita, l’attività della Congregazione dei Vescovi e Regolari inizialmente sembra attestarsi su posizioni difensive, davanti al «nuovo ordine delle cose». Fu costretta anzitutto ad occuparsi di riordinare tutta la materia beneficiale, sconvolta «ob usurpationes et gravamina bonorum Ecclesiae in Italia existentium» (1871, 1873, 1881). Dovette poi fare i conti con l’ingerenza governativa nella nomina dei vescovi e con il preteso diritto di regio patronato sulle chiese cattedrali di Italia (1878). In seguito alle nuove leggi sulle confraternite ed altre opere pie, intervenne a difesa di queste istituzioni, «da sacrilego spoglio colpite e defraudate dei mezzi necessari a religiosamente adempiere le inviolabili volontà dei fondatori» (1891).

Della formazione e disciplina del clero italiano si occupò ripetutamente, impartendo disposizioni sulla sacra predicazione per condannare l’opera dei «predicatori ammodernati», responsabili di portare sul pulpito «quelle pompose dicerie che trattano argomenti più speculativi che pratici, più civili che religiosi» (1894). «Ob mutatas rerum vices in Italia», emanò il divieto per il clero secolare e regolare di frequentare le università statali (1896), mentre della formazione e disciplina dello stesso clero, davanti al serpeggiare di una «cotal brama d’innovazioni inconsulte», ebbe cura sia sorvegliando l’adempimento di quanto prescritto dalle encicliche pontificie Fin dal principio (1902) e Pieni l’animo (1906), sia promulgando il Programma generale di studi per uniformare e migliorare l’insegnamento nei seminari italiani (1907) e le conseguenti Norme per l’ordinamento educativo e disciplinare degli stessi istituti (1908). Attenzione che con la Concistoriale assunse una dimensione piuttosto scrupolosa, vietando ad esempio agli ordinari di Italia l’introduzione nei seminari della Storia della chiesa antica di Louis Duchesne (1911) ed indicando con altra apposita circolare i libri e i manuali da dare in lettura ai seminaristi (1913).

Su aspetti più prettamente disciplinari il dicastero intervenne disciplinando l’afflusso del clero secolare delle diocesi meridionali italiane alla città di Napoli (1908), vietando ai chierici di prendere parte all’amministrazione di banche e casse rurali (1910), di accedere alle cariche di consigliere comunale e provinciale e di appartenere ai sindacati (1914). Davanti a casi estremi di violazione della disciplina ecclesiastica reagì energicamente fulminando l’interdetto alle città di Adria (1909) e Galatina (1913), in seguito all’aggressione fisica subita dai rispettivi vescovi.

Rispose agli sconvolgimenti cagionati dalla Grande Guerra impartendo direttive sul clero militarizzato (1916-17) e istituendo un ordinario comune per i sacerdoti e i seminaristi profughi, internati o dispersi nelle varie diocesi di Italia (1918). Alla fine del secondo conflitto mondiale, con una circolare del 1945 assunse dirette informazioni dai vescovi italiani circa l’entità dei danni provocati dagli eventi bellici a persone e cose nelle loro diocesi. Le gravi strettezze economiche della maggior parte del clero italiano furono oggetto di alcuni provvedimenti straordinari tendenti a far sì che «chi serve l’altare possa e debba vivere dell’altare» (1919).

Dal 1908 al 1929, la Concistoriale si occupò dell’elezione dei vescovi in Italia, provvedendo le sedi vacanti con soggetti che possedessero capacità organizzative per far fronte alla scristianizzazione della società per mezzo di una attività pastorale ispirata ai criteri definiti da Pio X, dello sviluppo dell’associazionismo cattolico e della repressione di ogni indizio di modernismo.

Fino al 1970, quando fu costituita l’apposita commissione pontificia, la Concistoriale si prese cura poi delle problematiche legate al fenomeno migratorio con circolari ai vescovi italiani sulla cura dei migranti (1914-15) e ai vescovi calabresi sulla costituzione di patronati ecclesiastici in favore degli stessi (1916), con l’istituzione di un prelato per l’emigrazione italiana (1920) e con la “tessera ecclesiastica” dell’emigrante (1923). Con circolare del 1947 il dicastero chiese ai vescovi italiani di presentare “sacerdoti di vita intemerata” e “pronti al sacrificio” per l’assistenza agli emigranti. Promosse e coordinò inoltre diverse iniziative per l’apostolato del mare, dell’aria e dei nomadi. La giurisdizione dell’ordinario militare e dei cappellani militari in Italia fu invece definita con due decreti (1925, 1940).

Per quanto riguarda le conferenze episcopali italiane, sanzionate già a livello regionale da una circolare del 1889 della Congregazione dei Vescovi e Regolari, fu disciplinata la celebrazione dei concili regionali (1919) e approvato lo statuto della nuova Conferenza Episcopale Italiana (1965). Per rispondere meglio alle mutate esigenze della cura animarum da una parte invitò gli ordinari italiani ad una migliore distribuzione del clero, esortando a soccorrere generosamente le diocesi che ne erano sprovviste (1951), dall’altra sancì diversi riordinamenti destinati a dare alle diocesi «una dimensione demografica ed ecclesiastica sufficiente» per rispondere alle esigenze del diritto canonico e dei bisogni pastorali moderni (1966, 1987).

Come per altre congregazioni romane, la linea dominante nell’interazione con l’Italia sembra evolvere da una posizione di iniziale resistenza alla novità dello Stato unitario ad una posizione più attenta alle nuove esigenze pastorali e sociali, ovviamente risentendo di volta in volta degli orientamenti dei diversi pontificati e del personale direttivo del dicastero.

Fonti e Bibl. essenziale

M. Costalunga, La Congregazione per i Vescovi, in La Curia romana nella Cost. Ap. «Pastor Bonus», Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 1990, 281-292; N. Del Re, La Curia romana. Lineamenti storico-giuridici, Edizioni di storia e letteratura, Roma 19984, 136-145; G. Vian, La riforma della Chiesa per la restaurazione cristiana della società. Le visite apostoliche delle diocesi e dei seminari d’Italia promosse durante il pontificato di Pio X (1903-1914), Herder, Roma 1998, 241-934; F. Jankowiak, La Curie romaine de Pie IX à Pie X. Le gouvernement central de l’Église et la fin des États pontificaux (1846-1914), École française de Rome, Rome 2007, 573-576; L’attività della S. Sede, 1939-2005; A.R. Baker, Congregación para los obispos, in Diccionario general de derecho canónico, II, Universidad de Navarra-Thomson Reuters Aranzadi, Navarra 2012, 554-556; A.M. Dieguez, Governo della Chiesa e vigilanza sulle chiese nelle plenarie della Congregazione Concistoriale. Proposte degli eminentissimi padri e decisioni del Santo Padre, in Le gouvernement pontifical sous Pie XI: pratiques romaines et gestion de l’universel, a cura di Laura Pettinarioli, École française de Rome, Roma 2013, 585-606.


LEMMARIO




Congregazione per il Clero - vol. II


Autore: Alejandro M. Dieguez

Così denominata dalla cost. Regimini Ecclesiae Universae di Paolo VI, del 15 agosto 1967, la Congregazione del Concilio, venne istituita per curare la retta interpretazione e applicazione delle norme del Concilio di Trento. Anche dopo l’unità d’Italia continuò ad occuparsi prevalentemente della disciplina ecclesiastica del clero secolare e del popolo cristiano, dirigendo l’istruzione catechistica e curando l’osservanza dei precetti di vita cristiana, esercitando la sua giurisdizione su parroci, canonici, confraternite, pie associazioni, azione cattolica, legati pii, benefici, offici, beni ecclesiastici, tasse e tributi. Oltre ad occuparsi della revisione degli atti dei concili e delle conferenze episcopali nazionali e regionali, curò l’esame delle relazioni ad limina ma solo fino al 1908, quando tale compito fu devoluto alla Congregazione Concistoriale dalla Sapienti consilio, che tolse al Concilio buona parte delle sue attribuzioni tradizionali. Anche se strutturato formalmente in tre sezioni specifiche solo dal 1929, il dicastero esplicitò la sua attività nei tre campi della disciplina del clero e dei fedeli, dell’attività pastorale e catechistica e dell’amministrazione dei beni ecclesiastici.

Occupandosi della disciplina del clero in seguito alla costituzione dello Stato italiano, dovette affrontare casi non privi di implicazioni politiche, come la situazione giuridica di un canonico condannato al carcere «quia adversus actuali gubernandi ordini et quia obsequens aulae Romanae» (1868) o quello, ancor più rumoroso, del “processo del caffè” intentato dalla curia milanese contro don Davide Albertario, noto e scomodo campione dell’intransigenza, per aver infranto la legge del digiuno eucaristico (1884-1885). Dovette poi regolare l’emigrazione del clero italiano in America (1890), ribadire l’impossibilità di nominare due vicari generali nella stessa diocesi (1893-1894), condannare l’abuso della celebrazione di messe come merce di scambio per l’acquisto di libri, di suppellettile sacra o di abbonamenti a giornali (1893, 1897).

Fino al 1908, quando questi due compiti furono poi concentrati nella Concistoriale, esercitò la sua sorveglianza sul governo pastorale dei vescovi tramite l’esame sia delle relazioni quinquennali (ad limina) che, per un breve quadriennio, delle relazioni sulla visita apostolica alle diocesi di Italia, indette da Pio X per mezzo del Concilio in modo da poter conoscere, nelle mutate condizioni delle popolazioni, «quid boni ac meriti alicubi sit, aut quid forte reprehensione dignum» (1904). Per quanto riguarda i concili e le conferenze episcopali regionali – nell’Italia postunitaria non furono celebrati concili nazionali e la Conferenza Episcopale Italiana mosse i primi passi soltanto nel secondo dopoguerra – ribadì nel 1932 la necessità di convocare ogni anno le conferenze episcopali nelle singole regioni ecclesiastiche italiane e di rimettere le deliberazioni alla stessa congregazione per l’esame dei relativi decreti.

Nell’ambito della tutela della disciplina dei fedeli, cercò inizialmente di contrastare il proselitismo protestante, soprattutto a Roma (un questionario sull’argomento fu diramato agli ordinari d’Italia nel 1947), poi con l’istituzione del Centro per la Preservazione della fede nel 1959 la sua attività attenuò il tono polemico per assumere un compito di illustrazione dei principi della dottrina cattolica e di promozione della cultura biblico-religiosa. Dal 1961 si occupò anche del fenomeno turistico per provvedere alle cui esigenze fu istituito nel 1966 un apposito Ufficio per la pastorale del turismo. Seguì inoltre con particolare attenzione il fenomeno della moda, il problema del comunismo e della partecipazione dei credenti al Partito comunista.

Un altro importante ambito di impegno della congregazione è stato quello della promozione dell’insegnamento catechistico: per dargli un maggiore impulso diramò un questionario ai vescovi italiani sull’insegnamento della dottrina cristiana ai fanciulli e agli adulti (1920), ribadendone l’importanza con altra circolare in seguito al ripristino dell’insegnamento religioso nelle scuole primarie operato dal Fascismo (1924) e promulgando un testo nazionale per le scuole primarie d’Italia (1931). Istruzioni e norme per lo stesso insegnamento nelle scuole pubbliche italiane furono diramate invece con una circolare del 1930, mentre con un decreto del 1931 furono modificate alcune formule del Catechismo della dottrina cristiana di Pio X, in seguito al riconoscimento degli effetti civili al sacramento del matrimonio, sancito dai Patti Lateranensi. Con decreto del 1935 istituì l’obbligo per gli ordinari di trasmettere una relazione quinquennale sull’insegnamento catechistico. Oltre alla normale e continua vigilanza sull’insegnamento religioso nelle scuole statali con la relativa revisione ed approvazione dei testi, promosse congressi, convegni e corsi per lo studio dei problemi catechistici e per l’approfondimento della metodologia.

In seguito agli eventi che decretarono l’unità d’Italia, la Congregazione del Concilio fu chiamata ad intervenire in difesa dei beni ecclesiastici «a Praedonibus publicis usurpata» con le leggi che, ad esempio, consentivano di impossessarsi dei fondi di iuspatronato cedendo al fisco la terza parte e di abolire le decime ecclesiastiche (1867-1887). Prese poi energicamente posizione davanti ai tentativi di introdurre nelle province ecclesiastiche veneta e milanese la prassi dell’elezione popolare dei parroci, appena concessa per le diocesi della Svizzera (1874).

Dopo i Patti Lateranensi diramò istruzioni relative all’amministrazione dei beni beneficiari ed ecclesiastici in Italia, stabilendo precise norme circa la consegna della gestione economale, la custodia di titoli e valori, il funzionamento degli uffici amministrativi diocesano e centrale (1929-1930); norme richiamate con circolare del 1960, onde evitare inconvenienti «in una materia così complessa e delicata». Si occupò del patrimonio artistico delle chiese italiane emanando nel 1939 disposizioni per la sua custodia e conservazione, mentre alcune norme circa il prestito del materiale conservato negli archivi ecclesiastici furono comunicate successivamente con lettera del dicembre 1952. Inoltre esercitò sorveglianza sugli enti ecclesiastici in Italia, in particolare sulla gestione delle casse diocesane, delle casse rurali e banche cattoliche, dei santuari (il prefetto del Concilio fu alla guida anche della Congregazione Lauretana, tacitamente soppressa dal CIC del 1917 e ripristinata come commissione da papa Giovanni XXIII nel 1960), e delle basiliche palatine (Acquaviva, Altamura, Bari, Benevento e Manfredonia).

Nel periodo della ricostruzione dopo la seconda guerra mondiale, il dicastero si impegnò a favorire la riparazione dei danni bellici e la costruzione di nuove case parrocchiali. Per consentire la dotazione di nuove parrocchie, dal 1955 permise l’esecuzione di stralci di terreno dai benefici meglio provvisti in Italia. Approvò poi la conversione della proprietà fondiaria ecclesiastica sia per assecondare la politica agraria italiana che per favorire lo sviluppo dell’edilizia popolare, procurando comunque nuovi e utili investimenti.

Nel 1963, in seguito alla entrata in vigore del nuovo catasto edilizio in Italia e all’applicazione di nuove imposte erariali, intervenne con determinazione affinché fossero tenuti in dovuta considerazione i fini degli stabili, oltre alla carenza dei mezzi in cui si trovavano gli enti tassati, costituiti a scopo di religione, di cultura, di carità, di istruzione e formazione cristiana del popolo. Alla formazione del personale delle curie vescovili provvide con il corso di prassi amministrativa canonica tenuto presso lo studio annesso alla congregazione. Un obiettivo fortemente perseguito dal dicastero sin dagli anni Venti fu il miglioramento della vita spirituale e materiale del clero in Italia: vi furono infatti tentativi di imporre delle pensioni o tributi sui benefici pingui, di aprire una casa di riposo per il clero anziano e povero e di riordinare la distribuzione del clero nell’Italia meridionale. Raccogliendo il contributo delle diocesi italiane, favorì l’apertura nel 1936 del “sanaclero” di Arco per i sacerdoti poveri e ammalati.

Dopo un primo progetto di “previdenza per il clero in Italia” del 1924, nel 1941 il Concilio provvide ad istituire una “Cassa di sovvenzioni per il clero bisognoso-invalido in Italia”. Oltre a sostenere l’attività della Federazione tra le associazioni del clero affinché fosse sempre rispondente alle esigenze dei tempo, seguì con attenzione le fasi parlamentari della legge civile che nel 1961 istituì un Fondo per l’assicurazione di invalidità e vecchiaia del clero in Italia. Dopo la promulgazione dei decreti conciliari e delle relative norme esecutive nel 1966, il dicastero si adoperò per adeguare la sua giurisprudenza e la sua prassi alle nuove direttive e allo spirito del Concilio Vaticano II. Come per altre congregazioni romane, la politica ecclesiastica nei riguardi dell’Italia sembra evolvere da una posizione inizialmente difensiva rispetto alla novità dello Stato unitario ad un atteggiamento di promozione e stimolo, secondo le nuove esigenze pastorali e sociali, gli orientamenti dei diversi pontificati e del proprio personale direttivo.

Fonti e Bibl. essenziale

La Sacra Congregazione del Concilio. Quarto centenario dalla fondazione (1564-1964). Studi e ricerche, Città del Vaticano 1964; N. Del Re, La curia romana. Lineamenti storico-giuridici, Edizioni di storia e letteratura, Roma 19984, 149-162; L’attività della S. Sede, Città del Vaticano 1939-2005; F. Jankowiak, La Curie romaine de Pie IX à Pie X. Le gouvernement central de l’Église et la fin des États pontificaux (1846-1914), École française de Rome, Rome 2007, 577-578; M. Piacenza, La Congregazione per il Clero, in Ephemerides Iuris Canonici 50 (2010) 79-120; D. Salvatori, Congregación para el Clero, in Diccionario general de derecho canónico, II, Universidad de Navarra-Thomson Reuters Aranzadi, Navarra 2012, 532-535; A.M. Dieguez, La sollecitudine pastorale della Chiesa nelle Plenarie della Congregazione del Concilio durante il pontificato di Pio XI (1922-1939), in Studi in onore del Cardinal Raffaele Farina, Biblioteca Apostolica Vaticana, Città del Vaticano 2013, 497-522.


LEMMARIO




Congregazioni religiose femminili - vol. II


Autore: Giancarlo Rocca

La struttura istituzionale della congregazione religiosa. Al momento dell’Unità d’Italia, nel 1861, la struttura istituzionale della congregazione religiosa era ormai definita, grazie anche al contributo delle congregazioni italiane sorte tra gli inizi dell’Ottocento e il 1861. In particolare, superato il momento delle origini nel 1808, in cui le Figlie della Carità Canossiane avevano ancora adottato l’antica struttura della autonomia delle singole case, gli istituti religiosi italiani si erano incamminati verso la centralizzazione dell’istituto, con superiora generale, superiora provinciale e case filiali, e in questo cammino un contributo – per il riconoscimento della figura della superiora generale – era stato dato dalle Figlie del Sacro Cuore di Gesù, fondate nel 1831 dal canonico Giuseppe Benaglio e Teresa Eustochio Verzeri, e dalle Ancelle della Carità di Brescia, fondate nel 1840, da Paola Di Rosa, per la figura della vicaria generale.

Un tentativo di ampliare la struttura della congregazione religiosa, presentato attorno agli anni ’80 a Napoli da parte di Caterina Volpicelli, fondatrice delle Ancelle del Sacro Cuore, che desiderava far riconoscere come religiose anche le sue Ancelle che vivevano nelle loro case, senza abito religioso, ricevette la risposta negativa della S.C. dei Vescovi e Regolari, ormai tesa a chiarire e fissare giuridicamente la struttura della congregazione religiosa, e quindi, inserendo tra le sue caratteristiche, l’obbligo della vita comune.

Ciò nonostante, anche le congregazioni italiane, alla pari delle congregazioni del mondo intero, non furono riconosciute come “religiose”, ma solo come pie associazioni femminili, certamente sino alla Conditae a Christo del 1900, che cominciò a usare questa parola nei loro confronti, sancita definitivamente nel Codice di diritto canonico del 19.

Le leggi generali di soppressione del 1866 e 1873. Le leggi generali di soppressione degli istituti religiosi in Italia del 1866, estese a Roma nel 1873, provocarono, ovviamente, delle difficoltà, ma non portarono, di fatto, alla scomparsa di alcun istituto religioso. Le leggi di soppressione tolsero anche alle religiose quel riconoscimento giuridico civile che garantiva i loro beni – come corporazioni – di fronte allo Stato, ma non la possibilità di continuare a vivere in comune, come libere cittadine, e quindi a possedere, come religiose a titolo personale, sottostando in tutto alle leggi dello Stato.

Le congregazioni religiose avevano, in quel momento, un notevole punto di forza, nel fatto di non essere riconosciute come religiose dal diritto canonico del tempo. Così, proprio basandosi sul loro carattere “non religioso”, furono molti gli istituti che riuscirono a salvarsi dalla soppressione. Tra i primi figura quello delle Maestre Pie della Presentazione di Maria SS.ma, di Genova, nello stesso anno 1866, subito seguito dai vari istituti di suore Dorotee, e da molti altri, dichiarato dallo Stato istituti pubblici di educazione e di istruzione femminili. In un resoconto del 1872 erano già 156 gli istituti che, considerati laicali, avevano potuto conservare i loro beni.

Per le congregazioni religiose residenti in Lombardia la via per sfuggire alla soppressione fu quella di appellarsi al Trattato di Zurigo, stipulato nel 1859. Prevedendo – a seguito delle guerra d’indipendenza – che la cessione della Lombardia al Regno di Sardegna avrebbe comportato la soppressione delle corporazioni religiose e l’incameramento dei loro beni (come già avvenuto nel Regno di Sardegna nel 1848 e nel 1855), nel trattato tra Austria, Francia e Regno di Sardegna, siglato nel 1859, era stato inserito (su proposta del preposito generale dei Gesuiti, padre Peter Johann Beckx) l’articolo XVI a favore delle congregazioni religiose presenti in Lombardia nel caso il territorio passasse alle dipendenze di una autorità civile che non autorizzasse il mantenimento delle loro istituzioni.

Al Trattato di Zurigo si appellarono molte congregazioni religiose lombarde, e tra esse le Orsoline di San Carlo, di Milano, le Figlie della Carità Canossiane a Como, le Suore della Sante Capitanio e Gerosa, ancora a Milano. La via maestra, comunque, per salvare gli immobili fu quella di adottare le leggi dello Stato, cioè quelle forme di possesso previste per i singoli cittadini e per le società civili che essi potevano legittimamente costituire. In questo modo si comportarono le Marcelline di Milano, che, nel dicembre del 1866, costituirono una “Società educativa” e contemporaneamente distribuirono le proprietà delle loro case di Cernusco, Vimercate e Milano a piccoli gruppi di Marcelline in società tra loro. E ugualmente fecero le Figlie della Carità Canossiane, di Milano; le Suore di Carità delle Sante Bartolomea Capitanio e Vincenza Gerosa, di Milano; le Figlie di San Giuseppe fondate da don Luigi Caburlotto, le Serve dei Poveri di Palermo (che costituirono una società tontinaria), e le Ancelle della Carità di Brescia, che costituirono la “Società anonima San Giuseppe”, e le Figlie di Maria Ausiliatrice che costituirono la società anonima immobiliare “L’Ausiliare”, e tante altre ancora che sarebbe troppo lungo elencare. Il risultato finale fu che, proprio adeguandosi alle leggi dello Stato, anche le congregazioni religiose femminili riuscirono non solo a difendere i loro patrimoni, ma ad accrescerli, anche in misura considerevole, costruendo continuamente nuove case, scuole, oratori, chiese, asili ecc. Ciò era reso possibile, per un verso, dalla vita comune delle religiose, che facilitava il risparmio; per l’altro, dai compensi che le amministrazioni comunali (nel caso di asili, scuole ecc.) o statali (per le carceri) versavano loro previe apposite convenzioni. In questo modo le religiose arrivarono al concordato del 1929 con una presenza molto rilevante nella vita italiana.

L’evoluzione delle opere. Tra le tante opere svolte nel lungo periodo 1861-2010 – asili nido per aiutare la madre che lavorava; orfanotrofi; educandati; convitti per operaie; scuole speciali per sordomuti; case religiose trasformate in ospedale nel corso della prima guerra mondiale; cucine economiche; dormitori per poveri; aiuto a ex carcerate; accoglienza degli Ebrei durante la seconda guerra mondiale a Roma particolarmente, ma anche in tante altre case d’Italia, ecc. – tre rivestono un particolare interesse.

L’ospedale. Le congregazioni ospedaliere avevano provveduto, sin dalla prima metà dell’Ottocento, a preparare le proprie religiose per lo svolgimento delle mansioni infermieristiche, con appositi insegnamenti impartiti dai medici degli ospedali nei quali esse prestavano servizio. In Italia sino ai primi anni del Novecento non esistevano alcun manuale per l’assistenza infermieristica, e quindi degno di nota appare l’iniziativa di mons. Giovanni Antonio Farina, fondatore delle Suore Dorotee a Vicenza, che per loro fece tradurre e pubblicare in italiano nel 1878 un manuale francese sulla formazione delle infermiere. In seguito la formazione delle religiose infermiere venne svolta nelle cosiddette “scuole samaritane” e più tardi nelle scuole infermieristiche annesse agli ospedali dove già lavoravano le religiose. Il presupposto base, comunque, era che le suore dovessero essere infermiere e non potessero divenire medici, essendo la medicina una delle professioni proibite al clero e ai religiosi sin dal Medioevo.

I “convitti per operaie”. Essi erano sorti per aiutare le giovani che si trovavano lontano da casa per esigenze di lavoro, quindi in risposta a richieste sia di famiglie, che cercavano una protezione per le loro figlie, sia di parroci, che temevano per l’incolumità delle giovani, sia di imprenditori, alla ricerca di una sistemazione soddisfacente per le loro filandiere. E molte furono le congregazioni impegnatesi in quest’opera, dalle suore della Sacra Famiglia, fondate da Elisabetta Cerioli, alle suore della Carità di Lovere che complessivamente diressero 26 convitti per operaie, tutti localizzati nel Nord Italia; alle Salesiane di don Bosco, alle Guanelliane e a tanti altri ancora, sicuramente sin verso il 1930-1940 (Giovanni Gregorini, I convitti per operaie…: v. bibl.).

La scuola. Subito dopo l’Unità d’Italia, diversi istituti inviarono le loro religiose alle conferenze magistrali e pedagogiche per essere abilitate all’insegnamento elementare, e poi anche a regolari scuole normali per conseguire la patente elementare e successivamente anche i diplomi di ginnastica, mentre non pochi istituti crearono scuole normali interne per formare le proprie religiose e le giovani, sottoponendole poi tutte a esami pubblici. Tra le prime figurano le Marcelline di Milano, le Suore di S. Anna di Torino, le Figlie della Carità di s. Vincenzo de’ Paoli a Napoli. E numerose furono le religiose avviate a studi universitari, già alla fine dell’Ottocento, e tra le prime figurano ancora una volta le Marcelline di Milano, le Salesiane di don Bosco e le Figlie del Sacro Cuore di Gesù fondate da Teresa Eustochio Verzeri. L’apertura, nel 1882, del Magistero femminile a Firenze e a Roma costituì una nuova possibilità per la formazione delle religiose, alcune delle quali si diplomarono avendo come esaminatori Giosué Carducci e Maria Montessori.

La conclusione – banale, si potrebbe dire – è che con le loro opere le religiose italiane contribuirono notevolmente ad aumentare il benessere economico dell’Italia.

Il Concordato del 1929. Già prima del Concordato del 1929 lo Stato italiano non aveva mancato di servirsi degli istituti religiosi femminili, chiamando, ad es., le Figlie di S. Anna nella neocolonia italiana dell’Eritrea, o altri istituti per il servizio nelle carceri femminili. Il Concordato apriva ampie possibilità per il riconoscimento giuridico degli istituti religiosi di diritto pontificio, e quindi per la sistemazione dei loro beni. Gli istituti religiosi, però, sul momento furono restii a utilizzarlo, timorosi di ritorsioni da parte di uno Stato che aveva incamerato tanti loro beni, e fu necessario l’intervento di Pio XI – tramite il card. Ildefonso Schuster – perché rompessero gli indugi.

Da parte sua, la S. Sede cercò di facilitare il più possibile gli istituti religiosi bisognosi di trovare una sistemazione civile alle loro proprietà, e creò il cosiddetto “pro-decreto di lode”, concesso a istituti configurati di diritto pontificio di fronte allo Stato italiano, ma che restavano di diritto diocesano di fronte alla Chiesa. Esso venne concesso a molti istituti femminili (Ancelle dell’Immacolata, Figlie del Sacratissimo Cuore di Gesù, Francescane Ancelle di Maria ecc.), suscitando, alla fine, difficoltà da parte del Governo italiano, che premeva per il rispetto di quanto sancito nel Concordato del 1929.

L’insegnamento delle statistiche. Le statistiche indicano chiaramente che ancora nel 1881 – come già nel censimento del 1861 – le regioni con il maggior numero di religiosi erano quelle del Sud, con Campania e Sicilia in testa. Si sa, però, che esse erano per lo più monache, mentre al Nord si stavano sviluppando le nuove congregazioni religiose, che poco per volta superano il numero delle monache in tutte le regioni, anche nel Sud. Le percentuali del 1951, in base al numero degli abitanti (10.000) indicano che al Nord si superano le percentuali del 30%, mentre Campania e Sicilia restano tra il 10 e il 20%. Ciò conferma che la storia e la presenza della vita religiosa in Italia si differenzia tra Nord e Sud.

Le religiose italiane nei censimenti posteriori all’Unità d’Italia
               
  1881 1901 1911 1921 1931 1951
            Suore %
Piemonte 2.645 4.435 5.380 10.373 16.225 18.335 50
Lombardia 2.183 4.637 7.637 11.139 20.841 26.738 41,5
Trentino-Alto Adige 2.020 2.497 34
Veneto 1.151 2.969 4.030 7.834 11.621 20.581 34
Friuli-Venezia Giulia 854 1.426 34
Liguria 1.964 2.844 3.513 4.573 6.455 7.309 40,4
Emilia-Romagna 859 1.543 1.656 3.984 6.788 7.816 30,7
Toscana 1.984 3.204 2.875 5.671 8.072 9.278 25,9
Umbria 812 1.053 1.315 1.963 2.746 3.582 35,4
Marche 975 1.285 1.222 2.309 3.338 4.215 29,7
Lazio 2.427 5.353 5.317 7.235 12.453 19.682 63,4
Abruzzo e Molise 712 764 566 935 1.130 1.673 12,9
Campania 4.938 5.072 5.137 5.434 7.179 6.719 19,8
Puglia 1.962 2.816 1.981 2.116 3.154 4.273 15,9
Basilicata 335 302 294 149 386 2.242 13,2
Calabria 536 584 629 590 1.085 1.632 8
Sicilia 4.465 4.122 3.679 3.913 5.999 8.534 16,5
Sardegna 224 268 349 637 923 1.457 10,7
               
Totale 28.172 40.251 45.616 71.679 112.208 144.171 30,3

Un ulteriore confronto con le percentuali di nubilato permette di comprendere che il numero delle religiose in Italia non diminuisce a seguito del concilio Vaticano II, ma già prima, tra il ventennio 1931 e 1951. Se le percentuali di crescita fossero state quelle del 1931, le religiose nel 1951 sarebbero state non 144.171, bensì 169-170.000. Ciò indicava un mutamento che non poteva essere attribuito alle conseguenze della seconda guerra mondiale, ma a un mutamento che stava ormai avvenendo nella società, avvertito soprattutto nelle religioni settentrionali, cioè quelle regioni che nella prima metà dell’Ottocento avevano dato avvio al nuovo sviluppo della vita religiosa.

Le religiose italiane dal 1966 al 2010
 
Anni 1966 1990 2000 2010
 
Religiose 155.962 111.087 89.386 66.965

Fonte. Per il 1966: S. C. dei Religiosi, Ufficio Statistico. Per gli anni successivi: Annuarium Statisticum Ecclesiae, agli anni indicati. Per gli anni 1990-2000-2010 il totale comprende religiose di voti perpetui, temporanei e novizie.

Dopo il concilio Vaticano II. Al Primo congresso generale degli stati di perfezione, svoltosi a Roma nel 1950, le religiose non erano presenti. Le statistiche indicano chiaramente una forte diminuzione del numero delle religiose italiane, dovuto sia al minor reclutamento, sia alle uscite dagli istituti verificatesi negli anni immediatamente seguiti al concilio Vaticano II. Si calcola, infatti, che tra il 1965 e il 1974 circa 15.000 religiose abbiano lasciato i loro istituti. La loro presenza, nel 1974, restava tuttavia molto forte (cf Colagiovanni, Le religiose italiane…: v. bibl.)., poiché esse potevano contare 9.451 scuole materne (circa il 37% di tutte le scuole materne italiane), 1650 scuole elementari (5% rispetto alle scuole statali), 544 scuole medie inferiori (circa il 6,26 in rapporto alle statali), 646 scuole medie superiore (12,50 rispetto alle scuole statali). Per quanto riguardava i servizi ospedalieri, le congregazioni erano proprietarie di 107 cliniche (circa il 12,55 di tutte le cliniche private italiane, che erano 844), operavano in 256 cliniche private e in 1.090 istituti di cura pubblici (circa l’83,39% di tutti gli istituti pubblici). Questa molteplicità di opere è poi notevolmente diminuita, a seguito del costante calo del numero delle religiose, producendo un generale impoverimento economico delle congregazioni religiose femminili (dalle 12.832 case del 1990 si è passati a 8.163 nel 2010), dovendo, da una parte, provvedere alle loro religiose anziane o inferme, dall’altra, sostenere i costi di tante opere, ormai affidate a laici. Dal 1956 tutte le religiose italiane si trovano organizzate nella Unione Superiore Maggiori d’Italia (USMI), che per loro pubblica la rivista Consacrazione e servizio.

Fonti e Bibl. essenziale

G. Rocca, La storiografia italiana sulla congregazione religiosa, in Religiose, religiosi, economia e società nell’Italia contemporanea, a cura di Giovanni Gregorini, Milano 2008, 29-101. A carattere generale: G. Rocca, Riorganizzazione e sviluppo degli istituti religiosi in Italia dalle soppressioni del 1866 a Pio XII (1938-59), in Problemi di storia della Chiesa. Dal Vaticano I al Vaticano II, a cura dell’Associazione italiana dei professori di storia della Chiesa, Roma 1988, 239-294; Id., Istituti religiosi in Italia tra Otto e Novecento, in M. Rosa, ed., Clero e società nell’Italia contemporanea, Bari 1992, 207-256; Id., Donne religiose. Contributo a una storia della condizione femminile in Italia nei secoli XIX-XX, in Claretianum 32 (1992) 5-320 (come estratto, con Appendice, Bibliografia e Indici: Roma, [Edizioni Paoline], 1992; Id., Le religiose italiane, in Cristiani d’Italia. Chiese, società, Stato, 1861-2011, a cura di A. Melloni, II, Roma, Istituto della Enciclopedia italiana, 2011, 959-973; Ministero dell’Interno, Archivio Storico del Fondo Edifici di Culto, I, Le corporazioni religiose (1855-1977), a cura di C. Iuozzo, Roma, Palombi Editore, 2013. Per l’economia durante il periodo delle soppressioni: G. Rocca, Le strategie anticonfisca degli istituti religiosi in Italia dall’Unità al Concordato del 1929: appunti per una ricerca, in Clero, economia e contabilità in Europa. Tra Medioevo ed età contemporanea, a cura di R. Di Pietra e Fiorenzo Landi, Roma 2007, 226-247; Id., L’économie des instituts religieux italiens de 1861 à 1929. Données pour une recherche, in The Economics of Providence / L’économie de la Providence, a cura di Maarten Van Dijck et alii, Lovanio 2012, 295-322. Per le statistiche: Aldo Leoni, Aggiornamento o processo di adeguamento degli istituti religiosi femminili alle esigenze della società italiana, Roma 1958; Emilio Colagiovanni, Le religiose italiane. Ricerca socio grafica, Roma, Centro Studi USMI, 1976, 459ss (scuole) e 495ss (cliniche e ospedali). Per il contributo al benessere della società italiana: Giancarlo Rocca e Tiziano Vecchiato, edd., Per carità e giustizia. Il contributo degli istituti religiosi alla costruzione del welfare italiano, Padova, Fondazione “Emanuela Zancan”, 2011, in particolare lo studio di Giovanni Gregorini, I convitti per operaie, 122-141.


LEMMARIO




Congregazioni religiose maschili - vol. II


Autore: Giancarlo Rocca

La struttura istituzionale delle congregazioni religiose maschili. Anche per le congregazioni religiose maschili fondate in Italia dopo la rivoluzione francese valse il criterio, sino alla Conditae a Christo del 1900, che esse non erano “religiose” in senso stretto, ma solo pie associazioni di sacerdoti. Ciò era già chiaro – oltre i casi di “istituti secolari” come i Sacerdoti secolari dell’istituto Cavanis, fondati a Venezia nel 1802 o dei “missionari apostolici” come gli Stimmatini, fondati nel 1816 a Verona – al momento dell’approvazione dei Rosminiani, nel 1838. Di fatto, alla domanda se si potevano concedere loro i privilegi come “corporazione religiosa”, la S. C. dei Vescovi e Regolari rispose negando che essi potessero essere considerati “corporazione religiosa”, appoggiandosi sul fatto che essi avevano adottato un loro proprio modo di vivere la povertà religiosa, che lasciava il diritto di proprietà ai singoli religiosi, contrariamente a quanto usato sino alla rivoluzione francese dai religiosi che emettevano voti solenni e quindi rinunciavano a qualsiasi proprietà. E in una stessa linea si pose Giovanni Bosco, fondando nel 1859 a Torino il suo istituto, al quale volle dare il titolo di “Società”, distaccandolo da qualsiasi connotazione religiosa.

Conformemente alle usanze del tempo, anche in Italia alcuni istituti maschili (ad es., Rosminiani e Salesiani) ebbero un parallelo istituto femminile, posto alle dipendenze del superiore generale dell’istituto, ma a questo tipo di struttura si pose fine con la Conditae a Christo del 1900 e con le successive Normae del 1901, che riconoscevano una totale autonomia agli istituti femminili. Ci furono resistenze, perché gli istituti femminili traevano vantaggi da un legame con l’istituto maschile per la loro formazione e le scuole che dirigevano (per il caso salesiano cf Grazia Loparco, L’autonomia delle Figlie di Maria Ausiliatrice…: v. bibl.), e quando don Giacomo Alberione, fondatore nel 1914 della Pia Società di San Paolo e nel 1915 delle Pia Società Figlie di San Paolo, chiese alla S. C. dei Religiosi che il superiore generale dell’istituto maschile fosse anche superiore generale dell’istituto femminili si sentì rispondere che ciò non era più possibile dopo le disposizioni del 1900-1901. Così pure, quando negli anni 1949-1953, adducendo motivi apostolici, egli chiese nuovamente che l’istituto delle Figlie di San Paolo fosse diretto dal superiore generale della Società San Paolo, ricevette ancora una risposta negativa, perché la S. C. dei Religiosi era ormai ferma sulla autonomia di tutti gli istituti femminili.

Un contributo all’ampliamento dei fini delle congregazioni religiose venne offerto dalla Società San Paolo. Di fatto, quando l’istituto si presentò alla S.C. dei Religiosi per ottenerne il nulla osta in vista dell’approvazione diocesana, nel 1921 ricevette una risposta negativa perché l’apostolato della stampa non era ritenuto all’altezza della “congregazione religiosa” ed era preferibile, in quel caso, una semplice associazione di sacerdoti e laici. Fu solo con l’intervento di Pio XI che l’istituto poté essere approvato come congregazione religiosa (Rocca, La formazione della Pia Società San Paolo…: v. bibl.).

Le leggi di soppressione del 1866 e 1873. Come già per gli istituti religiosi femminili, le leggi di soppressioni del 1866, estese poi a Roma nel 1873, non portarono alla scomparsa di alcun istituto. Si continuò, anzi, a fondarne di nuovi, come i Missionari Comboniani nel 1867, i Giuseppini del Murialdo nel 1873, i Giuseppini d’Asti nel 1878, gli Scalabriniani nel 1887, i Saveriani nel 1898, i Piamartini nel 1900, gli Orionini nel 1903, i Poveri Servi di don Calabria nel 1907, i Servi della Carità o Guanelliani nel 1908 sulla scia di altre congregazioni dedite alla cura dei disabili, e tanti altri ancora che preferirono, nella quasi totalità, la struttura di congregazione clericale, riducendosi, quelle laicali, solo a pochi esempi (Fratelli Cottolenghini, Figli dell’Immacolata Concezione ecc.).

Per dare una sistemazione giuridica civile ai loro beni e salvarli da eventuali incameramenti, gli istituti maschili adottarono gli accorgimenti allora abituali. I Rosminiani continuarono a intestare i loro beni ai singoli religiosi, secondo la prassi del voto di povertà da loro instaurata. Il Seminario delle Missioni Estere, di Milano, al contrario, costituì nel 1866 una società privata dalla durata indefinita. I Salesiani, che avevano ormai aperto molte scuole, fondarono diverse società anonime o immobiliari: nel 1908 la “Società Anonima Proprietà Fondiarie”, in questo caso valendosi anche dei suggerimenti di papa Pio X e dandole una struttura pressoché “segreta”, conosciuta solo dal superiore generale dell’istituto e non dai confratelli; nel 1919 a Sampierdarena istituirono la “Società ligure-emiliana di beni immboli”; e a Roma, la “Società per case di educazione e istruzione”. Tanti altri istituti si posero nella stessa scia: i Passionisti fondarono nel 1920 la “Società immobiliare varesina”; i Guanelliani nel 1922 la “Società immobiliare anonima Don Guanella”; i Pavoniani nel 1922 la “Anonima Casa istruzione professionale adolescenti derelitti”; la Società San Paolo nel 1923 la Società anonima per azioni San Paolo; i Saveriani la Società anonima per azioni La Previdente; e ancora i Passionisti la Società Francesco Possenti, fondata nel 1927 a Recanati.

Vi furono anche istituti – ultime espressioni di un fenomeno largamente diffuso alla fine dell’Ottocento, quando molti sacerdoti si erano impegnati nella fondazione e conduzione di istituti di credito – che si impegnarono direttamente nella fondazione di “Piccoli crediti”, come allora si diceva. Gli ultimi esempi sembrano essere stati il Piccolo Credito di Rho, fondato nel 1902 come società anonima cooperativa, di cui fecero parte i Figli dell’Immacolata Concezione o Concezionisti, che avevano una casa a Saronno; e il Piccolo Credito di Alba-Benevello, fondato nel 1922 da don Giacomo Alberione.

Il Concordato del 1929 facilitò la sistemazione giuridica, in campo civile, dei beni degli istituti religiosi. In realtà, l’avvicinamento tra Chiesa e Stato era già avvenuto prima, in almeno tre circostanze. Nella prima, quando lo Stato aveva riconosciuto l’utilità degli istituti religiosi per le sue missioni e già poco dopo il 1890 aveva ottenuto di inviare in Eritrea i Cappuccini italiani per sostituirvi i Lazzaristi francesi, con la conseguenza che di fatto non pochi istituti – solo quelli maschili, a quanto risulta – ottennero il riconoscimento civile dal Governo italiano come missionari, e tra essi anche i Salesiani nel 1924 sotto il titolo di “Istituto salesiano per le missioni”. La seconda circostanza, più politica, era il pericolo socialista, individuato come il comune nemico della Chiesa e dello Stato. La terza, invece, riguardava la prima guerra mondiale quando moltissimi religiosi, al fronte come soldati o come cappellani militari, diedero il loro contributo alla patria.

Lo sviluppo delle congregazioni religiose maschili. Le statistiche mettono chiaramente in luce il crollo numerico dei religiosi in Italia dopo la generale soppressione del 1866 e 1873. In pratica, una ripresa, piuttosto limitata, comincia solo dopo il 1911 (Tabella n. 1).

Popolazione italiana e numero dei religiosi in Italia tra il 1861 e il 1931
  Numero popolazione Numero religiosi Indice popolazione Indice religiosi
1861 21.777.334 30.632 100 100
1871 26.801.154 9.163 123 30
1881 28.459.628 7.191 131 23
1901 32.475.253 7.792 149 25
1911 34.671.377 6.644 159 22
1921 38.033.000 7.309 175 24
1931 41.230.047 11.907 189 39

Tabella n. 1. Fonte: Tommaso Salvemini, Il clero secolare, i religiosi e le religiose in Italia dal 1881 al 1931 per compartimenti, Spoleto, Arti grafiche Panetto & Petrelli, 1945 (Estratto dagli “Atti della VII Riunione” della Società Italiana di Statistica, Roma, 27-30 giugno 1943).

Se a ciò si aggiunge che nel numero dei religiosi sono compresi anche Benedettini, Cistercensi, Camaldolesi, Francescani delle varie denominazioni, Gesuiti ecc., cioè religiosi che non appartengono alla figura giuridica della “congregazione religiosa”, qui considerata, appare quasi strepitoso lo sviluppo dei Salesiani, che nel 1931 arrivano a essere un terzo di tutti i religiosi italiani (Tabella n. 2).

Popolazione italiana e numero dei SDB tra il 1871 e il 1931
Popolazione Numero SDB Abitanti per un SDB
1871 26.801.154 77* 348.067
1881 28.459.628 347* 82.016
1901 32.475.253 857* 37.894
1911 34.671.377 2.554* 13.575
1921 38.033.000 2.355* 16.150
1931 41.230.047 3.595* 11.469

Tabella n. 2. Fonte: Archivio della curia generalizia SDB. I numeri contrassegnati con l’* si riferiscono non agli anni indicati per i censimenti, ma tutti a un anno prima, e quindi: 1870, 1880, 1890, 1910, 1920 e 1930.

L’interesse per l’istituzione salesiana dovette essere notevole anche da parte del Governo italiano, perché quando si discusse a quali istituti religiosi concedere le esenzioni fiscali previste dal Concordato del 1929 ci si rifece ai Salesiani. Se era facile, di fatto, definire quali opere fossero di culto e di religione nel caso di istituti dediti alla predicazione e al ministero pastorale, meno lo era nel caso di quelli che svolgevano attività educative o apparentemente commerciali o che in qualche modo rivestivano una veste commerciale. E per quanto riguarda l’attività educativa, la giurisprudenza considerò enti di culto o di religione le fondazioni destinate all’educazione della gioventù, purché modellate sul tipo di quella fondata da s. Giovanni Bosco, cioè su modello salesiano (Il Consiglio di Stato…: v. bibl.).

La confusa situazione politica dopo la seconda guerra mondiale fece sì che la S. C. dei Religiosi si sentisse in obbligo di esortare religiosi e religiose a partecipare alle elezioni del 1948, e si sa che in quelle circostanze non pochi religiosi non esitarono a rendersi presenti di persona, come oratori, ai comizi elettorali.

Le opere degli istituti. Nella molteplicità di opere svolte dalle congregazioni religiose maschili, con un notevole contributo alla creazione del welfare italiano tramite scuole, orfanotrofi, scuole speciali per sordomuti, oratori, ecc., tre meritano di essere sottolineate.

  1. a) Le colonie agricole. Nella tipologia della colonia agricola rientravano istituzioni tra loro differenti, come orfanotrofi, istituti di carità, colonie intese come centri in cui convogliare giovani e ragazzi da rieducare e, ovviamente, istituzioni che intendevano la colonia agricola come strumento di rinascita economica, diventando scuole pratiche di agricoltura (Giovanni Gregorini, Le colonie agricole…: bibl.). In questo campo si impegnarono diversi istituti religiosi, dai Giuseppini del Murialdo a Giovanni Piamarta, cui fu affidata la celebre colonia agricola di Remedello Sopra (Brescia); dagli Orionini ai Guanelliani, impegnati nella colonia San Salvatore in Pian di Spagna e poi a Roma nella colonia S. Giuseppe a Monte Mario; ai Salesiani che tra il 1882 e il 1906 ne diressero oltre una decina raggiungendo una notevole fama con don Carlo Baratta che nello sviluppo dell’agricoltura – attuata secondo il programma di Stanislao Solari – vedeva una nuova funzione del clero (Di una nuova missione del clero dinnanzi alla questione sociale, 1895), per giungere a don Giacomo Alberione che, avviando il suo istituto nel 1914, propose, tra l’altro, anche la fondazione di una colonia agricola.
  1. b) Le scuole professionali. Le congregazioni religiose maschili interessati alla formazione professionale di ragazzi e giovani sono state tante e tra essi vanno annoverate i Pavoniani a Brescia, gli Stimmatini, i Salesiani, i Figli dell’Immacolata Concezione o Concezionisti, i Piamartini, i Frati Bigi, i Fratelli delle Scuole cristiane. In questo quadro certamente i Pavoniani occupano un posto di rilievo con il loro “Istituto S. Barnaba” (con questo nome nel 1821) con le tante specializzazioni di lavoro a favore della gioventù diseredata, tra le quali la più ammirata è la tipografia, che diviene la prima o una delle prime scuole tipografiche italiane. L’interesse qui è notare l’evoluzione di queste scuole. Considerate scuole per ragazzi poveri, orfani e abbandonati, esse avevano inizialmente una preoccupazione soprattutto assistenziale. In questa concezione era naturale che le ore quotidiane di lavoro fossero tante – i ragazzi dovevano in qualche modo provvedere al proprio sostentamento – e poche o pochissime le ore dedicate alla scuola. I Pavoniani, ad es., avevano fissato un tirocinio di ben 9 anni per i loro ragazzi accolti dopo i 10 anni di età, intendendo che il primo triennio fosse tutto a carico dell’istituto; il secondo triennio avrebbe dovuto garantire all’istituto il sostentamento dei ragazzi con il lavoro da essi svolto; il terzo triennio avrebbe costituito un compenso per le spese sostenuto dall’istituto. Ora per questo lungo periodo di formazione essi avevano previsto un orario di lavoro di otto ore quotidiane, rimandando la “scuola” alla domenica. Stessa preponderanza delle ore di lavoro si ritrova all’inizio presso i Salesiani. Poco per volta, la questione mutò e non si tratta solo di imparare un lavoro, ma anche di impartire e ricevere una istruzione. Nasce quindi la questione se queste scuole siano semplicemente dei laboratori-officine per le classi inferiori della società e se non debbono, tenendo conto dell’obbligo di impartire una istruzione, trasformarsi in scuola. La legge del 1902 sul lavoro minorile portò a considerare le scuole professionali come dei laboratori veri e propri, con l’obbligo di fornire dei libretti di lavoro ai loro artigiani. Sarebbe stato lo stravolgimento delle iniziative di religiosi, e per rispondere alle nuove esigenze governative si stabilì una divisione della giornata in quattro ore di lavoro e quattro ore di scuola. Questa particolare struttura portò anche alla edizione di volumi riguardanti il modo di apprendere determinati mestieri (ad es., il tipografo, il calzolaio, il sarto ecc.) e alla figura del maestro coadiutore, maestro d’arti e capo officina nei laboratori e nelle scuole professionali, senza alcun paragone con il fratello converso degli Ordini mendicanti.
  1. c) Le opere a favore degli emigrati italiani. I Salesiani si impegnarono quasi subito nell’assistenza degli emigrati italiani in Argentina già nel 1875, ma poi anche in Belgio, Francia, Germania, Alessandria d’Egitto e, verso la fine dell’Ottocento, negli USA. Il grande passo, però, fu compiuto con la fondazione, nel 1887, di un istituto tutto dedito agli emigrati, gli Scalabriniani o Missionari di San Carlo. In un momento in cui lo Stato italiano ancora non si occupava esplicitamente del problema, con le loro iniziative gli Scalabriniani e altri istituti religiosi non si occuparono solo dei problemi religiosi, ma accanto alle parrocchie italiane fecero sorgere scuole e servizi di vario genere come assistenza ai porti di imbarco, regolarizzazione di documenti, ricerca di un alloggio e di un lavoro.

Dopo il 1950. Anche per le congregazioni religiose maschili italiane il maggior sviluppo numerico si ebbe attorno al 1960.

Religiosi italiani dopo il 1950
 
Anni 1966 1990 2000 2010
 
Religiosi 49.598 27.595 25.880 21.078

Tabella n. 3. Fonte. Per il 1966: S. C. dei Religiosi, Ufficio Statistico. Per gli anni successivi: Annuarium Statisticum Ecclesiae, agli anni indicati. Per gli anni 1990-2000-2010 il totale comprende: vescovi, sacerdoti, seminaristi, diacono permanenti, religiosi non sacerdoti e novizi.

Dopo il concilio Vaticano II gli abbandoni furono numerosi: i Salesiani nel periodo 1969-1973 persero circa 750 religiosi; i Fratelli delle scuole cristiane per il solo anno 1970, 11 religiosi; i Comboniani per il periodo 1975-1979, 39 religiosi. E, come nel case delle religiose, le difficoltà hanno portato a un generale impoverimento economico dei religiosi. Dal 1957 i religiosi italiani sono organizzati nella Conferenza Italiana dei Superiori maggiori (CISM), che pubblica la rivista Religiosi in Italia. Complessivamente, le congregazioni religiose clericali contavano in Italia (nel 2008) 5.542 sacerdoti e 1.014 fratelli laici, di cui oltre 4.000 superavano i 60 anni. La congregazione clericale con il maggior numero di membri era quella dei Salesiani, con circa 2.400 religiosi. Le congregazioni religiose laicali, invece, contavano (nel 2008) 48 sacerdoti e 441 fratelli, di cui oltre 200 avevano oltre 60 anni di età. La congregazione laicale con il maggior numero di membri in Italia era quella dei Fratelli delle Scuole cristiane, di origine francese, con circa 220.

Fonti e Bibl. essenziale

G. Rocca, La storiografia italiana sulla congregazione religiosa, in Religiose, religiosi, economia e società nell’Italia contemporanea, a cura di G. Gregorini, Milano 2008, 29-101. Alla sintesi di D. Gabusi, Metamorfosi della vita religiosa: frati e clero regolare, in Cristiani d’Italia. Chiese, società, Stato, 1861-2011, a cura di A. Melloni, II, Roma, Istituto della Enciclopedia italiana, 2011, 975-986, aggiungere: Ministero dell’Interno, Archivio Storico del Fondo Edifici di Culto, I, Le corporazioni religiose (1855-1977), a cura di C. Iuozzo, Roma, Palombi Editore, 2013. G. Loparco, L’autonomia delle Figlie di Maria Ausiliatrice nel quadro delle nuove disposizioni canoniche, in F. Motto, ed., Don Michele Rua nella storia (Istituto Storico Salesiano – Studi 27), Roma, LAS, 2011, 409-444. G. Rocca, La formazione della Pia Società San Paolo (1914-1927). Appunti e documenti per una storia, in Claretianum 31-32 (1981-1982), 475-690; come estratto: Roma 1992. Per il Consiglio di Stato e il modello salesiano: Il Consiglio di Stato nel sessennio 1941-1946, II, Roma 1949, 99; G. Catalano, Sulla equiparazione agli effetti tributari del “fine di culto o di religione” con i fini di beneficenza e istruzione, in Il diritto ecclesiastico 63 (1952), 268-341. Per il contributo al benessere della società italiana: G. Rocca – T. Vecchiato, edd., Per carità e giustizia. Il contributo degli istituti religiosi alla costruzione del welfare italiano, Padova, Fondazione “Emanuela Zancan”, 2011, in particolare lo studio di G. Gregorini, Le colonie agricole, 142-158, e di V. Rosato, Il contributo degli istituti religiosi a sostegno dell’emigrazione umana, 296-315.


LEMMARIO




Congressi eucaristici - vol. II


Autore: Giuseppe Tuninetti

I congressi eucaristici appartengono alla storia recente della Chiesa: contano 130 anni. Comparvero nell’ultimo scorcio dell’Ottocento, in Francia, a Lille, nel 1881, per decisione dell’Opera dei Congressi Eucaristici internazionali, istituita, per suggerimento di Leone XIII, nel gennaio dello stesso anno. L’iniziativa nacque dall’idea di Émilie Tamisier, ma fu un approdo del movimento eucaristico francese, promosso da varie forze e personalità (san Pier Giuliano Eymard e la sua congregazione, Chévrier, de Ségur e altri), con pellegrinaggi eucaristici, l’adorazione notturna e perpetua, le quarant’ore e altre iniziative, in una particolare atmosfera ecclesiale e politico- sociale.

I c. e., proponendosi anche come rivendicazione della visibilità della fede, professata dalla comunità cristiana, costituirono una forte risposta ecclesiale al contesto politico- culturale- sociale, che tendeva a comprimere le manifestazioni pubbliche della fede. Per questo (e anche per le caratteristiche della spiritualità eucaristica del tempo), essi si caratterizzarono per l’adorazione solenne e le grandiose processioni. Solo dopo il Vaticano II (1962-65) il momento centrale divenne la celebrazione eucaristica. Quanto fosse urgente (anche a causa della ostilità ambientale) la visibilità comunitaria e pubblica della fede si constatò proprio a Lille, dove le autorità proibirono la processione. Nel ventennio successivo i c. e. furono celebrati tutti in Francia e in Belgio, con due eccezioni, in Svizzera nel 1885 e a Gerusalemme nel 1893, quando il papa cominciò a presiederli tramite un legato a latere.

Dal primo di Lille all’ultimo di Dublino (2012), sono cinquanta i c. internazionali, tenuti in media ogni due anni o poco più, con continuità, interrotta solo dalle due guerre mondiali. In Italia, soltanto Roma ospitò il congresso, negli anni l905, 1922 e 2000, anno giubilare. Con Lourdes, nel 1914, si cominciò a seguire un tema guida. Dopo Roma nel 1922, per impulso di Pio XI, si ebbe una loro sistematica internazionalizzazione, con la celebrazione nei vari continenti, a rotazione: Amsterdam (1924), Chicago (1926), Sidney (1928), Cartagine (1930), Dublino (1932), Buenos Ayres (1934), Manila (1937), Budapest (1938 ), Barcellona (1952), ecc. Il Comitato promotore da Parigi passò a Roma nel 1950; nel 1986 Giovanni Paolo II gli attribuì la qualifica di “pontificio” e istituì i Delegati Nazionali per i C. E. Internazionali.

Quasi per gemmazione, dai congressi internazionali sorsero quelli nazionali, là dove il movimento eucaristico era più vivace e dove più diffuse erano le espressioni della devozione eucaristica. Non a caso, il primo congresso si celebrò in Italia, a Napoli (1891), sul tema Difesa dell’Eucaristia e del suo culto, che evidentemente intendeva opporsi alla cultura positivistica – materialistica e agnostica –, la quale, in un contesto di anticlericalismo aggressivo, era culturalmente dominante. Dal primo a quello di Ancona del settembre 2011, sono venticinque i c. italiani. Per numero, l’Italia (fino al 2002) distanzia Francia (18), Brasile (14), Argentina (10), Spagna (9), Perù (8), Filippine (5), Ecuador (5), Colombia, Nigeria e Portogallo (3), ecc.

A Napoli seguì nel 1894 Torino (L’Eucaristia nella devozione privata, nel culto pubblico, nei riguardi dei sacerdoti). Diversamente da Napoli, le autorità non autorizzarono la solenne processione, che si svolse all’interno della cattedrale di S. Giovanni B., mentre centomila persone gremivano la piazza antistante. Seguirono Milano nel 1895 (L’Eucaristia, presenza del Redentore), Orvieto nel 1896 (L’Eucaristia e l’azione sociale) e infine Venezia nel 1897 (Fede, storia, culto dell’Eucaristia). Poi una lunga parentesi, fino al 1920, dovuta a ragioni intra-ecclesiali (crisi del movimento cattolico e modernismo) ed extra-ecclesiali (turbolenze sociali e politiche, eventi bellici); non ultima, l’assenza di una organizzazione nazionale, fino al 1913, quando fu istituito a Roma il Comitato permanente italiano dei C. E.

Il vuoto venne colmato dai c. locali, soprattutto diocesani (frequenti fino al Vaticano II), ma anche, più rari, regionali, celebrati secondo lo schema collaudato e con frequenza variabile, dal Piemonte alla Sicilia. A titolo di esempio: nell’isola, iniziò Catania nel 1905, seguita da Acireale nel 1913 e da Mazara del Vallo nel 1914; in Piemonte, Ivrea dal 1911 al 1964 ne celebrò vent’otto, quasi ogni anno; a Bologna dal 1927 si instaurò la prassi della celebrazione decennale.

I c. nazionali ripresero a Bergamo nel 1920, cui seguirono, a cura del Comitato permanente nazionale, Genova (1923), Palermo (1924), Bologna (1927), Loreto (1930) Teramo (1935), Tripoli, colonia italiana (1937). Dopo la lunga parentesi bellica e postbellica, fu la volta di Assisi (1951), Torino (1953), Lecce (1956) e Catania (1959). A Pisa (1965), pur in pieno concilio, prevalse ancora lo schema preconciliare. La svolta si ebbe nel 1972, a Udine, con un tema tipicamente conciliare, Eucaristia e comunità locale; iniziò la partecipazione del papa. Gli fecero eco Pescara (1977), Il giorno del Signore è la Pasqua della settimana, e Milano (1983), L’Eucaristia al centro della comunità e della missione. Seguirono Reggio Calabria (1988), Siena (1994), Bologna (1997), Bari (2005) e infine Ancona (2011). Con il nuovo statuto del 1996 la gestione dei congressi fu assunta dalla CEI, che li ha inseriti nella programmazione pastorale della Chiesa italiana. Il significato storico e il merito ecclesiale dei c. e.: con modalità diverse e cangianti hanno proclamato la dimensione comunitaria e pubblica della fede, e testimoniato e promosso la centralità dell’Eucaristia e quindi di Cristo nella vita della Chiesa.

Fonti e Bibl. essenziale

Aa.Vv., La Chiesa nella società liberale, 5/I, La vitalità cristiana, Marietti, Torino 1977, 150-171; A. Rimoldi, Profilo storico dei Congressi eucaristici nazionali, Comitato direttivo del 20° CEN, Milano 1981; M. Marcocchi (a cura di), I Congressi eucaristici nella Chiesa e nella società italiana, Vita e Pensiero, Milano 1983; Pontificio Comitato per i Congressi eucaristici internazionali, I Congressi eucaristici internazionali per una nuova evangelizzazione, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 1991; E. Vecchi, La dimensione sociale dell’Eucaristia. Storia, radici e tradizione dei Congressi Eucaristici Nazionali in Italia, Edizioni Centro Eucaristico, Ponteranica 2004; V. Angiuli, I congressi eucaristici nazionali e internazionali, Ecumenica Editrice, Bari 2005.; A. Bello, I congressi eucaristici e il loro significato teologico e pastorale, San Paolo, Cinisello Balsamo (MI) 2005; J.M. Canals Casas, Experiencias y impactos de los Congresos Eucaristicos internacionales en la vida ecclesial, in «Pastoral Lturgica» 3 (2008), 159-180; P. Marini, Eucaristia globalizzata. Il fenomeno dei congressi eucaristici, in «Vita Pastotale» 8 (2011), 77-82.


LEMMARIO




Conversioni - vol. II


Autore: Luca di Girolamo

Il panorama storico delle conversioni tra epoca moderna e epoca contemporanea ci presenta un insieme piuttosto variegato di tipologie in cui vengono ad incontrarsi, sovente in modo drammatico, da un lato diverse esperienze di vita e di formazione culturale e, dall’altro, la forza con la quale la trascendenza di Dio irrompe nel vissuto e rende possibile la trasformazione dell’individuo. Le esperienze vissute dai convertiti non fanno altro che confermare il messaggio che la Chiesa ha ricevuto dal suo Signore offrendolo ad un’umanità che, specie nel periodo che noi consideriamo, vive fortemente condizionata dall’Illuminismo ideologico e tecnocratico, dall’efficientismo e dal relativismo che, nel loro complesso, la allontanano dalla trascendenza.

Si tratta di un fenomeno che ha interessato soprattutto l’Occidente europeo e, con forme proprie, anche l’Italia che ne è parte. Su questa piattaforma si inseriscono alcune figure di intellettuali, scrittori, personalità di altre religioni e semplici laici che, inizialmente lontani dal cristianesimo, operano il passaggio alla fede. Di queste figure illustreremo il contesto in cui avviene la singola conversione e le conseguenze anche nella loro opera e nel tessuto sociale in cui vivono. In alcuni di loro, infatti, la ritrovata verità del cristianesimo ha prodotto effetti notevoli soprattutto sul piano della promozione sociale, oltre che su quello di una fede sinceramente professata.

Intellettuali e scrittori. Fra le numerose personalità della nostra letteratura almeno due meritano di essere segnalate nella loro fondamentale diversità di stile e di epoca: A. Manzoni (1785-1873) e G. Ungaretti (1888-1970). Si tratta di due scrittori che danno voce non soltanto alla loro sofferta esperienza, ma anche al contesto culturale ed esistenziale nel quale vivono. Fermeremo la nostra attenzione all’evento della loro conversione e a come essa si riflette in alcuni loro scritti.

Alessandro Manzoni. Alla conversione del più importante romanziere italiano del secolo XIX concorrono alcuni fattori che ne determinano un lento e meditato svolgimento. Diciamo subito che la conversione di Manzoni non è un atto improvviso, ma porta con sé tutta una visione della realtà, frutto di lenta meditazione. Nato a Milano nel 1785, Manzoni conosce la separazione dei genitori e studia nelle scuole dei Somaschi e dei Barnabiti. Sin dal 1792 la madre, ormai divisa da Pietro Manzoni vive a Parigi con Carlo Imbonati, uomo umile e di alti valori interiori che, tuttavia, muore nel 1805. A partire da quell’anno, lo scrittore si reca a Parigi e ivi soggiorna con la madre venendo a contatto con il pensiero razionalista e sensista che gli permette di acquisire una sempre maggiore limpidezza di ragionamento e di analisi psicologica. Sul piano religioso, il Deismo diffuso nella capitale francese lo allontana sempre più dal Cristianesimo e gli fa criticare la superstizione e anche quegli elementi formalistici che aveva conosciuto nella formazione giovanile. Nel 1807 torna in Italia per la morte del padre e qui conosce Enrichetta Blondel figlia di un banchiere ginevrino e di stretta osservanza calvinista. I due si sposano nel 1808 con rito calvinista e tornano a Parigi. Nel frattempo Manzoni compone Urania, un poemetto in cui si celebra la poesia creatrice di un’etica della civiltà e, in una parola, civilizzatrice; notevole ad esempio la presenza delle Virtù, fra le quali la Fede. Proprio durante la stesura di questa composizione abbiamo il primo manifestarsi di un lento processo di conversione determinata da alcuni eventi: nel 1809 nasce la figlia Giulia e, successivamente, Manzoni chiede a Pio VII di potersi sposare con rito cattolico con Enrichetta, permesso che effettivamente ottiene nel 1810; la moglie quale frattanto, guidata da un sacerdote non alieno da idee gianseniste, E. Degola, coltiva la sua formazione alla fede cattolica che giunge al culmine nel maggio del 1810 all’abiura del calvinismo e il conseguente passaggio alla fede cattolica. A questa cerimonia assistono molte persone. In questo insieme di eventi si colloca il famoso ingresso nella Chiesa di St. Roch di un Manzoni tormentato per la perdita della moglie tra la folla esultante delle nozze di Napoleone e Maria Luisa. Nella chiesa egli si reca per rivolgersi ad un Dio che ancora non vede con gli occhi di una fede consolidata. Sovente si limita a questo evento la conversione che, in realtà, è tutto un processo più complesso che arriva al culmine nell’agosto-settembre 1810 quando Alessandro, la madre Giulia ed Enrichetta ricevono la Prima Comunione. Dopo questo fatto, i tre rientrano a Milano e inizia una nuova vita familiare dove sana e cristiana (guidati anche da don Luigi Tosi) è l’educazione impartita ai figli e, per Alessandro, di produzione letteraria a partire dagli Inni Sacri (1812-1822), dalle Osservazioni sulla morale cattolica (1819) e la lunga e complessa gestazione dei I Promessi Sposi (1821-27). Se fra gli Inni sacri è soprattutto l’ultimo (La Pentecoste) a segnalarsi per densità teologica e meditativa, sono soprattutto le altre due opere che ci illustrano la riacquistata religiosità dello scrittore lombardo e il suo utilizzo per i suoi fini artistici. Nelle Osservazioni troviamo almeno quattro elementi propri della personalità di Manzoni: il rigore logico, la profonda adesione al Vangelo, il rifiuto della casistica e di altre autorità che non siano il Vangelo e, da ultimo, la confluenza delle dottrine della Rivoluzione francese con l’attenzione ai diritti dell’uomo. Ne emerge un tipo di Cattolicesimo liberale che, tuttavia, si verrà affinando successivamente con i rapporti sempre più stretti che il nostro instaurerà con A. Rosmini e che gli faranno gradualmente abbandonare ogni residuo di Illuminismo per optare verso una sintesi tra Idealismo e Cattolicesimo. Nel romanzo troviamo ormai consolidato tutto un Credo che, pur con tracce gianseniste, serve a Manzoni per operare una svolta in seno stesso alla narrativa: una religiosità fortemente legata alla Provvidenza, ma non per questo miracolistica o spettacolare e, non meno importante, la centralità data alla semplicità dei protagonisti (analizzati con raffinata psicologia e contrassegnati da un linguaggio molto denso, basterebbe pensare alla mite e risoluta Lucia e alla figura, in certo senso autobiografica, dell’Innominato nel suo processo di conversione) in antitesi a certa letteratura che privilegiava i potenti. Tale connubio di fede ed arte è stato criticato, ma Manzoni vuole sottolineare come il messaggio cristiano obbliga a scelte che vanno contro-corrente e perciò si pone come fattore critico e, in secondo luogo, come esso non fa che accrescere un ideale morale mai sopito nella sua missione di letterato. Inoltre sul piano della cultura italiana, Manzoni rappresenta il corrispettivo letterario di tutta una produzione melodrammatica che, in quello stesso periodo storico-artistico, ha in G. Verdi il suo massimo esponente: non è un caso che il musicista parmense, non certo dichiaratamente impegnato sul piano confessionale come Manzoni, lo chiamava ‘il Santo’ e, ad un anno dalla morte, gli dedica il suo Requiem (1874).

Giuseppe Ungaretti. Quindici anni dopo la morte di A. Manzoni, nel 1888, nasce ad Alessandria d’Egitto, da genitori lucchesi emigrati per lavori al Canale di Suez, Giuseppe Ungaretti. Rimasto ben presto orfano di padre, Ungaretti vive guidato dalla madre, molto religiosa che lo conduce con sé in preghiera al cimitero ogni settimana. Ventiquattrenne si trasferisce a Parigi dove entra in contatto con gli autori letterari più in voga nel tempo: Leopardi, Baudelaire, Mallarmé e il giovane poeta non nasconde una simpatia anche per Nietzsche. È chiaro che la religiosità cristiana si affievolisce tanto che attorno al 1908, Ungaretti sposa idee anarchiche ed atee oltre a scrivere articoli politici e letterari. Gli anni successivi sono contrassegnati da grande mobilità tra Francia, Egitto e Italia. Lo scoppio della I guerra mondiale lo vede come acceso interventista e nel 1915 inizia la sua attività poetica che trova la sua grande prima prova nella raccolta Il porto sepolto del 1919. Gli anni successivi fino al 1928 vengono trascorsi in diverse città italiane. Il 1928 è l’anno della conversione che non è subitanea, ma nasce in seno ad una riflessione sull’uomo condizionata anche dagli orrori della I Guerra alla quale il poeta aveva partecipato. C’è da osservare che, pur nelle diverse esperienze giovanili, talvolta lontanissime dal dato cristiano, Ungaretti non depone mai la sua passione per l’umanità soprattutto nel suo essere minacciata. Dal 1920 egli si stabilisce a Roma dove ha un incarico presso il Ministero degli esteri e 5 anni dopo inizia a frequentare la grotta del Sacro Speco di Subiaco in preda ad una forte crisi religiosa; nel 1928 in vicinanza della Pasqua partecipa alla liturgia pasquale e agli esercizi spirituali. Si parla perciò di una conversione in Ungaretti, ma rispetto a quella di Manzoni (e chiaramente tenendo conto dei diversi contesti), abbiamo con l’accoglienza del cattolicesimo l’approdo e il compimento di tutta la cura che il poeta lucchese mostrava per l’umanità, nonché un riposo per la sua esistenza. Tutto questo lo vediamo densamente vissuto nella sua poesia La pietà composta proprio nel 1928, dove anche gli spazi tra versi e distici assumono una forte e pensosa espressività a servizio di una meditazione sulla fragile situazione dell’uomo. Anche ne La Madre del 1930, affetti familiari, speranza e fede vengono a combinarsi in tono solenne. Ma la grandezza della fede ungarettiana non può separarsi dalla meditazione sull’uomo in quanto al centro della sua poetica campeggia la luce del Figlio di Dio fatto uomo e l’Incarnazione è l’evento che rende il Cristo “purificante amore”. A lui il poeta si rivolge con intense espressioni che coinvolgono l’umanità in un progetto di redenzione: “Fa ancora che sia scala di riscatto / La carne ingannatrice” (La preghiera, 1928). La fragilità umana viene vissuta da Ungaretti in prima persona quando si confronta con il grande dolore per la morte prematura del figlio Antonietto per un’appendicite malcurata nel 1939, in Brasile. Un dolore che troverà voce nella rievocazione del bambino in Giorno per giorno scritta in 17 frammenti dal ’40 al ‘47. Con lo scoppio della guerra, il poeta è costretto a tornare in Italia anche per l’ostilità del Brasile verso l’asse Roma-Berlino dichiarata nel 1942. Una volta a Roma, il poeta è partecipe delle sofferenze imposte dalla guerra e dalla carestie, non senza aprirsi all’ospitalità verso gli ebrei perseguitati. Sempre in questo periodo è la nomina ad Accademico d’Italia. Altra prova di altissima meditazione cristiana è il lungo testo Mio fiume anche tu, che idealmente si collega ad una poesia del ’16 (I fiumi) nella quale il poeta ripercorreva la sua esistenza attraverso l’evocazione dell’Isonzo, del Serchio, del Nilo e della Senna. Ad essi ora unisce il Tevere di una Roma provata dalla guerra: la religiosità ungarettiana dell’uomo viene ora a consolidarsi e a compiersi nell’immagine del “Cristo pensoso palpito, / Astro incarnato nell’umane tenebre, / Fratello che ti immoli / Perennemente per riedificare / Umanamente l’uomo (…) Ecco, Ti chiamo, Santo / Santo, Santo che soffri”. Un Cristo innestato nella sofferenza della città che è centro della cristianità violata da quella “fantasia ritorta / e mani spudorate / dalle fattezze umane l’uomo lacera / l’immagine divina / e pietà in grido si contrae di pietra” (Mio fiume anche tu, 1943-44). A guerra finita, viene sottoposto a procedimenti di epurazione dai quali viene scagionato e confermato nell’insegnamento. Ciò avrà ripercussioni sulla sua salute ma anche sul giudizio che si avrà su di lui. Dal Cristo, uomo lacerato dagli uomini, Ungaretti passa a considerare la Chiesa nella stessa condizione di “tragica patria” che, nonostante venga uccisa “da venti secoli” dall’uomo, rinasce vivificante ed “umile interprete del Dio di tutti” (Accadrà, 1944). Nel 1968, in occasione del suo ottantesimo compleanno, Ungaretti è segno di solenni celebrazioni in Campidoglio da parte del Governo italiano. Due anni dopo (2 giugno 1970) il poeta muore a Milano, ma i funerali vengono celebrati a Roma e presieduti dall’allora Cardinale Vicario mons. Angelo Dell’Acqua. Ungaretti è il poeta convertito, cantore di Cristo e della Chiesa e dell’uomo che vive e si apre alla speranza guidato da entrambe le realtà capaci, se non di eliminare il dolore cosmico ed esistenziale che lo ha toccato profondamente, di inserirlo in tutta la Redenzione che diviene interpretazione della storia anche nelle sue brutture. Nell’ambito della storia letteraria d’Italia, Ungaretti approfondisce e ed universalizza il carattere drammatico e, a volte, tragico, elemento già presente in autori profondamente cristiani (e a lui particolarmente familiari) come Jacopone e Petrarca, passati tuttavia attraverso i canoni espressivi dei poeti simbolisti e visionari francesi tra XIX e XX secolo, come A. Rimbaud e S. Mallarmé. Qui Ungaretti – dopo un lungo percorso stilistico – si fa araldo e portatore di una parola scabra ed essenziale che, proprio per questo, assume una profonda sacralità, derivante dal suo senso religioso cristiano e, al contempo, alla vita in tutte le sue manifestazioni, gioiose e dolorose.

Appartenenti ad altre fedi. Accanto a figure di scrittori ed intellettuali, appaiono singolari i casi di conversione di persone di differenti confessioni, la cui cultura è talvolta segnata da una profonda avversione al cristianesimo. Esamineremo qui due personaggi la cui conversione ha lasciato, per vari motivi, una forte impressione nell’ambiente italiano, soprattutto romano: Alphonse de Ratisbonne e Eugenio Zolli.

Alphonse de Ratisbonne (1812-1884). La vicenda di Alphonse de Ratisbonne si segnala per la straordinarietà del fatto avvenuto nella Chiesa di S. Andrea delle Fratte a Roma e per il contesto mariano di poco antecedente alla definizione del dogma dell’Immacolata. A viverlo è appunto un ricco banchiere ebreo francese il cui tenore di vita gli consente qualsiasi soddisfazione materiale a cui si aggiunge una netta ostilità verso il cattolicesimo inasprita tra l’altro dalla conversione del fratello Théodore che sarà ordinato prete nel 1830, anno delle apparizioni parigine a Rue du Bac a S. Caterina Labouré. Dopo aver trascorso una vita tumultuosa e sempre segnata dall’avversione al cattolicesimo, Alphonse decide di sposarsi con la cugina Flore, non senza prima compiere un viaggio a Gerusalemme per motivi religiosi mai però troppo sentiti. Un problema di navigazione lo costringe a fermarsi a Roma. Qui incontra il barone de Bussières, fervente cattolico e amico del fratello sacerdote, il quale, sembra metterlo alla prova, donandogli la Medaglia miracolosa coniata per volere della Madonna a seguito di quelle apparizioni. L’ebreo accetta, diciamo per forzata cortesia verso il barone e decide di fermarsi qualche giorno in più a Roma. Nel gennaio del 1842 trovandosi nei pressi della chiesa di S. Andrea delle Fratte non resiste alla curiosità di visitare l’interno della chiesa ed è qui che avviene un evento particolare: dapprima immerso in un’oscurità globale, il Ratisbonne vede la maestosa e luminosissima figura della Vergine che lo invita ad inginocchiarsi e, similmente alla vicenda dell’apostolo Paolo, comprende la tenebra di peccato nel quale era vissuto e la bellezza del cattolicesimo. In tal senso non meraviglia l’illustrazione della sua conversione nei seguenti termini: «Posso spiegare questo cambiamento solo col paragone di un uomo che si risvegli improvvisamente da un sonno profondo o con l’analogia di un cieco nato che di colpo veda la luce; egli vede ma non può definire la luce che lo rischiara e in seno alla quale contempla gli oggetti della sua ammirazione» (A. Ratisbonne, Conversione di un Israelita, 47). Riappacificatosi con il fratello Théodore, undici giorni dopo Alphonse riceve il battesimo aggiungendo al proprio nome quello di Maria ed entra nella Compagnia di Gesù venendo poi ordinato nel 1848. Nello stesso anno dell’apparizione, il Vicariato di Roma istituisce una commissione d’inchiesta per verificare l’autenticità di quanto accaduto. Dopo un lungo periodo di deposizioni e testimonianze, il cardinale Patrizi firma un decreto in cui si riconosce come “istantanea e perfetta” la conversione di Alphonse-Marie dall’ebraismo, a seguito dell’apparizione realmente avvenuta. In seguito ad un’ulteriore e forte presa di coscienza dell’importanza della missione di convertire gli ebrei al cattolicesimo, portata avanti dal fratello mediante la Congregazione Notre Dame de Sion, il Ratisbonne lascia i gesuiti (avendo ottenuto la licenza da Pio IX) e si trasferisce in Terra Santa, dove muore il 6 maggio 1884 ad Ain Karin, il luogo, secondo la tradizione, della Visitazione di Maria a Elisabetta. Sul piano storico, la conversione del Ratisbonne – al di là della caratteristica del fenomeno – si colloca in un momento di forte apologia portata avanti dalla Chiesa del secolo XIX dominata dalla figura di Pio IX. La forza dell’insieme dei fatti appare come una vittoriosa sfida del soprannaturale contro quell’imperante razionalismo condannato in blocco (e forse erroneamente) dal famoso Sillabo. A tal razionalismo si uniscono anche tutta la critica e gli attacchi alla Chiesa propri del tempo. Stando però ai fatti avvenuti a S. Andrea delle Fratte, la vicenda di Alphonse-Marie ha agito sulla cristianità proprio con una sincerità del tutto nuova in un ebreo che, dall’ostilità verso il cristianesimo, diviene anello di congiunzione tra l’antica e la nuova Gerusalemme con una personale privazione di favori e agevolazioni che poteva ottenere nella sua vecchia situazione segnata dalla mondanità e dall’amministrazione dei beni terrestri e del danaro.

Eugenio Zolli. Un’altra singolare e travagliata vicenda di conversione dall’ebraismo è quella di Israel Zoller (Eugenio Zolli) (1881-1956) soprattutto per le reazioni contrastanti che sono seguite alla scelta di questo insigne studioso di abbracciare il Cattolicesimo. Nato in Polonia nel 1881 da numerosa ed osservante famiglia ebrea, dopo una breve parentesi a Vienna, Zolli si trasferisce a Firenze dove frequenta tanto l’Università Statale quanto il Collegio Rabbinico di quella città. Si laurea in filosofia nel 1910 con una tesi di psicologia sperimentale e subito si dimostra interessato alla nascente psicanalisi. L’anno successivo è a Trieste dove, dopo la nomina a rabbino capo, inizia la sua docenza di Lingua e letteratura ebraica a Padova che vedrà interrotta nel 1938 in seguito alle leggi razziali. Nel 1922 prende la nazionalità italiana. Dal 1939 si stabilisce a Roma dove viene nominato rabbino capo e direttore del Collegio Rabbinico e inizia la collaborazione con la Rivista biblica tenuta dai Gesuiti nonché altre pubblicazioni di spicco. L’anno successivo è costretto ad italianizzare il nome in Israele Zolli. Durante il periodo bellico vissuto a contatto con la sua gente perseguitata, Zolli si prodiga per la difesa dei suoi correligionari dalla furia nazista, ricevendo l’aiuto da papa Pio XII che ordina a conventi e monasteri di ospitare e nascondere i perseguitati. Pur ebreo ed insignito di importanti cariche all’interno della sua società, Zolli mostra sempre un certo interesse per la figura di Cristo, tanto da pubblicare Il Nazareno (1938) che, insieme a Israele (1935), è una delle sue opere più importanti. Lo studio profondo e l’esperienza vissuta personalmente di un Cristianesimo che, gradualmente, si insinua nella mente e nel cuore lo portano dimettersi da tutte le cariche in seno alla sua comunità e a richiedere il battesimo che viene celebrato il 13 febbraio 1945: Zolli cambia nome prendendo quello di Eugenio Maria. Anche la moglie Emma lo segue. L’anno successivo Zolli diviene terziario francescano. Nel 1946 anche la figlia Myriam passa al Cattolicesimo. Della propria conversione Zolli ne parla diffusamente nella sua autobiografia dal titolo Prima dell’alba pubblicato in inglese negli USA nel 1954 (ma la stesura originale era in italiano). In questa piccola opera si snoda un percorso globale e ci viene offerto il racconto di una visione di Gesù della quale lo stesso Zolli è partecipe durante un rito per la festa dello Yom Kippur (ottobre 1944). Esperienza esaltante e coinvolgente che segna appunto il passaggio dalla fede degli antichi padri al cattolicesimo. Dopo la conversione, Zolli si trova in notevoli difficoltà economiche ed esistenziali, ma viene grandemente aiutato dai Padri Gesuiti della Pontificia Università Gregoriana (soprattutto da p. Dezza). Intensa la sua vita di preghiera e di studio fino al gennaio 1956 quando viene colpito da broncopolmonite; nonostante l’assistenza e la preghiera, questa malattia lo conduce alla morte vissuta dal Nostro con grande abbandono al Cristo Crocifisso. Zolli muore il 3 marzo 1956, primo venerdì del mese alle tre del pomeriggio come il Cristo e come egli stesso aveva confidato ad una suora che lo assisteva. Impegno accademico e fede sono le due costanti della vita di Zolli che mai considerò il passaggio al Cattolicesimo come rottura totale con l’Ebraismo. Questo elemento importantissimo e da lui sottolineato attraverso i suoi studi non lo pose al riparo da un’ondata massiccia di reazioni in seguito al suo cambiamento. In un suo denso volume Mons. A. Comastri, illustrando la personalità e la vicenda di Zolli, evidenzia tre aspetti che investono la sfera personale e le ricadute sociali ed ecclesiastiche conseguenti alla sua conversione: il carattere profondamente biblico della conversione, le reazioni e la valenza ecumenica alla quale non è estranea la figura di Pio XII, altro protagonista discusso di quegli anni (cf. A. Comastri, Dov’è il tuo Dio? pp. 85-97). Anzitutto il carattere biblico: Zolli è un convertito che mostra notevoli punti di contatto con S. Paolo del quale il grande studioso amava il racconto della conversione. Anche Paolo è un rabbino e viene scosso drammaticamente da una visione luminosa. Aggiungiamo che se l’Apostolo delle genti si pone come instancabile evangelizzatore, la religiosità di Zolli dopo la sua conversione si intensifica nel suo carattere orante e di abbandono alla Provvidenza e sempre teso a evitare il conflitto tra le due fedi. Questo ci permette di collegare il secondo elemento: le reazioni a Zolli, soprattutto di parte ebraica, sono durissime (considerato apostata e definito come “serpente” e traditore, è costretto a lasciare la sua vecchia casa al Ghetto), ma anche da parte protestante non sono da meno. Nonostante questo, Zolli non recede dal percorrere interamente e seriamente questa nuova via. Eppure proprio la Chiesa Cattolica rappresenta per lui un indice di continuità con l’antica sinagoga attraverso quegli apostoli che sono i suoi antenati. L’ostracismo nei suoi confronti accomuna Zolli alla figura di Pio XII grande protagonista della storia della popolazione della Roma occupata e degli ebrei perseguitati. Di questo papa, il grande studioso prese il nome (Eugenio) in segno di quel grande debito di riconoscenza che tutta la comunità ebraica gli doveva, ma in un’intervista la figlia di Zolli ricorda che, più volte, il padre ne previde, a guerra finita, la persecuzione a causa del silenzio dinanzi ai crimini nazisti (cf. A. Comastri, Ibidem, p. 92). C’è da osservare che tale debito di riconoscenza, pur contornato da aspre ed immotivate critiche, è stato riconosciuto da diverse personalità di spicco all’interno dell’ebraismo, in Italia e all’estero. Sgomberato il campo dai fraintendimenti e dalle accuse di scarsa incisività e di debolezza attribuiti a Pio XII in relazione al problema ebraico a Roma, Zolli è stato uno dei primi a comprendere ed interpretare rettamente la condotta di questo successore di Pietro costretto ad agire in modo prudenziale per scongiurare un inasprimento delle condizioni già molto dure che la città di Roma stava vivendo. Zolli si configura perciò come maestro ed esempio di altissima cultura posta al servizio della riconciliazione e della pacifica convivenza interreligiosa, profeta (e, come tale, perseguitato persino presso i suoi: cf. Lc 4,24), nonché precursore di successive aperture che favoriranno l’arricchimento reciproco di due confessioni religiose che non possono, né devono dimenticare il loro inscindibile legame.

Laici convertiti. Nel XX secolo abbiamo alcuni casi di conversioni di persone laiche e lontane dal cattolicesimo che, tuttavia, sono accomunate da iniziative di carattere religioso ed assistenziale provocato dalla loro conversione. In particolare, due sono degni di merito in quanto hanno avuto come obiettivo l’aiuto ad ammalati e il potenziamento della cultura scientifica con la creazione di vere e proprie istituzioni benefiche: prima fra tutte l’Università Cattolica del S. Cuore nella persona di A. Gemelli (1878-1959).

Agostino Gemelli. Si tratta di una delle personalità più prestigiose della Chiesa, della cultura e della società italiane tra XIX e XX secolo, dotato tra l’altro di una spiccatissima e risoluta indole. Nato a Milano nel 1878 in una famiglia assai poco credente e intrisa di idee anticlericali e massoniche tipiche di quell’avversione alla Chiesa seguita all’unità d’Italia, A. Gemelli si mette in luce sin dai primi anni di scuola per il carattere forte e ribelle ad ogni regolamento ed insofferente ad ogni pratica religiosa che difatti abbandonò. Finito il liceo si iscrive nel 1896 alla Facoltà di Medicina a Pavia. Nel febbraio del 1902 viene espulso da un collegio per indisciplina. Lontano dal cristianesimo si entusiasma invece per le idee socialiste collaborando a Pavia al giornale di partito La Plebe. Ma anche con il partito, a seguito di polemiche interne contro il suo maestro C. Golgi (premio Nobel 1906), i rapporti si deteriorarono fino all’espulsione. Intanto Gemelli manteneva, pur nella diversità di idee, rapporti con gli universitari del Circolo Severino Boezio della Federazione Universitaria Cattolica Italiana (FUCI). Del luglio 1902 è la sua laurea in medicina con il massimo dei voti e con una serie di gratificazioni tra cui il ruolo di assistente del suo maestro Golgi. Nel novembre successivo iniziò il volontariato come soldato di sanità all’ospedale militare di Milano dove, attraverso un suo amico L. Necchi, inizia a frequentare un giovane sacerdote G. Pini ed altri giovani francescani. Dal 1903 Gemelli riprende la pratica religiosa che culminò in una decisione inattesa e molto contrastata dai suoi familiari: l’ingresso, al termine del volontariato, nell’Ordine Francescano e compie il suo periodo preparatorio e i suoi studi fra Rezzato e Milano. Ne nascono non poche polemiche anche di natura pubblica, ma nessuno riesce a far recedere il giovane medico dal suo proposito. Nella famiglia religiosa egli prende il nome di Agostino: emette i primi voti nel 1904 e viene ordinato nel 1908. I suoi interessi si volgono verso la psicologia, ma dotato di carattere piuttosto impetuoso Gemelli ha come suo obiettivo principale quello di ravvivare la cultura cattolica soprattutto nell’armonizzare fede e scienza. Il 1907 rappresenta per lui e per la cultura cattolica italiana un anno particolare in quanto, incontratosi con il sociologo G. Toniolo, gli sottopone l’idea di creare un Istituto cattolico di studi filosofici. Per ora è soltanto un’idea che avrà sviluppo molto consistente in seguito. Il porre a servizio della Chiesa, non rinunciando tuttavia al loro metodo proprio, tutte le conoscenze scientifiche conduce Gemelli ad affrontare, studiare e insegnare una serie di questioni e discipline teologiche importanti e, fra esse, un rilievo particolare è dato alla medicina pastorale negli studentati francescani. In funzione di tale avvicinamento tra scienza e fede, egli promuove nel 1910 l’associazione Pro Cultura. Dell’anno precedente era stata la fondazione della Rivista di filosofia neoscolastica modellata su quella in lingua francese di Lovanio. A questo intenso periodo di iniziative in Italia, Gemelli unisce, nel periodo 1910-14, anche soggiorni in Germania dove frequenta numerosi laboratori scientifici ottenendo quindi la libera docenza in psicologia sperimentale che eserciterà negli anni successivi. Fedele all’ortodossia e distante dal modernismo, Gemelli, tuttavia guarda con simpatia ad una certa compatibilità del cristianesimo con l’ipotesi evoluzionistica e, fautore dell’idea di una cultura onnicomprensiva sotto l’egida cristiana, la illustra nell’editoriale Medioevalismo nel primo fascicolo della rivista culturale Vita e pensiero da lui fondata nel 1914. Tale scritto appare quasi come il manifesto programmatico di Gemelli che, seppur datato (specialmente per il tono apologetico), presenta alcune problematiche con le quali la Chiesa si è sempre dovuta confrontare: ateismo, perdita della trascendenza, libero pensiero, riduzione della cultura a puro nozionismo, ecc. “Questo è il nostro scopo – scrive Gemelli a conclusione dell’editoriale – lavorare per la Chiesa Cattolica, per difenderla, per dimostrarle il nostro amore, per farla conoscere e seguire. Lavorare per il nostro paese, per ridonarlo a Gesù Cristo” (A. Gemelli, Medioevalismo, 24). Il suo carattere impetuoso si unisce con un aperto patriottismo a riguardo della I guerra mondiale durante la quale viene arruolato come capitano medico e cappellano militare; ciò gli dà la possibilità di istituire un laboratorio di psicofisiologia per la selezione degli aviatori. Finita la Grande Guerra abbiamo la ripresa dell’idea dell’Istituto Cattolico e il graduale conformarsi di quella che sarà, a partire dal 1921 (anno di inaugurazione), l’Università Cattolica del S. Cuore con le iniziali facoltà di filosofia e scienze sociali. Ciò che contraddistingue l’attività di Gemelli non è solo una grande varietà di intuizione, ma la sagacia con la quale egli ha saputo inserire le sue iniziative (in particolare l’Università Cattolica) nel quadro degli ordinamenti statutari italiani. Questo lo porta ad ottenere il riconoscimento statale del suo centro di studi nel 1924 che, gradualmente, si estende con altre facoltà, ma sempre avendo una particolare cura ed attenzione per la psicologia. Sul piano politico le idee di Gemelli erano assai vicine al regime fascista ormai al potere in Italia, sebbene il religioso avesse sempre optato per l’idea di una societas christiana e, per questo motivo, egli favorisce l’idea della Regalità di Cristo sotto il cui nome fonda tre istituti secolari (Missionarie della Regalità di Cristo nel 1919, Missionari nel 1928 e Sacerdoti missionari nel 1953). La vicinanza al regime e certo antisemitismo da lui manifestato in un discorso commemorativo nel 1939 (sebbene ritrattato nelle sue espressioni più forti e tipiche della tradizione ormai millenaria del popolo deicida), pur accompagnate da un forte sostegno alla Resistenza nel II conflitto mondiale (Gemelli non volle mai riconoscere la Repubblica di Salò) non ha sottratto il Nostro al processo intentato dagli Alleati nel ’46 da cui però viene prosciolto da ogni responsabilità. Sempre in questo anno, Gemelli rimane vittima di un incidente stradale dal quale si riprende e torna a guidare l’Università aggiungendovi anche la facoltà di scienze economiche (1948) e agraria (Piacenza, 1953). L’ultimo atto che vede Gemelli protagonista è la fondazione di una facoltà di medicina con sede a Roma che viene approvata nel 1958 dal Consiglio superiore della Pubblica Istruzione. Tuttavia Gemelli non ne può vedere l’effettiva realizzazione poiché muore il 15 luglio 1959. Le esequie sono officiate dall’arcivescovo G. B. Montini, futuro papa Paolo VI. Studioso, promotore di iniziative, uomo di azione: queste sono le caratteristiche principali, unite ad un carattere molto forte e dinamico, proprie di A. Gemelli, autore tra l’altro di numerosi e variegati scritti in cui vengono trattati temi teologici, medici e spirituali. In lui la scienza ha un notevole ed originale esponente tanto che alcuni suoi scritti restano importanti anche oggi nel campo psicologico. Ma la preoccupazione di Gemelli è il voler costituire un’unità di fondo, nel rispetto dei vari metodi, delle varie scienze a servizio dell’uomo nel suo rapporto con sé stesso, con gli altri e con Dio. È questo il dato più singolare di una svolta cristiana da laico e cresciuto in ambiente ateo che egli ha attuato. Più che di conversione (fatto salvo quello che è l’intervento di Dio su ogni anima) è possibile parlare di un avvicinamento che diviene poi consacrazione totale a Dio sorretta da grande intelligenza e lungimiranza (acuita anche dal confronto con situazioni di altri paesi) con il preciso obiettivo di voler contribuire ad una cultura integrale dell’uomo e per l’uomo, tale da liberarlo non solo dal peccato, ma anche dalla grettezza mentale ed aprirlo alle meraviglie del creato. In questo è evidente un processo di ritraduzione in termini scientifici del carisma francescano che A. Gemelli ha attuato similmente ad un suo illustre predecessore quale è stato S. Bonaventura.

Fonti e Bibl. essenziale

Un volume a carattere generale sul periodo considerato è: E. Guerriero (a cura di), La Chiesa in Italia dall’unità ai nostri giorni, Ed. S. Paolo, Cinisello Balsamo 1996. Su A. Manzoni: M. Sansone, Storia della Letteratura Italiana, Principato, Milano 1973; Aa.Vv., Antologia della Letteratura Italiana, Rizzoli, Milano 1979, vol. V, 9-92. G. Alberti, Alessandro Manzoni, in E. Cecchi-N. Sapegno (dir.), Storia della Letteratura Italiana: L’Ottocento, Garzanti, Milano 1969, vol. VII, 621-45; A. Stella, Alessandro Manzoni, in E. Malato (dir.), Storia della letteratura italiana, Il Sole 24 Ore, Roma 2005, vol VII/2, 605-725 (con densa bibliografia divisa per sezioni); W. Binni-R. Scrivano (a cura di), Antologia della critica letteraria, Principato, Milano 1960. Su G. Ungaretti: G. Ungaretti, Vita di un uomo. Tutte le poesie, a cura di L. Piccioni, Mondadori, Milano 1969; L. Piccioni (a cura di), Per conoscere Ungaretti, Mondadori, Milano 1971. W. Mauro, Vita di G. Ungaretti, Camunia, Brescia 1990; S. Pavarini, Giuseppe Ungaretti, in E. Malato (a cura di), Storia della Letteratura italiana, vol. 17: Il Novecento, Il Sole 24 Ore, Roma 2005, 481-504. Su A.M. Ratisbonne: A. Ratisbonne, Conversione di un israelita, Amicizia Cristiana, Roma 2010 (or. franc. 1842); J. Guitton, Ratisbonne, Paris 1964; M. Carmelle, L’évenenent du 20 janvier 1842 et Marie Alphonse Ratisbonne, Sources de Sion, Roma 1978. T. de Le Bussieres, La conversione di Alfonso Maria Ratisbonne, Amicizia cristiana, Roma 2008 (or. franc. 1842); A. Azzimonti, L’ebreo convertito dalla Vergine della Medaglia, in Il Timone, sett-ott. 2000, 24-25. Su E.M. Zolli: E. Zolli, Christus, AVE, Roma 1946; E. Zolli, L’Ebraismo, Ed. Studium, Roma 1953; J. Cabaud, Il rabbino che si arrese a Cristo, S. Paolo, Cinisello Balsamo 2002; A. Comastri, Dov’è il tuo Dio? Storie di conversioni nel XX secolo, S. Paolo, Cinisello Balsamo 2003, pp. 85-97; E. Zolli, Prima dell’alba. Autobiografia autorizzata, S. Paolo, Cinisello Balsamo 2004. Su A. Gemelli: gli scritti di Gemelli sono elencati nella Bibliografia completa di padre Agostino Gemelli curata da E. Preto edita a Milano nel 1981. Notevole e dettagliato è anche l’apparato bibliografico sulla figura e sul pensiero riportato nel Dizionario biografico degli italiani, Istituto dell’Enciclopedia Italiana, Roma 1999, vol. LIII, 34-36. Valida è anche la voce Gemelli Edoardo curata da L. Profili nel Dizionario degli Istituti di Perfezione, vol. IV, 1046-49, volta soprattutto ad evidenziare la fondazione e la difesa, anche giuridica, degli istituti secolari fondati da Gemelli. Recente monografia è quella di M. Tiraboschi, Agostino Gemelli. Un figlio di S. Francesco tra le sfide del Novecento, LEV, Città del Vaticano 2007; Gemelli, Medioevalismo, in Vita e pensiero, 1 (1914), 1-24.


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Culto e devozioni - vol. II


Autore: Giovanni Liccardo

Tendenze cultuali nell’età moderna. A partire dalla fine dell’Ottocento si è andato definendo un corredo di indicazioni pratiche e liturgiche, perché i fedeli potessero, con le preghiere e con le azioni, venire in soccorso a una Chiesa sempre più abbandonata dagli uomini e dai ceti colti. Le pratiche devozionali subiscono anche una ‘purificazione’ a opera delle influenze moderniste, che incide nella formazione del clero in un senso di sobrietà, peraltro considerata troppo pericolosa dalle gerarchie. Un esempio illuminante è rappresentato dal sacerdote faentino Francesco Lanzoni, al quale si ispireranno generazioni di sacerdoti emiliano-romagnoli. Le minacce della modernità attualizzano il martirio della Chiesa delle origini; nella seconda metà del secolo XIX, gran parte della letteratura apologetica cattolica compirà per questo un parallelo tra le persecuzioni dei governi liberali e quella dei martiri, vittime degli imperatori romani.

La prima guerra mondiale depone il suo spirito religioso in una rivitalizzazione devozionale nazionalistica sul piano pubblico e in una personale richiesta di protezione sul piano intimo. Una varietà di culti e simboli ampiamente studiata e catalogata come vera e propria devozione di guerra; ma certe forme regressive e infantili, come le reliquie, i santini, le medagliette prese spesso dal santuario più vicino al proprio paese, saranno condannate come superstiziose da Agostino Gemelli, l’unico che tenterà un’uniformità nazionale mediante la consacrazione dell’esercito al Sacro Cuore.

Durante il fascismo, secondo una visione autarchica, Mussolini fece notevoli pressioni sull’Opera italiana dei pellegrinaggi per diminuire il numero dei pellegrinaggi a Lourdes e potenziare quelli di Loreto, da lui visitato il 24 ottobre 1936 (il 28 agosto era andato al santuario di Montevergine presso Avellino). Ma a questa richiesta restò indifferente la cultura delle élites, anzi verso i fenomeni religiosi così detti ‘popolari’ certi intellettuali mostrarono estraneità e insofferenza, come dimostra l’atteggiamento di D’Annunzio che, affascinato da Loreto, inorridiva di fronte al fenomeno dei santuari meno suggestivi (come quello dedicato alla Madonna dei Miracoli di Casalbordino, vicino Chieti). Invece, nel Mezzogiorno le tradizioni cultuali riflettono in modo molto immediato la generale condizione di povertà e d’incertezza dei ceti medi; le ricerche (suppliche, lettere, ex voto) provano che le richieste si rivolgono più alle insicurezze materiali, che non alle guarigioni. Disoccupazione, ricerca di un posto fisso, concorsi, viaggi, così come tutte le occasioni di ascesa e di ricerca di un nuovo status sono, per esempio, al centro delle richieste alla Madonna di Pompei.

La devozione della Madonna del Divino Amore di Roma è emblematica dello spirito di ricostruzione dell’Italia che esce distrutta dal secondo conflitto mondiale; più in generale, si coagula intorno a un rinnovato culto mariano un’effervescenza devozionale e liturgica spontanea che riflette un bisogno di rassicurazione comunitaria, un ‘sentirsi insieme’ generato dal senso collettivo dell’epoca, dal forte coinvolgimento della società civile nella guerra e infine dalla rinnovata credibilità della Chiesa e della religione, viste come pressoché uniche speranze nel panorama di macerie materiali e simboliche della nazione. Il culto mariano focalizza, ancora una volta, queste attese: rassicurazione e condivisione materna della sofferenza pervadono le variegate devozioni mariane, dalle statue della Madonna che lacrimano (come la Madonna di Siracusa, piangente il 29 agosto del 1953) alla devozione rivolta all’Addolorata, la variante mariana certamente più sentita nella desolazione postbellica. Eppure per il Vaticano II la questione non sarà la scelta tra fede adulta e fede dei semplici, quanto piuttosto l’importanza di rivitalizzare una liturgia stanca e ormai vuota perché sia sempre più vissuta e partecipata. Peraltro, se la frequenza dei fedeli alle messe e alle attività parrocchiali appare sempre più saltuaria, i pellegrinaggi ai santuari vecchi e nuovi, le devozioni tradizionali o quelle rinnovate dai nuovi movimenti, proseguono senza la minima interruzione. A fronte di questa nuova vivacità devozionistica, non si affievolisce il culto legato ai santi di sempre: il santuario di s. Antonio da Padova o quello di San Pio in Puglia rafforzano la rete delle loro associazioni e pubblicazioni; a titolo esemplificativo, si veda «Il Messaggero di Sant’Antonio», un periodico che vende in Italia circa 700.000 copie e che viene tradotto in undici lingue raggiungendo la tiratura complessiva di 1.200.000 copie.

In tempi recenti, l’impulso che papa Wojtyla ha dato alle devozioni tradizionali, specialmente quelle a Maria e ai santi, ha reso definitivamente chiaro che la pietà popolare non muore con la modernità; non solo, ritorna anche una fedeltà al carisma papale potente e autorevole. Come documenta ora la popolarità di papa Francesco che, da ultimo, appare intenzionato a rinnovare la Chiesa, liberarla da tramezzi, cerimoniali vuoti e burocrazia, con la svalutazione della materialità e del potere, sotto qualunque forma.

Fonti e Bibl. essenziale

B.M. Bosatra, Liturgia e pietà popolare oggi: prospettive pastorali, in «Ambrosius», 1988, 313-346; Congregazione per il culto divino e la disciplina dei sacramenti, Direttorio su pietà popolare e liturgia, LEV, Città del Vaticano 2002; A. Cuva, Io sono il pane vivo. Rito della comunione fuori della messa e culto eucaristico, Edizioni Paoline, Roma 1984; S. De Fiores, Maria nella teologia contemporanea, Centro di Cultura Mariana “Madre della Chiesa”, Roma 1991; G. De Rosa, Chiesa e religione popolare nel Mezzogiorno, Editori Laterza, Roma-Bari 1978; G. De Vita, Verso l’aldilà: devozioni e solidarietà, Schena, Fasano 2007; P. Golinelli, Culti, devozioni e società, AIEP, Repubblica di San Marino 1987; A. Maggiolini, Preghiere della gente: devozioni popolari, Mondadori, Milano 1998.

Sitografia:

http://www.aissca.eu/ (sito dell’Associazione Italiana per lo Studio della Santità, dei Culti e dell’Agiografia); http://www.agensir.it/hp_on_line_/00003322_Home_Page.html (sito dell’Agenzia S.I.R., Servizio Informazione Religiosa); http://www.viaggispirituali.it/ (sito che mette in rete esperienze suggestive di devozioni religiose); http://www.santiebeati.it/ (sito dedicato particolarmente alla conoscenza dei santi, alle loro ricorrenze liturgiche e alla definizione delle cosiddette “pie pratiche”, cioè le devozioni popolari, le novene, l’utilizzo di medaglie o la recita di preghiere particolari).


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Democrazia - vol. II


Autore: Francesco Bonini

«Se la democrazia sarà cristiana farà un gran bene al mondo»: è la consegna lasciata da Papa Leone XIII, nell’udienza dell’agosto 1900, a Luigi Sturzo. In realtà, sul piano storico, il termine democrazia assume significato in tanto in quanto è aggettivato. E proprio all’inizio del XX secolo si manifesta un tornante decisivo.

Il magistero pontificio infatti accetta la scommessa sulla democrazia cristiana, sia pure con la definizione, contenuta nell’enciclica Graves de Communi Re (18 Gennaio 1901) di «actio benefica in populum». Democrazia dunque come azione sociale. Resta infatti la forte diffidenza nei confronti termine concetto della democrazia politica, legato al lascito della rivoluzione francese e al suo indirizzo laicista.

Una minoranza rischia l’affermazione politica della democrazia cristiana, e viene puntualmente sconfessata ed emarginata. Il movimento cattolico, per evitare le tensioni dottrinali del primo decennio del Novecento, privilegia la linea delle pratiche realizzazioni e degli spazi di libertà.

I limiti dell’assetto del liberalismo italiano emergono con la guerra: si aprono nuovi spazi di proposta politica.

Al centro della proposta politica di Luigi Sturzo – radicata nella sua esperienza amministrativa di inizio secolo e poi formalizzata nel programma del Partito popolare italiano, fondato nel 1919 – c’è l’idea di uno «Stato veramente popolare», che «rispetti i nuclei e gli organismi naturali – la famiglia, le classi, i Comuni – che rispetti la personalità individuale e incoraggi le iniziative private», in un programma di libertà, a partire dall’affermazione della libertà religiosa, «non solo agl’individui, ma anche alla Chiesa».

Questi spazi si richiudono rapidamente, con l’avvento del fascismo ed i compromessi conseguenti. Tuttavia Francesco Luigi Ferrari pone immediatamente, il 24 dicembre 1922, sul “Domani d’Italia” il dilemma strutturale: «o fascismo o democrazia cristiana». Tramontate le illusioni delle democrazia radicale e socialista «la democrazia di domani, perché sia realmente la democrazia e non una larva che ne illustri le esterne fattezze, deve essere cristiana. Perché essa possa affratellare categorie, classi e nazioni, dilacerate da un egoismo eretto a legge e a sistema, deve essere cristiana».

Di fronte al (pur imperfetto o tendenziale) totalitarismo fascista e a quelli nazista e comunista viene proposto dal magistero il concetto di sussidiarietà e viene sperimentata una vita associativa libera nell’Azione Cattolica.

Sarà Pio XII a parlare di democrazia nei radiomessaggi durante il periodo di guerra: «All’opera dunque e al lavoro, diletti figli! Serrate le vostre file. Non cada il vostro coraggio; non rimanete inerti in mezzo alle rovine. Uscitene fuori alla ricostruzione di un nuovo mondo sociale per Cristo», afferma nel 1943 e l’anno successivo riprende il filo della riflessione da Leone XIII, delineando i tratti di «una sana democrazia, fondata sugl’immutabili principi della legge naturale e delle verità rivelate».

De Gasperi formalizza in un breve testo, elaborato tra il 1942 e il 1943, le Idee ricostruttive della democrazia cristiana, che si organizza rapidamente come un partito capace di egemonia la nuova sintesi tra gli aspetti sociali e politici della democrazia, delineando un programma globale di riordinamento dello Stato e della Società, volto a superare «lo Stato totalitario com’è oggi» e «lo Stato democratico come fu ieri», ponendo al centro «l’affermazione delle libertà organiche e il riconoscimento del valore essenziale della persona umana». L’elaborazione poi si sviluppa rapidamente, con un apporto corale, nel vivo del passaggio verso la Costituente, superando rapidamente le incrostazioni del linguaggio e dei riferimenti organicistici tradizionali.

L’affermazione della democrazia cristiana comporta la denuncia delle radicali contraddizioni della “democrazia marxista”, che pure rappresenta una seduzione per piccoli gruppi di “cristiano-sociali”.

Affermata la democrazia repubblicana, come disse De Gasperi, con «fiducia nella direttiva democratica e nel metodo della libertà, da me sempre professate», si pongono due questioni ulteriori. La prima è nel senso dell’attuazione della costituzione, nel senso della democrazia sostanziale, la seconda nel quadro dello sviluppo delle istituzioni internazionali ed europee, che riposizionano la forma-stato in un quadro di molteplici livelli di governo.

Questi due processi si sviluppano, con alterne vicende, fino all’ulteriore data periodizzante del 1989.

A metà di questo lungo periodo di sviluppo e di progresso, cioè lungo gli anni Sessanta, caratterizzati dal Concilio, le rapide trasformazioni sociali che investono l’Italia pongono la questione del tessuto democratico e dei valori e dei principi di riferimento. La contestazione “globale”, che ha significative radici anche nel mondo cattolico italiano, pone anche una questione sulla democrazia, tanto all’interno della Chiesa, quanto nella società italiana, in un processo di frammentazione crescente, che ha uno dei suoi esiti nella crisi del sistema politico dei primi anni Novanta.

La XLII settimana sociale, svoltasi a Torino, 28 settembre-2 ottobre 1993 tenta di tirare le fila del complesso intreccio Identità nazionale, democrazia e bene comune, mentre, allargando ed approfondendo la prospettiva, la 44a settimana sociale, tenutasi a Bologna il 7-10 ottobre 2004, mette a tema La Democrazia: nuovi scenari, nuovi poteri, nel quadro mondiale della globalizzazione ed in presenza di una nuova “questione antropologica”.

L’enciciclica Centesimus Annus nel frattempo aveva chiuso un percorso appunto centenario del magistero, certificando (n. 46) che «la Chiesa apprezza il sistema della democrazia», e nello stesso tempo avvertendo che essa può convertirsi, qualora smarrisca il suo riferimento valoriale, in forme di «totalitarismo aperto oppure subdolo, come dimostra la storia».


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Democrazia Cristiana - vol. II


Autore: Andrea Ciampani

Nella seconda metà del 1942 alcuni esponenti del laicato cattolico nazionale (tra i quali alcuni leader del → Partito popolare, dirigenti → dell’Azione cattolica (Ac), professori dell’Università cattolica e militanti “neoguelfi”) iniziarono a discutere per delineare l’orizzonte di uno Stato democratico dopo l’auspicata caduta del Fascismo. La loro iniziativa si inserì nel processo costitutivo dei comitati delle “democrazie unite” (quella del lavoro, quella socialista e quella “cristiana”), con l’obiettivo di creare un’ampia coalizione antifascista nel gennaio 1943. Dal marzo seguente, prese forma nella clandestinità il programma di un partito democratico cristiano che, dopo l’arresto di Mussolini, era pronto per circolare col titolo Idee ricostruttive della Democrazia cristiana. Pochi giorni prima, alcuni cattolici si raccolsero per riflettere intorno alle fondamenta di uno Stato democratico durante alcune giornate di studi, le cui conclusioni vennero poi fissate nel documento noto come Codice di Camaldoli. Così, mentre l’Ac si offriva come punto di riferimento per la ricostruzione civile nell’Italia, la Democrazia cristiana (Dc) dal settembre 1943 partecipò al Comitato di liberazione nazionale, all’organizzazione della Resistenza e infine alla formazione dei governi che seguirono la liberazione di Roma nel giugno 1944. Ad Alcide De Gasperi, leader del partito, fu affidato prima il ministero degli Affari esteri, poi, nel dicembre 1945, la stessa la presidenza del Consiglio nel governo di coalizione (col socialista Romita ministro dell’Interno e il comunista Togliatti ministro di Grazia e Giustizia) che condusse l’Italia al referendum per la monarchia e la repubblica e al voto per eleggere l’Assemblea costituente, il 2 giugno 1946.

Col sostegno della Chiesa locale la Dc aveva iniziato a organizzarsi nel territorio, mentre dal centro nazionale metteva a punto strutture proprie per confrontarsi con una nuova classe dirigente con gli esponenti del liberalismo prefascista e con i militanti socialisti e comunisti. I risultati elettorali della Assemblea Costituente diedero alla Dc il 35,2 % dei voti validi, presentandola come il maggiore partito in tutto il territorio del Paese, davanti a socialisti e comunisti, e come il raggruppamento politico preminente (207 eletti su 555 costituenti). Nel grave contesto internazionale che vedeva l’Italia nazione sconfitta nella guerra mondiale e nella complessa situazione interna di ricostruzione socioeconomica, dialogando col Vaticano la Dc si trovò anche a svolgere il difficile compito di rappresentare il mondo cattolico italiano nel processo che avrebbe dato al Paese le basi costituzionali della giovane repubblica. Grazie al consenso elettorale ricevuto e alla stima di cui godeva la sua leadership antifascista, la Dc si pose al centro degli schieramenti politici, ricercando ampie coalizioni, senza rinunciare ad esercitare responsabilmente le scelte che richiedevano congiunture straordinarie e strategie di lungo periodo. In tale scenario va collocato sia il contributo democratico cristiano all’elaborazione della carta costituzionale, in un meditato percorso di mediazione con le altre culture politiche, sia l’esclusione del Partito comunista italiano (Pci) dal governo nel maggio 1947, dopo la scissione socialdemocratica dal Partito socialista.

La Chiesa cattolica italiana e il pontefice (che avevano ottenuto il mantenimento in vigore dei Patti Lateranensi) compresero l’importanza della nuova emergenza che si stava delineando, in vista delle prime elezioni politiche dell’Italia repubblicana, con la costituzione del Fronte popolare – col simbolo di Garibaldi – che raccoglieva insieme socialisti e comunisti (una forza elettorale potenzialmente superiore alla Dc). Nell’incipiente clima da Guerra fredda i cattolici rafforzarono il loro sforzo formativo per favorire non solo un maggiore impegno civile, ma anche scelte elettorali ispirate al magistero ecclesiale; per sostenere la propaganda democristiana non mancò una mobilitazione prepartitica dei militanti d’Ac attraverso la costituzione di Comitati civici. Contemporaneamente, l’elettorato liberal conservatore faceva confluire il suo consenso sul partito democristiano come perno di un sistema politico democratico e occidentale, contrapposto alla pretesa egemonica comunista, collegata alla politica sovietica. Infine, il risultato delle elezioni del 18 aprile 1948, un evento decisivo per la storia dell’Italia repubblicana, assegnò alla Dc il 48,5% dei voti alla Camera dei deputati, mentre il raggruppamento social-comunista raccoglieva il 31% (da allora, peraltro, i comunisti ebbero nelle elezioni più consensi dei socialisti). Attraverso la Dc, il cattolicesimo italiano partecipava pienamente, per la prima volta nella storia dello Stato nazionale, al governo del Paese, con l’obiettivo primario di restituirgli coesione sociale all’interno e credibilità sul piano della politica estera.

Si impostò allora la stagione politica del “centrismo”, in cui, pur forte di una salda maggioranza parlamentare, il partito democristiano s’impose come elemento di equilibrio tra diversi interessi politici (coinvolgendo socialdemocratici, repubblicani e liberali) e sociali (confrontandosi con i sindacati, le imprese e il movimento cooperativo). Auspicata dalla gerarchia cattolica, l’unità dei diversi orientamenti del cattolicesimo politico italiano all’interno della Dc rese presto più complesso il rapporto tra azione cattolica e azione politica. Nel mondo cattolico che sosteneva la Dc, sotto la spinta di una sorta di populismo evangelico, non mancavano le aspettative per un governo impegnato a realizzare il magistero sociale della Chiesa. Nel dibattito pubblico si accentuò il radicale contrasto tra una sorta di spiritualizzazione della politica sostenuta da Giuseppe Lazzati e la mobilitazione della spiritualità incoraggiata da Luigi Gedda. Nel 1951 suscitò motivo di riflessione la scelta di Giuseppe Dossetti, già vicesegretario della Dc e influente esponente della Costituente, di lasciare la vita politica per quella religiosa. De Gasperi, peraltro, doveva continuamente richiamare la distinzione tra la responsabilità politica del laicato cattolico e la rappresentazione degli interessi religiosi nella sfera pubblica, come anche in occasione delle elezioni amministrative di Roma nel 1952.

Intanto, il perseguimento di un’efficace politica di alleanze e l’esigenza di calare i valori della tradizione cristiana nel concreto delle trasformazioni sociali posero le basi per avviare significative riforme. Si promossero negli anni Cinquanta la piccola proprietà contadina e la riforma agraria, si svilupparono piani per l’occupazione e per l’edilizia popolare, si agevolò il credito per la piccola industria, l’artigianato e la cooperazione, si favorì il risparmio e la produttività, si coordinò l’assistenza sociale. Più arduo si rivelò il percorso di riforma della scuola, del sistema burocratico e delle autonomie locali. Mentre si accettava il costituirsi di un moderno sistema di relazioni industriali sul riconoscimento delle libertà sindacali, s’impostò un articolato intervento pubblico in un regime di economia mista: si istituì la Cassa per il Mezzogiorno, si promosse l’Eni, si ristrutturò l’Iri. Accanto alla ripresa produttiva la Dc sostenne la partecipazione italiana alle dinamiche internazionali: dall’impostazione della politica atlantica alla realizzazione del piano ERP; dalla Comunità Europea del Carbone e dell’Acciaio del 1951, primo gradino di un’integrazione europea (cui De Gasperi attribuì una chiara valenza politica, come dimostrò nel dibattito sulla Comunità Europea di Difesa), fino ai Trattati di Roma della CEE e dell’Euratom nel 1957. Nell’Italia che si avviò al boom economico alla fine degli anni Cinquanta, durante la segreteria politica di Amintore Fanfani la Dc si diede una robusta organizzazione, si confrontò con i soggetti sociali, ricercò aperture ed equilibri politici in grado di sostenere maggiori riforme. Dopo il 1956, la divisione tra socialisti e comunisti, del resto, aveva incoraggiato la verifica di possibili aperture per ampliare il consenso ai governi democratici repubblicani.

Una rinnovata identità politica democristiana prendeva forma, piuttosto, all’inizio degli anni Sessanta, durante la segreteria politica Dc di Aldo Moro, nel percorso di preparazione di un governo di “centro sinistra organico”, realizzato, infine, nel 1963 con la partecipazione del Partito socialista. Mentre cristallizzate correnti interne influivano sulla rappresentazione pubblica del partito, la Dc rinnovava le leadership locali con uomini che avrebbero svolto un ruolo importante nei decenni successivi. La Dc poneva ora la primazia dell’agire politico al centro dei suoi rapporti con formazioni sociali considerate “collaterali”, nell’ambito del generale processo di penetrazione dei partiti nella società civile. Nello stesso tempo, la Dc continuava a costituire per la Chiesa italiana un’autorevole interlocuzione nel delineare il ruolo pubblico dei cattolici nella vita sociale; nel periodo segnato dal Concilio Vaticano II, tuttavia, la crescente critica alla società consumistica e all’autoritarismo dei gruppi dirigenti coinvolse l’immagine di un partito democristiano sempre più identificato con l’establishment dello Stato repubblicano.

La contestazione del Sessantotto e la conflittualità sindacale del 1969 videro i governi democristiani avvertiti dell’esigenza di introdurre ulteriori riforme (come nel campo delle pensioni e della sanità), così come di provvedere a un rinvigorimento delle strutture sociali (anche attraverso la realizzazione dell’ordinamento regionale). I limiti della programmazione economica del centro-sinistra richiedevano il coinvolgimento di imprese e sindacati di fronte all’incipiente crisi economica. Sul piano politico, mentre si evidenziavano i limiti di un bipolarismo imperfetto, negli anni Settanta si affacciò l’ipotesi di un compromesso storico tra le culture popolari democristiana e comunista. Fu il profondo mutamento nei rapporti sociali che, tuttavia, sembrò sorprendere una Dc impegnata con Mariano Rumor a tamponare la fragilità politica dei governi, scossi anche dall’emergenza terroristica e da ripetute perturbazioni economiche internazionali. Il valore politico della sconfitta parlamentare sulla legge sul divorzio del 1970 si tramutò, col fallimento del suo referendum abrogativo nel 1974, nella fine conclamata dell’unità politica dei cattolici nella Dc. Si colsero allora le conseguenze politiche della profonda laicizzazione avvenuta nella società italiana, in cui nuova centralità dei media e autoreferenzialità consumistica contribuivano a una progressiva frammentazione delle soggettività popolari. La Dc concentrò il suo impegno sul mantenimento del proprio bacino elettorale, impedendo al Pci di diventare il primo partito italiano (nel 1976, il 38,7% dei voti andò ai democristiani mentre i consensi comunisti si fermarono al 34,4%), e sulla formulazione di nuovi equilibri politici durante i governi di Giulio Andreotti, in occasione della “solidarietà nazionale” e della grave crisi politico-istituzionale provocata dal rapimento e dall’uccisione di Moro da parte delle Brigate Rosse nel 1978.

Negli anni Ottanta la formazione dei ministeri continuò a far perno sulla Dc: occorreva misurarsi con la spirale inflazionistica che frenava il Paese, ripensando il rapporto tra politica ed economia, mentre si delineava l’unificazione economica e monetaria europea. Per la prima volta, però, il partito democratico cristiano si trovò a sostenne governi affidati a leader repubblicani, come Spadolini, e socialisti, come Craxi (che condusse in porto la riforma del Concordato). Soprattutto, la sconfitta sul referendum sull’aborto del 1981 produsse un ripensamento del profilo politico della Dc, rilanciando un dialogo con la società civile e con le articolazioni del mondo cattolico, attraverso il coinvolgimento di esponenti “esterni” al partito. Non ci fu, tuttavia, un’adeguata percezione dell’affermarsi delle problematiche che riguardavano il rapporto tra morale e politica nelle società industrialmente avanzate. La Dc appariva identificata nel ruolo di partito di moderazione in uno scenario neocorporativo orientato da concezioni elitiste, mentre la rappresentanza elettorale sembrava ridursi a mera procedura per investire oligarchie di comando. Si andavano trasformando, anche per questo, il ruolo tradizionale dei partiti: sul piano interno, sotto il peso del debito pubblico entrava in crisi il consociativismo democristiano, specialmente nelle regioni settentrionali; le dinamiche internazionali seguenti al 1989 e al crollo dell’URSS, che minarono l’esistenza del Pci, mettevano in discussione i presupposti politici di una diga anticomunista e occidentale aggregata intorno alla Dc, impegnata in una società globalizzata a conseguire per l’Italia l’approdo dell’Unione europea economica e monetaria (realizzata nel 1992).

L’identità democristiana, tuttavia, veniva frantumata dall’incapacità di un ricambio generazionale, non meno grave delle accuse giudiziarie rivolte ad alcuni leader storici, e dalle campagne referendarie in materia elettorale del 1991 (contro le preferenze multiple) e del 1993 (sul sistema uninominale e maggioritario). Le ripercussioni mediatiche e politiche di Tangentopoli, seguite alle inchieste della magistratura per colpire il finanziamento illecito ai partiti, travolsero una parte rilevante del gruppo dirigente democristiano. Il 19 gennaio 1994 il segretario della Democrazia cristiana Mino Martinazzoli, dopo un rapido e duro dibattito interno, faceva sorgere sulle ceneri della Dc un nuovo Partito popolare (Ppi); in dissenso con tale scelta si costituì il Centro Cristiano Democratico. Ad occupare lo spazio politico moderato e raccogliere l’eredità elettorale della Dc (che nel 1992 poteva contare ancora il 29,7% dei voti) nelle elezioni politiche del 1994, comunque, non fu solo il Ppi (11%), ma anche il neonato partito Forza Italia (21%). Negli anni successivi, peraltro, non sono mancate occasioni per interrogarsi sulla presenza di esponenti cattolici in diverse formazioni politiche, alla luce del magistero pontificio e delle esperienze della Chiesa nella vita sociale italiana.

Fonti e Bibl. essenziale

P. Scoppola, La proposta politica di De Gasperi, Il Mulino, Bologna, 1977; F. Malgeri (a cura di), Storia della Democrazia cristiana, voll. 1-5, Cinque Lune Roma / voll. 6-7 Mediterranea, Palermo, 1987-2000; G. Tassani, La terza generazione: da Dossetti a De Gasperi, tra Stato e rivoluzione, Roma, Edizioni Lavoro, 1988; A. Giovagnoli, La cultura democristiana: tra Chiesa cattolica e identità italiana 1918-1948, Laterza, Roma – Bari, 1991; M. Casella, 18 aprile 1948: la mobilitazione delle organizzazioni cattoliche, Congedo, Galatina, 1992; G. Formigoni, La democrazia cristiana e l’alleanza occidentale, Il Mulino, Bologna, 1996; A. Giovagnoli, Il partito italiano: la Democrazia cristiana dal 1942 al 1994, Laterza, Roma – Bari, 1996; V. Saba, Quella specie di laburismo cristiano: Dossetti, Pastore, Romani e l’alternativa a De Gasperi, 1946-1951, Edizioni lavoro, Roma 1996; A. Canavero, Alcide De Gasperi: cristiano, democratico, europeo, Rubbettino, Soveria Mannelli, 2003; F. Malgeri, L’Italia democristiana: uomini e idee del cattolicesimo democratico nell’Italia repubblicana (1943-1993), Gangemi, Roma, 2005; P. Scoppola, La nuova cristianità perduta, Studium, Roma, 2008 terza edizione; V. Capperucci, Il partito dei cattolici: dall’Italia degasperiana alle correnti democristiane, Rubbettino, Soveria Mannelli, 2010; G. Bianco, La Balena bianca. L’ultima battaglia 1990 -1994, conversazione con Nicola Guiso, Rubbettino, Soveria Mannelli, 2011.


LEMMARIO




Diaconato - vol. II


Autore: Tonino Cabizzosu

Il progetto di promuovere il diaconato permanente nella Chiesa cattolica cominciò a prendere forma già all’indomani dell’ultimo conflitto mondiale. La drammatica vicenda di moltissime persone in carcere o costrette all’esilio o, ancora, in fuga dalla loro terra di origine spinse alcuni laici e sacerdoti tedeschi ad ipotizzare un nuovo ministero ecclesiale, diverso dal presbiterato, che permettesse alle vittime di questa emarginazione conseguente alla guerra e alle tante comunità isolate di rimanere comunque “in comunione” attiva e consolante con la Chiesa. Il Concilio Vaticano II, a lunga distanza dalla decisione – assunta ma non attuata – del Concilio di Trento di ripristinare il diaconato, segnò quella svolta decisiva rispondente alla “maturità del tempo” che avrebbe portato alla restaurazione del diaconato nella Chiesa latina come grado permanente della gerarchia. Il Vaticano II stabilì in maniera inequivocabile che il ministero diaco­nale – conferibile a uomini sia celibi che sposati (cfr. Lumen Gentium n. 29) – dovesse rinascere nella Chiesa come ministero proprio e non sola­mente come tappa per i candidati al presbiterato. Con il Concilio si avviò per il diaconato una stagione nuova, caratterizzata da un vitale e faticoso cammino che si sviluppò su due fronti: da un lato, l’approfondimento normativo da parte della S. Sede e delle Confe­renze Episcopali; dall’altro, la presa di coscienza delle comunità che si aprivano, anche se lentamente, ad accogliere questo ministero.

La restaurazione del diaconato in Italia fu il primo documento che i vescovi italiani approvarono nell’Assemblea della Conferenza Episcopale Italiana del 13 novembre del 1970 per reintrodurre il ministero diaconale. La Rivista II diaconato in Italia, fondata da don Altana nel 1966, pubblicata dalla Comunità del diaconato in Italia, ha registrato puntualmen­te quanto le comunità diocesane, i vescovi, i diaconi e i teo­logi hanno detto, scritto e prodotto di valido sulla diaconia ordinata, configurandosi così come un importante strumento e di riflessione e di accompagnamento del percorso diaconale nel nostro.

Le statistiche vedono i diaconi italiani raddoppiar­si negli ultimi dieci anni, avviandosi ormai a raggiungere e superare la cifra delle 3.734 ordinazioni (più di 2.342 sono i candidati). Attualmente i diaconi sono distribuiti in maniera quasi omoge­nea su tutto il territorio nazionale, con una presenza in ben 217 dioce­si su 222 e una prevalenza nel Centro-Sud. Questo ministero non si presenta tuttavia in forma omogenea, ma piuttosto con una varietà di realizzazioni che, più che risolversi in mera diversità di metodi ed itinerari, sottende invece proprio concezioni diverse del ministero stesso. Tra identità e mutazione generazionale, si può dire che tre diverse generazioni di diaconi si sono susseguite in Italia dal do­po-Concilio fino ad oggi. Vediamone brevemente i tratti salienti.

La prima generazione seguendo il Concilio Vaticano II, aveva chiara la direzione da percorrere: Chiesa, eucaristia, carità formavano un trinomio teso verso una progettualità che permetteva di congiungere il ministero dei diaco­ni ai poveri. All’interno della Chiesa italiana c’era in quegli anni una parte dell’episcopato propensa ad accettare i servigi del diaconato senza recepire quei cambiamenti che la presenza del diacono esige­va all’interno delle comunità. In Italia, nel primo decennio di vita del diaconato, soltanto undici diocesi avevano i diaconi, e tra queste le prime tre sono state: Na­poli (si deve alla grande figura pastorale del card. Ursi), Torino (sotto la guida del card. Pellegrino) e Reg­gio Emilia (per l’instancabile opera di don Altana).

La seconda generazione (intorno agli anni ‘80), ha vi­sto il diaconato crescere in molte diocesi e i vescovi mettere al centro il problema della formazione ministeriale e teologica. Que­sta attenzione alla formazione ha dato ai diaconi un’impronta innega­bilmente più colta ed una intonazione più ecclesiale che eucaristi­ca: si erano creati appositi istituti di formazione con corsi e professo­ri adeguati, ma l’istituzionalizzazione della diaconia ordinata comin­ciava a togliere smalto alle cure caritative, con il conseguente rischio di perdere il ri­ferimento eucaristico della carità che spingeva verso i poveri (relazio­ne che invece sembrava connaturale alla prima generazione).

Nella terza generazione (dagli anni ‘90 in poi), la formazio­ne ha preso un indirizzo molto più pensato ed equilibrato, completan­do il suo percorso istituzionale anche grazie all’uscita di importanti documenti magisteriali. Si è tuttavia presentato un altro rischio interpretativo che ha in buona misura frenato la carica ministeriale e la potenzialità pastorale del diaconato: i vescovi e i preti hanno co­minciato ad apprezzare, in maniera riduttiva, il ruolo suppletivo dei diaconi, e il loro servi­zio è stato interpretato come ausilio per rimediare ad una certa carenza di forze clericali, finendo così per dimenticare o sottovalutare i poveri quali primi destinatari del servizio amorevole della Chiesa. Oggi il diaconato sta recuperando una dimensione più equilibrata e fedele alla diaconia di Cristo Servo.

A ragione, dunque, sempre più si parla di un “diaconato di frontiera”, una collocazione motivata dalle sfide che la nuova evangelizzazione pone ai diaconi in particolare in questo nostro tempo e tale da rendere il ser­vizio diaconale la puntuale traccia sto­rico-sacramentale della realtà eccle­siale di cui partecipa e, soprat­tutto, il segno che ne rivela il cam­mino di crescita nello Spirito.

Fonti e Bibl. essenziale

A. Altana, Il rinnovamento della vita ecclesiale ed il diaconato, Queriniana, Brescia 1973; G. Bellia, Discernere oggi. Le vie, i problemi, le emergenze, San Lorenzo, Reggio Emilia 1998; G. Bellia – V. Cenini (edd.), I diaconi italiani: storia e prospettive, San Lorenzo, Reggio Emilia 2003; E. Petrolino, Diaconato. Servizio – Missione. Dal Concilio Vaticano II a Giovanni Paolo II, LEV, Città del Vaticano 2006; E. Petrolino, Enchiridion sul diaconato, LEV, Città del Vaticano 2009; S. Zardoni, I diaconi nella Chiesa. Ricerca storica tecnologica sul diaconato, Ed. Dehoniane, Bologna 1991.


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