Associazione Italiana dei Professori di Storia della Chiesa

Dizionario Storico Tematico La Chiesa in Italia
Dopo l'Unità Nazionale
Roma 2015
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Diocesi - vol. II


Autore: Giorgio Feliciani

Fin dai primi anni del Regno d’Italia governo e parlamento si rivelano talmente sensibili all’esigenza di giungere a una notevole riduzione del numero delle diocesi, giudicato decisamente eccessivo, da promuovere studi ed elaborare progetti in tal senso, senza peraltro riuscire a pervenire ad alcun risultato concreto a causa, soprattutto, della indisponibilità della Santa Sede.

La questione viene riproposta durante le trattative per il Concordato del 1929 che non manca di dedicarvi ampia e specifica attenzione. Da un lato prevede «una revisione della circoscrizione delle diocesi, allo scopo di renderla possibilmente rispondente a quella delle province dello Stato». Dall’altro sancisce il principio che «nessuna parte del territorio soggetto alla sovranità del Regno d’Italia dipenderà da un Vescovo, la cui sede si trovi in territorio soggetto alla sovranità di altro Stato; e che nessuna diocesi del Regno comprenderà zone di territorio soggette alla sovranità di altro Stato» (art. 16).

L’attuazione di quest’ultima disposizione non incontra particolari difficoltà. Invece il previsto adeguamento delle circoscrizioni diocesane alle province civili si rivela subito quanto mai problematico sì che negli anni successivi si registrano ben pochi provvedimenti diretti a valorizzare i capoluoghi di provincia e a rivedere i confini tra le diocesi per farli coincidere con quelli delle province civili.

La questione assume nuova attualità quando Paolo VI, nell’allocuzione del 23 giugno 1966 all’episcopato italiano, dichiara di avere disposto un serio e maturo esame del problema da parte della Congregazione Concistoriale, rimettendone i risultati a un’apposita commissione della CEI per i necessari approfondimenti.

I criteri indicati sono di due tipi. Da un lato occorre «dare alla Diocesi una dimensione demografica ed ecclesiastica sufficiente per adempiere pienamente le funzioni, che le sono affidate dal Diritto Canonico e che sono richieste dai bisogni pastorali moderni». Dall’altro è necessario «tener conto delle circoscrizioni civili, facendo coincidere, ove possibile, i confini diocesani con quelli delle Province dello Stato italiano».

In ossequio alle direttive così ricevute, il Consiglio di Presidenza della CEI nella riunione del 25-27 ottobre 1966 definisce i criteri generali da seguire per porre ogni diocesi in «condizioni di efficiente funzionalità». In tale prospettiva si prevede, innanzitutto, che le diocesi «autosufficienti» con più di duecentomila abitanti «rimangono nella loro autonomia». Quanto, poi, a quelle con popolazione più ridotta, se hanno meno di cinquantamila abitanti, verranno «aggregate alle diocesi vicine», se superano tale consistenza demografica saranno «unite ad una diocesi principale». In ogni caso si porrà specifica attenzione all’esigenza di rispettare i confini delle province civili.

Ma le speranze di una rapida e positiva conclusione della vicenda vanno ben presto deluse. L’insabbiamento del progetto – che riduceva le circoscrizioni diocesane a sole 119 circa – non appare dovuto a limiti e carenze intrinseche, ma all’intervento di fattori esterni che si è ritenuto di identificare, nelle preoccupazioni del governo italiano circa possibili «riflessi politici negativi» (A. Bobbio, E la politica, 87).

Nonostante tutte le difficoltà la Santa Sede non desiste dal suo proposito di dare un assetto più razionale alla organizzazione territoriale della Chiesa in Italia. Peraltro nel 1976, dalle direttive impartite alla CEI dal prefetto della Congregazione per i Vescovi, risulta evidente che la Santa Sede non annette più particolare importanza alle circoscrizioni civili provinciali, e dedica invece nuova e specifica attenzione a quelle regionali. I motivi di questo mutamento di indirizzo sono sufficientemente chiari: da un lato le province hanno perso molta della loro rilevanza, dall’altro le regioni italiane hanno ottenuto rilevanti funzioni in settori di notevole interesse per la Chiesa. E poiché il compito di stabilire gli opportuni rapporti con le autorità civili delle regioni spetta alle conferenze episcopali regionali, istituite da Leone XIII nel 1889 con la instructio «Alcuni Arcivescovi», è evidente l’opportunità di far coincidere il più possibile i rispettivi territori. In tale prospettiva il decreto emanato il 12 settembre 1976 dalla Congregazione per i vescovi, da lato sopprime le regioni pastorali beneventana e lucano-salernitana, e, dall’altro, istituisce la regione pastorale Basilicata. Inoltre l’8 dicembre si dispone l’unificazione delle regioni pastorali emiliana e romagnola.

La Santa Sede non ritiene però opportuno realizzare una perfetta coincidenza tra regioni ecclesiastiche e regioni civili in quanto in alcune di queste ultime il numero delle diocesi risulta troppo ridotto per consentire l’istituzione della conferenza episcopale, come avviene ad esempio nel Trentino-Alto Adige, per non parlare della Valle d’Aosta che è soggetta alla giurisdizione di un solo vescovo.

Continuano, invece, a rimanere inattuati i progetti diretti a realizzare una consistente riduzione del numero delle diocesi italiane che dalla fine della seconda guerra mondiale al momento dell’entrata in vigore dei nuovi accordi pattizi diminuisce di circa una ventina di unità. Va però segnalato come lungo questo periodo la Santa Sede proceda «al proposto riordinamento in modo indiretto e provvisorio, unendo cioè le piccole diocesi che si rendevano vacanti sotto l’Amministrazione Apostolica o nella persona del Vescovo di una diocesi vicina» (L. Moreira Neves, Un fatto storico, II).

Una nuova fase della annosa e complessa vicenda si apre con l’Accordo concordatario del 1984, che si limita a prevedere l’impegno della Santa Sede «a non includere alcuna parte del territorio italiano in una diocesi la cui sede vescovile si trovi nel territorio di altro Stato». e, per il resto, riconosce che «la circoscrizione delle diocesi e delle parrocchie è liberamente determinata dall’autorità ecclesiastica» (art. 3).

Ma curiosamente l’Accordo, mentre liberava la Chiesa da ogni impegno in materia, poneva anche le premesse per il più imponente riordinamento delle diocesi che la Chiesa in Italia abbia mai conosciuto. Infatti le disposizioni formulate dalla Commissione paritetica istituita dall’art 7 dell’Accordo stesso ed ed emanate dalle Parti nei rispettivi ordinamenti con legge 20 maggio 1985, n. 222 e con decreto del cardinal Segretario di Stato del 3 giugno successivo, hanno radicalmente innovato la condizione giuridica civile delle diocesi. Infatti tali disposizioni, non solo attribuiscono alle diocesi quella personalità giuridica agli effetti civili che non era loro riconosciuta durante il vigore del Concordato lateranense, ma prevedono per l’attribuzione della stessa una procedura singolarmente accelerata. Si dispone, infatti, che le diocesi acquistino la personalità giuridica civile dalla data di pubblicazione nella Gazzetta ufficiale del relativo decreto del ministro dell’interno, da emanarsi entro sessanta giorni dalla ricezione dei provvedimenti dell’autorità ecclesiastica che abbiano determinato «la sede e la denominazione delle diocesi (…) costituite nell’ordinamento canonico» (art. 29).

Queste previsioni offrivano alla Santa Sede l’occasione per procedere, in condizioni particolarmente favorevoli, all’auspicato riordinamento. Dopo ampie consultazioni e attento studio dei diversi aspetti della questione, emergeva nelle competenti sedi ecclesiastiche la convinzione che la soluzione possibile e più opportuna fosse quella di unificare le diocesi che risultassero affidate, a qualunque titolo, allo stesso vescovo. Un criterio che presentava diversi vantaggi poiché, mentre assicurava la continuità della guida pastorale delle singole diocesi, dispensava da un lungo e defatigante esame delle loro specifiche esigenze e, al contempo, riduceva notevolmente la possibilità di contestazioni, presentandosi come una regola generale che non consentiva eccezioni. Di conseguenza esso veniva senz’altro adottato dalla Congregazione per i vescovi nel decreto del 30 settembre 1986 che riduceva le diocesi, e comunità ecclesiali assimilate, italiane da 325 a 228 di cui 39 sedi metropolitane, 21 arcivescovili, 156 vescovili, 2 prelature territoriali, 6 abbazie territoriali, 3 circoscrizioni di rito orientale, 1 ordinariato militare.

A giudizio della Congregazione, che ha voluto «associare, nella denominazione dell’unica diocesi, i nomi delle diocesi fuse, nessuna diocesi veniva «abolita» o «assorbita», ma tutte «amalgamate» in «nuove entità» nelle quali conservavano «il proprio nome, la propria storia, le proprie tradizioni, la propria Cattedrale o Concattedrale ecc.». Peraltro lo stesso Segretario della Congregazione non poteva evitare di riconoscere che le diocesi in tal modo «fuse» perdevano la loro precedente identità, poiché «là dove erano più diocesi», veniva istituita «una sola e unica diocesi con unico Seminario, unico Tribunale, unico Consiglio Presbiterale e Pastorale, unico Coetus Consultorum, anche se con la possibilità di decentramento di alcuni servizi amministrativi» (L. Moreira Neves, Un fatto storico, III).

La riforma operata dal decreto del 1986 è indubbiamente imponente ma la sua importanza non deve essere sopravalutata. A ben guardare la Congregazione per i vescovi, riunendo in una sola diocesi le diverse circoscrizioni affidate alla guida pastorale dello stesso vescovo, si è limitata a «codificare» la situazione esistente e a semplificarne l’organizzazione e il governo, consentendo «un risparmio di personale ecclesiastico, un suo migliore impiego, la diminuzione del tasso di burocratizzazione, almeno per le diocesi interessate, ma anche, indirettamente, per la Chiesa italiana nel suo complesso» (G. Brunetta, Riordinamento, 239).

In ogni caso le disposizioni del provvedimento del 1986 non possano assolutamente considerarsi come risolutive come è chiaramente dimostrato dalle successive costituzioni apostoliche che, nei primi anni del nuovo secolo, hanno profondamente innovato l’assetto delle province ecclesiastiche nelle Marche, in Sicilia e in Calabria, nonché dai decreti della Congregazione per i vescovi che hanno disposto l’estinzione dell’abbazia territoriale di San Paolo fuori le mura e il ridimensionamento dei territori delle abbazie di Subiaco e Montevergine.

L’organizzazione territoriale della Chiesa in Italia è dunque ancora ben lontana dall’avere raggiunto un assetto soddisfacente: mentre il numero delle diocesi continua a risultare decisamente eccessivo in rapporto sia al numero dei fedeli sia a quanto avviene in altri paesi, accanto a circoscrizioni di grandi dimensioni ne sussistono ancora alcune del tutto minuscole. Inoltre, nonostante gli auspici del Concilio («Christus Dominus», n. 40) e le disposizioni del Codice (can. 431 § 2) continuano a sussistere numerose diocesi immediatamente soggette. E vi sono ancora, nonostante le direttive impartite da Paolo VI con il motu proprio «Catholica Ecclesia» del 23 ottobre 1976, varie abbazie territoriali.

Fonti e Bibl. Essenziale

D. Barillaro, In tema di revisione delle circoscrizioni diocesane, «Il diritto ecclesiastico», 60 (1949), 112-155; G. Feliciani, Diocesi e territorio nella prospettiva di revisione del Concordato lateranense, in «Il diritto ecclesiastico», 70 (1977), parte I, 202‑221; G. Brunetta, La revisione delle diocesi in Italia, «Aggiornamenti sociali», 18 (1967), 201-220; Conferenza Episcopale Italiana, Riordinamento delle diocesi d’Italia, Dati statistici delle diocesi italiane, pro manuscripto, Roma, 1967; M.P., Il riordinamento delle diocesi, «L’Osservatore romano», 21 maggio 1976, 2; A. Bobbio, E la politica bloccò la vera riforma delle diocesi italiane, in «Jesus. Mensile di cultura e attualità cristiana», 8 (1986), n. 12, 87-91; G. Giachi, Riordinamento delle diocesi in Italia, in «La Civiltà Cattolica», 137 (1986), volume IV, quaderno 3274, 15 novembre 1986, 377-381; L. Moreira Neves, Un fatto storico: la nuova “geografia” delle diocesi in Italia, in documento Denominazione e sede delle diocesi in Italia, allegato a «L’Osservatore romano«, 9 ottobre 1986, II-III; G. Brunetta, Riordinamento delle diocesi italiane, «Aggiornamenti sociali», 38 (1987), 229-239; G. Feliciani, Le regioni ecclesiastiche italiane da Leone XIII a Gìovanni Paolo II, in (id. ed.), Confessioni religiose e federalismo, Il Mulino, Bologna, 2000, pp. 103-126; G. Feliciani, Il riordinamento delle diocesi in Italia da Pio XI a Giovanni Paolo II, in L. Vaccaro (ed.), Storia della Chiesa in Europa tra ordinamento politico-amministrativo e strutture ecclesiastiche, Morcelliana, Brescia 2005, 283-300. Per un quadro dettagliato della situazione, aggiornato al 2000, vedi Conferenza Episcopale Italiana, Atlante delle diocesi d’Italia, Officine grafiche De Agostini, Novara 2000.


LEMMARIO




Diritti umani - vol. II


Autore: Diego Pinna

La promozione e la difesa da parte della Chiesa dei diritti umani è frutto di un lungo e travagliato processo storico di accettazione, iniziato con la condanna verso i diritti fondamentali contenuti nella “Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino” proclamati dall’Assemblea nazionale francese il 26 agosto 1789. Per circa un secolo il Magistero pontificio proseguì in questa posizione di chiusura verso i diritti fondamentali e le libertà moderne, ma a partire da Leone XIII – in particolare con la Rerum novarum (15 maggio 1891) – si avviò un processo di riappropriazione dei diritti dell’uomo: pur confermando la condanna verso i diritti storicamente definiti dalla rivoluzione, egli riuscì a trovare nuovi spazi di riflessione a partire dal concetto di legge naturale, di cui la Chiesa si riteneva depositaria e custode, e stabilì alcuni diritti naturali che lo Stato doveva tutelare e promuovere.

Nel solco della dottrina leoniana, incentrata sul concetto di legge naturale, si mosse anche Pio XI, rivendicando i diritti di Dio e della Chiesa che i totalitarismi e il laicismo intendevano distruggere. Una certa apertura cominciò a profilarsi nei radiomessaggi natalizi di Pio XII degli anni 1942 e 1944, anche se la “Dichiarazione Universale dei diritti fondamentali” del 1948 venne accolta con freddezza dal papa e ricevette una severa recensione dalla Civiltà Cattolica per mezzo del gesuita A. Messineo il quale, pur riconoscendo in essa un certo riferimento al patrimonio del pensiero cristiano, ne diminuiva la portata, riducendola a dichiarazione internazionale, e ne sottolineava la scissione tra «il concetto dell’uomo come i suoi diritti fondamentali, naturali e inalienabili, dall’anello trascendente al quale li aveva legati la dottrina cristiana» (La Civiltà Cattolica, 100 (1949) II, p. 382). Questa posizione fu superata con la Pacem in terris di Giovanni XXIII (11 aprile 1963), il quale, pur confermando le riserve circa la fondazione dei diritti del documento, lo considerava come «passo importante nel cammino verso l’organizzazione giuridico – politica della comunità mondiale», poiché veniva riconosciuta «nella forma più solenne la dignità di persona a tutti gli esseri umani» (n.75).

Questa svolta fu possibile anche grazie al contributo del prof. Pietro Pavan, docente all’Università Lateranense, che a partire dagli anni cinquanta aveva sostenuto come la rivendicazione dei diritti fondamentali della persona fosse l’espressione umana più significativa della crescente coscienza della dignità dell’uomo. Questa svolta, approfondita dal Concilio Vaticano II nei documenti Gaudium et Spes e Dignitatis Humanae, ebbe immediate ripercussioni anche nella vita della Chiesa italiana. Nel settembre 1968, in occasione del ventesimo anniversario della Dichiarazione universale, la XXXIX Settimana sociale dei cattolici fu dedicata al tema: Diritti dell’uomo ed educazione al bene comune. Il segretario Mons. A. Ferrari Toniolo considerò l’evento come il segno concreto della volontà dei cattolici d’Italia di celebrare il ventennale «con il vero apporto di una riflessione approfondita sulle responsabilità della famiglia, della scuola, delle associazioni religiose, delle organizzazioni imprenditoriali e sindacali» (Atti della XXXIX Settimana sociale dei cattolici d’Italia, p. 317). È significativo, dunque, come l’approccio positivo alla Dichiarazione aprì la strada, più che a una sua celebrazione, all’affermazione dei diritti della persona derivanti dalla legge naturale.

La posizione dei vescovi italiani in materia di diritti umani riecheggiò questo cambiamento di rotta. Nella raccolta degli atti della Conferenza Episcopale Italiana (1954-2005) il tema viene trattato in sette documenti, di cui due elaborati in contesto europeo, nei quali emergono alcune caratteristiche fondamentali: anzitutto il richiamo al Magistero conciliare, arricchito successivamente dagli approfondimenti apportati dall’insegnamento di Giovanni Paolo II. Nel solco di questa tradizione essi formularono alcune priorità nel campo dei diritti della persona: vita umana, libertà religiosa, matrimonio, famiglia, diritto al lavoro. In secondo luogo emerge la consapevolezza dell’episcopato circa il ruolo di promozione e tutela dei diritti loro affidato e il contributo per la vita politica. Nel comunicato in vista delle elezioni del 1963, i vescovi posero come una priorità la difesa dei «diritti inalienabili della persona umana con particolare riguardo a quanti ispirano ad una giusta e doverosa elevazione» (Ench. CEI, vol. 1, n.368). Richiamandosi alla Costituzione italiana, essi auspicarono che nelle politiche sociali si tenesse conto di questi diritti e in particolare che il riconoscimento della dignità dell’uomo esigesse un impegno di solidarietà nella reciprocità (cf. Commissione Giustizia e Pace, Nota Pastorale 1998, Ench. CEI, vol. 6, n.1198). A questo ruolo è legata l’attività di denuncia che la Chiesa ha assunto di fronte allo snaturamento ideologico dei diritti umani che «arriva a legittimare presunti diritti per sottomettere altri uomini secondo logiche di possesso, di potere e di sfruttamento» (Messaggio del Consiglio permanente, Ench. CEI, vol. 7, n. 697).

Nell’atto organizzato dal Pontificio Consiglio “Giustizia e Pace”, nel 60º anniversario della Dichiarazione Universale, Benedetto XVI ha ricordato che i diritti dell’uomo sono ultimamente fondati in Dio creatore, fonte e garanzia di tutti i diritti, e radicati nella legge naturale, il cui riconoscimento costituisce «la grande base per il dialogo tra i credenti delle diverse religioni e tra i credenti e gli stessi non credenti» (Benedetto XVI, Persona umana, cuore della pace, Messaggio per la Giornata Mondiale della Pace, 1.01.2007, n.3). Una frase che compendia efficacemente il lungo percorso della Chiesa da presunta oppositrice a «sentinella» contro le «gravi e sistematiche violazioni dei diritti dell’uomo» (Benedetto XVI, Angelus, 7.12.2008). Accanto al pensiero dottrinale, la Chiesa italiana ha favorito anche lo sviluppo di iniziative concrete per la promozione e il rispetto dei diritti umani: tra queste va menzionata l’opera di Caritas Italiana e della fondazione Migrantes, soprattutto nel campo dell’integrazione sociale e dell’immigrazione; la nascita di comitati e movimenti in difesa della vita umana e della sua dignità, come il Movimento per la vita fondato nel 1975 e le associazioni in difesa dei diritti dei lavoratori.

Fonti e Bibl. essenziale

Diritti della persona, in Pontificio Consiglio della Giustizia e della Pace – G. Crepaldi e E. Colom (edd.), Dizionario di dottrina sociale della Chiesa, Libreria Ateneo Salesiano, Roma 2005, 220-232; G. Filibeck, Diritti umani, in Dizionario di dottrina sociale della Chiesa, Vita e Pensiero, Milano 2004; Id., Diritti umani (tutela dei), in Dizionario di dottrina sociale della Chiesa, cit., 247-351; F. Biffi, I diritti umani da Leone XIII a Giovanni Paolo II, in G. Concetti (ed.), Diritti umani. Dottrina e prassi, AVE, Roma 1982, 199-243; D. Menozzi, Diritti naturali e diritti umani. L’opposizione di Pio XI ai totalitarismi, in J. P. Delville et M. Jacov (edd.), La papauté contemporaine (XIXe-XXe siècle). Hommage au chanoine Roger Aubert, Louvain, Collège Erasme 2009, 483-494; Id., Chiesa cattolica e diritti umani: l’apertura del pontificato giovanneo, in A. Melloni (ed.), Tutto è grazia. In omaggio a Giuseppe Ruggieri, Jaca Book, Milano 2010, 397-416.


LEMMARIO




Diritto Canonico - vol. II


Autore: Carlo Fantappiè

Da alcuni secoli la tradizione canonistica italiana aveva perduto il suo primato e si era ridotta a un sapere pratico, adatto a formare funzionari ecclesiastici. La decadenza ottocentesca è visibile nelle facoltà ecclesiastiche e nelle facoltà statali. La creazione del Regno d’Italia segna una cesura culturale oltre che istituzionale e politica. Le facoltà di teologia sono soppresse nel 1873 e il diritto canonico è assorbito nella nuova disciplina del diritto ecclesiastico insegnata nelle facoltà statali di giurisprudenza. Da allora si diramano due strutture didattiche e due scuole parallele di diritto canonico: quella pontificia e quella statuale laica, i cui fondatori sono Francesco Scaduto († 1942) e Francesco Ruffini († 1934).

Nelle facoltà pontificie la centralizzazione culturale operata dal papato nel tardo Ottocento produce quella Scuola canonistica romana che, con distinte impostazioni al Seminario dell’Apollinare (poi Università del Laterano) e al Collegio Romano (poi Università Gregoriana), crea quella squadra di giuristi che avrà la parte maggiore nei lavori di redazione del Codex iuris canonici tra il 1904 e il 1917. Oltre a Pietro Gasparri († 1934), cui va la direzione dei lavori, vanno considerati principali collaboratori italiani il docente della Gregoriana Benedetto Ojetti († 1932) e i docenti dell’Apollinare Carlo Lombardi († 1908), Guglielmo Sebastianelli († 1920), Michele Lega († 1935), Giuseppe Latini († 1938).

Alla promulgazione del Codex segue, dal 1918 al 1936, un’età dell’esegesi e del commento. Si produce una messe di studi di vario genere ad opera di studiosi ecclesiastici e laici: dalle introduzioni (la più importante è quella dell’israelita Mario Falco del 1925), ai manuali e commentari cui si dedicano specialmente le Università pontificie. Si ricordano le trattazioni di Ojetti e di Felice Cappello della Gregoriana, di Lega e di Francesco Roberti (m. 1977) della Lateranense. Mons. Silvio Romani fonda e dirige a Roma, dal 1935 al 1940, una rivista aperta alla discussione dei problemi emergenti, la “Rassegna di morale e di diritto”.

Nell’Università Cattolica del Sacro Cuore il diritto canonico è insegnato, come disciplina autonoma, dal 1927 in poi, prima da Vincenzo Del Giudice (1884-1970), poi da Orio Giacchi (1909-1982).

Un salto di qualità della disciplina è compiuto grazie a Pietro Agostino d’Avack (m. 1982), rettore dell’Università di Roma, cui va il duplice merito di avere applicato in modo coerente il moderno metodo dogmatico-giuridico alle dottrine della Curia romana e di avere elaborato una fondazione scientifica del diritto canonico per le università statali. Il suo lavoro canonistico si svolge lungo due direttrici, convergenti nella costruzione del diritto canonico come ordinamento giuridico sui generis. La prima vuole attuare l’assimilazione della teoria medievale e moderna della Chiesa quale societas juridice perfecta al concetto di «ordinamento giuridico originario, primario, autonomo». La seconda mira a costruire una nuova ermeneutica delle dottrine curiali mediante il confronto con le teorie dogmatiche contemporanee e la loro traduzione in categorie e concetti del diritto pubblico e privato, per quanto possibile, analoghi e intercambiabili.

Tra il 1936 e il 1943 si accende una vivace discussione sulla questione del metodo per merito soprattutto di Pio Fedele (m. 2004), autore del Discorso generale del diritto canonico (1941) e fondatore con d’Avack, dell’«Archivio di diritto ecclesiastico». Ma il problema del metodo rinvia, in realtà, al problema dell’ermeneutica del diritto canonico. Se Fedele condivide con d’Avack la scelta del metodo giuridico, dissente però sul preteso carattere neutro della tecnica, che ha necessità di essere adattata alle peculiari esigenze e finalità dei singoli ordinamenti. Quello canonico ha una fisionomia inconfondibile, che gli deriva sia dalla natura mista, dove si intrecciano elementi teologici e giuridici, sia dagli istituti tipici (aequitas, dispensa, tolleranza, dissimulazione, buona fede, ecc.), sia dallo scopo trascendente. Per questo, nell’accostarsi ad esso, l’interprete deve possedere una precomprensione teologica e giuridica nonché una prospettiva giusnaturalistica ed etica che non possono combaciare con i presupposti del diritto secolare.

L’originale posizione di Fedele resta sostanzialmente isolata fino agli anni del Vaticano II, quando beneficerà di un rinnovato interesse. Nella scienza canonistica del decennio post-bellico si registra un assestamento mediante la manualistica ispirata alle fortunate Nozioni di Del Giudice (tradotte in lingua castigliana nel 1955) incentrate sulla potestà di giurisdizione della Chiesa come ponte che collega la produzione delle norme con la loro effettività nella società dei fedeli.

Dopo la fase esegetica e quella del commentario o del trattato sperimentate dalla dottrina medievale, i canonisti laici si impegnano nella costruzione dogmatica del diritto canonico in parallelo con la tendenza dominante negli studi giuridici. Il problema maggiore della Scuola italiana è infatti rappresentato dalle obiezioni alla «giuridicità» del diritto canonico provenienti dall’imperante positivismo giuridico e tendenti a minarne la validità scientifica nelle Università statali (studi di Giuseppe Forchielli, d’Avack, Pio Ciprotti tra il 1953 e il 1963). Si approfondiscono anche istituti e problemi nell’ottica della comparazione dell’ordinamento canonico con quello civile (Giuseppe Olivero, Guido Saraceni, Piero Bellini).

Questa svolta dogmatico-giuridica non viene recepita dalla canonistica ecclesiastica, che reagisce negativamente agli stimoli della modernizzazione tecnica e pretende di riservare l’adeguamento della disciplina a «coloro che operarono dal di dentro del diritto canonico e che della scienza canonistica sono i continuatori, i custodi, gli interpreti più naturali e sensibili» (intervento di D. Staffa sulla rivista «Apollinaris», 1957, p. 423).

Le deliberazioni del concilio Vaticano II non hanno un impatto né immediato né univoco sulla canonistica. Mentre si coglie subito la crisi della concezione confessionista del ius publicum ecclesiasticum externum e il problema della sua revisione (Lorenzo Spinelli, Giuseppe Dalla Torre, Giuseppe Caputo), l’invito del concilio e del magistero di Paolo VI a tener conto della nuova ecclesiologia nell’esposizione del diritto canonico apre un percorso assai tortuoso. Un ruolo importante per la fase di passaggio tra il Concilio e il nuovo Codice spetta al canonista poi cardinale Pericle Felici († 1982).

Prima ancora dell’adeguamento del metodo, gli studiosi si pongono il problema della qualificazione giuridica delle delibere conciliari (Gaetano Lo Castro), della ricezione canonistica della concezione della Chiesa come «popolo di Dio» (convegno su La Chiesa dopo il Concilio del 1972; Giuseppe Dossetti) e della visione personalistica del matrimonio canonico (L. De Luca, O. Giacchi, O. Fumagalli Carulli). Si cerca di adattare la manualistica alle idee conciliari anche se riesce difficile costruire una sistematica corrispondente (Mario Petroncelli, Pietro Gismondi).

Nel primo lustro del post-concilio, venato di antigiuridicismo e turbato dalla contestazione ecclesiale, il diritto canonico è come posto sotto processo. Gli studiosi italiani partecipano alle discussioni sulla reimpostazione della sua «natura» e del suo «concetto» dietro gli stimoli dello studioso svizzero Eugenio Corecco. Mentre la canonistica ecclesiastica si colloca a metà strada rispetto alle posizioni di Corecco – convinto sostenitore della qualificazione teologica dell’ordinamento della Chiesa-comunione –, approfondisce i legami tra diritto e pastorale (Fiorenzo Romita) e la teologia del diritto canonico (Dario Composta), la canonistica laica, forte della sua tradizione dogmatica nelle università italiane, rivendica il carattere essenziale della dimensione tecnico-giuridica. D’Avack, Orio Giacchi, Piero Bellini, Salvatore Berlingò, Gaetano Lo Castro, se ammettono l’indissociabilità dell’ottica giuridica da quella teologica, si oppongono però al mutamento di paradigma del diritto canonico e concepiscono il suo oggetto in funzione della Chiesa-società. Più sensibile alle istanze teologiche appare invece Rinaldo Bertolino.

Quest’angolazione ha permesso ai canonisti italiani di contribuire alla revisione del Codice pio-benedettino su questioni dottrinali rilevanti come la progettata Lex fundamentalis Ecclesiae, il diritto amministrativo e il matrimonio. Sul rinnovamento di quest’ultima materia in senso personalistico hanno influito le decisioni di alcuni uditori di Rota (come Aurelio Sabattani e Mario Francesco Pompedda) e alcuni canonisti laici (Orio Giacchi, O. Fumagalli Carulli, Pierantonio Bonnet). La sostanziale coincidenza temporale tra la promulgazione del Codice canonico del 1983 e la revisione del Concordato lateranense del 1984 ha poi stimolato, per l’intreccio di alcune materie, l’opera di rinnovo della manualistica e l’apertura di collane editoriali da parte di Francesco Margiotta Broglio e di Rinaldo Bertolino.

Il comune ancoraggio alla metodologia giuridica, anziché uguagliare le posizioni, ha fatto registrare una varietà di orientamenti e di impostazioni. Essi si possono riassumere nell’integrazione del dato teologico con gli schemi giuridici (Giorgio Feliciani), nella costruzione di una teoria dell’ordinamento ecclesiale come ordine di salvezza (R. Bertolino), nella rivisitazione del diritto canonico alla luce della combinazione di giustizia e carità (Salvatore Berlingò), nell’interpretazione dell’ordinamento della Chiesa quale fenomeno pluralistico frutto della dialettica tra la continuità del diritto divino e la discontinuità del diritto umano (P.A. Bonnet).

Dopo la promulgazione del Codex del 1983 i grandi dibattiti metodologici appaiono relegati sullo sfondo e l’attenzione si concentra sulle interpretazione delle innovazioni normative. Mentre le scuole pontificie hanno necessità di sviluppare nuovi manuali e commentari, gli studiosi laici preferiscono affrontare questioni dottrinali e dogmatiche. La crisi della nozione di ordinamento in senso normativista stimola il ripensamento di alcune fonti o istituti tipici: legge canonica, consuetudine, aequitas, dispensa, restitutio in integrum, ecc. (Giuseppe Comotti, Bonnet, Berlingò, Andrea Bettetini); al tempo stesso si tenta di ridefinire alcune categorie fondamentali della riforma legislativa del 1983, come le relazioni tra potestà di giurisdizione e potestà sacra (Guido Saraceni, Gianfranco Ghirlanda), tra principio gerarchico, collegialità e principio sinodale (Giorgio Feliciani, Gian Pietro Milano, S. Ferrari, C. Cardia). Suscita attenzione il tema dei diritti dei fedeli, a cominciare dal rapporto problematico tra soggetto e persona (Lo Castro) fino alla tutela delle situazioni soggettive (Piero Bellini, Bertolino). Un contributo specifico, di tipo ricostruttivo e sistematico – che tiene particolare conto della giurisprudenza della Rota romana – è stato dato sulla materia matrimoniale (Bonnet, Paolo Moneta, Luciano Musselli). Partendo dai problemi irrisolti della disciplina sul matrimonio canonico, un giovane studioso, prematuramente scomparso, Edoardo Dieni, ha allargato in modo originale il proprio sguardo sul laboratorio canonistico in modo da evidenziare le attitudini dissimulatorie dell’autorità ecclesiastica di fronte allo scarto tra realtà effettuale e norme o precetti. Negli ultimi decenni, anche a causa degli scandali commessi da chierici, si è registrato un sensibile cambio di orientamento nel diritto penale canonico rispetto all’ottica post-conciliare che tendeva a ridimensionare la nozione di pena (Franco Edoardo Adami, Raffaele Coppola, Velasio de Paolis, David Cito).

Nel campo degli studi di storia del diritto canonico medievale e moderno, i canonisti hanno proseguito la prestigiosa tradizione che va da Ruffini a Jemolo, da Cesare Magni a Gaetano Catalano. Rilevante il vasto lavoro di ricostruzione delle dottrine teocratiche medievali e del loro adattamento nell’età moderna e contemporanea svolto da Piero Bellini.

Agli inizi del terzo millennio sembrava superata la stagione dell’antigiuridicismo che aveva segnato in Italia la fase post-conciliare. Nondimeno la ripresa d’interesse verso il diritto canonico non è stata accompagnata da uno sforzo adeguato per superare lo scarto mentale tra teologi e canonisti, e quindi tra la dimensione pastorale e quella giuridica propria della Chiesa.

Fonti e Bibl. essenziale

M. Vismara Missiroli, Diritto canonico e scienze giuridiche. L’insegnamento del diritto della Chiesa nelle Università italiane dall’Unità al Vaticano II, Padova 1988; C. Redaelli, Il concetto di diritto della Chiesa nella riflessione canonistica tra Concilio e Codice, Milano 1991; P. Grossi, Scienza giuridica italiana. Un profilo storico 1860-1950, Milano 2000, 266-273; C. Fantappiè, Diritto canonico codificato, in Dizionario del sapere storico-religioso del Novecento, a cura di A. Melloni, Bologna 2010, vol. I, 654-700; Lo studio e l’insegnamento del diritto canonico e del diritto ecclesiastico in Italia. Ristampa da«Archivio di diritto ecclesiastico», I-III (1939-1941), Padova 2012; Enciclopedia Italiana di Scienze, Lettere ed Arti, Il contributo italiano alla storia del pensiero, Ottava Appendice, Diritto, a cura di P. Cappellini, P. Costa, M. Fioravanti, B. Sordi, Roma 2012; Diccionario general de derecho canónico, obra dirigida y coordinada por J. Otaduy, A. Viana, J. Sedano, voll. I-VII, Cizur Menor (Navarra) 2012; Dizionario biografico dei giuristi italiani (XII-XX secolo), diretto da I. Birocchi, E. Cortese, A. Mattone, M.N. Miletti, voll. I-II, Bologna 2013; C. Fantappiè L’insegnamento del diritto canonico in Italia dal Concilio Vaticano I ai codici vigenti, in Gruppo Italiano Docenti di Diritto Canonico – Associazione Canonistica Italiana, L’insegnamento del diritto canonico, XL Incontro di Studio Centro Turistico Pio X – Borca di Cadore (BL) 1-5 luglio 2013, Milano 2014, 31-57; C. Fantappiè, Ecclesiologia e canonistica, Venezia 2015.


LEMMARIO




Donna - vol. II


Autore: Grazia Loparco

Grazie ai numerosi studi sulla storia delle donne in Italia, è possibile tracciare un quadro abbastanza preciso dal 1861 al presente, sebbene non si possa dire altrettanto della storia delle cattoliche, a lungo molto presenti e attive nelle istituzioni, ma riconosciute a stento nell’effettivo contributo alla vita ecclesiale. La cronologia della storia italiana inquadra i maggiori fenomeni che riguardarono le donne secondo i diversi stati di vita. Per cent’anni esse si identificano con le cattoliche, essendo la stragrande maggioranza.

1) Il quadro femminile al 1861

Al 1861 si contavano 13.399.000 maschi e 12.929.000 femmine. Di queste, oltre le sposate, 206.698 nubili, 42.664 religiose, con prevalenza di monache al sud. La maggioranza delle donne erano votate alla famiglia, dove non era previsto il divorzio. Esse non avevano diritti civili al pari degli uomini; in numero più alto erano analfabete. Molte scuole erano in quegli anni in mano a istituti religiosi femminili. Circa il lavoro, le donne si occupavano in campagna, nelle filande. Prive di istruzione professionale, nei primi stabilimenti erano molto sovente sfruttate. Per l’aspetto religioso, la soppressione degli Ordini non riguardò le Congregazioni femminili recenti, dedite a un apostolato visibilmente utile alla società: colmavano lacune statali ed erano escluse dalle polemiche culturali. Anche nelle carceri e negli ospedali cresceva l’assistenza femminile, con l’attenzione all’intera persona, manifestando un Dio vicino soprattutto con il linguaggio della cura, della carità operosa. Tra tante altre, la marchesa Giulia Falletti di Barolo (1785-1864) con il marito Carlo Tancredi (1782-1838) a Torino e le Figlie della carità sui campi di battaglia avevano inaugurato un nuovo approccio alle persone, spesso abbandonate nelle pieghe della povertà.

2) La prima evoluzione (dal 1861 al 1914 circa)

a) La nascita del femminismo. Il primo femminismo in Italia, promotore di riforme sociali e politiche, ebbe carattere laico: Anna Maria Mozzoni (1837-1920) ricordava che l’essere donna è fonte di diritti, mentre l’educazione comune sottolineava soprattutto i doveri. La nascita di riviste femminili restò un segnale per élites, impegnate a rivendicare uguaglianza e spazi di protagonismo.
Il movimento femminile cattolico, sostenuto inizialmente dalla lombarda Adelaide Coari (1881-1966), condivideva i fermenti legati alla richiesta di riconoscimenti civili, ai diritti in campo lavorativo e politico, sebbene le cattoliche non si vincolassero alle socialiste promotrici di un’emancipazione delle donne dalla chiesa che le teneva in soggezione. La veneta Elisa Salerno (1873-1957) pose alla riflessione il rapporto tra donna, lavoro e chiesa, incorrendo nell’accusa di modernismo, come accadde anche alla napoletana Antonietta Giacomelli (1857-1949). L’impegno sociale fu promosso dalla rivista L’Azione muliebre fondata da Elena Da Persico (1869-1948), che cercò di contemperare la docilità alla gerarchia e l’apertura di interessi e campi d’azione. Sulla Civiltà Cattolica del 1906 uscivano intanto diversi articoli su La donna nuova: essi, contrastando una rivendicazione sovversiva, con mentalità conservatrice promuovevano comunque l’impegno cristiano anche in ambienti nuovi per le donne, come gli impieghi pubblici.

b) Il miglioramento dell’istruzione. Nonostante la diffidenza anche ecclesiastica verso l’istruzione femminile, che tenne basso il numero delle laureate, come dimostrano le statistiche di fine ’800, con la fondazione dei due Magisteri a Roma e a Firenze nel 1878, si allargò l’accesso alle donne, specialmente in vista della formazione delle insegnanti nelle scuole Normali. In queste si preparavano le insegnanti elementari, rispondenti alla legge dell’istruzione obbligatoria. Nel giro di alcuni decenni le maestre superarono in numero i maestri, sempre meno interessati a un lavoro faticoso e poco remunerato. Il Magistero fu ben presto frequentato anche dalle religiose, interessate ai legali diplomi universitari necessari per preparare maestre. Soprattutto le Congregazioni religiose femminili diedero un apporto determinante nei primi decenni post unitari all’alfabetizzazione capillare delle fasce popolari, con la presenza anche in piccoli centri di provincia, privi di altre insegnanti. Il riconoscimento sociale della figura della maestra religiosa, legata a una comunità che ne tutelava la moralità, aprì la strada alle laiche. Superando le remore, le suore e le donne furono dunque protagoniste dell’unica, per certi versi, “rivoluzione” riuscita in Italia: una maggiore istruzione ed educazione delle donne e del popolo. In mancanza di scuole e di mezzi di comunicazione, i collegi, gli educandati, i convitti, consentirono a lungo l’elevazione culturale di molte ragazze, anche come maestre, a loro volta promotrici dei valori cristiani per generazioni di allievi. In tal senso la formazione degli italiani passò attraverso molte maestre cattoliche, con risparmi economici per i comuni e lo Stato. Un po’ più lento fu l’avvio degli asili e giardini d’infanzia, per i pregiudizi che gravarono su quest’istituzione. All’inizio del ’900, però, con la diffusione delle famiglie nucleari nelle zone più industrializzate, essi si moltiplicarono, restando a lungo appannaggio delle religiose, che in tal modo avevano diretto contatto con le famiglie.
Di fronte all’anticlericalismo di varia matrice, le donne mediarono un’immagine diversa di Chiesa, non impositiva o chiusa in difesa di diritti o privilegi violati, ma chinata sulle esigenze concrete delle persone per provvedervi con carità e rispetto. Sillabo e questione romana interessavano più gli uomini; le persone in necessità più le donne. Con la particolarità che le loro opere si basavano sul lavoro, non sulle rendite.

c) I nuovi lavori per le donne. Il rapporto donne e lavoro, sia negli stabilimenti industriali che negli impieghi pubblici, incrociò l’impegno di istituzioni ecclesiali, specie le Congregazioni, che assunsero la gestione di convitti e pensionati, per un’assistenza attenta alla promozione delle giovani in vista della famiglia, oltre che agli aspetti sanitari, sociali e morali. Era un modo femminile di partecipare alla questione sociale, stando nelle situazioni di tensioni e disagi, cercando la mediazione. I convitti per operaie erano già presenti prima del 1861, ma si moltiplicarono soprattutto dai primi del ’900. Con gli scioperi e la propaganda del socialismo, si formarono poi leghe cattoliche, come pure patronati di tutela e difesa delle lavoratrici.
Altri lavori consentiti alle donne in questo periodo furono l’insegnamento e come infermiere. Il primo manuale per la formazione di queste ultime fu fatto stampare da Mons. Giovanni A. Farina (1803-1888), fondatore delle suore Maestre di S. Dorotea di Vicenza. Per le infermiere restava l’obbligo del celibato, come conferma a Roma l’esperienza di Anna Celli (1878-1958). In pratica, c’era una sorta di divisione sessuale del lavoro anche in Italia, sostenuto dalla Chiesa. La managerialità che distinse molte fondatrici religiose, motivata dall’urgenza apostolica e alimentata dall’incremento delle comunità, non ebbe eguali tra le rivendicazioniste.

d) Questione religiosa e associazioni. Le prime donne emancipate sembrano essere proprio le religiose per l’impegno autonomo in tante attività, incluse le missioni estere in gran numero ecc. Però all’inizio del Novecento ci furono le prime critiche al loro mondo e l’avvio di quelli che sarebbero stati gli Istituti secolari (Elena da Persico ecc.), presenti come fermento invisibile nella società. D’altronde, con la separazione tra Stato e Chiesa fiorì l’associazionismo delle donne, non solo delle élites, a riprova di una soggettività più definita. Già dal 1867 si erano sviluppate nelle parrocchie le pie unioni delle Figlie di Maria. Con la moralità e la pietà, i sacerdoti talvolta promossero un apostolato nella catechesi parrocchiale e nelle famiglie, o sui posti di lavoro. Da alcuni gruppi sorsero anche forme di consacrazione privata, riavvicinata alla Compagnia di S. Orsola di Angela Merici.
Tenendo conto che le ragazze italiane non erano abituate a spazi di socializzazione organizzata o di tempo libero, nelle associazioni parrocchiali o nei popolatissimi oratori delle religiose sperimentarono una forma di responsabilizzazione e partecipazione inedita, specie per alcune regioni, come la Sicilia e nel sud. Una iniziativa ancora maggiore fu richiesta con l’adesione all’Azione cattolica nelle Unioni femminili, che spinsero a un protagonismo attivo e incisivo. Nel 1908 c’era stato un avvicinamento tra emancipazioniste e cattoliche nel primo convegno nazionale femminile a Roma, ma arrivarono alla rottura sul tema dell’insegnamento della religione nelle scuole pubbliche, tema che aveva provocato la nascita delle Scuole di Religione extra scolastiche organizzate in molte diocesi italiane. Poco dopo nacque l’Unione delle Donne Cattoliche italiane, a sostegno del modello femminile tradizionale, ma aprendo a battaglie che riguardavano il mondo del lavoro come pure l’insegnamento della religione e una certa preparazione e iniziativa nella società.
In pratica si conclude il periodo con il respingimento della proposta di divorzio, della richiesta di concedere il diritto di voto alle donne, della partecipazione alla politica o maggiori spazi nelle professioni. La spinta verso una evoluzione era piuttosto difficile, per molte remore anche ecclesiali (Pio X pensava che le donne dovessero stare in casa), tuttavia la corsa ad ostacoli non bloccò le donne e tra loro molte suore, che nella Chiesa si sentirono responsabili della salvezza degli altri e perciò allargarono in modo talora  impressionante i confini dei propri interessi e intrapresero lunghissimi viaggi per le missioni. Francesca Cabrini (1850-1917) è un paradigma.

3) La prima guerra mondiale

Durante la Grande guerra si registrò una grande partecipazione delle donne alla vita della nazione, con l’assunzione di attività prima svolte solo da uomini. Molte furono crocerossine; le suore, anche educatrici, si impegnarono negli ospedali militari e nell’assistenza degli orfani, rompendo gli schemi e le abituali attività; molte collaborarono in comitati di assistenza a favore dei soldati al fronte. Anche se vigevano ancora le leggi di soppressione, dopo questa esperienza, religiose e religiosi, clero, erano riconosciuti dalla gente come parte della nazione, avendo dato prova di “patriottismo”, pertanto bisognava arrivare a una soluzione del problema romano.

4) Il fascismo e la seconda guerra mondiale

Nella politica demografica del regime si enfatizzò la figura della madre; restava la questione del lavoro, per cui si assegnava alla donna uno stipendio inferiore a parità di mansioni, con la possibilità di licenziamento con il matrimonio ecc. In prevalenza ci fu l’adeguamento formale delle religiose al fascismo, pur cercando di tutelare i principi ed evitare ingerenze eccessive nelle opere. Le percentuali delle religiose cominciarono a diminuire, per maggiori spazi e migliori condizioni generali concessi alle donne. I mezzi di trasporto, le possibilità per le sposate di tornare al lavoro, le letture, cambiavano il modo di percepire anche se stesse e il proprio compito. La capacità organizzativa di Armida Barelli (1882-1952) in ordine all’Università Cattolica e alla Gioventù femminile di Azione Cattolica è indice di un impegno senza deleghe che seppe coinvolgere moltissime giovani.
Durante la seconda guerra mondiale si registrò poi una resistenza femminile, specie attraverso l’assistenza a chiunque fosse in pericolo, mostrando valore civile e impegno concreto a favore delle persone, senza guardare l’appartenenza religiosa. In particolare si segnalò l’aiuto di religiosi e religiose agli ebrei, ai dissidenti politici, ai renitenti alla leva, agli sfollati, ai bambini e alle bambine della strada e agli orfani. Per necessità si era sviluppata la fantasia della carità e la prontezza. Invece la mentalità degli “occhi bassi” resisteva nell’educazione alla modestia, alla sottomissione e al silenzio; nella conoscenza delle proprie potenzialità e della stessa corporeità. Molte letture spirituali e prediche vi insistevano con le mamme e le figlie, tuttavia la diffusione della radio, del cinema, della stampa, del ballo, di una moda più libera, inaugurava cambi difficilmente arginabili.

5) Dopo la seconda guerra mondiale

Dopo il 1945 la situazione mutò rapidamente anche per le donne. Si riconobbe il diritto di voto e la partecipazione alla politica (anche di diverse donne membri di istituti secolari). Durante il concilio Vaticano II, quando furono invitate, tra le 23 uditrici ci furono due laiche e una religiosa italiane; subito dopo ci fu l’apertura delle facoltà pontificie alle donne, anche come docenti, persino di teologia, e il riconoscimento della Pontificia Facoltà di Scienze dell’Educazione “Auxilium”, l’unica affidata dalla Santa Sede alla gestione di donne, nel 1970.
Ai primi degli anni ’60 Giovanni XXIII additò la nuova condizione delle donne come uno dei segni dei tempi. Per la verità esse avevano dovuto conquistare terreno palmo a palmo, non di rado insistendo e resistendo anche alle autorità ecclesiastiche, per far riconoscere la bontà di scelte inedite rispetto alla disciplina canonica. La mentalità ecclesiale corrispondeva a quella sociale, pur avendo consentito alle donne spazi di azione prima che nelle famiglie. Con la contestazione del ’68, la legge sull’aborto e il divorzio degli anni settanta, la liberalizzazione dei costumi sessuali con conseguente uso dei contraccettivi, si delinea la progressiva divaricazione tra Chiesa e mondo femminile, ormai entrato nella secolarizzazione, cent’anni dopo gli uomini. L’immagine istituzionale, le scelte concrete nelle comunità locali hanno influito sulla “fuga delle quarantenni” dalle parrocchie, come anche sulla diminuzione delle consacrate, mentre sono aumentate donne impegnate nel volontariato e in altri movimenti ecclesiali. Al contempo, con la maggiore preparazione culturale, si assiste a una critica del femminismo da parte delle stesse donne, nella ricerca di una visione antropologica più evangelica, fino alle conseguenze di un’auspicata reciprocità nella cooperazione e nelle relazioni anche intraecclesiali, troppo segnate dal tradizionale maschilismo. La riflessione teologica delle donne italiane è avviata, ma c’è ancora molto spazio per il dialogo e un ripensamento comune.

Conclusione

Cessato l’appoggio ufficiale dello Stato alla Chiesa e aumentato l’indifferentismo maschile, le donne hanno contribuito fortemente a rimodulare la vita delle comunità locali e delle parrocchie, grazie al crescente coinvolgimento nell’apostolato fuori delle mura domestiche. Senza oneri economici per i sacerdoti e i vescovi, come per lo Stato.
L’assunzione personale della fede, legata a lungo al dovere della sua trasmissione in famiglia, ha prodotto una valorizzazione della soggettività femminile, fondata sulla dignità battesimale, pur nell’asimmetria di genere e nel clericalismo della Chiesa italiana. Il sodalizio tra donne e Chiesa ha interessato tutte le fasce sociali in modi consoni alla mentalità vigente e al contempo ha spinto le donne delle fasce più popolari a un impegno allargato che, per almeno un secolo, si è rivelato portatore di uno sviluppo superiore a quello degli ambienti di appartenenza. Si pensi alle associazioni, ai circoli culturali, alle letture, ai viaggi, alle responsabilità di governo di opere e strutture di portata superiore a quella familiare, quali potevano essere le opere delle religiose o gli impegni dell’Azione Cattolica o in altre associazioni. Il progresso era frutto di un senso di responsabilità assunto con decisione, non di una rivendicazione.
Con l’acquisizione del diritto di voto, diverse donne si impegnarono per favorire il partito di ispirazione cristiana. Sempre poche, invece, entrarono direttamente in politica. Il modello femminile proposto dalla Chiesa era legato alla famiglia, alla consacrazione religiosa, non a un impegno politico attivo. Neppure l’elevazione della cultura di molte donne è bastata a modificare profondamente un atteggiamento diffuso di delega.
Per circa un secolo dall’Unità d’Italia, in presenza di un progressivo secolarismo, matura la “femminilizzazione del cristianesimo” nelle parrocchie, nelle opere caritative e sociali, nelle scuole e negli ospedali. Non manca chi ha affermato che le donne hanno salvato la fede e la Chiesa italiana troppo ancorata alla gerarchia. Finora, tuttavia, altri sono i fatti, altra l’immagine delle donne e della Chiesa in Italia.
Dopo il ’68, con la ripresa del femminismo radicale e la comparsa dell’ideologia del gender, anche il rapporto con la Chiesa si è lacerato per un numero crescente di donne, con conseguenze evidenti sul piano antropologico e culturale, nelle famiglie, nella pratica religiosa e negli impegni pubblici.
Considerando i papi, Leone XIII tra 1878 e 1891 elaborò il modello della donna in famiglia, angelo del focolare, che resistette a lungo. Pio X, conservatore a questo riguardo, accolse però l’iniziativa di Cristina Giustiniani Bandini (1866-1959)  per inaugurare un nuovo associazionismo, diverso dalle pie unioni, sviluppato con l’apostolato dell’Azione Cattolica. Passando per Giovanni XXIII e Paolo VI, che posero gesti discreti, ma significativi e innovatori, si arriva alla Mulieris dignitatem di Giovanni Paolo II, con la decisione di inserire qualche donna tra le officiali della Santa Sede. Scelta confermata da Benedetto XVI e da papa Francesco, che afferma la necessità di ripensare la teologia della donna, prendendo atto che i passi istituzionali richiesti dalla contemporaneità sono stati decisamente lenti.
Nell’arco di più di 150 anni è facile, infine, notare come molte cose siano cambiate nella mentalità, nelle prospettive e dunque anche nelle statistiche e nelle percentuali che riguardano le aree di impegno delle donne cattoliche italiane, tra cui si annoverano numerose sante. Circa lo stato di vita si assiste pure a una nuova proporzione tra donne sposate, single e religiose, per l’apertura progressiva di possibilità, nonostante le limitazioni sussistenti.

Bibliografia essenziale

Giancarlo Rocca, Donne religiose. Contributo a una storia della condizione femminile in Italia nei secoli XIX-XX, Roma, Ed. Paoline 1992; Paola Gaiotti de Biase, Le origini del movimento cattolico femminile, Brescia, Morcelliana 20002; Ead., Vissuto religioso e secolarizzazione. Le donne nella “rivoluzione più lunga”, Roma, Studium 2006; Adriana Valerio, Pazienza, vigilanza, ritiratezza. La questione femminile nei documenti ufficiali della Chiesa (1848-1914), in “Nuova DWF” (1981) 16, pp. 60-117; Lucetta Scaraffia, “Il Cristianesimo l’ha fatta libera, collocandola nella famiglia accanto all’uomo” (dal 1850 alla “Mulieris dignitatem”), in Ead. – Gabriella Zarri, Donne e fede. Santità e vita religiosa in Italia, Roma-Bari, Laterza 1994, pp. 441-493; Cecilia Dau Novelli, Società, Chiesa e associazionismo femminile. L’Unione fra le donne cattoliche d’Italia (1902-1919), Roma, A.V.E. 1988; Lucetta Scaraffia, Fondatrici e imprenditrici, in Emma Fattorini  (a cura di), Santi, culti, simboli nell’età della secolarizzazione (1815-1915), Torino, Rosenberg & Sellier 1997, pp. 479-493; Maria Teresa Falzone, Le Congregazioni religiose femminili nella Sicilia dell’Ottocento, Caltanissetta-Roma, Salvatore Sciascia 2002; diverse figure in Eugenia Roccella- Lucetta Scaraffia (a cura di), Italiane, Roma, Presidenza del Consiglio dei ministri 2003, 3 vol.; Stefania Bartoloni (a cura di), Per le strade del mondo. Laiche e religiose fra Otto e Novecento, Bologna, Il Mulino 2007; Luigi Mezzadri-Maurizio Tagliaferri (a cura di), Le donne nella Chiesa e in Italia, Cinisello B., San Paolo 2007; Maria Susanna Garroni (a cura di), Sorelle d’Oltreoceano. Religiose italiane ed emigrazione negli Stati Uniti: una storia da scoprire, Roma, Carocci 2008; Grazia Loparco, Gli istituti religiosi femminili e l’educazione delle donne in Italia tra Otto e Novecento, in “Seminarium” 44(2004)1-2, 209-258; Ead., Le Figlie di Maria Ausiliatrice e le reti di “ben intesa italianità” nel primo cinquantennio dello Stato unitario, in Lucetta Scaraffia (a cura di), I cattolici che hanno fatto l’Italia. Religiosi e cattolici piemontesi di fronte all’Unità d’Italia, Torino, Lindau 2011, pp.  153-204; Ead., Consacrate nella Chiesa per il mondo. Unione Internazionale delle Superiore Generali 1965-2015, Roma 2016; Giorgio Vecchio (a cura di), Le suore e la resistenza, Milano, Ambrosianeum 2010; Fondazione «Emanuela Zancan» (a cura di), Per carità e per giustizia. Il contributo degli istituti religiosi alla costruzione del welfare italiano, Padova, Fondazione E. Zancan Onlus-Centro Studi e Ricerca sociale 2011; Tonino Cabizzosu, Donna, Chiesa e società sarda nel Novecento, Caltanissetta-Roma, S. Sciascia 2011; Marinella Perroni, Alberto Melloni, Serena Noceti (a cura di), “Tantum aurora est”.  Donne e Concilio Vaticano II, Zürich, LIT 2012; Maria Chiaia, Donne d’Italia. Il Centro Italiano Femminile, la Chiesa, il Paese dal 1945 agli anni Novanta, Roma, Studium 2014; Liviana Gazzetta, Tina Anselmi e la costruzione di una politica femminile, in Maria Teresa Mori, Alessandra Pescarolo, Anna Scattigno, Simonetta Soldani (a cura di), Di generazione in generazione. Le italiane dall’Unità a oggi, Roma, Viella 2014; Giulia Galeotti-Lucetta Scaraffia, Papa Francesco e le donne, Milano, Il Sole 24 ORE 2014; alcuni studi in Saveria Chemotti – Maria Cristina La Rocca (a cura di), Il genere nella ricerca storica. Atti del VI Congresso della Società Italiana delle Storiche, Padova, Il Poligrafo 2015, 2 vol.; Adriana Valerio, Donne e Chiesa. Una storia di genere, Roma, Carocci 2016; AA. VV., Ruolo delle donne nella Chiesa. Atti del Simposio promosso dalla Congregazione per la Dottrina della Fede. Roma, 26-28 settembre 2016, Città del Vaticano, Libreria Editrice Vaticana 2017. E molte pubblicazioni documentate su figure singole di donne, Congregazioni religiose o Istituti secolari e associazioni.


LEMMARIO




Ebrei - vol. II


Autore: Anna Foa

I rapporti tra la Chiesa e gli ebrei, già peggiorati a partire dall’avanzare della secolarizzazione, nella seconda metà del Settecento, e poi dall’emancipazione concessa agli ebrei italiani da Napoleone, toccarono il loro momento peggiore con la Repubblica Romana del 1848 e poi con la fine del potere temporale dei papi e il compimento dell’Unità italiana. Un contesto in cui la Chiesa, sulla difensiva e segregata in Vaticano, vede negli ebrei i simboli della modernità, gli eredi della Rivoluzione francese e della scristianizzazione, i fautori dell’odiato progresso, della tolleranza e dell’indifferentismo religioso. Di qui, il taglio netto da parte della Chiesa di quella sorta di cordone ombelicale che aveva legato, nei secoli, Chiesa ed ebrei. “Non più figli, ma cani latranti nelle strade”, definisce gli ebrei Pio IX dopo il 1870. La polemica contro l’uguaglianza civile e politica ottenuta dagli ebrei con l’unità italiana era destinata ad inasprirsi ulteriormente sotto il pontificato di Leone XIII e a trascinarsi anche nel nuovo secolo. L’uguaglianza degli ebrei violava per la Chiesa il principio base su cui si era regolata nei secoli la loro presenza, cioè quello della subordinazione, una subordinazione che andava intesa prevalentemente in senso teologico, come subordinazione dell’errore alla verità.

Questa ostilità all’emancipazione, interpretata come l’inizio della presa del potere degli ebrei nella società, rappresenta il trait d’union tra il vecchio antigiudaismo a carattere religioso, privo di connotazioni razziali, e il nuovo antisemitismo legato all’idea del sangue e della razza. Perché il problema dominante del rapporto tra Chiesa ed ebrei era ormai quello dell’antisemitismo dilagante in gran parte d’Europa. Sarebbe riuscita la Chiesa, senza rinunciare al suo tradizionale antigiudaismo, a restarne del tutto immune? L’idea di una diversità naturale, razziale, dell’ebreo andava contro quella della conversione, che era ancora al cuore della dottrina sugli ebrei della Chiesa di Roma, e poneva una barriera al diffondersi di tesi troppo radicalmente razziste. In Italia le suggestioni del nuovo razzismo sul cattolicesimo, che pur ci furono, furono accompagnate non dalla mistica ariana, come in Germania, ma dalla ripresa e dalla riacutizzazione di antichi stereotipi della tradizione antigiudaica. Si trattava, comunque, di una rielaborazione degli antichi schemi, che rendeva l’immagine degli ebrei proposta dal mondo cattolico negli ultimi decenni dell’ Ottocento diversa da quella tradizionale e definibile più con il termine di “antisemitismo” che con quello di antigiudaismo.

Gli stereotipi antigiudaici si rinnovano, come nell’attacco al Talmud, già messo all’indice dalla Chiesa nel Cinquecento, ed ora sottoposto a rinnovate accuse. Esse partirono da un sacerdote cattolico, professore a Praga, August Rohling, che pubblicò nel 1871 un libro, L’ebreo talmudico, dove si proponeva l’idea molto “moderna” di un complotto ebraico per dominare il mondo e soprattutto dove si sosteneva che il Talmud prescriveva l’uccisione rituale di bambini cristiani. Il libro di Rohling gettò non senza ragione nel panico le comunità ebraiche dell’Est Europa, dove numerose erano le accuse di omicidio rituale. In Francia l’Ebreo talmudico veniva tradotto con una prefazione di Drumont, il leader dell’antisemitismo cattolico razzista. Quanto alla Chiesa, non solo non lo condannò, ma ne prese le distanze con ritardo, e solo dopo che un processo aveva sollevato seri dubbi sulle conoscenze talmudiche di Rohling. In Italia, nella campagna antiebraica e nella ripresa dell’antica accusa di omicidio rituale si distinsero, insieme con molta stampa cattolica locale, l’organo dei gesuiti La Civiltà Cattolica, il milanese L’Osservatore Cattolico, diretto da don Davide Albertario, e L’Osservatore Romano. La Civiltà cattolica sostenne, in una violenta campagna di articoli firmati da Padre Giuseppe Oreglia la realtà di queste accuse, facendone la storia nei secoli. E quando, nel dicembre del 1899, un gruppo di anglicani e cattolici inglesi, tra cui l’arcivescovo di Westminster, scrisse al Papa Leone XIII chiedendogli di ribadire ripubblicandola la Bolla con cui Innocenzo IV, nel 1247, aveva sostenuto l’assurdità di simile accusa, Leone XIII passò il caso al Santo Uffizio, che nei primi giorni del nuovo secolo diede una risposta negativa alla richiesta. La Chiesa non sosteneva ufficialmente la realtà dell’accusa, ma rifiutava di confutarla. Sul finire del secolo, dopo il trauma provocato dall’affaire Dreyfus, in cui la Chiesa aveva sostenuto a lungo il partito degli antidreyfusards, e mentre un sindaco cattolico e dichiaratamente antisemita, Karl Lueger, governava su Vienna, i rapporti tra Chiesa e ebrei in Italia come nel resto dell’Europa cattolica toccavano uno dei punti più bassi della loro storia.

La polemica antiebraica della Chiesa sembra attenuarsi intorno al 1903, dopo l’avvento al soglio pontificio di Pio X: la Civiltà Cattolica cessa la sua campagna antisemita, e nel 1905 lo stesso pontefice condanna i pogroms in Russia. Ma negli anni della Grande Guerra, dopo la Rivoluzione russa e la dichiarazione Balfour, l’antiebraismo divampa nuovamente nella Chiesa in forma assai radicale, volta a identificare ebraismo, bolscevismo, sionismo, massoneria. Era il cosiddetto “partito integrista”, ostile ad ogni forma di modernismo, legato alla destra radicale dell’Action française e ai cristiano-sociali austriaci, i cui più noti esponenti erano Umberto Benigni e Ernest Jouin, fra i maggiori diffusori in Europa dei “Protocolli dei savi di Sion”. Esso non rappresentava tuttavia, ormai che una parte della Chiesa, come dimostra la condanna dell’ antisemita Action française, nel 1926, da parte di Pio XI e i mutamenti di rotta di vari organi di stampa cattolici, tra cui la rivista dei gesuiti francesi Etudes. Questo cambiamento trovò il suo culmine nella Società degli Amici di Israele, nata a Roma nel 1926 su iniziativa del cardinale olandese Wilhelm von Rossum, che sosteneva una linea di netta ed aperta condanna dell’antisemitismo, pur non senza suggestioni conversionistiche. Ma la situazione in seno alla Chiesa era complessa, tanto che nel 1928, pur condannando contemporaneamente, e per la volta, l’antisemitismo, il Sant’Uffizio sciolse la Società degli Amici di Israele.

L’inizio degli anni Trenta, con l’avvento al potere del nazismo e con la nascita di uno Stato razziale, mise la Chiesa di fronte ad un’ideologia del sangue, della razza e del primato ariano lontanissima dai suoi principi. L’enciclica Mit Brennender Sorge, del 1937, pur non nominando la persecuzione antisemita, rappresentò una ferma condanna del razzismo. Ma l’idea che potesse esistere un antisemitismo moderato, spirituale ed etico, lontano dagli eccessi nazisti, era diffusa in una parte almeno del mondo cattolico come della Chiesa, e fu, secondo una parte rilevante della storiografia, responsabile della debolezza complessiva dell’atteggiamento della Chiesa di fronte al nazismo che pur percepiva non solo come antisemita ma anche come anticristiano. D’altronde, non mancarono nella Chiesa e nel mondo cattolico tentativi di conciliare cattolicesimo e razzismo antisemita. In Italia, l’esponente più importante di questa linea fu il rettore dell’Università Cattolica di Milano, Padre Agostino Gemelli, al centro, tra il 1938 e il 1939, di un tentativo fallito da parte dell’ala del fascismo più oltranzista rappresentata da Roberto Farinacci, di sottolineare le convergenze tra razzismo e cattolicesimo, o se preferiamo tra antigiudaismo e antisemitismo.

Nello stesso momento, le leggi razziste del 1938 introducevano anche in Italia l’antisemitismo di Stato e ricacciavano gli ebrei italiani in uno statuto giuridico simile a quello del periodo che aveva preceduto l’emancipazione. Di basso profilo fu la reazione della Chiesa, che si limitò a protestare pubblicamente sulle norme che violavano il concordato, cioè quelle sui matrimoni misti. Sul terreno diplomatico, ed anche sul giornale della Santa Sede, L’Osservatore Romano, la reazione fu più decisa ma ugualmente inefficace di fronte alla rigidità con cui il regime difese la svolta razzista. Nel febbraio del 1939, Pio XI moriva, e il suo segretario di Stato, Eugenio Pacelli, diveniva papa con il nome di Pio XII: Pio XI lasciava un’enciclica non ancora resa pubblica di netta condanna del razzismo, la Humani Generis unitas, che il nuovo pontefice preferì non pubblicare. Il mondo si avviava alla guerra, e la Santa Sede era preoccupata di salvaguardare al massimo la sua neutralità, di non esporre i cattolici dei territori sotto il nazismo alla persecuzione, di manovrare, come nella sua tradizione, attraverso discrete trattative diplomatiche e non di farsi espressione pubblica ed aperta di una funzione profetica, quella di denunciare il nazismo, che le avrebbe precluso ogni libertà di movimento. Furono queste le posizioni che Pio XII avrebbe continuato a mantenere nel corso della guerra: da una parte, questo permise alla Chiesa di salvare molti ebrei in pericolo, di nasconderli a Roma e altrove in Italia e in Europa in chiese e parrocchie, di impedire che la città di Roma fosse teatro diretto della guerra. Dall’altra, sono i suoi “silenzi”, termine usato per primo dallo stesso papa durante la guerra, su cui ancora la discussione resta accesissima tra quanti accusano Pio XII di non aver fatto quanto in suo potere per fermare lo sterminio degli ebrei europei e quanti invece lo difendono da queste accuse. E’ questo il contesto storiografico che fa da sfondo alla proposta di beatificazione del pontefice.

Il 16 ottobre 1943, oltre mille ebrei furono prelevati dai nazisti a Roma, “sotto le finestre” del pontefice. Ancora una volta, prevalse la linea del compromesso e della diplomazia. Dopo il 16 ottobre, si moltiplicarono le iniziative vaticane di solidarietà concreta, in cui furono direttamente coinvolte le massime personalità di Curia e di cui il pontefice non poteva non avere piena conoscenza. I conventi e le chiese si riempirono di ebrei, di partigiani, di soldati disertori, tutti nascosti. Era un momento in cui “mezza Roma nascondeva l’altra metà”. Migliaia di ebrei dovettero la salvezza a questa politica. Ma essa ebbe un prezzo alto, il silenzio politico sullo sterminio.

Sul lungo periodo, la Shoah ebbe come conseguenza una profonda trasformazione delle relazioni tra il mondo cristiano e gli ebrei. Ma anche questo cambiamento, come tanti altri in quel difficile dopoguerra, non fu immediato. Sui tempi brevi, prevalsero le vecchie concezioni, riemerse il tradizionale antigiudaismo della Chiesa, sommerso ma non cancellato dall’antisemitismo razziale. Non si trattava di residui del passato, ma di una linea politica e teologica precisa, che veniva autorevolmente riaffermata. Erano posizioni che il mondo cattolico non avrebbe certo abbandonato subito, nemmeno quando le dimensioni immani di quello che era avvenuto sarebbero divenute chiare. Sono anni, questi, in cui tra i cattolici sono poche le voci che si alzano ad ammonire sui pericoli della tradizione dell’odio e a mostrare l’urgenza di sostituirla con una nuova visione dei rapporti con gli ebrei. La necessità per la Chiesa, di sbarazzarsi della vecchia teologia antigiudaica, e di iniziare un’opera di insegnamento del rispetto che sostituisse quell’insegnamento del disprezzo di cui si erano viste le terribili conseguenze, fu affermata già nel 1947 a Seelisberg, in Svizzera, in una conferenza internazionale sull’antisemitismo organizzata da personalità ebree e cristiane di varie confessioni. La conferenza, prendendo atto dell’esplosione di antisemitismo che aveva condotto alla persecuzione e allo sterminio milioni di ebrei, pubblicò un appello rivolto alle Chiese cristiane perché evitassero di formulare nell’insegnamento e nella predicazione qualsiasi ostilità nei confronti degli ebrei. Il principale ispiratore delle tesi di Seelisberg fu lo storico ebreo francese Jules Isaac, che nel 1949 presentò a Pio XII, in un’udienza pubblica durata pochi minuti, l’appello finale della conferenza, noto come “I dieci punti di Seelisberg”, senza che ne seguisse alcun effetto. Nel 1950, Isaac partecipò alla fondazione dell’Amicizia ebraico-cristiana in Italia: iniziava così il dialogo fra cristianesimo ed ebraismo, un dialogo che preparò e precedette il Concilio e che ne venne poi fortemente stimolato e incoraggiato. Nel 1960, Isaac incontrò Giovanni XXIII, che lo mise in contatto con il cardinal Bea. Da questo incontro, sarebbe nata l’idea di portare nella discussione conciliare il rapporto tra Chiesa ed ebrei.

Il documento fondamentale con cui venivano inaugurate le linee di una nuova teologia cattolica dell’ebraismo fu la dichiarazione sulle relazioni della Chiesa con le religioni non cristiane Nostra Aetate, emanata dal Concilio Vaticano II il 28 ottobre 1965, a Concilio quasi ultimato. Due sono sostanzialmente le linee di trasformazione del rapporto con l’ebraismo su cui si muove nel suo importante paragrafo 4, che è quello dedicato agli ebrei: il primo, il più noto, e anche quello che ha suscitato la maggiore opposizione durante i lavori del Concilio, è la cancellazione della colpa collettiva del deicidio, che va nella direzione di togliere fondamento alle argomentazioni su cui era cresciuta la tradizione antigiudaica. Ma le formulazioni della dichiarazione sono assai più ampie dal punto di vista teologico, come rivela l’incipit del testo: “Scrutando il mistero della Chiesa, il sacro concilio ricorda il vincolo con cui il popolo del Nuovo testamento è spiritualmente legato alla stirpe di Abramo”. L’adozione di un punto di vista di questo genere rappresentava una forte rottura nella immagine tradizionale della Chiesa degli ebrei e del loro ruolo nell’economia della salvezza e apriva molte possibilità di cambiamento nella teologia cristiana dell’ebraismo, anche se non sgombrava completamente il campo, a favore dell’idea di un’irrevocabilità dell’elezione degli ebrei, dell’antica teologia della sostituzione, secondo cui la Chiesa aveva sostituito Israele nell’elezione. Ma il ruolo particolare riconosciuto all’ebraismo lasciava aperta la possibilità di parlare di una sola alleanza, di cui il cristianesimo avrebbe rappresentato non una rottura ma un approfondimento,

La questione su cui il dibattito iniziato con il Concilio ha portato a radicali cambiamenti è quella dell’antigiudaismo. La sua condanna è stata netta, ed altrettanto nettamente è stato riconosciuto il suo contributo a creare il clima di ostilità antiebraica che avrebbe consentito la Shoah. Una linea di autocritica e di richiesta di perdono che avrebbe trovato il suo compimento prima nella visita di Giovanni Paolo II nella Sinagoga romana nel 1986, che sarà seguita nel 2010 da quella del suo successore Benedetto XVI, e nel documento del 1998 Noi ricordiamo: una riflessione sulla Shoah, emanato dalla Commissione per i rapporti religiosi con l’ebraismo: “Il fatto che la Shoah abbia avuto luogo in Europa, cioè in paesi di lunga civilizzazione cristiana, pone la questione della relazione tra la persecuzione nazista e gli atteggiamenti dei cristiani, lungo i secoli, nei confronti degli ebrei”. Su questa profonda revisione attuata dal Concilio si sarebbe innestata una vasta e continuativa opera di catechesi, di propaganda e di dialogo. Un dialogo sentito, non privo di momenti difficili e di tensioni, ma vivo e tuttora in atto.

Fonti e Bibl. essenziale

G. Miccoli, Santa Sede, questione ebraica e antisemitismo, in C. Vivanti (ed.), Storia d’Italia, Annali 11,Gli ebrei in Italia, vol. II: Dall’emancipazione a oggi, Einaudi, Torino 1997; G. Miccoli, I dilemmi e i silenzi di Pio XII. Vaticano, Seconda guerra mondiale e Shoah, Rizzoli, Milano 2000; R. Taradel – B. Raggi, La segregazione amichevole. «La Civiltà Cattolica» e la questione ebraica 1850-1945, Roma 2000; A. Tornielli, Pio XII. Il Papa degli ebrei, Piemme, Milano, 2001; R. Moro, La Chiesa e lo sterminio degli ebrei, Il Mulino, Bologna.2002; N.J. Hofmann, J. Sievers, M. Mottolese (edd.), Chiesa ed ebraismo oggi. Percorsi fatti, questioni aperte, Università Gregoriana, Roma 2005; V. De Cesaris, Pro judaeis. Il filogiudaismo cattolico in Italia (1789-1938), Guerini e associati, Roma 2006; N. Lamdan – A. Melloni (edd.), Nostra Aetate: Origins, Promulgation, Impact on Jewish-Catholic Relations, Lit Verlag, Berlin 2007; A. Riccardi, L’inverno più lungo. 1943-1944:Pio XII, gli ebrei e i nazisti a Roma, Laterza, Bari-Roma 2008; A. Foa, Diaspora. Storia degli ebrei nel Novecento, Laterza, Bari-Roma 2009; A. Foa, Gemelli e l’antisemitismo, in M. Bocci (ed.), Agostino Gemelli e il suo tempo, Vita e Pensiero ed., Milano 2009; G.M. Vian (ed.), In difesa di Pio XII. Le ragioni della storia, Marsilio, Venezia, 2009; V. De Cesaris, Vaticano, fascismo e questione razziale, Guerini e associati, Roma 2010.


LEMMARIO




Ecclesiologia - vol. II


Autore: Pasquale Bua

Le sorti dell’ecclesiologia italiana dall’unità nazionale ai nostri giorni sono strettamente legate ai due principali eventi ecclesiali di questo lungo periodo: il concilio Vaticano I (1869-70) e il concilio Vaticano II (1962-65), certamente i due concili più “ecclesiologici” della storia della Chiesa. Sebbene oggetto di apposita trattazione in altri luoghi di questo Dizionario, essi rappresentano lo sfondo dottrinale imprescindibile per comprendere lo sviluppo della teologia della Chiesa nei 150 anni dell’Italia unita.

Come è noto, le sorti del Vaticano I e quelle del Belpaese sono intimamente intrecciate, giacché il concilio presieduto da Pio IX, dominato fin dall’inizio da un’aperta ostilità verso le mire risorgimentali sulla scorta del Syllabus emanato nel 1864, venne interrotto e posticipato sine die in seguito alla presa di Roma il 20 settembre 1870, allorché il Regno d’Italia veniva completato manu militari a spese del potere temporale del papa. A questo si aggiunga che nel 1873 il parlamento nazionale decretava la soppressione delle facoltà di teologia nelle università di stato, ufficializzando così l’esclusione del pensiero teologico dalla cultura italiana. Non senza ragione, nel 1897, Achille Ratti, futuro Pio XI, doveva riconoscere con amarezza: «Veri studiosi ed anche veri scienziati e di alto valore ce ne sono tra i cattolici italiani, ma una scienza cattolica italiana, ma un largo movimento cattolico, schiettamente e rigorosamente scientifico, fra noi non c’è». Da quel momento in poi, la teologia italiana dipese in larga misura dagli orientamenti delle università pontificie, visto che da queste proveniva la maggior parte dei docenti dei seminari, contentandosi al più di seguire al rimorchio le intuizioni migliori delle correnti di pensiero transalpine.

La chiusura anzitempo del Vaticano I determinò pesantemente il destino dell’ecclesiologia postconciliare, e questo per due ragioni diverse, l’una di tipo dottrinale e l’altra di tipo contingente, che tuttavia si rivelavano in ultima analisi convergenti. Anzitutto, al momento della presa di Porta Pia lo schema De Ecclesia non era stato ancora approvato, ad eccezione del solo capitolo De Romano Pontifice che, isolato dal suo contesto originario ed ampliato con il dogma dell’infallibilità, era stato promulgato il 18 luglio 1870. D’ora in poi la costituzione dogmatica Pastor Aeternus sarebbe venuta a rappresentare, per forza di cose, la magna charta dell’ecclesiologia cattolica. In secondo luogo, la “questione romana” imponeva anche ai teologi nostrani di prendere posizione per difendere l’indipendenza, la libertà e la sovranità del papa, autoproclamatosi “prigioniero” tra le mura vaticane.

Non stupisce, con tali premesse, che l’ecclesiologia postconciliare finì per occuparsi quasi esclusivamente dell’autorità della Chiesa nella sua forma monarchica di governo sotto il successore di Pietro, sposando non di rado quella concezione ultramontanista dell’infallibilità pontificia che pure il concilio si era guardato bene dall’avallare. L’accentuazione papalista divenne tale che l’ecclesiologia non appariva in fondo che una «gerarcologia» (Y. Congar), dominata da una visione verticista e piramidale. Indicativo di questo clima è il Tractatus de Romano Pontifice cum prolegomeno de Ecclesia di Domenico Palmieri (1829-1909): già il titolo mostra che la dottrina della Chiesa è ridotta di fatto a una mera introduzione della trattazione apologetica del primato petrino. Inoltre, l’impostazione controversistica posttridentrina, esacerbata dal contrasto della Chiesa con il “mondo moderno”, impegnava i teologi a dimostrare che la “vera Chiesa”, quella fondata da Cristo, è esclusivamente la Chiesa cattolica romana, e questo attraverso le notae utilizzate in chiave apologetica: una, santa, cattolica, apostolica.

Nondimeno, nel periodo dopo l’unità nazionale, mentre l’ecclesiologia procedeva a consolidare gli elementi acquisiti dal Vaticano I, si aprivano lentamente nuove piste. Il merito è soprattutto della Scuola Romana, denominazione con cui si intende un gruppo di teologi gesuiti docenti al Collegio Romano (l’attuale Pontificia Università Gregoriana). Ne è considerato fondatore Giovanni Perrone (1794-1876), mentre tra i suoi esponenti si segnalano Carlo Passaglia (1812-1887), che nel 1859 abbandonò però l’abito schierandosi a favore del Risorgimento e divenendo deputato del parlamento italiano, Clemens Schrader (1820-1875), attivo al Vaticano I, e Johann Baptist Franzelin (1816-1886), creato cardinale nel 1876 da Pio IX. Recependo le idee innovatrici della Scuola di Tubinga (in particolare J.A. Möhler e J.S. Drey), ma pure le intuizioni di J.H. Newman, la Scuola Romana rappresentava un indirizzo teologico per certi versi alternativo a quello tomista, che nella Compagnia di Gesù era sostenuto soprattutto da Luigi Taparelli D’Azeglio (1793-1862) e dagli scrittori de La Civiltà Cattolica. Diversamente dai colleghi più rigidamente ancorati ad un impianto scolastico di impostazione apologetica, come il già citato Palmieri e Camillo Mazzella (1833-1900), i rappresentanti più illuminati di tale corrente elaborarono la nozione di Chiesa “corpo mistico di Cristo”, nel tentativo di temperare un’ecclesiologia spiccatamente societaria, giuridica ed apologetica con un linguaggio più vicino alle fonti bibliche (in primis Paolo) e patristiche (soprattutto greche). Questa dottrina voleva sottolineare la continuità tra la Chiesa e Cristo: questi è il fondatore e il capo della Chiesa e si comunica incessantemente ad essa mediante lo Spirito Santo, che agisce nei sacramenti e nel ministero gerarchico (in specie in quello petrino), facendo della Chiesa il prolungamento stesso dell’incarnazione, appunto il “corpo di Cristo”. L’idea fu respinta in concilio, perché ritenuta troppo astratta ed ambigua, ma in seguito riuscì a farsi strada nel magistero di Leone XIII (Satis Cognitum, Post diem, Arcanum divinae Sapientiae, Provida Mater) e di San Pio X (Ad diem illud laetissimum, Il fermo proposito, Vehementer nos).

Dal 1880 l’indirizzo della Scuola Romana subì tuttavia una battuta di arresto. Una prima ragione fu la pubblicazione nel 1879 dell’enciclica Aeterni Patris da parte di Leone XIII, che, mirando a restaurare l’unità del pensiero cristiano intorno alla philosophia perennis di Tommaso d’Aquino, diede nuova linfa all’ecclesiologia neotomista di impostazione apologetica, astorica e filosofica. Se Passaglia criticò aspramente il documento, gli altri teologi preferirono sottomettersi alla volontà papale, venendo non di rado sostituiti a Roma con altri di impostazione più conservatrice. Una seconda ragione del rigurgito tradizionalista fu la crisi modernista, denunciata già da Leone XIII sul finire del secolo e in seguito strenuamente combattuta da Pio X, come dimostrano il decreto Lamentabili e l’enciclica Pascendi, entrambi del 1907. Il modernismo italiano, sebbene influenzato dal più vivace ambiente culturale franco-tedesco e condizionato come in nessun altro Paese dall’ingerenza di Roma, si rivelò a suo modo originale: lo dimostrano soprattutto la “democrazia cristiana” di Romolo Murri (1870-1944) e il “socialismo cristiano” di Ernesto Buonaiuti (1881-1946). Se il primo auspica l’autonomia del laicato cattolico in ambito politico e la ricomposizione dei rapporti tra Stato e Chiesa, il secondo si occupa della Chiesa da un punto di vista storico e dogmatico. Sulla scia di A. von Harnack e di A. Loisy, ma anche di Gioacchino da Fiore, Buonaiuti ritiene che l’“essenza” del cristianesimo, così come l’hanno pensato e vissuto Cristo e la Chiesa primitiva, non coincida affatto con la concezione cattolica dell’istituzione ecclesiastica: il cristianesimo altro non sarebbe che un messaggio etico innervato da una tensione escatologica, giacché il mondo – e la Chiesa al suo interno – sono provvisori e destinati a trascendersi nel Regno di Dio.

All’inizio del Novecento l’ecclesiologo più influente a Roma è Louis Billot (1846-1931): senza negare la realtà interiore della Chiesa, il suo De Ecclesia, edito nel 1903, predilige ancora gli aspetti societario e istituzionale. Malgrado la tradizione della Scuola Romana non sia cessata del tutto, trasferendosi nell’area della ricerca storica anche grazie all’apertura degli Archivi Vaticani, ha ragione Giuseppe Monti, che nel 1922 addita proprio nel trattato di ecclesiologia la parte più confusa dell’apologetica cattolica, e questo perché non si distingue adeguatamente tra ecclesiologia apologetica e dogmatica: se ambedue hanno la Chiesa come oggetto di riflessione, diversi sono però la finalità che perseguono e il metodo che adottano. Mentre la prima intende fornire la prova storica dell’istituzione della Chiesa da parte di Cristo, la seconda – quale coerente prosecuzione della prima – vuole approfondire la natura e la costituzione della Chiesa. Monti auspica per questo la nascita di un secondo distinto trattato De Ecclesia, da collocarsi nella dogmatica tra il De Verbo incarnato e il De Sacramentis.

È soprattutto dal 1920 che assistiamo ad un inaspettato «risveglio della Chiesa nelle anime» (R. Guardini). I fattori di rinnovamento provengono d’Oltralpe, ma sono presto “importati” anche in Italia: tra di essi il protagonismo del laicato (decisivo, durante il pontificato di Pio XI, l’impulso dato all’Azione Cattolica); il rinnovamento degli studi biblici e patristici; il movimento liturgico, che ha nelle abbazie mitteleuropee il suo centro propulsore, sviluppandosi poi anche in Italia (E. Caronti, S. Marsili, L. Andrianopoli, C. Vagaggini); senza tralasciare una certa “distensione degli animi” in seguito alla pacificazione tra Chiesa e Stato italiano sancita dai Patti Lateranensi.

Attorno agli anni Trenta, nell’ambiente della FUCI e dei Laureati Cattolici, sotto la guida di G.B. Montini (futuro Paolo VI), A. Bernareggi, E. Guano e G. Siri (quest’ultimo comunque ancora legato all’impianto scolastico), matura la scelta di approfondire l’intelligenza della Chiesa da un punto di vista strettamente teologico. L’intento di ancorare l’ecclesiologia alla cristologia, giacché la Chiesa è il corpo, il prolungamento e la “pienezza” di Cristo, è il segnale evidente dell’influsso della Scuola Romana. In questa direzione si muovono pure i contributi di G. Ceriani, A. Vitti e G. Bozzetti, anch’essi indirizzati al laicato “colto”. Destinati ai seminari e alle facoltà teologiche sono invece i trattati di F. Chiesa, che offre qualche apertura interessante verso una comprensione teologica della Chiesa, e di A.M. Vellico, ancora del tutto dipendente dallo schema apologetico.

Tra i fautori del risveglio ecclesiologico italiano spiccano comunque, ancora una volta, i teologi romani, tra i quali soprattutto Sebastian Tromp (1889-1975). Proprio costui avrà un ruolo di primo piano nella stesura della Mystici Corporis, promulgata nel 1943, l’enciclica che rappresenta il coronamento del rinnovamento ecclesiologico promosso dalla Scuola Romana e l’anello di congiunzione tra le visioni ecclesiologiche del Vaticano I e del Vaticano II. Con l’immagine del corpo mistico, Pio XII intende elaborare un’ecclesiologia cristocentrica (Cristo è il capo del corpo) e pneumatica (lo Spirito ne è invece l’anima), affermando la natura “teandrica” della Chiesa nell’unità indissolubile delle componenti visibile (umana e societaria) e invisibile (divina e misterica). Resta chiaro, in ogni caso, che il corpo mistico si identifica sic et simpliciter con la Chiesa cattolica romana, ad esclusione delle altre confessioni cristiane.

La Mystici Corporis suscita un nuovo fervore nella ricerca ecclesiologica italiana. Oltre ad una rivisitazione di argomenti “classici” alla luce della dottrina del corpo mistico, come la tradizione, la successione apostolica, l’infallibilità, l’appartenenza alla Chiesa, emergono temi fino a quel momento trascurati, come il rapporto Chiesa-sacramenti e quello Chiesa-Trinità, le immagini bibliche della Chiesa (tra cui il “popolo di Dio”), il laicato e il sacerdozio comune dei fedeli, l’ecclesiologia delle altre confessioni cristiane, la relazione tra Chiesa e storia e tra Chiesa e Maria. In questo periodo «si avverte sempre più diffusamente e urgentemente la necessità di parlare della Chiesa lasciando cadere il “complesso della difensiva”, su cui l’ecclesiologia si è troppo attardata, e presentando, invece, una visione della Chiesa completa e armonica, capace cioè di mettere nel giusto rilievo i suoi aspetti teologici, specie la dimensione misterica e soprannaturale» (L. Danese, L’ecclesiologia italiana, 67). Tra gli autori più significativi si segnalano A. Piolanti, L. Scipioni, S. Cipriani, F.S. Calcagno, C. Baisi, A. Beni, U. Lattanzi, P. Parente, F. Bruno. Costoro ripensano l’ecclesiologia come disciplina bipartita tra parte apologetica e parte dogmatica, raggiungendo però risultati diversi: Calcagno, Baisi e Beni faticano ancora a trovare il giusto equilibrio, limitandosi a recepire i nuovi apporti sotto forma di appendice ad un trattato rimasto fedele all’impianto tradizionale; Lattanzi e soprattutto Parente (ma pure Siri) raccordano in modo più convincente l’ambito dogmatico con quello apologetico; Bruno (e già Guano) superano ormai lo schema societario in favore di un approccio più teologico.

L’altro tornante cruciale per lo sviluppo dell’ecclesiologia italiana è il Vaticano II, «un concilio della Chiesa sulla Chiesa» (K. Rahner). Scopertasi meno “attrezzata” teologicamente rispetto alle vicine nazioni del Centro-Europa, l’Italia che esce dal concilio prova ad acquisire una specifica identità teologica, sganciandosi da una dipendenza servile nei riguardi delle università pontificie e promuovendo occasioni di confronto tra specialisti. Si può ben dire che «il Vaticano II rappresenta un vero “spartiacque” sia per la teologia come per l’ecclesiologia italiana»: infatti, «senza una tradizione di scuola, che non fosse quella manualistica, e povera di strumenti positivi e speculativi per poter avviare una riflessione ecclesiologica veramente nuova, la teologia italiana, soprattutto negli anni immediatamente seguenti il concilio, rimane come “incantata” dalla ricchezza della proposta conciliare, trovando facile “rifugio” nel linguaggio e negli schemi della Lumen gentium e impegnandosi in un suo processo di assimilazione» (ibid., 171).

Tra gli interpreti del Vaticano II spiccano gli studiosi legati all’Istituto per le scienze religiose di Bologna fondato da G. Dossetti (G. Alberigo, G. Ruggieri, A. Melloni). Per costoro occorrerebbe distinguere tra “evento” e “pronunciamenti” conciliari, giacché lo “spirito” del concilio andrebbe cercato ben oltre la “lettera” dei documenti, in quei fermenti di rinnovamento non accolti nei testi ufficiali per ottenere il consenso della minoranza conservatrice, ma tali da determinare una vera e propria “rottura” rispetto alla precedente autocoscienza ecclesiale. Anche Antonio Acerbi (1935-2004) rintraccia in Lumen gentium due teologie confliggenti, una innovativa centrata sul concetto di comunione e una tradizionale di impostazione giuridica: il documento non sarebbe che il frutto del delicato compromesso, non sempre perfettamente riuscito, tra orientamenti discordanti. A tali ricostruzioni storiografiche sono state mosse varie critiche, soprattutto in ambienti vicini alla Curia Romana (in particolare A. Marchetto), che difendono la sostanziale coincidenza dello “spirito” e della “lettera” del concilio e si impegnano in una “ermeneutica della continuità”, volta a dimostrare la sostanziale coerenza del Vaticano II con l’ecclesiologia precedente.

È comunque a partire dagli anni Settanta che l’ecclesiologia italiana, dapprima interessata ad esplorare la prospettiva conciliare, imbocca piste di più ampio respiro. L’ecclesiologia del postconcilio appare del tutto differente rispetto al periodo che l’ha preceduta: sfaldatasi l’unità del sapere teologico, prima costruita attorno all’apologetica manualistica, emergono molteplici indirizzi ecclesiologici, tra loro eterogenei, sebbene tutti accomunati dallo sforzo di “tradurre in italiano” il concilio. L’ecclesiologia finisce a tal punto per catalizzare gli sforzi degli studiosi, da giustificare anche in Italia il giudizio di un certo «panecclesiologismo postconciliare» (A. Antón).

Le successive revisioni dei trattati di Beni e Parente, come pure la proposta sistematica di B. Gherardini, recepiscono certamente l’ecclesiologia misterico-sacramentale di Lumen gentium, ma continuano a dare della Chiesa una visione piuttosto statica e ad accentuarne l’aspetto istituzionale. I saggi veramente “nuovi” nascono a partire dagli anni Ottanta, periodo nel quale si opera anche una riflessione sul metodo dell’ecclesiologia (G. Colombo, L. Sartori, T. Citrini, S. Dianich, V. Mondello, B. Forte). Prima con il tema della comunione e poi con quello della missione, i teologi nostrani dimostrano di recepire creativamente la distinzione conciliare fra Ecclesia ad intra ed Ecclesia ad extra. Inoltre, se negli anni Settanta suscitano un certo interesse la categoria di popolo di Dio e il tema della Chiesa locale, negli anni Ottanta, sotto lo stimolo degli orientamenti pastorali della CEI, si fa strada un tema “inconsueto”: quello della Chiesa-carità.

Nell’impossibilità di rendere conto della varietà delle proposte ecclesiologiche affiorate nell’ultimo quarantennio, segnaliamo tre contributi che, senza pretesa di esaustività, appaiono nondimeno esemplificativi del rinnovamento postconciliare dell’ecclesiologia italiana. La scelta tiene conto anche della distribuzione geografica e della progressione cronologica: il padovano Luigi Sartori (1924-2007) per l’Italia Settentrionale, il pisano Severino Dianich (1934) per il Centro, il napoletano Bruno Forte (1949) per il Sud.

Sartori, facendosi interprete della vocazione ecumenica delle Venezie, delinea un modello ecclesiologico interessato alla ricomposizione dell’unità tra la Chiese, mettendosi in dialogo con le teologie dei “fratelli separati” ed affrontando il tema dell’appartenenza alla Chiesa. Perito al concilio per conto della CEI e presidente dell’Associazione Teologica Italiana, egli approfondisce in seno ad un’ecclesiologia trinitaria e cristocentrica l’istanza dialogica, l’ortoprassi come corollario pastorale della riflessione dogmatica, la comunione fondata sulla molteplicità dei ministeri e dei carismi.

Dianich, anch’egli eletto alla presidenza dell’ATI, è forse il più noto ecclesiologo italiano. La sua prospettiva, interessata ad elaborare un modello di “ecclesiogenesi”, è eminentemente kerygmatica: come dimostra il discorso di Pietro il giorno di pentecoste, a generare la Chiesa quale comunità dei credenti è l’evento dell’annuncio della Parola, nel quale si fondono la memoria dell’evento pasquale, il coinvolgimento gioioso del messaggero, l’invito ad una esperienza di comunione, l’attesa del Regno escatologico. È evidente, in questo quadro, la profonda accentuazione missionaria dell’ecclesiologia. La comunione intraecclesiale generata dall’Annuncio è immagine della comunione trinitaria, a cui i credenti si assimilano mediante l’ascolto, la prassi sacramentale, la fraternità e la testimonianza.

Forte, divenuto nel 2004 arcivescovo di Chieti-Vasto, è uno dei teologi nostrani più conosciuti ed apprezzati all’estero. Egli tratteggia un’ecclesiologia insieme eucaristica, comunionale e trinitaria: è l’Eucaristia a “fare la Chiesa”, stringendo i battezzati in comunione ad immagine della “famiglia trinitaria”. Si può così affermare che nella Chiesa la storia degli uomini “incrocia” il mistero stesso di Dio, per esserne redenta e venire condotta verso il compimento escatologico, la “patria trinitaria”.

«La Chiesa italiana, sia nella sua pastorale che nella sua teologia, è tutta tesa ad assumere il Vaticano II nelle proposte di metodo e di contenuto, in quanto, soprattutto, è lo stesso concilio che ha inteso porre al centro dei suoi interessi il tema della Chiesa e la prospettiva di aggiornamento pastorale. La domanda che ora ci nasce spontanea è la seguente: si può parlare di “via italiana” nella ricezione del concilio?» (L. Sartori, «Ecclesiologia…», 185). Nel tentativo di rispondere a questa domanda, si potrebbe in conclusione asserire che, nei principali contributi offerti dai teologi italiani al dibattito ecclesiologico dall’ultimo concilio ad oggi, emerge una “figura” di Chiesa costruita attorno a tre nuclei tematici: l’origine trinitaria (la Chiesa “sgorga” dalla Trinità), l’identità comunionale (che rende la Chiesa “icona” della Trinità), la tensione missionaria (che reclama una Chiesa “estroversa”, protesa ad accogliere il dinamismo della storia e le sfide del mondo contemporaneo). In tal modo, malgrado l’ecclesiologia italiana non si sia forse ancora pienamente affrancata da una certa subalternità nei riguardi delle ponderose elaborazioni teologiche d’Oltralpe, può dirsi realizzata anche per il nostro Paese la “profezia” del vescovo luterano Otto Dibelius, che nel 1926 additò il Novecento come il «secolo della Chiesa».

Fonti e Bibl. essenziale

A. Antón, «Lo sviluppo della dottrina sulla Chiesa nella teologia dal Vaticano I al Vaticano II», in Facoltà Teologica dell’Italia Settentrionale, L’ecclesiologia dal Vaticano I al Vaticano II, La Scuola, Brescia 1973, 27-86; T. Citrini, «Questioni di metodo dell’ecclesiologia postconciliare», in Associazione Teologica Italiana, L’ecclesiologia contemporanea, EMP, Padova 1994, 15-41; L. Danese, L’ecclesiologia italiana. Dalla Costituzione Apostolica “Deus Scientiarum Dominus” (1931) alla Costituzione Apostolica “Sapientia Christiana” (1979), Gregoriana, Padova 1995; R. Fisichella (ed.), Storia della teologia, III, EDB, Bologna 1996; A. Marranzini, «La teologia italiana dal Vaticano I al Vaticano II», in R. Vander Gucht – H. Vorgrimler (eds.), Bilancio della teologia del XX secolo, II, Città Nuova, Roma 1972, 95-112; B. Mondin, Le nuove ecclesiologie, Paoline, Roma 1980; Id., Storia della teologia, IV, ESD, Bologna 1997; S. Panizzolo, Coscienza di Chiesa nella teologia e nella prassi. Indirizzi ecclesiologici nei documenti della CEI dal 1965 al 1980, EDB, Bologna 1989; L. Sartori, «La riflessione ecclesiologica», in Per una pastorale che si rinnova, Elledici, Leumann 1981, 41-63; Id., «Ecclesiologia ed esigenze pastorali in Italia», in ATI, L’ecclesiologia contemporanea, cit., 179-212; S. Segoloni Ruta, Tradurre il concilio in italiano. L’Associazione Teologica Italiana soggetto di recezione del Vaticano II, Glossa, Milano 2013; G. Ziviani – V. Maraldi, «Ecclesiologia», in G. Canobbio – P. Coda (eds.), La teologia del XX secolo. Un bilancio, II, Città Nuova, Roma 2003, 287-410; P. Bua, «Il rinnovamento dell’ecclesiologia dal Vaticano I al Vaticano II», Path 13 (2014) 1, 83-106.


LEMMARIO




Ecumenismo - vol. II


Autore: Stefano Cavallotto

Nel 1895 sorge in Svezia la Federazione Mondiale degli Studenti Cristiani, con una visione ecumenica originale e capace di attrarre l’adesione di molte chiese evangeliche; essa tende a valorizzare le singole confessioni, offrendo a tutte l’occasione di partecipare agli altri i propri doni. Occorre ricordare ancora i movimenti americani e inglesi del cristianesimo sociale (Social Gospel), impegnati a rispondere in nome della fedeltà a Cristo alle problematiche della società (miseria e guerra), acuite dall’industrializzazione capitalistica, e le varie federazioni o alleanze tra chiese della medesima tradizione (luterani, riformati, metodisti, battisti, ecc.) volte a rafforzare la propria identità. In questa prospettiva si muove fin dal 1867 l’iniziativa delle «conferenze di Lambeth», a cui ogni dieci anni partecipano vescovi anglicani di tutto il mondo con a capo l’arcivescovo di Canterbury. Ma sono soprattutto le società missionarie protestanti a dare l’impulso determinante al movimento ecumenico organizzato. Alla Conferenza missionaria mondiale di Edimburgo del 1910 diventa consapevolezza comune tra gli evangelici che l’annuncio di Cristo “alle genti” per essere credibile non può prescindere dal superamento delle divisioni tra cristiani e che quindi occorre istituzionalizzare la «promozione dell’unità» sia attraverso confronti chiarificatori sulle controversie dottrinali sia elaborando risposte comuni in ordine alla prassi ai problemi dell’umanità. Due esigenze che si concretizzano nei movimenti «Vita e Azione» (Life and Work) (Ginevra 1920) e «Fede e Costituzione» (Faith and Order) (Losanna 1927), entrati a far parte nel 1948 nel Consiglio Ecumenico delle Chiese. E’ questo un organismo nuovo nella storia cristiana, che nella sua prima assemblea ad Amsterdam (1948) si definisce un’associazione fraterna di chiese, tutte con pari dignità e ciascuna con la propria identità, unite sull’unico comune fondamento, che è il Signore, col compito spirituale di favorire il dialogo e la conoscenza reciproca; un organismo, protagonista fondamentale dell’attuale cammino ecumenico, a cui le chiese evangeliche italiane (in particolare valdesi e metodiste) aderiscono ben presto, mentre la chiesa cattolica partecipa a tutt’oggi solo come “osservatrice”, anche se è membro a pieno titolo della commissione «Fede e Costituzione».

L’ecumenismo del cattolicesimo romano, infatti, parte da presupposti diversi ed ha una storia propria, nella quale è possibile individuare nel concilio Vaticano II (1962-1965), voluto e aperto da Giovanni XXIII (†1963) e guidato da Paolo VI (†1978), uno spartiacque: se prima di tale evento prevale la visione espressa nell’“unionismo” o nell’ecumenismo del «ritorno» con giudizi fortemente negativi sui «dissidenti» e le loro iniziative ecumeniche, con il decreto Unitatis Redintegratio (giunto all’approvazione conciliare nel 1964 per l’opera del Card. Agostino Bea [†1968], Presidente dell’allora Segretariato per la promozione dell’Unità dei cristiani) la chiesa cattolica dichiara di entrare a fianco delle altre comunità cristiane nell’unico cammino ecumenico, riconosciuto come frutto dello Spirito; una posizione, questa, di fatto confermata, seppure con alti e bassi, nel magistero papale post-conciliare e riproposta con vigore nell’enciclica Ut unum sint del 1995 di Giovanni Paolo II (†2005). Nell’Italia post-unitaria a maggioranza cattolica una visione diversa rispetto al pre-conciliare ecumenismo del «ritorno e della sottomissione a Roma» era stata anticipata non soltanto da alcuni protagonisti del modernismo, come lo scrittore Antonio Fogazzaro (†1911), ma anche in molti ambienti del rinnovamento biblico, liturgico, patristico e teologico. Il vescovo di Cremona, Geremia Bonomelli (†1914) e don Mazzolari (†1959) sono figure pionieristiche di quell’atteggiamento di apertura verso i non cattolici che caratterizzerà il cattolicesimo post-conciliare, così come la trappista Maria Gabriella Sagheddu (†1939) e sorella Maria a Campello sul Clitumno (†1961) con la sua comunità danno vita al non meno necessario «ecumenismo spirituale» che sosterrà i successivi passi intrapresi dalle chiese verso l’unità. In effetti la svolta ecumenica del Vaticano II anche in Italia a partire dagli anni Sessanta del ‘900 mette in moto soprattutto a livello di base, ma anche sul piano istituzionale, tutta una serie di organismi e di iniziative che sorreggono l’attuale dialogo fra i cristiani. Un dialogo certo che vive stagioni diverse, ma che comunque nella coscienza delle chiese diventa sempre più elemento irrinunciabile della propria fedeltà al Signore.

La Conferenza Episcopale Italiana istituisce nei primi anni del dopo-concilio una Commissione episcopale per l’ecumenismo e il dialogo con un Ufficio nazionale specifico col compito di incoraggiare la preghiera (come quella di gennaio: Settimana di preghiera per l’unità del cristiani) e di guidare l’impegno delle comunità locali e la loro maturazione in ordine all’unità dei cristiani e tal fine organizza incontri di formazione ecumenica (ricordiamo quelli del 1979: Problemi e prospettive dell’ecumenismo nelle Chiese locali e nelle comunioni regionali di Chiese d’Italia, del 2001:La ripresa del dialogo ecumenico in Italia dopo il giubileo del 2000, alla luce della Novo Millennio ineunte e della Charta Oecumenica, del 2008: In unitate Spiritus e convegni interconfessionali nazionali (ad esempio sul Padre Nostro [1999], sulle Beatitudini [2003], sulla Charta ecumenica [2006]). Sempre all’istituzione cattolica si possono collegare alcuni organismi di grande rilievo come l’«Istituto di Studi Ecumenici S. Bernardino» di Venezia, nato dall’esperienza dei vari corsi di ecumenismo avviati a partire dal 1975 presso lo Studio teologico dei Frati minori “S. Bernardino” in Verona e divenuto una sezione della Facoltà teologica del Pontificio Ateneo “Antonianum” di Roma; e ancora, il «Centro per l’Ecumenismo in Italia» con sede a Venezia, fondato nel 2008 allo scopo di promuovere la raccolta, la conservazione e lo studio della memoria storica dell’ecumenismo in Italia, sostenendo progetti di ricerca storico-teologica così da favorire la ricostruzione di figure, eventi e momenti di tale cammino. Occorre ricordare pure il «Centro di Documentazione del Movimento Ecumenico in Italia», sorto a Livorno nel 2000 per iniziativa di mons. Alberto Abbondi (†2010) e dall’idea di altri convinti sostenitori dell’ecumenismo come i vescovi Pietro Giachetti (†2006), Clemente Riva (†1999), Vincenzo Savio (†2004), con la finalità di mantenere viva la dimensione ecumenica della chiesa livornese e promuovere su scala nazionale il dialogo interconfessionale.

Ma è soprattutto a livello di base che il Vaticano II libera le forze ecumeniche più vivaci e produce i frutti più promettenti nel cammino verso l’unità. Ne è testimonianza rimarchevole il «Segretariato Attività Ecumeniche»: un’ «Associazione interconfessionale di laici impegnati per l’ecumenismo e il dialogo a partire dal dialogo ebraico-cristiano», articolata per gruppi locali, che ogni anno programma una Sessione di formazione ecumenica aperta a tutti e i cui atti sono regolarmente pubblicati. Sorge a Venezia nel 1947 per iniziativa di Maria Vingiani, che ne diventerà bene presto la presidente e l’animatrice instancabile, e nel 1959 all’annuncio del Concilio si trasferisce a Roma sotto l’alto patrocinio ed incoraggiamento di papa Giovanni. Laici cattolici, evangelici, ortodossi ed ebrei costituiscono i membri effettivi dell’associazione, mentre preti, pastori e religiosi vi aderiscono come amici; c’è poi un comitato permanente di esperti biblisti e teologi di varie confessioni cristiane che l’affianca nell’attività di formazione e nella ricerca teologica. Tra le tante figure rappresentative e benemerite dell’impegno ecumenico del Segretariato ci limitiamo a ricordare tra gli evangelici: i pastori valdesi Renzo Bertalot, Giorgio Giradet (†2011) e Paolo Ricca e tra i cattolici: don Carlo Molari, don Germano Pattaro (†1999), mons. Luigi Sartori (†2007) e don Giovanni Cereti.

Fonti e Bibl. essenziale

R. Rouse – S.C. Neill (edd.), A History of the Ecumenical Movement, London 1967 [ed. it.: Storia del movimento ecumenico dal 1517 al 1948, vol. I: Dalla Riforma agli inizi dell’Ottocento, Bologna 1973; vol. II: Dagli inizi dell’Ottocento alla conferenza di Edimburgo, Bologna 1973; vol. III: Dalla Conferenza di Edimburgo (1910) all’Assemblea Ecumenica di Amsterdam (1948), Bologna 1982; vol. IV (ed. H. E. Fey): L’avanzata ecumenica (1948-1968), Bologna 1982]; G. Cereti, L’ecumenismo cristiano, in G. Filoramo – D. Menozzi (a cura di), Storia del Cristianesimo, vol. IV: L’età contemporanea, Laterza, Roma 1997, 353-396 (con bibl.); P. Ricca, Il movimento ecumenico, in G. Filoramo (a cura di), Cristianesimo, Laterza, Roma 1995, 563-561 (con bibl.); W.A. Visser’t Hooft, The Genesis and formation of the World Council of Churches, Geneva 1982; W.  Kasper, L’ecumenismo spirituale. Linee-guida per la sua attuazione, Città Nuova, Roma 2006; J. Ernesti, Breve storia dell’Ecumenismo. Dal Cristianesimo diviso alle chiese in dialogo, EDB, Bologna 2010; R. Burigana, Una straordinaria avventura – Storia del movimento ecumenico in Italia (1910-2010), Bologna 2013; L’ortodossia in Italia: le sfide di un incontro, a cura di G. Battaglia, Bologna 2011; F.T. Rossi, Manuale di ecumenismo, Brescia 2012.


LEMMARIO




Editoria - vol. II


Autore: Fulvio De Giorgi

L’unificazione nazionale, coronamento del Risorgimento nazionale, segnò pure l’avvio di quello che qualcuno definì un “risorgimento tipografico e librario”. Il libro popolare, ad alte tirature, in brossura, di piccolo formato e a basso costo, diffuso anche attraverso canali diversi dalle tradizionali librerie, divenne il fine imprenditoriale di editori come Sonzogno o Trevisini a Milano (o come Perino a Roma e Chiurazzo a Napoli), che tra l’altro ripresero dagli editori d’inizio secolo l’idea della Collezione, così che il lettore popolare fosse in qualche modo ‘fidelizzato’ e portato perciò ad acquistare gli altri volumetti messi sul mercato dallo stesso editore. È vero però pure che, talvolta, i libri “a un soldo” nascevano da piccole e precarie tipografie, incapaci di lanciarsi su produzioni di qualità più elevata: erano dunque una necessità più che una scelta strategica editoriale.

Lo scontro ideologico dell’Italia laica con l’Italia clericale portava ad impegnarsi maggiormente, da una parte e dall’altra, per contendersi l’egemonia sulla cultura popolare italiana. Per i cattolici l’impegno nel campo di tale editoria per il popolo era spesso sentito come una necessità “di difesa”, rispetto al laicismo massonico prima e al socialismo anticlericale poi.

Dopo l’Unità e in particolare dopo la presa di Roma nel 1870, un centro importante per l’editoria cattolica fu la Bologna di Acquaderni e della Società della Gioventù Cattolica italiana, con le sue iniziative. Interessante era pure la realtà di Napoli, dove nel 1868 lo stampatore Ferrante pubblicava una “Collana di buoni libri su varii argomenti di pietà e dottrine cattoliche” e, trent’anni dopo, nel 1897 Andrea e Salvatore Festa stampavano “Letture cattoliche popolari gratuite”. Ma il caso editoriale partenopeo più significativo era la collana “Letture cattoliche di Napoli”, che – tra il 1862 e il 1865 – pubblicò numerosi volumetti dalle trenta alle cinquanta pagine.

La caduta dello Stato pontificio portò ad un più forte e diffuso impegno dei cattolici sul piano della propaganda popolare e del giornalismo e dunque alla vera e propria nascita di una stampa cattolica più modernamente organizzata e più largamente diffusa. Se dal 1860 al 1874 la stampa periodica cattolica era passata da 7 a 18 testate, nel 1884 vi erano già 159 giornali cattolici, divenuti 271 nel 1893. Occorre poi ricordare il gran numero di bollettini, numeri unici e opuscoli, collegati alle nuove associazioni devozionali, che strutturarono in modo nuovo la sociabilità cattolica negli ultimi decenni dell’Ottocento: dall’Apostolato della Preghiera alle Figlie di Maria alle tante altre forme associative.

In quegli stessi anni, procedevano e si acceleravano le trasformazioni della cultura e delle letture della borghesia italiana, in sintonia con le borghesie europee. Il romanzo di consumo, alla moda (spesso in traduzione dal francese), era fenomeno della media e piccola borghesia. A partire dagli anni ’70, la letteratura popolare dunque – in particolare le “letture amene” – ebbe un notevole progresso. Anche gli stampatori cattolici cercarono di seguire queste trasformazioni, sollecitati probabilmente dagli stessi ambienti sociali a cui facevano riferimento e seguendo, talvolta, il modello inaugurato con successo, come si è visto, da Don Bosco. Con l’esperienza salesiana si entrava anche sia nel mercato del libro scolastico (con posizioni che si direbbero monopolistiche: cioè nelle scuole salesiane e, più in generale, nelle scuole cattoliche) sia nell’esperienza del teatro educativo e della stampa di testi teatrali per le tante filodrammatiche popolari o giovanili cattoliche. È qui il caso di rimarcare l’ambito dell’editoria scolastica, anche perché il libro per la scuola ebbe pure, in qualche modo, la funzione di un libro per il popolo.

La cultura popolare era promossa dai salesiani ma anche da altre Congregazioni religiose otto-novecentesche, come i Giuseppini di Murialdo, gli Artigianelli di Piamarta e, in qualche misura, gli Artigianelli Pavoniani. Un rilievo tutto particolare ebbero poi le edizioni della “Civiltà Cattolica”, oltre naturalmente alla stessa rivista dei gesuiti italiani. Tra il 1861 e il 1870, tali edizioni crebbero molto in attività e impegno.

Tra Otto e Novecento. Con Leone XIII si abbandonò definitivamente quel sentimento ambivalente, se non ambiguo, verso la stampa che era stato presente fino a Pio IX: una preminente visione negativa per il giornalismo come veicolo di idee anticristiane, per la libertà di stampa che concedeva gli stessi diritti alla verità e all’errore, per la stampa stessa come fenomeno moderno potenzialmente corruttore del popolo. Ci si indirizzava ormai verso una considerazione attenta della grande influenza educatrice (o diseducatrice) che la stampa poteva svolgere, ma la si intendeva come uno strumento in sé neutro che poteva essere messo al servizio del bene o del male: dunque la competizione era aperta, l’impegno nel campo era un dovere, la latitanza o il disinteresse peccati gravi di omissione.

Negli ultimi decenni del secolo, dopo la presa di Roma e in conseguenza delle traversie subite dalla Compagnia di Gesù in Italia, le edizioni della “Civiltà Cattolica” subirono un vero e proprio tracollo. Furono stampati pochissimi titoli. Nel 1886, a Brescia, dalla fusione della piccola tipografia Bersi, che stampava “Il Cittadino di Brescia”, con la Libreria Queriniana, nasceva la Tipografia editrice Queriniana, assunta dal Pio Istituto dei poveri Artigianelli, fondato da Giovanni Piamarta. Nel 1897 la Queriniana diventava di esclusiva proprietà dell’Istituto.

Dal censimento effettuato, sotto l’egida dell’Opera dei Congressi, da Luigi Bottaro nel 1887, su istituzioni e stabilimenti relativi alla stampa cattolica in Italia, risultano oltre duecento giornali stampati e più di cento, tra editori, tipografi e librai. La distribuzione geografica mostrava una decisa prevalenza del Nord, con 65 realtà censite (nell’Italia centrale si censivano 25 presenze; nel Sud solo 18 e concentrate nel capoluogo partenopeo). Il censimento rivelava, indirettamente, alcuni aspetti che dovettero in effetti caratterizzare l’attività editoriale cattolica – a parte il caso dei Salesiani, ormai avviati verso una vera industria editoriale di massa – negli anni del passaggio dalle forme artigianali della stampa e dai circuiti locali del mercato allo sviluppo di realtà aziendali più solide, capaci anche di competere su un mercato nazionale. Una prima caratteristica stava nella preminenza delle città sulla campagna: l’ambiente urbano favoriva l’attività editoriale non tanto perché presentasse maggiori tassi di alfabetizzazione, quanto perché in esso si concentravano disponibilità economiche (problema di fondo e di lunga durata) e si realizzavano quelle nuove forme della sociabilità devota, alle quali già si è fatto cenno, tipiche del XIX secolo soprattutto tra quei ‘ceti di frontiera’ tra piccola e piccolissima borghesia e strati popolari più elevati.

Un’altra caratteristica era nel carattere disgregato e frammentato, cioè – più precisamente – locale, del variegato mondo di stamperie e tipografie, necessariamente dipendenti dalla committenza delle parrocchie e delle altre realtà istituzionali e aggregative delle Chiese locali, peraltro proprio per questo ben radicate nelle situazioni popolari e sensibili ai loro bisogni religiosi: un inizio di superamento di questa caratteristica (che era un punto di forza, ma che poteva pure costituire un limite) stava da una parte nell’apostolato di Congregazioni religiose, sempre più diffuse sul territorio nazionale e perciò in grado di organizzare una rete sia di stampa che di distribuzione e, dall’altra, nei tentativi di coordinamento – per quanto deboli e tra molte difficoltà – messi in atto dall’Opera dei Congressi.

Tuttavia un’altra caratteristica, molto importante, stava in realtà proprio nel sistema di relazioni che, localmente, veniva comunque a crearsi tra stamperie e tipografie, librerie, associazioni per la buona stampa: venivano così a stabilirsi interessanti canali di sociabilità culturale e devota, limitrofi e variamente collegati alle comunità ecclesiali e alle case religiose e comunque confluenti nell’interesse verso il ‘libro’. Si può cioè affermare che il catalogo di uno stampatore-editore cattolico, almeno fino ai primi anni del Novecento, non sia ancora espressione di un progetto editoriale autonomo, elaborato in proprio, e non sia però neppure il risultato meccanico di una generica e casuale committenza per una mera prestazione tipografica: esso invece appare come l’espressione di quel sistema di relazioni, nel quale l’editore rappresentava il ‘nodo’ centrale di convergenza, in vista appunto della confezione del ‘libro religioso’ (o di altro servizio di stampa).

Peraltro, sul piano storico, non è immediatamente ovvio cosa fosse il ‘libro religioso’ e che valore avesse la stampa nel mondo cattolico. Peraltro dopo la Rerum Novarum di Leone XIII e fino ai primi anni del Novecento, lo sviluppo del movimento democratico cristiano, con la sua sensibilità sociale, portò ad un certo pugnace svecchiamento della pubblicistica cattolica. Ciò fu merito principalmente di Don Romolo Murri e della rivista “Cultura Sociale”, da lui promossa. Ma si ebbero varie iniziative: a Torino, per esempio, Giulio Speirani pubblicava una “Biblioteca popolare di propaganda sociale cattolica”. Il 2 agosto 1898 poi Murri diede vita alla “Unione editrice cattolica”. Successivamente, il 1 novembre 1901, le varie iniziative editoriali murriane trovarono un’organizzazione unitaria nazionale nella Società Italiana Cattolica di Cultura Editrice, promossa a Roma.

Un caso a sé era poi quello della “ La Civiltà Cattolica”, le cui vicende erano ovviamente condizionate, come già si è visto, dalla situazione della Compagnia di Gesù in Italia, ma anche all’estero (per esempio in Spagna). Dopo che nel 1894 furono pubblicati alcuni testi, le pubblicazioni gesuitiche ripartirono con una certa intensità solo nella seconda metà degli anni ’90. La vera ripresa, anche sul piano qualitativo, si ebbe ai primi del Novecento.

Del resto, in quegli anni, tra la fine dell’Ottocento e l’avvio del nuovo secolo, si modificavano, allargandosi significativamente e consolidandosi (ma con alterni livelli di vendite), la domanda e l’offerta nel mercato della carta stampata. I primi anni del Novecento segnarono, dunque, una soluzione di continuità. Ci fu, certamente, un cambiamento del clima intellettuale, spirituale e pastorale: di cui ben si avvide Bonomelli scrivendo a Piamarta. Il modernismo, prima, e la reazione antimodernista, poi, furono effettivamente una ‘svolta periodizzante’. Ma ci fu pure un nuovo e diverso articolarsi della nascente industria culturale, la necessità – via via sempre più evidente – di passare con decisione dalla dispersione di strutture delocalizzate, quasi frammentate, a più solide intraprese editoriali: sia per far fronte alle esigenze di un pubblico di alfabetizzati ormai vasto, sia per interne esigenze ecclesiali (che spingevano comunque verso forme di centralizzazione), sia anche per avere più forza in un mercato editoriale che vedeva ormai competitori nazionali di sempre maggiore capacità imprenditoriale.

Morfologia e caratteri degli editori cattolici del Novecento. Dai primi decenni del Novecento ad oggi si è dunque progressivamente sviluppato un complesso e articolato ‘sistema’ di editoria cattolica, che ha avuto un particolare impulso dopo il Concilio Vaticano II. Nel 2012 nell’UELCI (Unione Editori e Librai Cattolici Italiani) si riuniscono 48 editori e 105 librerie. Tale sistema ha una configurazione di ‘costellazione pentagonale’. Si possono cioè distinguere cinque gruppi di editori dalle caratteristiche diverse (e naturalmente con differente forza sul piano della produzione e della distribuzione): il gruppo congregazionale; il gruppo scolastico e culturale laico; il gruppo universitario; il gruppo associativo; il gruppo dei piccoli editori ‘carismatici’.

Il gruppo congregazionale è sia il più importante (sul piano quantitativo, per pubblicazioni e vendite) sia il più antico, nel senso che più si ricollega alla precedente storia dell’editoria cattolica. 13 dei 48 editori infatti si possono riportare a Congregazioni religiose. Rientrano in quest’ambito i Salesiani (SEI, LDC), con la loro forte tradizione, che, come si è visto, risale all’Ottocento. Vi rientra anche il mondo dei ‘Paolini’, cioè delle congregazioni religiose fondate da don Alberione con lo specifico carisma di impegno nel mondo delle comunicazioni sociali (Edizioni Paoline e San Paolo). Ma molto importanti sono anche: Ancora (Pavoniani); Queriniana (Piamartini); Dehoniane (Dehoniani); Messaggero (Francescani di Padova); Editrice Missionaria Italiana (sostenuta dalle Congregazioni missionarie: PIME, Comboniani, Saveriani, Consolata); Monti (Concezionisti). Questo gruppo è anche molto importante per la distribuzione, contando su diverse catene di librerie: la catena alberioniana (58 librerie Paoline e 15 San Paolo), la catena salesiana (13 librerie LDC), la catena pavoniana (6 librerie Ancora). La diffusione della cultura teologica in Italia, come traduzioni e come opere di teologi italiani, deve molto a questo gruppo di editori.

Meno forte sul piano quantitativo ma allo stesso livello di importanza storica nell’ambito delle vicende della cultura italiana contemporanea è il gruppo che si potrebbe definire ‘scolastico e culturale laico’. Si tratta di tre importanti editrici che nascono come iniziativa laicale e puntando all’autosufficienza economico-aziendale (senza appoggiarsi cioè su congregazioni religiose, associazioni, università): La Scuola (Brescia); Morcelliana (Brescia); Studium (Roma). Se la prima, sorta nel 1904 per opera di un gruppo di laici (vicini all’Opera dei Congressi, cioè all’organizzazione del laicato cattolico), si è impegnata prevalentemente in campo scolastico, nel quale costituisce ancor oggi (insieme alla SEI) la presenza cattolica più importante, la seconda – anch’essa bresciana – è stata fondata e guidata da Fausto e poi da Stefano Minelli, con l’importante contributo di p. Bevilacqua, Giovanni Battista Montini, Giuseppe De Luca, Mario Bendiscioli. Autonoma, ma vicina ai Laureati cattolici e, ancora, a Montini è la terza, giunta per ultima, negli anni del fascismo e per contenderne l’egemonia culturale. Vi è una notevole affinità – di sensibilità culturale, se non proprio di linea editoriale – tra queste tre editrici: una sintonia che, per quel che si è detto, potrebbe definirsi montiniana. Il contributo che questo gruppo ha portato alla presenza dei cattolici nella più generale cultura nazionale è stato decisivo: attraverso i libri scolastici, le traduzioni, i libri di alta cultura, le numerose riviste (di diverso tipo). Da gruppo di editori vicini esso è infine diventato un unico gruppo editoriale.

Con una particolare (ma non unica ed esaustiva) caratterizzazione di tipo scientifico-accademico è il terzo gruppo, che è venuto sviluppandosi nelle forme della ‘university press’. Esso cioè comprende gli editori interni alle università cattoliche italiane e ai pontifici atenei. Spicca per importanza storica l’editrice Vita e Pensiero, dell’Università Cattolica del S. Cuore. Ma si possono ricordare anche la Gregorian & Biblical Press, la Libreria Ateneo Salesiano, la Urbaniana University Press, l’editrice della Pontificia Università Antonianum e le altre case stampatrici delle pubblicazioni delle università pontificie: alcune di queste, peraltro, si ricollegano anch’esse a ordini o congregazioni religiose (e dunque hanno rapporti con il primo gruppo).

Vi sono poi editrici che o per particolari assetti societari e proprietari o per altre forme di collegamento storico si riferiscono ad associazioni ecclesiali: così l’A.V.E. per l’Azione Cattolica Italiana, Città Nuova per il Movimento dei Focolari, Jaca Book per Comunione e Liberazione, Cittadella per la Pro Civitate Christiana. Si può ancora aggiungere la vicinanza di Borla agli Scout. Ancorché non si tratti di un ambito di sociabilità ecclesiale può non essere inopportuno ricordare le Edizioni Lavoro per la CISL. In questo gruppo di editori, in ogni caso, siamo spesso davanti a progetti editoriali fortemente caratterizzati e che, tuttavia, non hanno il loro baricentro in se stessi, nel campo editoriale in quanto tale, ma al di fuori e cioè nella visione spirituale, culturale e pastorale delle Associazioni di riferimento: così che non se ne può tracciare la storia prescindendo dalla stessa storia associativa (come pure, in senso contrario, la ricostruzione storica del progetto culturale di tali Associazioni non può avvenire ignorandone la proiezione editoriale).

Il quinto ed ultimo gruppo di questa ‘costellazione pentagonale’ comprende una pleiade di piccole editrici di nicchia, in genere legate ad una personalità carismatica. Si potrebbero ricordare vari casi, ma ci si può limitare a La Locusta di Renzo Colla, alle Edizioni di Storia e Letteratura di don Giuseppe De Luca, a Qiqajon di Enzo Bianchi e della Comunità di Bose. Quasi sempre si tratta di edizioni esteticamente sobrie ma molto curate: siano piccoli libri o poderosi tomi eruditi. Si rivolgono a un pubblico molto particolare e selezionato, che ha già, in genere, un personale rapporto spirituale o culturale con la figura che promuove l’editrice. Naturalmente, questa natura personalistica porta di necessità a cambiamenti dopo la scomparsa del fondatore-animatore.

Un caso a sé è costituito dalle pubblicazioni edite nella Città del Vaticano e che pure possono avere un vasto mercato in Italia: si pensi, in particolare, alla Libreria Editrice Vaticana.

Secondo il sintetico rapporto del Primo Osservatorio sull’editoria libraria religiosa in Italia, promosso dall’UELCI, nel decennio dal 2000 al 2010 i lettori di un libro religioso sono cresciuti di 900.000 unità, con un incremento del 2% annuo fino al 2007 e, addirittura, del 6% dal 2007 al 2010. La crescita maggiore si è avuta nella fascia compresa fra i 18 e i 54 anni. Nel 2010 si sono pubblicati 5.612 libri religiosi da parte di 796 editori: 579 editori laici (72,7% del totale) hanno pubblicato il 18% dei titoli, mentre 196 editori cattolici (24,6%) ne hanno pubblicato il 79,2%. In ogni caso, si segnala la grande attenzione degli editori laici per il settore religioso.

Dal 2009 al 2010 c’è stato un aumento dei titoli, con una crescita delle aree di riflessione, divulgativa e di formazione/famiglia e, invece, con un decremento nei settori della varia e degli scolastici. L’ambito devozionale è ancora molto forte.

Fonti e Bibl. essenziale

Cultura, religione e editoria nell’Italia del primo Novecento, sezione monografica in “Annali di storia dell’educazione e delle istituzioni scolastiche”, (2009), 16; A. Gigli Marchetti – L. Finocchi, Stampa e piccola editoria tra le due guerre, Milano, Angeli, 1997; A. Melloni, L’editoria religiosa del secondo Novecento: progetti, libri, sogni, mode, in A. Melloni (a cura di), Cristiani d’Italia. Chiese, Stato e società 1861-2011, Roma, Istituto dell’Enciclopedia Italiana, 2011, 1439-1452; S. Pivato, Strumenti dell’egemonia cattolica, in S. Soldani-G. Turi (a cura di), Fare gli italiani. Scuola e cultura contemporanea, II. Una società di massa, Bologna, Il Mulino, 1993, 361-383; F. Targhetta, Serenant et Illuminant. I cento anni della sei, Torino, Sei, 2008; A. Vittoria, L’editoria cattolica dall’Unità alla fine del fascismo, in A. Melloni (a cura di), Cristiani d’Italia. Chiese, Stato e società 1861-2011, Roma, Istituto dell’Enciclopedia Italiana, 2011, 1265-1279.


LEMMARIO




Educazione - vol. II


Autore: Rachele Lanfranchi

Le Scuole nuove come movimento di riforma pedagogica. Nell’ultimo decennio dell’Ottocento e nella prima metà del Novecento si avverte una crescente attenzione all’educazione e alla scuola: c’è una vera fioritura di proposte e di esperienze. Si è potuto parlare, al riguardo, di un «movimento di riforma pedagogica». Pedagogisti ed educatori, grazie alla conoscenza di autori come Comenio, Locke, Rousseau, Pestalozzi, Herbart, muovono una critica severa, spesso polemica e un po’ ingenua, alla cosiddetta “scuola tradizionale”, vista come scuola dello sforzo, del castigo, come scuola passiva, adultistica, centrata sul programma, lontana dalla vita reale. Una critica, che non rimane sterile perché è accompagnata da una proposta: porre in atto una “Scuola nuova” per cui si hanno esperienze di “Scuole nuove” in Europa e in tutto il mondo.

In Italia le sorelle Agazzi – Rosa (1866-1951) e Carolina (1870-1945) – criticano gli asili aportiani e fröbeliani basandosi sull’esperienza compiuta nell’asilo di Mompiano (BS). Per loro è fondamentale l’attenzione ai bisogni e alla situazione concreta del bambino. Finalità della scuola materna è l’educazione armonica di tutto il bambino nelle sue varie componenti: fisica, intellettiva, morale, sociale, religiosa. Il bambino è inteso come essere attivo, come «germe vitale che aspira al suo completo sviluppo». Il germe, per svilupparsi, necessita di un ambiente adatto e l’ambiente adatto al bambino è quello della casa, dove ci si muove, si lavora, si prendono i pasti, ci si aiuta e ci si vuole bene. La scuola del bambino, quindi, deve essere «scuola materna» dove il bambino è aiutato a osservare la vita e la realtà partendo dagli esercizi di vita pratica: soffiarsi il naso, lavarsi i denti, salire e scendere le scale, rimboccarsi le maniche, apparecchiare la tavola, sfogliare un libro, vestirsi, attenzione al bambino piccolo da parte del più grande. In tal modo gli esercizi di vita pratica diventano lavoro, in cui si sa quello che si fa e si ha il passaggio dalla spontaneità alla consapevolezza, dal gioco al lavoro, dalla vita libera all’ordine. Le intuizioni e le istanze più valide delle Agazzi – il senso del bambino e della sua spontaneità e capacità inventiva, la cura dell’ambiente, la semplicità dei mezzi e dei materiali didattici – sono accolte nelle Istruzioni e programmi per gli asili e i giardini d’infanzia, promulgati nel 1914 da Credaro, ministro della Pubblica Istruzione, come pure negli Orientamenti per l’attività educativa della Scuola materna del 1958 e quelli del 1969. Molti asili e scuole materne diretti da Istituti religiosi e parrocchie si aprono alle istanze pedagogiche e didattiche delle “Scuole nuove” facendo proprie le indicazioni ministeriali.

Contemporanea alle Sorelle Agazzi è Maria Montessori (1870-1952)laureata in medicina. Agli inizi del ’900 è incaricata di organizzare gli asili all’interno delle case popolari del quartiere S. Lorenzo di Roma e nel 1907 si inaugura la prima “Casa dei bambini”: una scuola per bambini dai 3 ai 7 anni. Ben presto questa esperienza si moltiplica e il nome della Montessori acquista fama nazionale e internazionale, grazie alla pubblicazione dei suoi scritti, dei suoi molti viaggi e conferenze all’estero, al sorgere di Enti per la diffusione del suo metodo. Ciò che caratterizza il pensiero e anche il metodo della Montessori è la concezione del bambino come essere attivo, protagonista della sua educazione nel libero svolgersi delle sue forze. La scuola dev’essere in funzione dell’auto sviluppo e dell’autoeducazione del bambino. Ciò richiede un ambiente adatto, o adattato, un materiale appositamente costruito, un maestro che sappia riconoscere l’apparire delle nuove esigenze del bambino. Il materiale di sviluppo, che si presenta rigoroso nella sua costruzione e nell’uso, tende a curare la perfezione delle sensazioni. Anche la lettura, la scrittura e l’aritmetica vengono apprese con materiale speciale. La fortuna del metodo Montessori è molto vasta: ovunque si moltiplicano le “Case dei bambini” e le “Scuole Montessori”. Non mancano critiche e riserve al metodo, accusato di isolare il bambino dall’ambiente reale, di ricorrere a mezzi artefatti quando la vita ne presenta di più semplici e veri, di ignorare il mondo sociale e, in particolare, di non possedere una fondata consapevolezza dei fini dell’educazione. Tuttavia alla Montessori va riconosciuto il merito di aver segnalato la necessità di ancorare la pedagogia a studi scientifici e di aver promosso una scuola rispettosa del bambino.

Sono esperienze tra le più note, le cui istanze pedagogiche e didattiche sono entrate a pieno titolo nell’allora Scuola materna, Case dei bambini, Scuola Elementare e, oggi, nella Scuola dell’infanzia e Primaria.

Altra esperienza è lo Scautismo che, fondato in Inghilterra da Baden Powell nel 1908, si diffonde ben presto ovunque grazie alla sua proposta educativa che ben individua alcuni interessi fondamentali del ragazzo. In Italia le prime esperienze di scautismo vengono realizzate nel 1910 dall’educatore genovese Mario Mazza (1882-1959). Attualmente, all’interno della Federazione Italiana dello Scautismo (FIS), sono federate due organizzazioni: il Corpo Nazionale Giovani Esploratori Italiani (CNGEI), di orientamento non confessionale, e l’Associazione Guide e Scout Cattolici Italiani (AGESCI). Quest’ultima continua a crescere in modo considerevole.

L’educazione tra orientamenti collettivistici e personalistici. Teorie pedagogiche ed esperienze educative si sono sempre richiamate a una precisa concezione filosofica dell’uomo, della storia, della società. Lo stesso si dica per quelle del XX secolo. L’orientamento collettivista dell’educazione si pone nell’orizzonte marxista-leninista e in Italia è rappresentato da Antonio Gramsci (1891-1937). Egli interpreta il marxismo come storicismo: l’uomo è una serie di rapporti attivi e coscienti che egli instaura con la natura e con gli altri uomini in un determinato momento storico. Si ha il primato dell’esistenza sull’essenza, del collettivo sull’individuale: l’uomo è storicità, società, coscienza; l’uomo «si fa», si costruisce nei rapporti sociali. Gramsci è convinto che nel mondo contemporaneo la realtà può essere trasformata partendo dall’ideologia, dalla cultura, prima e meglio che dall’economia. In quest’opera di trasformazione il problema pedagogico acquista una rilevanza primaria perché l’egemonia culturale – che porterà a quella politica – si costruisce con il concorso di molte forze che insieme interagiscono per organizzare la cultura in modo da formare il «blocco storico». Si tratta di creare, attraverso la scuola, la stampa, l’editoria, il teatro, l’azione degli «intellettuali organici» e del partito, una cultura storica, scientifica e critica attraverso la quale il proletariato prende coscienza del suo valore e della sua funzione non solo in campo economico, ma anche in quello sociale e politico, mettendo in crisi la cultura di chi è al potere. Gramsci è per una scuola formativa, unitaria e per tutti, che richiede impegno e sforzo, perché solo con una scuola esigente si assicura alla classe lavoratrice «un nuovo strato di intellettuali». Gli intellettuali sono gli organizzatori, i persuasori permanenti, i funzionari di una nuova visione del mondo. Il “nuovo” intellettuale non appartiene al gruppo sociale superiore: sorge direttamente dalla massa e rimane a contatto con essa. Si crea così quasi un’osmosi tra «sentire» del popolo e «sapere» dell’intellettuale attraverso cui si perviene a un tipo di sapere scientificamente fondato e condiviso, il cosiddetto «blocco storico», che è l’egemonia intellettuale-morale del gruppo che va al potere. Il partito elabora, per mezzo di una élite, le nuove concezioni del mondo, dirige organicamente «tutta la massa economica attiva» eliminando i vecchi schemi. Si giunge in tal modo all’egemonia culturale, premessa di quella politica. Gramsci, come uno dei fondatori del Partito Comunista Italiano; come pensatore politico ed interprete della coscienza culturale espressa dal movimento operaio; come esegeta originale del marxismo occidentale esercita sulla cultura italiana ed europea un notevole e duraturo influsso che ha il suo apice negli anni Settanta.

Il Personalismo pedagogico rimanda a quello filosofico, nato in Francia a seguito alla crisi del 1929: si presenta come analisi del mondo moderno contrapponendosi sia all’individualismo che al marxismo. Suo scopo è la difesa dell’uomo come persona, come soggetto libero, responsabile delle proprie azioni, non riducibile a determinismi di natura biologica, meccanicistica o dialettica. Ciò che costituisce l’uomo è la sua spiritualità, che implica la nozione di totalità e indipendenza. Ne consegue che l’uomo non è un “risultato”, un “evento”, “un momento” dell’evoluzione cosmica e del divenire storico.

In Italia Luigi Stefanini (1891-1956) è il primo a proporre una pedagogia personalista a metà degli anni ’50, proposta seguita da molti altri tra cui Aldo Agazzi (1906-2000), Giuseppe Flores D’Arcais (1908-2004), Marcello Peretti (1920-1998). Nell’immediato dopoguerra si adopera per la rinascita culturale dell’Italia. Insieme ad altri colleghi dà inizio al Centro Studi di Filosofia di Gallarate, che dal 1945 indice annuali convegni allo scopo di favorire un confronto tra pensatori cattolici. In questi incontri di studio matura la sua ricerca teoretica in direzione personalista. Nel 1954 favorisce il sorgere di Scholé, Centro di Studi Pedagogici fra docenti universitari cristiani. Il Personalismo pedagogico di Stefanini si fonda su quello filosofico, che egli si premura di distinguere da altre filosofie anch’esse denominate “personaliste” e che fanno la loro comparsa attorno agli anni ’50. Stefanini parte dalla definizione di persona come «sostanza spirituale, razionale, singolare, libera, responsabile, incarnata e mondanizzata». Il primato metafisico, sociale e morale della persona comporta il primato della persona in campo educativo. L’educazione è intesa come il processo attraverso il quale la persona viene alla luce e prende possesso di sé. Le note caratterizzanti la persona indicano in quale direzione deve muoversi l’educazione scolastica. Per Stefanini occorre “personalizzare” la scuola e ciò implica la difesa del primato del singolo alunno rispetto al gruppo scolastico riconoscendo ad ogni allievo il diritto a un’educazione che rispetti i suoi ritmi evolutivi; l’attenzione al soggetto da educare visto nel suo concreto contesto socio-culturale; la possibilità di vedere nel maestro una persona riuscita; l’instaurazione di un rapporto dialogico e reciprocamente attivo tra maestro e allievo, in cui l’autorità sia suscitatrice della libertà dell’educando; la considerazione del sapere non fine a se stesso, ma in prospettiva sapienziale; l’organizzazione della scuola in modo che assicuri l’istruzione di base a tutti e l’accesso agli studi superiori ai capaci e meritevoli. Nell’ultimo anno di vita, nella relazione tenuta a Trento per la XXVIII Settimana Sociale dei cattolici italiani (1955), Stefanini mette in guardia contro i rischi insiti nelle moderne teorie pedagogiche (attivismo, strumentalismo, paidocentrismo, sperimentalismo, globalismo): tendono a «volatilizzare l’intimità» spirituale del singolo, la quale fonda la ragione della sua dignità. È un richiamo a non perdere “la parte migliore” nell’affannosa ricerca di rendere la scuola e l’allievo attivi a qualsiasi costo, senza neppure interrogarsi in che consista l’attività autentica del soggetto. Il pensiero e l’attività di Stefanini si segnalano nel panorama filosofico-pedagogico del secondo dopoguerra. L’originalità della sua riflessione personalista è colta non solo in Italia, ma anche all’estero, soprattutto in Francia.

L’educazione alle soglie del terzo millennio. L’educazione delle nuove generazioni costituisce, per le società di ogni tempo, la sfida più grande per l’avvenire dell’umanità. Infatti, attraverso l’educazione l’adulto intende condurre il fanciullo ad apprendere gradualmente il mestiere di uomo e la società inizia la giovane generazione ai valori e alle tecniche che caratterizzano la sua cultura. Oggi questa capacità di accompagnare i giovani a divenire ciò che sono chiamati ad essere, a raggiungere una libertà matura capace di decisioni responsabili; di proporre e consegnare loro valori e tradizioni che segnano la crescita dell’umanità sembra venir meno. Si avverte più che mai la difficoltà, da parte dell’adulto, di accompagnare il fanciullo nel suo processo di crescita umana. Una difficoltà che ha mosso un gruppo di intellettuali a lanciare un Appello: «Sta accadendo una cosa che non era mai accaduta prima: è in crisi la capacità di una generazione di adulti di educare i propri figli. Per anni dai nuovi pulpiti – scuole e università, giornali e televisioni – si è predicato che la libertà è l’assenza di legami e di storia, che si può diventare grandi senza appartenere a niente e a nessuno, seguendo semplicemente il proprio gusto o piacere. È diventato normale pensare che tutto è uguale, che nulla in fondo ha valore se non i soldi, il potere e la posizione sociale. Si vive come se la verità non esistesse, come se il desiderio di felicità di cui è fatto il cuore dell’uomo fosse destinato a rimanere senza risposta» (Appello: Se ci fosse una educazione del popolo tutti starebbero meglio, in Atlantide [2005] 4,119). Si tratta di una grande sfida che, insieme ad altre, quali la complessità, la globalizzazione, la pervasività delle nuove tecnologie della comunicazione, la velocità dei cambiamenti, il tempo “compresso”, la presenza di profughi, rifugiati, migranti, la multiculturalità, multireligiosità, la violenza, ecc. ci chiede insistentemente e senza dilazioni di ripensare più a fondo il significato e le condizioni dell’impegno educativo: l’educazione esige di essere studiata seriamente. L’educazione, è bene ricordarlo, è chiamata – oggi come ieri – a scelte: educare ad essere o ad avere? Educare alla libertà o al consenso? Educare al giudizio critico, alla coerenza o al conformismo? Educare all’agire morale o alla manipolazione della coscienza? Educare ad elaborare un pensiero personale o a ripetere quanto si legge, si sente e si vede? Educare a liberare l’intelligenza o appesantirla di nozioni? E si potrebbe continuare. «È qui il bivio del nostro tempo: decidersi per le idee, per le cose, la scienza che fanno l’uomo, oppure per l’uomo che fa le idee, le cose, la scienza» (G. Massaro, Soggettività e critica in pedagogia, La Scuola,Brescia, 1984, 39). Si tratta di individuare nell’educazione un tesoro, come sostiene J. Delors nel rapporto all’Unesco della Commissione Internazionale sull’Educazione per il XXI secolo: «Di fronte alle molte sfide che ci riserva il futuro, l’educazione ci appare come un mezzo prezioso e indispensabile che potrà consentirci di raggiungere i nostri ideali di pace, libertà e giustizia sociale» (J. Delors (a cura di), Introduzione, in Nell’educazione un tesoro, Armando,Roma, 1997, 11). Un compito, quello di educare, che ogni adulto è chiamato a svolgere non in modo isolato, bensì in collaborazione con le istituzioni, facendo rete con quanti hanno a cuore l’educazione, ben sapendo che educare non è facile, perché «l’educazione è un’arte, un’arte particolarmente difficile» (Maritain 2001, 61) e che «l’éducation est et sera toujours à la fois nécessaire et difficile». (G.M. Garrone, Réflexion sur l’éducation dans le monde d’aujourd’hui, in Rivista di Pedagogia e Scienze Religiose [1973] 3, 293).

Fonti e Bibl. essenziale

R. Lanfranchi – J.M. Prellezo, Educazione scuola e pedagogia nei solchi della storia. Vol. 2: Dall’Illuminismo all’era della globalizzazione, LAS, Roma, 2011; M. Grazzini, Sulle fonti del Metodo Pasquali-Agazzi e altre questioni. Interpretazioni, testi e nuovi materiali. Contributi per una Storia dell’Educazione e della Scuola infantile in Italia, Istituto di Mompiano Centro Studi pedagogici “Pasquali-Agazzi”, Brescia, 2006; R. Regni, Infanzia e società in Maria Montessori. Il bambino padre dell’uomo, Armando, Roma, 2007; F. Cambi, Libertà da… L’eredità del marxismo pedagogico. La Nuova Italia, Milano, 1999; L. Corrieri, Luigi Stefanini: un pensiero attuale, Prometheus, Milano, 2002; J. Maritain, Per una filosofia dell’educazione, a cura di G. Galeazzi, La Scuola, Brescia, 2001; Globalizzazione e nuove responsabilità educative, Atti del XLI Convegno di Scholé, La Scuola, Brescia, 2003; Educazione cristiana e trasformazioni religiose, Atti del XLII Convegno di Scholé, La Scuola, Brescia, 2004; Educare tra scuola e formazioni sociali, Atti del XLIX Convegno di Scholé, La Scuola, Brescia, 2011; L’educazione tra reale e virtuale, Atti del L Convegno di Scholé, La Scuola, Brescia, 2012; R. Lanfranchi, Don Lorenzo Milani: un maestro che educa al pensiero critico, in Rivista di Scienze dell’Educazione 51(2013)1, pp. 48-70; R. Lanfranchi, La scuola cattolica in Italia e la FIDAE. Dal Concilio ad oggi, in CENTRO STUDI per la SCUOLA CATTOLICA, Una pluralità di gestori. Scuola Cattolica in Italia. Quindicesimo Rapporto, Brescia, La Scuola 2013, pp. 37-59; R. Lanfranchi, Aporti e don Bosco. Per un’educazione popolare e preventiva, in M. Ferrari – M.L. Betri – C. Sideri (a cura di), Ferrante Aporti tra Chiesa, Stato e società civile. Questioni e influenze di lungo periodo, Milano, Franco Angeli 2014, pp. 171-191; R. Lanfranchi, La città dei ragazzi di Roma. Una scuola di responsabilità educativa, in G. Zago (a cura di), Sguardi storici sull’educazione dell’infanzia, Fano (PU) Aras Edizioni 2015, pp. 381-406; R. Lanfranchi, Pietro Braido e la sua teoria dell’educazione, in Orientamenti pedagogici (2017) vol.64, n.2, pp. 235-246; M. Gecchele – S. Polenghi – P. Dal Toso (a cura di), Il Novecento: il secolo del bambino?, Milano, Edizioni Junior, 2017; C.M. Fedeli, Guardini educatore, Lecce-Brescia, Pensa 2018; E. Diaco (a cura di), L’educazione secondo Papa Francesco, Bologna, Dehoniane 2018.


LEMMARIO




Emigrazione, Immigrazione - vol. II


Autore: Matteo Sanfilippo

La situazione post-1870 vede la Chiesa continuare quanto impostato nei decenni precedenti. Da un lato, prosegue l’apertura ai fedeli, ma anche ai protestanti venutisi a insediare in Italia. Dall’altro, lotta per mantenere il controllo degli emigrati italiani e per usarli come testa di ponte nella conquista di paesi anticlericali come la Francia o protestanti come gli Stati Uniti. A tale scopo ricorre all’apporto dei nuovi istituti di vita consacrata che sopperiscono alle difficoltà del clero diocesano, pur se non nati per occuparsi dell’emigrazione, ma si trovano rapidamente nella necessità di farlo. È il caso dei salesiani di don Giovanni Bosco, che, su richiesta di Pio IX, intervengono fra gli italiani di Buenos Aires. Agli inizi del Novecento i salesiani assistono i compatrioti in quasi tutta l’America Latina, negli Stati Uniti, in Svizzera e in Germania, in Tunisia, a Costantinopoli e nel Medio Oriente.

Nel 1887 Propaganda Fide autorizza le parrocchie nazionali, chiamate anche personali o linguistiche, negli Stati Uniti. Queste devono integrarsi nel tessuto diocesano, ma hanno giurisdizione su una comunità immigrata e non su un quartiere. La raccolta di documenti, che precede tale decisione, mette i funzionari di Propaganda in contatto con la realtà nordamericana e con analoghe esperienze europee. Inoltre permette loro di stringere rapporti con le associazioni di altri paesi, in particolare la società di patronato degli emigranti tedeschi.

I funzionari di Propaganda realizzano che per gli italiani non esiste niente di simile e che questo si riflette nell’incapacità di avere edifici di culto e d’incontro. Inoltre scarseggiano i sacerdoti provenienti dalla Penisola o, se vi sono, hanno seguito percorsi non sempre approvati dalla Santa Sede. La soluzione, contemporanea alla deliberazione sulle parrocchie nazionali, prevede di confidare a Giovanni Battista Scalabrini, vescovo di Piacenza, l’istituzione di una congregazione di religiosi che assista gli italiani nelle Americhe e al contempo gestisca un collegio per formare i missionari addetti a tale compito. Leone XIII approva con breve del 25 novembre 1887 e quindi presenta il progetto ai vescovi d’oltreoceano (Quam aerumnosa, 1888). Inizialmente si prevede un esperimento quinquennale, mirato agli Stati Uniti e al Brasile, ma in quel lustro il pontefice e la curia si rendono conto dell’ineluttabile necessità di prestare maggiore attenzione alle migrazioni (Rerum Novarum, 1891).

L’ultimo decennio del pontificato di Leone XIII vede montare l’interesse per la mobilità umana e di ciò beneficia il progetto scalabriniano. Il vescovo di Piacenza ritiene in un primissimo tempo che il nuovo istituto debba essere un’appendice di Propaganda. Nel 1889 decide, però, di affiancargli una Società di patronato degli emigranti sulla falsariga della Raphaelsverein. Scalabrini ottiene buoni risultati nei luoghi d’arrivo, grazie all’impegno dei suoi missionari e al fondamentale aiuto delle congregazioni femminili, basti qui ricordare le Apostole del S. Cuore di Francesca Saverio Cabrini, ma il numero delle congregazioni femminili che seguono gli italiani nelle scuole e negli ospedali è infinito.

Alla morte nel 1905 Scalabrini lascia quaranta case in America, con annesse chiese e scuole, nonché un orfanotrofio a San Paolo. La riuscita non è stata, però, esente da polemiche con altre congregazioni e con la Curia. Da oltre dieci anni Propaganda non sostiene il vescovo piacentino, inoltre la Segreteria di Stato, sulla scia delle rimostranze di alcuni salesiani, sospetta che gli scalabriniani siano troppo acquiescenti nei riguardi del Regno d’Italia. Lo stesso Scalabrini diviene consapevole della difficoltà di bilanciare appartenenza nazionale e appartenenza religiosa; è inoltre spaventato dall’aumento delle contrapposizioni oltreoceano tra le comunità emigrate. Prima di morire, propone quindi alla Santa Sede di istituire un dicastero, o eventualmente solo una commissione, pro Emigratis Catholicis. Ritiene infatti che si è cominciato a fare qualcosa per ogni gruppo, ma che bisogna coordinare gli sforzi.

Nel nuovo secolo l’attenzione cattolica alle questioni migratorie non decresce, anzi si aprono nuovi fronti. L’istituto scalabriniano è sempre focalizzato sulle Americhe e soltanto più tardi tornerà verso il Vecchio Mondo. Di quest’ultimo si occupa invece Geremia Bonomelli, vescovo di Cremona, che nel 1900 fonda l’Opera di assistenza agli operai italiani emigrati in Europa e nel Levante. Le decine di sacerdoti impegnati sono quasi tutti secolari e nel volgere di qualche anno riescono a intervenire tra gli italiani in Svizzera, Francia e Germania, fondando scuole, parrocchie e ospizi. La loro azione è coadiuvata dai barnabiti a Parigi, i dehoniani a Marsiglia, i salesiani a Lione e Zurigo, i cappuccini nel sud della Francia.

Si ha bisogno di un maggiore coordinamento e nel 1909 è fondata l’Italica Gens (1909), che federa congregazioni religiose e associazioni laiche interessate agli italiani nelle Americhe, ma presto il Vaticano riprende il comando. Pio X istituisce nel 1912 il primo ufficio della curia romana per l’emigrazione, una sezione speciale della Concistoriale che ha competenza sull’orbe cattolico e risponde al suggerimento di Scalabrini di badare a tutti i migranti, smussando conflitti tra loro e con le diocesi di accoglienza. Nel 1914 è decisa la fondazione a Roma del Pontificio Collegio per l’emigrazione italiana, che dovrebbe formare il clero diocesano per seguire gli italiani in tutto il mondo: l’apertura effettiva avverrà, però, solo nel 1920. Nel frattempo i dicasteri romani affidano l’Opera Bonomelli a un vescovo, senza compiti territoriali, il cosiddetto Prelato per l’emigrazione italiana, cui è sottoposto il Pontificio Collegio.

Fra le due guerre cambia direzione l’emigrazione, a causa della chiusura degli sbocchi americani e della diaspora antifascista verso la Francia. Inoltre il regime entra in conflitto con le organizzazioni cattoliche obbligandole a mantenersi defilate. Durante il ventennio, il Prelato per l’emigrazione funziona a scartamento ridotto e nel frattempo nascono problemi con le missioni oltreoceano, cui non sono più inviati rinforzi. L’assistenza agli emigrati ricade quindi sulle chiese locali. Nel 1944 Pio XII istituisce la Pontificia Commissione Assistenza Profughi (in seguito solo Pontificia Commissione Assistenza e infine Pontificia Opera Assistenza) che negli anni tra il 1945 e il 1948 soccorre quasi mezzo milione di italiani e stranieri stabilitisi in vari centri della penisola e ne organizza la partenza verso l’Europa, le Americhe e l’Australia. È la riorganizzazione della rete di assistenza cattolica, ora sostenuta dalla statunitense National Catholic Welfare Conference.

Subito dopo la guerra la Pontificia Commissione e i principali dicasteri (la stessa Segreteria di Stato crea un ufficio apposito nel 1947) si occupano del movimento di migranti e rifugiati di tutto il mondo. Lentamente, però, i funzionari vaticani tornano a guardare soprattutto ai propri connazionali. Nel 1949 il Pontificio Collegio per l’emigrazione è riaperto e affidato agli scalabriniani. Nel 1951 è fondata a Roma la Giunta Cattolica per l’emigrazione e a Ginevra la Commissione Cattolica Internazionale per le Migrazioni. Nel 1952 la Costituzione apostolica Exsul Familia stabilisce le nuove norme relative all’assistenza spirituale degli emigranti e conferma che questa compete alla Concistoriale. Il documento pontificio ribadisce l’opportunità delle parrocchie nazionali e personali, con competenza sui fedeli di una determinata nazionalità e affidate ai sacerdoti dello stesso gruppo. Sottolinea quindi il diritto naturale ad emigrare, suggerisce lo scambio tra clero delle diverse parti del mondo per venire incontro ai migranti. Infine ricorda come l’emigrante non sia obbligato a integrarsi immediatamente nella società d’accoglienza, ma abbia diritto a una propria autonomia culturale.

A quest’ultimo tema Pio XII ha già accennato sul finire della guerra e si potrebbe pensare a una ripresa delle idee di Scalabrini per proteggere l’italianità dei suoi emigranti. Ora il discorso riguarda, però, tutti gli emigranti e risponde a preoccupazioni analoghe a quelle di fine Ottocento, quando la paura della propaganda socialista scalza il timore di quella protestante. Negli anni 1950 siamo in piena guerra fredda e l’impegno anticomunista tra i migranti è fondamentale; non è, però, l’unica molla della loro protezione. Il mondo cattolico sta riscoprendo l’impegno nel sociale e i missionari usciti dal Pontificio Collegio, divenuto di completa responsabilità scalabriniana, si muovono in sintonia con le nuove esperienze e non sempre accettano i dettami geopolitici più retrivi. Nel complesso il magistero di Pio XII e di Giovanni XXIII portano a un maggior rispetto dell’identità dei migranti e aprono la strada alle riflessioni di Paolo VI e Giovanni Paolo II. Il primo in particolare approfondisce le problematiche migratorie, pur se concernono sempre meno la popolazione italiana, tanto che nel 1973 è chiuso il Pontificio Collegio. Il motu proprio PastoralisMigratorum Cura (1969) analizza la nuova mobilità e i processi di integrazione, insistendo sui diritti della persona umana: è chiosato dagli interventi del pontefice successivo, che, però, si occupa ormai di flussi non più italiani. Nel frattempo le stesse strutture curiali si evolvono: la Concistoriale diviene nel 1967 la Congregazione dei Vescovi, mentre nel 1970 è creata al suo interno la Pontificia commissione per la cura spirituale dei migranti e degli itineranti, resa autonoma dal 1988 come Pontificio Consiglio  da allora sempre più attento anche all’assistenza, in genere tramite parrocchie nazionali, dell’immigrazione in Italia. Negli anni successivi l’attenzione si sposta ulteriormente e si concentra sul fenomeno dei rifugiati. Nella riorganizzazione della Curia voluta dall’attuale Pontefice, la cura di questi ultimi e di tutti i migranti è demandata a una speciale sezione del nuovo Dicastero per lo Sviluppo umano integrale, sezione nella quale è rifuso il Pontificio consiglio prima citato.

Fonti e Bibl. essenziale

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LEMMARIO