Associazione Italiana dei Professori di Storia della Chiesa

Dizionario Storico Tematico La Chiesa in Italia
Dopo l'Unità Nazionale
Roma 2015
Copyright © 2015

Episcopato - vol. II


Autore: Giuseppe Battelli

Foto 1 - Geremia BonomelliVescovi e nuovo Stato unitario: l’italianità come riferimento identitario o come questione aperta?

La nascita formale nel 1861 del Regno d’Italia e la sua successiva estensione nel 1870 a comprendere Roma e i residui territori dello Stato pontificio non produssero la conseguente e immediata nascita in ambito religioso di una Chiesa italiana, né tanto meno il rapido costituirsi di un episcopato italiano. Esistevano ovviamente vescovi nativi e che svolgevano la propria funzione sul territorio politicamente unificato del Regno d’Italia, ma essi – collettivamente intesi – non si sentivano e non venivano univocamente considerati negli stessi ambienti ecclesiastici come appartenenti ad un’unica neo-costituita entità: l’Italia, appunto. Chi per contro li inquadrò subito secondo questa visione che potremmo indicare, per quell’epoca, come “astrattamente” unitaria fu lo Stato italiano: per la necessità di applicare all’intero territorio nazionale normative omogenee, ma anche per favorire all’interno della numerosissima e variegata compagine ecclesiastica ereditata dagli Stati italiani pre-unitari la percezione della irreversibilità del processo storico testé compiutosi. Percezione non  scontata. Le alterne vicende che avevano riguardato la Roma pontificia a inizio Ottocento (quando nella tarda età napoleonica il papa Pio VII era stato prelevato e tenuto per anni lontano dal centro della Cattolicità) e nel pieno della tormenta rivoluzionaria del 1848 (con la fuga di Pio IX a Gaeta) potevano infatti alimentare la speranza di un ennesimo rovesciamento degli eventi; lo confermava il progetto, volto al ripristino del potere temporale, cui a lungo si lavorò durante il pontificato di Leone XIII.

Sul fronte ecclesiale, invece, per alcuni decenni dopo l’unificazione i vescovi italiani si considerarono e vennero considerati dalla S. Sede come tuttora organizzati secondo la geografia ecclesiastica sagomata sulla situazione pre-unitaria. Lo attestano vari elementi: come la nomina a ordinari di diocesi per lo più dello Stato pre-unitario di origine; le forme di aggregazione episcopale per sottoscrivere mozioni di solidarietà per il pontefice; l’incentivo romano a organizzare incontri episcopali sulla base delle antiche province ecclesiastiche, o dal 1889 delle regioni; la stessa suddivisione territoriale delle diocesi così come ancora alla vigilia della prima Guerra mondiale appariva su pubblicazioni ufficiali della S. Sede.

Il problema non aveva solo valenze organizzative, o genericamente istituzionali. Esso rifletteva piuttosto l’effettiva realtà delle cose. I vescovi, ad esempio, erano abituati a rapportarsi tra loro su base essenzialmente locale, e tutt’al più a rivolgersi a Roma per le questioni di maggiore rilievo; mentre tutt’altro che simili apparivano tra loro le concrete condizioni religiose delle diverse aree del nuovo Stato. A tale ultimo riguardo si poteva assistere nelle zone settentrionali all’intensa proliferazione dell’associazionismo cattolico con finalità socio-economiche o allo sviluppo dei prodromi del cosiddetto “modernismo”, mentre altrove e in particolare nel Mezzogiorno sussistevano situazioni tuttora legate ad antichi accordi concordatari con le monarchie pre-unitarie o a lontane tradizioni di forte legame territoriale tra istituzioni ecclesiastiche e notabilato locale. D’altronde la stessa distribuzione delle diocesi sul territorio nazionale vedeva gli arcivescovi di Milano governare un sistema costituito da circa settecento parrocchie, a fronte delle poche decine di unità parrocchiali (venti nel caso di Amelia) su cui operavano i confratelli di varie delle innumerevoli diocesi e relative province ecclesiastiche in cui risultava frantumata l’Italia centro-meridionale.

La risposta romana al problema

Almeno in un primo tempo la S. Sede non favorì la nascita di una entità identitariamente e organizzativamente unica dell’episcopato nazionale: forse anche alla luce delle sfaccettature dottrinali e ideologiche che, nella fase di unificazione del nuovo Stato e anche di evoluzione teologica intervenuta in quei decenni, avevano visto taluni vescovi non totalmente allineati sulle posizioni “infallibiliste” riguardo al dogma sulla inerranza papale approvato al concilio Vaticano I, e soprattutto dimostrare “transigenza” di fronte alle conseguenze che l’unificazione italiana aveva comportato per lo Stato pontificio (i casi più rilevanti furono quelli del vescovo di Cremona G. Bonomelli e di Piacenza G.B. Scalabrini). Ma il delinearsi progressivo durante i pontificati di Leone XIII e soprattutto Pio X di un’organica risposta al nuovo Stato, nel quadro della reazione complessiva alla società moderna, richiedeva la costruzione di un sistema compatto: il più possibile omogeneo e univoco nei princìpi da porre a base dell’azione promossa da Roma.

L’organicità di tale disegno (emblematicamente riassunto nel motto di Pio X “Instaurare omnia in Christo”) si esplicitò tra l’altro in una vasta e capillare istruttoria sulla situazione delle diocesi e dell’episcopato nazionale, condotta mediante l’invio a inizio Novecento di visitatori apostolici coordinati da dicasteri della Curia romana. Al di là degli aspetti di dettaglio che emersero e determinarono valutazioni e interventi della S. Sede, ciò che va richiamato è il consolidarsi in quel periodo dell’idea di “costruire” un episcopato nazionale secondo due criteri ritenuti a Roma funzionali all’intero disegno sopra descritto: ulteriore recupero del modello episcopale tridentino, che – nel richiamo alla fisionomia del pastore ma anche dell’efficace conduttore/ispettore della vita diocesana, secondo quella prospettiva di disciplinamento della vita diocesana già sperimentato tra fine Cinquecento e primo Seicento – sembrava peraltro collegabile a quello cinquecentesco soprattutto nella volontà di risposta alle rispettive congiunture storiche; disponibilità dei vescovi ad adottare gli strumenti e le indicazioni romane quanto al ruolo strategico dell’associazionismo laicale cattolico, alla ristrutturazione complessiva del sistema formativo dei seminari, alle riforme del culto promosse dallo stesso pontefice Pio X.

E’ secondo tale duplice prospettiva, cui s’intrecciò la forte preoccupazione dottrinale connessa alla lotta antimodernista, che venne modellandosi una parte cospicua dell’episcopato residenziale italiano che avrebbe guidato le diocesi nella prima metà del Novecento, dunque in fasi cruciali come la lunga convivenza con il regime fascista e il drammatico scenario delle due guerre mondiali. Un “modellarsi” non solo ex post (nel senso di modificare eventuali passati orientamenti), quanto ex ante (mirata politica nel reclutamento dei nuovi candidati all’episcopato). Quando infatti nel 1928 il card. De Lai lasciò dopo vent’anni la guida della Congregazione Concistoriale, il dicastero restituito alle antiche ampie funzioni di scelta e controllo episcopale dalla riforma della Curia romana promossa da Pio X nel 1908, risultò che oltre due terzi dell’intero episcopato residenziale italiano attivo alla vigilia della Conciliazione era stato consacrato e dotato di prima nomina durante il mandato De Lai. E rispetto al secondo dei criteri prima richiamati non è forse irrilevante che nel confronto tra la fine del pontificato di Leone XIII e la fine di quello di Pio X la percentuale dei vescovi inviati a svolgere il proprio mandato episcopale fuori dalla regione di origine s’innalzasse dal 37.50% al 60.44%, e la direttrice principale di tale movimento fosse da Nord verso Sud: cioè, dalle zone dove maggiore era la risposta ai criteri prima indicati a quelle che fino ad allora, per svariate ragioni, risultavano meno sensibili agli stessi (tale processo si confermò anche in seguito: si vedano tra l’altro l’invio a Palermo del milanese A. Lualdi, e a Bari e successivamente a Napoli del bolognese M. Mimmi).

Foto 2 - Ildefonso Schuster

Tra Conciliazione, fascismo e guerre mondiali.

E’ nel trentennio che va dall’inizio della prima guerra mondiale alla fine della seconda che iniziarono a modificarsi la fisionomia dell’episcopato nazionale come entità collettiva e il suo ruolo complessivo rispetto alla società italiana. Concorsero significativamente a quell’esito sia fattori interni che esterni alle dinamiche puramente ecclesiastiche. Tra i fattori interni va senz’altro collocata la linea di forte omogeneizzazione e coordinamento perseguita da Roma secondo il progetto ricordato. Linea cui concorse, come vera e propria bussola normativa per l’episcopato, la divulgazione nel 1917 del C.J.C: da allora, e fino alla promulgazione dei documenti del concilio Vaticano II, immancabile riferimento per la crescente convocazione (salvo nelle fasi belliche) di sinodi diocesani, concili provinciali e concili plenari regionali. Tra i fattori esterni si tenga conto dello svilupparsi progressivo, anche in Italia, di una società di massa che poneva alle classi dirigenti problemi di guida e di consenso diversi rispetto al passato, e soprattutto non più gestibili – come confermava nel primo dopoguerra la crisi della classe dirigente liberale italiana – secondo i metodi e le possibilità di incidenza sociale delle circoscritte élites postrisorgimentali.

In quel nuovo scenario l’episcopato svolse un ruolo decisivo di orientamento delle popolazioni, soprattutto tenendo conto che l’Italia rimaneva tuttora un Paese rurale e a relativamente modesta concentrazione urbana: caratteri riscontrabili non solo al Centro-Sud e nelle isole, ma anche in quella ampia parte del settentrione che risultava ai margini del triangolo industriale Milano-Torino-Genova e che non a caso aveva fortemente alimentato il fenomeno della emigrazione all’estero. In tale ruolo di orientamento si mescolarono elementi strettamente religiosi e pastorali – come il culto e la protezione delle popolazioni dalle conseguenze belliche – con elementi di carattere ideologico e attinenti al modello di società. Ne derivò da parte dei vescovi una condotta pubblica che s’imperniò, maggioritariamente e in una prospettiva di lungo periodo, sul mantenimento/rafforzamento del nesso tra fede cristiana e sostegno alle autorità costituite. Il fenomeno si accentuò dopo che la stipula dei Patti Lateranensi sembrò risolvere sia in senso stretto la Questione romana sia più latamente il profondo conflitto con lo Stato liberale italiano e i suoi princìpi fondativi di matrice cavouriana; ne ricavò forza quella instauratio di una società cristiana apertamente ostile nei confronti delle svariate forme di espressione della modernità che era l’obiettivo esplicito dei pontefici, dopo che il disegno di ripristino del potere temporale si era rivelato inattuabile.

In tal senso il ruolo svolto dall’episcopato sul lungo periodo nei confronti della società italiana fu decisivo. Mentre assunsero un peso relativo le congiunturali oscillazioni nel consenso prestato al regime fascista: tra gli “alti” dell’iniziativa coloniale etiope, della battaglia del grano, del sostegno del governo italiano alla componente franchista nella guerra civile spagnola (si ricordino tra gli altri Schuster a Milano, Nasalli Rocca a Bologna, Dalla Costa a Firenze),  dello stesso ingresso nella seconda guerra mondiale; e i “bassi” degli insistiti attacchi fascisti alla AC e dell’introduzione nel 1938 della legislazione razziale. Alla fine della seconda guerra mondiale, di fronte a uno scenario di distruzione materiale e morale senza precedenti per la storia italiana, l’episcopato si presentava come strumento fondamentale di raccordo tra le scelte della S. Sede in ordine al futuro assetto da dare al Paese e una società attraversata da divergenti spinte: in materia politica (monarchia-repubblica, ruolo dei partiti di massa a sinistra, scelta filoatlantica), economico-sociale (centralismo-federalismo, legislazione sul matrimonio, politiche scolastiche), morale (secolarizzazione dei costumi, equidistanza dai modelli di vita socialista e capitalista).

Verso un episcopato nazionale: dalle riunioni preparatorie della CEI alla partecipazione al Vaticano II.

Nell’affermare l’importanza di quel ruolo non si è inteso sottovalutare un problema sul quale la storiografia si è ripetutamente interrogata: se cioè si possa parlare per gli anni del secondo dopoguerra di una vera e propria Chiesa italiana, intesa come entità guidata organicamente dal proprio episcopato ed esprimente un’identità legata a eventuali specifiche caratteristiche, o se invece si debba considerare quello italiano dell’epoca come un sistema ecclesiale ancora guidato direttamente dalla S. Sede, con i vescovi – tra loro coordinati tutt’al più a livello regionale – a svolgere in genere la funzione di ponte organizzativo e istituzionale tra il vertice romano e la base; funzione tra l’altro non esclusiva, se si pensa al ruolo crescente assunto da istituzioni sempre più centralizzate e strutturate a piramide come l’AC. Due degli elementi sui quali si è frequentemente insistito per dare forza al suddetto interrogativo, e soprattutto risolverlo nel secondo senso, sono stati da un lato la presenza ininterrotta (dal 1523) di pontefici di origine italiana, e dall’altro il dato di fatto che fino agli anni Sessanta non venne prevista in Italia alcuna forma di aggregazione generale e su base nazionale dell’episcopato italiano. Né dal punto di vista concretamente operativo, né da quello formale.

Il primo elemento sopra richiamato non è certo stato ininfluente a giustificare l’idea che la presenza sul territorio italiano della S. Sede e di pontefici italiani ai vertici dell’intera cattolicità, cui si aggiungeva l’elemento fondamentale che il Papa pro-tempore era in ogni caso primate d’Italia, rendesse superflua (per taluni) o inopportuna (per altri) una strutturata organizzazione dell’episcopato nazionale italiano. Ma va sottolineato, a riguardo, come proprio gli ultimi papi di origine italiana (Giovanni XXIII e Paolo VI, tenuto conto della brevità del mandato di Giovanni Paolo I) abbiano contribuito in modo decisivo a porre fine alla situazione sopra descritta, favorendo l’istituzione di una vera e propria conferenza nazionale dei vescovi italiani. Ciò avverrà tuttavia a partire dalla fine anni Cinquanta e soprattutto dopo il Vaticano II, mentre per il ventennio che si estese dalla fine della seconda guerra mondiale alla metà degli anni Sessanta il ruolo svolto dai vescovi italiani all’interno della Nazione prolungò le caratteristiche che si erano venute delineando durante la fase storica precedente, con l’unica novità – significativa, ma che non rappresentava in sé la nascita di un effettivo organismo nazionale dei vescovi italiani analogo a quello operante negli altri Paesi – costituita dagli incontri più o meno annuali cui presenziarono dal 1952 i presidenti delle conferenze episcopali regionali.

Ben diverso naturalmente, rispetto al ventennio dominato dal regime fascista, era il contesto nel quale esplicare la propria funzione: sia in materia strettamente religiosa, che sociale, che latamente “politica”. Per quanto infatti gli accordi concordatari del 1929 conservassero il proprio effetto grazie all’art. 7 della Costituzione repubblicana, ci si trovava ora a operare in uno scenario formalmente democratico e politicamente pluralistico. In esso trovava di nuovo spazio (come già tra il 1919 e il 1926) un partito cattolico, mentre a livello degli equilibri internazionali, non ignorabili da un’Italia bisognosa di un forte sostegno economico esterno per la ricostruzione postbellica (quello che sarebbe poi venuto mediante lo statunitense Piano Marshall), occorreva assumere una chiara posizione nel quadro della “guerra fredda” che contrapponeva il blocco degli Stati occidentali a quello degli Stati comunisti raccolti attorno alla Unione Sovietica.

Foto 3 - I moderatori del Vaticano II

Soprattutto tra la fine degli anni Quaranta e per l’intero successivo decennio i vescovi italiani si trovarono dunque immersi in uno scenario dove lo schierarsi politico era pressoché inevitabile e le stesse linee e conseguenti azioni pastorali assumevano il carattere di orientamento ideologico della popolazione: in via diretta quando ci si trovava alla vigilia delle scadenze elettorali; in via indiretta, ma non per questo meno significativa, quando ci si impegnava nella elaborazione di iniziative volte al contenimento della contrapposta azione delle organizzazioni legate al PCI (il maggiore partito comunista attivo in uno Stato occidentale). Tanto che, nel clima esasperato di quegli anni, si pervenne in taluni specifici casi a dare la sensazione che rappresentanti dell’episcopato svolgessero una sorta di leadership politica supplente di quella, evidentemente ritenuta inadeguata, degli esponenti DC locali (tipico in tal senso il caso della Bologna del card. Giacomo Lercaro).

Con tali presupposti – riassumibili nella debole consuetudine a sentirsi parte di un unico grande organismo nazionale e con una forma mentis nutrita negli ultimi decenni prima dall’insidioso rapporto con il fascismo e poi dalla battaglia ideologica per il contenimento del comunismo – l’episcopato italiano si presentò al concilio senza poter esprimere in sede di elaborazione teologica un ruolo guida corrispondente al peso potenziale dato dall’essere sul piano numerico il maggior episcopato nazionale presente al Vaticano II. La leadership esercitata al suo interno dall’arcivescovo di Genova Giuseppe Siri, presidente dal 1959 dell’organismo che comprendeva i rappresentanti delle conferenze regionali, orientò poi gran parte dei vescovi italiani più verso le posizioni conservatrici vicine alla linea di taluni importanti dicasteri della Curia romana (emersero a riguardo le posizioni tra gli altri dell’arcivescovo di Palermo Ruffini, del vescovo di Segni Carli, dell’arcivescovo di Firenze Florit) che non a quella maggioranza conciliare che si coagulò – perlomeno nelle prime due sessioni conciliari – attorno agli episcopati del centro Europa. Ne fu un’emblematica conseguenza il fatto che una delle figure di presuli italiani destinata a svolgere in concilio un ruolo difficilmente sottovalutabile (quel cardinal Lercaro che condusse in porto la riforma liturgica e fece parte, come unico italiano, del collegio dei quattro moderatori conciliari istituito nel 1963 da Paolo VI) dovette quello stesso ruolo non tanto al riconoscimento dei propri colleghi italiani quanto a quello dei propri colleghi d’Oltralpe.

Dal postconcilio alla contemporaneità.

La condivisa esperienza conciliare, unita alla spinta in tal senso di Paolo VI, favorì in ogni caso l’approdo alla istituzione di una vera e propria conferenza nazionale dei vescovi italiani: sulla base di uno statuto dapprima provvisorio (1965) poi effettivo (1971). Si aprì con questo nuovo assetto istituzionale la stagione che poneva agli stessi presuli, quale inaggirabile priorità, la questione del come rapportarsi agli esiti del Vaticano II. Il problema si presentava sotto molteplici aspetti. Se da un lato infatti i documenti conciliari fornivano una serie piuttosto ampia di argomenti e auctoritates cui richiamarsi – ma ciò poteva avvenire, e di fatto avvenne, anche in termini più nominalistici che di sostanza -, dall’altro la vera discriminante era rappresentata dalla volontà, maggiore o minore, di recepire in modo profondo la spinta all’aggiornamento promossa dal Vaticano II. E ciò travalicava i confini della pura formulazione di richiami ai testi conciliari. Anche volendo infatti restringere la prospettiva al piano delle singole diocesi – e dunque non addentrandosi nel delicato tema ecclesiologico della collegialità episcopale – ciò abbracciava sul piano concreto l’attivazione dei nuovi organi diocesani previsti dall’assise conciliare (consiglio presbiterale e consiglio pastorale) e l’introduzione delle norme e fonti relative alla riforma liturgica, mentre su quello pastorale spingeva all’assunzione di linee coerenti con i princìpi riguardanti – tra l’altro – i rapporti con il mondo contemporaneo, il sacerdozio universale, le problematiche interconfessionali e interreligiose.

Di fronte a tale sfida l’episcopato italiano attraversò una prima fase postconciliare nella quale non mancarono forti sussulti, in parte prolungamento delle tensioni già emerse durante lo svolgimento del concilio e in parte frutto delle possibili vie alternative nell’applicazione dello stesso Vaticano II. Poi, verso la seconda metà degli anni Settanta e dunque all’avvicinarsi di quel 1978 che avrebbe anche rappresentato il concludersi della plurisecolare sequenza di pontefici italiani, si attestò su posizioni di recezione in chiave moderata del Vaticano II: realizzando infine, almeno in apparenza, quel processo di maggioritaria “montinizzazione” della Chiesa italiana al quale papa Paolo VI, secondo una data interpretazione storiografica, stava lavorando fin dagli anni trascorsi come sostituto nella Segreteria di Stato di Pio XII. Era una Chiesa italiana che, pur avendo acquisite una propria formale identità e organizzazione facente capo alla CEI, risultava tuttora vicinissima per sensibilità e ascolto alla S. Sede, teologicamente lontana dalle posizioni di frontiera (sia legate alla ricerca più spregiudicata, sia sensibili alle istanze anticonciliari del “lefebvrismo”), particolarmente incline a considerare la sfera politica nazionale come naturalmente soggetta all’orientamento da parte della gerarchia cattolica.

Foto 4 - Camillo Ruini

Rispetto a quest’ultimo punto, tradizionalmente centrale nella visione dei vescovi italiani operanti dal secondo dopoguerra in poi, si sarebbe registrato un imprevisto cambiamento di prospettiva a inizio anni Novanta: non per modifica della linea episcopale, costantemente legata al principio dell’unità politica dei cattolici, e nemmeno per le eventuali conseguenze della nuova stipulazione concordataria intervenuta nel 1984; bensì per il rapido sfaldamento della classe dirigente democristiana nel quadro delle indagini sul fenomeno chiamato “tangentopoli” e per la successiva frantumazione del partito cattolico in più entità (PPI, CCD, CDU). Tale inedita congiuntura, per di più inserita nel lungo pontificato di un papa come Giovanni Paolo II ben più lontano dalle problematiche italiane di quanto non fossero stati i suoi predecessori e da ultimo Paolo VI, ha inaugurato la stagione più recente. In essa l’episcopato nazionale, a lungo guidato dal card. Camillo Ruini, ha percorso un cammino nel quale vari fattori che in passato avevano guidato la coesione o anche il confronto si sono inesorabilmente allontanati: dalla centralità problematica ma indiscussa del concilio, all’univoca scelta in materia politica, alla perseguita guida di un sistema sociale che pur nelle sue tensioni interne appariva pur sempre rappresentativo di un quadro nazionale unitario. Nuovi e non sempre rassicuranti scenari si sono palesati negli ultimi anni: ponendo l’episcopato italiano ancora una volta di fronte al dilemma tra una più facile linea di vantaggioso adeguamento all’esistente e una meno facile scelta di libera espressione del proprio mandato pastorale.

Fonti e Bibl. essenziale

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Immagini:

1) Ritratto del vescovo Geremia Bonomelli (1831-1914), esponente di punta dell’episcopato “transigente” nazionale.

2) Consacrazione di edificio fascista da parte dell’arcivescovo Ildefonso Schuster (1880-1954).

3) Tre dei quattro cardinali “moderatori” del concilio Vaticano II: primo a sinistra l’italiano Giacomo Lercaro, con accanto il tedesco J. Döpfner e il belga L.J. Suenens.

4) Camillo Ruini, presidente della Conferenza episcopale italiana dal 1991 al 2007.


LEMMARIO




Eremitismo - vol. II


Autore: Mariano Dell’Omo

La seconda metà del sec. XIX. Nella prima metà dell’800 la congregazione di Monte Corona continuava a rappresentare in Italia il gruppo più solido della tradizione eremitica camaldolese, con i suoi eremi di Monte Corona, Todi, Monte Cucco, Fano, Frascati, Grotte del Massaccio presso Cupramontana (Ancona), Monte Conero. La legislazione eversiva del nuovo Stato unitario avrebbe tuttavia sferrato un duro colpo agli eremiti coronesi che perdevano così Fano, Massaccio e Monte Conero; soppressi furono anche i romitori di Montecucco e Todi e puntualmente quello di Monte Corona. Solo a partire dall’ultimo quarto del sec. XIX i Coronesi poterono riorganizzarsi dimorando dopo il 1873 nell’eremo di Frascati, in quello delle Grotte del Massaccio, a Fano, Todi, Montecucco. Nel frattempo essi poterono recuperare anche l’eremo di Monte Rua tra i Colli Euganei e quello di S. Giorgio sul Lago di Garda, entrambi perduti in seguito alle soppressioni napoleoniche, come pure i due eremi di S. Maria degli Angeli di Nola e del SS. Salvatore del Prospetto di Napoli. Anche gli eremiti di Toscana avevano subito gli effetti delle soppressioni, potendo restarne solo una dozzina nell’archicenobio di Camaldoli. Il nono centenario della morte di s. Romualdo (1927) trovava ancora esistenti le due congregazioni eremitiche di Toscana e Monte Corona e quella cenobitica di Fonte Avellana: fu l’ultima occasione per le tre famiglie camaldolesi di realizzare alcune iniziative in comune, prima della soppressione dei cenobiti ed unione agli eremiti di Toscana, decretata con la bolla Inter religiosos coetus del 2 luglio 1935. Contemporaneamente con la stessa bolla veniva istituita la nuova Congregazione dei monaci eremiti camaldolesi dell’Ordine di S. Benedetto «con una lettura rigida, e sul piano storico, alquanto sommaria della tradizione camaldolese, che era appiattita in modo enfatico quanto unilaterale sulla sola dimensione anacoretica» (Croce, I camaldolesi, 110).

Alla tradizione strettamente eremitica dei Coronesi appartengono attualmente il Sacro Eremo Tuscolano (Frascati), l’Eremo di S. Girolamo (Pascelupo, Perugia), e quello di Monte Rua (Torreglia, Padova). Il sec. XIX fa registrare anche altre esperienze di eremitismo, com’è il caso dei romiti del s. Rosario sotto la protezione di s. Romualdo (Rosarianti), istituiti nel 1840 da Giuseppe Benedetto Cottolengo, ma già dopo la sua morte (1842) non più vitali. Quanto all’Ordine certosino, la cui marcata impronta eremitica pure è mitigata da elementi di vita cenobitica, l’evento più significativo per la sua storia nella penisola all’inizio del secolo XX è la riapertura della certosa di Farneta (Lucca) fondata nel 1338, che riprese nuova vita ospitando la comunità della Grande Chartreuse, espulsa dal monastero e dal territorio francese il 29 aprile 1903. Attualmente delle certose maschili italiane restano in vita quelle di Farneta e Serra San Bruno (Vibo Valentia). Alle monache certosine appartengono invece la Certosa della Trinità (Savona) e quella di Vedana (Belluno).

Il sec. XX. Se il Codice di diritto canonico del 1917 in nessun canone disponeva circa la vita eremitica, quello del 1983 vi dedica invece il can. 603, ove si legge: «Oltre agli istituti di vita consacrata, la Chiesa riconosce la vita eremitica o anacoretica con la quale i fedeli, in una più rigorosa separazione dal mondo, nel silenzio della solitudine e nella continua preghiera, dedicano la propria vita alla lode di Dio e alla salvezza del mondo. L’eremita è riconosciuto dal diritto come dedicato a Dio nella vita consacrata se con voto, o con altro vincolo sacro, professa pubblicamente i tre consigli evangelici nelle mani del Vescovo diocesano e sotto la sua guida osserva la norma di vita che gli è propria». In questo modo la Chiesa universale riconoscendo finalmente sul piano dell’ordinamento giuridico la legittimità dell’eremitismo individuale ne attesta l’ampia diffusione, come emerge anche dalle più recenti indagini (Turina, I nuovi eremiti). La vita solitaria fiorisce sotto le più diverse forme: da quella tipica dell’anacoreta che si ritira in un luogo remoto, all’”eremitismo urbano”, vissuto in fedeltà al lavoro e alla preghiera nell’anonimato del deserto cittadino; dalla riproposizione in forma moderna dei gruppi di eremiti raccolti in uno spazio circoscritto, alla rilettura della vita di tipo certosino, sperimentata nel connubio di solitudine e comunità. Nella vita eremitica si registra dunque una nuova efflorescenza di esperienze tutte indistintamente animate dallo stesso desiderio di solitudine, che non è fine a se stesso ma unicamente mezzo per ottenere i frutti della contemplazione e della preghiera incessante, rivelando così la sua dimensione profetica nella storia della salvezza, sull’esempio di Mosè, Elia, Gesù nel deserto dopo il battesimo.

Questa varietà di forme e di esperienze è ben riflessa da alcuni esempi personali, in primo luogo quello di Suor Nazarena (Julia Crotta, †1990). Nata nel Connecticut (USA), laureata in letteratura, dopo diverse esperienze di deserto in Palestina, in un Carmelo negli Stati Uniti, finalmente nel 1945 approda nuovamente nel monastero camaldolese di S. Antonio Abate a Roma dov’era stata nel 1938-39 e qui è accolta come “reclusa” privata, secondo un regolamento benedetto dallo stesso papa Pio XII; nel 1953 emette quindi la professione solenne come monaca camaldolese, terminando la sua edificante vita di totale segregazione dal mondo nel 1990. Un altra notevole figura è quella di Adriana Zarri (†2011), teologa, scrittrice e testimone di amore alla Chiesa, che nel libro Erba della mia erba, edito per la prima volta ad Assisi nel 1981 per le edizioni Cittadella, racconta la sua esperienza di solitudine evangelica da una vecchia cascina del Canavese, in diocesi di Ivrea. Infine da segnalare la personalità di Carlo Carretto (†1988). Presidente centrale della Gioventù Italiana di Azione Cattolica (Giac) nel 1946, si dimette per motivi politici nel 1952 dal suo incarico di presidente della Giac e decide di entrare a far parte della congregazione religiosa dei Piccoli Fratelli di Gesù fondata da Charles de Foucauld; nel 1954 parte per il noviziato in Algeria e per dieci anni conduce vita eremitica nel Sahara; tornato in Italia nel 1965, dà vita a Spello in Umbria ad una nuova Fraternità di preghiera e di accoglienza, cui si aggiungono via via altre case sul monte Subasio trasformate in romitori, in uno dei quali, quello di S. Girolamo a Spello, il Carretto muore la notte del 4 ottobre 1988. Tra i casi di nuovi gruppi eremitici sviluppatisi nel sec. XX possono qui citarsi: le eremite di Campello sul Clitumno in diocesi di Spoleto, istituite nel 1926; l’Eremo del Magnificat a Perugia, pio sodalizio di “solitarie” canonicamente eretto nella diocesi di Perugia da mons. Raffaele Baratta il 27 maggio 1965; la famiglia monastica dei monaci di Betlemme, dell’Assunzione della Vergine Maria e di S. Bruno, il cui eremo è sulla cima del Monte Corona nei pressi di Umbertide (Perugia), cui si affiancano le monache di Betlemme del monastero Madonna del Deserto Monte Camporeggiano a Mocaiana (Gubbio, Perugia).

Fonti e Bibl. essenziale

G.M. Croce, I Camaldolesi nell’età contemporanea. Declino, metamorfosi e rinascita di un movimento monastico (1830-1950), in F.G.B. Trolese (ed.), Il monachesimo in Italia tra Vaticano I e Vaticano II. Atti del III convegno di studi storici sull’Italia benedettina, Badia di Cava dei Tirreni (Salerno), 3-5 settembre 1992 (Italia Benedettina 15), Centro Storico Benedettino Italiano, Cesena 1995, 87-141; G. Leoncini, L’Ordine certosino in Italia tra XIX e XX secolo, ibid., 271-289; E. Bargellini (ed.), Camaldoli ieri e oggi. L’identità camaldolese nel nuovo millennio, Ed. Camaldoli, Camaldoli 2000; E.L. Romano, Una spiritualità del deserto. Il progetto di vita degli eremiti di Bethlehem, San Paolo, Cinisello Balsamo (MI) 2000; I. Gargano, Camaldolesi nella spiritualità italiana del novecento, I-III, Ed. Dehoniane, Bologna 2000-2002; A. Barban – J.H. Wong (edd.), Come acqua di sorgente. La spiritualità camaldolese tra memoria e profezia, Ed. Dehoniane, Bologna 2005; I. Turina, I nuovi eremiti. La “fuga mundi” nell’Italia di oggi, Medusa, Milano 2007; A. Zarri, Un eremo non è un guscio di lumaca : erba della mia erba e altri resoconti di vita, Einaudi, Torino 2011.


LEMMARIO




Etica economica - vol. II


Autore: Giovanni Gregorini

Sotto il profilo sia storico che disciplinare l’economia nasce nell’ambito dell’etica, per cui di per sé essa è del tutto immersa e scaturisce dal discorso etico. Al punto tale che proprio la relazione tra etica ed economia è per molti versi centrale sin dalle trattazioni pre-moderne, ad esempio già in Aristotele con la sua etica delle virtù. In questo stesso senso le prime riflessioni complesse sul rapporto tra morale cristiana ed economia si possono far risalire ad importanti teologi come Tommaso d’Aquino, Bonaventura da Bagnoreggio, Anselmo d’Aosta, fino a Bernardino da Siena e Bernardino da Feltre nel corso del XV secolo.

Oggi i rapporti tra etica ed economia rappresentano l’argomento su cui si concentra un cospicuo agglomerato di ricerche interdisciplinari che coinvolgono l’economia, la filosofia, la teologia, ma anche altre discipline quali la sociologia, la psicologia, l’antropologia, la giurisprudenza, le scienze politiche. L’attenzione per i citati rapporti si è rafforzata in età contemporanea sia sotto il profilo strettamente scientifico, sia in relazione alle dinamiche, anche distorte, generate dal diffondersi dello sviluppo economico moderno, soprattutto nella sua ultima declinazione rappresentata dalla globalizzazione. La sensibilità crescente per il tema in generale ha riguardato e riguarda pure la Chiesa italiana, naturalmente intesa sia come gerarchia ecclesiale sia come comunità dei cristiani (singoli e istituzioni) presenti sul territorio e membri attivi della società nazionale.

Storicamente, a partire dal secondo Ottocento si affermava il contributo dei cattolici italiani rispetto al dibattito sullo spirito e quindi sulle origini morali del capitalismo. In questo ambito spiccava senza dubbio il pensiero di Giuseppe Toniolo (1845-1918), all’interno del quale si poteva individuare un nucleo centrale dedicato alla questione della matrice originaria dell’economia capitalistica. A fronte di una eccessiva e quindi indebita funzione del capitale, Toniolo riconosceva negli sviluppi del capitalismo ottocentesco una deformazione dell’economia di mercato per come doveva essere correttamente intesa e praticata, ovvero quella economia occidentale democraticamente orientata al perseguimento del bene comune i cui germi potevano essere individuati già nel Medioevo e quindi prima della Riforma protestante. Diversamente da Weber e Sombart, come pure capovolgendo la prospettiva interpretativa generale di Marx, Toniolo riteneva quindi fondamentale la disciplina morale cattolica nei rapporti economici per la configurazione di un capitalismo efficace, nel senso della valorizzazione del solidarismo attivo e della cooperazione, del raccordo tra la difesa dei diritti e il richiamo ai doveri, della salvaguardia soprattutto del primato della persona e del lavoro umano nei processi produttivi.

In questa direzione, pur con opportuni distinguo e specificazioni ulteriori, si muovevano successivamente anche Amintore Fanfani (1908-1999) e Francesco Vito (1902-1968), rispettivamente storico economico ed economista dell’Università Cattolica del Sacro Cuore. Mentre il primo riprendeva e sviluppava le intuizioni generali di Toniolo, il secondo approfondiva i rapporti etico-economici lavorando soprattutto perché il pensiero economico superasse definitivamente il principio in base al quale veniva identificata la scientificità dell’economia con la neutralità nei confronti dei giudizi etici: proprio l’economia, quale scienza dei mezzi, doveva invece essere subordinata all’etica, scienza dei fini. Dal canto suo, nel secondo Novecento italiano, anche Luigi Sturzo sviluppava una pungente riflessione sul tema in questione, ad esempio nel corposo saggio dedicato all’Eticità delle leggi economiche (1958).

Nel corso del XX secolo in maniera ineludibile si è concretizzato anche il confronto ecclesiale italiano con il Magistero sociale della Chiesa universale, il quale con gradualità ha inquadrato e sviluppato la questione generale del rapporto tra etica ed economia. La dottrina sociale della Chiesa infatti ha costantemente insistito sulla connotazione morale dell’economia sin dalle sue origini con l’enciclica Rerum novarum di Leone XIII (1891), ma in maniera ancor più nitida a partire dalla Quadragesimo anno di Pio XI (1931), laddove si osserva che “sebbene l’economia e la disciplina morale, ciascuna nel suo ambito, si appoggiano su principi propri, sarebbe errore affermare che l’ordine economico e l’ordine morale siano così disparati ed estranei l’uno all’altro, che il primo in alcun modo dipenda dal secondo” (n.41).

Successivamente è stata rimarcata la circostanza per la quale il rapporto tra morale ed economia è in verità necessario ed intrinseco, per cui attività economica e comportamento morale si compenetrano in maniera intima nella direzione indicata dalla costituzione pastorale Gaudium et spes del Concilio ecumenico Vaticano II (1965) (® Concilio Vaticano II): “anche nella vita economico-sociale occorre onorare e promuovere la dignità della persona umana e la sua vocazione integrale e il bene di tutta la società. L’uomo infatti è l’autore, il centro e il fine di tutta la vita economico-sociale” (n.63). Dal canto suo l’enciclica Populorum progressio di Paolo VI (1967) ha ampliato geograficamente la dimensione etica dell’economia internazionale richiamandone la responsabilità in termini di impegno cooperativo delle nazioni ricche per la crescita ed il progresso dei Paesi in via di sviluppo. Con la Sollicitudo rei socialis di Giovanni Paolo II (1986) si è mostrato altresì come la connotazione morale dell’economia faccia riconoscere l’efficienza economica e la promozione di uno sviluppo solidale dell’umanità come finalità non opposte bensì, al contrario, inscindibili. In base a questi principi l’attività economica per assumere un profilo morale deve individuare come soggetti principali tutti gli uomini e tutti i popoli. Oggetto dell’economia è quindi la formazione della ricchezza e il suo incremento progressivo, in termini sia quantitativi che qualitativi, formazione ed incremento che assumono una valenza morale se finalizzati allo sviluppo globale e solidale dell’uomo e della società. In questa prospettiva generale, in sintonia con la Centesimus annus di Giovanni Paolo II (1991), la dottrina sociale della Chiesa ha elaborato un equilibrato apprezzamento per l’economia di mercato, o economia libera, se posta al servizio della libertà umana integrale. Impregnata di cenni al rapporto tra etica ed economia – in forte continuità con la Populorum progressio di papa Montini – si rivela infine l’enciclica Caritas in veritate di Benedetto XVI (2009).

Come accennato in esordio, la questione dei rapporti tra etica cattolica ed economia capitalistica di mercato è diventata ampiamente oggetto di discussione soprattutto negli ultimi vent’anni, dopo una precedente fase invece più cadenzata in relazione ad una serie di eventi che coinvolgevano anche l’Italia: il “miracoloso” sviluppo industriale del secondo dopoguerra, la prevalente sensibilità ecclesiale per altri temi etici e morali, l’orientamento verso sistemi democratici ad economia mista con marcate suggestioni pianificatrici o comunque di incisivo spazio per l’intervento redistributore dello Stato. Con i primi anni Novanta, tuttavia, il forte indebitamento pubblico delle economie occidentali e la conseguente crisi del welfare, ma soprattutto la globalizzazione dell’economia mondiale successiva all’affermazione delle nuove tecnologie informatiche come pure agli eventi politici del 1989, hanno portato ad un rinnovato confronto con l’efficacia storica del capitalismo, in relazione anche a talune aperture in questo senso garantite dalla citata enciclica Centesimus annus e dalle elaborazioni proposte da autori quali Michael Novak. Un confronto che è diventato però sempre più critico nel corso degli anni, in relazione anche all’affermarsi di interpretazioni e prospettive quali quelle di Amartya Sen, come pure in particolare dopo l’emergere di taluni scandali finanziari a livello mondiale ma anche nazionale, ed altresì in rapporto all’emergere della grande depressione finanziaria del 2008, con il conseguente riaffacciarsi dei temi etici di fronte agli squilibri e agli scompensi del cosiddetto turbo-capitalismo contemporaneo (® Emigrazione-immigrazione).

A fronte di tutto ciò, in una prospettiva più interna, la Chiesa italiana ha anch’essa animato un dibattito sul tema specifico del rapporto tra etica e finanza mediante alcuni strumenti istituzionali, quali le riflessioni promosse dai competenti Uffici della Conferenza episcopale oppure nell’ambito delle Settimane sociali dei cattolici italiani, sia in sede di celebrazioni delle relative giornate di studio che di atti preparatori.

In questo senso giova segnalare il documento dei vescovi italiani del 1994, titolato Democrazia economica, sviluppo e bene comune, dove viene ribadito il costante insegnamento della Chiesa sul rapporto tra etica ed economia: “la necessità di un ordine morale nell’economia e in tutta la vita dell’uomo è un insegnamento costante della dottrina sociale cristiana. L’assenza di criteri morali, come attesta l’esperienza, è invece causa di molti mali economici e sociali” (n.10). In seguito l’Ufficio nazionale per i problemi sociali e il lavoro della Cei ha sviluppato a partire dal 1999 un’approfondita riflessione sul tema della relazione tra etica e finanza, giungendo alla pubblicazione di tre sussidi al riguardo: Etica e finanza, Finanza internazionale ed agire morale, Etica sviluppo e finanza, quest’ultimo pubblicato per i 40 anni dell’enciclica Populorum progressio. In tutti i documenti citati viene posta sotto osservazione l’evoluzione dell’economia internazionale in un senso globalizzante, richiamando costantemente l’importanza di riferimenti etici per l’azione degli operatori economici rispetto a temi cruciali come quelli della remissione del debito per i Paesi in via di sviluppo, della incontrollata diffusione di strumenti tecnici prevalentemente speculativi nell’ambito dei mercati finanziari, degli squilibri esistenti nell’evolversi dei caratteri dello sviluppo economico moderno a livello mondiale.

Giova poi anche solo rammentare l’importanza delle riflessioni presentate nell’ambito delle Settimane sociali, pure con riferimento agli incontri preliminari che molto spesso hanno coinvolto i temi del rapporto tra etica ed economia, specie nella circostanza della 44^ Settimana di Bologna del 2004 (La democrazia: nuovi scenari, nuovi poteri), della 45^ di Pistoia-Pisa del 2007 (Il bene comune: un impegno che viene dal lontano), della 46^ di Reggio Calabria del 2010 (Cattolici nell’Italia di oggi: un’agenda di speranza per il futuro del Paese), e della più recente svoltasi a Torino nel 2013 (Famiglia, speranza e futuro per la società italiana).

Di più, si è avuto modo di constatare ultimamente l’ulteriore moltiplicarsi degli interessi in Italia per l’argomento generale della relazione etica-economia sia per quanto concerne la divulgazione che per quanto riguarda la ricerca scientifica, con singolare attinenza alla riproposizione aggiornata e recente dell’economia civile.

Nel primo caso è doveroso ricordare la fitta serie di iniziative culturali promosse non solo in sede centrale, ma soprattutto sul territorio nazionale, dalle Acli, dal Mcl, dal Servizio nazionale per il Progetto culturale, dall’Università Cattolica del sacro Cuore ma anche da diverse università pontificie, statali e libere, da gruppi culturali come quello denominato “Cultura, etica e finanza”, ed altri ancora. D’altro canto insegnamenti esplicitamente riferiti alle questioni etiche in economia si stanno moltiplicando negli atenei italiani, come pure sono sorte alcune riviste specialistiche sull’argomento. Spiccano in tale direzione il contributo offerto dal ciclo di Seminari “Per un nuovo modello di sviluppo”, promosso dall’Università cattolica a Palermo, Napoli, Verona e Ancona nel corso del 2010, come pure gli esiti dell’XI Forum del Progetto culturale titolato “Processi di mondializzazione, opportunità per i cattolici italiani” (Roma, 30 novembre – 1 dicembre 2013) nell’ambito del quale la globalizzazione economica e sociale viene nitidamente individuata come sfida di natura anzitutto etica.

Certo è che, indubbiamente, a crescere è stato anche l’eclettismo degli approcci al tema generale, in presenza di declinazioni che affrontano l’argomento sotto i profili indicati in esordio, ma altresì riferendosi a quelli eco-ambientalistico, sanitario, giuslavoristico, politologico, della responsabilità sociale d’impresa, biblico.

Nel secondo ambito una feconda letteratura, che ha visto impegnati studiosi tra i quali mette conto segnalare almeno Stefano Zamagni e Luigino Bruni, ha rimarcato l’importanza dell’approccio cosiddetto dell’economia civile, ovvero della prospettiva di comprensione dell’economia come compendio di efficienza, equità e fraternità, alla ricerca del consolidamento di un ordine economico efficace, efficiente e rispettoso della dignità umana. Radicata nel pensiero economico dell’umanesimo cristiano, la visione dell’economia civile ritiene che i principi diversi dal profitto (solidarismo, gratuità, dono, reciprocità, relazionalità) possono trovare posto proprio dentro l’attività economica e il mercato, riuscendosi in questo senso a valorizzare quell’insieme di attività che va sotto il nome di non profit e terzo settore. L’orientamento è dunque quello volto alla promozione di istituzioni di welfare civile e di nuove forme d’impresa.

In questa medesima direzione spinge con energia anche la sopra citata enciclica sociale di papa Benedetto Caritas in veritate, che ha fortemente richiamato l’attenzione dei cattolici anche italiani sui temi del rapporto tra economia ed etica, con peculiare riferimento alle questioni dello sviluppo umano integrale contemporaneo, affermando tra l’altro che “la sfera economica non è né eticamente neutrale né di sua natura disumana e antisociale. Essa appartiene all’attività dell’uomo e, proprio perché umana, deve essere strutturata e istituzionalizzata eticamente” (n.35). D’altro canto, come ha recentemente affermato papa Francesco, la stessa opera di evangelizzazione correttamente intesa deve fare i conti con una sua propria, complessa e poliedrica, “dimensione sociale” (Esortazione apostolica Evengelii gaudium, capitolo quarto). Per cui, adottando conclusivamente le espressioni del filosofo Hernst-Wolfgang Bockenforde, “al posto di un invadente individualismo proprietario, che assume come punto di partenza e principio strutturante l’interesse acquisitivo dei singoli potenzialmente illimitato, dichiarato diritto naturale non sottoposto ad alcun orientamento sostanziale, devono subentrare un ordinamento normativo e una strategia d’azione che prende le mosse dall’idea che i beni della terra – ovvero la natura e l’ambiente, i prodotti del suolo, l’acqua e le materie prime – non spettano ai primi che se ne impossessano e li sfruttano, ma sono riservati a tutti gli uomini, per soddisfare i loro bisogni vitali e ottenere il benessere”. È questa un’idea-guida fondamentalmente diversa da quella che orienta l’attuale modello di capitalismo, diversa perché centrata sul principio etico della solidarietà tra gli uomini nel loro vivere insieme.

Fonti e Bibl. essenziale

E.W. Bockenforde – G.Bazoli, Chiesa e capitalismo, Morcelliana, Brescia 2010; B. Clavero, Antidora. Antropologìa catòlica de la economia moderna, Giuffrè, Milano 1991; Compendio della dottrina sociale della Chiesa, Libreria editrice vaticana, Città del Vaticano 2004; Dizionario di dottrina sociale della Chiesa. Scienze sociali e magistero, Vita e pensiero, Milano 2004; M. Magatti, Libertà immaginaria. Le illusioni del capitalismo tecno-nichilista, Feltrinelli, Milano 2009; G. Manzone, Il mercato. Teorie economiche e dottrina sociale della Chiesa, Queriniana, Brescia 2001; M. Novak, L’etica cattolica e lo spirito del capitalismo, Edizioni di comunità, Milano 1999; P. Pecorari, Alle origini dell’anticapitalismo cattolico. Due saggi e un bilancio storiografico su Giuseppe Toniolo, Vita e pensiero, Milano 2010; A.M. Petroni (ed.), Etica cattolica e società di mercato, Marsilio, Venezia 1997; G. Scanagatta, Sviluppo e bene comune: per un’economia non separata dall’etica e per un’etica fondata sull’inviolabile dignità dell’uomo, Libreria editrice vaticana, Città del Vaticano 2012; A. Sen, Etica ed economia, Laterza, Roma-Bari 1988; Servizio nazionale per il progetto culturale della Cei – Ufficio nazionale per i problemi sociali e il lavoro della Cei, Custodire il creato. Teologia, etica e pastorale, EDB, Bologna 2013; Servizio nazionale per il progetto culturale della Cei, Processi di mondializzazione. Opportunità per i cattolici italiani, EDB, Bologna 2013; A. Spampinato, L’economia senza etica è diseconomia. L’etica dell’economia nel pensiero di don Luigi Sturzo, Il sole 24 ore, Milano 2005; F. Totaro – B. Giovanola (ed.), Etica ed economia: il rapporto possibile, Edizioni Messaggero, Padova 2008; S. Zamagni, Economia ed etica. La crisi e la sfida dell’economia civile, La Scuola, Brescia 2009; S. Zamagni, L. Bruni, Economia civile. efficienza, equità, felicità pubblica, Il Mulino, Bologna 2004.


LEMMARIO




Europa - vol. II


Autore: Francesco Bonini

Ricevendo i partecipanti al secondo congresso dell’Unione Europea Federale a Castelgandolfo l’11 novembre 1948, Pio XII ha parole inequivocabili. Ricordando «gli sforzi che, da dieci anni in qua, Noi moltiplichiamo senza riposo in favore di una Unione europea», affermava: «Non c’è tempo da perdere. E se si vuole che questa Unione raggiunga il suo scopo, se si vuole che essa serva utilmente la causa della libertà e della concordia europea, la causa della pace economica e politica intercontinentale, è ormai tempo che si faccia. Anzi alcuni si domandano se non sia già troppo tardi». L’europeismo dei cattolici italiani si stava rapidamente sviluppando, in quell’arco di contiguità tra azione cattolica e democrazia cristiana che aveva caratterizzato tutto il passaggio costituente.

«Pur senza voler inserire la Chiesa nel groviglio d’interessi puramente terreni», come aveva detto in un altro pronunciamento, il 2 giugno, l’indicazione resterà univoca per i suoi successori nei decenni successivi, come per il vario mondo cattolico italiano.

In effetti solo nel secondo dopoguerra l’Europa diventa soggetto, da scenario ove si muovono gli Stati. In questo quadro si era collocato Benedetto XV, nella sua famosa allocuzione Dès le début del 1° agosto 1917, quando si era chiesto se «l’Europa, così gloriosa e fiorente, correrà, quasi travolta da una follia universale, all’abisso, incontro ad un vero e proprio suicidio». Non aveva mancato di ricordare la radice cristiana dell’Europa, che rappresenterà poi il filo rosso del magistero nella seconda metà del secolo: «Sappiamo dalla storia che, da quando la Chiesa pervase del suo spirito le antiche e barbariche genti d’Europa, cessarono un po’ alla volta le varie e profonde contese che le dividevano, e federandosi col tempo in una unica società omogenea, diedero origine all’Europa cristiana, la quale, sotto la guida e l’auspicio della Chiesa, mentre conservò a ciascuna nazione la propria caratteristica, culminò in una unità, fautrice di prosperità e di grandezza». Sarà questa la prospettiva su cui si muoverà il Partito Popolare e successivamente, con maggiore e lungimirante convinzione, Luigi Sturzo, che, negli anni dell’esilio, contribuirà a sviluppare le prime linee di una solidarietà internazionale democratico-cristiana, assecondando le prime idee federaliste, secondo uno schema che giocherà un ruolo di riferimento molto importante nel secondo dopoguerra.

Emergono qui due temi, quello della riunificazione dell’Europa e delle sue radici cristiane, che scandiscono gli anni del secondo dopoguerra, orientano il mondo associativo, cominciano a socializzare una classe dirigente e nello stesso tempo permettono di superare quelle posizioni neutraliste e terza forziste che si erano manifestate anche nel mondo cattolico a proposito dell’adesione all’Alleanza Atlantica.

Ricevendo il Collège d’Europe di Bruges il 15 marzo 1953 e poi nel radiomessaggio natalizio di quell’anno Pio XII sottolineava appunto l’esigenza di fondare l’unità europea, attraverso un ritorno alla vocazione civilizzatrice cristiana, su valori spirituali comuni, che soli avrebbero permesso all’Europa di mantenere la propria indipendenza materiale e l’integrità dei propri ideali. Non si tratta peraltro di posizioni espresse solo agli esponenti europei, ma più volte ripetute, anche negli incontri con il mondo cattolico italiano, a partire dall’Azione cattolica. La comune percezione è appunto quella di una forte iniziativa democratica e cristiana per le istituzioni europee, che si sostanzia nei tre protagonisti cattolici Schumann, Adenauer e De Gasperi. Contemporaneamente la dimensione europea è concretamente rappresentata dalla ripresa dell’emigrazione italiana, in particolare in Belgio e Germania, che comporta anche una significativa presenza della Chiesa e delle associazioni, in particolare per la tutela dei lavoratori. Nel 1965 le competenze sull’assistenza ai migranti, con le missioni italiane, viene trasferita dalla S. Sede all’appena costituita Conferenza episcopale italiana.

In stretta connessione con l’indirizzo pontificio, l’apertura europea insomma rappresenta un dato strutturale nella Chiesa italiana, puntualmente interpretato anche dalla Democrazia cristiana. I cattolici insomma condividono, forse con una maggiore consapevolezza culturale diffusa, quell’europeismo che, stemperatasi la guerra fredda e avviato il cosiddetto eurocomunismo, caratterizzerà in modo praticamente unanimistico, anche se piuttosto superficiale, l’opinione pubblica italiana.

D’altra parte la piena condivisione del processo di sviluppo delle istituzioni e dello spirito comunitario non preclude l’attenzione anche alla cosiddetta “chiesa del silenzio”, al di là della Cortina di ferro, che si sostanzia in molteplici rivoli di aiuti e di contatti, che continuano specialmente con la Polonia e coinvolgono moltissime parrocchie, associazioni e movimenti.

In realtà il riferimento all’Europa non è solo legato agli aspetti politico-istituzionali ed ideali della prospettiva comunitaria. Implica il rapporto dell’Italia – e dunque della chiesa italiana – con i Paesi che si trovano più “avanzati” nei processi di secolarizzazione e di modernizzazione, tra cui, nell’ambito comunitario, in particolare Francia ed Olanda. Questo tema emerge con particolare evidenza negli anni del Concilio e della sua attuazione. In questo senso spicca il ruolo della cultura francese, nella critica e la destrutturazione della cosiddetta “cristianità”. La cultura cattolica italiana sembra da questo punto di vista scontare una certa “minorità”. Anche la partecipazione italiana ai due strumenti di coordinamento episcopale, il Consiglio delle Conferenze Episcopali Europee (CCEE), istituito nel 1971sull’esempio della Conferenza Latino-americana e riorganizzato nel 1992 e la Commissione degli Episcopati delle Comunità Europee (Com.E.C.E), creata nel 1980, dopo la prima elezione a suffragio universale del parlamento europeo, per seguire le politiche comunitarie, da principio è stata piuttosto periferica, sviluppandosi in tutte le sue potenzialità soltanto a partire dagli anni Novanta.

Nel corso degli anni settanta peraltro i processi di secolarizzazione in diversi paesi dell’Europa occidentale giungono alle conseguenze più visibili ed emergono contemporaneamente gli elementi di una certa “diversità” del percorso italiano, caratterizzato da due elementi in particolare, il radicamento popolare della religiosità e il legame con il Papa.

Sono due elementi che, anche in prospettiva europea, paradossalmente prendono vigore, e di cui la stessa chiesa italiana assume più matura consapevolezza nel corso degli anni Ottanta, con l’elezione di Giovanni Paolo II, il cui avvento è salutato con grande partecipazione. Il Papa non italiano, ma europeo, anche se di una Europa allargata, ma chiusa, introduce due elementi di sviluppo dell’idea e degli orizzonti europei, da un lato l’idea dei “due polmoni” di un’Europa che intende oltre la cortina di ferro, dall’altro l’appello alla responsabilità della chiesa italiana nei confronti delle altre chiese europee, sia quelle di cristianità in crisi, sia quelle del’Europa centro-orientale ritornate in regime di libertà.

Sollecita insomma a ribaltare un atteggiamento culturale del cattolicesimo italiano nei confronti di quelli transalpini.

Ripristinate le Settimane sociali, sospese nel 1970, la CEI decide di dedicare la prima convocazione, che si tiene a Roma nell’aprile 1991, al tema I cattolici italiani e la nuova giovinezza dell’Europa. L’iniziativa peraltro precede di pochi mesi l’Assemblea speciale per l’Europa del Sinodo dei Vescovi. Alla luce della caduta della cortina di ferro in quell’occasione viene riaffermata una ottimistica lettura del processo di integrazione politica, alla luce delle ribadite radici cristiane, che sono al centro del dinamismo dei viaggi in Europa del Papa, in particolare quello a Santiago di Compostela del 9 novembre 1982, che rappresenta una solenne dichiarazione di nuova prospettiva europea, seguito dalle celebrazioni della Giornata mondiale della Gioventù, che comporteranno una concreta esperienza giovanile di percorsi europei. Il consenso sulle tematiche europee, che si accentua anche nella chiesa italiana dopo la caduta del comunismo, rilancia anche le prospettive ecumeniche, che l’orizzonte europeo ha sempre evocato e ormai si aprono concretamente anche all’ortodossia. Nella prospettiva della “riunificazione” dell’Europa costante è l’appoggio alle proposte di allargamento dell’Unione.

Nuove sollecitazioni vengono poste anche dall’avvio delle migrazioni verso l’Italia provenienti dall’ex – Europa comunista, dalla Polonia alla Romania all’Ucraina, che comportano l’intensificarsi di rapporti con la chiesa ortodossa, per l’assistenza degli immigrati.

Alla fine dell’ultimo decennio del XX secolo il ragionamento si fa più articolato. Anche il Progetto culturale, avviato dalla CEI nel 1997, mette immediatamente a tema l’Europa, cui dedica il secondo forum, il primo tematico. Come traspare dal titolo: L’Europa sfida e problema per i cattolici, si avverte la consapevolezza che la caduta della cortina di ferro implica il protagonismo e una ri-articolazione dell’Europa, che aveva trovato nell’indicazione della “nuova evangelizzazione”, la sua declinazione pastorale. Viene infatti notata una certa “bivalenza” dei processi di integrazione e la necessità di sviluppare un dialogo interculturale non eurocentrico, ma nemmeno agnostico o relativistico rispetto agli elementi di identità: in questo senso maggiore attenzione viene posta ai fenomeni di secolarizzazione, in particolare per quanto riguarda la famiglia.

L’ultima fase del pontificato di Giovanni Paolo II si intreccia con i lavori di una Convenzione per la redazione di quella che viene impropriamente ma suggestivamente indicata come una “costituzione europea”. Il sostanziale consenso che accompagna questo processo non impedisce alla Chiesa italiana, seguendo la precisa indicazione del Papa, di porre il problema dell’identità. In un duplice senso, quello dell’affermazione della radice cristiana dell’Europa, e del riconoscimento della soggettività istituzionale delle Chiese. Viene sottolineata anche la necessità della tutela delle identità (cristiane) dei differenti popoli, in particolare in relazione alle questioni legate alla vita ed alla famiglia.

L’Europa in ogni caso, rileva il successore di Giovanni Paolo II, anch’egli non italiano, diventa un terreno di ri-evangelizzazione, ma anche di sviluppo di un’idea di “laicità aperta”. In un discorso alla CoMeCe per il 50° dei trattati di Roma, il 24 marzo 2007 Benedetto XVI rileva che «l’Europa sembra incamminata su una via che potrebbe portarla al congedo dalla storia», ove il dato demografico diventa emblematico di un rischio generale, esortando allora ad una presenza attiva per una nuova Europa, «realistica ma non cinica, ricca d’ideali e libera da ingenue illusioni, ispirata alla perenne e vivificante verità del Vangelo».

Fonti e Bibl. essenziale

D. Preda, Alcide De Gasperi, federalista europeo, Il Mulino, Bologna 2004; P. Conte, I Papi e l’Europa, Elledici, Torino 1976; M. Spezzibottiani (ed.), Giovanni Paolo II profezia per l’Europa, Piemme, Casale Monferrato 1999; L. De Gregorio (ed.), Le confessioni religiose nel diritto dell’Unione Europea, Il Mulino, Bologna 2012.


LEMMARIO




Evangelizzazione - vol. II


Autore: Gianni Colzani

Il 17 marzo 1861, sulla base della legge n. 4671 del Regno di Sardegna approvata dalla Camera dei Deputati, il re Vittorio Emanuele II proclama ufficialmente la nascita del regno d’Italia assumendo il titolo di re per se stesso e per i suoi successori. Questo atto era la conclusione di un cammino di alcuni decenni nel quale si erano confrontate opinioni che pensavano l’unità tra stati profondamente diversi in termini di federalismo ed altre che puntavano sul Regno di Sardegna in termini obiettivamente espansionistici.

Di fatto la società italiana arrivava all’unità segnata profondamente sia dall’esperienza di governi rivoluzionari sia dalla problematica della restaurazione. Da una parte l’ideologia liberale aveva riconosciuto la libertà e l’uguaglianza dei cittadini quali criteri ispirativi dell’organizzazione di uno stato laico ma, dall’altra, la restaurazione aveva riaffermato una forte centralizzazione del potere esecutivo cercando di porre anche limiti all’autonomia dell’ordine giudiziario. Il Codice napoleonico e, più in genere, la legislazione francese avevano largamente influenzato la legislazione di molti stati preunitari ed, in particolare, quella del Regno di Sardegna. Il primo Codice civile del Regno d’Italia, quello del 1865, ne resterà largamente segnato.

Su questo sfondo, sono di particolare interesse i rapporti tra lo Stato unitario e la Chiesa. L’unificazione dell’Italia conoscerà pure la progressiva estensione a tutte le regioni italiane delle Leggi Siccardi; approvate il 9 aprile 1850 per il regno sabaudo, queste leggi si ispiravano alla convinzione che la pienezza del potere statale e l’esercizio della giurisdizione civile e penale sulle persone e sulle cose appartengono alla sovranità dello Stato; di conseguenza regolavano unilateralmente i rapporti tra Chiesa e Stato delimitandone in modo autonomo diritti e funzioni nell’ambito sociale.

Una simile scelta aveva profonde ricadute su diversi aspetti che andavano dai privilegi del foro ecclesiastico all’ambito matrimoniale, dal riconoscimento giuridico delle congregazioni religiose alla liquidazione del loro patrimonio. I rapporti tra la Chiesa e lo Stato furono autonomamente decisi dallo Stato italiano con il Codice di diritto civile del 2 aprile 1865 e con la legge Ferraris sulla “soppressione di enti ecclesiastici e la liquidazione dell’asse ecclesiastico” del 15 agosto 1867. Dopo la breccia di Porta Pia del 1870 e l’insediamento del Governo italiano a Roma, vennero completati con la legge delle Guarentigie del 1871, respinta da Pio IX. I rapporti tra la Santa Sede e lo Stato italiano peggiorarono ulteriormente con l’enciclica Ubi nos (1871) nella quale il Pontefice ribadiva l’inseparabilità del potere spirituale del papa da quello temporale e, soprattutto, con il non expedit (1874-1919) che impediva la partecipazione dei cattolici alla vita politica.

La valutazione di questi dati non è semplice. Lo sfondo è rappresentato dal progressivo superamento dell’ancien régime, fondato su una alleanza tra il trono e l’altare; era una rivoluzione sociale e politica non innocua che puntava su una separazione tra Stato e Chiesa e che aveva avuto in Piemonte una realizzazione segnata da punte anticlericali. Il mondo cattolico, in larga parte non ostile all’unificazione del paese, guardava con preoccupazione le modalità con cui veniva di fatto realizzata cogliendovi sia un progetto globale ispirato da tesi giacobine e anticlericali sia una pretesa volta a condizionare la missione spirituale del papato rendendolo suddito di una nazione. Di per sé riguardanti l’intera cristianità, queste preoccupazioni pesarono in modo particolare sul mondo italiano. La prima, di stampo culturale e generale, troverà espressione nell’enciclica Quanta Cura e nel Syllabus seu Collectio errorum, entrambi editi l’8 dicembre 1864. La seconda, più nota come “questione romana”, riguardava la problematica delle condizioni specifiche circa la realizzazione della missione spirituale della Chiesa e del papato; per quanto importante per l’intera cristianità, sarà lasciata in carico al mondo italiano e troverà soluzione solo con il Concordato del 1929.

Collocare l’evangelizzazione dell’Italia in questo contesto significa collocarla nel quadro di una tensione tra conciliatoristi e intransigenti, di una “distanza” tra paese legale e paese reale dato il numero scarso di elettori, di un rapporto problematico tra Nord e Sud e di una diffidenza tra cittadini e istituzioni. Si può parlare di evangelizzazione dell’Italia perché, nonostante tutto, i cattolici continuarono a sentirsi italiani a tutti gli effetti e perché la presenza cattolica nel paese rimase profonda e attiva.

L’evangelizzazione come valorizzazione del mondo laicale e del clero parrocchiale. La soppressione di molti ordini religiosi, il decadimento delle confraternite, il bisogno di un nuovo rapporto con una società in profondo cambiamento generarono un raccogliersi del mondo cristiano sulla sua identità profonda, sul suo rapporto con la propria base; nasce così un movimento religioso e sociale che riscopre nei fatti una partecipazione reale alla storia di un popolo, nonostante una emarginazione ufficiale dall’impegno politico. Nasce così un movimento nazionale, popolare e socialmente attivo, espressivo di larga parte del paese anche se presente ovunque con la stessa incidenza. Nel 1874 nasce a Venezia l’Opera dei Congressi. L’insieme di questo periodo, pur nei limiti di un certo isolamento, va considerato un periodo globalmente positivo; chi voleva ridurre la Chiesa al puro ambito religioso si trova a dover fare i conti con il fatto che la fede – sale della vita cristiana – è inseparabile dalla vita familiare e sociale; esclusa da ruoli di potere, la Chiesa riscopre insospettate capacità missionarie.

Si inserisce qui una relativa valorizzazione del laicato; l’attenzione alla società civile come ambito dell’attività apostolica del laico rappresenta un dato di esperienza che contribuisca a formare un clima culturale impegnato a superare il tradizionale atteggiamento di spiegazione e difesa della struttura societaria e gerarchica della Chiesa, tipica dell’ancien régime; i teologi del collegio romano – G. Perrone, C. Passaglia e J.B. Franzelin – offrono una prima presentazione della Chiesa come societas fidelium o Corpo di Cristo che sarà però rifiutata al Vaticano I. Riferendosi a dibattiti teologici dei primi Congressi mondiali per l’apostolato dei laici – Roma ottobre 1951; Roma ottobre 1957 – con ragione A. Acerbi osserverà che «ciò che preme non è tanto di comprendere la posizione dei laici in rapporto alla chiesa e al mondo, ma di definire la loro situazione rispetto alla gerarchia, per salvaguardare la funzione di questa». A maggior ragione sono osservazioni pertinenti a questo punto della storia. Il nodo teoretico è dato dal ripensamento della storia della salvezza e del ruolo delle persone divine entro il quadro metafisico dell’incarnazione: la Chiesa viene vista come la realtà umana che sta di fronte a Cristo ed ai suoi poteri gerarchicamente partecipati.

In questo compito, la pastorale parrocchiale assume un ruolo centrale. Se già la riforma napoleonica aveva fatto della parrocchia il luogo centrale della cura pastorale e della vita religiosa, la soppressione di molti ordini religiosi, la chiusura di conventi e luoghi di culto completeranno questa spinta: la parrocchia diventa l’esclusivo luogo di culto e di formazione cristiana della popolazione. Anche là dove questo non avverrà che parzialmente, l’influenza del clero regolare rispetto a quello secolare verrà drasticamente diminuita. Questo disegno era favorito dalla diffusione capillare, urbana e contadina, di queste strutture: all’indomani dell’unità d’Italia, il numero delle parrocchie superava di poco le 20.500 unità, con marginali differenze tra i diversi autori. Non mancavano problemi a proposito della loro personalità giuridica, dei beni ad esse assegnati e della loro rappresentanza legale; soprattutto restava difficile ogni generalizzazione perché deve in ogni caso fare i conti con il ruolo centrale che i parroci rivestono nelle scelte pastorali e socio-assistenziali di questi istituti. Grossomodo si può comunque dire che i parroci, in quanto titolari di un supplemento di congrua in base ad una legge del 1866, assumevano la duplice veste di pastori d’anime e di funzionari pubblici; trova così conferma quel ruolo educativo di formazione morale, in parte affine alla problematica dell’evangelizzazione.

Strumenti fondamentali di questa evangelizzazione parrocchiale furono la predicazione e il catechismo. La predicazione è stata lo strumento principale per la comunicazione della fede; rivolta a tutti, ha rappresentato la prima elementare forma di conoscenza religiosa e di concreto orientamento morale. La religiosità popolare rappresentava una occasione per intensificare questa genere di comunicazione: tridui, novene, quaresime, quarantore alimentavano la pietà popolare arricchendola con apposite predicazioni. Di fatto non mancano nemmeno testi sulla predicazione ma, più che approfondirne il senso ed il valore, sono ricchi di consigli per invitare alla semplicità di linguaggio, alla concretezza delle attualizzazioni, alla personalizzazione del discorso tramite esempi o fatti, evitando un linguaggio sacralizzato e formulistico. Non mancano tuttavia risultati di grande rilievo comunicativo: basta pensare alle Istruzioni e ai Discorsi del Cafasso, alla predicazione di don Bosco ai suoi ragazzi o, più semplicemente, alle prediche di L. Marchelli recuperate nell’Archivio storico diocesano di Pavia.

Una attenzione particolare va poi riservata alle Missioni, una sorta di intensificazione della predicazione a cui si dedicano diversi ordini religiosi. Abbandonata un’oratoria ampollosa, si torna ad insistere sul fine della vita e la salvezza dell’anima, sui comandamenti e sul peccato, sui sacramenti e sulla rinnovazione dei voti battesimali, sulla morte e sui novissimi, sulla passione di Cristo e sulla Chiesa che ne continua l’opera. Alla predicazione classica si aggiungono conversazioni dialogate per studenti, operai, professionisti, si dà rilievo alle Associazioni e alle Confraternite del SS. Sacramento e alle Conferenze di S. Vincenzo de’ Paoli; si cerca cioè di adeguarsi alle condizioni reali tramite un impegno volto non solo a raggiungere i fedeli ma a recuperare un rapporto con i lontani ed a contrastare uno spirito laicista.

La seconda forma di evangelizzazione parrocchiale, oltre alla predicazione, è rappresentata dal catechismo. Va inteso sia come l’insieme delle verità di fede da trasmettere ai fedeli, sia come il momento di incontro tra il parroco ed i suoi fedeli sia ancora come il testo preparato per facilitare questa comunicazione. Il catechismo rappresenta un momento fondamentale della pastorale di evangelizzazione in quanto essenziale per la ricostituzione di quel quadro religioso-sociale, di ampio significato umano, che era stato travolto dai moti rivoluzionari. In un momento in cui la fede è sfidata da più parti nel nome della ragione, la catechesi accentua sia la dimensione apologetica sia la presentazione sistematica della fede insistendo sulla razionalità come criterio interno alla stessa fede. In pratica il catechismo è una sintesi di teologia.

Questo spiega la concreta comunicazione della fede di questo periodo: più che di evangelizzazione si deve parlare di catechismo; l’incontro del catechista con le persone, soprattutto ragazzi, è marcato dallo sforzo di far imparare a memoria le risposte del formulario, limitando la spiegazione al loro significato. In poche parole, per non essere inutile o pericolosa, la spiegazione deve essere chiara e, a questo scopo, utilizza un linguaggio tecnico calato in formule da imparare a memoria che salvaguardino la precisione dottrinale. Basta pensare al Catechismo di Pio X: sia al Catechismo maggiore (1905) sia al più noto Catechismo della dottrina cristiana (1912) che ne sono un chiaro esempio. Ne viene una catechesi che G. Bedouelle vedrà segnata da una “deriva razionalizzante” a cui si può anche aggiungere una “deriva moralizzante” per indicare lo spazio eccessivo dato ai comandamenti ed ai precetti della Chiesa. Poche persone sfuggono a questa logica; per lo sforzo di attenzione ai destinatari, si possono ricordare le figure di san Giovanni Bosco, di G.B. Sacalabrini e G. Bonomelli. Scalabrini in particolare è all’origine di un inizio di “movimento catechistico”: a lui dobbiamo la rivista Il catechista cattolico (1876), il manuale Il catechismo cattolico (1877) ed il primo Congresso catechistico nazionale. Tenuto a Piacenza (1889), vedrà una sorprendente serie di indicazioni che vanno dalla proposta di una catechismo storico, biblico e cristocentrico, alla trattazione della catechesi degli adulti, alla presa d’atto del cambio religioso e culturale allora in atto e alla richiesta di una migliore preparazione catechistica nei seminari.

Tra le due guerre: la centralità della pedagogia e dell’associazionismo. Il periodo tra le due guerre è un periodo segnato da notevoli cambiamenti: il modernismo con il suo ricorso alla ragione e alla storia per la ricerca della verità e per il suo successivo approfondimento; il dramma della prima guerra mondiale con il conseguente imporsi di una svolta: l’esistenzialismo in filosofia e la teologia dialettica come recupero della fede al di là della cultura; l’affermarsi del fascismo ed il confronto tra la Chiesa italiana ed un regime totalitario; la seconda guerra mondiale e l’imporsi di una visione mondiale non più eurocentrica.

Nonostante questo contesto, l’evangelizzazione sembra dominata dalla gestione della vita cristiana, in particolare dal come introdurre le giovani generazioni nella vita cristiana. Questo avveniva attraverso i riti della iniziazione cristiana che legavano sacramentalmente il dinamismo della Pasqua, della morte e risurrezione di Gesù, alla fede personale di chi lo accoglieva. Purtroppo l’organicità di questo processo si era ormai sciolta con l’introduzione del battesimo dei bambini, la separazione tra battesimo e cresima e la collocazione dell’Eucaristia all’età della ragione. Si era creato così un distacco tra le ragioni della prassi ecclesiale ed il cammino reale delle persone; l’iniziazione alla fede e alla preghiera, alla vita morale e alla pratica cristiana era affidata alle famiglie; in un secondo momento interveniva la parrocchia con un ruolo di verifica e di approfondimento. In genere lo faceva in occasione dei sacramenti che diventavano un momento di controllo del cammino cristiano dei ragazzi.

È facile pensare che i cambiamenti intervenuti nel quadro culturale e sociale dell’Italia post-unitaria abbiano inciso non poco sul modo di pensare, sui comportamenti e sugli stili di vita degli italiani. Si fa così strada il bisogno di una evangelizzazione sapiente in grado cioè di rendere ragione del valore cristiano, umano e sociale della fede. L’evangelizzazione assume al proprio interno la pedagogia, la sida educativa, condividendola con le famiglie. Ne viene un riassestamento della religiosità collettiva che, pur mantenendo i cardini della pastorale sacramentale tradizionale – battesimo, matrimonio, funerali – valorizza l’associazionismo come particolarmente adatto a completare la formazione ed a sostenere la vita cristiana In una linea catechistica e devozionale, particolare attenzione sarà riservata alle confraternita del SS. Sacramento, alle Conferenze di S. Vincenzo de’ Paoli ed all’associazionismo mariano.

Una menzione particolare va riconosciuta all’Associazione scout cattolici italiani (Asci) e all’Associazione guide italiane (Agi) che sorgono entrambe nel 1916, a pochi mesi di distanza l’uno dall’altra per opera del conte Mario Gabrielli di Carpegna; sciolti tra il 1927-1928 per lasciar spazio alle sole organizzazioni fasciste, rinasceranno nel 1946 dopo la liberazione. Tuttavia sarà soprattutto l’Azione Cattolica il movimento che, incarnando la pedagogia ecclesiale, svilupperà l’impegno apostolico dei laici. L’Azione Cattolica sorge dalle ceneri dell’Opera dei Congressi, sciolta da Pio X nel 1904 a causa di contrasti interni; nell’ambito dell’apostolato laicale si apriva così un vuoto che esigeva di essere colmato.Nel 1905 lo stesso Pio X indirizzava ai vescovi italiani l’enciclica Il fermo proposito con la quale istituiva l’Azione cattolica che, «poiché si propone di ristorare ogni cosa in Cristo, costituisce un vero apostolato ad onore e gloria di Cristo stesso».

I compiti che il Papa assegnava alla nuova istituzione erano soprattutto di difesa della fede: si trattava di «combattere con ogni mezzo giusto e legale la civiltà anticristiana; riparare per ogni modo i disordini gravissimi che da quella derivano; ricondurre Gesù Cristo nella famiglia, nella scuola, nella società; ristabilire il principio dell’autorità umana come rappresentante di quella di Dio» ma si trattava anche di «prendere sommamente a cuore gli interessi del popolo e particolarmente del ceto operaio ed agricolo, non solo istillando nel cuore di tutti il principio religioso, unico vero fonte di consolazione nelle angustie della vita, ma studiandosi di rasciugarne le lacrime, di raddolcirne le pene, di migliorare la condizione economica con ben condotti provvedimenti».

La metodologia indicata era quella che esprimeva la migliore pedagogia cattolica; per compiere il bene, «ci vuole la grazia divina, e questa non si dà all’apostolo che non sia unito a Cristo. Solo quando avremo formato Gesù Cristo in noi, potremo più facilmente ridonarlo alle famiglie, alla società». Altre associazioni si aggiungono ben presto: nel 1908 sorge l’«Unione fra le Donne Cattoliche Italiane» e poco dopo, nel 1909, ha origine l’«Unione Elettorale Cattolica Italiana»; nel 1918 infine, all’interno dell’Unione Donne, A. Barelli darà vita alla «Gioventù Femminile di Azione Cattolica». Nel 1923, gli statuti dell’Associazione, approvati da Pio XI, organizzeranno l’Azione Cattolica in quattro rami: la Federazione italiana uomini cattolici, la Unione femminile cattolica italiana, la Federazione universitaria cattolica italiana e la Società gioventù cattolica italiana.

Lo scontro tra l’Azione cattolica e la sua logica di formazione e di vita e le organizzazioni fasciste non poteva mancare. Nel 1928 il regime decreta lo scioglimento di tutte le associazioni per affermare il monopolio di quella fasciste; la reazione del Vaticano obbligherà il governo a tornare sui suoi passi; l’articolo 43 del Concordato del 1929 riconoscerà la legittimità delle organizzazioni di Azione Cattolica e precisava che devono svolgere «la loro attività al di fuori di ogni partito politico e sotto l’immediata dipendenza della gerarchia della Chiesa per la diffusione e l’attuazione dei principî cattolici».

In realtà lo scontro era solo rimandato: non poteva tardare. L’Azione Cattolica, con 5000 sedi sparse in tutta Italia, aveva una influenza formativa e svolgeva una serie di iniziative sociali, culturali e sportive oltre che religiose che il regime non poteva tollerare. Lo scontro avverrà nel 1931 quando, dopo una serie di provocazioni e di violenze, il 29 maggio uscirà il decreto di scioglimento dell’Azione Cattolica: tutti i circoli dell’Associazione saranno sequestrati dalla polizia. La risposta della Chiesa sarà l’enciclica Non abbiamo bisogno, datata 29 giugno; con questo documento Pio XI richiama la vera libertà di coscienza, non traducibile in una indipendenza della coscienza da Dio e in un rifiuto del diritto/dovere della Chiesa di attenersi agli insegnamenti di Cristo. Il pontefice bolla con chiarezza la pretesa «di monopolizzare interamente la gioventù, dalla primissima fanciullezza fino all’età adulta, a tutto ed esclusivo vantaggio di un partito, di un regime, sulla base di una ideologia che dichiaratamente si risolve in una vera e propria statolatria pagana non meno in pieno contrasto coi diritti naturali della famiglia che coi diritti soprannaturali della Chiesa». Da qui la conclusione che una concezione dello Stato «che gli fa appartenere le giovani generazioni interamente e senza eccezione dalla prima età fino all’età adulta, non è conciliabile per un cattolico colla dottrina cattolica»; non è accettabile «pretendere che la Chiesa, il Papa, devono limitarsi alle pratiche esterne di religione (Messa e Sacramenti), e che il resto della educazione appartiene totalmente allo Stato». Da qui la conclusione che il giuramento di fedeltà al duce non è lecito ai cattolici.

Negli ultimi anni del regime, la vita dell’Associazionismo cattolico sarà di conseguenza molto difficile; riuscirà comunque a mantenere una capacità formativa dei capi così che potrà rinascere nel dopoguerra. Le sue caratteristiche sono il legame con la Chiesa locale e il territorio: questo legame assume il valore teologico di una chiamata per testimoniare e diffondere la fede, una chiamata a portarne la responsabilità. L’essere movimento di laici, in un simile contesto teologico, rimanda ad una responsabilità per il bene della vita di tutti, in un crescendo di umanità, declinando in concreto la dimensione religiosa di quanto è profondamente umano; l’essere poi un movimento ecclesiale implica saper offrire la proposta della Chiesa stessa come proposta in grado di maturare il cammino di ciascuno valorizzandone doti e capacità. In questo modo, la dimensione educativa della Associazione si sviluppa verso una pienezza, umana e cristiana, religiosa e culturale, evangelicamente testimoniante e socialmente significativa.

Il dopo-concilio: la riscoperta del vangelo e della dimensione missionaria. Nel dopoguerra, fino al Vaticano II, dominò a lungo la convinzione che l’Italia fosse obiettivamente cattolico: la sua storia, la presenza del papato ed il legame della Chiesa con la società civile confermavano questa convinzione. Un simile giudizio non teneva conto delle trasformazioni che andavano modificando la società: le comunicazioni di massa, la facilitazione della mobilità interna ed estera, il boom economico con il diffondersi del consumismo, le modificazioni degli stili di vita comportavano nuove sfide per le stesse istituzioni tradizionali. Una certa insoddisfazione verso il modello di ecclesiologia e di pastorale e verso la compromissione politica della Chiesa si ritrova in alcune figure sacerdotali come G. Facibeni, P. Mazzolari, G. Calabria, L. Milani, D. Turoldo ed in alcune riviste come Il Gallo di Genova, Testimonianze di Firenze e Questitalia di Venezia. Un ruolo particolare andrebbe riconosciuto alla missione cittadina di Milano (1957) voluta dal Card. Montini: in un mondo sempre meno sensibile al religioso, si proponeva di raggiungere credenti impigriti e laici pensosi ma dovette riconoscere la distanza del mondo moderno dai tradizionali mezzi di pastorale.

Queste esperienze restano il segno che il bisogno di un rinnovamento, pur tacitato, era in qualche modo presente e attivo ma non trovava sbocco. Mancava in ogni caso una risposta unitaria, ad opera dell’intera chiesa italiana. Mancava perché, nonostante l’unità d’Italia fosse una realtà da ormai ottant’anni, le Chiese italianenon avevano un progetto comune ma si muovevano in modo indipendente. È vero che la Conferenza Episcopale Italiana era sorta nel 1952 con la riunione dei Presidenti delle Conferenze episcopali regionali tenuta a Firenze dall’8 al 10 gennaio ma, in realtà, l’affermazione della CEI come soggetto pastorale a carattere nazionale si realizzerà solo molto lentamente. Inizialmente limitata all’aspetto organizzativo e di coordinamento pratico, la CEI apparirà il luogo di elaborazione e di promozione di una diversa pastoralità solo con gli anni ’70; la sua fisionomia assumerà forma compiuta con l’introduzione della lingua italiana nella liturgia (07.03.1965), con la pubblicazione del documento-baseIl rinnovamento della catechesi (02.02.1970) e con l’istituzione della Caritas (02.07.1971). L’insieme di questi provvedimenti ed il loro completamento con la pubblicazione dei libri liturgici e dei diversi catechismi per le rispettive fasce di età imposterà su nuove basi il cammino di evangelizzazione che la Chiesa è chiamata a svolgere in Italia.

Se questi sono gli strumenti, i contenuti dati dai diversi piani pastorali elaborati dalla CEI: Evangelizzazione e Sacramenti (1973), Comunione e Comunità (1981), Evangelizzazione e testimonianza della carità (1990), Comunicare il vangelo in un mondo che cambia (2001) edEducare alla vita buona del vangelo (2010).A questi vanno aggiunti i grandi Convegni ecclesiali tenuti nel 1976 a Roma su Evangelizzazione e promozione umana, nel 1986 a Loreto su Riconciliazione cristiana e comunità degli uomini, nel 1995 a Palermo su Il vangelo della carità per una nuova società in Italia e nel 2006 a Verona su Testimoni di Gesù Risorto, speranza del mondo. L’insieme di questi dati è prezioso. In termini storici, si deve riconoscere che sarà il Concilio a riversare nella Chiesa italiana le tensioni maturate nella società; in termini pastorali si può dire che la Chiesa italiana, giunta impreparata al Concilio, si darà un volto più preciso – ecclesialmente e pastoralmente – proprio con queste riforme. Con esse identificherà il senso del suo impegno in questo tempo ed a fronte alle sue sfide.

L’insieme di questi cambiamenti portò ad una riscoperta della dimensione comunitaria e misterica della vita cristiana e creò un approccio meno dottrinale e più esperienziale alla vita di fede favorendo notevoli cambiamenti nella vita spirituale e nelle abitudini religiose dei credenti. L’istituzione dei Consigli presbiteriali e pastorali ed il rinnovamento liturgico e catechistico provocarono un coinvolgimento diretto nella vita della Chiesa ed una sua comprensione come popolo di Dio. Si arriva così ad una riscoperta del vangelo e dell’evangelizzazione.Insieme ai molti valori positivi, questi sviluppi porteranno ad un ripensamento del tessuto associativo e dei percorsi di introduzione alla vita cristiana: nascono nuovi stili incompatibili con le vecchie formule.Verso la fine degli anni ’60, nascono “gruppi spontanei” e “comunità di base” in cerca di formule diverse di vita cristiana e di nuove esperienze comunitarie inserite o alternative alla vita parrocchiale: ripensando il tradizionale modello di sacerdote, provavano a ridefinire il rapporto tra sacralità e laicità e, di conseguenza, il senso ultimo della missione della Chiesa.

Simili cammini si traducono anche in vere e proprie forme di dissenso e contestazione, in «comunità di base» distinte dalla Chiesa: basta pensare all’Isolotto di Firenze con don E. Mazzi, alla comunità della Risurrezione di Rovezzano con don L. Rosadoni, sempre a Firenze, alla comunità di Oregina di Genova raccolta attorno a fra’ A. Zerbinati, alla comunità del Vandalino di Torino con don V. Merinas ed a quella di S. Paolo a Roma con dom G. Franzoni.Non manca nemmeno una componente contestativa parallela a quella della società civile, particolarmente evidente nell’occupazione dell’Università Cattolica (1967) e della Statale (1968) sempre a Milano, in quella del duomo di Parma (1968) e nel “controquaresimale” del duomo di Trento (1968).Il senso di questo nesso tra dissenso ecclesiale e contestazione sociale sta nell’obiettivo: entrambi contestano la dimensione istituzionale, la struttura giuridica e l’organizzazione gerarchica della Chiesa o della società; il potere dell’istituzione era pensato come antitetico alla libertà personale e alla spontaneità della vita individuale.

Nemmeno l’associazionismo cattolico sarà immune da questo travaglio. Nel congresso di Verona del 1969, la FUCI si schiera contro ogni “integralismo”, chiede la fine del regime concordatario ed il riconoscimento del pluralismo in politica; sempre nel 1969, al Congresso di Torino, le ACLI rivendicano la legittimità di una scelta cristiana di sinistra e fanno la “scelta socialista”; la stessa Azione cattolica, sotto la presidenza di V. Bachelet, maturerà un profondo rinnovamento e lo realizzerà attorno alla “scelta religiosa” da intendere come primato del vangelo e come fine di forma di supplenza non radicata nel vangelo. Gli Statuti, approvati nel 1969, confermeranno questa conclusione ma non fermeranno una pesante diminuzione numerica dell’associazione. Resta da annotare, verso la fine degli anni ’70, una progressiva marginalizzazione del dissenso che non impedirà l’imporsi di nuove, diversificate forme di ripensamento della fede e delle sue strategie nei confronti di un mondo secolarizzato. È l’imporsi di quel movimentismo che troverà espressione in Comunione e Liberazione, nel Movimento dei Focolari o Opera di Maria, nel Rinnovamento nello Spirito, nel Cammino neocatecumenale, nella Comunità di Sant’Egidio e in altre ancora. Il senso di questo movimentismo sarà espresso in modo emblematico nel confronto tra Azione Cattolica e Comunione e Liberazione, tra “cultura della mediazione” e “cultura della presenza”: si tratta di due modi di intendere la missione della Chiesa, di due modi di intendere il senso della vita cristiana, di due modi che separano forme consolidate di vita cristiana e nuovi movimenti.

Assieme a questi gruppi bene organizzati, ve ne sono altri molto più piccoli; si può dire che la fine della stagione della contestazione segna l’inizio di una riscoperta del vangelo e del primato dell’evangelizzazione. Presente in tutta la Chiesa, questa sensibilità affiora in una miriade di esperienze che fanno del vangelo il fondamento di una comunione fraterna e la base del loro impegno missionario. Solo a titolo di esempio, ricordo la Fraternità di S. Maria delle Grazie di Rossano Calabro, la Fraternità di S. Carlo nella Maremma toscana, la Fraternità missionaria di Piombino, la Comunità di Villapizzone presso Milano, la Comunità dell’Emmanuele, i Piccoli Fratelli del vangelo di Spelloe tante altre ancora. L’incontro con Cristo e con la Parola è per questi gruppi il fondamento di una svolta decisiva nel comprendere e nel vivere la vita. Il vangelo va vissuto fino in fondo direttamente. Penso si possano richiamare qui le parole di Evangelii Nuntiandi 46: «accanto alla proclamazione fatta in forma generale del vangelo, l’altra forma della sua trasmissione, da persona a persona, resta valida e importante. […]Non dovrebbe accadere che l’urgenza di annunziare la buona novella a masse di uomini facesse dimenticare questa forma di annuncio mediante la quale la coscienza personale di un uomo è raggiunta, toccata da una parola del tutto straordinaria che egli riceve da un altro».

In questo contesto nasce la nuova evangelizzazione, “nuova nel suo ardore, nuova nei suoi metodi, nuova nelle sue espressioni”. I gruppi che vi si ispirano sviluppano in genere l’annuncio e il suo valore di speranza per i poveri e per gli emarginati più che il suo contenuto; l’innegabile importanza di queste esperienze è ben espressa da una battuta di don Mazzolari che, in tempi diversi, metteva in guardia dal rischio «di morire di prudenza in un mondo che non può attendere». Tuttavia questa riscoperta della forza dell’annuncio kerygmatico, proprio perché non di rado intercetta in modo vivace la dimensione emozionale della persona, ha bisogno di essere integrata in un quadro di insieme capace di promuovere un’attenzione globale per la confessione della fede, la sua celebrazione e la sua testimonianza. Solo questo insieme introdurrà il cammino della Chiesa italiana ad una comprensione evangelica ed evangelizzante della sua fede.

Fonti e Bibl. essenziale

Il tema dei rapporti tra Chiesa e società/stato è al centro di molti studi ma non sono molti quelli che riguardano l’evangelizzazione. Qui ricordo: Cristiani d’Italia: Chiese, società, stato. 1861-2011, 3 voll., direzione scientifica di A. Melloni, Istituto dell’Enciclopedia italiana, Roma 2011; G. De Rosa – T. Gregory – A. Vauchez (eds.), Storia dell’Italia religiosa. III: L’età contemporanea, Laterza, Roma – Bari 1995; F. Traniello – G. Campanini (eds.), Dizionario storico del movimento cattolico in Italia. 1860-1980. I: I fatti e le idee. II: I protagonisti. III/1: Le figure rappresentative A-L; III/2: Le figure rappresentative M-Z; IV: Aggiornamento 1980-1995, Marietti, Torino 1981-1997; E. Guerriero (ed.), La Chiesa in Italia. Dall’Unità ai nostri giorni, San Paolo, Cinisello Balsamo 1996; G. Verucci, La Chiesa cattolica in Italia dall’Unità ad oggi. 1861-1998, Laterza, Roma – Bari 1999; N. Raponi, Cattolicesimo liberale e modernità. Figure e aspetti di storia della cultura dal Risorgimento all’età giolittiana, Morcelliana, Brescia 2002; L. Pazzaglia (a cura di), Chiesa e prospettive educative in Italia tra Restaurazione e Unificazione, Editrice La Scuola, Brescia 1994. M. Guasco, Storia del clero in Italia dall’Ottocento a oggi, Laterza, Bari 1997. Per un ulteriore approfondimento rimando ai seguenti lavori: M. Lupi, Clero italiano e cura pastorale in età contemporanea. Fonti e dibattito storiografico, «Rivista di storia della Chiesa in Italia»,60 (2006/1), 69-89; G. De Rosa – A. Cestaro (eds.), La parrocchia in Italia nell’età contemporanea, Atti del II Incontro seminariale (Maratea 24-25settembre 1979), Dehoniane, Napoli 1982; G. Biancardi, Per una storia del catechismo in epoca moderna. Temi e indicazioni bibliografiche, «Cheiron. Materiali e strumenti di aggiornamento storiografico»14 (1997), 163-233; L. Caimi, Cattolici per l’educazione. Studi su oratori e associazioni giovanili nell’Italia unita, La Scuola, Brescia 2006; L. Pazzaglia (ed.), Chiesa, cultura e educazione in Italia tra le due guerre, La Scuola, Brescia 2003; E. Franchini, Il rinnovamento della pastorale. Guida alla lettura della pastorale CEI (1970-1990), Dehoniane, Bologna 1986; G. Martina, La Chiesa italiana negli ultimi trent’anni, Studium, Roma 1977; M. Guasco, Chiesa e cattolicesimo in Italia. 1945-2000, Dehoniane, Bologna 2001; M. Rosa (ed.), Clero e società nell’Italia contemporanea, Laterza, Roma-Bari 1992.


LEMMARIO




Famiglia - vol. II


Autore: Giorgio Vecchio

Nel 1861 le famiglie italiane vivevano secondo una pluralità di strutture e di modelli, dipendenti dalle differenze tra le classi sociali, dalle condizioni di vita e dalla varietà dei contratti agrari. Esistevano famiglie nucleari urbane, borghesi o operaie, famiglie nucleari nelle campagne (i braccianti), ma anche famiglie multiple o estese (con più nuclei familiari abitanti sotto lo stesso tetto o con l’aggregazione di anziani o parenti attorno a una famiglia composta da genitori e figli), tipiche dei mezzadri e di altre categorie di salariati stabili. Parlare di un unico modello di famiglia ‘patriarcale’ è pertanto una forzatura. Mentre rimanevano diffuse condizioni coniugali e familiari dettate dalle necessità economiche, avanzava una forma nuova di vita coniugale, fondata sui valori borghesi e sulla prevalenza dell’affetto reciproco; statica era la condizione di inferiorità sociale della donna; diffuse le situazioni di prostituzione forzata o di stupri, a smentire un’idilliaca immagine della vita rurale. Gli alti tassi di natalità – con quozienti inizialmente prossimi al 40 per mille e poi sempre sopra il 30 per mille fino alla I guerra mondiale – erano compensati da un elevatissimo tasso di mortalità, superiore a quello degli altri paesi dell’Europa centro-occidentale, determinato soprattutto da una fortissima mortalità infantile (224 bambini morti nel primo anno di vita ogni mille nati vivi nel decennio 1861-1870, 214 nel successivo). Sul piano giuridico, il Co­dice Civile Pisanelli (1865) tentò un compromesso tra le tendenze più tradizionaliste e l’ere­dità lasciata dalla Rivoluzione francese, così che man­tenne per le donne l’istituto dell’autorizzazione maritale (necessaria per donare o alienare immobili, svolgere attività finanziaria o promuovere azioni giu­diziarie), mentre la patria potestà era affidata all’esercizio del marito. Discriminatorie erano anche le norme in caso di adulterio o concubinaggio. Il divorzio non era previsto e i successivi (e vani) tentativi di introdurlo suscitarono la protesta e la mobilitazione dei cattolici (progetto Villa, 1881; progetto Zanardelli-Cocco Ortu, 1902). Il Codice del 1865 fu altresì occasione di nuovi e aspri contrasti a causa della netta separazione introdotta tra matrimonio civile e religioso, ciò che imponeva ai nubendi una doppia celebrazione. In molti casi, per scelta ideale o per motivi economici, se ne scelse una sola, con il risultato che i matrimoni celebrati soltanto in Chiesa non godevano di alcun riconoscimento civile e gli eventuali figli venivano considerati dallo Stato come illegittimi. Altre conseguenze furono ca­si di bigamia contratta dagli emigranti op­pure di matrimoni soltanto reli­giosi seguiti da un matrimonio civile con un coniuge diverso. Pio IX nel 1868 condannò la «nefanda legge» e i cattolici con­seguenti giudicarono il matrimonio civile alla stregua di un mero «contratto di ac­cop­piamento». La pastorale della Chiesa dovette perciò cominciare a confrontarsi con problemi nuovi, spesso irrisolvibili stante la rottura con lo Stato italiano. Il 18 febbraio 1880 Leone XIII pubblicò l’enciclica Arcanum sul matrimonio cri­stiano, che confermò che lo scopo del matrimonio era quello di «propagare il genere uma­no» e di «generare figli alla Chiesa» e che i rapporti tra i coniugi dovevano es­sere governati dalla logica espressa da S. Paolo, con la preminenza del­l’au­torità maritale, pur sorretta e corretta dalla carità. Era ribadita la tesi del potere prioritario della Chie­sa nella regolazione del matri­monio, a causa della sua origine divina e dei suoi connotati sacramentali, con l’ovvia condanna sia del ma­trimonio civile sia del divorzio. Lo sviluppo del movimento cattolico nell’ultimo ventennio del XIX secolo e agli inizi del XX contemplava intanto anche iniziative in favore della famiglia, per lo più con finalità religiose (diffusione del culto di Maria, di S. Giuseppe e della Sacra Famiglia) e sociali (cooperazione, assistenza agli emigranti, leghe di Padri di famiglia, ecc.).

Il regime fascista viene spesso ricordato per le sue misure di politica familiare, dipendenti dalla volontà imperiale di Mussolini. Dopo aver introdotto nel 1925 l’Opera Na­zionale Mater­­nità e Infanzia (ONMI), il 26 maggio 1927 il Duce pronunciò il noto discorso «del­l’Ascensione», con il quale lanciò la campagna demografica e introdusse concrete misure economiche e assistenziali, il cui possibile effetto fu tuttavia vanificato dalla grande crisi del 1929 e degli anni seguenti. Nel 1934 furono introdotti gli assegni familiari per le famiglie con almeno due figli; l’anno successivo furono attribuiti anche ai lavoratori con un solo figlio; nel 1939 furono raddoppiati come entità moneta­ria e dati anche a fa­vore della moglie e dei genitori a carico. Tra le altre misure si ebbero la tassa per i celibi (dal 1927), le ri­duzioni ferroviarie per i viaggi di nozze, i premi per la nuzialità e la natalità, i privile­gi per i coniugati con prole e i vari sussidi alle famiglie nu­me­rose. Il decreto 21 agosto 1937 n. 1542 stabilì la concessione di pre­stiti per favorire le nozze; esenzioni e de­trazioni fiscali per le fa­mi­glie nu­merose; agevolazioni nella carriera e varie priorità per l’ottenimento di pre­stiti e abitazione per i dipendenti pubblici più pro­lifici e infine norme per tutelare le don­ne lavoratri­ci in caso di gravi­danza e parto. Gli effetti complessivi di tutte queste misure furono alquanto modesti, considerato che tra il 1926 ed il 1940 il tasso di nuzialità rimase attorno al 7-7,5 per mille, mentre il quo­ziente di natalità decrebbe regolarmente, passando dal 27,7 per mille del 1926 al 24,9 del 1931, al 23 per mille circa degli anni succes­sivi. Il numero me­dio di com­ponenti per famiglia diminuì: esso era nel 1901 di 4,5, nel 1921 di 4,4, nel 1931 di 4,2 ed infine nel 1951 esso scese ancora al 4,0. La politica demografica fu accompagnata dall’introduzione di nuove regole sul matrimonio, perché l’art. 34 del Concordato del 1929 riconobbe gli effetti civili del matrimonio religioso, stabilì la competenza esclusiva dei tribunali ecclesiastici per i casi di nullità e lasciò allo Stato soltanto il giudizio sulle cause di separazione dei co­niugi. Il Codice Penale del 1930 catalogò la violenza carnale e gli atti di libidine tra i reati contro la moralità pubblica e il buon costume (e non contro la persona); l’aborto fu giudi­cato reato «contro la integrità e la sani­tà della stirpe», capi­tolo che colpiva anche la propa­ganda a favore delle pra­tiche contro la pro­creazione. Nel complesso il fascismo agì seguendo una concezione alquanto restrittiva e tradizionalista del ruolo pubblico della donna, dando spazio a visioni misogene e repressive, anche se non mancarono spinte di segno opposto come la sollecitazione allo sport femminile, che in più di un caso fu avversato dalla Chiesa. In definitiva tra le due guerre l’unico progresso per la donna fu la cancellazione della norma sull’autorizzazione maritale (1919), aprendole l’accesso alle libere professioni ed alla maggior parte dei pub­blici impieghi (strada poi in molti casi richiusa dal fascismo). Tra Chiesa e Stato fascista, nel complesso, fu ampio il consenso in materia di politica familiare, proprio perché analoghe risultavano le preoccupazioni in materia di tutela del compito materno della donna e della natalità. Comune era anche la diffidenza verso il lavoro extracasalingo della donna.

La complessiva visione della Chiesa cattolica su questi temi fu ripresa e aggiornata da Pio XI con la sua enciclica Casti Connubii (31 dicembre 1930). Essa riconfermò che il fine primario del matrimonio era la procreazione e l’educazione cristiana dei figli, mentre soltanto bene secondario era la «vi­cen­devole fedeltà dei coniugi nell’a­dem­pimento del contratto matrimoniale». Ulteriori beni «secondari» erano ritenuti «il mu­tuo aiuto e l’affetto vicen­de­vole e la quiete del­la con­cu­pi­scenza». La preoc­­cu­pa­zione per l’«ordine» della famiglia spinse a ufficia­lizzare la superiorità del marito sulla moglie e sui figli. Complessivamente la pastorale non produsse però in quegli anni particolari innovazioni nel campo della famiglia, anche perché restava assente ogni considerazione della coppia in quanto tale. Si era di fronte a un’e­ducazione in­dividualistica, nella quale il matrimonio era conside­rato come fatto religioso e so­ciale, più che esperienza affettiva e coniugale.

La tumultuosa e inattesa ripresa economica dell’Italia dopo il disastro della II guerra mondiale, culminata nel ‘boom’ del periodo 1958-1963, ebbe importanti conseguenze sulla vita delle famiglie. Alcune tendenze si rivelarono sempre più chiare, soprattutto nel proseguimento della caduta del tasso di natalità (malgrado una significativa ripresa proprio negli anni del ‘boom’). Soprattutto, però, il decennio ’50 sancì il passaggio definitivo dall’Italia contadina a quella industriale, cosa che comportò un esodo massiccio dalle campagne e dalle regioni povere verso le città, un rapido mutamento di costumi, nonché l’avvio della riconsiderazione del ruolo della donna. Il sogno di avere una famiglia numerosa, se mai era esistito, finì nel dimenticatoio. La televisione, dal 1954, mutò in modo radicale le aspettative delle persone: più che il comunismo, sarebbe stato il consumismo il vero nemico della pastorale tradizionale della Chiesa. Negli anni ‘50 apparvero infatti i primi segnali di difficoltà, malgrado l’apparente successo della Chiesa appoggiata dal predominio della DC. La pastorale familiare cominciò ad apparire inadeguata in quanto legata a una predominante preoccupazione giuridica, morale o moralistica e a un’insuf­fi­cien­te valutazione delle attese profonde di uomini e donne. La secolarizzazione incipiente provocava soltanto reazioni di condanna, come nel clamoroso caso del processo al vescovo di Prato, mons. Fiordelli, che aveva tacciato di concubinaggio due giovani sposatisi solo civilmente (1958). Sollecitazioni per un cambiamento di prospettiva vennero in quegli anni dai primi gruppi di spiritualità coniugale, spesso di matrice francese (Équipes Notre Dame). In Italia si mostrarono sensibili al tema mons. Carlo Colombo e mons Antonio Corti a Milano, don Giovanni Rossi ad Assisi, nonché il Movimento Laureati di Azione Cattolica. Da non dimenticare il testo di Carlo Carretto, Famiglia piccola Chiesa (1949), peraltro fatto allora riprovato dalla Chiesa. Nel 1958 iniziarono le pubblicazioni del «Notiziario per i gruppi di spiritualità familiare». Desiderio di tutti era quello di riscoprire il significato sacramentale del matrimonio e di conseguenza di valorizzare la presenza dei coniugi nella Chiesa e nella società. Il Concilio Vaticano II riconobbe queste esigenze, specialmente con la definizione della famiglia come «Chiesa domestica». Il graduale rinnovamento della pastorale familiare, frutto del lavoro dei pionieri e dell’insegnamento del Concilio, produsse nel corso degli anni ’60 e ’70 significativi effetti, che riguardarono un po’ tutti i settori, secondo lo slogan della trasformazione della famiglia da ‘oggetto’ a ‘soggetto’ della pastorale. Ne guadagnarono la riflessione teologica (fino alla discussione sul cd. ‘ministero coniugale’), la catechesi e lo sforzo per aggiornare la morale sessuale: nei vari ambiti si distinsero T. Goffi, G. Pattaro, G. Piana, P. Scabini, D. Tettamanzi, e poi ancora G. Fregni, oltre a laici come i coniugi Gianna Agostinucci e Giorgio Campanini. Si introdussero o potenziarono i corsi di preparazione al matrimonio, i sostegni ai gruppi familiari, e si insistette sulla spiritualità coniugale e così via. Al matrimonio e alla famiglia si dedicarono associazioni come l’Azione Cattolica e movimenti come quello dei Focolari (specie con I. Giordani). Altri contributi, su terreni diversi, vennero dai Centri di Pre­parazione al Matrimonio, dall’Istituto La Casa di Milano (don P. Liggeri), dall’Unione Consultori Italiani Prematrimoniali e Ma­trimoniali (Ucipem), poi dalla Confederazione Italiana dei Consultori familiari di ispirazione cristiana, 1978) e dal Cisf (Centro internazionale studi famiglia, 1973), quest’ultimo voluto da don G. Zilli e animato da p. Ch. Vella. Dal 1975, inoltre, agì il Movimento per la Vita, fondato da C. Casini con lo scopo di tutelare la vita umana fin dal concepimento, in diretta polemica con la mentalità e poi la legislazione abortista.

Questo proliferare di iniziative rispondeva a una duplice sollecitazione dei tempi e non soltanto allo stimolo conciliare. Anzitutto va ricordato il rapido mutamento normativo in atto in Italia: dapprima l’introduzione della nuova disciplina divorzista sui casi di scioglimento del matrimonio (legge del 1° dicem­bre 1970 n. 898, poi modificata con la legge 6 marzo 1987 n. 74); poi la sentenza della Corte Costituzionale del 16 marzo 1971 con la quale venne dichiarato inco­sti­tuzionale l’art. 553 del codice pe­nale che puniva «chiunque pubbli­ca­men­te incita a pratiche contro la pro­crea­zione o fa propaganda a favore di esse»; di seguito il varo del nuo­vo di­ritto di famiglia (legge 19 maggio 1975, n. 151), l’istituzione dei consultori pubblici (legge 29 lu­glio 1975, n. 405), e infine la legislazione favo­revole all’aborto (leg­ge 22 maggio 1978, n. 194, «Norme per la tutela sociale della ma­ternità e sul­­l’in­­terruzione volontaria della gravidanza»), nonché le nuove nor­me regolanti gli istituti del­l’af­fi­do e dell’a­dozione (legge 4 maggio 1983 n. 184). Le due principali leggi qui citate, ovvero quella sul divorzio e quella sull’aborto, furono entrambe sottoposte a referendum popolare, chiesto a gran voce dalla Chiesa cattolica. Nel primo caso, dopo un iter particolarmente tortuoso e dopo un serrato confronto interno allo stesso mondo cattolico (con il dubbio posto, da una parte, sulla liceità di imporre i convincimenti religiosi sull’indissolubilità anche tramite la legislazione civile, e, dall’altra, con la sottolineatura degli effetti socio-culturali negativi della diffusione del divorzio), si giunse al voto del 12-13 maggio 1974, con un’inequivocabile vittoria del ‘no’ all’abrogazione della legge (59,3%). Anche nel secondo caso, quello della normativa abortista, i ‘no’ prevalsero largamente nel referendum del 17-18 maggio 1981 (68%). Il voto del 1974 fu particolarmente traumatico per la Chiesa, nella quale la gerarchia era ancora convinta del radicamento dei valori cristiani nella società italiana.

Una seconda sollecitazione arrivò dallo stesso magistero pontificio ed episcopale: basti qui citare, in successione temporale, l’enciclica di Paolo VI, Humanae Vitae sulla regolazione della natalità (25 lu­glio 1968), i documenti della CEI, Ma­trimonio e famiglia oggi in Italia (15 novembre 1969), ed Evangelizzazione e sacra­mento del matrimonio (20 giugno 1975), oltre al documento preparatorio del Sinodo del 1980, su I compiti della famiglia cristiana nel mondo contemporaneo, cui fece seguito l’esortazione apostolica di Giovanni Paolo II, Familiaris Consortio (22 novembre 1981). Sempre per quanto riguarda la Chiesa italiana, va ricordata la pubblicazione del Direttorio liturgico-pastorale per l’uso del Rituale dei Sacramenti e dei Sacramentali (27 giugno 1967) e del Sacramento del matrimonio (30 marzo 1975).

Il difficile sforzo di adeguamento e rinnovamento della pastorale familiare cominciò a portare frutti negli anni ’70 e ’80, ma dovette essere presto rilanciato in seguito ai grandi mutamenti intervenuti nell’ultimo decennio del sec. XX e nel primo del sec. XXI. Questi furono resi evidenti anzitutto dalle statistiche: a) la nuzialità che negli anni ’80 si era attestata su quozienti del 5,2-5,3 per mille, crollò sotto il 5 mille nel 1995 e scese fino al 3,8 del 2009; b) la parallela crescita di separazioni e divorzi (oltre 84.000 separazioni e quasi 54.000 divorzi nel 2008); i divorzi, in particolare, salirono dal 1995 al 2008 dalla cifra di 79,7 a 178,8 ogni 1000 matrimoni; c) la crescita impetuosa dei matrimoni civili – ormai oltre il 50% del totale nelle grandi città –, determinati da fattori quali la secolarizzazione, il matrimonio dei divorziati e l’apporto della popolazione immigrata di altra religione; d) l’aumento delle convivenze, sia di tipo pre-matrimoniale sia con carattere permanente (confermato dall’andamento delle nascite ’naturali’: il 13,7% sul totale dei nati nel 2003; il 22,2% nel 2008); e) il perdurare della stagnazione delle natalità, con quozienti arrivati al minimo storico nel 1995 (9,1 nascite per mille abitanti) e risaliti leggermente in seguito solo grazie alla maggiore fecondità delle donne immigrate. Oltre ai dati statistici, tuttavia, la famiglia italiana venne investita da quesiti ben più radicali, riguardanti la sua stessa fisionomia e, in definitiva, la concezione della famiglia e della coppia.

Le linee complessive scelte dal presidente della CEI card. Camillo Ruini, che si erano già indirizzate, soprattutto dopo la scomparsa della DC, verso una maggiore presenza pubblica della Chiesa, privilegiarono le iniziative volte a fare pressione sul governo e sul Parlamento in modo da incidere sulle scelte legislative. Minor attenzione fu riservata alla vera e propria pastorale familiare, pur se si arrivò a una sorta di riordino e di canonizzazione con il Direttorio di pastorale familiare per la Chiesa in Italia (1993). Molto sostegno fu dato al Forum delle associazioni familiari, costituito nel 1992, con l’obiettivo di portare all’attenzione del dibattito culturale e politico italiano la famiglia come soggetto sociale. Esso si rivelò incisivo sui fronti della bioetica, della normativa sull’aborto e l’eutanasia e sulla questione delle ‘coppie di fatto’. In questo caso, infatti, per ovviare alla vasta casistica sorta con la diffusione delle convivenze, fossero esse eterosessuali o omosessuali, il governo Prodi presentò nel 2007 un progetto di legge, ribattezzato ‘DICO’ (da ‘DIritti e doveri delle persone stabilmente COnviventi’). Contro questo progetto si ebbero vivaci attacchi polemici da parte della Chiesa – ostile a ogni pur parziale parificazione tra matrimonio e convivenze -, culminati il 12 maggio 2007 con la manifestazione del ‘Family Day’. In precedenza si era avuto un altro durissimo scontro avvenuto in occasione del referendum del 13-14 giugno 2005 sulla legge che regolamentava la procreazione assistita, allorché il card. Ruini aveva invitato con successo all’astensionismo allo scopo di favorire il mantenimento della legge approvata dalla maggioranza di centro-destra. Forte, ma molto meno ascoltata, fu invece l’invocazione del Forum per introdurre una diversa politica per la famiglia, soprattutto tramite la considerazione dei carichi familiari da parte della normativa fiscale.

Fonti e Bibl. essenziale

M. Barbagli, Sotto lo stesso tetto. Mutamenti della famiglia in Italia, Il Mulino, Bologna 1988; Id., Provando e riprovando. Matrimonio, famiglia e divorzio in Italia, Il Mulino, Bologna 1990; CISF, Le stagioni della famiglia, a cura di G. Campanini, San Paolo, Cinisello Balsamo, 1994; C. Dau Novelli, Famiglia e modernizzazione in Italia tra le due guerre, Studium, Roma 1994; Chiesa e famiglia in Europa, a cura di A. Caprioli e L. Vaccaro, Morcelliana, Brescia 1995; G. Vecchio, Profilo storico della famiglia. La famiglia italiana tra Ottocento e Novecento, Edizioni S. Paolo, Cinisello Balsamo, 1999; D. De Vigili, La battaglia sul divorzio. Dalla Costituente al Referendum, Franco Angeli, Milano 1999; La pastorale familiare in Italia. Una ricerca nazionale a dieci anni dal direttorio di pastorale familiare, a cura di P. Boffi, Edizioni San Paolo, Cinisello Balsamo 2005; G. Scirè, Il divorzio in Italia. Partiti, Chiesa, società civile dalla legge al referendum (1965-1974), Bruno Mondadori, Milano 2007; G. Campanini, Famiglia, storia, società. Studi e ricerche, Studium, Roma 2008; Istat, Famiglia in cifre, Dossier presentato alla Conferenza Nazionale delle Famiglie, Milano, 8-10 novembre 2010, a cura di L.L. Sabbadini, M.C. Romano, R. Crialesi (in https://www.istat.it/it/archivio/40640); G. Vecchio, Matrimonio, famiglia e pastorale familiare in Italia. Trasformazioni sociali e attuazione del Concilio, in Da Montini a Martini: il Vaticano II a Milano. II. Le pratiche, a cura di G. Routhier, L. Bressan, L. Vaccaro, Morcelliana, Brescia, 2016, pp. 341-376.


LEMMARIO




Fascismo (1919-1931) - vol. II


Autore: Alberto Guasco

La prima fase dei rapporti tra chiesa cattolica e fascismo coincise con il secondo quadriennio del pontificato di Benedetto XV (1919-1922), segnato da un lato dal progressivo miglioramento delle relazioni tra chiesa cattolica e stato liberale e dall’altro dall’inversione di marcia in materia di politica ecclesiastica consumata da Mussolini tra il 1919 e il 1921.

Negli anni compresi tra la fondazione dei Fasci di combattimento e l’ascesa del nuovo movimento fino alla conquista del potere, il bagaglio ideologico del Mussolini socialista anticlericale lasciò spazio al progressivo abbandono d’ogni pregiudiziale antireligiosa, fino al completo rovesciamento di posizioni in materia. Mussolini lo esplicitò il 21 giugno 1921, durante il suo primo discorso alla Camera: “La tradizione latina e imperiale di Roma è oggi rappresentata dal cattolicismo. Se… non si resta a Roma senza una idea universale, io penso e affermo che l’unica idea universale che oggi esista a Roma, è quella che s’irradia dal Vaticano”. “Rancoroso e ostile al cattolicesimo” – come notava Jemolo – Mussolini aveva compreso la necessità di renderlo “alleato e … instrumentum regni”, abbinando a tale convinzione l’attacco diretto al Partito popolare di Sturzo, condotto nel tentativo di spaccarlo e di sostituirsi ad esso come interlocutore politico privilegiato della Santa Sede. Il leader fascista intercettava in tal modo gli umori di quei settori del mondo cattolico che – in Vaticano, nell’Azione Cattolica e nel PPI stesso – non condividevano i cardini programmatici del progetto sturziano, dalla forma aconfessionale alla natura dei rapporti con le altre forze politiche e con la Santa Sede stessa, e ritenevano che nei suoi pochi anni di vita il PPI si fosse trasformato da forza d’argine contro la modernità a una forza imbevuta di “pericoloso modernismo morale”.

Otto mesi dopo l’ascesa al soglio pontificio di Pio XI, all’indomani della marcia su Roma, in San Pietro si nutrivano riguardo al fascismo considerazioni differenti. Da un lato, alla pari del liberalismo e del socialismo, lo si riteneva figlio della modernità e della catena di errori prodotti dalla rivoluzione francese, apostasia frutto della secolarizzazione del mondo moderno. Dall’altro, lo si reputava nemico dei nemici – socialisti, liberali o massoni – e si riteneva che la sua non programmatica professione d’irreligiosità potesse rivelarsi alleata nel progetto di ricristianizzazione della società posto alla base del programma pontificale di papa Ratti. La Santa Sede tanto accolse il primo governo Mussolini con « benevolo riserbo » quanto con prudenza il fascismo, un movimento dedito alla violenza di mestiere, ideologicamente neutro ma con componenti interne in odore di anticlericalismo e massoneria, privo di scrupoli a mescolare simbologie politiche e religiose, teologicamente a rischio per il suo “nazionalismo immoderato”. Alle prudenze di papa Ratti e del segretario di stato Gasparri fecero però da contraltare gli atteggiamenti ben più espliciti di diversi porporati (i cardinali Pompilj e Vannutelli) o del sostituto alla segreteria di stato Pizzardo. Stante l’ufficiale agnosticismo ecclesiastico in materia politica, Pio XI e Gasparri decisero di mettere il governo alla prova, per verificarne la stabilità e il tipo di politica religiosa adottata, vincolando a quest’ultima un giudizio definitivo sul fascismo intero.

Con Mussolini a capo d’un governo nato da un colpo di stato legittimato dal re, d’una coalizione di forze comprensiva di alleati per lui scomodi come i popolari, costretto a bilanciare le diverse spinte interne al PNF – da un lato i favorevoli a un suo approdo costituzionale, dall’altro i sostenitori della seconda ondata e della fascistizzazione integrale del paese – quelle linee vennero discusse nel corso d’un incontro segreto tra Mussolini e Gasparri nel gennaio 1923. Non ne sortirono trattative concordatarie, ma un nuovo canale ufficioso di contatti (padre Tacchi Venturi) e la prosecuzione della “politica d’attenzioni” già adottata da Mussolini in materia ecclesiastica: si trattò di provvedimenti disorganici, in cui rientrarono gesti simbolici (il crocifisso reintrodotto nelle aule scolastiche), cortesie (il dono della biblioteca Chigiana a quella Vaticana) e disposizioni legislative di varia natura, nel campo dell’istruzione (la riforma Gentile) e dell’edilizia sacra, in materia militare (la reintroduzione dei cappellani militari all’interno delle forze armate) e civile (il riconoscimento in calendario di diverse feste religiose), in campo politico (la lotta contro la massoneria) ed economico (l’aumento della congrua al clero).

Tuttavia, i provvedimenti di favore varati dal governo viaggiarono di pari passo – come era stato fin dal 1921 – alla violenza con cui, in periferia, i fascisti investirono le parrocchie, le sedi dell’AC, i circoli popolari e le leghe bianche: fu un doppio binario sul quale Mussolini agì spregiudicatamente, ora presentandosi come l’uomo in grado di moderare quelle violenze, ora come l’uomo che non avrebbe fatto nulla per impedirle. Le relazioni giunte a Roma da numerose diocesi di provincia danno un quadro chiaro della morsa che si strinse intorno alle organizzazioni ecclesiali, arma potentissima di ricatto in mano a Mussolini, in particolare durante la vicenda del dimissionamento di Sturzo dalla segreteria del PPI del giugno-luglio 1923, durante il dibattito sul progetto di legge Acerbo.

Dopo l’approvazione della legge, in vista delle elezioni dell’aprile 1924 la Santa Sede seguì la campagna elettorale ribadendo la sua assoluta professione di apoliticità, da un lato nella certezza d’una vittoria fascista – pena la guerra civile in Italia – dall’altro nella speranza d’una leadership di minoranza da parte dei popolari, a controbilanciare il fascismo vittorioso. Fu un atteggiamento timoroso quanto improduttivo, che non servì a porre al riparo il clero e l’associazionismo cattolico dalla campagna di violenze che caratterizzò il periodo pre e post elettorale. Altrettanto cauta fu la posizione della Santa Sede durante la crisi Matteotti, essenzialmente motivata dal timore che il rovesciamento del governo a seguito del delitto del deputato socialista unitario avrebbe comportato una riaffermazione del fascismo in forma ancor più violenta e radicale. Ugualmente il Vaticano si oppose a un esito potenzialmente rivoluzionario della crisi, sconfessando – tra agosto e settembre del 1924 – per bocca de “La Civiltà Cattolica” e di Pio XI stesso, il progetto di alleanza tra socialisti e popolari proposto da De Gasperi e Turati. Inoltre, di fronte alla possibilità di nuove elezioni, la Santa Sede strinse ancor più i ranghi del clero, ribadendo ai sacerdoti l’ordine d’astenersi da ogni competizione politica, richiedendo al clero e al laicato un impegno esclusivamente religioso e – anche considerando le minacce alla sua vita – facendo allontanare don Sturzo dall’Italia.

I cardini del progetto ecclesiale di Pio XI – l’abbandono del campo politico a favore di un “arroccamento confessionale”, l’intenzione di permeare la società attraverso l’Azione Cattolica, “pupilla degli occhi” del pontefice, apolitica, confessionale e dipendente dalla gerarchia, la Santa Sede e non i partiti quale protagonista diretta del rapporto con gli stati – come la definitiva liquidazione delle opposizioni e dello stato liberale operata da Mussolini nel 1925-1926 aprirono una nuova fase anche nei rapporti tra chiesa cattolica e governo fascista, sufficientemente forte e stabile per mettere sul tappeto la soluzione della questione romana.

Una soluzione che il pontefice reputava necessaria per chiudere la ferita aperta dal 1870, ma che avrebbe accettato solo su un piano di parità, non come concessione unilaterale da parte dello stato. Per tali ragioni – come spiegò nella lettera indirizzata a Gasparri il 18 febbraio 1926 – rifiutò le conclusioni della riforma della legislazione ecclesiastica cui era giunta alla fine del 1925, dopo un iter iniziato fin dal 1923, la commissione presieduta da Rocco: “Nessuna conveniente trattativa, nessun legittimo accordo ha avuto luogo né poteva, o potrà luogo avere finché duri la iniqua condizione fatta alla Santa Sede ed al Romano Pontefice”. Mussolini comprese perfettamente la presa di posizione del pontefice, e illustrando a Rocco la necessità di “meditare alquanto sul programma di politica ecclesiastica” lasciò cadere il progetto di riforma per procedere a trattative bilaterali.

Dall’estate del 1926, quando furono avviate, a quella del 1931, quando si consumò la crisi di Azione Cattolica, il cammino della conciliazione si prolungò tra progressi e interruzioni di trattative che evidenziarono chiaramente come il nodo in questione avesse in realtà riflessi e ricadute molto più ampie rispetto ai soli aspetti diplomatici. I primi contatti passarono dunque attraverso alla frenata imposta dall’attentato a Mussolini del 31 ottobre 1926 e alle susseguenti rappresaglie fasciste, anche contro i cattolici – a loro volta da inquadrarsi nel più vasto mare delle leggi liberticide approntate da Rocco – prima di approdare a un accordo sullo schema del Trattato e passare a discutere di Concordato. Proseguirono a singhiozzo tra il 1927 e il 1928, aggrovigliandosi sul nodo della formazione dei giovani, cioè sul decreto che modificava le norme istitutive dell’Opera Nazionale Balilla e vietava o minacciava l’esistenza degli esploratori cattolici legati all’AC, a cui Pio XI reagì con la sospensione delle trattative, che faticosamente arrivarono a elaborare lo schema di Trattato e Concordato. Fino a che, nel novembre del 1928 il re e il papa incaricano Mussolini e Gasparri di aprire e chiudere le trattative ufficiali, culminate – l’11 febbraio 1929 – nella firma dei Patti Lateranensi.

Accolta con grande clamore propagandistico, la firma dei Patti non costituì l’inizio di relazioni idilliache, ma di una nuova fase di rapporti che la storiografia ha voluto chiamare “una pace armata”. L’allacciamento di rapporti ufficiali fu dunque segnato da un crescendo di polemiche culminate, il 13 maggio del 1929, nell’aggressivo discorso di Mussolini, pronunciato a conclusione della discussione alla Camera sugli Accordi del Laterano (“nello Stato la Chiesa non è sovrana e non è nemmeno libera”) e della replica del pontefice, consegnata al chirografo indirizzato a Gasparri, fermo sulla linea dell’accordo siglato, stante il rispetto congiunto del Trattato e del Concordato (“simul stabunt oppure simul cadent”), stanti cioè i diritti inalienabili della Santa Sede.

Le contese – in un quadro generale di buone relazioni – riguardarono soprattutto e ancora una volta la questione dell’educazione della gioventù e il ruolo dell’Azione Cattolica. La crisi del 1931 e la sua ricomposizione mediata da Tacchi Venturi – la “riconciliazione della conciliazione” la chiamò Mussolini – fece cadere le ultime illusioni di Pio XI riguardo alla possibilità d’avere il fascismo al proprio fianco del progetto ierocratico portato avanti dal suo magistero. E proprio nel momento in cui le relazioni con il regime sembravano normalizzarsi, la chiesa imboccava il tornante degli anni Trenta, quello del confronto con il fascismo totalitario e con l’Europa dei totalitarismi trionfanti.

Fonti e Bibl. essenziale

R. De Felice, Mussolini, Torino, Einaudi, 1966-1997; L. Ceci, L’interesse superiore. Il Vaticano e l’Italia di Mussolini, Laterza, Roma-Bari 2013; G. De Rosa, Storia del Partito popolare, Laterza, Bari 1958; E. Fattorini, Pio XI, Hitler e Mussolini. La solitudine di un papa, Einaudi, Torino 2007; E. Gentile, Il culto del littorio, Roma-Bari, Laterza 1993; A. Guasco, Cattolici e fascisti. La Santa Sede e la politica italiana all’alba del regime, Il Mulino, Bologna 2013; A.C. Jemolo, Chiesa e stato in Italia negli ultimi cento anni, Einaudi, Torino 1948; F. Margiotta Broglio, Italia e Santa Sede dalla Grande guerra alla Conciliazione. Aspetti politici e giuridici, Laterza, Bari 1966; P. Pecorari, a cura di, Chiesa, Azione Cattolica e fascismo nell’Italia settentrionale durante il pontificato di Pio XI (1922-1939) Atti del V Convegno di storia della Chiesa, (Torreggia 25-27 marzo 1977), Vita e Pensiero, Milano 1979; P. Pennacchini, La Santa Sede e il fascismo in conflitto per l’Azione cattolica, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 2012; S. Rogari, Santa Sede e fascismo dall’Aventino ai Patti Lateranensi. Con documenti inediti, Forni, Bologna 1977; G. Sale, Popolari, chierici e camerati, 1. Popolari e destra cattolica al tempo di Benedetto XV, Jaca Book, Milano 2006; G. Sale, Popolari, chierici e camerati, 2. Fascismo e Vaticano prima della Conciliazione, Jaca Book, Milano 2007; P. Scoppola, La Chiesa e il fascismo. Documenti e interpretazioni, Laterza, Roma-Bari 1971.


LEMMARIO




Filosofia - vol. II


Autore: Stefania Pietroforte

Nella seconda metà dell’Ottocento l’Italia era ormai uno Stato unitario e laico, in rapporti complessi e problematici con la Chiesa e il suo Stato. I fenomeni filosofici che caratterizzarono quest’epoca rispecchiavano, almeno in parte, questa problematicità. Forse non fu un caso che proprio due ex sacerdoti, Bertrando Spaventa e Roberto Ardigò, divenissero i rappresentanti rispettivamente dell’Idealismo e del Positivismo, le due correnti più importanti e più fortemente contrapposte al Neotomismo dell’agguerrita Compagnia di Gesù. Inoltre una schiera numericamente non scarna di pensatori diversi da questi era riprova del fatto che anche altre idee e interessi si muovevano nell’orizzonte, a volte combinandosi in percorsi personali di incerta coerenza, altre volte evolvendo sulla spinta di un tormento intellettuale che stentava a trovare adeguata risposta. Appartenevano a questo gruppo Ausonio Franchi e Giuseppe Ferrari; meglio ancora, per la qualità filosofica della ricerca, Giovanni Maria Bertini e Francesco Bonatelli, questi ultimi sostenuti da un profondo bisogno spirituale che in Bonatelli cercava espressione in una concezione fenomenologica che della coscienza faceva il centro propulsivo della vita spirituale, mentre in Bertini si atteggiava a ricerca del nesso possibile tra assoluto ed esistenza del mondo. C’era inoltre Carlo Cattaneo, la cui concezione filosofica -improntata a intendere il mondo come essere sociale indagabile dalle singole scienze e dalla filosofia solo come sapere ulteriore rispetto ad esse- portava con sé un senso di concretezza e vicinanza ai bisogni umani. A rendere il quadro più variegato c’era poi la dottrina di Francesco Fiorentino e del suo allievo Felice Tocco, pregevoli storici della filosofia, che con profondità e erudizione interpretarono Platone, Bruno, Kant e Hegel.

Ma in questo panorama multiforme e senza centro apparente una filosofia più di altre, sia pure sotterraneamente, ebbe forza d’irraggiamento e reazione, quella di Bertrando Spaventa. Infatti il filosofo di Bomba, muovendo dall’Idealismo hegeliano, sviluppò una critica della trascendenza, e dell’idea platonica di cui questa si sostanziava, capace di alimentare, con modalità non sempre evidenti, le spinte antimetafisiche che sul finire del secolo si facevano largo e che si coloravano socialmente facendosi portatrici del bisogno di risolvere i gravi problemi del Paese. Da Spaventa infatti prese le mosse Labriola, rappresentante di un Marxismo inteso come materialismo storico; il filosofo hegeliano seppe apprezzare le intenzioni del nascente Positivismo e instaurare con esso un dialogo; infine, con la tesi della circolazione del pensiero europeo reinterpretò in chiave immanentistica pensatori dal profondo respiro religioso come Bruno, Campanella e Rosmini, aprendo attorno a essi un alone di nuovo possibile interesse. Insomma il segno impresso da Spaventa nella cultura filosofica del secondo Ottocento italiano fu probabilmente più forte e pervasivo di quanto nell’immediato non si comprendesse.

Formatosi nell’ambito dell’Idealismo hegeliano molto vivace a Napoli, dove aveva conosciuto Ottavio Colecchi e Stefano Cusani, Spaventa era giunto a una filosofia del tutto diversa da quella di colui che, all’epoca, era il più famoso hegeliano italiano, Augusto Vera. Forse non alieno da simpatie nei confronti dei Tradizionalisti francesi, Vera intendeva Hegel come filosofo della trascendenza. Per Spaventa, invece, proprio la negazione della trascendenza era la cifra distintiva della filosofia di Hegel e più in generale della modernità. Nel concetto bruniano di Assoluto, essenzialmente correlato al finito, Spaventa rinveniva il nucleo da cui era scaturito il pensiero che, grazie a Kant, aveva poi trionfato con Hegel. Il frutto maturo di questa speculazione era, in particolare, l’idea che l’Assoluto fosse identità in sviluppo. Questo concetto, legato a doppio filo a quello di contraddizione, si traduceva sul piano storiografico nella tesi della circolazione del pensiero europeo. Era, questa, un’intuizione di vasta portata nella quale la tradizione italiana recuperava insieme nobili origini e un ruolo fondamentale. La tesi consisteva nella dimostrazione che la filosofia del Rinascimento fosse stata ripresa e inverata nella sua radice profonda dall’Idealismo tedesco. Cardine dell’interpretazione era il concetto di Assoluto che si imponeva come negazione radicale della trascendenza. La perizia e l’acume filosofico che sostenevano l’operazione era notevole, come quando di Rosmini si esaltava la sintesi conoscitiva riconoscendola simile a quella di Kant, e si tralasciava il motivo platonico dell’idea dell’essere. Era acqua portata al mulino dell’immanenza, idea centrale della modernità che Hegel sembrava aver messo definitivamente affermato.

Il pericolo che questa filosofia rappresentava per i principi del Cristianesimo non sfuggì ai Neotomisti, che lo fronteggiarono direttamente ingaggiando una battaglia senza requie contro l’Idealismo. I timori già suscitati dall’Illuminismo trovavano ora conferma in una filosofia che annunciava la modernità come liberazione dalla trascendenza. La reazione provocata da questa minaccia fu così estrema che padre Giovanni Cornoldi per anni si fece araldo di una crociata contro il pensiero come sviluppo, contro l’immanentismo, contro la modernità, che appariva ai suoi occhi come errore di una ragione traviata e vera e propria diavoleria. Era, quella di Cornoldi, l’esasperazione di una filosofia che con Serafino Sordi, Gaetano Sanseverino e Matteo Liberatore, aveva voluto riproporre il pensiero di S. Tommaso come fonte principale di ogni verità teoretica. Era l’inasprimento ideologico che spingeva verso l’identificazione di una dottrina filosofica con la dottrina stessa della fede. Era anche il punto estremo di allontanamento e contrapposizione tra quella che veniva propugnata come dottrina della Chiesa e ciò che nel resto del mondo e della storia degli uomini era comunque andato avanti. Ma la teoria dell’astrazione o quella dell’anima come forma del corpo, le categorie di potenza e atto di cui i Neotomisti si servivano, sembravano del tutto inadeguate e insufficienti a soddisfare la richiesta di un sapere che, se non riusciva a precorrere i tempi, doveva almeno stare al passo con essi. A questo bisogno rispondeva invece una nuova corrente di pensiero che della sintonia con il mondo delle scienze faceva il suo vanto: il Positivismo.

L’importanza del Positivismo fu grande. Il richiamo alla concretezza dell’esperienza, la considerazione del limite fisico imprescindibile in ogni atto spirituale, la necessità di costruire su queste basi un nuovo sapere filosofico, più aderente alla vita materiale e sociale dell’uomo, configurarono l’idea di una filosofia consona alle esigenze di una umanità avvertita del suo sviluppo storico accelerato. Se l’Idealismo di Spaventa rinvigoriva l’orgoglio filosofico nazionale, il Positivismo dal canto suo prometteva quell’innovazione culturale di cui il giovane Stato italiano aveva bisogno. Se si aggiunge poi che questa filosofia aveva tra i suoi tratti distintivi la negazione di ogni finalismo, tutto sembrava concorrere perché essa rappresentasse al meglio il carattere laico della nuova nazione. Pasquale Villari, non filosofo di professione ma studioso di fatti e leggi storiche che incarnavano lo spirito umano, ben evidenziava un tratto caratteristico del Positivismo italiano: la storicità del mondo umano, dello Spirito che era fatto di tempo e privo di un fine assoluto. L’Assoluto di cui Hegel aveva fatto il Soggetto della storia lasciava ora il campo a una storia senza Assoluto, alla storia tout court. Fu Ardigò, ex sacerdote convinto del valore morale della ricerca filosofica, a segnare con precisione i capisaldi della nuova concezione. Anzitutto l’intrascendibilità del “fatto”, ossia del dato d’esperienza, che la scienza sperimentale o sociale indaga e classifica. Questa intrascendibilità era intimamente connessa con la spinta al trascendimento. Ma nessun inconoscibile era ammesso, se non come limite della conoscenza umana, segnale della sua relatività. La coscienza non si offriva più come alveo di rivelazione della trascendenza; al contrario, costituiva l’ambito dove avveniva la presa d’atto della realtà primigenia del “fatto”, di ciò che l’esperienza fornisce e impone come inoppugnabile. Il correlato del “fatto” in campo gnoseologico era la sensazione, quel dato primario nel quale soggetto e oggetto si trovavano ancora indistinti. La lezione di Hume si rivelava preziosa per Ardigò: se la sensazione era indistinzione, non si potevano ammettere sostanze, ma spirito e corpo rappresentavano solo serie distinte formate dal lavorìo psicologico. Così il mondo prodotto dalle metafisiche d’ispirazione idealistica veniva cancellato e altrettanto ogni concezione finalistica del reale. Anche la prospettiva trascendentalistica di Kant risultava negata, perché la logica non dipendeva da forme apriori ma era costituita da schemi psichici empiricamente ricostruiti. Il Positivismo si posizionava così agli antipodi della filosofia fatta di astrazioni e reclamava l’importanza di fatti, limite e materialità per la vita dell’uomo, proponendosi come riscatto di ciò che in passato era stato troppo vile per rientrare nella vita del pensiero. Il riscatto ideale andava poi di pari passo con quello che il Socialismo e le dottrine di Marx rivendicavano in campo sociale, motivo per cui, soprattutto nella vulgata, Positivismo e Socialismo furono spesso accomunati.

Di sicuro non condivise questa opinione Antonio Labriola, esponente di spicco del movimento socialista che seppe interpretare il pensiero di Marx con sensibilità filosofica e profondità di pensiero. Egli riteneva che il materialismo storico, vera essenza del Marxismo, avesse fatto giustizia di ogni finalismo, sia che venisse da Hegel sia che persistesse in certo evoluzionismo distorto e male inteso. L’idea su cui Labriola si basava era che la storia fosse il risultato di un agire umano caratterizzato in maniera determinante, ma non esclusiva, dai rapporti economici e di classe. In questa concezione il rapporto tra la struttura economica e la sovrastruttura ad essa corrispondente non era un determinismo meccanico ma era un gioco aperto di reciprocità che, senza negare la preminenza della sfera economica, restituiva alla realtà non economica un ruolo importante. Come nocciolo e scorza, struttura e sovrastruttura costituivano una sola unità. E se Marx bene aveva fatto a denunciare che le idee non cadono dal cielo e non vivono di vita propria, tuttavia non per questo si doveva ritenerle la mera proiezione della sfera di produzione materiale della vita. Lo svincolamento della dialettica dal rigidismo economicistico produceva così un effetto davvero rilevante. Se da una parte la pretesa della metafisica veniva spenta nel ricondurla al fondamento dei rapporti reali di produzione, dall’altra Labriola sosteneva che la sfera ideale giocava comunque un ruolo specifico nella dialettica storica. Il reale era immanente ma non determinismo meccanico. La storia non aveva un Fine e anche il pensiero era segnato dalla finitezza. La valorizzazione della sfera ideale stavolta serviva a corrodere le tentazioni metafisiche oscuramente annidate nel meccanicismo della dialettica, estenuandone ogni assolutezza.

Se Marxismo e Positivismo si caratterizzarono per un atteggiamento fortemente antimetafisico e l’Idealismo di Spaventa curvò la metafisica dentro la prospettiva dell’immanenza; se il Neotomismo non trovò il modo di rinvigorirla e ne accentuò perciò il senso di caducità; tuttavia la metafisica non diede partita vinta. Dal di dentro di ciascuna di queste correnti di pensiero faceva ancora sentire la sua spinta. Malgrado il giudizio irrevocabile di Kant, il pensiero filosofico si sentiva costretto a contrastarne il continuo risorgere in forme nuove. Così, quando all’inizio del Novecento fiorì la filosofia di Benedetto Croce, volle essere anch’essa una alternativa reale alla metafisica. Sia per la ricchezza culturale di cui si sostanziava, sia per la profondità e l’equilibrio delle risposte fornite ai bisogni spirituali, la riflessione di Croce divenne un punto di riferimento imprescindibile per tutti, anche per chi se ne distanziava fortemente. Il tema della storia, che Labriola aveva affrontato a partire da Marx, ma senza trascurare Hegel e Herbart, fu ripreso da Croce per affermare però un senso diverso della creatività umana. Croce intese la storia come arte, l’arte come intuizione-espressione. Malgrado il richiamo alla concretezza, Positivismo e Marxismo non erano immuni dal pericolo di una deriva metafisica. Non bastava muovere dal “fatto” o dai rapporti di produzione per sgombrare il campo dalla coercizione di un Assoluto. L’insofferenza verso questa prospettiva aveva trovato espressione, all’inizio del secolo, nei Pragmatisti. Ma fu la Filosofia dello Spirito di Croce a spazzar via il rischio che essa rappresentava per l’individuo, riconoscendo a questi il suo valore spirituale e la responsabilità morale che ne conseguiva. A partire dall’Estetica come scienza dell’espressione e linguistica generale il filosofo napoletano sviluppò un discorso sulle forme dello Spirito coniugando la libera creatività umana con le circostanze dell’esperienza storica e concepì un ritmo dialettico del reale scevro da finalismi e meccanicità, un sistema aperto -come la vita e la storia che non hanno fine e conservano un loro mistero- nel quale confluivano istanze positivistiche ed idealistiche, parole d’ordine dello Storicismo tedesco e del Neokantismo, il tutto però in una formula nuova, dove preminente era la spontaneità spirituale e assicurato il divenire. Quello di Croce intendeva essere uno Storicismo assoluto in lotta contro ogni assolutizzazione.

Ma quale era il significato della filosofia in questo sistema? Essa sembrava avere due diversi profili. Da una parte era teoria delle forme teoretiche e pratiche del fare umano, l’Unità dei Distinti nella quale la storia si articolava; dall’altra quella stessa teoria si diluiva in un sistema di indagini particolari, estetiche, storiche, linguistiche, politiche, letterarie. La tensione tra queste due spinte rappresentò, in certo senso, la logica interna della Filosofia dello Spirito, che sembrò rompersi quando, nella tarda riflessione del filosofo, un Distinto, l’Utile, acquistò maggior rilievo giungendo quasi a venare di accenti esistenzialistici il suo pensiero. Quella sorta di “religione laica” che la filosofia di Croce aveva rappresentato evolveva infine, con il prevalere dell’Utile sugli altri Distinti, in una visione pessimistica delle sorti umane.

Sul piano degli studi particolari l’opera di Croce s’incontrò felicemente con quella di Giovanni Gentile e i due costruirono, in lunghi anni di collaborazione, una storia della cultura italiana che rappresentò un importante elemento nella formazione dell’identità nazionale. Tale convergenza, però, non superò mai la forte differenza che caratterizzava i due filosofi e che nel 1913, sulle colonne de “La Voce”, si manifestò in una celebre polemica nella quale Croce fu accusato di rasentare l’Empirismo e Gentile di praticare una filosofia teologizzante. Per entrambi era il ritorno dei fantasmi della metafisica. Pochi anni dopo, la divergenza si sarebbe trasferita dal piano della riflessione teorica a quello delle scelte politiche, dove diventò vera contrapposizione, quando Gentile aderì al fascismo e Croce scelse la strada dell’antifascismo del quale sarebbe stato una bandiera.

Nel ventennio sciagurato della dittatura di Mussolini Gentile svolse un ruolo di primo piano nell’organizzazione e promozione culturale del regime. L’Attualismo, maturato e messo a punto nei primi due decenni del Novecento, era per certi versi una filosofia essenziale, radicale, che esasperava le conseguenze della dialettica hegeliana. Gentile aveva studiato a fondo gli scritti di Spaventa e aveva fatto suo il problema del rapporto tra fenomenologia e logica; ma l’approfondimento che ne faceva non era immune da influenze rosminiane e di certo Modernismo, da lui studiato negli anni di incubazione della sua dottrina. La forte polarizzazione di pensiero concreto e pensiero astratto cui l’Attualismo era approdato sembrò ai più accorti tra i discepoli di Gentile, come Ugo Spirito e Guido Calogero, il punto di arresto definitivo della metafisica. Ben lungi dall’essere teologia, l’Attualismo poteva apparire a quei giovani filosofi come liberazione, la liberazione filosofica, da ogni dogmatismo. Anche per i Neoscolastici, che dal 1909 avevano dato vita a una importante scuola, Gentile costituì, in certo senso, un punto di riferimento. Essi realizzarono infatti un singolare incontro sia con l’Attualismo che con la filosofia di Croce. Il forte bisogno di ammodernamento, che era rimasto insoddisfatto e che era avvertito con vivezza in larghi strati del mondo cattolico, aveva subìto una vera e propria frustrazione in seguito alla repressione dei Modernisti che, soprattutto in Francia ma anche in Italia, si erano espressi con grande vivacità di idee. Quello stesso bisogno spinse il francescano Emilio Chiocchetti, nei primi anni del Novecento, ad accostarsi a Croce per dimostrare che una filosofia in sintonia con la fede cristiana non solo non era in contrasto con la Filosofia dello Spirito ma poteva addirittura trovare in quella la sua base d’appoggio. A Gentile si avvicinò, più tardi, Gustavo Bontadini, allievo di Chiocchetti, che, con intento analogo, utilizzò come piattaforma uno snodo cruciale del pensiero idealistico per erigervi un nuovo filosofema in difesa della trascendenza, confutando così la tesi che l’Attualismo fosse il peggior nemico della religione. Dopo la debacle del Modernismo e l’affievolirsi di voci importanti come quella del barnabita Giovanni Semeria, la Neoscolastica italiana, con alterne vicende e momenti ora bui ora luminosi, fu la novità filosofica più appariscente e più significativa in campo cattolico, almeno fino al Concordato.

L’avvento del Fascismo non fu fatale solo per i rapporti tra i due filosofi più importanti del Novecento. Esso aggravò la situazione del sacerdote Ernesto Buonaiuti, che era stato l’esponente di maggior spicco del Modernismo italiano e che pagò personalmente l’ostracismo della Chiesa e quello del regime al quale si era rifiutato di prestare giuramento di fedeltà. Favorì l’emergere nel mondo accademico di personaggi di dubbia levatura, mentre il vecchio Piero Martinetti o il giovane Calogero così come molti altri vennero emarginati o perseguitati. Il restringimento delle libertà civili e di pensiero non favorì certo il lavoro intellettuale e, in alcuni casi, distolse dai libri per volgersi all’impegno civile e alla lotta contro la dittatura ingegni promettenti o già maturi. Prima dello scoppio della Seconda Guerra mondiale il fenomeno filosoficamente rilevante fu la pubblicazione de La struttura dell’esistenza, opera con la quale Abbagnano segnava la data di nascita dell’Esistenzialismo italiano. Era un testo di rottura, aria nuova che rimescolava le carte e delle categorie metafisiche salvava solo il Possibile il quale, rivisitato profondamente, assorbiva quasi completamente l’Essere. Un Esistenzialismo, quello di Abbagnano, che schivava gli esiti aporetici di Heidegger e Jaspers. Nessuno scacco o angoscia, ma la consapevolezza della possibilità di una vita autentica se aderente alla struttura profonda dell’esistenza, dunque possibilità di scelta, grazie alla quale l’uomo, immerso nell’empirico e nel tempo, poteva sopravanzarlo e trascenderlo. Era così che, secondo l’esistenzialista italiano, la ragione umana limitata ma incondizionata si mostrava capace di costruire il proprio mondo. La convergenza con l’Esistenzialismo tedesco e francese si limitava al punto da cui la riflessione prendeva le mosse, mentre Abbagnano trovava una sintonia ben più forte con esponenti della filosofia americana e con il senso del concreto che questa portava con sé. Di qui anche lo sviluppo del Neoilluminismo, che scaturì direttamente dall’interno della filosofia di Abbagnano riaffermando l’importanza delle scienze, in polemica aperta con Croce e i suoi pseudoconcetti. Sociologia, psicologia, antropologia, storiografia filosofica trovarono forte valorizzazione e personaggi della levatura di Norberto Bobbio o Ludovico Geymonat vi si impegnarono seriamente. Però il posto che restava appannaggio della riflessione filosofica apparve poi quasi residuale, esautorato a vantaggio di altre necessità umane. Ancora una volta sembrava che l’emancipazione dalla metafisica non riuscisse a trovare un approdo teoreticamente vigoroso e convincente.

D’altra parte non fu l’Esistenzialismo, che ebbe accenti importanti e profondi anche con Luigi Pareyson, a dare il crollo ai sistemi idealistici di Croce e Gentile. Fu piuttosto un evento esterno, potente quant’altri mai, che ne segnò la crisi e il rigetto. La fine della Seconda Guerra mondiale segnò infatti un discrimine netto. Gli eventi tragici della dittatura e della guerra richiedevano di aprire un nuovo corso storico. Il dolore, l’orrore, la distruzione materiale e morale esigevano e reclamavano una ricostruzione anche culturale. Mentre pensatori isolati come Luigi Scaravelli o Enrico De Negri cominciavano a mostrare le falle dei filosofemi idealistici e della dialettica in particolare, prevaleva in campo filosofico un bisogno prepotente e complesso di allontanare definitivamente quello che era sembrato dominante nella prima metà del secolo. Così cadde drasticamente la censura su Gentile, troppo compromesso col Fascismo, e si abbandonò anche la filosofia di Croce perchè inadeguata al compito di cambiare il mondo, incapace di soddisfare le richieste dell’umanità nuova. A questa esigenza rigenerativa dava invece risposta il Marxismo, che emergeva proponendosi come vendicatore dei veri bisogni umani. Al Marxismo di Gramsci o Rodolfo Mondolfo -che avevano studiato Marx tenendo conto della lezione di Labriola, di Croce e di Gentile- si affiancava ora quello di pensatori distanti da questa tradizione che considerava Marx in stretta continuità con Hegel. In particolar modo Galvano Della Volpe volle svincolare Marx dal contesto idealistico, rimarcando che ciò che veniva in primo piano per il filosofo comunista era la questione del rapporto tra pensiero e realtà e che la filosofia non poteva più essere una faccenda del pensiero con se stesso. Questo “furore antiplatonico”, come ebbe a definirlo Eugenio Garin, puntava a mostrare come Marx, nonché essere epigono di Hegel, fosse stato il distruttore dell’Idealismo, lo smascheratore, una volta per tutte, dell’ideologia. Una luce negativa veniva gettata così sulla dialettica e su tutta la filosofia che da Hegel era passata per Spaventa e Gentile, aveva lambito Croce e toccato in profondità anche il marxismo italiano. Questa indicazione, sviluppata negli anni Settanta da Lucio Colletti, avrebbe portato il più famoso allievo di Della Volpe fuori del Marxismo e vicino a posizioni “realistiche” ispirate al Neopositivismo di Popper.

Nella ricerca di una razionalità diversa da quella idealistica s’impegnò anche Giulio Preti, che testimoniò il senso di crisi emerso con la vicenda europea e mondiale delle dittature e della guerra e che dall’Empirismo logico e dal Pragmatismo attinse elementi per una migliore definizione del rapporto tra pensiero e realtà, attento comunque a dotare le sue dottrine di impegno etico e sociale. Analogamente Enzo Paci prese le mosse dall’Esistenzialismo positivamente inteso, come Abbagnano aveva fatto capire che potesse essere, per spingersi a concepire l’esistenza come evento, anzi, come relazione di eventi senza sostanzialità, esperienza pura non assolutizzabile. Le nuove esigenze non lasciarono indenne neanche il campo cattolico, dove fu soprattutto il tema dell’esistenza come storia a sollecitare la riflessione di personaggi come Luigi Stefanini e Michele Federico Sciacca. Ma fu Pietro Prini che, successivamente, giunse a sostenere che la storicità costituiva il quid proprio della filosofia cattolica. La storia, diceva Prini, deve essere vissuta e non giudicata. Essa non è il campo di un fare malefico dell’uomo che si tratterebbe di ridurre alla ragione, ma la base della vita spirituale. Contingenza, finitezza, possibilità di essere e non essere, solo da qui muove la ricerca di un senso assoluto da riconoscere alla vita. Movenze esistenzialistiche, legato del Modernismo e tradizione rosminiana si combinavano in Prini in evidente contrapposizione con quanto la Neoscolastica di Francesco Olgiati aveva costruito dagli anni Trenta in poi. Infatti Monsignor Olgiati, lasciatasi alle spalle la lezione di Chiocchetti, era giunto a concepire la storia del pensiero come rigido rapporto di Verità ed Errore negando in sostanza un vero sviluppo storico, riecheggiando quasi certe modalità del Neotomismo ottocentesco, sia pure con dottrina e concetti più avveduti dei tempi. Erano, queste, concezioni inconciliabili tra loro, non esaustive del panorama cattolico dal quale emersero pure, con decisa originalità, personaggi come Gustavo Bontadini e Augusto Del Noce, che in un serrato confronto con il pensiero moderno e con l’Idealismo in particolare, giungevano ad esiti di possibile sintesi o, invece, di radicale divaricazione. La questione della storia e del suo rapporto con l’Assoluto fu quindi il problema che toccò corde profonde nel cuore dei cattolici e che le fece vibrare con modalità molto divergenti.

Storicità dell’esistenza e piena coincidenza di essa con l’Essere tout court fu il pensiero pervasivo di tutta l’opera storiografica di Eugenio Garin, nella quale si avvertivano pulsare insieme motivi positivistici, crociani e marxisti. Il dissolvimento della Categoria sembrava qui, più che altrove, il compito del filosofo in vista del recupero di una realtà tutta umana del pensiero e delle idee. Era, insomma, ancora una volta il tentativo di abbattere definitivamente ogni pretesa di Assoluto e di reductio ad unum. Tale posizione presentava similitudini con quella di un altro filosofo storiografo, Bruno Nardi, grande maestro del pensiero medievale che, mettendo tra parentesi la radice religiosa della sua ricerca, con grande rigore filologico abbatteva i confini della filosofia e ne dilatava l’identità andandone a ricostruire il profilo in ambiti diversi, come per esempio nella teologia. Ma nell’opera di Nardi restava acceso il senso del trascendentale, incarnato dai tanti studi dedicati all’intelletto aristotelico. Il compito teoretico implicito nell’esercizio storiografico dello studioso toscano è stato proseguito poi da Tullio Gregory, che ha ampliato il concetto del maestro estendendo lo studio al campo della scienza naturale e del linguaggio e ha dato vita con il Lessico Intellettuale Europeo a un grande istituto di ricerca storica.

Insomma, tra sviluppi originali e influenze fortemente sentite la filosofia italiana è andata ben oltre la metà del secolo. Il dialogo con la Fenomenologia e l’Esistenzialismo tedeschi e francesi, gli studi di filosofia del linguaggio e la ricezione della filosofia analitica hanno avuto un posto di rilievo nella seconda metà del Novecento. Non solo Banfi, anche Sofia Vanni Rovighi ha apprezzato Husserl e ne ha aperta la conoscenza in ambito neoscolastico. Quanto a Heidegger, moltissimi e da sponde diverse hanno attinto all’opera del filosofo di Marburgo. In modo originale, Gianni Vattimo ne ha esaltato il tratto antimetafisico indicandolo come la fonte più immediata del suo “pensiero debole”. La filosofia del linguaggio con Tullio De Mauro e Umberto Eco ha creato vere e proprie scuole di pensiero. La filosofia analitica ha trovato e trova interesse crescente, in un panorama nel quale la spinta preponderante sembra ancora quella del contrasto alla metafisica che, bandita ormai da secoli, dal numero dei nemici che raccoglie farebbe credere di non essere morta mai. Assoluto, Verità, sono categorie abbandonate dalla maggior parte dei filosofi italiani a favore di un più sobrio impegno con concetti meno altisonanti e più vicini –si dice- ai bisogni reali degli uomini. A questa linea di tendenza fanno eccezione Emanuele Severino e Gennaro Sasso che, diversi per formazione e atteggiamento, convergono nella critica alla tradizione metafisica che non è però critica alla metafisica tout court, e anzi la rivisitano in una nuova comprensione delle sue radici e della sua intima essenza. Così, al bisogno di uscire dai confini nazionali fortemente sentito da larga parte degli autori più giovani, fa riscontro l’insistenza di una riflessione, minoritaria ma incisiva, che trova linfa nel riesame di segmenti strutturali del pensiero metafisico indagati in punti cruciali della storia della filosofia, non da ultimo di quella italiana.


LEMMARIO




Finanze ecclesiastiche - vol. II


Autore: Giovanni Gregorini

Il tema della gestione economico-finanziaria dei beni della Chiesa nell’Italia postunitaria appare storicamente caratterizzato da alcune tappe normative ben definite, le quali si incontrano e quindi interagiscono con percorsi differenziati in termini di prassi strategiche praticate a livello centrale vaticano come in sede locale diocesana, compresi i rapporti tra le diocesi stesse ed i diversi tipi di enti ecclesiastici esistenti sul territorio. In tale ambito generale alla non marginale questione del mantenimento del clero secolare distribuito sul territorio si unisce dunque quella dell’amministrazione finanziaria dei beni posseduti dalla Chiesa ai diversi livelli, come pure quella delle interconnessioni che si sono verificate con le economie di altre entità istituzionali di natura religiosa, dovendosi in tutto ciò compendiare normative canonistiche, civilistiche e concordatarie comprese le relative giurisprudenze.

In età contemporanea una prima svolta legislativa si verificava presso la monarchia Sabauda alla metà del XIX secolo, allorquando al tentativo di ridimensionare la rilevanza economica e finanziaria della Chiesa giungevano anche gli Stati liberali, dopo le precedenti esperienze dei sovrani riformatori e degli interventi napoleonici. In tale prospettiva si ponevano le cosiddette leggi Siccardi (n.1013 del 9 aprile e n.1037 del 5 giugno 1850), le quali nell’ambito di una ratio separatista abolivano alcuni privilegi goduti sino ad allora dal clero cattolico (foro ecclesiastico, diritto di asilo, manomorta), ma ancor più la legge Rattazzi n.878 del 29 maggio 1855, mediante la quale il Regno di Sardegna disponeva la soppressione delle Corporazioni religiose non dedite a predicazione, assistenza degli infermi ed istruzione, prevedendo altresì la devoluzione delle loro proprietà all’ente governativo denominato dapprima Cassa ecclesiastica, in seguito Fondo per il culto. Tramite la vendita dei beni degli enti ecclesiastici così soppressi, come pure riscuotendo un contributo dagli altri enti mantenuti e più dotati finanziariamente, la citata cassa doveva assicurare ai parroci meno tutelati economicamente la garanzia di un reddito minimo. In questo modo lo Stato contribuiva al sostentamento del clero non più gravando sul proprio bilancio, ma attingendo al nuovo fondo in tal modo costituito dal quale veniva estratto il cosiddetto supplemento di congrua.

Quest’ultimo, dal canto suo, si andava ad aggiungere al beneficio ecclesiastico, ovvero alla figura giuridica che veniva affiancata al singolo ufficio parrocchiale – come poteva essere in maniera diffusa e prevalente la stessa parrocchia –, rappresentandone la dotazione patrimoniale (mobiliare ed immobiliare) con la cui redditività veniva storicamente retribuito il funzionario ecclesiasticamente corrispondente. Concretamente la retribuzione versata dallo Stato a titolo di congrua consisteva in una prestazione la cui natura era quella di un assegno alimentare a carattere personale, era indicizzata alla rendita garantita dal beneficio, ed era quantificata sul reddito dominicale in base al quale venivano altresì calcolate le imposte. La congrua veniva corrisposta agli ufficiali ecclesiastici il cui beneficio garantiva redditi in misura inferiore ad una determinata somma minima stabilita dalla legge, prevedendosi progressivi aggiornamenti legati alla svalutazione monetaria corrente. Nel 1922 il sistema così delineato veniva esteso ai vescovi, ai vicari, ai cappellani curati ed ai canonici semplici.

Per quanto concerneva più in particolare i vescovi diocesani, nel corso della prima metà del XIX secolo persisteva la funzionalità della cosiddetta mensa vescovile (o episcopale), ovvero della istituzione più che millenaria rappresentata dal patrimonio di beni mobili e di immobili a disposizione dell’Ordinario per il mantenimento della propria persona e di coloro che svolgevano funzioni al suo servizio. Costituita soprattutto da proprietà fondiarie, essa era storicamente gravata da consistenti oneri sia da parte della curia papale che dagli Stati regionali e nazionali, mentre nel complesso veniva consistentemente intaccata mediante incameramento statale stabilito dalle leggi eversive postunitarie di cui si dirà in seguito. Di tutta rilevanza finanziaria erano poi le Fabbriche delle cattedrali, economicamente correlate ai relativi Capitoli quanto meno nelle più grandi diocesi italiane, i cui sviluppi funzionali si sono evoluti sino alla contemporaneità più recente.

Gli antichi Ordini religiosi sopravvissuti continuavano a mantenersi in virtù delle rispettive storiche dotazioni patrimoniali opportunamente amministrate, con un ruolo solo gradualmente crescente attribuito alla redditività ottenuta mediante remunerazione del lavoro produttivo svolto all’interno dei monasteri. Erano invece soprattutto le nuove Congregazioni religiose ottocentesche – sia maschili ma soprattutto femminili – che venivano gravemente colpite da altri specifici interventi normativi nella fase immediatamente postunitaria, le cosiddette leggi eversive del 1866 e 1867, coinvolgenti anche le mense vescovili. Sinteticamente, la legge n.3036 del 7 luglio 1866 negava il riconoscimento giuridico (e quindi la capacità patrimoniale) a tutti gli Ordini, le Corporazioni, e le Congregazioni religiose regolari, ai conservatori ed i ritiri che comportavano vita in comune con carattere ecclesiastico. I beni di proprietà di tali enti soppressi venivano incamerati dal demanio statale, mentre parallelamente veniva stabilito l’obbligo di iscrizione nel Gran libro del debito pubblico di una rendita del 5% a favore del fondo per il culto. Era quindi sancita l’incapacità per ogni ente morale ecclesiastico di possedere immobili, ad eccezione delle parrocchie; in tal senso venivano incamerati anche i beni delle citate mense vescovili. La legge n.3848 del 15 agosto 1867, invece, prevedeva la soppressione di tutti gli enti secolari ritenuti dallo Stato superflui per la stessa vita religiosa della nazione: rimanevano esclusi dal provvedimento i seminari, le cattedrali, le parrocchie, i canonicati, le fabbricerie e gli ordinariati.

La storiografia più recente ha mostrato come l’applicazione della legislazione citata trovava talvolta in sede locale elementi elusivi di resistenza, come pure si avviava una serie di prassi economiche e legali capaci di conservare l’esistenza e soprattutto la funzionalità delle Congregazioni religiose alle quali era stata negata la capacità giuridica. In questa prospettiva si verificavano casi di riacquisto dei beni delle mense vescovili intestati successivamente a laici, ma garantiti in possesso ai relativi vescovi, come avveniva ad esempio a Bergamo. Per quanto concerneva invece le Congregazioni, che continuavano a vivere e prosperare grazie prevalentemente ai risparmi derivanti dal lavoro dei religiosi e delle religiose, si diffondevano pratiche ancora più varie e complesse: l’acquisto di beni poi intestati a singole suore in qualità di libere cittadine; la compravendita per interposta persona; la costituzione di società civili o di enti morali (quali le società tontinarie, le trasformazioni degli istituti in enti morali, la costituzione di società per azioni o immobiliari o ancora cooperative, l’adesione a società diocesane, la creazione di casse rurali e piccoli crediti). Nel caso delle società diocesane, come la Juventus di Bergamo (1919) o la Domus di Vicenza (1920), si venivano intrecciando le forze economico-finanziarie delle diocesi con le esigenze di tutela e protezione delle Congregazioni religiose in una non breve fase di continui timori e minacce ulteriormente soppressive.

Con riferimento precipuo alla Sede apostolica, la questione della gestione dei beni appartenenti alle finanze vaticane subiva una prima forte sollecitazione con la nascita del regno d’Italia, ed il conseguente ridimensionamento del territorio ricompreso nei confini dello Stato pontificio. In relazione a tutto ciò riprendeva grande vigore il ruolo svolto in entrata nel bilancio vaticano dall’Obolo di S. Pietro, la più importante forma di contribuzione dei fedeli cattolici di tutto il mondo per il sostegno della Santa Sede. Tuttavia un’ulteriore evoluzione ancora più consistente, anche perché definitivamente traumatica, avveniva con gli eventi del 20 settembre 1870 e quindi con l’annessione all’Italia del Lazio e di Roma stessa. Si apriva in questo modo un lungo dissidio avviato a soluzione solo con il Concordato del 1929, dato che la stessa legge 13 maggio 1871 delle Guarentigie prevedeva una cospicua dotazione annua per il papato a compensazione parziale delle perdite subite, rifiutata però da Pio IX (Questione romana).

A seguito di tali eventi, tra scelte consapevoli e risposte contraddittorie a situazioni congiunturali, iniziava a configurarsi una poliedrica strategia del papato moderno volta a potenziare il proprio raggio di operatività – e la conseguente capacità di incidere sulle società contemporanee mondiali – facendo leva sugli strumenti economico-finanziari, alla luce della ormai definitiva perdita di ogni formula di potere temporale. In questo senso il 5 agosto 1871 veniva consolidata istituzionalmente l’Opera dell’obolo di San Pietro, mentre dal 1878 papa Leone XIII nominava un Prefetto dei sacri palazzi nonché Amministratore del patrimonio rimasto alla Santa Sede, nella persona del suo segretario di Stato. Successivamente, con motu proprio dell’11 dicembre 1880 e 23 maggio 1883, veniva incaricata una Commissione cardinalizia di sovrintendere all’Amministrazione dell’obolo e del patrimonio della Santa Sede con voto consultivo. Più stabilmente, nel 1891 veniva affidata a detta Commissione la diretta amministrazione del patrimonio della Santa Sede, con incarico di estendere le proprie cure a tutti gli altri rami e affari economici ad essa correlati. Pio XI a sua volta, con motu proprio 16 dicembre 1926, disponeva invece la riunione delle suddette funzioni con gli uffici amministrativi della Prefettura apostolica e della Sezione dicasteri ecclesiastici, costituendo così la generale Amministrazione dei beni della santa sede.

In tale contesto otto-novecentesco prendeva forma il graduale quanto inarrestabile passaggio dal prevalente interesse delle finanze vaticane (ed in generale ecclesiastiche) per il settore immobiliare, specie della proprietà terriera, a quello più efficacemente rivolto al comparto tipicamente finanziario, di per sé più elusivo e dinamico anche in un senso transnazionale. Così si ampliavano le fonti di finanziamento della Sede apostolica, unendosi alla raccolta delle offerte che giungevano da tutto il mondo la redditività derivante dalle forme sempre più diversificate di investimento, per cui si veniva formando un modello di finanza globale capace anche di offrire sostegno alle Chiese locali bisognose, pure tramite la gestione separata della Congregazione De propaganda fide. E mentre le forme di sostentamento del papato si articolavano in un senso planetario, si verificava una corrispondente internazionalizzazione (specie americanizzazione) della curia romana e del collegio cardinalizio.

Nel peculiare caso italiano, si aprivano ampi spazi per esperienze diversificate di interconnessione tra ambiti strettamente ecclesiali ed ambienti finanziari guidati da personalità del cattolicesimo sociale, come avveniva ad esempio nel caso della Banca cattolica del Veneto o del sistema creditizio attivato in Lombardia da Giuseppe Tovini, fondatore di Banca di Vallecamonica, Banca San Paolo di Brescia e Banco ambrosiano a Milano (seguendo quindi una evidente progressione territoriale), come pure nel caso degli intrecci articolati sull’intero territorio nazionale resi possibili dal movimento del credito cooperativo e popolare, ancora oggi orientato alla ricerca della solidarietà efficiente e storicamente ispirato dall’iniziale realtà delle casse rurali ed artigiane, diffuse nelle diocesi italiane a partire dagli anni Ottanta del XIX secolo. Le complesse vicende legate agli sviluppi dei rapporti tra Vaticano e particolari istituti di credito come il Banco di Roma guidato da Ernesto Pacelli, il Banco di Santo Spirito, la Cassa di risparmio di Roma ed il citato Banco ambrosiano rappresentano ulteriori ambiti – anche estremamente critici – di evoluzione della storia delle finanze ecclesiastiche nel corso del Novecento sino ad oggi.

Esito di una graduale intesa tra Stato e Chiesa avviatasi nel primo dopoguerra italiano, i Patti Lateranensi sottoscritti l’11 febbraio 1929 rappresentavano una svolta novecentesca fondamentale, comprendendo una apposita convenzione finanziaria allegata al trattato, con cui si stabiliva che il patrimonio immobiliare della Santa Sede (di cui veniva fornito un elenco dettagliato) godeva di numerose esenzioni specie dal punto di vista tributario, ma soprattutto venivano chiuse le pendenze economiche fra le parti in causa mediante un cospicuo versamento da parte del governo italiano (750 milioni di lire) unito alla cessione di una consistente quantità di consolidato italiano 5% al portatore (1 miliardo di lire), quale indennizzo dei danni subiti dal papato con l’annessione degli ex Stati pontifici all’Italia e la conseguente liquidazione di buona parte dell’asse patrimoniale ecclesiastico. In relazione a questi eventi papa Pio XI, mediante motu proprio del 7 giugno 1929, costituiva l’Amministrazione speciale della Santa Sede, allo scopo prevalente di gestire i citati fondi versati dal governo italiano al Vaticano.

In seguito all’accordo generale rappresentato dal Concordato, inoltre, con gradualità le Congregazioni religiose potevano acquisire – richiedendola – la personalità giuridica e quindi la possibilità di tornare nella piena titolarità dei loro beni, cosa che avveniva in maniera cadenzata sia per radicati sospetti rispetto alle prospettive evolutive di rapporto tra Chiesa e regime, sia per questioni fiscali tutt’altro che marginali.

Dal canto suo, a partire dal 1942, la Chiesa cattolica a livello centrale continuava a perseguire le proprie strategie di investimento nell’ambito del capitalismo finanziario contemporaneo per mezzo dell’Istituto per le opere di religione (Ior) – pensato sin dal 1887 nella forma della Commissione ad pias causas – provvedendo alla custodia ed all’amministrazione dei beni mobili ed immobili trasferiti o affidati allo stesso da parte di persone fisiche o giuridiche, beni comunque destinati ad attività religiose o di carità. Lo Ior, nonostante sia tutt’oggi un’entità economico-finanziaria che utilizza strumenti bancari impegnandosi in operazioni di intermediazione creditizia, si considera un’organizzazione senza scopo di lucro, che continua a svolgere la propria funzione istituzionale prima delineata. Il network finanziario generato dalla operatività di questo ente nel corso del XX secolo ha avuto stagioni di particolare efficacia come quella della direzione affidata a Bernardino Nogara (negli anni 1929-1954, quindi sia nell’ambito dell’Amministrazione speciale che dello Ior), nonostante le gravi difficoltà generate dalla grande depressione mondiale seguita al crollo di Wall Street nel 1929 e quelle correlate agli eventi della seconda guerra mondiale, valorizzando appieno il suo ruolo personale ricoperto all’interno della Banca commerciale italiana. Tuttavia seguivano anche periodi di più discussa funzionalità, come quello della guida di Paul Marcinkus, specie in relazione al coinvolgimento nel crack del Banco ambrosiano datato 1982. Successivamente – con gradualità, successi e sconfitte – una serie di circostanze sia interne (le alternanze alla guida dell’ente) che esterne (e quindi ambientali, come l’instabilità dell’economia globale oppure la revisione degli accordi monetari intercorsi con l’Unione Europea per quanto concerne le norme sul riciclaggio dei proventi di attività criminose e di finanziamento del terrorismo) hanno indotto a privilegiare obiettivi di sempre maggiore linearità e trasparenza proprio nella amministrazione dello Ior, ispirandosi anzitutto ai principi stabiliti nel Motu Proprio di Benedetto XVI datato 30 dicembre 2010 (istitutivo tra l’altro dell’Autorità di Informazione Finanziaria).

Con il 1967 invece – nell’ambito della riforma della Curia vaticana fortemente voluta da Paolo VI – nasceva l’Apsa (Amministrazione del patrimonio della sede apostolica), istituzione che concentrava due precedenti uffici (l’Amministrazione dei beni della Santa Sede e l’Amministrazione speciale della Santa Sede) ed acquisiva le competenze di gestione dei beni complessivamente posseduti dal Vaticano destinati a fornire fondi necessari all’adempimento delle funzioni della curia romana, secondo uno schema in due sezioni: la sezione ordinaria si occupava dell’amministrazione del patrimonio della curia suddetta, la sezione straordinaria gestiva invece il patrimonio mobiliare di tutti gli enti vaticani. Vedeva la luce contemporaneamente la Prefettura per gli affari economici, quale istituto di vigilanza e di controllo formale dei bilanci economici redatti dai diversi organismi vaticani.

Sempre a partire dalla metà del XX secolo, in sede locale diocesana e quindi con pratiche differenziate a seconda dei contesti e delle consuetudini, si radicavano talune procedure di gestione dei beni appartenenti alla Chiesa mediante l’istituzione ad esempio di Consorzi economici diocesani, mentre non raramente l’Ordinario o suo delegato partecipava alla nascita ed all’amministrazione di appositi enti (spesso fondazioni) creati per perseguire finalità assistenziali ed in generale caritative, dotati in certi casi di patrimoni finanziari anche ingenti. Il legame tra gerarchie ecclesiastiche e personalità del mondo economico (specie bancario), che spesso guidavano le citate istituzioni, costituisce ancora oggi uno dei tratti distintivi della presenza sociale cattolica nel tempo della globalizzazione.

Il Concilio Vaticano II portava dal canto suo ad una ulteriore svolta maturata internamente alla Chiesa, che avrebbe condotto a definitive conseguenze nel medio periodo. Dando concretezza alle indicazioni avanzate nel decreto Presbyterorum ordinis (soprattutto al n.20), l’applicazione del canone 1274 del Codice di diritto canonico prevedeva il passaggio cadenzato dal precedente sistema beneficiale di retribuzione del clero ad un nuovo più moderno e più equo modello, caratterizzato dalla nascita degli Istituti diocesani (o interdiocesani) per il sostentamento del clero. A questi si giungeva concretamente all’indomani dell’accordo 15 novembre 1984 di revisione del Concordato tra Stato italiano e Chiesa cattolica, grazie anche alla legge n.222 del 20 maggio 1985 (in particolare il capo I) con la quale il governo nazionale si impegnava a continuare a corrispondere i supplementi di congrua fino all’entrata in vigore del nuovo sistema. I vecchi benefici ecclesiastici dunque si estinguevano e i loro patrimoni venivano devoluti ai suddetti Istituti, che succedevano ai primi in tutti i rapporti economici attivi e passivi. Da questa modalità di trasferimento rimanevano esclusi gli edifici di culto e tutti i beni estranei alla dote del beneficio che invece venivano trasferiti alle diocesi o alle parrocchie, appositamente individuate entro il 30 settembre 1986.

A completamento del nuovo schema la Conferenza episcopale italiana ha attivato un Istituto centrale per il sostentamento del clero, nato con un fondo di dotazione conferito dalla CEI stessa. Le ulteriori entrate principali sono costituite, in base a quanto previsto dalla citata legge 222 (art.40), dalle oblazioni ricevute dai fedeli (detraibili dal reddito imponibile), come pure dalle somme derivanti dalla quota di imposizione nazionale (8 per mille dell’irpef) devolute a scopi di carattere religioso a diretta gestione della Chiesa. Per sua natura l’Istituto centrale opera in via sussidiaria rispetto agli Istituti diocesani, i quali possono far fronte alle loro necessità attingendo ai rispettivi patrimoni ma altresì ricevendo il contributo dell’Istituto centrale in caso di bisogno.

Fonti e Bibl. essenziale

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LEMMARIO




Folclore - vol. II


Autore: Stefano Brancatelli

Terminologia. Sin dalla sua coniazione nel 1846, il lemma f. (dal sassone folk = popolo e lore = sapere) è sistematicamente avversato in Italia sia in ambito civile accademico che in quello ecclesiale. Lo studio del f. nel nostro Paese ha in effetti sofferto a lungo una sorta di sudditanza psicologica verso l’estero a causa del mito romantico di una penisola “povera di leggende”, cosicché l’endemico ritardo che ne seguì comportò per lungo tempo la mera applicazione di metodi già sperimentati altrove: fu la “demopsicologia” di Pitré, alla fine dell’800, a riuscire a superare questo complesso d’inferiorità, facendo vantare il primato di una specifica Bibliografia delle tradizioni popolari d’Italia e di una scuola da contrapporre all’allora prevalente indirizzo della cultura inglese e finnica che limitava l’oggetto materiale del f. alle sole “tradizioni letterarie”. A causa di tale tentativo di emanciparsi dalla cultura d’oltralpe, oltre che per repulsione verso i vocaboli stranieri, al termine fu preferito il più comprensivo “tradizioni popolari” che rivela la sensibilità tutta italiana di non precludersi al mondo dell’oralità, delle credenze, dei costumi e dei riti del patrimonio popolare materiale ed immateriale. In ambito ecclesiale, invece, si optò per termini quali religione, religiosità o pietà popolare, indicanti quel sott’insieme del f. purificato da credenze superstiziose spurie rispetto all’ortodossia.

Excursus storico. L’inizio degli studi sul f. è un fenomeno tutto ottocentesco: se per alcuni autori è possibile rintracciarne i precursori sin dal XVI secolo, in Italia la vera svolta si ebbe col palermitano G. Pitrè (1841-1916). Il suo metodo, desunto dalla scuola antropologica inglese, estese il concetto di tradizione anche alle “reliquie” o “avanzi di riti scomparsi” che gli antropologi scartavano perché non soddisfacenti il criterio di antichità e che i folcloristi relegavano ad una sezione dell’etnologia. Sua, tra l’altro, la monumentale Biblioteca delle tradizioni popolari siciliane (1870-1913) in cui si occupò di canti, proverbi, racconti, cartelli e pasquinate, medicina popolare, giochi, spettacoli, usi, credenze, feste patronali. Sulla sua scia, furono in particolare R. Corso (Amuleti contemporanei calabresi, 1909; Carri sacri in Italia, 1922; etc.) e R. Pettazzoni (La religione primitiva in Sardegna, 1912; I misteri, 1924; etc.), a tentare di valicare gli argini del f. ancora relegato nell’alveo del naturalismo e a sopperire alla carenza di studi appositi sul f. religioso. Il comparativismo e lo storicismo continuarono però a leggere il f. religioso come persistenza arcaica di sincretismi pagano-cristiani, accentuando in ambito culturale intraecclesiale una deriva antifolclorica a tutto campo: è del 1923, ma edito postumo, il testo Meditazioni vagabonde. Psicologia popolare della vita religiosa in Sicilia di A. Ficarra (già distintosi come esperto di San Girolamo e che nel 1937 diverrà vescovo di Patti), permeato del rifiuto verso qualsiasi forma di devozione popolare ed emblematico di quella dialettica già presente nella Chiesa del primo ‘900 tra elitarismo culturale e religione popolare. Nel secondo dopoguerra, G. De Luca, dall’ambito volutamente sconfinato di interesse del suo “Archivio italiano per la storia della Pietà” (1951-), escludeva a priori gli studi sul f., conducenti per lui effettivamente più “a storia eccentrica del costume, a storia aneddotica delle religioni” (Introduzione, 1951) che ad altro. Si impossessò del tema invece la storiografia marxista: la rilettura che E. De Martino fece dei Quaderni del Carcere di A. Gramsci, indusse la nuova demologia ad accentuare la cesura netta colla tradizionale demopsicologia, accusata di neutralità ideologica ed interesse erudito o estetico, per tentare una definizione di f. scevra dell’idea romantica di identificazione nazionale ed incentrata sul tentativo dei popoli di contrapporsi alla cultura dominante. Nel 1971 A.M. Cirese in Cultura egemonica e culture subalterne contribuì a collocare tali studi all’interno del paradigma della lotta di classe. L’insegnamento conciliare del Vaticano II privilegiò invece una prudente posizione di favore ed integrazione verso “le consuetudini dei popoli, nella misura in cui sono buone, e accogliendole le purifica, le consolida, le eleva” (LG 13). Su questa linea si pose il Magistero che, pur chiedendo di purificare le feste da incrostazioni superstiziose indulgenti al f., disapprovava forme iconoclaste di disprezzo della pietà popolare. La sistematizzazione di tale pensiero, con la valorizzazione della “religione popolare” ed il superamento del pregiudizio di una sua contrapposizione a quella “prescritta” dalla gerarchia, giunse con Gabriele De Rosa (Chiesa e Religione popolare nel Mezzogiorno, 1970; etc.) e con diversi contributi del gesuita Giuseppe de Rosa.

Conclusioni. Se il tema, inaspettatamente, è divenuto motivo di scontro tra letteratura scientifica laica e cattolica, a ben rifletterci analogo itinerario ha avuto anche la discussione sulla provenienza delle forme liturgiche da miti precristiani. Il dialogo tra patrologia, liturgia e storia delle religioni ha consentito il superamento della tendenza comparativista ad invenire approssimative analogie con gesti fondamentali comuni a più religioni. L’apporto della Storia della Chiesa, sulle orme della “storia della mentalità” di De Rosa e della “storia della pietà” di De Luca, tolto il pregiudizio, oramai superato, dell’equazione folklore=meridione=arretratezza potrebbe operare similari risultati anche in campo folclorico.

Fonti e Bibl. essenziale

G. De Rosa, La religione popolare: storia, teologia, pastorale, Edizioni Paoline, Roma 1981; G. Cocchiara, Storia del folklore in Italia, Sellerio, Palermo 19893; A. Ficarra, Le devozioni materiali: psicologia popolare e vita religiosa in Italia, a cura di R. Cipriani, La Zisa, Palermo 1990; C. Prandi, La religione popolare fra tradizione e modernità, Queriniana, Brescia 2002; G. Pitré, Bibliografia delle tradizioni popolari d’Italia, a cura di A. Rigoli, Documenta, Palermo 2003. Riguardo al Magistero: Episcopato italiano, Vivere la fede oggi, 1971; Episcopato siciliano, Le feste cristiane, 1972; Vescovi dell’Abruzzo e Molise, Le feste religiose popolari, 1994; Congregazione per il culto divino, Direttorio su pietà popolare e liturgia, 2002.


LEMMARIO