Associazione Italiana dei Professori di Storia della Chiesa

Dizionario Storico Tematico La Chiesa in Italia
Dopo l'Unità Nazionale
Roma 2015
Copyright © 2015

Fumetto - vol. II


Autore: Stefano Gorla

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L’argomento fumetto richiede alcune accortezze prendendo coscienza che la lingua italiana riguardo il fumetto, porta con sé pluralità semantiche e qualche ambiguità. Elemento essenziale nel fumetto è l’interdipendenza tra due codici – l’iconico e il verbale – che crea un linguaggio. Al linguaggio va accostata come, altrettanto essenziale, la dimensione narrativa: il fumetto racconta storie attraverso una sequenza di elementi – vignette – strettamente relazionate tra loro. La vignetta è generalmente un’area bidimensionale e planare che descrive uno spazio tridimensionale, un certo periodo di tempo e ha un particolare collegamento con la vignetta che la precede e con quella che la segue creando così la trama del racconto, racchiudendo in sé tutto un universo simbolico che stimola il lettore all’interazione e gli offre il piacere derivante dalla sua comprensione.

Da un punto di vista della teoria dei media, il fumetto è un medium. Diffuso e penetrante, ha un suo linguaggio originale, riproducibilità tecnica ed è in grado di rappresentare la realtà, di comunicare, di fornire conoscenza ed esperienza del reale.

Il fumetto come medium è il frutto di un processo che lo inserisce nel contesto culturale ottocentesco con uno sguardo alle immagini in sequenza, patrimonio dell’illustrazione europea, da cui emergono i lavori di Rodolphe Töpffer (1799-1846) e i fogli illustrati con “stampe popolari” come sono chiamate in Italia. L’Ottocento è anche il secolo in cui si verifica l’esplosione della stampa di massa con la nascita del giornale, vera rivoluzione mediale; il fumetto si intreccia con il giornalismo e con i giornali per ragazzi.

L’avventura del fumetto italiano nasce il 27 dicembre 1908 con il “Corriere dei Piccoli” – supplemento illustrato del “Corriere della Sera” – che ha esplicitamente e strategicamente dato spazio al fumetto, pur depotenziandolo con la rinuncia all’uso dei balloons, adottando al loro posto versi in rima. Una testata che assunse consapevolmente le trasformazioni sociali e culturali ponendosi come spazio di identità e tradizione senza temere di contaminarsi con quanto giungeva da oltre oceano. Si raccolgono così le esperienze come quella del “Giornale per i Bambini” di Ferdinando Martini (Firenze, 1881) dove apparve, a puntate, la prima edizione del “Pinocchio” di Collodi, ma anche del “Novellino” (Roma, 1898) dove avevano già fatto sporadica apparizione la riproduzione di due tavole a fumetti di Yellow Kid (1904), il personaggio nordamericano che il mito fondativo dei comics celebra come primo personaggio a fumetti. Altra esperienza preziosa fu quella del “Giornalino della Domenica” (Firenze, 1906) di Vamba, alias Luigi Bertelli, dove trovarono spazio molti dei cosiddetti proto-fumetti.80 - Fumetto 1

Nel fumetto, elemento centrale sono i personaggi. Da subito in Italia si dedicano a quest’arte raffinati artisti-illustratori e narratori di grande caratura per lo più giunti dal mondo dell’illustrazione per ragazzi, come Attilio Mussino che crea il primo personaggio seriale italiano: Bilbolbul; e poi il mago del liberty Antonio Rubino, Sergio Tofano e Guido Moroni Celsi. L’immaginario di italiani grandi e piccini si popola di personaggi e storie a fumetti. Si presta attenzione anche alle formule e ai formati editoriali, mentre si sperimentano nuove grammatiche narrative approfondendo l’uso dell’onomatopea e delle metafore grafizzate e lavorando sugli intrecci narrativi, cercando così di conquistarsi la fedeltà dei lettori. Tra gli anni ’20 e ’30 nascono e crescono una gran varietà di personaggi (su tutti il soldato mite Marmittone di Angoletta e il borghese Sor Pampurio di Carlo Bisi) con storie tutte improntante al filone pseudo-educativo, dove gli adulti puniscono e aggiustano i danni dei piccoli, facendo trionfare la morale dell’obbedienza. Al Corrierino si affiancarono da subito molte riviste dalle formule diversissime come “Lo Scolaro” (1912), “L’Illustrazione dei Piccoli” (1914) e riviste legate al mondo ecclesiale come “Italia Missionaria” (1919) e “il Giornalino” (1924): due testate fondate dai beati Paolo Manna e Giacomo Alberione che coniugano “l’educare divertendo” con i temi della fede. Con la formula apparsa nel 1925 in America “to be continued…” e subito importata, si mettono le basi per il fumetto d’avventura. La narrazione si dilata e alla gag umoristica finale si sostituisce la suspance che lega il lettore alla storia. I fumetti di avventura si svilupparono per tutti gli anni trenta toccando apici formali e contenutistici di notevole levatura. Nel 1937, in seno all’Azione Cattolica nasce “Il Vittorioso”, palestra di autori italiani e di fumetti di altissima qualità.

È soprattutto con il western che si sviluppa l’avventura italiana ma restano forti anche i fumetti che guardano all’avventura della fede, con vite di santi e di personaggi biblici, e ben praticata è anche la fantascienza.

La stagione degli anni Sessanta è particolarmente ricca per il fumetto italiano, non solo per la copiosa nascita di personaggi ma anche per la risonanza che i fumetti hanno nell’ambito più vasto delle culture. Avventura, umorismo, nascita di riviste e personaggi che hanno galvanizzato milioni di lettori. L’eclissi delle riviste a fumetti arriva negli anni novanta e il fumetto italiano sopravvive nel fumetto popolare della Sergio Bonelli Editore e in alcune testate per ragazzi. Negli anni 2000 con la formula dei romanzi disegnati, il fumetto arriva nelle librerie e nelle biblioteche degli italiani. Nessun genere gli è alieno dalla biografia al romanzo di formazione, dall’avventura al giornalismo grafico.

Fonti e Bibl. essenziale

F. Giromini, M. Martelli, E. Pavesi, L. Vitalone, Gulp! Cento anni a fumetti, Electa, 1996; S. Gorla – F. Luini, Nuvole di carta, Paoline, 1998; C. Gallo – G. Bonomi, Tutto cominciò con Bilbolbul, Perosini, 2006; (a cura di) S. Brancato, Il secolo del fumetto, Tunué, 2008; (a cura di M. Allegri e C. Gallo), Scrittori e scritture nella letteratura disegnata, Fondazione Arnoldo e Alberto Mondadori, 2008; G. Vecchio, L’Italia del Vittorioso, Ave, 2011.


LEMMARIO




Geografia ecclesiastica, Diocesi - vol. II


Autore: Emanuele Castelli

Dall’Unità ai Patti Lateranensi. Il problema della geografia ecclesiastica italiana e, nello specifico, la questione del numero delle diocesi sul territorio nazionale si posero con forza sin dai primi anni della raggiunta Unità per le seguenti ragioni. Delle 845 diocesi registrate intorno al 1861 in tutto il mondo cattolico, 538 diocesi appartenevano a Paesi latini (la cui popolazione cattolica assommava a 134 milioni di persone) e di queste 293 nella sola Italia, la cui popolazione era però di circa 26 milioni di abitanti (per questi dati cfr. C. Snider, L’episcopato del cardinale A.C. Ferrari, II, I tempi di Pio X, Vicenza 1982, p. 185). Inoltre, il numero delle diocesi sul territorio italiano era superiore di parecchie volte a quello delle province del nuovo Regno. L’alto numero di circoscrizioni diocesane sul territorio italiano sia in rapporto al restante mondo cattolico latino sia rispetto alla suddivisione territoriale statale poneva di conseguenza vari problemi. Da un lato, la molteplicità degli enti di culto non favoriva una razionale amministrazione del patrimonio ecclesiastico italiano. Dall’altro, la non corrispondenza tra circoscrizioni diocesane e province comportava che, per esempio, uno stesso prefetto fosse contemporaneamente obbligato a confrontarsi, per la gestione del territorio affidato, con cariche e uffici ecclesiastici di diverse circoscrizioni.

Il bisogno di eliminare questi e altri inconvenienti pose perciò la questione del riordino della geografia ecclesiastica italiana avendo come obiettivo una riduzione del numero delle diocesi. Per raggiungere tale risultato, si rendeva naturalmente necessaria la collaborazione tra Stato Italiano e S. Sede, ma nessun significativo provvedimento poté essere adottato fino alla stipula dei Patti Lateranensi nel 1929. Le difficoltà che ostacolarono così a lungo il raggiungimento di tale primo accordo furono molteplici. Da un lato, infatti, andavano superati gli attriti che si trascinavano sin dai primi decenni dell’Unità tra i due Stati. Dall’altro, la riduzione del numero delle circoscrizioni diocesane, voluta all’epoca soprattutto da parte del Governo Italiano, pur essendo auspicata anche dalla S. Sede, non poteva non incontrare una certa opposizione da parte degli enti ecclesiastici che dovevano essere soppressi e dei fedeli il cui vescovado sarebbe stato trasferito. Fu perciò solo nel 1929 che si giunse a un primo accordo per una ridefinizione del numero delle diocesi, affinché esso fosse maggiormente corrispondente al numero delle province civili.

Dai Patti Lateranensi al decreto della Congregazione dei vescovi del 1986. Gli articoli 16 e 17 dei Patti Lateranensi tra Stato e Chiesa italiana furono riservati al tema della riorganizzazione diocesana. Vi si stabilì tra l’altro che le “Alte Parti contraenti procederanno d’accordo, a mezzo di commissioni miste, ad una revisione della circoscrizione delle diocesi, allo scopo di renderla possibilmente rispondente a quella delle province dello Stato” (primo com., art. 16). Si stabilì, inoltre, che la “riduzione delle diocesi che risulterà dall’applicazione dell’articolo precedente, sarà attuata via via che le diocesi medesime si renderanno vacanti” (primo com. art. 17). Si sancì poi che le diocesi fossero raggruppate in modo tale che “i capoluoghi delle medesime corrispondano a quelli delle province” (sec. com., art. 17). Furono queste le prime norme in materia di revisione del numero e della distribuzione sul territorio nazionale delle diocesi. Si trattava, com’è evidente, di disposizioni direttive e programmatiche, le quali rimasero tuttavia in buona parte non attuate nei decenni successivi, sebbene non ci sia mai stata da parte statale e ecclesiastica alcuna iniziativa di rinuncia, abrogazione o modifica di quelle stesse disposizioni. Tra la seconda Guerra Mondiale e il Concilio Vaticano II non mancarono peraltro alcuni casi di riorganizzazione di circoscrizioni ecclesiastiche: in queste occasioni si tenne conto della necessità di fare corrispondere la nuova diocesi con la provincia civile (Faenza è provincia di Ravenna, ma resta diocesi a se stante). Fu così accorpata Cervia a Ravenna (in realtà già unite in persona episcopi fin dall’inizio del ’900 con la morte di mons. Foschi ultimo vescovo di Cervia) e, tra gli altri casi, tutta la provincia ecclesiastica di Santa Severina fu attribuita a Reggio Calabria. Furono inoltre riorganizzate le circoscrizioni del Trentino-Alto Adige.

Le disposizioni espresse dal Concilio Vaticano II col decreto Christus Dominus (nn. 22-24), le norme attuative contenute nel motu proprio Ecclesiae Sanctae” (a. 1966, I, n. 12) in merito alla revisione delle circoscrizione diocesane e ancora, in particolare per il territorio italiano, i numerosi interventi del pontefice Paolo VI hanno costituito un punto di partenza, a partire dalla metà degli anni ’60, per un progetto di riordinamento e conseguente riorganizzazione delle diocesi sul territorio nazionale. Rimanendo naturalmente vigenti le precedenti disposizioni concordatarie, è venuto così maturando in seno alla Chiesa Cattolica prima ancora che su sollecitazione dello Stato italiano un effettivo bisogno di riforma della geografia ecclesiastica del Paese. Paolo VI e il consiglio di Presidenza della CEI, a partire dal 1966, hanno tra l’altro indicato le linee direttive e i criteri affinché ogni diocesi potesse operare in “condizioni di efficiente funzionalità sia per estensione di territorio che per numero di abitanti”, tenendo ben in considerazione le mutate condizioni demografiche e le nuove esigenze pastorali italiane. I lavori della Commissione istituita a tal scopo dalla CEI prevedevano una consistente riduzione delle circoscrizioni diocesane sino a un numero di 119, ma questo progetto non si è realizzato, tra l’altro, perché il clima culturale che ha interessato l’Italia (e non solo) tra la fine degli anni ‘60 e gli inizi del decennio successivo sconsigliò di procedere a troppo incisive azioni di riforma. Con la costituzione della Regioni civili nella Repubblica Italiana si è peraltro introdotto in questa fase un nuovo aspetto di cui tenere conto anche per una contestuale riorganizzazione delle Regioni ecclesiastiche. Di tale aspetto la S. Sede ha tenuto conto in questo periodo senza tuttavia rigidi vincoli e senza operare troppo strette coincidenze, per esempio nel caso della Valle d’Aosta, che è stata assoggettata alla giurisdizione di un solo vescovo e che oggi fa parte della Regione ecclesiastica del Piemonte. Nel 1965, a fronte di una popolazione di circa 52 milioni di abitanti, v’erano comunque ancora 271 diocesi: la loro riduzione era avvenuta in minima parte (cfr. La revisione delle diocesi in Italia, in Aggiornamenti Sociali (18) 1967, p. 209).

Durante la revisione concordataria compiuta tra il 1976 e il 1984 e ratificata nel 1985, la Commissione ministeriale incaricata di studiare il problema ha, da un lato, riconosciuto il forte “squilibrio” tra popolazione e diocesi in Italia rispetto ad altri Paesi; dall’altro, pur rilevando le “difficoltà di ordine storico e ambientale” che avevano impedito l’attuazione delle precedenti norme concordatarie, ha affermato che la questione non è di pertinenza dello Stato italiano e ha posto solo alcuni limiti nell’erezione di nuove diocesi, per esempio a “non includere alcuna parte del territorio italiano in una diocesi la cui sede vescovile si trovi nel territorio di altro Stato”. Poco tempo dopo la S. Sede ha perciò provveduto alla non più differibile riforma che ha portato, con il decreto della Congregazione per i Vescovi del 30 settembre 1986, a ridurre le diocesi italiane, e con esse le comunità ecclesiali assimilate, da un totale di 325 a 228, di cui 39 sedi metropolitane, 21 arcivescovili, 156 vescovili, 2 prelature territoriali, 6 abbazie territoriali, 3 circoscrizioni di rito orientale, 1 ordinariato militare. Questo evento segna a tutt’oggi la più consistente ridefinizione della geografia ecclesiastica italiana in materia diocesana. Si osservi, d’altra parte, che dall’Unità d’Italia la popolazione cattolica è aumentata di circa il doppio, perciò una notevole riduzione del rapporto tra fedeli e diocesi è avvenuta nel corso del tempo ipso facto. In ogni caso, le esigenze pastorali impongono oggi come ieri di tenere conto, ai fini di un ulteriore riordinamento, di vari criteri e questioni, oltre quella naturalmente della corrispondenza con capoluoghi e province civili, e ciò può spiegare per quale ragione l’accorpamento o la riorganizzazione delle diocesi proceda tuttora con relativa lentezza.

Regioni e diocesi ecclesiastiche oggi. Secondo i dati riportati sul sito ufficiale della Conferenza episcopale italiana nel 2011 (http://www.chiesacattolica.it/) le diocesi italiane sono 224 e sono ripartite in 16 regioni ecclesiastiche (oltre l’Ordinariato militare), aventi ciascuna il seguente numero di diocesi: Abruzzo-Molise 11, Basilicata 6, Calabria  12, Campania 25, Emilia Romagna 15, Lazio 20, Liguria 7, Lombardia 10, Marche 13, Piemonte 17, Puglia 19, Sardegna 10, Sicilia 18, Toscana 18, Triveneto 15, Umbria 8.

Fonti e Bibl. essenziale

Fondamentale opera di consultazione è l’Atlante delle diocesi d’Italia, a cura della Conferenza Episcopale Italiana e Istituto Geografico De Agostini, Roma, 2000. Per la situazione delle diocesi prima e dopo i Patti Lateranensi cfr. D. Barillaro, In tema di revisione delle circoscrizioni diocesane, in Il diritto ecclesiastico 42 (1949), 113-155. Fondamentali sono poi i contributi di G. Brunetta e G. Feliciani, dove si offrono e interpretano dati statistici e problemi giuridici. In particolare si veda G. Brunetta, La revisione delle diocesi in Italia, in Aggiornamenti Sociali (18) 1967, 201-220; Id., Riordino delle diocesi italiane (38) 1987, 229-242; G. Feliciani, Diocesi e territorio nella prospettiva di revisione del Concordato lateranense, in “Il diritto ecclesiastico”, 70 (1977), parte I, 202-221; Id. Diocesi, in Enciclopedia Giuridica, vol. XI, Roma, Istituto della Enciclopedia Italiana, 1989, 1-3; Id., Il riordinamento delle diocesi italiane (1929-1985), in Vita e pensiero 5 (1992), 365-378; Id., Il riordinamento delle diocesi in Italia da Pio XI a Giovanni Paolo II, in AA.VV., Storia della Chiesa in Europa tra ordinamento politico-amministrativo e strutture ecclesiastiche, a cura di L. Vaccaio, Brescia, Morcelliana, 2005, 283-300. Sulla Commissione ministeriale e la revisione del Concordato cfr. G. Spadolini, La questione del Concordato con i documenti inediti della Commissione Gonnella, Firenze 1976, 273-277. Opera generale di riferimento è: L. Mezzadri, M. Tagliaferri, E. Guerriero, (a cura di), Le Diocesi d’Italia, voll. I-III, Cinisello Balzamo 2008. Cfr. inoltre S. Tanzarella (a cura di), Dizionario Storico delle Diocesi. Campania, Palermo 2010.


LEMMARIO




Giornali, Riviste cattoliche - vol. II


Autore: Sergio Apruzzese

Gli anni post-unitari furono caratterizzati dalle ristrette dimensioni del mercato dei lettori, da una accentuata dispersione editoriale a carattere perlopiù regionale e provinciale, la pubblicistica cattolica si mostrò anzitutto nel suo volto intransigente, fieramente avversa alle modalità con le quali si era costituito lo Stato unitario e non priva di nostalgie temporalistiche e legittimistiche.

Tra i fogli più rappresentati di questa lunga stagione giornalistica per la Chiesa italiana ci fu anzitutto la gesuita Civiltà Cattolica che, nata nel 1850 mai tergiversò dalla sua ferma opposizione al liberalismo, al Risorgimento inteso come moto di usurpazione del primato papale sulla nazione a favore di un ceto laicista e anticlericale, al rosminianesimo, considerato come un pericoloso cedimento filosofico verso la “perversa” modernità dei non cristiani. Accanto alla Civiltà Cattolica si posero in prima linea nella lotta allo Stato liberale e per la riaffermazione dei diritti della Chiesa sulla società e sullo Stato laico e usurpatore, l’Osservatore Romano e L’Osservatore Cattolico. Il primo nacque il primo luglio 1961 divenendo da subito l’organo ufficiale della Santa Sede e prendendo così il posto che fu del Giornale di Roma.

Il 2 gennaio 1864 nasceva a Milano come erede dell’Osservatore Lombardo (bisettimanale uscito a Brescia tra il 1861 e il 1863), l’Osservatore Cattolico. Fondatori, proprietari e primi direttori della rivista intransigente furono mons. Giuseppe Marinoni, superiore dell’Istituto delle missioni estere di Milano, e don Felice Vittadini, professore di dogmatica nel seminario milanese. La penna più audace del foglio milanese fu don Davide Albertario (1846-1902), avversario irriducibile del liberalismo sul piano politico-sociale e del rosminianesimo sul piano filosofico-teologico. Sulla scia di questi tre periodici nacque a Milano nel gennaio 1873 La Scuola Cattolica, divenuta nel 1902 (dopo la fusione con La Scienza italiana di Giovanni Maria Cornoldi) La Scuola Cattolica e la Scienza italiana.

Altri periodici intransigenti furono: L’Eco delle Romagne di Bologna (1861-1863); lo Stendardo Cattolico di Genova (1862-1874); L’Unità Cattolica di Torino (1863) fondata da don Giacomo Margotti già protagonista dell’Armonia della Religione con la Civiltà e negli anni divenuta punto di riferimento di quest’area intellettuale cattolica; la veneziana Libertà Cattolica, che, nata a nel 1856, a partire dal 1866 si trasferì a Napoli sotto la guida dell’abate Girolamo Milone divenendo il più importante giornale del Meridione; Il Diritto Cattolico di Modena (1867-1911); La Voce della Verità di Roma (1871-1904) diretta da Francesco Naldi, coadiuvato dal fondatore della Civiltà Cattolica, Carlo Maria Curci; La Discussione (1873-1906) di Napoli e di orientamento legittimista e filo-borbonico.

Rispetto alla linea intransigente quella moderata fu minoritaria ma capace ugualmente di tracciare sentieri programmatici e ideali destinati a rivelarsi fecondi nel nuovo secolo. Tra i fogli più rappresentativi di tale corrente si ricordano: Gli Annali Cattolici (1863) e la Rivista Universale (1866) entrambe genovesi, La Rassegna Nazionale di Firenze (1878) la Rassegna Italiana di Roma e il quotidiano milanese La Lega lombarda (1886).

Sull’onda lunga della Rerum novarum (1891) di Leone XIII nasceva a Roma nel 1893 e diretta da Salvatore Talamo (1854-1932), coadiuvato da Giuseppe Toniolo (1845-1918) la Rivista di studi sociali e discipline ausiliarie.

Nel solco del cattolicesimo sociale tracciato da Toniolo e nel quadro più ampio del nazionalismo radicale promosso dalle nuove aristocrazie spirituali della nazione, con una sua precisa autonomia intellettuale e politica, si colloca il sacerdote marchigiano Romolo Murri (1870-1944), attivo organizzatore della cultura cattolica tra Otto e Novecento e di riviste giovanili finalizzate alla rigenerazione morale, politica e sociale degli italiani: Vita Nova (1895-1896) Cultura Sociale (1898-1906), il Domani d’Italia (1901-1903), la Rivista di Cultura (1906-1909), Il Commento (1910-1911), Studium (1906), sono soltanto alcuni dei riferimenti pubblicistici che videro Murri protagonista e promotore.

Il movimento femminista cristiano sorto e sviluppatosi in tale periodo ebbe tra i suoi periodici più rilevanti: Azione Muliebre (1901-1949) della nobile veronese Elena da Persico (1869-1948), In Cammino (1900-1904) di Antonietta Giacomelli (1857-1949) e Pensiero e Azione (1904-1908) di Adelaide Coari (1881-1966) e Pierina Corbetta.

Al moto di ringiovanimento e di rinnovamento culturale della nazione espressosi tra i due secoli diede un contributo assai significativo la cosiddetta «crisi modernista», che vide le riviste cattoliche principale veicolo di idee e di polemiche con l’ala più conservatrice del cattolicesimo italiano. I periodici che più si distinsero in questa fase sul versante modernista, furono: Studi Religiosi di Firenze, diretti dal sacerdote Salvatore Minocchi (1901-1907); la Rivista storico-critica delle Scienze Teologiche (1905-1910) e Nova et Vetera (1908), entrambe fondate e dirette dal prete romano Ernesto Buonaiuti; In Cammino (1900-1904) di Antonietta Giacomelli; la Rivista delle Riviste per il clero (1903-1908) di Macerata e diretta dal canonico Giovanni Sforzini; La Cultura Contemporanea di Roma (1909-1913); Il Rinnovamento di Milano (1907-1909) e diretta da Tommaso Gallarati Scotti (1878-1966), Antonio Aiace Alfieri (1880-1962) e Alessandro Casati (1881-1955); Battaglie d’oggi di Napoli (1905-1912, diretta dall’insegnante liceale ed ex tenente dell’esercito, Gennaro Avolio e nel 1913 divenuta La Nuova Riforma, durata fino al 1918). Sul versante opposto (con toni differenti) si schierarono oltre ai periodici sopracitati della intransigenza ottocentesca anche nuovi fogli: la Miscellanea di Storia Ecclesiastica e di Studi ausiliari (Roma, 1902-1907 e diretta da monsignor Umberto Benigni); la Rivista di Scienze e Lettere del seminario diocesano di Napoli di forte matrice tomistica (1900-1909); Religione e Civiltà di Siena (1910-1914), diretta dal canonico toscano Agostino Ruelli; la Sentinella Antimodernista di Firenze (1912-1913); e soprattutto le due riviste principali del movimento neoscolastico milanese, ruotanti attorno alla figura e l’opera del frate francescano e medico, Agostino Gemelli (1878-1959): la Rivista di Filosofia Neo-Scolastica (fondata nel 1909) e Vita e Pensiero (iniziata nel dicembre 1914).

All’inizio del Novecento per far fronte alla egemonia della stampa liberale anticlericale su iniziativa del conte Giovanni Grosoli (già al vertice dell’Opera dei Congressi sciolta d’autorità nel 1904 da Pio X) viene fondato nel 1907 e conclusosi tra varie vicissitudine finanziarie e politiche nel 1918, il trust della stampa cattolica costituito dalla «Società Editrice Romana» cui facevano capo diverse testate giornalistiche: Il Corriere d’Italia (1907) pubblicato a Roma, che assunse il ruolo di giornale pilota del trust, L’Avvenire d’Italia (1910) di Bologna, diretto da Filippo Crispolti (1857-1942), Il Corriere di Sicilia (1912) di Palermo, L’Italia (1912) di Milano, Il Momento (1912) di Torino, diretto da Angelo Mauri (1873-1936), Il Messaggero Toscano (1913) di Pisa, l’Esare (1916) di Lucca.

Negli anni del dopoguerra sorse la stampa vicina al partito popolare composta da almeno venti quotidiani e da numerosi altri periodici capillarmente diffusi nel Paese. Estremamente vario era l’orientamento politico: si andava dalla linea nei toni moderata della milanese Civitas (1919-1924, diretta da Filippo Meda, 1869-1939) e di Politica Nazionale (1916-1923) alle riviste del sindacalismo cattolico: L’Azione di Cremona di Guido Miglioli (1879-1954) e Conquista popolare (1921-1922) di Verona e diretta da Giuseppe Speranzini (1889-1976); infine al Pensiero popolare di Torino (1920-1923 e animata da Attilio Piccioni, 1892-1976). Il Popolo Nuovo fu l’organo dal 1919 al 1925 del partito popolare di Luigi Sturzo (1871-1959).

Fiancheggiatore del regime fascista e in contrapposizione alla egemonia dell’idealismo assoluto del filosofo siciliano Giovanni Gentile (1875-1944), fu la rivista fiorentina Il Frontespizio (1929-1940), in particolare attraverso l’intraprendete figura del sacerdote romano don Giuseppe De Luca (1898-1962).

Sorta a Firenze come supplemento di Vita cristiana nel 1939 e durata un anno, Principi, promossa da Giorgio La Pira (1904-1977), costituì per la cultura cattolica il ponte fra la fine di una illusione storica (quella di poter in qualche modo «guidare» il fascismo verso la restaurazione cristiana dello Stato e della società civile) e la volontà di organizzare un nuovo patto di civiltà fondato sul radicalismo dei principi evangelici del cattolicesimo.

Dopo la liberazione ripresero le pubblicazioni testate storiche del giornalismo cattolico, come L’Eco di Bergamo, diretto da don Andrea Spada, L’Avvenire d’Italia a Bologna, diretto da Raimondo Manzini, L’Ordine a Como, diretto da don Giuseppe Brusadelli, l’Italia a Milano e ll Cittadino di Genova. Nel 1946 esce Humanitas mensile di cultura e di attualità della Casa editrice Morcelliana e diretto da p. Giulio Bevilacqua (1881-1965), Michele Federico Sciacca (1908-1975) e Mario Bendiscioli (1903-1998).

Nel 1947 sorse la rivista Cronache Sociali, legata alle figure di Giuseppe Dossetti (1913-1996), Amintore Fanfani (1908-1999), La Pira e Giuseppe Lazzati (1909-1986). Terminò la sua esperienza nel 1951, in dissenso con la linea politica della Democrazia cristiana di Alcide De Gasperi, giudicata troppo moderata e conservatrice.

Nel 1949 nasce Adesso, rivista di impegno cristiano di don Primo Mazzolari (1890-1959), volta a promuovere l’immagine di una Chiesa al servizio degli ultimi. Tra i periodici vicini invece alla linea centrista degasperiana è da ricordare La Discussione fondata dal leader trentino nel 1952; diretta da Giulio Andreotti (1919-2013) fu invece la rivista Concretezza nata nel 1955.

La sinistra DC si espresse anche attraverso altre riviste quali Per l’azione (1948-1953); Iniziativa democratica (1951-1952) di Giovanni Galloni e Achille Ardigò a Bologna; La Base, che uscì a Milano nel febbraio 1954, seguita da Prospettive (1954-1955) sotto la direzione di Aristide Marchetti; Politica (1955) fondata a Firenze da Nicola Pistelli. Nell’area giovanile democristiana si collocano Stato democratico e Terza generazione (1955-1954) diretta da Bartolo Ciccardini e il Domani d’Italia (1975-1976) di Milano diretto da Giovanni Galloni. Su un piano più strettamente religioso-culturale va ricordato il periodico L’Uomo, pubblicato a Milano nel 1945 da un gruppo di letterati e sacerdoti tra i quali p. David Maria Turoldo (1916-1992) e p. Camillo De Piaz (1918-2010). All’inizio del 1946, ad opera di Nando Fabro, usciva a Genova il mensile Il Gallo che ebbe tra i suoi sostenitori il p. filippino Andrea Gaggero e il francescano Nazareno Fabretti.

Particolarmente importanti le riviste bolognesi Il Regno (fondata nel 1956 da un gruppo di religiosi dehoniani) e Il Mulino (1951); da ricordare la rivista di Wladimiro Dorigo, Questitalia (1958-1970), che rappresentò il punto di riferimento e di coordinamento dei diversi gruppi spontanei locali sviluppatisi in Italia, la cui connotazione politica si orientò verso un progressivo distacco dalla DC per convergere verso una scelta di sinistra. Questi fermenti saranno anche la base per la nascita del movimento dei cristiani per il socialismo, alle cui istanze si richiamano alcune riviste tra cui Testimonianze (1958) e Il Tetto (1963). Ostile, invece, al clima riformatore instauratosi con il Concilio Vaticano II dei primi anni Sessanta (di cui Concilium, nata nel 1965, sul piano europeo fu la più significativa manifestazione pubblicistica), e di forte orientamento teologico tradizionalista fu il periodico genovese Renovatio (1966-1993), diretto dal cardinale Giuseppe Siri (1906-1989). Organo, infine, del movimento ecclesiale «Comunione e liberazione», affermatosi negli anni Sessanta con a capo don Luigi Giussani (1922-2005), fu il mensile CL, fondato nel 1974.

Con la caduta dell’impero sovietico, l’associazione romana «Riformismo e solidarietà» dava vita al mensile cattolico-progressista Il Bianco e il rosso diretto da Pierre Carniti. Ispirazione completamente diversa e di orientamento conservatore fu quella che diede vita alla pubblicazione delle rivista Liberal, a Roma nel marzo del 1995, sotto la direzione dello storico Giorgio Rumi.

Per quel che concerne gli ultimi anni è da segnalare la vicenda dell’Avvenire. Il quotidiano della Cei nel 2008 tocca quota 105.000 nelle tirature con la direzione di Dino Boffo, uomo legato a Camillo Ruini e al centro di vivaci polemiche politiche prima con lo storico Pietro Scoppola (1926-2007) e poi con Il Giornale di Vittorio Feltri che lo costrinse nel 2009 alle dimissioni dopo un violento scontro sul caso della vita privata dell’allora presidente del Consiglio, Silvio Berlusconi. Due vicende che segnano le fragilità e le ambiguità di lungo periodo di una parte significativa della stampa cattolica, ancora non sufficientemente autonoma dal potere politico.

Fonti e Bibl. essenziale

P. Scoppola, Crisi modernista e rinnovamento cattolico in Italia, Bologna 1961; G. Licata, Giornalismo cattolico italiano, Roma 1964; F. Leoni, L’Osservatore Romano. Origini ed evoluzione, Napoli 1970; S. Ristuccia (a cura di), Intellettuali cattolici tra riforma e dissenso: polemiche sull’integrismo, obbedienza, rifiuto dell’istituzione nelle riviste degli anni sessanta, Milano 1975; F. Malgeri, La stampa quotidiana e periodica e l’editoria, in F. Traniello, G. Campanini (diretto da), Dizionario storico del movimento cattolico in Italia. 1860-1980, I/1, I fatti e le idee, Casale Monferrato 1981, 273-295; A. Majo, Storia della stampa cattolica. Lineamenti storici e orientamenti bibliografici, Milano 1984; A. Canavero, Albertario e l’”Osservatore Cattolico”, Roma 1988; F. Dante, Storia della “Civiltà Cattolica”. Il laboratorio del Papa, Roma 1990; G. Vecchio, Politica e democrazia nelle riviste popolari (1919-1926), Roma 1990; M. Tagliaferri, L’Unità cattolica. Studio di una mentalità, Roma 1993; G. Sale, “La Civiltà Cattolica” nella crisi modernista (1900-1907), prefazione di P. Scoppola, Milano 2001; D. Saresella, Dal Concilio alla contestazione. Riviste cattoliche negli anni del cambiamento (1958-1968), Brescia 2005; Cronache Sociali 1947-1951, edizione anastatica integrale e introduzione a cura di A. Melloni, Bologna 2007; M. Forno, I giornali: ombra e riflesso, in A. Melloni (a cura di), Cristiani d’Italia. Chiesa, società, Stato, 1861-2011, II, Catanzaro 2011, 1453-1464; D. Saresella, Le riviste del secondo dopoguerra, in A. Melloni (diretto da), Cristiani d’Italia. Chiesa, società, Stato, 1861-2011, II, Roma 2011, 1355-1366.


LEMMARIO




Giornalismo - vol. II


Autore: Giampaolo Malgeri

Il giornalismo cattolico italiano nacque e acquistò rilievo negli anni successivi all’unificazione nazionale quando l’emergere di correnti politiche e ideologie ostili alla Chiesa e lo scontro con lo Stato unitario liberale, determinarono nella Chiesa e in campo cattolico l’esigenza di una vivace e decisa reazione.

Si può dire, per molti aspetti, che il giornalismo cattolico ha maturato proprio negli anni del liberalismo una nuova e piena coscienza del suo ruolo, cercando di conquistare, nel rispetto delle indicazioni del magistero ecclesiastico, una dimensione sempre più efficace nel panorama della comunicazione di massa che andava assumendo un peso e un significato crescenti.

A ben vedere, tuttavia, si è trattato di un processo evolutivo non privo di difficoltà. Soprattutto nella sua prima fase, infatti, non sempre i vertici della Chiesa riconobbero pienamente il valore e la funzione civile e pedagogica della libertà di stampa. Gli interventi pontifici appaiono, negli anni aspri della contesa con lo Stato liberale, caratterizzati da una sorta di condanna o per meglio dire da una profonda diffidenza nei confronti della libertà di stampa. Il giornalismo viene interpretato da una parte largamente maggioritaria della Chiesa italiana soltanto come arma di lotta e di intransigente opposizione ai governi dell’Italia unita, senza riconoscerne la funzione di strumento di riflessione ed elaborazione rivolto alla società.

Tale orientamento conobbe, tuttavia, una lenta ma progressiva evoluzione, alla luce, soprattutto, dei profondi mutamenti politici, sociali e culturali del Paese e del costante sviluppo e trasformazione degli strumenti di comunicazione. Gli atteggiamenti critici, diffidenti nei confronti della stampa mutarono progressivamente in una attenzione nuova che si saldava con l’esigenza di un reinserimento della Chiesa nella vita pubblica e del superamento dei contrasti con lo Stato italiano. Già con il pontificato di Leone XIII si coglie l’esigenza di uscire dai limiti della polemica temporalistica e di immergere il giornalismo cattolico nel vivo dei problemi della società italiana, per orientare l’opinione pubblica e per difendere i valori e gli interessi cattolici. A determinare questo mutamento valse anche il manifestarsi ed il diffondersi nel mondo cattolico e all’interno della Chiesa delle preoccupazioni di carattere sociale, cui contribuì in maniera determinante – con una profonda influenza anche sul piano giornalistico – la pubblicazione nel 1891 della Rerum Novarum. Non a caso in questi anni si assiste alla diffusione crescente di giornali, riviste e periodici che superando le antiche chiusure intransigenti si aprivano all’esigenza di un impegno pieno dei cattolici nella vita sociale e amministrativa del Paese con non poche istanze che assunsero il carattere di vero e proprio impegno politico. Alla vigilia della prima guerra mondiale, quindi la stampa cattolica risulta vitale in tutti i settori: dalla informazione alla cultura, dalla politica al sindacalismo.

Gli anni del fascismo rappresentano un passaggio di notevole importanza nel rapporto tra Chiesa e giornalismo. Di fronte all’affermarsi della dittatura, la Chiesa assegna alla stampa un ruolo di primo piano, affidandole il compito di promuovere la difesa di una presenza e di un pensiero che veniva a scontrarsi con l’ideologia dominante. È in questo clima che acquista un rilievo senza precedenti – in un quadro segnato, peraltro, dalla quasi totale eliminazione di un giornalismo cattolico libero – il ruolo dell’Osservatore Romano ed il contributo delle personalità che lo animavano: Giuseppe Dalla Torre, Federico Alessandrini, Guido Gonella. Soprattutto negli anni Trenta e nel corso della guerra l’Osservatore divenne uno dei pochi punti di riferimento credibile nel quadro generale di una stampa italiana asservita al regime, tanto da rappresentare, anche per molti esponenti della tradizione laica e antifascista una fonte sicura, una voce autonoma ed entro certi limiti libera. L’organo vaticano riuscì a richiamare gli italiani, superando il frastuono dei miti imperialisti e bellicisti, ai valori essenziali della convivenza civile, respingendo la politica dell’odio e offrendo l’immagine di una Chiesa aperta e disponibile per tutti.

Alla conclusione della seconda guerra mondiale, nella nuova situazione sorta con la caduta del fascismo, la Chiesa ed il giornalismo cattolico hanno dovuto misurarsi con una realtà politica nuova e confrontarsi con altre proposte politiche e altre ideologie in una situazione molto diversa dal passato. I cattolici, non più all’opposizione dello Stato unitario, sono stati invece partecipi della costruzione e della gestione della nuova democrazia, ispirata nei suoi fondamenti costituzionali a molti valori cattolici. Nella prospettiva della Chiesa, quindi il giornalismo è stato chiamato al compito delicato di guidare le coscienze svolgendo un ruolo complesso di richiamo ai valori di fondo e alla denuncia dei pericoli che li minacciano, promuovendo un confronto aperto anche con le posizioni non cattoliche. Del resto, con l’adesione piena della Chiesa alla democrazia e al principio che la libertà di espressione, sia pur vincolata alla legge morale e divina, costituisce un elemento irrinunciabile di essa, il giornalismo viene interpretato non più come una semplice arma usata da contendenti politici, ma come strumento per formare ed indirizzare l’opinione pubblica. È proprio in questi anni, peraltro, che la Chiesa ha preso sempre più coscienza del ruolo e dell’importanza della comunicazione sociale. Tale svolta è maturata e si è concretizzata negli anni del pontificato giovanneo, nel fervore del Concilio e nel clima vivace del periodo post-conciliare e del pontificato di Paolo VI.

Il Concilio Vaticano II, nel documento Inter Mirifica (1963) ha definito i mezzi di comunicazione, tra i quali anche la stampa, “le meravigliose invenzioni tecniche (…) che l’ingegno umano con l’aiuto di Dio, ha tratto dal creato” e che “offrono al genere umano validi sostegni a consolidare il Regno di Dio”. Un altro documento, Communio et Progressio, pubblicato nel 1971, ha riconosciuto questi mezzi “necessari per le attività e i profondi e sempre più complessi rapporti della nostra società”.

Fonti e Bibl. essenziale

M. Bocci (a cura di), Giuseppe Dalla Torre. Dal movimento cattolico al servizio della Santa, Milano, Vita e Pensiero, 2010; Sede Documenti pontifici sulla stampa (1878-1963), Città del Vaticano, Edizioni della Radio Vaticana, Tipografia poliglotta vaticana, 1964; G. Licata, Giornalismo cattolico italiano, Roma, Studium, 1964; F. Malgeri, La stampa quotidiana e periodica e l’editoria, in Dizionario storico del movimento cattolico in Italia, vol. I, tomo I, I fatti e le idee, Torino, Marietti, 1981; A. Majo, Storia della stampa cattolica in Italia, Milano, NED, 1987; M. Marazziti, I papi di carta. Nascita e svolta dell’informazione religiosa da Pio XII a Giovanni XXIII, Genova, Marietti, 1990.


LEMMARIO




Giustizia ecclesiastica - vol. II


Autore: Davide Cito

Il sistema della giustizia ecclesiastica si pone storicamente come una peculiare funzione collegata all’esercizio della potestà pastorale o di governo che rappresenta una forma di partecipazione allo stesso potere di Cristo per attuare nel tempo e nello spazio la sua missione di salvezza nei riguardi del popolo di Dio. Essa pertanto si va modulando entro due coordinate fondamentali, vale a dire, la materia su cui essa si esercita e i soggetti titolari di tale potestà

Quanto al primo punto, si è andata nei secoli fissando una terminologia, frutto anche di vicende conflittuali nei confronti dell’analoga potestà civile, e ripresa dall’attuale Codice di Diritto Canonico del 1983 e che afferma l’originarietà e l’esclusività della competenza della Chiesa nel giudicare: 1° le cause che riguardano cose spirituali e annesse alle spirituali; 2° la violazione delle leggi ecclesiastiche e tutto ciò in cui vi è ragione di peccato, per quanto concerne lo stabilirne la colpa ed infliggere le pene ecclesiastiche (can. 1401 CIC).

Per quanto attiene ai soggetti titolari, essi sono i medesimi soggetti investiti della potestà di governo e pertanto i primi ed originari amministratori della giustizia sono il Romano Pontefice e il Collegio episcopale per la Chiesa universale, ed i Vescovi per le Chiese particolari. Questa titolarità, che affonda le sue radici nel diritto divino, conferisce loro la possibilità di esercitare personalmente tale funzione, qualora lo ritengano opportuno, sebbene per motivi di organizzazione pratica e di efficacia pastorale si sono andati configurando organi stabilmente deputati ad esercitare in modo vicario, ossia in nome e per conto di essi, l’amministrazione della giustizia nella Chiesa.

E pertanto lungo la storia si vanno delineando gli organi cui è istituzionalmente affidato il concreto esercizio della funzione giudiziaria coadiuvando da un lato il Sommo Pontefice come supremo giudice di tutto l’Orbe cattolico, e dall’altro le istanze che svolgono la funzione di amministrare la giustizia in ambito diocesano o sovradiocesano secondo le prescrizioni del diritto.

Questo complesso di organismi si articola quindi fondamentalmente su due livelli. Il primo, per tutta la Chiesa, è costituito dai tribunali apostolici; il secondo, dai cosiddetti tribunali locali di ambito diocesano o più ampio. In Italia, ad esempio, accanto ai tribunali diocesani esistono, come si vedrà meglio in seguito, diciotto tribunali ecclesiastici regionali, competenti esclusivamente nelle cause matrimoniali.

I principali riferimenti normativi che hanno disciplinato nell’ultimo secolo l’organizzazione e l’esercizio dell’amministrazione della giustizia nella Chiesa sono stati i Codici di diritto canonico del 1917 e il vigente del 1983 ed inoltre, per quanto riguarda i tribunali apostolici, le tre riforme della Curia Romana disposte da Pio X nel 1908 con la cost. Sapienti consilio, da Paolo VI nel 1967 con la cost. Regimini Ecclesiae Universae, successiva alla celebrazione del concilio Vaticano II, ed infine da Giovanni Paolo II nel 1988 con la cost. Pastor bonus, promulgata in occasione del quarto centenario della cost. di Sisto V Immensa aeterni Dei del 1588 che diede una nuova organizzazione alla Curia papale. Peraltro i tribunali apostolici sono pure retti da leggi proprie promulgate ad integrazione della normativa generale.

L’attuale assetto dei tribunali apostolici, che peraltro ha le sue radici tra il XII e il XIV sec., prevede tre organismi non subordinati uno all’altro ma con competenze differenti: la Penitenzieria Apostolica; il Supremo Tribunale della Segnatura Apostolica e il Tribunale della Rota Romana. Ad essi va anche aggiunto, soprattutto a seguito del m.p. Sacramentorum sanctitatis tutela del 2001 aggiornato nel 2010, il Tribunale Apostolico della Congregazione per la Dottrina della Fede che ha acquistato negli ultimi anni una grande importanza e visibilità dal momento che è il tribunale penale competente per giudicare i delitti contro la fede e i delicta graviora contro i la morale e nella celebrazione dei sacramenti, come indicato dall’art. 52 della cost. ap. Pastor bonus, tra i quali spicca il delitto di abuso di minori da parte di un chierico.

Anche la Congregazione per le Cause dei Santi ha profili di tipo giudiziario, ma la peculiarità del suo oggetto, i processi di beatificazione e di canonizzazione, la fa esulare dal concetto di giustizia ecclesiale esercitato dai tribunali in senso stretto. I tribunali apostolici non vanno nemmeno confusi con il sistema giudiziario, giudice unico, tribunale di appello e di cassazione, in vigore nello Stato Città del Vaticano preposto ad una finalità più affine a quella di una comunità politica seppure con le singolarità proprie di questo Stato.

La Penitenzieria Apostolica, il più antico tra i dicasteri che collaborano con il Sommo Pontefice, e la cui legge propria è del 1935 con la cost. Quae divinitus di Pio XI, rappresenta una realtà del tutto particolare e tipica solo dell’ordinamento canonico. Sebbene sia annoverato come il primo dei tribunali, esso non si presenta come un tribunale in senso tecnico, in cui si rivendicano diritti o pretese, ma si configura come il tribunale universale di foro interno, ossia non di pubblico dominio e in vista del bene spirituale di colui che ad essa fa ricorso, e mediante il quale si concedono le assoluzioni, le dispense le commutazioni, , le sanazioni i condoni ed altre grazie (PB art. 118), attraverso una procedura non contenziosa ma in cui si implora una grazia che attiene alla coscienza del richiedente in vista di quel bene particolare costituito dalla salus animarum, suprema legge della Chiesa. Proprio questa sua apertura al bene di tutte le anime fa sì che ogni fedele, senza dover ricorrere prima a nessun altra istanza, possa far ricorso alla Penitenzieria per questioni di coscienza.

Il Supremo Tribunale della Segnatura Apostolica, la cui legge propria è stata promulgata da Benedetto XVI nel 2008 con il m.p. Antiqua ordinatione, si presenta al contempo come tribunale giudiziario, tribunale amministrativo e dicastero preposto all’organizzazione e vigilanza dell’amministrazione della giustizia realizzata dai tribunali locali sparsi nel mondo. La sua competenza in materia giudiziaria riguarda soprattutto l’esame di ricorsi di carattere straordinario contro decisioni emesse dalla Rota Romana e contro gli stessi Uditori rotali ed anche i conflitti di competenza sorti tra tribunali e fra gli stessi dicasteri della Curia Romana. Le competenze in materia di giustizia amministrativa gli furono attribuite da Paolo VI che nella cost. Regimini Ecclesiae Universae, istituì appositamente una sezione della Segnatura come tribunale amministrativo con potestà di giudicare i ricorsi avverso decreti emanati da autorità amministrative ecclesiastiche sia locali che dicasteri della Curia Romana. Quanto, infine alla sua attività di organizzazione e di vigilanza, essa si configura come fosse una Congregazione della giustizia, ossia con il compito di vegliare sulla retta amministrazione della giustizia, con poteri ispettivi e di indagine, ma anche di promozione ed approvazione dei tribunali interdiocesani costituiti al fine di provvedere ad una migliore organizzazione degli uffici giudiziari.

Il Tribunale della Rota Romana, si presenta come il tribunale ordinario costituito dal Romano Pontefice per ricevere gli appelli (can. 1443 CIC). è quello che presenta la fisionomia più simile ad un tribunale vero e proprio rispetto alla Penitenzieria e alla Segnatura. È costituita da un certo numero di Giudici o Uditori, di nomina pontificia; essa giudica, di norma, in collegi o turni di tre Uditori con precise regole di rotazione. Sebbene le sue funzioni, verso la metà dell’Ottocento, si fossero ridotte alquanto in favore delle Congregazioni della Curia Romana, fu la riforma di Pio X a riorganizzare le funzioni dei Dicasteri riportando le Congregazioni alla loro specifica natura di organismi amministrativi e a restituire alla Rota Romana le sue competenze giudiziarie. Le norme proprie ora vigenti sono state approvate e promulgate da Giovanni Paolo II il 7 febbraio 1994, ed in vigore dal 1° ottobre 1994. Attualmente la Rota Romana giudica in prima istanza, nelle cause non penali, i Vescovi e in generale le persone ecclesiastiche sia fisiche che giuridiche che non hanno Superiore al di sotto del Romano Pontefice (can. 1405 §3 CIC); in seconda istanza le cause giudicate dai tribunali ordinari di prima istanza e deferite alla Santa Sede con appello (can. 1444 §1, 1° CIC); in terza od ulteriore istanza tutte le cause già giudicate dalla Rota stessa o da qualunque altro tribunale purché non siano passate in giudicato e quindi non più esaminabili. In questo senso le cause matrimoniali, poiché vertono sullo stato delle persone, non passano mai in giudicato (can. 1643 CIC).

La Congregazione per la Dottrina della Fede, così denominata a partire dal m.p. Integrae servandae di Paolo VI del 1965 in luogo di Sacra Congregazione del Sant’Uffizio come la cost. Sapienti consilio di Pio X aveva modificato quello di Sacra Congregazione della Romana e Universale Inquisizione, ha mantenuto lungo i secoli la fisionomia di Tribunale penale in particolare nelle cause riguardanti la fede o ad essa connesse. Queste competenze penali sono state ampliate dalla cost. Pastor bonus del 1988 che ha ricompreso non solo i delitti contro la fede ma anche contro la morale e i sacramenti, facendo sì che la Congregazione per la Dottrina della Fede sia ora il dicastero che giudica in modo esclusivo tutti i delitti stabiliti nel m.p. Sacramentorum sanctitatis tutela, nei confronti dei fedeli sia di rito latino che orientale.

Passando all’organizzazione giudiziaria a livello locale, essa si articola, come da tradizione risalente al diritto romano, secondo diversi gradi o istanze che, attraverso l’esame delle cause da parte di soggetti differenti, possa garantire un migliore accertamento della verità e della giustizia. Sebbene il giudice di prima istanza sia il Vescovo diocesano, egli è tenuto a costituire un Vicario con potestà giudiziale ordinaria e che forma un unico tribunale con il Vescovo ma che non cessa dall’incarico quando la sede si rende vacante. Contro le sentenze emesse dal tribunale di prima istanza è consentito appello al tribunale di grado superiore. Fatta salva sempre la possibilità di appellarsi alla Rota Romana (can. 1444 §1, 1° CIC) il Codice stabilisce le regole che indicano il tribunale competente a ricevere l’appello e che va dal tribunale del Metropolita a quello costituito dalla Conferenza Episcopale con l’approvazione della Sede Apostolica (cann. 1438-1439 CIC).

Come ricordato in precedenza, in Italia si è avuta la prima esperienza di ordinamento giudiziario a base interdiocesana sebbene limitata alle sole cause matrimoniali. Con il m.p. Qua cura furono istituiti nel 1938 diciotto tribunali regionali, diciannove se si considerano separatamente il tribunale di prima e di seconda istanza del Vicariato di Roma, uno per ogni regione conciliare ecclesiastica in cui venne suddivisa l’Italia nel 1889 sotto il pontificato di Leone XIII. Per ciascun tribunale regionale è designato un altro tribunale regionale competente a decidere le cause d’appello. La normativa sui tribunali regionali è stata poi integrata dalla Conferenza Episcopale Italiana nel 1997 e nel 2001 che ne ha riordinato la disciplina e il funzionamento. Tali norme sono state di recente sostituite (2018) per adeguarle alla riforma del processo di nullità matrimoniale realizzata dal motu proprio di papa Francesco Mitis Iudex Dominus Iesus del 15 agosto 2015.

Fonti e Bibl. essenziale

Aa.Vv., La giustizia nella Chiesa: fondamento divino e cultura processualistica moderna, Atti del XXVIII Congresso Nazionale di Diritto Canonico, Cagliari, 9-12 settembre 1995, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 1997; M.J. Arroba Conde, Diritto processuale canonico, Ediurcla, Roma 20126; P.A. Bonnet – C. Gullo (cur.), Le “normae”del Tribunale della Rota Romana, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 1997; P.A. Bonnet – C. Gullo – J. Canosa – J. Llobell Tuset – E. Baura de la Peña (cur.), La lex propria del Supremo Tribunale della Segnatura Apostolica, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 2010; E. Baura de la Peña, El desarrollo normativo posterior a la Constitución Apostólica “Pastor Bonus” de los tribunales de la Curia Romana, in Ius Canonicum, 58 (2018); Codice di Diritto Canonico Commentato e Leggi complementari, a cura di J.I. Arrieta, Coletti a San Pietro, Roma 20103; Conferenza Episcopale Italiana, Documentazione e norme circa i tribunali ecclesiastici regionali, in Notiziario dell’Ufficio per i problemi giuridici n. 9, Roma 1999; N. Del Re, La Curia Romana, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 1998, 199-242; L. De Magistris – U. Ubaldo M. todeschini o.s.m., La Penitenzieria Apostolica, in in P.A. Bonnet – C. Gullo (cur.), La curia Romana nella cost.ap. «Pastor Bonus», Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 1990, 419-429; Z. Grocholewski, I tribunali, in P.A. Bonnet – C. Gullo (cur.), La curia Romana nella cost.ap. «Pastor Bonus», Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 1990, 395-418; P. Moneta, La giustizia nella Chiesa, Il Mulino, Bologna 2002; F. Roberti, De Processibus, Pontificii Instituti Utriusque Iuris, in Civitate Vaticana 1956; L. Spinelli, Tribunali ecclesiastici, in Enciclopedia del Diritto, XLV, Giuffrè, Milano 1992, 69-80.


LEMMARIO




Industrializzazione - vol. II


Autore: Gennaro Cassiani

Processo di trasformazione delle attività economiche secondo criteri industriali. Il lemma richiama la locuzione storiografica “rivoluzione industriale” che rinvia all’irreversibile trasformazione del sistema di produzione agricolo e manifatturiero tradizionale mediante l’uso generalizzato di strumenti meccanici e di nuove fonti energetiche.

La stagione della “prima rivoluzione industriale”, estesa dal 1760-1780 al 1830 circa e che ebbe protagonista l’Inghilterra, coinvolse prevalentemente i settori tessile e metallurgico e segnalò l’introduzione della spoletta volante e della macchina a vapore. La seconda “rivoluzione industriale”, l’avvio della quale è convenzionalmente ricondotto agli anni Settanta-Ottanta del XIX secolo, registrò l’avvento dell’elettricità, dei prodotti chimici e del petrolio e vide l’Inghilterra raggiungere uno sviluppo industriale paradigmatico sul piano continentale e mondiale.

Fattore decisivo del processo di industrializzazione è l’accumulazione, mediante floride attività commerciali e abbondante disponibilità di materie prime (carbone e acciaio), dei capitali necessari alle iniziative imprenditoriali. Non meno rilevante concorso all’avvio della trasformazione in senso industriale della produzione è l’espansione demografica, latrice dell’accrescimento dell’offerta di manodopera. All’incremento della disponibilità di forza-lavoro contribuisce in misura rilevante il fenomeno migratorio dalle campagne alle città, esito di una compiuta “rivoluzione agraria” coniugata alla privatizzazione e alla messa a coltura dei terreni già demaniali e alla trasformazione in senso capitalistico del sistema di conduzione dei fondi agricoli anzitempo destinati a uno sfruttamento di mero consumo.

Tra gli effetti della rivoluzione industriale spicca a sua volta lo sviluppo demografico (effetto dell’accrescimento delle rese agricole e, quindi, della maggiore disponibilità complessiva di risorse alimentari) e così pure un netto miglioramento delle condizioni igienico-sanitarie generali, ragione, quest’ultima, del calo dei tassi di mortalità e dell’innalzamento dell’aspettativa di vita media della popolazione.

La rivoluzione industriale, mutò i rapporti fra gli attori economici e favorì la nascita della figura del capitalista titolare dei mezzi di produzione e di quella del dipendente di fabbrica compensato per il suo lavoro mediante un salario, l’equità del quale diverrà bandiera delle lotte del movimento operaio e sindacale.

L’industrializzazione e il progresso tecnologico determinarono profondi effetti di ordine sociale. Modificarono secolari abitudini di vita; contribuirono al cambiamento di radicate mentalità. Favorirono altresì l’espansione del processo di alfabetizzazione e quello di emancipazione femminile attraverso l’ingresso su vasta scala delle donne nel mondo del lavoro. La rivoluzione industriale trasformò inoltre il sistema dei trasporti; dette impulso allo sviluppo delle reti stradali, fognarie e dei servizi pubblici. Gli stessi connotati urbani conobbero vistosi cambiamenti: si demolirono le antiche mura di cinta; sorsero nuovi quartieri residenziali; si conferì maggior decoro ai centri cittadini. Al tempo stesso, si assistette alla dilatazione delle periferie, sede dei quartieri popolari, degli stabilimenti industriali e, da presso a questi ultimi, di vasti sobborghi sovraffollati destinati al proletariato di fabbrica ben presto al centro di una vasta produzione scrittoria intenta nell’analisi delle declinazioni del tema dell’ingiustizia sociale, delle condizioni di sfruttamento delle masse operaie e delle nuove forme di povertà indotte dal progresso industriale e tecnologico.

Mediante la Rerum Novarum (1891), enciclica decisiva nella definizione del pensiero sociale cattolico, Leone XIII intervenne sul tema del conflitto tra capitale e lavoro e sulla scottante questione sociale connessa all’industrializzazione. Il pontefice, che degli effetti di quest’ultima aveva fatto esperienza diretta durante la sua nunziatura in Belgio, condannò il socialismo; invitò gli operai a rispettare i loro doveri nei confronti degli imprenditori e a rifiutare la violenza come strumento di difesa dei loro diritti. Al tempo stesso, stigmatizzando gli eccessi del capitalismo, si soffermò sulla condizione dei lavoratori e sull’attacco alla loro dignità morale portato dai nuovi schemi organizzativi e dall’introduzione delle nuove tecnologie.

L’enciclica, mentre esclude lo sciopero come strumento di lotta, propone la riconciliazione fra le classi sociali, l’armonizzazione dei loro reciproci diritti e doveri e – a tutela della comunità, delle sue parti e del bene comune – caldeggia l’assunzione da parte dello Stato di una responsabilità arbitrale e l’istituzione di organizzazioni professionali miste di imprenditori e di operai.

Nel corso dei decenni seguenti all’apparizione dell’enciclica leoniana, in ragione dall’azione di autodifesa dei gruppi, dalla legislazione sociale e dagli interventi di politica economica anche sollecitati dagli elementi di denuncia insiti nella stessa Rerum novarum, cominciarono ad emergere i molteplici aspetti di segno positivo coniugati al processo di industrializzazione che, in Italia, nel corso del decennio giolittiano – mentre il peso dell’agricoltura nell’economa nazionale subiva una flessione – determinò l’impennata del valore della produzione manifatturiera, di quella metallurgica e di quella meccanica.

Sulla scia della Rerum novarum e dietro la spinta delle agitazioni e degli scioperi promossi dai socialisti, negli ultimi anni del secolo, ebbe maturazione il movimento della Democrazia cristiana alla testa del quale fu il prete marchigiano Romolo Murri. Si trattava di un movimento animato da giovani cattolici, che non avevano vissuto il travaglio della Questione romana e che sentivano l’esigenza di operare nella società civile apportandole il loro contributo di idee ispirate a un profondo rinnovamento socioeconomico e organico delle strutture dello Stato liberale. Nel loro programma (1899) si chiedeva: libertà sindacale; l’introduzione della proporzionale nelle elezioni; il referendum e il diritto di iniziativa popolare; un largo decentramento amministrativo; una efficace legislazione sociale; una riforma tributaria basata sulla giustizia; la lotta contro le speculazioni capitalistiche; la tutela della libertà di stampa; di associazione; di riunione; l’allargamento del suffragio universale; il disarmo generale.

I democratici-cristiani trovarono appoggi anche presso la Santa Sede. Leone XIII, mediante l’enciclica Graves de communi (1901), sanzionò che il nome di Democrazia cristiana poteva essere adottato solo sul terreno sociale, nel significato di lotta e di aspirazione alla giustizia. Escluso era il suo significato politico.

Il movimento incontro l’opposizione dell’ala più conservatrice dell’Opera dei Congressi, legata alla memoria della battaglia dell’intransigentismo post-unitario. La crisi si acuì con l’ascesa di Pio X. Se Leone XIII aveva invitato i cattolici ad uscire dalle sacrestie e a portare in seno alla società civile il loro contributo di idee e di opere aprendo strada al loro impegno sociale, Pio X pretese, invece, un laicato rigorosamente sottoposto all’autorità diocesana. Allorché le forze democratico-cristiane presero il sopravvento sugli intransigenti in seno all’opera dei Congressi, il pontefice deliberò lo scioglimento di quell’assemblea che per trent’anni era stato l’organismo-guida dei cattolici militanti. Murri, a valle della condanna del modernismo sancita dall’enciclica Pascendi (1907), sospeso a divinis, fu costretto ad uscire dalla Chiesa, ove sarà riammesso poco prima della morte (1944).

Laddove Leone XIII aveva tematizzato il conflitto capitale-lavoro nella questione operaia, Pio XI, nella Quadragesimo anno (1931), apparsa nel quarantennale della Rerum novarum, assunse una prospettiva di osservazione che, ben oltre lo specifico della condizione degli operai, abbraccia l’intero ordine sociale ed economico vigente. Papa Ratti focalizzò i temi della giustizia sociale violata, della vistosa concentrazione della ricchezza nelle mani di pochi e del giusto salario, in un quadro socio-economico che, anche in Italia, era ormai caratterizzato dall’industrializzazione, dall’urbanizzazione e dai fenomeni di massa.

Le ricadute potenzialmente positive della ricerca scientifica e tecnologica sull’economia e sullo sviluppo industriale, saldamente recepite dal magistero pontificio, alimentarono i pronunciamenti di Pio XII (il radiomessaggio del 1° giugno 1941, nel cinquantesimo della Rerum novarum; quello del Natale del 1942; il discorso alle ACLI sul sindacalismo cristiano dell’11 marzo 1945).

Giovanni XXIII, nella Mater et magistra (1961), non esitò a considerare con favore il processo di industrializzazione. Al tempo stesso, non mancò di rilevare i gravi squilibri determinati dall’innovazione tecnologica e dal progresso industriale, tanto all’interno dei singoli Stati, come su scala mondiale. Di qui, trasse spunto l’appello del pontefice all’intensificazione della cooperazione internazionale in vista dell’innalzamento dei bassissimi livelli di reddito pro capite conosciuti dai Paesi del Terzo mondo a motivo dell’attardato o dell’ancora mancato avvio del loro sviluppo infrastrutturale e della loro modernizzazione socioeconomica.

In rapporto di continuità e di sintonia con la rivendicazione del valore del lavoro formulato dalla costituzione pastorale Gaudium et spes (1965), la riflessione di Paolo VI, nella Populorum progressio (1967), affrontò il tema delle profonde disuguaglianze vigenti nel mondo contemporaneo. Il papa richiamò gli effetti traumatici dell’avvicendamento della civiltà industriale a quella tradizionale e sottolineò come, ai primordi di quel processo, la concezione del profitto come motore essenziale del progresso economico, l’idea della concorrenza come legge suprema dell’economia e quella della proprietà privata dei mezzi di produzione come un diritto assoluto era stata ragione di profonde sofferenze e ingiustizie dagli effetti ancora perduranti. Il pontefice, pur riconoscendo nell’avvento dell’industrializzazione un segno e un fattore di sviluppo, sollecitò la moderna cultura economica a imporsi quei limiti morali e quegli obblighi sociali che, da tempo, avrebbe dovuto impartirsi a salvaguardia dell’uomo, della sua dignità e del suo sviluppo integrale. L’enciclica sottolinea il crescente squilibro vigente tra Paesi sviluppati e Paesi ai margini delle aree privilegiate dal benessere. E pone l’accento sulle dimensioni mondiali acquisite dalla questione sociale congiuntamente alla diffusa consapevolezza dei meccanismi alla base del fenomeno: in primo luogo il mercato internazionale e una logica degli scambi subordinata agli interessi dei Paesi ricchi, sempre più ricchi rispetto a quelli sempre più poveri.

Paolo VI tornò a richiamare l’elemento di ambiguità insito nella civiltà industriale nella lettera apostolica Octogesima adveniens (1971), nell’ottantesimo anniversario della Rerum novarum: il conflitto tra capitale e lavoro, tema dominante dell’enciclica leoniana, era diventato il conflitto tra la moderna realtà economica, sociale e civile e la capacità culturale e morale dell’uomo di dominarla, evitando di cercare rifugio nell’utopia e di confidare nelle potenzialità illimitate della scienza e della tecnica.

Giovanni Paolo II, nella Laborem exercens (1981), il messaggio della quale si comprende a dovere solo in relazione alla riflessione religiosa sull’uomo affidata alla Redemptor hominis (1979), riprese la riflessione del predecessore. L’enciclica – di certo non estranea all’esperienza dei lavoratori e del sindacato polacco di Solidarnosc – evoca il conflitto tra capitale e lavoro e ne riconduce le matrici alla cultura e alla prassi economico-sociale caratteristica della “prima rivoluzione industriale”, quando in nome delle ragioni del profitto, si misconobbe l’uomo come primo fondamento del valore del lavoro. Woytjła non esitò tuttavia a riconoscere nel progresso industriale un fattore di sviluppo e, potenzialmente, di emancipazione morale dell’uomo e della comunità.

Giovanni Paolo II tematizzò l’uomo lavoratore anche nella Centesimus annus (1991): scopo dell’impresa non è semplicemente la dilatazione degli utili, ma l’esistenza stessa dell’azienda come aggregato di persone che perseguono, in diverso modo, il soddisfacimento dei loro bisogni e, come gruppo, si pongono al servizio della società. Tra la Laborem exercens e la Centesimus annus, Karol Woytjła dette in luce la Sollecitudo rei socialis (1987). Ivi, il papa pose l’accento sulla dilatazione della questione sociale; sul sempre più marcato carattere sovranazionale delle dinamiche industriali e delle problematiche del lavoro operaio; sull’assai diseguale distribuzione di beni e servizi addotti dallo sviluppo economico. Siffatti concetti echeggiano altresì nella Caritas in veritate (2009), nella quale la riflessione di Benedetto XVI affronta la prassi della delocalizzazione della produzione industriale, meccanismo che, promosso dall’obiettivo dell’incremento della competitività, finisce spesso col determinare nuove emergenze occupazionali nei Paesi d’origine delle imprese, senza accrescere il benessere delle aree nelle quali le attività sono state trasferite allo scopo ridurre i costi della manodopera.

Fonti e Bibl. essenziale

V. Castronovo, Rivoluzione industriale, in Enciclopedia Europea, IX, Milano, 1979, 794-797; R. Giannetti, Rivoluzione industriale, in Dizionario di storiografia, Varese, 1996, 893-895; G. Bianchi, Il lavoro nella società industriale, in Dizionario di dottrina sociale della Chiesa. Scienze sociali e magistero, a cura del Centro di ricerche per lo studio della dottrina sociale della Chiesa, Milano, 2004, 795-802; E. Botto, Giustizia sociale, ivi, 338-344; A. Cova, Industria, ivi, 370-374; P. Galea, I sistemi economici di Otto e Novecento, ivi, 747-760; M. La Rosa, Classi sociali; ivi, 193-194; D. Parisi, Capitalismo, ivi, 177-183; A. Zanetti, Impresa, 364-367; E. Zucchetti, Questione sociale, ivi, 536-539. Si segnalano inoltre con ulteriori richiami: T.S. Ashton, La rivoluzione industriale. 1760-1830, Prefazione di C. Cipolla, trad. it., Bari, 1953; G. Jarlot, Doctrine pontificale et histoire. L’enseignement social de Léon XIII, Pie X et Benoit XV vu dans son ambiance historique (1878-1922), Roma, 1964; A. Gambasin, Il movimento sociale nell’Opera dei Congressi (1874-1904). Contributo per la storia del cattolicesimo sociale in Italia, Roma, 1958; Id., Gerarchia e laicato in Italia nel secondo Ottocento, Padova, 1969; G. De Rosa, Storia del movimento cattolico in Italia. Dalla Restaurazione all’età giolittiana, I, Bari, 1966; D.S. Landes, Prometeo liberato. Trasformazioni tecnologiche e sviluppo industriale nell’Europa occidentale dal 1750 ai giorni nostri, trad. it., Torino, 1978;M. D. Chenu, La dottrina sociale della chiesa. Origine e sviluppo (1891-1971), Brescia, 19822; L’enciclica Laborem exercens e la società industriale. Incontro di studio tra «La Civiltà Cattolica» e Confindustria, Roma, 25 febbraio 1982, supplemento a «La Civiltà Cattolica», 3177 (1982); R. Aron, La società industriale, Milano, 1983; J.M. Ibánez Langlois, La dottrina sociale della chiesa. Itinerario testuale dalla Rerum novarum alla Sollicitudo rei socialis, Milano, 1987; M. Romani, La Mater et magistra e i problemi del lavoro nella dottrina sociale della Chiesa, in ID., Il risorgimento sindacale in Italia. Scritti e discorsi 1951-1975, a cura di S. Zaninelli, Milano, 1988, 149-158; O. Garavello, La Populorum progressio fra contrastanti visioni del processo di sviluppo economico dei paesi del Terzo Mondo, in Il magistero di Paolo VI nell’enciclica Populorum progressio, Giornata di studio (Milano, 16 marzo 1988), Brescia, 1989, 60-97; Dalla Rerum novarum alla Centesimus annus. Le grandi encicliche sociali, a cura di R. Spiazzi, Milano, 1991; G. Vecchio, La dottrina sociale della Chiesa. Profilo storico dalla Rerum Novarum alla Centesimus Annus, Milano, 1992; D. Menozzi, La Chiesa cattolica e la secolarizzazione, Torino, 1993, 72-106 (§ 2.- Cristianità e questione sociale. Da Pio IX a Leone XIII); P. Hudson,La rivoluzione industriale, trad. it., Bologna, 1995; I tempi della Rerum Novarum, Atti del Convegno (Roma, 16-20 ottobre 1991), a cura di G. De Rosa, Soveria Mannelli, 2003; M. Toso, Welfare Society. La riforma del welfare: l’apporto dei pontefici, Roma, 2003; D. Forte, Encicliche sociali, capitalismo e socialismo, in «Atlantide», 4 (2006), 44-51; W. Magnoni, La Laborem exercens nel contesto della dottrina sociale della Chiesa, in I problemi del lavoro a trent’anni dalla Laborem exercens, in «Quaderni per il dialogo e la pace», 3 (2011), 8-12.


LEMMARIO




Islam - vol. II


Autore: Gianluca Padovan

In questa seconda parte utilizzeremo una diversa scansione, mettendo a fuoco dapprima la storia delle edizioni del Corano in italiano e la vicenda coloniale. In seguito ci soffermeremo sulla CEI come espressione della Chiesa italiana, prestando attenzione agli attentati dell’11/09/01 come punto di svolta della percezione comune dell’Islam nel Paese. Consapevoli dei limiti di questa indagine, non possiamo che rimandare ad ulteriori approfondimenti più mirati e circoscritti, accontentandoci di proporre il quadro generale in cui i Cattolici italiani interessati al confronto con l’Islam oggi si possono muovere.

Il Corano in Italia

La scelta di pubblicare il testo coranico ed il modo in cui viene corredato da note ed approfondimenti è chiaramente rivelativa del modo in cui l’autore si pone rispetto all’Islam. Riportiamo in sintesi la cronologia delle opere italiane proposta da Paolo Branca e le sue conclusioni in merito. Dopo l’opera del Marracci bisogna attendere ben tre secoli prima che l’editoria italiana si interessi nuovamente al testo coranico, ed all’inizio in modo farraginoso. Nel 1847, 1882 e 1912 vengono proposte traduzioni basate per lo più sulla versione francese di Kasimirski, con errori, omissioni, sintesi non segnalate come tali ed un minimo corredo di commenti e spiegazioni. Solo nel 1914 il Fracassi pubblica una versione tradotta direttamente dall’Arabo e con originale a fronte, specificando di voler così contribuire all’integrazione dei sudditi musulmani delle colonie nel Regno d’Italia. La traduzione non è esente ad errori e critiche, sia contemporanee che successive, ma segna comunque una svolta decisiva nell’approccio al Corano in Italia. Segue il Bonelli nel 1929, più fedele al dettato arabo e finalmente il Bausani nel 1955, edizione ancor oggi considerata valida e consigliabile sia per il testo che per l’apparato critico. Di qui in poi le traduzioni si moltiplicano e susseguono rapidamente. Nel 1986, a Trieste, un’ulteriore e per ora ultima aggiunta alla pubblicistica è la prima edizione italiana curata da un gruppo di musulmani e indicata semplicemente come “Qur’an”, cui ne seguiranno molte altre. Nelle librerie italiane è poi divenuto ormai normale trovare pubblicazioni tradotte dall’inglese o da altre lingue di commenti al Corano con traduzione del testo, in numero tale da rendere impossibile in questa sede darne conto puntualmente. Il professor Branca annota l’augurio di una sempre maggior diffusione e comprensione critica di queste traduzioni, come anche maggior coinvolgimento e disponibilità dei musulmani italiani che ancora risentono della storica riserva islamica all’idea di tradurre il libro sacro. Interessante l’annotazione sulla scarsità di traduzioni italiane delle principali opere classiche dell’Islam, contributo determinante e necessario per i prossimi sviluppi della materia.

Sintesi: Nell’insieme risulta evidente come ormai la questione islamica non sia appannaggio solo degli interessi teologici della Chiesa, ma tutti gli elementi della società italiana abbiano a cuore in certa misura una comprensione dell’Islam come religione, oltre che come cultura. Resta da approfondire quale sia il rapporto dei fedeli cristiani con questa significativa mole di pubblicazioni dal tenore tanto diverso, come anche l’eventuale opportunità per il Magistero in Italia di offrire indicazioni per consentire a ciascuno di orientarsi e non inciampare in testi poco affidabili o di parte credendoli invece obiettivi ed universalmente validi.

Il colonialismo italiano nei paesi islamici e la missione cattolica

Anzitutto segnaliamo la difficoltà di reperire materiale sul tema citando Romanato: «Del tutto trascurabile è poi l’interesse per le missioni nella storiografia italiana. Tolta, e non sempre, una citazione d’obbligo per Guglielmo Massaja, l’ottica rimane, in fondo, quella di Croce, che ricordava “l’operosità” di “viaggiatori” ed “esploratori”, ma ignorava del tutto la presenza dei religiosi». L’azione missionaria della Chiesa ha da sempre una dimensione universale, tuttavia nel periodo coloniale le singole chiese nazionali concentrano il proprio impegno nei territori amministrati dai rispettivi governi (sia pure mai in modo esclusivo). Il punto di partenza della rinnovata penetrazione missionaria ottocentesca e novecentesca in Africa sono i paesi musulmani della costa mediterranea, soprattutto l’Egitto, e nel caso dell’Italia le aree interessate sono quelle della Libia e del Corno d’Africa, parte del mondo islamico fin dai suoi primi secoli. Il giovane stato italiano era ben consapevole che molti suoi cittadini erano già da tempo presenti nei territori africani e mediorientali al seguito delle missioni cattoliche, e che la netta preminenza numerica rispetto ad altre nazionalità, unita alla centralizzazione in Roma delle case generalizie, aveva di fatto promosso la diffusione della lingua e della cultura italiana quasi di pari passo con il costituirsi di enclave cattoliche in quelle regioni. A differenza di Francia e Gran Bretagna, però, in Italia la questione missionaria resta di appannaggio esclusivo della Chiesa, e le ingerenze politiche sono assai contenute e sporadiche. Questo permette al missionario italiano di sentirsi «prevalentemente uomo di chiesa, portatore di un disegno di evangelizzazione, come diremmo oggi, potenzialmente universale, non condizionato da interessi politici o nazionali». Per completare il quadro, si tenga conto che i missionari italiani erano figli di una Chiesa che in Europa, ovvero là dove riteneva di essere a casa, si sentiva e sperimentava perseguitata, rifiutata, condannata ad un futuro incerto sia dal laicismo francese che dalla conquista sabauda dello Stato Pontificio: la Chiesa di Gregorio XVI, anti-liberale, contro-rivoluzionaria, impegnata a guadagnarsi la propria libertà e la speranza di un domani migliore. In tutto questo complesso movimento, che con tutti i limiti propri della cultura e dei mezzi educativi allora correnti è stato comunque il principale esempio di confronto non razzista tra europei ed africani durante l’esperienza coloniale, la Chiesa italiana opera soprattutto attraverso gli ordini religiosi. Un caso particolarmente interessante è quello di Daniele Comboni e dei suoi religiosi. Nel 1864 il Comboni propone a Propaganda Fide un piano missionario che dovrebbe superare le difficoltà e i limiti che hanno segnato il sostanziale fallimento del progetto missionario francescano in Sudan. Il religioso propone di stabilire lungo le coste africane dei centri di formazione e di preparazione per i religiosi missionari del continente, evitando così di farli venire in Europa. A suo dire, infatti, il missionario africano formato in Europa «ritornato nell’Africa ne è reso inetto per le quasi connaturate abitudini europee contratte nel centro della civiltà, che diventano ripugnanti e nocevoli nella condizione della vita africana». Il piano poi precisa la necessità di formare non solo sacerdoti, ma catechisti, insegnanti, artigiani d’ambo i sessi che possano gradualmente penetrare nelle regioni interne dell’Africa e divenire fermento di sviluppo e conversione per le comunità. Per il presente lavoro è interessante constatare come il Comboni citi esplicitamente l’esperienza dei Vicariati apostolici in paesi islamici come Egitto, Tunisia, Libia e Marocco, ed abbia direttamente affrontato anche il difficile confronto con i musulmani dell’Africa nera. Egli, nel corso della sua opera, non considera mai l’Islam una realtà impermeabile al messaggio evangelico né le società islamizzate come particolarmente ostili ai missionari. Concentrato su problemi di tipo culturale, economico, sociale e non ultimo sui disagi della calura e delle malattie, il Comboni accosta il dialogo con l’Islam in termini di assistenza gratuita e disinteressata alla promozione delle comunità africane e di esplicita testimonianza della fede cristiana.

Sintesi: Nell’insieme le missioni italiane, che siano tali per un diretto interessamento del governo nazionale o per il semplice fatto di fare riferimento a religiosi italiani, mostrano di non avere particolare attenzioni per l’Islam. Esso, pur presente e radicato presso i popoli colonizzati dall’Italia, specie in Libia, costituisce non tanto il destinatario della missione quanto il concorrente con cui contendere per evangelizzare le genti ancora legate alla propria religione tradizionale o, nella migliore delle ipotesi, un contesto tra gli altri in cui applicare il proprio progetto di evangelizzazione.

Il contesto civile del dopoguerra

Tra il 1952 e il 1954 matura nell’Università di Roma la scelta di cambiare nome alla cattedra di “Storia ed istituzioni musulmane” in “Islamistica”, sancendo così la scelta di considerare il mondo islamico come universo socio-culturale oltre che religioso in senso stretto. Si sviluppa da qui il percorso dell’islamistica italiana laica, per lo più di indirizzo positivista e segnata dal desiderio di farsi scienza autorevole e riconosciuta. Va segnalata poi la figura di Padre Federico Peirone, che negli anni ’70 e ’80 fu attivo sia nel mondo accademico laico che ecclesiastico come docente di lingua araba e di islamistica, oltre che convinto promotore del dialogo interreligioso.

La CEI e l’Islam

A partire dal 1973 nelle note e negli orientamenti pastorali della Conferenza Episcopale Italiana si affaccia la questione del dialogo interreligioso, orizzonte che va tenuto presente per contestualizzare le affermazioni specifiche legate all’Islam. Queste appariranno solo dal 1993, legate inizialmente alle questioni dell’immigrazione e dei matrimoni misti. Solo lentamente si apriranno prospettive di dialogo teologico e pastorale per la Chiesta italiana nel suo insieme e per le comunità cattoliche sul territorio. Diamo allora anzitutto conto della questione interreligiosa. Negli anni ’70 la CEI è pienamente nella linea della preparazione evangelica, e nei suoi documenti il dialogo si configura come annuncio della verità cristiana che purifica gli errori delle altre religioni e ne porta a pienezza i germogli di bene (28.2.1974, Evangelizzazione del mondo contemporaneo in Enchiridion CEI, vol.2 nn. 1061-1064, 1072-1074). La prospettiva è fortemente “ad gentes” e il contesto italiano resta genericamente percepito come cristiano-cattolico; i contrasti avvertiti nel mondo sono ricondotti esclusivamente a dimensioni ideologiche, politiche e razziali, la differenza religiosa non è ancora una preoccupazione pressante. Del resto la presenza di altre religioni, ed in particolare dell’Islam, nel contesto italiano non poteva essere avvertita facilmente. Se Francia, Gran Bretagna e Germania sperimentano fin dagli anni ’50 una massiccia immigrazione da paesi a maggioranza islamica, l’Italia ha un primo approccio al fenomeno solo nel corso degli anni ’80. I Musulmani stessi, giunti in Italia, cominciano ad organizzarsi in associazioni solo nei primi anni ’70 e, a causa delle differenze etnico-linguistiche e di appartenenza religiosa, fin dall’inizio si trovano divisi ed incapaci di offrire allo stato ed alla Chiesa un interlocutore che li rappresenti nel loro insieme. L’impressione è che il clima italiano presentasse ancora fino agli anni ’90 un’omogeneità tale da rendere trascurabile il fenomeno del pluralismo religioso, che resta ai margini del pensiero ecclesiale nel nostro Paese, tutt’al più appannaggio di missionari e specialisti. L’esperienza ecumenica ed il confronto serrato con una società in evoluzione e che si andava allontanando dalla morale cattolica tradizionale sono però l’occasione preziosa che mantiene desto l’episcopato italiano su ciò che accade al di fuori della comunità cattolica, fungendo da utile profilassi contro il rischio di un eccessivo ripiegamento all’interno. Il dialogo sorto dalle istanze conciliari, in quegli anni più evocato che descritto, resta comunque presente nella riflessione e risulta capace di affascinare i pastori d’Italia che lo riconoscono come risorsa necessaria per la Chiesa nel suo insieme e per i singoli credenti. Le sempre più chiare sollecitazioni del magistero pontificio di Giovanni Paolo II e le rapide trasformazioni sociali e culturali della fine del ‘900 spingeranno a tradurre queste riflessioni in termini pastorali. Ciò si concretizza nel 1990, quando la CEI prende atto di come, anche in Italia, il pluralismo non sia più soltanto un fenomeno culturale o etnico ma anche un dato religioso, ed esiga quindi risposte in questa sede specifica. Proprio in quell’anno il Vescovo di Milano, il Cardinale Carlo Maria Martini, introduce con forza la questione islamica nella pastorale italiana con un discorso alla sua diocesi. Già nel sottotitolo “dall’accoglienza al dialogo”, Martini si fa interprete di un cambio di prospettiva: dal musulmano visto solo come straniero bisognoso si assistenza al fratello di altra religione con cui cercare il confronto paritario, sia in termini pastorali che teologici. È un riconoscimento della dignità dell’altro, oltre che una provocazione sia per i Cattolici che per i Musulmani. Partendo dal riferimento biblico alla benedizione di Dio su Ismaele, il Cardinale traccia alcune linee-guida che andranno ben oltre i confini ambrosiani e segneranno l’esperienza italiana nel suo insieme: anzitutto l’invito ad affrontare la sfida di pensare al valore teologico dell’Islam nel suo insieme, come religione che interroga il Cristianesimo con i suoi valori, la sua visione di Dio, la sua interpretazione del patrimonio ebraico e cristiano. In secondo luogo il confronto tra singoli credenti delle due religioni, che deve essere anzitutto una testimonianza esplicita delle ragioni evangeliche per cui si agisce in tal senso. Fondamentale, per Martini, è l’invito alla reciprocità e la ricerca di obiettivi comuni da realizzare sul fronte della carità e dell’educazione a valori condivisi. Interessante il rilievo di dover segnare la distinzione tra società e Cristianesimo, mettendo a conoscenza i Musulmani delle riserve critiche nei confronti di alcune derive dell’Occidente che Cristianesimo ed Islam condividono. Il Cardinale, infine, raccomanda a tutti, e specie ai presbiteri, il dovere di non ignorare la questione, d’informarsi e di conoscere, di custodire la speranza e l’augurio che il Vangelo trovi ascolto e disponibilità anche presso i Musulmani che si vanno stabilendo in Italia. Si vedrà nei paragrafi seguenti l’attualità di queste considerazioni. Il delicato equilibrio espresso da Martini, tra disponibilità e richiamo al mutuo impegno, è condiviso dall’intera Chiesa italiana. In quegli anni essa invoca una più precisa regolamentazione del flusso migratorio ed avverte sulla necessità inderogabile della reciprocità, ponendo come mèta l’integrazione sociale in termini che comunque hanno ancora un certo sapore di assimilazione. A questo riguardo bisogna notare come, anche negli anni successivi, il credente di altra religione resti generalmente associato all’immigrato, e diverse annotazioni sul dialogo compaiano in documenti inerenti l’azione caritativa, facendo perdurare l’impressione che si tratti di uno degli atteggiamenti di chi intende occuparsi degli ultimi. La realtà dell’Islam in Italia viene infatti trattata per la prima volta in modo sistematico ai nn. 2019-2024 degli Orientamenti Pastorali del 1993 dedicati all’immigrazione. Il testo ricalca sostanzialmente quanto già detto da Martini, con in più delle attenzioni alla questione dei matrimoni misti e alle inevitabili difficoltà che questi presentano. La riflessione del cardinal Martini apre comunque alla Chiesa italiana una situazione nuova, che va oltre l’ambito prettamente caritativo: la sfida della prossimità quotidiana ed ordinaria con persone di religione musulmana intenzionate a vivere coerentemente con la propria fede e a manifestarla in forma pubblica. Alle parole del Vescovo di Milano farà eco due anni dopo la Conferenza Episcopale Triveneta. La CET parte dalle reciproche ferite che Musulmani e Cristiani si sono inferte, chiedendo la disponibilità a perdonare e dimenticare per costruire una nuova relazione fatta di reciproca conoscenza, onestà e rispetto. Dopo aver brevemente presentato gli elementi fondamentali della religione islamica, i Vescovi affermano che il dialogo interreligioso «non scaturisce da opportunismi tattici, ma dalla fedeltà a Dio e all’uomo», riferendosi in nota a Nostra Aetate. I punti di contatto con l’Islam sono identificati nell’atteggiamento di fede ed obbedienza a Dio riconosciuto come unico, mentre fra le differenze teologiche ha un posto importante la questione della separazione tra società civile e comunità religiosa, sulla linea degli ammonimenti di Martini. Tra i contributi più interessanti del documento l’invito a tutti i Cristiani ed alle comunità parrocchiali in particolare di fare la propria parte nel dialogo, affiancando il livello istituzionale già da tempo impegnato. Si vede quindi come le affermazioni del Concilio e la prima presa di posizione del Vescovo di Milano trovino nel Triveneto un’ulteriore precisazione pastorale e dei passi, sia pure incerti, di applicazione concreta attraverso un breve elenco di direttive accluso in conclusione. Solo un anno dopo gli Orientamenti Pastorali della CEI si concentrano sulla questione dell’immigrazione e dedicano ampio spazio al dialogo interreligioso, menzionando l’Islam come presenza più evidente e luogo privilegiato per questa buona pratica. Al numero 20, in particolare, la questione si pone in termini squisitamente teologici: «nel piano della Provvidenza quale significato per noi cristiani cattolici può avere questo mondo musulmano con il quale entriamo in contatto?», mentre i numeri 33 e 34 sono specificamente dedicati ai rapporti con l’Islam. Le coordinate della riflessione sono date da Nostra Aetate, dal magistero di Giovanni Paolo II e dal documento “Dialogo e annuncio”. La CEI, oltre ad osservazioni ed indicazioni già evidenziate nei testi precedenti, insiste marcatamente sulla questione della reciprocità nel rispetto e nella stima, interpellando sia i Musulmani residenti in Italia che le comunità nazionali di legge islamica da cui essi provengono. Frattanto la dimensione quotidiana e pastorale, che chiama in causa la vita ordinaria di tutti i Cristiani, diventerà gradualmente sempre più centrale nelle pubblicazioni nazionali sul dialogo islamo-cristiano, ed uno dei luoghi teologici e pastorali più predisposti a considerazioni positive e ragionevoli speranze: «Le persone possono prescindere dai contrasti, dai conflitti e dalle differenze dottrinali, vivendo nello sforzo di mutua comprensione, conoscendo e accettando i punti comuni e le differenze». È pressoché unanime il rilievo grato dell’assoluta apertura e disponibilità delle comunità cristiane nell’assistenza ai musulmani, che da parte loro hanno imparato immediatamente a non disdegnare le porte delle canoniche se si tratta di chiedere un aiuto materiale. Al contempo, col crescere delle nuove generazioni, i musulmani sono una presenza sempre più marcata nei luoghi di aggregazione e di svago offerti dalla parrocchia, ed essendo questi spazi disponibili gratuitamente non è raro che i giovani figli di immigrati li abitino volentieri, mentre i coetanei italiani e cattolici tendono sempre più a disertarli e preferire altre proposte. Di qui l’urgenza, già evidenziata nel documento della CET del 1992, della formazione di operatori pastorali specificamente attrezzati per l’incontro con persone musulmane, e la necessità di preparare anche i normali fedeli a vivere questa convivenza in modo consapevole, fraterno, e capace di testimoniare apertamente la propria fede in Cristo. È interessante notare come la stessa CEI maturi il deciso rifiuto della “conversione” dei musulmani come obiettivo diretto del suo rivolgersi a loro. La solidarietà della Chiesa italiana risulta così veramente gratuita e libera da ogni sorta di preoccupazione di “conquista”, e questo viene puntualmente riconosciuto dai musulmani. Non sarebbe onesto, però, tacere dei movimenti di opinione contraria che emergono sia da parte della società civile che in seno alla stessa Chiesa, e rivendicano come condizione all’accoglienza una perfetta ed assoluta reciprocità, non di rado confondendo il piano delle relazioni interpersonali privati con quelli dei rapporti tra enti religiosi e tra stati sovrani. Sebbene la Chiesa Cattolica non abbia mai mancato di chiedere esplicitamente la stessa cosa, il fatto che tale reciprocità non sia comunque considerata un prerequisito necessario per ogni ulteriore gesto caritativo rimane a tutt’oggi motivo di scontri e critiche tra persone ed istituzioni, specie quando le comunità islamiche chiedono di poter aprire dei centri culturali e di preghiera. Evidentemente gli attentati dell’11/09/01 hanno gettato altra benzina sul fuoco. Partecipe dei mutamenti della politica mondiale e dal diffondersi di paure e pregiudizi, la Chiesa italiana torna sulla questione islamica sia localmente che a livello nazionale. Anzitutto i Vescovi di Sicilia, storicamente e geograficamente più vicini al mondo islamico, cercano di leggere l’immigrazione sempre più massiccia di Musulmani in Italia come un “segno dei tempi”. Per la prima volta le contrapposizioni politiche in tema di immigrazione vengono trattate insieme alle questioni dottrinali ed alla prassi caritativa. Il documento è evidentemente frutto di una complessa gestazione accademica, con approfondimenti teologici, di diritto civile e canonico, di economia, di storia locale e mediorientale, e di confronto interreligioso sullo sfondo del “noachismo”. Più interessato a porre domande che a dare risposte, questo documento si chiude con l’appello ad una sempre più attenta e curata formazione delle comunità cristiane al dialogo con l’Islam. Sempre in conseguenza dell’acuita percezione mondiale nei confronti del terrorismo islamico, la CEI fa sua la preoccupazione di sollecitare e sostenere «quelle persone e quegli organismi che appartengono all’islam ma che non si riconoscono nell’ideologia dello scontro di civiltà e tanto meno nella strategia del terrore», oltre che dare voce alla necessità di distinguere sempre tra terroristi e musulmani. Nel 2006 la CET, che già si era espressa nel 1992, torna a fare il punto sui rapporti tra Musulmani e Cristiani. Decisamente più corposo del predecessore, questo testo approfondisce le motivazioni teologiche e pastorali del dialogo interreligioso ed offre anzitutto dei criteri generali che aiutino i singoli e le comunità locali. La preoccupazione principale è far sì che la Chiesa possa contribuire all’integrazione degli immigrati musulmani ed essere percepita da questi come un partner da stimare e rispettare, alleata nel perseguimento dei diritti civili e della libertà religiosa ma anche esigente nel chiedere reciprocità e gesti concreti di impegno per divenire buoni concittadini. L’inserimento scolastico, il prestito di ambienti per attività sociali e di culto, il contributo alla gestione del tempo libero dei minori sono alcuni degli spazi di confronto e testimonianza sulla base dell’esercizio concreto della carità di Cristo. Altro filone di ricerca e sperimentazione pastorale è la questione dei matrimoni misti. La Chiesa italiana, pur avendo segnalato la questione fin dagli anni ’90, interviene per esteso quando ormai è già maturata un’esperienza diffusa e, purtroppo, non di rado dolorosamente fallimentare. A quel punto è già prassi consolidata per le coppie miste preferire l’unione civile a quella religiosa, con un’ignoranza spesso totale delle possibilità di celebrazione con dispensa e di benedizione della coppia che permetterebbero un riconoscimento religioso da parte della comunità cattolica, oltre ad offrire al coniuge battezzato alcuni preziosi strumenti per coltivare la propria fede e farla crescere proprio grazie all’esperienza della vita coniugale con un partner di altra religione. Va poi rilevato come il matrimonio con musulmani, generalmente nella situazione di moglie cattolica e marito musulmano a causa delle prescrizioni islamiche, suscita nelle comunità reazioni di diffidenza ed ostilità più marcate che nel caso siano coinvolte altre religioni. La Chiesa è quindi intervenuta su due livelli, da un lato la preoccupazione di informare quanto più possibile i nubendi rispetto alle somiglianze e differenze nel modo di concepire il matrimonio, la famiglia, i ruoli dei coniugi e le scelte educative rispetto ai figli, dall’altro cercando di avviare percorsi di formazione per l’intera comunità, perché prenda atto della presenza di queste famiglie interreligiose e sappia farsi accogliente verso di loro, oltre ad avere cura e sostenere il coniuge cattolico senza giudizi preconcetti o illusori irenismi. È infine doveroso citare la questione della presenza di bambini musulmani nelle scuole cattoliche. Non è raro che i genitori musulmani percepiscano come una ricchezza il riferimento esplicito a Dio nella prassi educativa, guardando invece con preoccupazione alla laicità della scuola pubblica. Ciò però non significa che vi sia da parte della famiglia alcun “cedimento” verso l’adesione al Cristianesimo. La Chiesa italiana ha sviluppato la problematica con attenzione e continua a farlo, cercando il giusto equilibrio tra la fedeltà ai principi educativi cristiani, l’affermazione esplicita della fede in Cristo e l’accoglienza rispettosa del patrimonio religioso musulmano con le pratiche connesse a cui il fedele non può rinunciare. La preoccupazione educativa della Chiesa si estende anche all’ambito civile, arrivando a condividere la richiesta di alcune famiglie musulmane di potersi avvalere anche dell’insegnamento della religione islamica nelle scuole pubbliche con un Comunicato del 2006. Nel 2010 la Chiesa Cattolica Italiana, reagendo alla querelle sollevata sull’esposizione del Crocifisso in luoghi pubblici, esprime in un comunicato l’auspicio che la simbologia religiosa in generale non venga penalizzata negli ordinamenti legislativi, ed anzi sia valorizzata e compresa come occasione di confronto e di proposta, mai di imposizione o discriminazione. In questo modo viene evitata ogni polemica con l’Islam nel suo insieme, e si ribadisce il rifiuto di identificare la comunità musulmana con quei suoi membri che esprimono posizioni estremiste. Anche tra i musulmani italiani, frattanto, emergono figure che chiedono direttamente di essere considerate parte del Paese, come efficacemente rimarcato da Pallavicini: «Il rischio è di continuare a compiere l’equazione: musulmani = poveri immigrati ignoranti», sebbene egli stesso riconosca che ancora oggi circa il 90% dei musulmani presenti in Italia non siano cittadini né italiani né europei. Una preoccupazione, la sua, che non sembra del tutto ingiustificata rispetto all’atteggiamento ufficiale della Chiesa Cattolica Italiana, la quale nei suoi documenti dedicati sembra frequentemente supporre che le persone musulmane presenti in Italia siano per lo più non italiane, e si trovino in situazione di bisogno e povertà tanto economica quanto sociale e culturale. Per contro «la Chiesa italiana, per buona parte, sembra contestare la logica della polarizzazione e si sforza di introdurre elementi di pacatezza nel dibattito [sull’accoglienza degli immigrati musulmani], rifiutando tanto l’integralismo e il fanatismo, quanto gli atteggiamenti rinunciatari o la temuta “omologazione delle differenze”. […] Che questo atteggiamento non significhi, poi, una accettazione debole di prove di forza o la volontà di un dialogo forzato a tutti i costi, lo si può dedurre anche dalla richiesta puntuale di una “controparte”, ovvero di una reciprocità fatta non soltanto di rapporti asimmetrici, ma omogenei.

Sintesi: La Chiesa italiana, in queste prime decadi del XXI secolo, ha mostrato di avere ormai maturato un approccio pastorale originale e peculiare alla presenza dell’Islam nel Paese. Se da un lato si tiene conto delle preoccupazioni manifestate da una nazione che è stata colta di sorpresa da questo evento, dall’altro rimane decisiva la fedeltà alla prassi evangelica dell’accoglienza e del dialogo. Sia pure non sempre in modo ordinato, tanto gli organi nazionali che le realtà regionali, diocesane e parrocchiali hanno fin dagli anni ’90 attivato percorsi di incontro e conoscenza verso le persone musulmane e l’Islam in quanto tale. Ad oggi pare che non vi siano significative incertezze in merito al vissuto quotidiano, quanto piuttosto si avverte la necessità di una fondazione teologica fruibile anche dal comune credente. Per andare oltre l’accoglienza del povero e dello straniero, la Chiesa italiana deve ancora precisare quale lettura di fede faccia della presenza dell’Islam in Italia e del suo essere ormai costitutivamente ed irrevocabilmente parte della realtà nazionale.

Conclusione.

La lunga analisi fin qui condotta ci sembra offrire un’indicazione chiara: pur nell’estrema varietà di rapporti e di soggetti ecclesiali coinvolti, la Chiesa in Italia pare essersi rapportata con l’Islam soprattutto in risposta a puntuali questioni di tipo politico ed economico, oppure nell’ambito della propaganda missionaria, dell’apologia e della confutazione. Sebbene non siano mancate genuine testimonianze di carità pastorale e di seria intenzione di ricerca scientifica, la Chiesa mostra di non avere ancora definito una valutazione teologica del fenomeno islamico, della figura di Maometto e del suo Corano. Questa lacuna rende assai difficile impostare un percorso di relazione sia per la Chiesa gerarchica nell’ambito istituzionale che per le comunità locali ed i singoli fedeli nella quotidianità e nella vita privata. Da parte loro i fedeli dell’Islam in Italia, oggi, sperimentano ancora il sentirsi quasi esclusivamente oggetto di cure caritative, legati al mondo degli stranieri immigrati e della povertà, reclamando un sempre più concreto riconoscimento come interlocutori pienamente inseriti nella realtà italiana ed alla pari. Nel secondo decennio del XXI secolo ci si trova così ad un passaggio di ripensamento radicale dei rapporti e delle prassi, che deve tenere conto di istanze teologiche e sociali in egual misura.

Fonti e Bibl. essenziale

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LEMMARIO




Istituti di scienze religiose - vol. II


Autore: Raffaele Savigni

La dichiarazione conciliare Gravissimum educationis (ottobre 1965), n. 10 («Nelle università cattoliche, in cui manchi la facoltà teologica, dovrà esserci un istituto o cattedra di sacra teologia, in cui si tengano lezioni adatte anche per gli studenti laici») e la costituzione Gaudium et spes, 62 («È anzi desiderabile che molti laici acquistino una conveniente formazione nelle scienze sacre e che non pochi tra loro si diano di proposito a questi studi e li approfondiscano con mezzi scientifici adeguati») hanno aperto anche ai laici lo studio della teologia, ponendo le premesse per un superamento del monopolio clericale. Per quanto a tutt’oggi non siano ancora state istituite vere e proprie facoltà teologiche nelle università statali, e neppure nell’Università cattolica di Milano, l’impulso del Concilio ha favorito il sorgere di varie iniziative destinate ai laici. Mons. Enrico. Bartoletti promosse, mediante il “Progetto donna” (1972), la partecipazione di giovani donne allo studio della teologia: per esse mons. Gualdrini, rettore del Collegio Capranica, avviò nel 1974 il convito di Villa S. Cecilia a Vitinia (Roma).

Sorsero inoltre scuole diocesane di teologia indirizzate in modo peculiare ai laici, come quella di Bologna (nata nel 1977), che si caratterizzò per una spiccata attenzione allo studio della Scrittura, della liturgia e della storia della Chiesa locale. Dopo la revisione del Concordato (1984) e la promulgazione, da parte della Congregazione per l’Educazione Cattolica, di una Nota illustrativa (10 aprile 1986) e di una Normativa (12 maggio 1987) tali scuole si trasformarono in veri e propri Istituti di scienze religiose, destinati prevalentemente alla formazione professionale degli insegnanti di Religione, che in base alle nuove norme dovevano dotarsi di un preciso titolo di studio, oltre che di diaconi e ministri istituiti; ed in conformità al cosiddetto Processo di Bologna (avviato nel 1999 con lo scopo di costruire nell’arco di un decennio uno spazio europeo dell’istruzione superiore) essi assunsero una più precisa configurazione come “Istituti superiori di scienze religiose” (ISSR), strettamente raccordati alle facoltà teologiche regionali, che ne garantiscono il livello accademico e conferiscono i titoli di studio, ed alla Congregazione per l’Educazione Cattolica. Come previsto dall’Istruzione sugli Istituti superiori di scienze religiose” (28 giugno 2008), che ha riorganizzato la struttura e il curriculum formativo degli ISSR adottando il modello 3+2, i corsi sono articolati in un triennio, al termine del quale lo studente consegue il Baccalaureato in Scienze Religiose, ed in un biennio finale (spesso suddiviso in diversi indirizzi, ad esempio pedagogico-didattico e pastorale-liturgico), che conferisce la Licenza in Scienze Religiose. Secondo tale Istruzione gli ISSR hanno «lo scopo di: promuovere la formazione religiosa dei laici e delle persone consacrate, per una loro più cosciente e attiva partecipazione ai compiti di evangelizzazione nel mondo attuale, favorendo anche l’assunzione di impieghi professionali nella vita ecclesiale e nell’animazione cristiana della società; preparare i candidati ai vari ministeri laicali e servizi ecclesiali; qualificare i docenti di religione nelle scuole di ogni ordine e grado, eccettuate le Istituzioni di livello universitario». Ad un livello più divulgativo rispetto agli ISSR si collocano le scuole diocesane di formazione teologica, che, talora decentrate a livello vicariale, intendono offrire una formazione teologica di base a quanti desiderano approfondire i contenuti della fede e qualificare il proprio servizio ecclesiale come catechisti, educatori, operatori pastorali, ministri istituiti.

Come ha osservato G. Canobbio (Figure, 210), gli ISSR non sono in genere veri centri di ricerca teologica, con l’eccezione dell’Istituto trentino di cultura (sorto nel 1962 e dal 2007 denominato Centro di scienze religiose della Fondazione Bruno Kessler) e dell’Istituto superiore di scienze religiose “Italo Mancini” di Urbino (sorto nel 1969, sotto l’impulso determinante del rettore della libera Università di Urbino, Carlo Bo, con l’obiettivo ambizioso, poi realizzato solo in parte, di far entrare la teologia dentro l’università pubblica): questi due Istituti non dipendono giuridicamente da Facoltà teologiche né da università statali, per cui possono favorire un’interazione tra la ricerca attuata in quei due diversi ambiti. L’Istituto di Urbino, pensato da Mancini come «una comunità di formazione e ricerca» (è il titolo di una lettera da lui inviata ai membri dell’Istituto nel marzo 1982), cura la pubblicazione della rivista «Hermeneutica», ed ha ottenuto dalla Congregazione per l’Educazione Cattolica, nel quadro di un’intesa fra l’Arcidiocesi e l’Università degli Studi di Urbino “Carlo Bo”, il riconoscimento del Corso biennale di alta specializzazione in Scienze religiose, finalizzato alla formazione di insegnanti di Religione Cattolica altamente qualificati; alla promozione del dialogo ecumenico e interreligioso, fondato su un’approfondita conoscenza delle religioni; ed alla ricerca scientifica nel campo delle scienze religiose e teologiche. Non è stata invece sinora attivata una vera e propria facoltà di teologia presso l’Università cattolica del S. Cuore, nonostante siano state avanzate diverse proposte in questa direzione,.

Il Centro di Documentazione (ora Fondazione per le Scienze religiose Giovanni XXIII) di Bologna, fondato nel 1953 da Giuseppe Dossetti d’intesa col card. Lercaro ma autonomo nei confronti della gerarchia ecclesiastica, e dotato di una ricca biblioteca, costituisce un importante centro di ricerca storica, teologica, patristica, esegetica ed un luogo di incontro di studiosi di rilevanza internazionale: a lungo coordinato da Giuseppe Alberigo, prima e durante il Vaticano II fu una sorta di officina che predispose importanti materiali per i dibattiti conciliari, e negli anni ’80-90 promosse la pubblicazione della fondamentale Storia del concilio Vaticano II (5 voll., Bologna, Il Mulino, 1995-2001). Attraverso vari passaggi l’Associazione per lo sviluppo per le scienze religiose si strutturò a partire dal 1985 nell’attuale Fondazione, riconosciuta con DPR 6-04-1990.

Fonti e Bibl. essenziale

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LEMMARIO




Istituti secolari - vol. II


Autore: Giancarlo Rocca

La nascita degli istituti secolari in Italia. La possibilità di condurre una vita consacrata nel mondo, senza vita comune e senza abito religioso, era già stata ventilata in Italia da Caterina Volpicelli (1839-1894) che, attorno agli anni 1880, aveva chiesto alla S. C. dei Vescovi e Regolari che le sue Ancelle del Sacro Cuore, fondate a Napoli su influsso francese, potessero essere approvate in due rami, uno interno e uno esterno. Orientata, però, a definire la struttura della congregazione religiosa, per la quale erano previsti la vita comune, un apostolato specifico e un abito religioso, la S. C. dei Vescovi e Regolari non volle riconoscere questa nuova esperienza di vita religiosa, e con il decreto Ecclesia catholica del 1889 sancì che queste istituzioni non sarebbero state riconosciute come “religiose”, ma solo come pie unioni, sempre a condizione che esse si facessero conoscere ai loro vescovi e dipendessero da loro.

Si sa, però, che il modello di donne “esterne” che volevano vivere come religiose ebbe numerose imitazioni nei primi decenni del secolo XX con le Apostole del Sacro Cuore, fondate a Milano nel 1919 dal gesuita Ernesto Busnelli; con le Terziarie francescane del regno sociale del Sacro Cuore (poi Missionarie della Regalità di Nostro Signore Gesù Cristo), fondate nel 1919 ad Assisi da Armida Barelli e Agostino Gemelli; con la Compagnia di San Paolo, fondata nel 1920 a Milano da don Giovanni Rossi; con le Filiae Reginae Apostolorum (FRA) avviate nel 1921, dopo un decennio di esitazioni, da Elena da Persico; con la Unio Filiarum Dei, fondata nel 1924 da Ippolita Teresa Eranci; con le Oblate di Cristo Re, fondate nel 1924 a Chiavari dal p. Enrico Mauri; con le Figlie dei Sacri Cuori di Gesù e di Maria, fondate nel 1924 a Bitonto da Anna De Renzio; con le Ancelle Mater Misericordiae fondate nel 1926 a Macerata; con la Piccola Famiglia Francescana, fondata a Brescia nel 1929; con le Oblate del Sacro Cuore di Gesù, fondate a Cremona nel 1932; con le Missionarie degli Infermi fondate nel 1936; con le Piccole Apostole della carità, fondate nel 1938; con le Missionarie del sacerdozio regale fondato nel 1945; e con tanti altri istituti ancora sino a raggiungere, nel 2010, il numero di 74 istituti secolari italiani, cioè circa un terzo di tutti gli istituti secolari di diritto pontificio e di diritto diocesano sparsi nel mondo (circa 210 nel 2010) e dipendenti dalla Congregazione per gli istituti di vita consacrata e le società di vita apostolica.

L’interesse di conoscere gli istituti secolari italiani, però, più che dal loro notevole numero, è dato soprattutto dal contributo che essi hanno offerto alla configurazione della struttura dell’istituto secolare che, sicuramente sin verso il 1940, tendeva a essere inserito nelle strutture della vita religiosa propriamente detta.

Di fatto, pur coinvolgendo anche le donne in un progetto comune, la Compagnia di S. Paolo evitava accuratamente qualsiasi promiscuità nel campo apostolico e proibiva espressamente alle donne di svolgerlo insieme con gli uomini e i giovani della Compagnia. Queste misure non furono ritenute sufficienti dalla S. C. dei Religiosi e si arrivò alla decisione di dividere nettamente le due sezioni, una maschile e l’altra femminile, su un modello religioso.

Elena da Persico dovette assistere alla scissione del suo istituto a seguito dell’intervento del gesuita p. Giuseppe Petazzi, direttore spirituale di alcune sodali dell’istituto. Il gesuita dichiarò alla fondatrice che la S. Sede non avrebbe mai approvato il suo progetto di istituto con membri che emettevano voti nel mondo senza essere sottoposti all’autorità di un direttore spirituale sacerdote. Al gesuita sembrava inoltre impossibile un apostolato individuale, non determinato dall’istituto, così come gli sembrava in contrasto con la carità un apostolato extrafamiliare, e altre particolarità di vita che egli voleva ricondurre alla vita religiosa. La conclusione fu che si addivenne alla costituzione (nel 1931) di un nuovo istituto secolare, le Ancelle della Madre di Dio, sotto la guida del p. Petazzi e del tutto indipendente dalle Filiae Reginae Apostolorum.

Qualche cosa del genere avvenne quando le Apostole del Sacro Cuore chiesero di poter essere riconosciute come istituzione con voti, e ricevettero la risposta che ciò non era possibile, non avendo esse la vita comune.

Inoltre, quando le Missionarie della Regalità di Armida Barelli e Agostino Gemelli chiesero un’approvazione pontificia, vennero sottoposte alla S. C. del Concilio, e sono note le loro traversie per ottenere un riconoscimento della loro vita di consacrazione a Dio come “laiche”. Il loro statuto fu respinto due volte, e solo nel 1945 la S. C. del Concilio si dichiarò disposta ad approvarlo, a condizione però che venissero esclusi i voti e conservato il solo voto di castità come voto privato dei singoli membri, con notevole disappunto delle Missionarie, che si ritenevano “religiose nel mondo”. E fu solo nel 1948, chiarite le questioni, che le Missionarie furono riconosciute come istituto secolare di diritto pontificio alle dipendenze della S. C. dei Religiosi,

Di particolare interesse è l’esame di quanto avvenuto ai Missionari della Regalità del p. Gemelli. Ritenendo, infatti, che la struttura di questo istituto fosse troppo legata alla vita della Università Cattolica, con ripercussioni sui membri stessi dell’istituto, Giuseppe Lazzati ritenne opportuno uscirne, nel 1938, con l’appoggio dell’allora arcivescovo di Milano Ildefonso Schuster, dando vita a un nuovo istituto secolare, inizialmente denominato “Milites Christi Regis” e attualmente “Cristo Re”. La conclusione fu, per tutti gli istituti secolari, che essi non potevano essere giuridicamente legati a un’opera specifica come gli istituti religiosi.

La novità degli istituti secolari italiani appare ancor più evidente se la si raffronta con il primo istituto secolare di diritto pontificio riconosciuto dalla Chiesa, l’Opus Dei, considerato modello di tutti gli istituti secolari, il quale però riconosceva come propri membri solo quelli che vivevano una vita in comune, esattamente il contrario di quanto chiedevano, tra gli altri, p. Gemelli, Armida Barelli, Elena da Persico, Giuseppe Lazzati.

Una ulteriore chiarificazione si ebbe quando, dopo l’inchiesta svolta nel 1976 circa la presenza (discussa anche tra gli istituti secolari italiani) di sposati negli istituti secolari da parte della Congregazione per i religiosi e gli istituti secolari, Lazzati ribadì che era proprio nella natura dell’istituto secolare, in quanto forma di vita consacrata, esigere il celibato.

Fondatori e fondatrici. Se si considerano i fondatori e le fondatrici degli istituti secolari italiani, si può osservare che una trentina di essi hanno alle loro origini un sacerdote, diocesano o religioso, e tra questi ultimi figurano sicuramente 5 gesuiti. Ciò significa che la spinta verso un nuovo “stato di perfezione” era stata avvertita da molti sacerdoti, mossi soprattutto dall’intento di poter intervenire nella società, in un momento in cui nello Stato italiano vigevano ancora le leggi generali di soppressione emanate nel 1866 ed estese a Roma nel 1873 (il Concordato è del 1929), e si notavano i limiti dell’opera degli istituti religiosi propriamente detti.

Questa sensibilità era ovviamente maggiore in quelle fondatrici di istituti secolari che provenivano da ambienti di notevole cultura, come Armida Barelli, o Anna De Renzio, lauretasi in lettera nel 1912 a Padova, o Germana Sommaruga e Angela Milani, laureatesi entrambe alla Università Cattolica di Milano.

La presenza di molti sacerdoti come fondatori o guide di istituti secolari era data anche dalla convinzione, abituale in quel tempo, che i sodalizi, anche laicali, dovessero essere diretti da sacerdoti, e come affermava p. Gemelli propagandando il suo sodalizio dei Missionari della Regalità nel 1929, “non potrebbe essere diversamente, perché ad essi Iddio ha affidato la cura del governo delle anime”(Una parola amica…, Milano, 1929, 21, pro ms.).

Lo sviluppo degli istituti secolari italiani. Gli istituti secolari italiani non sono solo un terzo circa di tutti gli istituti secolari presenti nel mondo, ma rappresentano anche un terzo circa dei membri di tutti gli istituti secolari. Nel 1973, di fatto, essi erano poco oltre 12.000 a fronte di un totale di membri di circa 26.000 in Europa e di circa 32.000 nel mondo intero.

Presenza di istituti secolari italiani in Italia e nel mondo
  Italia Mondo
anni 1973 1988 2010
Missionarie della Regalità 3.351 3.247 2.258
Apostole del Sacro Cuore 741 557 410
Ancelle della Divina Misericordia 678 498 166
Oblate di Cristo Re 676 723 515
Figlie della Regina degli Apostoli (FRA) 570 462 298
Volontarie di don Bosco 342 341 1270
Missionarie degli infermi 225 229 273
Figlie dei Sacri Cuori di Gesù e Maria 211 160 63
Piccole Apostole della Carità 205 224 259
Missionarie del sacerdozio regale 162 143 103
Piccola Famiglia Francescana 952 680
Ancelle Mater Misericordiae 572 507

Le statistiche relative al 1973 si riferiscono unicamente all’Italia e sono desunte dal DIP 10 (2003) 875-886.

Le statistiche relative all’anno 1988 si riferiscono unicamente all’Italia e sono desunte da un “Questionario” inviato a tutti gli istituti sparsi nel mondo, conservato nella Segreteria di Stato Vaticana, Ufficio centrale di statistica della Chiesa.

Le statistiche relative all’anno 2010 indicano il numero dei membri dei singoli istituti in tutto il mondo e sono desunte da Sequela Christi, n.s., 37 (2011/2), numero speciale dedicato agli istituti secolari, pag. 181-200 per le statistiche.

 Non si possono tuttavia dimenticare alcuni istituti secolari che, fondati all’estero, in Italia hanno trovato particolare sviluppo, come l’Opus Dei (in particolare nelle sue case di Roma, Milano, Palermo, Verona ecc.), con oltre 100 membri in Italia già verso il 1950; l’istituto secolare francese Caritas Christi con 131 membri in Italia nel 1973, e la spagnola Istituzione Teresiana (in quegli anni ancora istituto secolare prima di passare alle dipendenze del Pontificio consiglio per i laici come associazione internazionale laicale) con 205 membri in Italia nel 1973.

Lo scarso sviluppo degli istituti secolari sacerdotali italiani si deve alla difficoltà di conciliare la vita di un sacerdote diocesano nei suoi vari aspetti di dipendenza dal vescovo e di completezza della sua vita spirituale, con quella di un sacerdote diocesano che, in qualche modo, aveva un punto di riferimento diverso dal vescovo e una vita spirituale che poggiava su altri elementi.

Presenza di istituti secolari sacerdotali in Italia e nel mondo
  Italia Mondo
anni 1973 2010
Servi della Chiesa (Reggio Emilia) 69
Sacerdoti Missionari della Regalità (Arezzo) 327 314
Società dei Sacerdoti del Sacro Cuore di Gesù (Parigi) 26 557

Le statistiche relative al 1973 si riferiscono unicamente all’Italia e sono desunte dal DIP 10 (2003) 875-886.

Le statistiche relative all’anno 2010 indicano il numero dei membri dei singoli istituti in tutto il mondo e sono desunte da Sequela Christi, n.s., 37 (2011/2), numero speciale dedicato agli istituti secolari, pag. 181-200 per le statistiche.

Queste due difficoltà si trovavano chiaramente espresse nel 1959 dall’allora card. Montini, per il quale non era “ammissibile che sacerdoti diocesani… assumano altra obbedienza avvalorata da un voto… dipendente da un superiore diverso dal vescovo; … [avvalorando] l’opinione che il clero diocesano manchi d’una spiritualità sufficiente per soddisfare le aspirazioni delle anime sacerdotali desiderose di perfezione…” (dal “Folium” datato 31 marzo 1959 trasmesso alla Pontificia Commissione dei Religiosi preparatoria al Concilio Vaticano II: Subcommissio mixta de institutis saecularibus sacerdotum dioecesanorum).

Le attività. Volendo agire nella società, in tutti gli ambiti possibili, diveniva fondamentale anche per gli istituti secolari italiani la questione del riserbo o segreto. Per le sue Missionarie della Regalità e poi anche per i suoi Missionari, p. Gemelli impose subito l’obbligo del segreto, proprio per facilitare l’opera di penetrazione che essi si ripromettevano di compiere.

Comunque, a parte i casi, ben noti, della Compagnia di San Paolo, che si dedicò a molteplici opere nel campo dell’assistenza agli operai, dell’istruzione, delle missioni, dei pellegrinaggi, dell’editoria, e di Giuseppe Lazzati, fondatore dell’istituto secolare “Cristo Re”, che notevole ruolo svolse nella società italiana, si possono ricordare molti altri esempi di membri di istituti secolari attivi in Italia: Elsa Conci, delle FRA, che nel 1945 diede vita al movimento politico delle donne, venne eletta nel 1946 deputato alla Costituente nella liste della Democrazia Cristiana, e fu sempre rieletta nelle successive elezioni; Anna Sciarra, delle Missionarie della Regalità, più volte consigliere del comune di Teramo; Lucia Schiavinato, consigliere provinciale di Venezia nelle liste della Democrazia Cristiana; Elena da Persico, eletta nel 1946 consigliere provinciale della Democrazia Cristiana di Verona e consigliere comunale di Affi (Verona), dove risiedeva; Ezia Fiorentino, vice presidente (anni 1957-1966) dell’Ente comunale assistenza a Milano; Eugenia Govi, delle FRA, direttrice della Biblioteca Nazionale Marciana di Venezia e della Biblioteca universitaria di Padova; Vittoria Quarenghi, dell’istituto secolare “Caritas Christi”, entrata in politica nel 1976 e rimastavi sino alla morte, avvenuta nel 1984; e Maria Badaloni, delle Missionarie della Regalità.

Tra le opere sostenute da istituti secolari particolarmente nota è l’associazione “La nostra famiglia”, legata alle Piccole Apostole della Carità, con sede centrale a Ponte Lambro (Como), aperta nel 1948 e con centri di riabilitazione per bambini irregolari psichici, fisici, sensoriali, presenti in varie regioni italiane e riconosciuta giuridicamente con decreto presidenziale nel 1958. Questo particolare impegno ha comportato per le Piccole Apostole della Carità una vita di famiglia, in nuclei di vita e di lavoro.

Il riconoscimento civile degli istituti secolari. Dopo l’approvazione degli istituti secolari con la Provida Mater del 1947, in ambito civile si discusse se essi potessero essere riconosciuti anche dallo Stato italiano. La tesi affermativa fu quella preponderante ed ebbe la convalida con il riconoscimento, nel 1952, della Provincia Italiana della Società Sacerdotale della Santa Croce o Opus Dei, in quegli anni ancora istituto secolare. Dopo il Concordato del 1984 la questione riemerse con la richiesta del riconoscimento civile della Compagnia missionaria del Sacro Cuore, allora istituto secolare di diritto diocesano con sede a Bologna. Il parere del Consiglio di Stato fu favorevole e il riconoscimento venne poi concesso ad altri istituti secolari.

Fonti e Bibl. essenziale

Organizzazione e statistiche. Attualmente gli istituti secolari italiani sono organizzati nella Conferenza Italiana degli Istituti secolari (CIIS), che pubblica il bimestrale Incontro, e le statistiche che li riguardano, complessive per nazioni, sono regolarmente pubblicate nell’Annuarium Statisticum Ecclesiae. La bibliografia sugli istituti secolari italiani si trova raccolta in F. Morlot, Biblographie sur instituts séculiers (années 1891-1972), in Commentarium pro religiosis 54 (1973) 231-297, 354-362. Molti particolari, inoltre, in Sequela Christi 37 (2011), con i fascicoli 1 e 2 dedicati agli istituti secolari. Una sintesi, con informazioni riguardanti però anche altri istituti religiosi, in A. Parola, I laici “fondatori”, in Cristiani d’Italia. Chiese, società, Stato, 1861-2011, a cura di A. Melloni, vol. II, Roma, Istituto della Enciclopedia italiana, 2011, 1001-1011. In rapporto alla storia della vita consacrata e della emancipazione femminile: G. Rocca, Donne religiose. Contributo a una storia della condizione femminile in Italia nei secoli XIX-XX, in Claretianum 32 (1992) 5-320 (come estratto, con Appendice, Bibliografia e Indici: Roma, [Edizioni Paoline], 1992. Circa la presenza di sposati negli istituti secolari: G. Rocca, La “consacrazione” dei coniugi, in L’identità dei consacrati nella missione della Chiesa e il loro rapporto con il mondo, a cura dell’Istituto “Claretianum”, Libreria Editrice Vaticana, 1994, 375-418. Per la presenza degli istituti secolari nella diocesi di Padova: G. Di Gioia, Istituti secolari oggi. Un’identità difficile? (indagine conoscitiva), Padova, Cleup, 1990. Per il riconoscimento degli istituti secolari da parte dello Stato italiano: G. Di Mattia, Gli istituti secolari e la qualifica di enti ecclesiastici civilmente riconosciuti. A proposito del Parere del Consiglio di Stato, Sezione Prima, 13 dicembre 1989, n. 2090/89, in Apollinaris 63 (1990) 655-679. Per la storia dei singoli istituti secolari e loro fondatori, con bibliografia, cf le rispettive voci nel DIP, mentre per un rapido elenco cf l’Annuario Cattolico d’Italia, ai vari anni.


LEMMARIO




L'Università Cattolica del Sacro Cuore - vol. II


Autore: Maria Bocci

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L’Università Cattolica è stata un luogo genetico di snodi cruciali e di svolte rilevanti dell’Italia contemporanea. Il progetto culturale da cui è nata, per volontà del padre fondatore e «rettore a vita» Agostino Gemelli (1921-1959), le ha permesso di dare un contributo importante alla modernizzazione del Paese e alla sua evoluzione politica e culturale. L’Università Cattolica ha influito anche nella storia della spiritualità. Basti pensare all’intreccio peculiare fra Sacro Cuore e regalità di Cristo che l’ha connotata nei primi decenni di vita, oppure alla creazione, voluta da Gemelli, di uno dei primi sodalizi di laici consacrati e alla capacità di pervadere la società tramite i canali dell’Azione Cattolica, alcuni dei quali – come la Gioventù femminile di Armida Barelli e gli Uomini cattolici di Piero Panighi – erano guidati dai più stretti collaboratori del rettore.

La progettazione di un ateneo cattolico risale all’epoca post-unitaria e coinvolge le figure più rappresentative dell’intransigentismo, alcuni conciliatoristi e, più tardi, i democratici cristiani. L’appello alla libertà d’insegnamento ne costituisce l’asse portante, che si è arricchito alla fine dell’Ottocento, quando in seno al → cattolicesimo organizzato è iniziato un ripensamento sul livello culturale del mondo cattolico italiano, cui ha partecipato, qualche tempo dopo, un giovane francescano laureato in Medicina a Pavia, Agostino Gemelli. Gemelli, che si era convertito nel 1903 provenendo dalla militanza socialista e da una formazione scientifica intrisa di positivismo, riteneva che in Italia mancassero intellettuali capaci di indirizzare i cattolici a un fertile incontro tra prospettiva religiosa e modernità scientifica. A suo giudizio, occorreva dare un’«anima» alla modernità e rileggere il portato della tradizione in funzione di esigenze moderne, assimilando le valenze positive del progresso. L’itinerario culturale e religioso di Gemelli, le capacità organizzative di cui era dotato e i contatti con Lovanio e con Giuseppe Toniolo ne facevano un interlocutore apprezzato da coloro che, da tempo, auspicavano un ateneo cattolico. Attorno a Gemelli si raccoglieva dunque un gruppo di amici che dava origine ad alcune iniziative, come «Vita e Pensiero» e la «Rivista di filosofia neo-scolastica». Subito dopo la guerra, nel 1919, si costituiva un comitato promotore; l’anno successivo, entrava in funzione l’Istituto Toniolo di studi superiori, ente fondatore e finanziatore dell’ateneo. Nel 1920 la Sacra Congregazione dei seminari e delle università degli studi emanava un decreto di approvazione, seguito, nel ’21, dal breve Cum semper firmato dal pontefice. L’ateneo nasceva con il fine di riempire l’involucro politico risorgimentale di un contenuto cattolico, che doveva trasformare i connotati politici, economici e sociali dell’Italia unita. Gemelli non puntava sull’immediato, né condivideva sino in fondo la prospettiva sturziana, che accusava di intervenire a supporto dello Stato liberale. L’auspicio era quello di uno Stato cattolico, nella sostanza del sistema normativo e dei rapporti socio-economici. Il monopolio esercitato dallo Stato nella formazione universitaria per Gemelli era tra le cause della debole coscienza nazionale, riconducibile a un sistema di studi infecondo e bloccato sulla propria intangibilità. La concorrenza di iniziative non statali avrebbe favorito lo sviluppo nazionale, anche in termini di modernità scientifica e mobilità sociale.

L’Università Cattolica era fondata a Milano nel 1921, con il sostegno dell’arcivescovo Andrea Carlo Ferrari e grazie ai sacrifici dei cattolici che, in tutta Italia, fornivano le risorse necessarie alla sua nascita e al suo sviluppo. Le fonti di finanziamento venivano dalle offerte dei cattolici di ogni ceto sociale, raccolte dalla Gioventù femminile, dall’associazione degli Amici e in occasione dell’annuale giornata universitaria. L’Università del Sacro Cuore, che nasceva «libera» e che avrebbe difeso la propria autonomia nel regime autoritario, si candidava a fucina in cui sarebbe stata forgiata una classe dirigente integralmente cattolica e pienamente italiana. E infatti era strutturata per fornire ai laureati i saperi necessari a vasti compiti sociali, politici e sindacali. Due i percorsi formativi delle origini: la Facoltà di Filosofia, finalizzata a ripensare criticamente le correnti filosofiche contemporanee e ad elaborare i punti di riferimento fondativi del futuro Stato cattolico, e la Facoltà di Scienze sociali, volta a dare spazio alle scienze economico-sociali perché i principi enucleati dal magistero andavano declinati in un sapere che radicasse l’operosità cattolica in un sostrato di analisi rigoroso e verificato.aulaMagna2

Grazie alla riforma Gentile, nel ’24 la Cattolica otteneva il riconoscimento giuridico come università libera, retta da un proprio statuto, con il diritto di rilasciare titoli con valore legale ma con un ordinamento didattico analogo a quello delle Regie. La Facoltà di Scienze sociali, assente nelle Regie, era quindi sostituita da quella di Giurisprudenza e, nel ’26, dalla Scuola di scienze politiche, economiche e sociali, poi Facoltà di Scienze politiche, economiche e commerciali, abilitata a rilasciare anche la laurea in Economia e commercio. La Facoltà di Filosofia diventava di Lettere e filosofia. Nasceva inoltre l’Istituto superiore di Magistero, divenuto nel ’36 Facoltà. La Cattolica non rinunciava però all’obiettivo di forgiare leve di laureati capaci di occupare i gangli della società italiana attraverso una presenza qualificata, dilatata nei luoghi deputati alla direzione della cosa pubblica. Seminari e laboratori modernamente attrezzati, scuole di perfezionamento, riviste scientifiche, un patrimonio bibliotecario notevole e le spese sostenute per permettere a giovani promettenti di specializzarsi nelle migliori università straniere dovevano conferire ai laureati le competenze necessarie ad orientare i rapporti sociali e il governo del Paese. Non per niente, dalla fine degli anni Venti sino agli anni Quaranta, l’ateneo era sorvegliato dal regime, che imputava alla Cattolica la colpa di plasmare una «riserva di governo», capace di succedere al fascismo. I filosofi dell’ateneo si concentravano del resto su tematiche etico-politiche, a partire da una rivisitazione del tomismo che forniva le categorie interpretative per delineare un nuovo archetipo di convivenza civile. In Cattolica si scorgeva nel mito della «civiltà cristiana», di derivazione medievalista, una bussola ideologica per conquistare il futuro. La distinzione fra azione cattolica e azione politica, imposta dal fascismo, era l’occasione per sviluppare questo progetto, rimandandone la fase finale per la necessità di predisporre una classe dirigente pronta a realizzare l’utopia politica che si andava concependo. È sintomatico lo scontro tra gli idealisti gentiliani e i professori della Cattolica, in occasione del VII congresso di filosofia del ’29. I filosofi di Gemelli vi intervenivano per combattere lo Stato etico e la sua confluenza con il regime, le cui ragioni totalitarie Mussolini aveva riaffermato subito dopo la Conciliazione.chiostro3

Le riflessioni sviluppate in Cattolica, che si misuravano con la crisi del capitalismo, con il corporativismo e con lo Stato sociale, tra il ’40 e il ’44 sfociavano in un’iniziativa significativa: Gemelli organizzava clandestinamente una serie di incontri fra docenti e assistenti, con il fine di approntare un «codice sociale» che potesse orientare la ricostruzione democratica. Echi di questo lavorio si avvertono nelle riunioni di casa Padovani, assurte a luogo genetico del cattolicesimo democratico, riunioni che facevano parte di un più ampio lavoro di elaborazione intensificatosi in Cattolica con il radiomessaggio del ’42. Ne veniva un contributo importante, che sarebbe poi confluito in Assemblea Costituente. La «riserva di governo», tante volte individuata dal fascismo, veniva ora alla luce e si guadagnava, attraverso la libera competizione elettorale, i primi posti nella politica nazionale. Pur non mancando nella prospettiva gemelliana cedimenti al clima dell’epoca, il rettore era riuscito ad apprestare quella che identificava come l’«anima cristiana» dello Stato democratico, vale a dire i giovani cresciuti alla sua scuola, che hanno pesato nella fondazione della democrazia italiana. L’Università Cattolica, che già aveva fornito giovani all’insegnamento e alle libere professioni, vide infatti molti docenti e laureati entrare nelle istituzioni nazionali, nella pubblica amministrazione, negli enti locali e nei punti nevralgici per la ricostruzione del Paese, contribuendo alla rinascita del dibattito politico, alla ripresa economica e alla riedificazione del libero sindacalismo.

Con la scomparsa di padre Gemelli, la Cattolica andò incontro a un periodo difficile, che si doveva anche al profilo giuridico-statutario dell’ateneo e al rapporto con l’Istituto Toniolo, complicato dalla mancanza di relazioni formalizzate con l’episcopato italiano. La Cattolica degli anni Sessanta era un ateneo in espansione, caratterizzato dall’incremento di studenti e docenti e dall’apertura di sedi non milanesi e del Policlinico di Roma. Tra il ’47 e il ’61 prendevano avvio le Facoltà di Economia e commercio, di Agraria a Piacenza e di Medicina e chirurgia a Roma. Nel ’65 era aperta nella sede di Brescia una sezione di Magistero e, nel ’71, la Facoltà di Scienze matematiche, fisiche e naturali. L’Istituto superiore di educazione fisica era attivo dal ’64. La stagione conciliare intensificava però il dibattito sul significato di un ateneo confessionale, poi potenziato dalla contestazione studentesca, di cui la Cattolica è stata luogo di progettazione sin dai primi anni Sessanta e che ha preso avvio nel ’67, per continuare anche dopo il ’70. Il lungo Sessantotto dell’ateneo cattolico non è riducibile solo ad esplosione di malcontento giovanile, innestata dalle richieste degli organismi rappresentativi studenteschi. In esso si scorgono punti sorgivi profondi, collegati non solo alla massificazione degli atenei, ma a tensioni ideologiche da tempo interiorizzate sotto l’egida del Sacro Cuore. Influivano il disorientamento del mondo cattolico nella temperie post-conciliare e le tensioni del quadro politico. Durante il rettorato di Giuseppe Lazzati (1968-1983), che succedeva a Francesco Vito (1959-1965) e ad Ezio Franceschini (1965-1968), lo sviluppo della Cattolica, che pure trovava un rapporto più diretto con la CEI, era frenato dal forte calo delle offerte della giornata universitaria e dalla diffusione, al suo interno, del dissenso cattolico. Altri esortavano l’ateneo a rinascere come luogo di Chiesa. Proprio in Cattolica si ricomponevano le fila della Gioventù Studentesca di don Luigi Giussani, che dava vita ai primi gruppi di Comunione e Liberazione.piazza4

Lazzati puntava a dare nuovo impulso all’ateneo, attraverso la creazione di centri di cultura in diverse città. I corsi di aggiornamento dovevano servire a riflettere sulle trasformazioni in atto, per declinare le ricerche scientifiche in proposte culturali utili alla collettività. La gestione di Lazzati, nondimeno, non era apprezzata da tutti i soggetti accademici ed ecclesiali. Il comportamento da lui tenuto verso gli episodi più gravi della contestazione, la tendenza a rafforzare le responsabilità dei vertici accademici e lo spazio che iniziative culturali da lui promosse lasciavano alla sinistra cattolica destavano preoccupazioni negli ambienti ecclesiastici romani e milanesi. Tali perplessità erano condivise da un gruppo di professori fra i quali vi era Pietro Zerbi, vicino al cardinale di Milano Giovanni Colombo e al sostituto alla Segreteria di Stato Giovanni Benelli. Proprio da questo gruppo emerse una linea alternativa alla conduzione di Lazzati, che si espresse in più occasioni, sino alla nomina di Adriano Bausola, divenuto rettore nel 1983 con il sostegno delle autorità vaticane.

Fonti e Bibl. essenziale

M. Bocci, Oltre lo Stato liberale. Ipotesi su politica e società nel dibattito cattolico tra fascismo e democrazia, Bulzoni, Roma 1999; Id., Agostino Gemelli rettore e francescano. Chiesa, regime, democrazia, Morcelliana, Brescia, 2003; Id., Alle origini della sede di Brescia dell’Università Cattolica del Sacro Cuore. Dalle carte dell’Archivio storico dell’Ateneo, «Bollettino dell’Archivio per la storia del movimento sociale cattolico in Italia», XLI (2006), 2, 246-299; Id., Un problema di identità? Alle origini della contestazione studentesca all’Università Cattolica, in M. Invernizzi – P. Martinucci (edd.), Dal «centrismo» al Sessantotto, Ares, Milano 2007, 143-228; Id., Uomini e istituzioni alle origini della sede di Piacenza dell’Università Cattolica, «Bollettino dell’Archivio per la storia del movimento sociale cattolico in Italia», XLIII (2008), 2, 162-209; Id., Francescanesimo e medievalismo: padre Agostino Gemelli, in T. Caliò – R. Rusconi (edd.), San Francesco d’Italia. Santità e identità nazionale, Viella, Roma 2011, 207-255; Id., L’Università Cattolica per l’Italia, in A. Melloni (ed.), Cristiani d’Italia. Chiesa, Stato e società 1861-2011, Treccani Istituto della Enciclopedia italiana, Roma 2011, 1327-1342; Id., Gemelli e la promozione del sapere scientifico negli anni di Pio XI. La Facoltà di Medicina, in «Annali di storia dell’educazione e delle istituzioni scolastiche», 19/2012, 175-201; Id., L’Università Cattolica e le sue sedi, in corso di stampa negli atti del convegno «La geografia universitaria nell’Italia repubblicana: nuove università e nuove facoltà», Trento, 12-14 dicembre 2012 [Il Mulino, Bologna]; A. Carera (ed.), Giuseppe Toniolo. L’uomo come fine. Con saggi sulla storia dell’Istituto Giuseppe Toniolo di studi superiori, Vita e Pensiero,Milano 2014; M. Ferrari – P. Zerbi (edd.), Per Ezio Franceschini nel centenario della nascita. Ricordi, lettere, profilo, Vita e Pensiero, Milano 2006; M. Malpensa – A. Parola, Lazzati. Una sentinella nella notte (1909-1986), Il Mulino, Bologna 2005; L.F. Pizzolato (ed.), Fede e cultura in Giuseppe Lazzati, Vita e Pensiero, Milano 2007; N. Raponi, Toniolo e la preistoria dell’Università Cattolica, «Bollettino dell’Archivio per la storia del movimento sociale cattolico in Italia», XX (1985), 2, 48-282; Id., Università Cattolica, in Dizionario storico del movimento cattolico in Italia. 1860-1980, in F. Traniello – G. Campanini (edd.), vol. I/1, I fatti e le idee, Marietti, Torino 1981, 264-272; G. Rumi, Lombardia guelfa 1780-1980, Morcelliana, Brescia 1988; Id., Milano cattolica nell’Italia unita, NED, Milano 1983; L. Vaccaro (ed.), Mons. Carlo Colombo e l’Università Cattolica, Morcelliana, Brescia 2008; Storia dell’Università Cattolica del Sacro Cuore, Vita e Pensiero, Milano: vol. I, A. Cova (ed.), I discorsi di inizio anno da Agostino Gemelli a Adriano Bausola 1921/22-1997/98, 2007; vol. II, M. Bocci, L’Università Cattolica nelle carte degli archivi, 2008; vol. IV, A. Carera (ed.), Per una comunità educante. La formazione a la didattica, 2010; vol. V, M. Bocci – L. Ornaghi (edd.), I patrimoni dell’Università Cattolica, 2013;vol. VI, M. Bocci (ed.), Agostino Gemelli e il suo tempo, 2009; L’Università Cattolica a 75 anni dalla fondazione. Riflessioni sul passato e prospettive per il futuro. Atti del 65° corso di aggiornamento culturale dell’Università Cattolica, Milano, 30 gennaio – 1° febbraio 1997, Vita e Pensiero, Milano 1998; vol. VII, D. Bardelli, «Vita e Pensiero» 1914-1921. Una rivista cattolica d’avanguardia alle origini dell’Università Cattolica, 2017.

Sitografia: http://progetti.unicatt.it/progetti-ateneo-storico-home (Archivio generale per la storia dell’Università Cattolica).

Immagini: (gentilmente concesse dall’Archivio generale per la storia dell’Università Cattolica del Sacro Cuore, Sezione fotografica)

1) Padre Agostino Gemelli nel laboratorio di Psicofisiologia applicata da lui istituito presso il Comando supremo dell’esercito italiano (1915).

2) L’Aula Magna durante un’adunanza dell’Associazione degli Amici dell’Università Cattolica (anni Trenta).

3) Il chiostro Benedetto XV dell’Università Cattolica, Milano.

4) Benedizione della statua di Cristo Re sulla facciata dell’Università Cattolica, alla presenza del cardinale Alfredo Ildefonso Schuster (1930).


LEMMARIO