Associazione Italiana dei Professori di Storia della Chiesa

Dizionario Storico Tematico La Chiesa in Italia
Dopo l'Unità Nazionale
Roma 2015
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Laicità, Laicismo - vol. II


Autore: Antonio Trampus

Con questi termini si indicano generalmente vari atteggiamenti riconducibili all’emancipazione della sfera pubblica e culturale dalla religione positiva. Si tratta tuttavia di due concetti sostanzialmente diversi sia per origine sia per significati. Laicità è, più propriamente, la condizione del laico e con questo significato è attestata nella lingua italiana a partire dal 1869 e affonda le sue radici nella differenza, tipica del giudaismo e della Chiesa cristiana, fra chierici e laici. Si tratta di una distinzione sancita dal IV secolo in poi, che ha riservato il termine laico e la condizione di laicità al battezzato che non è chierico, perché non ha ricevuto gli ordini, e non è nemmeno religioso (perché non ha professato voti) come confermato anche dalla Costituzione conciliare Lumen gentium (1964, n. 31). Solo nel corso del XX secolo l’espressione laicità venne assumendo un carattere di eufemismo per indicare non solo il non battezzato ma anche l’anticlericale, in quanto ateo, marxista o liberale, e in questo senso compare negli scritti di Pio XII e nei suoi riferimenti alla “legittima sana laicità dello Stato”.

Laicismo è invece termine invalso a partire dal 1863 e documentato da Giosuè Carducci che, opponendolo alla chieresia, lo definì come un “atteggiamento ideologico di chi sostiene l’indipendenza del pensiero e dell’azione politica dei cittadini dall’autorità ecclesiastica”. Entrambi i concetti attingono alle correnti di pensiero che a partire dal XVII secolo approfondirono i processi di secolarizzazione affermando il primato della ragione sui misteri e la libera ricerca della verità. In seguito si nutrirono anche delle esperienze del giurisdizionalismo settecentesco e dei dibattiti che ribadivano la distinzione fra Chiesa docente e popolo discente e la separazione politica e giuridica fra la Chiesa e lo Stato nella loro reciproca autonomia. In questo senso, laicità e laicismo si contrappongono al clericalismo, cioè alla necessità che il clero avesse responsabilità politiche e istituzionali nella vita civile. L’idea di laicità e di conseguenza anche il laicismo presuppongono inoltre che anche la Chiesa, così come la società civile, consista essenzialmente in una associazione volontaria di uomini, secondo una concezione diffusa a partire dalla cultura puritana inglese del Seicento e poi confluita negli scritti di John Milton e di John Locke sulla libertà religiosa e sulla tolleranza. Il principio della separazione Chiesa e Stato o comunità politica laica e perciò della distinzione tra religione e politica era stato poi sviluppato particolarmente da Locke nella Epistola de tolerantia, divenuta un altro pilastro del pensiero laico e del laicismo, in cui si affermava che il potere politico non ha competenza in materia di fede e non deve dare giudizi sulla religione, così come la Chiesa con le sue leggi non deve occuparsi della vita e dei beni terreni ma solo della vita eterna attraverso il culto di Dio.

L’idea dell’autonomia della religione e della politica si ritrova sovente nella cultura dell’Illuminismo europeo e del pensiero liberale dell’Ottocento. In Italia una tappa importante di questo percorso è rappresentata dal saggio di Cosimo Amidei, La chiesa e la repubblica dentro i loro limiti (1767); successivamente lo sviluppo e la diffusione dell’idea di laicità e del laicismo si accompagnarono allo sviluppo delle vicende risorgimentali, allorché la politica di separazione fra Stato e Chiesa portò alla progressiva rinuncia allo strumento dei concordati, tipicamente settecentesco. L’aver posto la fine del governo temporale dei Papi come condizione necessaria per il compimento dell’unità nazionale determinò un deciso riorientamento della politica in senso laicista, riassunto nell’espressione utilizzata da Cavour nel primo discorso al parlamento dopo la proclamazione del Regno d’Italia, il 27 marzo 1861 (e ripresa da Charles de Montalembert, Ecclesia libera in libera patria, circa 1841) con la quale si prefigurava Roma quale futura capitale del Regno. L’affermazione cavouriana della libertà della Chiesa nello Stato e della libertà dello Stato dalla Chiesa diede avvio alla politica di ispirazione laicista condotta dalla Destra storica, che portò tra l’altro all’introduzione del matrimonio civile (1865) e alla liquidazione dell’asse ecclesiastico, fino alla legge delle Guarentigie (1871). In questo senso i concetti di laicità e del laicismo sono poi confluiti nella Costituzione della Repubblica italiana (1948) laddove i princìpi fondamentali delineano i caratteri dello Stato laico attraverso l’irrilevanza delle convinzioni religiose dei singoli (art. 3), l’indipendenza e la sovranità dello Stato e della Chiesa ciascuno nel rispettivo ordine (art. 7) e la pluralità delle confessioni religiose con eguale libertà (art. 8).

Fonti e Bibl. essenziale

A.C. Jemolo, Chiesa e Stato in Italia dall’unificazione a Giovanni XXIII, Einaudi, Torino 1965; M. Ferraboschi, Laici, in Enciclopedia del diritto, vol. XXIII, Giuffrè, Milano 1973, 273-283; V. Zanone, Laicismo, in N. Bobbio, N. Matteucci. G. Pasquino – edd. – Dizionario di politica, Tea-Utet, Torino 19902, 547-550; S. Pivato, Clericalismo e laicismo nella cultura popolare italiana, Milano 1990; F. Traniello, Clericalismo e laicismo nell’età contemporanea (1977), in Id., Città dell’uomo. Cattolici, partito e Stato nella storia d’Italia, Bologna 1990, 15-48; E. Tortarolo, Il laicismo, Laterza, Roma Bari 1998; P. Cavana, La questione del crocifisso in Italia (2007), www.olir.it/areetematiche/75/…/Cavana_questionedelcrocifisso. pdf.


LEMMARIO




Laico, Laicato - vol. II


Autore: Guido Formigoni

Al momento dell’unificazione italiana, l’esperienza ecclesiale era segnata dalla lunga stagione della “cristianità” istituzionale, che aveva progressivamente focalizzato e irrigidito la distinzione tra clero e laicato. Nella logica controriformista, la struttura clericale della Chiesa aveva trovato la sua conferma più alta nelle riflessioni bellarminiane. La reazione ottocentesca alla modernità consolidò anche in Italia una prospettiva in cui all’opposizione netta chiesa-società faceva riscontro una struttura dualistica nella Chiesa.

In tale orizzonte, la nascita di forme di organizzazioni cattoliche laicali impegnate a difendere i diritti della Chiesa nel nuovo spazio “secolare” e civile creato dalle delle libertà moderne, cominciava a porre in atto alcuni elementi di una potenziale tensione. Accettare la mobilitazione dei laici comportava ridurre le tradizionali distanze tra gerarchia e clero, da una parte, e popolo cristiano, dall’altra: la vera linea di frattura diveniva sempre più chiaramente quella tra la Chiesa tutta e i suoi avversari nel “mondo”. Si innescava così un processo di lungo periodo, che comportava il ripensamento dello stesso modo di vivere la configurazione istituzionale gerarchica e i rapporti interni al corpo ecclesiale. Il percorso non fu però privo di problemi. Pio IX stesso espresse in più occasioni la preoccupazione che i laici potessero «rovesciare in senso democratico la tradizionale struttura ecclesiastica» (cit. in G. Martina, L’atteggiamento della gerarchia davanti alle prime iniziative organizzate di apostolato dei laici alla metà dell’Ottocento in Italia, in Spiritualità e azione del laicato cattolico italiano, Padova 1969, p. 347). In seguito, la divisione tra i “pastori” e il “gregge” era più volte ripetuta, per esempio, negli scritti di Leone XIII. Anche autorevoli vescovi erano preoccupati per la crescita di influenza ecclesiale dei nuovi “cattolici di professione”, che animavano l’associazionismo del movimento cattolico. Alcuni vescovi (che avevano tra l’altro simpatie conciliatoriste e non amavano l’intransigentismo) parlavano tra loro con un certo sprezzo dei nuovi “vescovi in cilindro”, cioè appunto i dirigenti dell’Opera dei congressi.

Queste resistenze vennero però ben presto ridimensionate dal punto di vista pratico, in quanto la necessità di ricorrere alle nuove forme di socialità e di presenza pubblica dei laici si impose rapidamente. Ma la nuova stagione non fu certo accompagnata da un profondo ripensamento teologico. Si pensi al fatto che ancora negli anni ’30 del Novecento, il segretario di Stato card. Gasparri pubblicò un Catechismo cattolico in cui parlava dei laici come “sudditi” nella Chiesa, con trasparente analogia monarchica per la struttura ecclesiastica. E la stessa formula di papa Ratti che definiva l’Azione cattolica come “partecipazione dei laici all’apostolato gerarchico” fu criticata da qualche scuola teologica romana, in quanto eccessiva e incompatibile con le tradizionali distinzioni: tanto che lo stesso papa Pio XII derubricò in diversi interventi tale riconoscimento, usando l’espressione più neutra “collaborazione”.

In pratica, però, il percorso storico dell’associazionismo di azione cattolica (altrimenti detto del “movimento cattolico”) ebbe un ruolo cruciale nel fare sperimentare a una larga élite di laici cristiani una condizione ecclesiale di coinvolgimento e corresponsabilità. Attraverso questo itinerario, maturava una spiritualità laicale caratteristica, in quanto fortemente attiva e centrata sul coinvolgimento personale, quanto portata ad una netta identificazione con la Chiesa e con la Chiesa vissuta, parrocchiale e diocesana, e soprattutto universale (attorno alla crescente importanza della figura del papa). Tale identificazione portava necessariamente con sé una tendenza al protagonismo, che superava le categorie della passività tradizionale. Non contava molto che questa dinamica scontasse un atteggiamento per lo più esecutivo, come più volte riaffermato anche nella teologia del tempo. La cooperazione con il clero e i vescovi era ovvia, ma nella coscienza di una propria originale missione. Gli elementi di questa sintesi erano molto semplici, capaci di essere colti a livello popolare: formazione catechistica interiorizzata, devozione religiosa, vita sacramentale e in particolare eucaristica, senso della militanza personale e missionaria. I limiti maggiori di questo cammino sono forse da cercare in una scarsa valorizzazione delle dimensioni secolari della vita laicale: per lo più prevaleva un atteggiamento difensivo, per cui sembrava che nei campi della famiglia o della vita professionale e sociale, occorresse in primo luogo cautelarsi da pericoli di ordine morale, oppure dalla temuta concorrenza degli avversari ideologici o politici. Certo, non si trascurava la dimensione laicale della educazione, insistendo però soprattutto sugli aspetti passivi, in quanto mirati a compiere una “volontà di Dio” intesa in senso prevalentemente formale e il più delle volte individualistico. Tale prospettiva si traduceva nell’enfasi sui “doveri” imposti dal proprio stato di vita, conseguente a una visione immobilista e provvidenzialista delle differenziazioni sociali. Le virtù tradizionali, e in particolare la purezza venivano spesso intese come limitazione di molti legami secolari, per dedicarsi in modo stabile alla milizia apostolica.

Un altro filone di esperienze che permise ad alcune generazioni di esponenti del laicato cristiano di avviare un ripensamento su se stessi fu quello della “consacrazione nel mondo”: si trattava di una scelta vocazionale tipica di molte realtà associate nate a cavallo tra Ottocento e Novecento, e rilanciate in modo diffuso soprattutto dopo la prima guerra mondiale. Tali sodalizi di fedeli si distaccavano dalla tradizionale e canonica struttura religiosa, proprio per una ricerca della santità nelle condizioni secolari dell’esistenza, scegliendo generalmente di non condurre una vita comunitaria di impronta più o meno monastica. Sarà nel secondo dopoguerra che tale modello sarà riconosciuto nella formula canonica degli “istituti secolari”, maschili o femminili. La coscienza laicale dei membri di questi istituti fu più volte originalmente affermata.

Le stesse aggregazioni di impegno sociale e addirittura politico si prestarono del resto a un percorso parallelo di assunzione di responsabilità. L’aspetto democratico interno e la rilevanza sociale assunta da molti laici cristiani in queste iniziative, non potevano che avere qualche impatto anche nella realtà ecclesiale. Lo si vide con la crescente maturazione di un approccio alla sfera civile e politica di cristiani che non si ponevano più l’obiettivo di una “ricristianizzazione” formale ed esteriore della realtà. Ma piuttosto insistevano sulle opportunità di un’azione “aconfessionale” (Sturzo) o semplicemente democratica, da parte di cristiani, per modificare dall’interno le strutture civili. La riflessione maritainiana nel secondo dopoguerra, parallela all’assunzione di ruoli centrali di governo da parte di un “partito di ispirazione cristiana”, corroborò questa prospettiva. Non si trattava solo di valorizzare i frutti del proprio cristianesimo vissuto da laici: era l’origine di una sottolineatura della “laicità” come carattere proprio delle forme della presenza cristiana nel mondo. Le preoccupazioni gerarchiche non mancarono nemmeno verso queste riflessioni: si ricordino le polemiche dei primi anni ’50, in cui il partito della Democrazia cristiana veniva accusato da molti cattolici di tradire l’obiettivo di una ri-cristianizzazione della società; nel 1960 la Cei approvava una dura lettera pastorale contro il “laicismo”, ritenuto uno dei maggiori errori del tempo moderno, prendendo di mira non solo gli attacchi esterni alla Chiesa, ma anche le infiltrazioni del laicismo tra i cattolici stessi.

Tra Ac e Istituti secolari prese comunque piede già nel pre-concilio una riflessione che insisteva soprattutto sul “sacerdozio comune” dei fedeli, anticipando alcune riflessioni della teologia del laicato di impronta francese. L’arrivo in Italia degli scritti di Yves Congar, negli anni ’50, corroborò questa riflessione, che trovò alcuni ambienti particolarmente sensibili. Spicca a questo proposito l’itinerario personale di Giuseppe Lazzati, che divenne uno dei più significativi sostenitori di una “maturità” ecclesiale del laicato, interpretata soprattutto nell’articolata capacità di valorizzare gli aspetti cristiani della vocazione “secolare”, legata alla vita e all’attività del laico nel “mondo”. La riflessione conciliare diede slancio a una nuova stagione di crescita della coscienza laicale. Soprattutto LG 31, inseriva la tematica dell’”indole secolare” del laico e della vocazione a “cercare il Regno di Dio trattando le cose temporali e ordinandole secondo Dio”, nell’orizzonte della visione di Chiesa come “popolo di Dio”, prima che come società gerarchica. In questa direzione, Lazzati insisteva soprattutto sulla necessità che la coscienza laicale cristiana assumesse come propria specifica vocazione il percorso da compiere negli ambiti mondani, rifiutando una visione degli equilibri clero-laicato tutta interna a logiche ecclesiastiche.

Dopo il Vaticano II, venne ad esprimersi un filone che tese a interpretare in chiave rivendicativa e polemica la richiesta di maggior voce e di un più significativo ruolo del laicato nella Chiesa, parallelamente alla stagione “anti-istituzionale” vissuta dalla società italiana nei decenni ’60 e ’70. Ma forse più rilevante in termini quantitativi e qualitativi fu la ricerca di nuove forme di equilibrio tra i diversi stati di vita cristiani, vissute nelle Chiese locali. Si pensi alla stagione di sperimentazione, non facile, dei “consigli pastorali”, come ambiti di condivisione della responsabilità di guida delle comunità. Ma si pensi anche alla nuova stagione di protagonismo di movimenti ecclesiali, in cui la componente laicale era quasi sempre forte, anche se talvolta l’origine delle aggregazioni era stata legata al carisma di un fondatore ecclesiastico.

Tra anni ’70 e ’80 si sviluppò una fase di interessanti dibattiti teologici nella Chiesa italiana sulla questione del laico e del laicato. La visione “lazzatiana” fu ripresa con un tentativo di rifondazione e consolidamento (ad esempio con un importante corso di aggiornamento organizzato dall’Università cattolica nel 1977 a Verona). Una sua ricaduta era anche l’articolazione di un discorso sulla laicità dello Stato e delle istituzioni, che doveva avere un rilevante sviluppo anche nella coscienza civile di una parte dei cattolici italiani, confluendo fino al ripensamento della Corte costituzionale sui caratteri “laici” dello Stato democratico. Da parte di alcuni teologi, venne però una critica che identificava in quell’approccio una tendenza dualistica, o almeno un rischio di separazione tra esperienza della Chiesa ed esperienza secolare. Invece di insistere sulla coppia laicato-clero, si propose quindi di riflettere sui rapporti tra la comunità e i diversi ministeri (in linea con il ripensamento dello stesso Congar): la riflessione e la sperimentazione sui ministeri laicali rimase però piuttosto iniziale nella Chiesa italiana: a parte gli incerti passi avanti di alcuni ministeri legati all’ambito liturgico, si cominciò a parlare di un “ministero coniugale”, ma senza significativi sviluppi. Altri teologi insistettero piuttosto sulla necessità di ribadire le caratteristiche spirituali del laico come “cristiano”, diversificando piuttosto in termini formativi e spirituali un approccio specifico alle diverse vocazioni “laicali”. Lazzati replicò a questi approcci senza rigidità, ma esprimendo l’esigenza fondamentale di non appiattire la vocazione dei laici e il loro servizio non semplicemente ecclesiale, ma ispirato alla necessità di ordinare le cose del mondo secondo Dio.

Fonti e Bibl. essenziale

G. Ambrosio – G. Angelini, Laico e cristiano. La fede e le condizioni comuni del vivere, Genova 1987; G. Caracciolo, Spiritualità e laicato nel Vaticano II e nella teologia del tempo, Milano 2009; Laicità. Problemi e prospettive, Atti del 47° corso di aggiornamento culturale dell’Università Cattolica, Milano 1978.


LEMMARIO




Liberalismo - vol. II


Autore: Gennaro Cassiani

Il confronto tra Chiesa e liberalismo, nel corso del trentennio che seguì il compimento dell’unificazione nazionale, si rispecchia nella formula «Non expedit», che contrassegna la lunga stagione dell’astensionismo cattolico rispetto alla partecipazione alle elezioni legislative e, per estensione, alla vita politica italiana, sino ai primi del Novecento. La formula trovava le sue motivazioni nell’illegittimità che i pontefici, almeno sino a Pio X, attribuirono allo Stato italiano, responsabile della conquista di Roma e della spoliazione del potere temporale pontificio.

La stagione del «Non expedit» («Non expedit prohibitionem importat» – precisò il Sant’Uffizio, nel luglio del 1886) – coincise con la fase di incomunicabilità tra cultura liberale e cultura cattolica seguita a quella del conflitto, nel corso degli anni Sessanta dell’Ottocento.

Le premesse dell’astensionismo cattolico sono rintracciabili già in occasione delle prime elezioni del Regno d’Italia (1861), quando don Giacomo Margotti, direttore del quotidiano «L’Armonia», si rese fautore di un’energica campagna giornalistica, al titolo Né eletti né elettori. L’astensionismo di ispirazione intransigentista esprimeva rigetto tanto verso il liberalismo cavouriano quanto rispetto alle posizioni democratiche mazziniane e garibaldine, rivendicando al contempo l’intangibilità del potere temporale pontificio e le prerogative della Chiesa misconosciute dalle leggi Siccardi (1850).

La linea dell’astensionismo trovò la sua prima espressione ufficiale il 30 gennaio 1868, quando, replicando ai presuli piemontesi che chiedevano se fosse lecito per i credenti partecipare alle elezioni politiche, la Congregazione per gli affari ecclesiastici straordinari si pronunciò con la formula «Non expedit».

Il 9 novembre 1870, in coincidenza con le elezioni politiche del successivo 5 dicembre, la Sacra Penitenzieria si espresse nello stesso modo. Il 10 settembre 1874, il dicastero pontificio ribadì il «Non expedit» in una comunicazione ai presuli italiani. Pio IX, in più occasioni, tra il 1874 e il 1877, riaffermò il medesimo concetto.

Il pontificato di Leone XIII rappresentò il fondale di crescenti sentimenti anticlericali e, sull’altro versante, di atteggiamenti di rigida intransigenza cattolica. Sulla Questione romana, le posizioni delle parti restavano immutate. Dal punto di vista dei liberali, la legge delle Guarentigie (13 maggio 1871) aveva dato soluzione definitiva al problema. La prospettiva dei cattolici era invece ben altra: essi rivendicavano il ristabilimento del potere temporale, quale indispensabile garanzia del libero esercizio dell’autorità papale. Il «Non expedit» vaticano continuava, frattanto, a vegliare sul disimpegno politico dei cattolici, i quali trovavano i loro spazi di dibattito e di rappresentanza in organismi assembleari confluiti più tardi nell’Opera dei Congressi.

Solo con l’avvio del nuovo secolo, in seno all’opinione pubblica cattolica e allo stesso corpo ecclesiastico, si fece strada una disposizione favorevole a una graduale distensione dei rapporti tra la Santa Sede e il governo liberale, per parte sua desideroso di allargare le basi sociali dello Stato, specie nel Mezzogiorno.

Tra liberali e cattolici, malgrado le resistenze delle correnti radicali e massoniche fedeli al loro anticlericalismo identitario e quelle residuali dei cattolici più conservatori, prese avvio un processo di reciproco avvicinamento. Nel quadro di questa dinamica, favorita dall’allentamento del vincolo del «Non expedit», maturarono le prime intese elettorali tra liberali moderati e clerico-moderati. Al contempo, si fecero strada le istanze del movimento democratico-cristiano guidato da Romolo Murri che, marcando le distanze dalle strategie elettorali del clerico-moderatismo, aspirava a partecipare alla vita civile nazionale attraverso un partito autonomo. Si pensi al discorso di Sturzo, nel 1905, a Caltagirone, nel quale il sacerdote siciliano, compagno di cordata di Murri, tracciò con formule chiare il profilo di una formazione politica laica, aconfessionale, ispirata ai valori del cristianesimo, che accettasse l’unità del Paese rigettando le pregiudiziali temporalistiche. Un partito altresì fautore della larga autonomia degli enti locali (i comuni, le provincie, le regioni) in un Stato aperto alle esigenze del mondo del lavoro.

I tempi, però, non erano ancora maturi. Dinanzi alla conquista della maggioranza dei consensi nell’Opera dei Congressi da parte del gruppo democratico-cristiano, la reazione di Pio X fu severa. Il pontefice deliberò lo scioglimento dell’assemblea (1904). A seguire, mediante il decreto Lamentabili sane exitu (3 luglio 1907), condannò 65 posizioni moderniste. Infine, pronunciò la condanna del modernismo stesso affidata all’enciclica Pascendi (1907) e, nel 1910, impose al clero un giuramento antimodernista.

La Santa Sede guardava con apprensione anche al crescente ampliamento dei favori riscossi dal movimento socialista. Ma non erano solo i vertici della Chiesa a considerare siffatto fenomeno con sensibile preoccupazione. Non meno vigile e circospetta si mostrava infatti la classe dirigente liberale alla guida del Paese, pronta a considerare con favore un’alleanza elettorale con i cattolici in funzione anti-socialista. In questo contesto, segnato dalla crisi modernista e dall’avanzata dell’ala massimalista del movimento operaio di concerto all’esplosione anche Italia della questione sociale, maturarono, nel 1904, nel 1909 e nel 1913, i primi esperimenti di alleanza elettorale tra le forze liberali moderate, in maggioranza giolittiane, e quelle del già menzionato clerico-moderatismo, organizzato nell’Unione elettorale cattolica italiana succeduta all’Opera dei Congressi.

Nel 1904, nel quadro dell’avvio del processo di “conciliazione silenziosa” culminato un decennio più tardi con il Patto Gentiloni, i cattolici parteciparono alle elezioni politiche prestando sostegno ai candidati liberali moderati. Si trattò di una prima parziale frattura del «Non expedit», autorizzata dallo stesso Pio X, ispirata principalmente dal timore di un successo elettorale socialista dopo lo sciopero generale degli anarco-sindacalisti, i cosiddetti “cinque giorni di follia” che avevano scosso la borghesia italiana.

Persuaso che la maggioranza moderata del Paese avrebbe punito la frangia estrema dello schieramento socialista e interessato a favorire le alleanze tra clericali conservatori e liberali moderati allo scopo di disorganizzare il movimento cattolico, Giolitti, pur senza concedere nulla ai cattolici (e tanto meno, in seguito, riconoscerne il ruolo politico), stipulò un accordo in base al quale i clerico-moderati avrebbero favorito col loro voto i candidati liberali dichiaratisi pronti a negare il sostegno ai futuri provvedimenti legislativi in contrasto con gli interessi del clero. L’alleanza trovò la sua sintesi nella formula «Deputati cattolici no, cattolici deputati sì». E lo stesso Pio X si mostrò favorevole all’intesa, cogliendovi un argine al socialismo e un male minore rispetto prospettiva della nascita di una formazione cattolica-democratica.

Per la prima volta, nel 1904, entrarono alla Camera deputati cattolici (o meglio cattolici deputati). Vi accedettero a titolo personale, senza appartenere ad un raggruppamento politico. L’anno successivo, mediante l’enciclica Fermo proposito, Pio X, pur senza abrogare il «Non expedit», ne allentò ufficialmente le restrizioni. Il papa entrò nel merito della disciplina dell’azione dei cattolici: li indirizzò verso l’analisi dei problemi sociali e li dispensò dal categorico divieto di partecipazione alla vita politica della nazione, invitandoli a prepararsi mediante una buona organizzazione elettorale alla vita amministrativa dei comuni e dei consigli provinciali.

All’indomani dell’impresa coloniale in Libia, le difficoltà del governo con i socialisti riformisti di Turati spinsero Giolitti a ricercare una nuova intesa con i cattolici in vista della consultazione elettorale che, prevista per il novembre del 1913, con il nuovo sistema a suffragio universale maschile, sollevava problemi di natura politica del tutto nuovi. L’ingresso delle masse nella vita civile rompeva la vecchia prassi elettorale ristretta a gruppi ben identificabili: i rodati sistemi del clientelismo giolittiano non garantivano più la loro efficacia. La Chiesa, d’altra parte, si poneva il problema della partecipazione alle urne di ingenti masse cattoliche, specie delle plebi rurali del Mezzogiorno. Quell’elettorato andava indirizzato, aiutato a trovare quell’unità di intendimenti e di azione alla quale la Santa Sede teneva molto. Da questa convergenza di esigenze, trasse origine l’idea del Patto Gentiloni, dal nome del presidente dell’Unione elettorale cattolica italiana, conte Ottorino Gentiloni.

L’accordo siglato comprendeva sette punti programmatici che ogni candidato desideroso del voto dei cattolici doveva sottoscrivere. L’eptalogo includeva, tra l’altro, la difesa della libertà della scuola, dell’istruzione religiosa, dell’unità della famiglia (contro il divorzio), il riconoscimento giuridico delle organizzazioni economiche e sociali cattoliche, la riforma tributaria e giudiziaria.

Il Patto ebbe successo. Le elezioni politiche siglarono una schiacciante vittoria dei liberali, della quale trassero vantaggio soprattutto i canditati moderati e giolittiani, in larga misura eletti proprio grazie al voto cattolico.

Antonio Gramsci poté scrivere che, con il Patto Gentiloni, Giolitti aveva “cambiato spalla al suo fucile”, sostituendo all’alleanza con i socialisti quella con i cattolici. Altri osservarono che il Patto aveva rappresentato una sorta di “andata Canossa dei liberali”, costretti all’aiuto dei clericali. E se Giolitti replicò negando ogni suo diretto intervento nell’operazione elettorale ed escluse che fossero stati stretti accordi tra governo e Vaticano, i socialisti lo incalzarono invitandolo a svelare quali concessioni il governo avrebbe largito ai cattolici in contropartita al soccorso prestatogli. Lo statista piemontese non poteva e né intendeva concedere nulla. L’Italia giolittiana era ormai in crisi. Giolitti non riusciva più a fronteggiare le emergenze e la radicalizzazione della lotta politica, mentre, a sinistra, subiva le pressioni di un socialismo sempre più determinato e meno aperto a possibili combinazioni riformiste e, da destra, quella dell’opposizione conservatrice, che trovava alleati presso i nazionalisti.

Nel 1919, Benedetto XV abrogò definitivamente il «Non expedit», nei fatti, già da tempo estinto. Ciò consentì la nascita del Partito popolare italiano, un quindicennio prima vagheggiato da Sturzo come formazione autonoma, tutrice delle aspirazioni socio-politiche dei cattolici e non avvilita nella subalternità alle forze liberali.

L’avvento della formazione politica, mentre conferì alle masse cattoliche una propria fisionomia politica, siglò il definitivo congedo della tradizione dei blocchi clerico-moderati dei quali Giolitti si era avvantaggiato per sostenere la sua politica di riforme. Frattanto, la Questione romana rimaneva un nodo irrisolto: la conciliazione tra lo Stato liberale e la Santa Sede, compiuta sul piano civile e matura in seno alle coscienze, mancava ancora di un riconoscimento giuridico.

Nel 1919, a Parigi, nel corso della conferenza di pace al termine del primo conflitto mondiale, si ebbe un colloquio tra il diplomatico pontificio, segretario della Congregazione degli affari ecclesiastici, monsignor Bonaventura Cerretti e il presidente del consiglio italiano Orlando. L’opposizione a qualunque trattativa con la Chiesa da parte di Vittorio Emanuele III – sollecito a minacciare l’abdicazione qualora si fosse abbandonata la legge delle Guarentigie – decretò il naufragio dell’iniziativa.

Quanto non riuscì al ceto di governo dello Stato liberale prossimo al collasso, riuscirà invece al regime fascista di Benito Mussolini.

Dopo le prime trattative ufficiose tra il decano degli avvocati della Sacra Rota Francesco Pacelli e il giurista Domenico Barone, al quale successe lo stesso Mussolini spalleggiato dal ministro della giustizia Alfredo Rocco, tra il 1927 e il 1928, ebbero avvio i colloqui ufficiali. Questi ultimi, in più circostanze, furono in procinto di arrestarsi a causa delle pretese di parte fascista, ma l’intransigenza di Pio XI indusse Mussolini a delle concessioni. Al termine delle laboriose discussioni seguite alle istanze avanzate della Santa Sede (costituzione di un autentico Stato vaticano, compensi finanziari, concordato), l’11 febbraio 1929, si giunse alla firma dei Patti tra il cardinale Gasparri e Mussolini, nel palazzo Laterano. Gli accordi raggiunti segnavano l’epilogo della controversia risorgimentale: la tappa finale di un lungo e lento percorso di composizione della frattura tra Stato e Chiesa prodottasi con la nascita dell’Italia unita.

In base ai Patti, la città del Vaticano fu riconosciuta come Stato indipendente. Venne anche stipulato un concordato che riconosceva validità civile al matrimonio religioso; introduceva nella scuola l’insegnamento della religione cattolica; negava pieni diritti civili ai sacerdoti apostati o colpiti da censura. Furono inoltre aboliti l’exequatur ecclesiastico e il placet regio per la nomina dei vescovi. Prima di prendere possesso della loro sede, tuttavia, i vescovi dovevano prestare giuramento di fedeltà allo Stato.

Il suggello alla riconciliazione tra la Chiesa e la concezione liberale dei diritti umani avverrà mediante la dichiarazione del Concilio Vaticano II Dignitatis humanae (1965), sulla libertà religiosa. Ancor prima, Giovanni XXIII, nella Pacem in terris (1963), aveva enunciato in modo esplicito quegli inviolabili diritti quali imprescindibile riferimento del magistero della Chiesa.

Fonti e Bibl. essenziale

Oltre ai riferimenti che corredano il lemma Liberalismo inscritto nel I vol. del presente Dizionario, si segnalano con ulteriori richiami: F. Fonzi, I cattolici e la società italiana dopo l’Unità, Roma, 1953; G. Spadolini, L’opposizione cattolica da Porta Pia al ’98, Firenze, 1954; Id., Giolitti e i cattolici (1901-1914). Con documenti inediti¸ Firenze, 1960; F. Pacelli, Diario della Conciliazione. Con verbali e appendice di documenti, a cura di M. Maccarrone, Città del Vaticano, 1959; A. Gambasin, Il movimento sociale nell’Opera dei Congressi (1874-1904). Contributo per la storia del cattolicesimo sociale in Italia, Roma, 1958; P. Scoppola, Crisi modernista e rinnovamento cattolico in Italia, Bologna, 1961; A.C. Jemolo, Chiesa e Stato in Italia dalla unificazione a Giovanni XXIII, Torino, 1965; G. Verucci, I cattolici e il liberalismo. Dalle «amicizie cristiane» al modernismo. Ricerche e note critiche, Padova, Liviana, 1966; Id., Il movimento cattolico italiano. Dalla Restaurazione al primo dopoguerra, Messina-Firenze, 1977; G. De Rosa, Storia del movimento cattolico in Italia. Dalla Restaurazione all’età giolittiana, I, Bari, 1966; C. Marongiu Buonaiuti, Non expedit. Storia di una politica (1866-1919), Milano, 1971; T. Tomasi, L’idea laica nell’Italia contemporanea (1870-1970), Firenze, 1971; Chiesa e religiosità in Italia dopo l’Unità (1861-1878), Atti del quarto Convegno di Storia della Chiesa (La Mendola, 31 agosto – 5 settembre 1971), Milano, 1973, 4 voll.; C. Ghisalberti, Storia costituzionale d’Italia. 1848-1948, Bari, 1974; M. Di Lalla, Storia del liberalismo italiano. Dal Risorgimento al fascismo, Bologna, 1976; R. Romanelli, L’Italia liberale (1861-1900), Bologna, 1979; P. Bellu, I cattolici alle urne. Chiesa e partecipazione politica in Italia dall’Unità al Patto Gentiloni, Cagliari, 1977; D. Menozzi, La Chiesa cattolica e la secolarizzazione, Torino, 1993, pp. 72-106 (§ 2.- Cristianità e questione sociale. Da Pio IX a Leone XIII); Storia dell’Italia religiosa, III, L’età contemporanea, a cura di G. De Rosa, Roma-Bari, 1995; G. Sabbatucci – V. Vidotto, Storia d’Italia, III: Liberalismo e democrazia. 1887-1914, Roma Bari, 1995; C. M Fiorentino, Chiesa e Stato a Roma negli anni della destra storica, 1870-1876: il trasferimento della capitale e le soppressioni delle Corporazioni religiose, Roma, 1996; Id., La Questione romana intorno al 1870. Studi e documenti, Roma, 1997; G. Formigoni, L’Italia dei cattolici. Fede e nazione dal Risorgimento alla Repubblica, Bologna, 1998; F. Cammarano, Storia politica dell’Italia liberale, Roma-Bari, 1999; F. Jankowiak, La curie romaine de Pie IX à Pie X. Le gouvernement central de l’Église et la fin des États pontificaux (1846-1914), Roma, 2007; A. Monticone, Benedetto XV e il Non expedit, in Democrazia e coscienza religiosa nella storia del Novecento. Studi in onore di Francesco Malgeri, a cura di A. D’Angelo – P. Trionfini – R.P. Violi, Roma, 2010, 13-38; I cattolici che hanno fatto l’Italia. Religiosi e cattolici piemontesi di fronte all’Unità d’Italia, a cura di L. Scaraffia, Torino, 2011; S. Marotta, Il Non expedit, in Cristiani d’Italia. Chiese, società, Stato (1861-2011), a cura di A. Melloni, I, Roma, 2011, 215-235.


LEMMARIO




Libertà religiosa - vol. II


Autore: Silvia Scatena

Pochi anni prima dell’inizio del periodo considerato, nel solco dell’enciclica Mirari vos di Gregorio XVI, l’idea che la libertà di coscienza e di culto rappresentasse «un diritto proprio di ciascun uomo» – e che come tale dovesse essere proclamata e stabilita per legge «in ogni ben ordinata società – veniva annoverata dal Syllabus di Pio IX fra i «principali errori del nostro tempo». Respingendo l’idea che la chiesa potesse «venire a composizione col progresso, col liberalismo e con la moderna civiltà», il documento di Pio IX sollecitava di fatto una totale opposizione fra i principi cattolici ritenuti dogmaticamente irrinunciabili e i principi che stavano alla base del moderno costituzionalismo occidentale.

Con le encicliche Immortale Dei (1885) e Libertas praestantissimum (1888) di Leone XIII, il rifiuto opposto dalla Chiesa cattolica alle sfide della modernità politica non mancò di registrare alcune sfumature, soprattutto in direzione di una maggiore attenzione alla diversità dei contesti reali in cui il principio dei diritti esclusivi della verità – e della trasposizione di ques’ultimo nell’istituzione legale dell’unica religione di Stato – si doveva concretamente realizzare. Papa Pecci formulò in particolare esplicitamente la nota distinzione fra tesi ed ipotesi, cioè fra l’ideale eterno in cui si prevedeva che la validità esclusiva della religione cattolica fosse riconosciuta dallo Stato, se necessario con la coercizione, ed i contesti, religiosamente pluralistici, nei quali, in assenza di una maggioranza cattolica, i legislatori potevano tollerare l’esistenza e l’attività di altre confessioni in vista di un bene ulteriore o per evitare danni sociali maggiori: se solo i cattolici avevano un diritto autentico e inalienabile alla libertà religiosa, in talune circostanze gli stati potevano cioè garantire, in linea di ipotesi, i diritti civili religiosi, fermo restando il principio che l’errore come tale non poteva avere gli stessi diritti della verità.

Per un secolo gli interventi del magistero romano continuarono ad intonarsi sostanzialmente su questo registro, proponendo la restaurazione di un ordine tradizionale affatto idealizzato, in cui la società si conformasse in toto agli insegnamenti della Chiesa. Anche nel nuovo clima ecumenico che l’esperienza del secondo conflitto mondiale e della cooperazione intra-cristiana contribuì notevolmente ad alimentare, chi chiedeva di ripensare le coordinate con cui tutta la questione della tolleranza religiosa e dei rapporti Chiesa-Stato era stata tradizionalmente impostata dovette puntualmente scontrarsi con la permanente validità della teoria della potestas indirecta in temporalibus, perno di tutta una manualistica di diritto pubblico ecclesiastico su cui si erano formate generazioni di seminaristi e di studenti delle università pontificie. Ancora agli inizi del 1958, il padre Gagnebet, già segretario della Commissione degli studi dell’ordine domenicano e dal 1954 «ufficiale» del S. Uffizio, ultimava in particolare un elenco di quarantadue proposizioni erronee contenute nelle elaborazioni di alcuni autori cattolici – il filosofo francese Jacques Maritain, in primis, e il teologo statunitense John Courtney Murray – da anni impegnati in un ripensamento complessivo del problema della libertà religiosa: ridotte a ventuno da un’apposita commissione e tradotte in latino, esse costituirono la seconda parte di un documento di condanna stampato nel giugno 1958 di cui solo la morte di Pio XII sembra aver poi impedito la definitiva pubblicazione.

Fino alla fine degli anni ’50 del secolo scorso, la tradizione di studi riconducibile al filone dello ius publicum eclesiasticum fece dunque sentire tutto il suo peso nell’elaborazione degli schemi, concettuali ed operativi, con cui considerevoli settori del mondo cattolico italiano affrontano in particolare la questione dello statuto giuridico delle minoranze religiose; schemi che a loro volta a lungo si coniugano con la pesante eredità di una prassi amministrativo-giurisprudenziale segnatamente discriminatoria quale quella fascista, inaugurata dalle disposizioni sull’«esercizio dei culti ammessi» della legge del 24 giugno 1929, dalle norme di attuazione della stessa emanate con il regio decreto del 28 febbraio 1930 e da alcuni articoli del Testo unico di Pubblica Sicurezza del 1931. Sottoponendo le confessioni acattoliche ad un’imponente mole di controlli e di autorizzazioni, tale normativa aveva introdotto infatti delle pesanti limitazioni alla libertà delle confessioni acattoliche, in particolare dei protestanti, contribuendo ad accentuare una mentalità ed una prassi restrittiva reiteratamente incoraggiata dai vertici ecclesiastici, che a più riprese chiesero alle autorità di contenere la diffusione ed il proselitismo dei culti protestanti. Una prassi, questa, che di fatto sopravvisse al tornante della guerra, del passaggio dal fascismo alla repubblica e della successiva stagione costituente per riproporsi soprattutto nella prima metà del «decennio freddo».

Fra il 1943 e il 1945 molta di questa legislazione sui culti acattolici introdotta dopo gli Accordi lateranensi del 1929 era in realtà passata di fatto in desuetudine e negli articoli 8 e 19 la carta costituzionale aveva lasciate aperte molte possibilità sul terreno del riconoscimento dei diritti afferenti la sfera religiosa; secondo le note specificazioni di Giuseppe Dossetti in sede costituente, lo stesso secondo comma dell’articolo 7 sui rapporti fra Chiesa e Stato in Italia – quello che conteneva il riferimento ai Patti Lateranensi del 1929 – avrebbe dovuto prevedere sostanzialmente il vincolo per lo Stato a non disciplinare unilateralmente le materie comprese dai Patti, non già «costituzionalizzarne» tutti gli specifici contenuti.

La sottolineatura della natura strumentale di tale norma da parte di Dossetti, così come i richiami all’esemplarità dell’esperienza del costituzionalismo americano da parte di un altro autorevole giurista cattolico italiano, Costantino Mortati, relatore in sede costituente dei lavori della Commissione sui diritti pubblici soggettivi, non ebbero però corso allo schiudersi degli anni ’50: i mutamenti nel frattempo intervenuti nel panorama politico interno e nel più ampio scenario internazionale ebbero infatti una certa indiretta, ma puntuale ricaduta anche sulle soluzioni raggiunte in sede costituente nell’ambito della politica ecclesiastica. Col mutare degli scenari complessivi – il sostanziale accantonamento del patto sociale e politico che aveva retto la Resistenza e la redazione della Costituzione e quindi l’ingresso dell’Italia nel Patto Atlantico – e con il progressivo ingessarsi delle dinamiche interne e internazionali, anche la questione della libertà religiosa diventò cioè progressivamente una questione «congelata». Con la grande affermazione elettorale del partito cattolico nell’aprile 1948 si riaccese così in significativi ed autorevoli ambienti ecclesiastici italiani la speranza in una limitazione del valore e della portata di quelle istanze del dettato costituzionale non conformi alle aspettative di uno sviluppo in direzione confessionale della società italiana del dopoguerra. Il grande consenso cattolico sembrò infatti inaugurare una nuova fase, carica di possibilità per la realizzazione concreta di una forma statuale più vicina alla tradizionale tesi cattolica, e la pluralità delle aspettative che da più parti si erano accese in sede costituente dovette misurarsi con l’emergente individuazione in un’interpretazione estensiva dell’articolo 7 dell’asse centrale dell’intero sistema di relazioni Stato-Chiesa/e a cui subordinare la disciplina complessiva del fenomeno religioso.

Fu solo il difficile avvio dei lavori della Corte costituzionale nel 1956 a modificare significativamente i termini della questione della libertà religiosa in Italia e ad innescare un processo di «costituzionalizzazione» del diritto ecclesiastico. Sebbene sintonizzato con le più generali trasformazioni in atto nella società italiana, il processo stentò tuttavia a trovare positivi segnali di ricezione a livello politico-parlamentare e non mancò di suscitare tensioni, che a loro volta ben evidenziavano la grande difficoltà di un raccordo tra una certa maturazione della coscienza civile in fatto di diritti di eguaglianza e di libertà e le coordinate con cui la S. Sede e l’episcopato italiano nel suo complesso affrontavano in quegli anni l’avvio di dinamiche nuove nella società. Di questo difficile raccordo fu esemplare espressione il «caso» del vescovo di Prato Pietro Fiordelli, rinviato a giudizio nell’ottobre 1957 a seguito della querela da parte di due coniugi da lui accusati di concubinaggio per la scelta di sposarsi civilmente, quindi condannato per diffamazione aggravata e poi assolto l’anno successivo con due successive sentenze che, nella loro contraddittorietà, vennero quasi a prefigurare equilibri nuovi fra Concordato e società civile. Oggetto dell’ultima mobilitazione cattolica di stampo geddiano, ma, ad un tempo, anche segnale del definitivo infrangersi del sogno pacelliano di fare dell’Italia il centro propulsore di una nuova civiltà cristiana, la vicenda di Fiordelli segna per molti versi un punto di «non ritorno» e coincide con l’emergenza di sensibilità e gruppi animati da un evidente desiderio di mutamento e di riflessione critica sull’interventismo delle gerarchie nella sfera pubblica, l’autonomia del laicato, la distinzione fra il piano dell’azione politica e religiosa, last but least sulla questione cruciale della libertà religiosa e dei diritti delle minoranze. La ravvicinata successione cronologica, per fare un esempio, della nascita del gruppo fiorentino che si raccoglie attorno alla rivista «Testimonianze» nel gennaio 1958, del gruppo di «Questitalia» del veneziano Wladimiro Dorigo, impegnato sin dall’inizio sulla questione del rapporto concordatario fra Stato e Chiesa, dell’uscita di Esperienze pastorali di don Milani, sempre nel 1958, rivela in questo senso ben più di una semplice coincidenza, testimoniando piuttosto la convergenza di inquietudini e istanze di rinnovamento di voci ed espressioni diverse, per natura e dislocazione, del cattolicesimo italiano di questo ultimo tornante degli anni ’50.

Lo scenario complessivo cominciò d’altra parte effettivamente a mutare soltanto con le nuove prospettive aperte dal pontificato giovanneo, dalla Pacem in terris e, soprattutto, dall’inattesa scelta di papa Roncalli di affidare al mezzo conciliare il suo programma di aggiornamento della Chiesa: una scelta che aprì allora anche gli spazi per un significativo «avanzamento» del magistero cattolico sul tema dei diritti universali dell’uomo e in particolare di quello alla libertà religiosa e che mutò quindi anche i termini della discussione italiana.

Direttamente sollecitato dai rappresentanti delle comunità separate, l’inserimento della questione della libertà religiosa nell’agenda del Segretariato per l’unità – l’organismo originariamente deputato al compito di aiutare i cristiani non cattolici a seguire lo svolgimento del Vaticano II – avviò in particolare un intenso dibattito che, pur con fatica, non mancò di aprire delle brecce anche in un episcopato, come quello italiano, che nell’insieme aveva profondamente introiettato le fondamentali coordinate teoriche ed ideali del diritto pubblico ecclesiastico; coordinate rispetto alle quali lo stesso partito cattolico, nella fase di reviviscenza concordataria degli anni ’50, era sembrato restare nell’insieme tributario, attingendovi schemi concettuali e criteri più immediatamente operativi. Un ulteriore elemento di ritardo rispetto a una sintonizzazione della Chiesa italiana con alcuni dei temi nuovi e più controversi messi sull’agenda del concilio era inoltre costituito da una certa sua sostanziale impermeabilità alle istanze del movimento ecumenico; questa «latitanza» fece sentire tutto il suo peso anche nei confronti dei nuovi fermenti di riflessione in materia di libertà religiosa, che in altri paesi avevano trovato il loro naturale luogo di innesto proprio negli ambienti ecumenici.

L’insufficiente «alfabetizzazione» ecumenica della grande maggioranza dell’episcopato italiano condizionò non poco i modi e i tempi con cui la Chiesa italiana al Vaticano II si lasciò nell’insieme interpellare da un tema e da un dibattito, come quello sulla libertà religiosa, che al concilio ebbe anche istituzionalmente un’evidente genesi ecumenica. Presentato per la prima volta ai padri conciliari nel novembre 1963 come V capitolo del testo sull’ecumenismo, lo schema sulla libertà religiosa venne per lo più freddamente accolto dall’episcopato italiano, generalmente accostato a quello spagnolo per l’atteggiamento diffidente nei confronti delle prospettive soggiacenti al testo del Segretariato per l’unità. Nel novembre 1963 a distinguersi fra le voci italiane fu in particolare quella dell’arcivescovo di Firenze, Ermenegildo Florit, che espresse in aula forti perplessità nei confronti di un testo che poneva a suo avviso il problema dell’esistenza o meno di un diritto alla diffusione dell’errore. L’anno successivo, a prendere le distanze dai toni fortemente critici di buona parte della componente italiana al Vaticano II nei confronti dello schema sulla libertà religiosa, furono soprattutto l’arcivescovo di Bologna, Giacomo Lercaro, intervenuto ad un convegno ad Assisi sul tema La Chiesa e la libertà organizzato dalla «Pro Civitate Christiana»; il teologo di fiducia di Paolo VI, Carlo Colombo, eletto vescovo nel 1964 e dal settembre di quell’anno direttamente coinvolto nelle vicende redazionali del De libertate; il professore dell’Università Lateranense Pietro Pavan, che contribuì in modo significativo ad avvicinare il testo del Segretariato al nodo costituzionale della questione, favorendo un ripensamento dei principi della limitazione dell’esercizio del diritto alla libertà religiosa ed una più chiara incompetenza dell’autorità civile in materia religiosa.

I loro interventi e contributi non erano senz’altro rappresentativi degli orientamenti più diffusi fra l’episcopato italiano, che anche nel dibattito dell’autunno 1964, pur con varietà di toni, si distinse soprattutto – penso in particolare agli interventi dei cardinali Ottaviani e Ruffini – per la riproposizione della bontà della soluzione concordataria e per la messa in guardia dalla trascuratezza della realtà dell’ordine oggettivo, norma suprema per la coscienza. Contestualmente però, fuori dall’aula conciliare, il dibattito che il Vaticano II innescò in materia di libertà religiosa cominciò d’altra parte ad interessare e a coinvolgere settori sempre più significativi del cattolicesimo italiano; le vicende conciliari dello schema sulla libertà religiosa stimolarono in particolare diversi gruppi e riviste ad avviare un ripensamento complessivo sull’idoneità del principio concordatario come strumento atto a regolare i rapporti fra società civile e società religiosa. Si trattò inizialmente di posizioni assai circoscritte e per lo più distanti dalla sensibilità della maggioranza dei vescovi italiani; di posizioni, però, che, dopo il solenne riconoscimento conciliare del diritto alla libertà religiosa inteso quale duplice immunità dalla costrizione e dalla restrizione in materia religiosa da parte dei pubblici poteri, acquistarono quindi nuova autorevolezza, spessore e diffusione.

Complessivamente, anche in materia di libertà religiosa, nonostante i flussi e i riflussi incontrati nella stagione postconciliare, il Vaticano II – e in particolare il lungo e complesso iter redazionale che ha portato all’approvazione della dichiarazione Dignitatis humanae sulla libertà religiosa – ebbe in altri termini un impatto profondo sulla chiesa italiana, veicolando un mutamento a volte incerto, ma inarrestabile, dello stesso modo di porsi dei cattolici, sia nei confronti del consorzio civile, sia nei confronti delle altre confessioni religiose.

Sarà questo lo sfondo complessivo nel quale andranno quindi collocati, nella seconda metà degli anni ’60, anche l’avvio del lungo processo di revisione concordataria, conclusosi con l’accordo di Villa Madama del 18 febbraio 1984 e la firma del nuovo Concordato fra Italia e S. Sede, e l’apertura della stagione delle «intese» con le altre confessioni non cattoliche, a cominciare da quella firmata con le chiese rappresentate dalla Tavola valdese del 21 febbraio 1984, che ha offerto il modello per gli accordi successivi con altre chiese e confessioni non cattoliche.

Fonti e Bibl. essenziale

G. Long, Alle origini del pluralismo confessionale. Il dibattito sulla libertà religiosa nell’età della Costituente, Bologna 1990; M. Velati, I “consilia et vota” dei vescovi italiani, in À la veille du Concile Vatican II, in À la Veille du Concile Vatican II. Vota et Réactions en Europe et dans le Catholicisme oriental, a cura di M. Lamberigts e Cl. Soetens, Leuven 1992, 83-97; V. De Marco, Le barricate invisibili. La chiesa in Italia tra politica e società (1945-1978), Lecce 1994; P. Chenaux, Paul VI et Maritain. Les rapports du “montinianisme” et du “maritainisme”, Brescia 1994; G. Dossetti, Il Vaticano II. Frammenti di una riflessione, a cura di F. Margiotta Broglio, Bologna 1996, 191-219; J.A. Komonchak, The silencing of John Courtney Murray, in Cristianesimo nella storia. Saggi in onore di Giuseppe Alberigo, a cura di A. Melloni, D. Menozzi, G. Ruggieri, M. Toschi, Bologna 1996, 657-702; J.-D. Durand, La “furia francese” vue da Rome: peurs, suspicions et rejets des années 1950, in Religions par delà les frontières, a cura di M. Lagrée e N.J. Chaline, Paris 1997, 15-35; É. Fouilloux, Une Église en quête de liberté. La pensée catholique française entre modernisme et Vatican II. 1914-1962, Paris 1998; G. Zagrebelsky, La magistratura ordinaria dalla Costituzione ad oggi, in Legge, Diritto, Giustizia (Storia d’ItaliaAnnali 14), a cura di L. Violante, L. Minervini, Torino 1998, 713-790; S. Scatena, Il mondo cattolico italiano e la questione della libertà religiosa nella prima metà degli anni ’50: il problema costituzionale, dottrinale e diplomatico, tesi di dottorato discussa nel marzo 2000 all’Università di Roma Tre, relatore P. Scoppola; S. Scatena, La fatica della libertà. L’elaborazione della dichiarazione «Dignitatis humanae» sulla libertà religiosa del Vaticano II, Bologna 2003; M. Madonna, Breve storia della libertà religiosa in Italia. Aspetti giuridici e problemi pratici, in Cristiani d’Italia. Chiese, società, stato, a cura di A. Melloni, Roma 2011, t. I, 721-731.


LEMMARIO




Liturgia - vol. II


Autore: Angelo Lameri

Il Movimento liturgico in Europa. Nel cammino della Chiesa in questo nostro mondo, la fine del XIX secolo è ricca di fermenti, di passione, di attenzione alle res novae. In questo contesto si inserisce anche un rinnovato interesse e una rinnovata attenzione alla liturgia celebrata e vissuta. Ci riferiamo a quel fenomeno universalmente noto come Movimento liturgico. Anche se è difficile indicare quando esso prese inizio, possiamo trovare i primi significativi passi nella Francia di fine ottocento e nella rinascita della vita benedettina promossa da Prosper Guéranger (1805-1875). Egli fu infatti il primo abate della riaperta abbazia di Solesmes, soppressa nel 1791. La spiritualità di Guéranger è fortemente radicata sul rapporto tra vita cristiana, vita monastica e vita benedettina. In questo contesto egli si rivolge alla liturgia come fonte di un’autentica spiritualità cristiana. La sua definizione di liturgia è infatti: «preghiera della Chiesa», come forma di preghiera eccellente e superiore ad ogni altra perché realizza l’unità delle anime con Dio e l’unità delle anime nella Chiesa. Gesù Cristo stesso infatti è l’oggetto della liturgia e l’anno liturgico è la manifestazione dei misteri di Cristo nella Chiesa e nell’anima del fedele. Egli espone queste sue riflessioni nelle due opere principali: Istitutions liturgiques (Paris 1840-1851) e soprattutto l’Année liturgique (Paris 1841-1866).

Ben presto la rinascita della vita benedettina e le idee del movimento liturgico si diffondono in Europa, in particolare in Germania e in Belgio. Qui, nell’abbazia di Mont-César a Lovanio, troviamo Lambert Beauduin (1873-1953). La vita liturgica nel monastero, unita alla meditazione dei misteri che era chiamato a insegnare, lo persuasero del grande valore pastorale della liturgia, vista come alimento della fede. Egli ebbe modo di esporre le sue idee nel 1909 al congresso di Malines dove sostenne che la maniera migliore per tenere uniti alla Chiesa «coloro che ancora vi entrano e per riportarvi quelli che l’hanno abbandonata», fosse quella di rendere ai fedeli l’intelligenza e quindi l’amore dei misteri che si celebrano all’altare. La sua opera più significativa fu La Piété de l’église (Paris 1914) nella quale definisce la liturgia «culto della Chiesa», del quale il soggetto unico e universale è il Cristo risuscitato che opera la salvezza. Il culto della Chiesa appare quindi principalmente come esercizio del sacerdozio di Cristo e diventa così storia della salvezza in atto.

In Germania, nell’abbazia di Maria Laach, troviamo Odo Casel (1886-1948). La sua riflessione, prendendo avvio dallo studio della celebrazione liturgica, costantemente chiamata “mistero” nel linguaggio dei Padri della Chiesa e in quello eucologico, arriva a definire la liturgia come «il mistero di Cristo e della Chiesa». Nella sua opera fondamentale Das christliche Kultmysterium [Il mistero del culto cristiano] (Regensburg 1932) egli sostiene che il mistero del culto è la realizzazione, sotto la modalità dei simboli e dei riti liturgici, del mistero di Cristo che continua nella Chiesa per santificarla lungo i secoli. A questo proposito egli parla di una presenza misterica di Cristo, di una ri-attualizzazione e di una ri-presentazione del mistero della salvezza nella liturgia. Le intuizioni di Casel sono fortemente innovative rispetto all’idea stessa di culto allora prevalente. Il culto per Casel non è infatti prima di tutto l’azione dell’uomo che cerca un contatto con Dio attraverso l’offerta della sua adorazione, è invece l’azione salvifica stessa di Dio, in modo che l’uomo, partecipe del mistero di Cristo reso presente nel rito, possa lodare e adorare Dio in “spirito e verità”.

Non possiamo infine non citare anche Romano Guardini (1885-1968), che nella collana lacense “Ecclesia orans” pubblica il volume Vom Geist der Liturgie [Lo spirito della liturgia] (Freiburg 1919). Per Guardini, che si avvicina alla riflessione sulla liturgia grazie al suo impegno nel campo della pastorale giovanile, la liturgia è l’ambito nel quale rifluiscono le ricchezze della verità rivelata e proprio per questo diventa riferimento imprescindibile della vita cristiana individuale e comunitaria.

Il Movimento liturgico in Italia. Diversi autori (Rousseau, Marsili, Falsini, Magrassi) concordano che in Italia il Movimento liturgico procedette con molta lentezza, anche se proprio in Italia possiamo trovare alcuni fatti che già nel XVIII secolo furono antesignani delle idee che il Movimento liturgico diffonderà. Possiamo riferirci a titolo esemplificativo alla controversia di Crema sulla necessità di distribuire la Comunione durante la Messa (1737-1742), al Sinodo di Pistoia (1786), agli studi del card. Giuseppe Tomasi di Lampedusa (1649-1713), di Ludovico Antonio Muratori (1652-1750) e, nel secolo successivo, ad Antonio Rosmini che, nella sua opera Delle cinque piaghe della santa Chiesa (Lugano 1848), individua con la «piaga della mano sinistra della santa Chiesa» la divisione del popolo dal Clero nel culto pubblico.

Tra le ragioni della minore efficacia di risultati del Movimento liturgico italiano rispetto a quello di altre nazioni, oltre al tradizionalismo spirituale e a una pietà devozionale, E. Cattaneo, individua l’assenza, nel movimento, dell’episcopato. Non mancarono comunque figure di vescovi che orientarono la loro attività pastorale verso un rinnovamento liturgico. Tra questi pastori possiamo citare mons. Filipello – vescovo di Ivrea – che nella sua lettera pastorale La liturgia parrocchiale, scritta per la Quaresima del 1914, mostra di aver maturato alcune intuizioni in merito al valore della liturgia. Essa è intesa come la strada privilegiata per l’educazione del popolo. Viene da lui messa in chiara luce la centralità della celebrazione eucaristica e l’importanza della partecipazione attiva.

Un altro vescovo a cui stava particolarmente a cuore il tema liturgico fu certamente mons. Geremia Bonomelli (1831-1914), vescovo di Cremona, che nel 1913 scrisse una lettera pastorale – La Chiesa – con la quale entrò direttamente nell’argomento liturgico. A Cremona egli promosse in mezzo al popolo il canto delle parti fisse della Messa e propose che se ne spiegassero le formule ai fedeli.

Una menzione particolare spetta poi al card. Ildefonso Schuster (1880-1954), non solo per la sua formazione benedettina e per la sua opera di studioso di liturgia, ma soprattutto per la sua attività come arcivescovo di Milano. Egli cercò di inserire nella vita pastorale, come mezzo essenziale di vita cristiana, la liturgia con tutto quello che comporta di sacramenti, di culto e di partecipazione: su questo punto fu in notevole anticipo sui tempi.

Rivista liturgica. Per molti studiosi del Movimento liturgico italiano il 1914 costituisce la data ufficiale del suo inizio con il nascere di Rivista liturgica, fondata dai monaci di Finalpia e sostenuta con competenza e rigore dal suo primo direttore dom Emanuele Caronti. Nell’editoriale del primo numero egli, delineando il programma della rivista, dichiara l’intento di far maturare anche in Italia quel movimento che era già diffuso in Francia e in Belgio. La sua insistenza è sulla realtà della liturgia come vita della Chiesa e sul carattere teologico-ecclesiale di essa e del Movimento liturgico che si intende iniziare. Il merito di Rivista liturgica, secondo S. Marsili, fu quello di aver concepito la liturgia non come una dottrina esoterica, ma di aver impostato il sorgere del Movimento liturgico con un carattere spiccatamente teologico che forse è stata anche una causa del ritardo che ha poi incontrato nel penetrare la massa, non solo del popolo, ma dello stesso clero e dei ceti anche qualificatamente intellettuali.

Movimento liturgico e pastorale liturgica. Espressione del rinnovamento liturgico in Italia non furono solo gli scritti e l’opera di vescovi o la benemerita attività di studio e di riflessione di Rivista liturgica. È necessario fare anche riferimento a quella miriade di iniziative e pubblicazioni che singoli, diocesi o associazioni hanno realizzato nelle varie parti della penisola. Sono particolarmente significativi tutti quei tentativi per favorire la partecipazione dei fedeli alla Messa. A Roma i Missionari del Sacro Cuore pubblicano Il foglietto della domenica, proprio con lo scopo di aiutare il popolo all’assistenza della Messa festiva; a Genova la congregazione mariana parrocchiale di San Giovanni di Prè pubblica nel 1915 Preghiere per la S. Messa, che parafrasano il testo della Messa adattandolo allo spirito dei giovani. Sempre a Genova un primo tentativo in questo senso fu realizzato da mons. Moglia che nel 1912 stampò a titolo personale un volantino per la partecipazione alla Messa. L’intuizione continuò anche durante la prima guerra mondiale dove il Moglia, cappellano militare, la sperimentò, con diffusione però molto irregolare, tra i soldati. Mons. Moglia nel 1930 fondò a Genova l’Apostolato Liturgico con lo scopo di allargare nei diversi settori il lavoro di formazione e di apostolato, dando sviluppo ad iniziative di più ampio respiro. Ben presto il centro dell’Apostolato Liturgico divenne ricco di attività. Tra queste va segnalato il primo Congresso Liturgico Nazionale che si tenne a Genova nel 1934. In mons. Moglia era viva la convinzione del valore della liturgia come partecipazione alla vita della Chiesa e come efficace mezzo di apostolato.

Sulla stessa direttiva di marcia procede poi il trevigiano don Francesco Tonolo, famoso per le sue iniziative liturgico-pastorali tra le quali segnaliamo “la crociata della Messa”, tesa a creare nella parrocchia un movimento intenso di partecipazione alla Messa quotidiana. L’obiettivo più profondo dell’iniziativa fu quello di fare in modo che il cristiano rendesse la Messa il centro della propria vita. Per realizzare questo suo intento il Tonolo era convinto che fosse necessario ridare il Messale nelle mani del popolo.

Tra le attività delle associazioni cattoliche segnaliamo in modo particolare quelle della Gioventù Femminile di Azione Cattolica, il cui consiglio superiore operò la scelta dell’educazione liturgica delle giovani.

L’Opera della Regalità. È sicuramente degna di menzione la meritoria opera di promozione e di apostolato liturgico dell’Opera della Regalità. L’Opera, fondata da P. Agostino Gemelli e approvata dalla Santa Sede nel 1928, annoverò ben presto tra le sue attività l’apostolato liturgico attraverso numerose iniziative e pubblicazioni. In modo particolare, oltre alle settimane liturgiche parrochiali, agli esercizi spirituali a carattere liturgico, ai convegni liturgico-pastorali che continuano ancora oggi, è da segnalare «La Santa Messa per il popolo italiano». Si tratta di una semplice pubblicazione settimanale, che a partire dal 1931 fino al 1945, ha accompagnato migliaia di fedeli nella loro partecipazione e comprensione della liturgia eucaristica, dei suoi testi, dei suoi gesti e riti.

Il Centro di Azione Liturgica. Un organismo benemerito nella promozione della liturgia in Italia è senz’altro costitutito dal Centro di Azione Liturgica, fondato nel 1947 a Parma nel contesto di un convegno liturgico svoltosi il mese precedente alla pubblicazione dell’enciclica Mediator Dei. Il suo primo presidente fu mons. Adriano Bernareggi, vescovo di Bergamo, a cui seguirono mons. Carlo Rossi (Biella), mons. Carlo Maziana (Crema), mons. Mariano Magrassi (Bari), mons. Luca Brandolini (Sora-Aquino-Pontecorvo), mons. Felice Di Molfetta (Cerignola-Ascoli Satriano), mons. Alceste Catella (Casale Monferrato) e mons. Claudio Maniago (Castellaneta). Lo scopo del CAL, fin dal suo primo statuto del 1949, fu quello di dare incremento e aiuto al movimento liturgico in Italia in sintonia con le direttive della Santa Sede e della Conferenza Episcopale Italiana, che nel 1964 lo dichiarò proprio Institutum liturgicum a norma dell’articolo 44 della Costituzione liturgica conciliare. Tra le attività di cui il CAL si fece e si fa tuttora promotore segnaliamo i corsi di formazione per operatori liturgici, l’organizzazione della “Settimana liturgica nazionale”, la pubblicazione di sussidi di studio e di divulgazione, in modo particolare la rivista Liturgia, gli annuali corsi di formazione destinati ai seminaristi.

In sintesi. Non era nostra intenzione presentare uno sviluppo particolareggiato e organico del Movimento liturgico italiano, ma soltanto fornire alcuni dati, con un’attenzione privilegiata ai suoi primi passi. Dall’analisi svolta emerge un primo dato di fondo: il Movimento liturgico italiano non fu caratterizzato da grandi originalità di intuizioni e di riflessioni. D’altra parte tale era anche la situazione della teologia italiana a esso contemporanea. Tra i motivi di una simile situazione due pensiamo siano i più significativi. Innanzitutto il fatto che il Movimento liturgico in Italia nacque successivamente a quello di altri paesi europei e questo ha senz’altro condizionato i suoi indirizzi e i suoi sviluppi che, pur con le loro sottolineature, si sono mossi su percorsi già tracciati e sperimentati. Questo gli ha permesso però di assumere posizioni più equilibrate, lontane da ogni forma di romanticismo e di archeologismo. Il secondo motivo sta nel fatto che in Italia si privilegiò l’aspetto spiccatamente pastorale.

La produzione di quegli anni più che su grandi studi a carattere storico o teologico si diresse verso numerosissime pubblicazioni di propaganda e di divulgazione. Ci si preoccupò di una diffusione capillare anche per guadagnare al movimento il popolo, la parrocchia e il clero, che spesso, seppur persuaso in teoria delle ragioni del Movimento liturgico, nella pratica era portato a continuare secondo quello che si era sempre fatto. Convinzione di fondo degli artefici del Movimento liturgico in Italia era lo stretto legame tra liturgia e vita cristiana, per cui una rivalorizzazione e una rinascita dello spirito liturgico avrebbero favorito la ripresa di una vita cristiana più autentica contro i vari mali della società contemporanea. Suo merito indiscusso fu l’aver riaccostato il popolo alla liturgia e averne indirizzato la pietà e la devozione. Molto meno presente fu invece la preoccupazione di andare oltre, cioè di verificare le condizioni di celebrabilità della liturgia nel contesto culturale dell’epoca e la consapevolezza che la liturgia da sola non era in grado di far fronte al crescente processo di scristianizzazione.

Il Motu proprio si san Pio X «Tra le sollecitudini». È diffusa convinzione che, sul versante del magistero pontificio, il documento che nel secolo scorso ha iniziato a promuovere un autentico interesse per la liturgia e a dare nuovo impulso al Movimento liturgico fu il Motu proprio di Pio X Tra le sollecitudini (22 novembre 1903). Il paragrafo più citato è il n. 3: «Essendo infatti  nostro vivissimo desiderio che il vero spirito cristiano rifiorisca in tutti i modi e si mantenga nei fedeli tutti, è necessario provvedere prima di ogni altra cosa alla santità e alla dignità del tempio, dove appunto i fedeli si radunano per attingere tale spirito dalla sua prima e indispensabile fonte, che è la partecipazione attiva ai sacrosanti Misteri e alla preghiera pubblica e solenne della Chiesa».

In esso il papa fa propria l’idea dei primi autori del Movimento liturgico sottolineando il nesso tra la rinascita dello spirito cristiano e la liturgia, come sua «prima e indispensabile fonte»: si tratta di un’idea che verrà sempre più condivisa dal Movimento liturgico, anche se in quei tempi essa non fu sempre pienamente compresa. In questo documento inoltre per la prima volta compare ufficialmente l’espressione «partecipazione attiva», che tanto sviluppo avrà in seguito. Il documento in realtà aveva obiettivi più modesti nel campo della musica sacra: por fine agli abusi (presenza di musica teatrale) e avviare un’azione di riforma nel campo della musica sacra. Forse anche per questo motivo il passaggio del paragrafo sopra riportato non è stato immediatamente compreso e ripreso dai suoi contemporanei.

In ogni modo si possono cogliere i segni di un fermento nuovo che vede accresciuto l’interesse per la liturgia e per il suo valore in relazione alla vita cristiana, anche se ancora in assenza di una considerazione teologica della stessa. Il nuovo fermento trova le sue prime attuazioni proprio durante il pontificato di Pio X che, oltre all’attenzione al rinnovamento della musica sacra, promuove la comunione frequente (Motu proprio Sacra Tridentina Synodus, 1905), l’ammissione dei fanciulli alla comunione (Decreto Quam singulari, 1910) e avvia una riforma del Breviario (Costituzione apostolica Divino afflatu, 1911) e dell’anno liturgico (Motu proprio Abhinc duos annos, 1913).

L’enciclica «Mediator Dei». Bisogna giungere al 20 novembre 1947 per trovare una lettera enciclica interamente dedicata alla liturgia: la Mediator Dei di Pio XII. La preoccupazione del papa è duplice: una, di carattere pastorale, in relazione ai nuovi fermenti presenti e agli eccessi che inevitabilmente essi portarono con sé, l’altra tesa a portare il discorso sulla liturgia su un piano direttamente teologico. Proprio per questo egli rigetta come errate le concezioni della liturgia che la riducono al suo aspetto esteriore o alle leggi che la regolano. In positivo l’enciclica definisce la liturgia esercizio del sacerdozio di Cristo, sempre in atto nella successione dei tempi, e in modo più globale: «il culto pubblico che il nostro Redentore rende al Padre come Capo della Chiesa, (…) il culto che la società dei fedeli rende al suo Capo e, per mezzo di lui all’eterno Padre: [la liturgia] è, per dirla in breve, il culto integrale del Corpo mistico di Gesù Cristo, cioè del Capo e delle sue membra».

Di particolare rilevanza in questa definizione è il punto di partenza: il sacerdozio di Cristo, la sua mediazione sacerdotale, che egli ha esercitato nella pienezza dei tempi rendendo culto al Padre nel proclamare la sua grandezza e nel costituire il suo Regno di gloria. Cristo, con un atto di redenzione eterna, ha istituito la Chiesa rendendo in questo modo noi stessi degni di elevare la nostra lode al Padre. Il sacerdozio di Cristo quindi continua nella Chiesa, la cui liturgia non è altro che la continuazione del culto già prestato da Cristo durante la sua vita terrena, e precisamente nella duplice dimensione di glorificazione di Dio e di santificazione degli uomini.

Proprio questo secondo aspetto rimanda alla dimensione sacramentale della liturgia in quanto conseguenza della partecipazione dell’uomo ai misteri salvifici di Cristo attraverso i riti della Chiesa, perché «in ogni azione liturgica insieme con la Chiesa è presente il suo Divino Fondatore». È rilevante la conseguenza di queste affermazioni: la liturgia prima di essere azione della Chiesa tesa a onorare Dio, è l’azione di Cristo nella Chiesa. Vi è quindi una priorità della liturgia sulla Chiesa. La Chiesa, prima di essere soggetto attivo dell’azione liturgica, è destinataria della sua stessa azione, che non è separabile da quella di Cristo.

L’enciclica inoltre riserva grande spazio al tema della partecipazione attiva. Riprende l’espressione già utilizzata da Pio X e la precisa ulteriormente nel contesto della parte dedicata al culto eucaristico. In essa il papa dichiara che la partecipazione dei fedeli si colloca su tre livelli: esterna, interna e sacramentale. Il primo livello è costituito dal semplice essere presente all’azione sacra. Il secondo si ha quando alla partecipazione esterna si aggiungono le disposizioni interiori, la pia attenzione dell’animo e del cuore: in questo modo i fedeli si uniscono intimamente a Cristo e questa loro partecipazione (esterna + interna) diviene “attiva”:

Il Concilio Vaticano II. La Costituzione conciliare Sacrosanctum Concilium venne approvata a larghissima maggioranza dai padri conciliari (2147 placet – 4 non placet) e promulgata da papa Paolo VI il 4 dicembre 1963.

Possiamo per prima cosa constatare con immediata evidenza che l’approccio conciliare alla liturgia si discosta di molto dal tradizionale metodo dei manuali preconciliari che, dalla generale riflessione sulla natura del culto e sulle sue forme di attuazione (interno – esterno; pubblico – privato), giungevano a definire la liturgia come il culto pubblico e ufficiale che la Chiesa rende a Dio. SC 5-7 pone come punto di partenza della riflessione teologica sulla liturgia la volontà salvifica universale di Dio, che trova attuazione nella storia dell’uomo e compimento negli eventi pasquali del Cristo morto e risorto, dai quali è scaturito il mirabile sacramento della Chiesa. In questo contesto viene esplicitato il rapporto di continuità-discontinuità tra l’opera salvifica di Cristo e la sua attuazione nell’oggi della Chiesa: «Pertanto, come il Cristo fu inviato dal Padre, così anch’egli ha inviato gli apostoli, ripieni di Spirito Santo. Essi, predicando il Vangelo a tutti gli uomini, non dovevano limitarsi ad annunciare che il Figlio di Dio con la sua morte e risurrezione ci ha liberati dal potere di Satana e dalla morte e ci ha trasferiti nel regno del Padre, bensì dovevano anche attuare l’opera di salvezza che annunziavano, mediante il sacrificio e i sacramenti attorno ai quali gravita tutta la vita liturgica» (SC 6). La liturgia della Chiesa appare quindi come celebrazione della salvezza: il piano concepito da Dio fin dall’eternità si attua “storicamente” nell’AT e nel NT e si ri-attualizza “sacramentalmente” nelle azioni liturgiche della Chiesa fino al definitivo compimento escatologico nel secondo avvento di Cristo. Questa attuazione dell’opera della salvezza è resa possibile dal fatto che «Cristo è sempre presente nella sua Chiesa, e in modo speciale nelle azioni liturgiche» (SC 7).

Particolarmente significativo nel documento conciliare è la sottolineatura del rapporto tra liturgia e sacra Scrittura: «Nella celebrazione liturgica la sacra Scrittura ha una importanza estrema» (SC 24). Da questa affermazione conciliare è scaturita la riforma del lezionario con una più abbondante presenza della parola di Dio offerta alla meditazione del popolo di Dio, che anche al di fuori della liturgia ha progressivamente imparato a leggere la Bibbia e a maturare nella familiarità con essa.

La SC può essere a ragione considerata un chiaro segno anche dell’ecclesiologia conciliare. Da un lato essa è maturata con il fiorire della visione di Chiesa fatta propria dal Concilio, dall’altro la sua pubblicazione ha coinciso con il dibattito appassionato sulla domanda fondamentale che ha interpellato l’assemblea conciliare: “Chiesa, cosa dici di te stessa ?”. Le affermazioni dottrinali e le indicazioni della SC hanno costituito le primizie della dottrina emersa poi nella Lumen gentium. Fin dai suoi primi articoli la SC mostra la consapevolezza dell’impreteribilità del rapporto tra Chiesa e liturgia. (cf SC 2) Così, il n. 26 dall’affermazione che le azioni liturgiche non sono azioni private, ma celebrazioni della Chiesa, fa derivare la conseguenza: «Perciò appartengono all’intero corpo della Chiesa, lo manifestano e lo implicano».

Nella Costituzione conciliare e nella riflessione che ne è seguita si avverte la necessità di una rinnovata concezione di Chiesa da parte di tutti coloro che ne sono membri. In modo particolare la considerazione della concreta assemblea dei fedeli che si riunisce per la celebrazione, come luogo proprio del darsi dell’evento liturgico-sacramentale nella storia, ha favorito il concretizzarsi della nozione di Chiesa universale in quella di Chiesa locale, fatta di persone in reciproco contatto in un determinato tempo e luogo.

L’insistente richiamo alla partecipazione attiva come diritto e dovere del popolo cristiano (SC 14), unita alle intuizioni di natura teologica, ha costituito la chiave e la prospettiva per l’attuazione della riforma che ne è seguita. L’elemento più evidente è stato l’introduzione delle lingue parlate dal popolo, proprio per rendere più immediata la partecipazione e far sì che la liturgia si mostri quale essa è: celebrazione del Corpo di Cristo che è la Chiesa, il Capo unito alle sue membra. Il desiderio di santa Teresa di Gesù Bambino che manifestava la sua sofferenza perché non sapendo il latino non era in grado di comprendere quello che diceva quando pregava i Salmi, è stato esaudito! Naturalmente questo non è sufficiente, è necessario continuare l’impegno di riforma sul versante della catechesi liturgica, su quello dell’«arte del celebrare», della cura per i segni e i gesti che vi si compiono, dell’attenzione al canto e alla musica, della valorizzazione del silenzio e della interiorità.

La riforma liturgica in Italia. Non è possibile presentare qui in modo esaustivo il dispiegarsi dell’appicazione della riforma conciliare in Italia. Tra le possibili scelte, segnaliamo due percorsi.

Il primo prende come punto di riferimento gli orientamenti pastorali decennali della CEI, precisamente: Evangelizzazione e Sacramenti (1973), Comunione e comunità (1981), Evangelizzazione e testimonianza della carità (1990), Comunicare il Vangelo in un mondo che cambia (2001), Educare alla vita buona del Vangelo (2010). I citati orientamenti pastorali sono trasversalmente segnati dal tema dell’evangelizzazione all’interno del quale è possibile individuare pure un percorso di tipo liturgico. Si va infatti dall’individuazione di una chiara soggettività ministeriale, sviluppata nel tema dell’assemblea e dei ministeri; all’attenzione all’iniziazione cristiana, come esperienza ecclesiale di annuncio e di celebrazione; all’affermazione del primato della Parola e alla peculiarità della sua proclamazione nella celebrazione liturgica. Da segnalare infine l’emergere della “questione rituale”, attenta al soggetto della celebrazione e al linguaggio simbolico, che conduce anche ad occuparsi della comunicazione liturgica. Nel Direttorio Comunicazione e missione (2004) si afferma infatti che la liturgia è il “codice dei codici”, paradigma di ogni autentica comunicazione.

L’altro percorso è costituito dall’attenzione all’attività dell’Ufficio Liturgico Nazionale, costituito nel febbraio 1973. In questa sede pare utile segnalare come proprio negli anni della sua costituzione si sono poste le fondamenta di un lavoro che è proceduto per un quarantennio tra propositi mantenuti e questioni ancora aperte ed attuali.

Tra i primi possiamo annoverare una lunga serie di realizzazioni. Oltre al lavoro di traduzione e, in una seconda fase, di adattamento dei libri litrugici, è opportuno segnalare le due note pastorali dedicate rispettivamente a La progettazione di nuove chiese (1993) e a L’adeguamento delle chiese secondo al riforma liturgica (1996), il repertorio nazionale Canti per la liturgia (2009), la pubblicazione de La messa dei fanciulli (1976) seguita dalla nota dell’ULN (1977), l’istruzione Sulla comunione eucaristica (1989), l’edizione della Preghiera del mattino e della sera (1975), soprattutto per i laici. Un prezioso testo è inoltre costituito da Il rinnovamento liturgico in Italia (1983), pubblicato per il ventesimo anniversario di SC.

Vi sono questioni ancora aperte e sempre attuali non tanto perché non abbiano trovato adeguata soluzione, ma perché costituiscono temi che sempre accompagnano la vita della Chiesa. Tra questi sono da segnalare la formazione liturgica di clero e laici, che si presenta sempre in tutta la sua attualità e urgenza. Ad essa l’ULN ha cercato e cerca di essere presente con proposte a livello nazionale che possano essere di servzio per le diocesi. Pensiamo in modo particolare ai corsi stabili di formazione come il Coperlim o il corso on line per gli operatori liturgico musicali, pensiamo al più recente ProgettOmelia. La recente pubblicazione della seconda edizione italiana del Rito delle Esequie (2011) che ha visto una significativa opera di adattamento, sollecita a riprendere il tema della ministerialità laicale non solo in relazione ai riti esequiali, ma anche ad altri momenti del vissuto liturgico delle nostre comunità, pensiamo a questo proposito, oltre alla consolidata presenza dei ministri straordinari della Comunione eucaristica, ai ministri per le celebrazioni domenicali in attesa di presbitero. Sempre aperto a un sereno cammino di collaborazione reciproca è il tema del rapporto con altri organismi a carattere nazionale. In questi decenni la collaborazione si è attuata soprattutto attraverso le persone, membri di questi organismi, che hanno prestato con generosità e competenza la loro opera a servizio della liturgia in Italia.

Al lavoro di promozione della riforma liturgica in Italia, svolto in questi quarant’anni, si può applicare quello che a livello di Chiesa universale ha affermato recentemente papa Francesco: «Lo stesso Paolo VI, un anno prima della morte, diceva ai Cardinali riuniti in Concistoro: “È venuto il momento, ora, di lasciar cadere definitivamente i fermenti disgregatori, ugualmente perniciosi nell’un senso e nell’altro, e di applicare integralmente nei suoi giusti criteri ispiratori, la riforma da Noi approvata in applicazione ai voti del Concilio”. E oggi c’è ancora da lavorare in questa direzione, in particolare riscoprendo i motivi delle decisioni compiute con la riforma liturgica, superando letture infondate e superficiali, ricezioni parziali e prassi che la sfigurano. Non si tratta di ripensare la riforma rivedendone le scelte, quanto di conoscerne meglio le ragioni sottese, anche tramite la documentazione storica, come di interiorizzarne i principi ispiratori e di osservare la disciplina che la regola. Dopo questo magistero, dopo questo lungo cammino possiamo affermare con sicurezza e con autorità magisteriale che la riforma liturgica è irreversibile» (Discorso ai partecipanti alla 68ma Settimana Liturgica Nazionale, Roma 24 agosto 2017).

«Il lavoro della riforma liturgica è stato un servizio al popolo come rilettura del Vangelo a partire da una situazione storica concreta. Sì, ci sono linee di ermeneutica di continuità e di discontinuità, tuttavia una cosa è chiara: la dinamica di lettura del Vangelo attualizzata nell’oggi che è stata propria del Concilio è assolutamente irreversibile» (Intervista rilasciata a Civiltà Cattolica, 19.09.2013).

Fonti e Bibl. essenziale

Aa.Vv., Celebrare il mistero di Cristo.1. La celebrazione: introduzione alla liturgia cri­stiana, Edizioni Liturgiche, Roma 1993; L. Bonora, La liturgia agli albori del XX secolo. L’opera pastorale del beato A. G. Longhin, Vescovo di Treviso (1904-1936), CLV – Edizioni Liturgiche, Roma 2018; B. Botte, Il Movimento liturgico. Testimonianza e ricordi, Effatà, Cantalupa (To), 2009; C. Braga, La riforma liturgica di Pio XII. Documenti, Edizioni liturgiche, Roma 2003; F. Brovelli, (a cura), Ritorno alla liturgia. Saggi di studio sul Movimento liturgico, Edizioni Liturgiche, Roma 1989; F. Brovelli, Liturgia: temi e autori. Saggi di studio sul movimento liturgico, Edizioni liturgiche, Roma 1990; A. Bugnini, La riforma liturgica (1948-1975), Edizioni liturgiche, Roma 19972; E. Cattaneo, Il culto cristiano in occidente. Note storiche, Edizioni Liturgiche, Roma 1978; Congregazione per il Culto Divino (a cura), Costituzione liturgica «Sacrosanctum Concilium». Studi, Edizioni liturgiche, Roma1986; A. Favale, Abbozzo storico del movimento liturgico, in La costituzione sulla sacra liturgia, LDC, Torino 1967, p. 3-52; P. Jounel – R. Kaczynski – G. Pasqualetti, Liturgia opera divina e umana, Edizioni liturgiche, Roma 1982; A. Lameri, L’attività di promozione liturgica dell’opera della regalità (1931-1945). Contributo allo studio del Movimento Liturgico Italiano, Ed. OR, Milano 1992; A. Lameri, Dalla Sacrosanctum Concilium alla riforma liturgica. Lo sviluppo di un cammino, “Rassegna di Teologia”, 53(2012), n. 2, pp. 237-261; A. Lameri, La «Pontificia Commissio de sacra liturgia praeparatoria Concilii Vaticani II». Documenti, Testi, Verbali, CLV – Edizioni Liturgiche, Roma 2013; A. Lameri, Alla ricerca del fondamento teologico della partecipazione attiva. Il dibattito nella commissione liturgica preparatoria del Concilio Vaticano II, CLV – Edizioni Liturgiche, Roma 2016; M. Metzger, Storia della liturgia. Le grandi tappe, Edizioni San Paolo, Cinisello Balsamo 1996; G. Midili, La riforma liturgica nella diocesi di Roma. Studio in prospettiva storica e pastorale (1956-1975), CLV – Edizioni Liturgiche, Roma 2018; D. Moulinet, La liturgie catholioque au XXe siècle. Croire et participer, Beauchense, Paris 2017; B. Neunheuser, Storia della liturgia attraverso le epoche culturali, Edizioni Liturgiche, Roma 1983; O. Rousseau, Storia del movimento liturgico. Lineamenti storici dagli inizi del secolo XIX ad oggi, Paoline, Roma 1961; D. Sartore – A.M. Triacca – C. Cibien (a cura di), Liturgia, Edizioni San Paolo, Cinisello Balsamo 2001; F. Trolese (a cura), La liturgia nel XX secolo: un bilancio, EMP, Padova 2006.


LEMMARIO




Maria Santissima - vol. II


Autore: Luca Di Girolamo

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L’epoca in cui si viene a collocare il pontificato del beato Pio IX si segnala per i mutamenti in seno alla società italiana e a causa dei quali la Chiesa subisce dei forti contraccolpi dovuti a tutta una serie di provvedimenti limitativi (soppressioni, espropri, ecc.) posti in atto dal nascente stato italiano ormai incamminato verso una propria autonoma e laica fisionomia. Proprio il costituirsi di un’entità italiana – separata dalla Chiesa e non sempre pacificamente convivente con essa – provoca attriti e scontri, peraltro alimentati da una diffidenza che si tramuta, a volte, in accesa ostilità.

Da Pio IX all’inizio del secolo XX. Con il recupero del sentimento e del cuore sulla ragione critica si entra nel Romanticismo, epoca di restaurazione decisamente contrapposta alla precedente era dei lumi ed in particolare ai suoi eventi storici, primo fra tutti la Rivoluzione francese che tuttavia aveva ormai seminato gli ideali del trittico liberté-fraternité-egalité, consacrati dalla Dichiarazione dei diritti dell’uomo (1789). Nell’ambito del cattolicesimo si accentua la divisione tra cattolici liberali disponibili al dialogo col mondo e gli intransigenti che, invece, propendono per un ritorno al passato. La Chiesa ufficiale, in questo clima agitato, giungerà alla condanna della libertà in ogni sua forma (di pensiero, di culto e di stampa) con la Mirari vos di Gregorio XVI (1832) e, successivamente, con il Sillabo di Pio IX (1864). L’ansia restauratrice, nemica delle novità e tale da rappresentare anche sul piano della fede una sorta di archeologia, tende al recupero di un Medioevo che torna, da un lato, ad essere guida per l’impostazione teologica con l’utilizzo, ad esempio, del genere letterario della summa (Summa aurea de laudibus Beatæ Mariæ Virginis in 13 volumi di Jean Jacques Bourassé del 1862) e, per altro verso, alimenta l’attrazione per l’aspetto più fascinoso del mistero.

Sul piano più specifico delle devozioni abbiamo la ripresa di quanto l’Illuminismo aveva tacciato di ingenuità e superstizione: la devozione al SS. Cuore di Gesù, le processioni e i pellegrinaggi ai luoghi sacri dedicati a Maria. A ciò si aggiungono alcuni eventi di apparizioni che, pur collocandosi fuori dell’Italia, accompagnano l’evento ecclesiale, a carattere mariano, più importante del secolo: la proclamazione del dogma dell’Immacolata Concezione promulgato nel 1854 da Pio IX, dopo un lungo e non semplice coinvolgimento dell’intera Chiesa attraverso la valorizzazione del sensus fidelium. L’iter dogmatico è articolato e vi prendono parte figure della cultura del tempo, fra cui il grande filosofo il beato Antonio Rosmini (†1885), prodigo di suggerimenti e consigli tesi a conferire al dogma un solido impianto cristologico e trinitario. Sta di fatto che nei vari formulari liturgici promulgati dallo stesso papa si attua una forte concentrazione sullo splendore proprio di Maria, creatura al di sopra ogni altro essere umano, colmata di grazia e per questo singolare per santità. L’accoglienza del dogma è entusiastica e si riflette sul piano devozionale con l’unificazione de le trois blancheurs (secondo la definizione di Yves Congar): Eucaristia, Papa e Immacolata, che divengono la carta d’identità del cattolicesimo antecedente al Vaticano II contro il protestantesimo, il laicismo e la massoneria diffusi nella società del tempo avvalendosi di pubblicazioni specifiche (cf. S. M. Perrella, La venerazione a S. Maria. Storia, teologia e prassi, 422). L’insieme degli elementi legati alla proclamazione del 1854 costituisce il terreno dove sempre più matura la superesaltazione della Donna celeste in contrapposizione alla donna che, sulla terra, continua a vivere in un ruolo di subalternità.

A mitigare tale status e ad indicare nuovi sentieri sorgono altri fenomeni riguardanti l’affetto e la pietà mariana italiana del tempo: l’affermarsi di famiglie religiose di vita ed apostolato che pongono Maria quale ispiratrice di opere di carità (Oblati di Maria Immacolata, Salesiani, Figlie di Maria Ausiliatrice, Suore di Maria Bambina, Serve di Maria Riparatrici, ecc.). Una devozione quindi, sempre più inserita nel vissuto ecclesiale grazie proprio a questi nuovi consacrati nel nome di Maria (o di particolari titoli a lei legati come Immacolata, Rosario, Cuore di Maria) che dirigono la loro attenzione verso il povero e l’indigente: Maria diviene perciò la ‘carta vincente’ con la quale la Chiesa risponde al liberalismo e all’anticlericalismo imperanti non estranei al processo di unificazione dell’Italia.

L’incidenza di Maria nel vissuto del tempo presenta risvolti di carattere cultuale e devozionale molto rilevanti e non privi di certa incongruenza. Assistiamo al proliferare di ricorrenze mariane che rischiano di deformare il ciclo dell’anno liturgico. La S. Sede esorta in qualche modo ad una maggior sobrietà, ma gli eccessi di devozione continuano a presentarsi anche avallati da disposizioni e decreti papali, come quelli di Leone XIII che, in due riprese (1886 e 1889), prescrive in ogni luogo di culto dedicato a Maria (parrocchie, cappelle, oratori pubblici, ecc.) durante il mese di ottobre tutta una serie di preghiere (rosario, litanie lauretane, giaculatorie a S. Giuseppe), talvolta da recitare persino durante la S. Messa.

Inoltre, non meno importante prosegue la tradizione teatrale mariana con funzione pedagogica a favore del popolo di Dio. In tale ambito, Passionisti (XVIII sec.) e Salesiani (XIX sec.) si inseriscono in un terreno battuto in precedenza da Gesuiti, Somaschi, Oratoriani e Scolopi. I componimenti che vedono la luce nell’ambito teatrale non di rado commentano piamente testi scritturistici, ma ancor più si propongono di consolidare, attraverso vicende toccanti e sentimentali, l’amore verso la Vergine Santa: accanto ad un panorama di devozioni non sempre in armonia con la prassi liturgica (ma anch’essa sulla strada di un futura riforma) si diffondono forme letterarie e drammatiche finalizzate ad onorare la Madre del Signore e a coinvolgere l’uditorio. Già S. Paolo della Croce († 1775), precedentemente, preferisce la drammatizzazione alle processioni penitenziali in quanto la visione e l’ascolto suscitano maggior forza emotiva nei presenti inducendoli alla confessione dei peccati (cf. L. Di Girolamo, Teatro, 1194-95). Assume vigore anche la stampa mariana a carattere popolare, soprattutto quella legata ai santuari (Pompei dal 1884), il cui scopo può essere considerato triplice: l’incremento della devozione, il collegamento dei devoti con il santuario ed il sostegno economico per alcune iniziative caritative.

Epoca contemporanea. Il trapasso dal secolo XIX al XX mostra alcuni fenomeni importanti per la Chiesa italiana che hanno diversi legami con la devozione mariana. All’interno della società italiana agli aspetti positivi vengono ad affiancarsi quei segni preoccupanti che saranno alla base dei violenti effetti delle ideologie. Da un lato perciò si mantiene una devozione non distaccata dall’impegno caritativo a favore dei diseredati, anzi la pietà mariana non può essere giustificata senza un’adeguata prassi caritativa e, inversamente, la carità si rafforza laddove c’è il culto a Maria. Ciò emerge dal Congresso mariano di Livorno del 1895 e che vedremo poi attuata nella fondazione dell’UNITALSI (1903) ad opera di Giovanni Battista Tomassi († 1920), organizzazione finalizzata ai pellegrinaggi a Lourdes dei malati gravi e disabili e, in seguito, nell’azione religiosa legata al santuario di Pompei del beato Bartolo Longo († 1926), autore del pio esercizio della Novena alla Madonna dell’omonimo santuario composta nel 1889. Particolare importanza assume in quegli anni l’iniziativa di un vasto movimento per promuovere la consacrazione solenne dell’Italia al Cuore Immacolato di Maria, il cui culto pubblico è, tuttavia, anteriore risalendo alla metà del secolo XVII, favorito da numerose confraternite. C’è da osservare che, pur nella serietà degli impegni portati avanti in questo periodo, la Chiesa italiana si trova a fare i conti con un ateismo ed un anticlericalismo piuttosto rilevanti, oltre al fenomeno del modernismo che, tuttavia, non è soltanto di area italiana. Ateismo ed anticlericalismo convergono nel fenomeno inquietante rappresentato dalla Massoneria che propone un nuovo ordine del mondo ed un’escatologia pagana del tutto orizzontale, debitrice e in stretto contatto con le dottrine scientiste e positiviste tipiche dell’humus culturale che segna il passaggio tra i due secoli. Appare chiaro che la Massoneria, prescindendo dalla Rivelazione e ponendo al centro l’uomo nella sua naturalità lo allontana inesorabilmente da Dio e dai mezzi sacramentali di salvezza, finendo addirittura con il parlare, ad esempio, di una Cena Rituale in sostituzione dell’Eucaristia. Una deformazione analoga sarà attuata successivamente dal Modernismo che ridurrà la Rivelazione ed il suo carattere veritativo a prodotti dell’inconscio.

In tale atmosfera di smarrimento, ecco che la Vergine Santa torna ad essere guida per il popolo cristiano e, ancora sull’onda del revival medievale tipico del Romanticismo, vengono riprese la figura ed il titolo di Maria vittoriosa sulle eresie. Ad operare tale scelta è S. Massimiliano M. Kolbe (†1941), formatosi teologicamente in Italia e fondatore a Roma della Milizia dell’Immacolata in un anno particolare, il 1917, in cui si svolgono le celebrazioni romane in onore di Giordano Bruno, vittima, secondo i laicisti, del potere clericale oppressivo verso il libero pensiero. Questa manifestazione, attuatasi con gran concorso di popolo con bandiere e vessilli anticristiani, scuote profondamente l’animo del francescano polacco che vede nel movimento massonico la testa del serpente che Maria schiaccerà secondo il dettato di Gen 3,15. Tutta la vita di Kolbe fa della devozione all’Immacolata lo scudo per tenersi lontano da questa filosofia aberrante nella certezza che Maria, madre universale, ama coloro che restano prigionieri del peccato e vuole salvarli. Nata in Italia, in seno all’Ordine Francescano, la Milizia si diffonderà rapidamente fino a toccare alcuni paesi dell’estremo Oriente (Giappone).

La vicenda di Kolbe ci dà anche modo di toccare con mano uno degli elementi più caratterizzanti del secolo XX, quello delle guerre mondiali e delle persecuzioni alimentate da aberranti ideologie diversificate nei vari paesi europei che si vengono a consolidare dopo il I conflitto mondiale (1914-18). Ma è soprattutto la II Guerra mondiale, terminata nel 1945, a rendere l’Europa una rovina e l’Italia stessa deve curarsi le profonde ferite inferte dalle crudeli ostilità. Legata alle vicende della capitale durante la II Guerra mondiale è anche la forte devozione dei romani alla Madonna del Divino Amore alla quale i cittadini fanno voto solenne il 4 giugno 1944 nella Chiesa di S. Ignazio, seguito una settimana dopo da una visita di ringraziamento di Pio XII (1939-1958) per la salvezza della città e con enorme concorso di folla. Particolare importanza assume per questo santuario la figura del Servo di Dio Don Umberto Terenzi (1900-1974) che ha svolto qui, dal 1930, il suo apostolato e ufficio di rettore con grande attenzione al contesto socio-ambientale dominato dal degrado.

Da questo legame forte tra dimensione civile e sfera religiosa si comprende come l’opera di graduale ricostruzione e ricomposizione di un assetto politico avviene sotto il segno di Maria attraverso la pratica della peregrinatio Mariæ. Essa, originatasi nel Medioevo, viene ripresa in Francia nel pieno conflitto (1943) per poi caricarsi di forte valenza politica all’indomani delle elezioni italiane del 1948 (vinte dalla Democrazia Cristiana) e si costituisce come fenomeno che interessa tutte le diocesi italiane. Della fine degli anni ’40, inoltre, è da registrare anche un evento destinato a far discutere e verificatosi a Roma, tale da indurre ad un incremento della devozione mariana nella città, ossia l’apparizione della Vergine alle Tre Fontane (1947) a Bruno Cornacchiola, un protestante assai ostile al cattolicesimo, e ai suoi figli: un’apparizione in cui la Vergine – autoproclamatasi Vergine della Rivelazione – esorta alla conversione e alla preghiera per l’unità dei cristiani. L’evento provoca la decisa e risoluta conversione del Cornacchiola e il suo incontro con Pio XII (1949), e sul luogo dei fenomeni viene eretto un santuario. Tale apparizione, tuttavia, non è stata ancora riconosciuta dalla Chiesa ufficiale.

La distruzione apportata all’Europa dal conflitto terminato nel 1945 non è solo materiale, ma va a toccare anche la dimensione socio-culturale per cui si impone una seria riflessione favorita da tutta una serie di correnti filosofiche che, lungi dallo scadere nel naturalismo positivista, vogliono riabilitare l’uomo nella sua dimensione conoscitiva e relazionale (fenomenologia, esistenzialismo e personalismo), talvolta con accenti spiritualisti. Tali nuovi fermenti di pensiero utili a collegare il dato rivelato e trascendente alla vita umana concreta con tutto il suo carico di problemi trovano la loro esplicitazione nei due eventi ecclesiali più importanti del secolo XX: la proclamazione del dogma dell’Assunzione (1950) e il Concilio Vaticano II (1962-65). Fra questi due eventi si collocano: la nascita della Pontificia Facoltà Teologica «Marianum» (30 novembre 1950) affidata all’Ordine dei Servi di Maria che, pur collocandosi in Italia, è finalizzata allo studio scientifico della mariologia, l’indizione dell’anno mariano (1954: centenario della definizione dell’Immacolata) durante il quale Pio XII istituisce, con l’enciclica Ad cœli Reginam del 11 ottobre, la festa di Maria Regina dell’Universo da celebrarsi il 31 maggio e, due mesi dopo, l’incoronazione fatta dallo stesso papa, del quadro “Salus populi romani” venerato a S. Maria Maggiore. Nello stesso anno si celebra un Congresso mariologico internazionale a Roma. Successivamente, abbiamo la tanto richiesta e desiderata Consacrazione dell’Italia al Cuore Immacolato di Maria (13 settembre 1959) ad opera di S. Giovanni XXIII (canonizzato da papa Francesco il 27 aprile 2014 unitamente a Giovanni Paolo II). Dello stesso decennio sono i fatti legati alla lacrimazione di un’icona mariana del Cuore immacolato di Maria (1953) posseduta da una famiglia di Siracusa, evento che ha originato grande concorso di popolo e la costruzione, a partire dal 1954, del santuario della Madonna delle Lacrime.

Pur avviandoci verso tempi nuovi che saranno sanciti ed inaugurati dal Vaticano II, la Chiesa deve tener conto della ricomparsa di certa esagerazione cultuale, legata anche a certa pressione (mai venuta meno anche dopo il Vaticano II) per la proclamazione del quinto dogma mariano relativo alla mediazione e corredenzione. Tale deformazione, dettata da eccessivo zelo non sostenuto da adeguata formazione biblica e catechetica, si fa presente ancor oggi in qualche gruppo di preghiera a carattere mariano che necessita di forte discernimento.

Tanto il dogma dell’Assunzione quanto il Vaticano II propongono una nuova visione dell’uomo immerso nel mistero di Dio e anche la persona di Maria ne riceve beneficio nel senso che si umanizza e si concretizza senza ledere, tuttavia, la sua singolarità. Il fatto che in Maria – come ricorda la Lumen gentium al n. 65 – vengono a riunirsi e a riverberarsi i massimi dati della fede significa che nella Figlia di Sion la Chiesa, i cristiani e, in genere, l’umanità trovano la propria identità e la propria realizzazione. A livello più propriamente cultuale va detto che il Concilio mette in guardia pastori e fedeli dagli estremismi rappresentati dal minimalismo limitante e dal massimalismo ingombrante a favore di una devozione cristocentrica sostenuta dalla liturgia e dalla Scrittura, onde evitare la “vana credulità” apportatrice di errori (cf. Lumen gentium n. 67). Su questa strada di rinnovamento si colloca l’esortazione apostolica Marialis cultus di Paolo VI (1974), specialmente nella seconda parte nella quale vengono prese in esame alcune forme e pratiche di devozione che devono essere in equilibrio tra Scrittura ed esigenze del popolo di Dio nella varietà di culture ed aspirazioni.

Notevole è l’impressione suscitata dal documento ed in fondo abbastanza accostabile alla situazione italiana del post-concilio dove, relativamente al culto, convivono elementi tradizional-popolari e novità apportate da autori singoli, oppure provenienti da movimenti ecclesiali, già esistenti o in formazione sul territorio italiano(Azione Cattolica, Focolari, Comunione e Liberazione, ecc.), che raccolgono diverse generazioni ed esprimono la loro venerazione alla Madonna. Il popolo, in sostanza, persiste nella sua devozione a Maria attraverso il Rosario, le litanie lauretane oppure altre forme ed è presente anche ai riti dell’incoronazione delle immagini (dei quali viene fissata una forma nell’Ordo coronandi imaginem Beatæ Mariæ Virginis del 1981) per i quali si sottolinea l’esigenza di unificare il concetto di regalità mariana con il servizio all’umanità, esigenza modellata sul Cristo Signore e Servo nonché compimento della Rivelazione.

Un enorme potenziamento della devozione e del culto mariano si attua con il pontificato di S. Giovanni Paolo II (1978-2005), figura complessa per esistenza e formazione umano-religiosa sempre contraddistinte dalla presenza materna di Maria e che, anche come papa, ha mostrato un intenso e cordiale affetto per l’Italia visitandone diversi luoghi religiosi. Nonostante ciò, S. Giovanni Paolo II è stato molto discusso anche dai cattolici italiani per alcune sue posizioni (a livello comune è stato criticato per la sua ingerenza nella politica, e neppure è sfuggito alle forti riserve avanzate da alcuni intellettuali italiani all’indomani della pubblicazione della Fides et ratio del 1998), ma egli mostra l’imprescindibile importanza di Maria per la fede cristiana in molti suoi scritti ufficiali (prima fra tutti l’enciclica Redemptoris mater del 1987) e altri notevoli discorsi di natura catechetica. La devozione mariana di questo papa, connessa all’approfondimento del dettato conciliare, si nota a livello generale ed esperienziale e lo provano alcuni eventi e circostanze particolari: l’indizione di un anno mariano (1987-88) e di un altro dedicato al Rosario (2002), lo scampato pericolo dall’attentato del 13 maggio 1981 (memoria della Madonna di Fatima) nel quale il pontefice ha visto il segno materno di Maria. Si tratta di un evento di portata mondiale, ma che ha inciso profondamente anche nella storia civile italiana. Ad esso si aggiunge il Discorso al Convegno di Capua del 1993 nel quale il santo pontefice polacco si è soffermato sull’immacolatezza e verginità di Maria in modo davvero magistrale, aprendo nuove strade alla riflessione teologica. Sempre sotto il suo pontificato vedono la luce oltre al citato Ordo coronandi, anche il De Benedictionibus del 1985, la Collectio Missarum de Beata Maria Virgine del 1987: una raccolta di 46 formulari di Messe ordinati secondo i tempi liturgici, la lettera della Congregazione per l’Educazione Cattolica La seconda Assemblea (1988) che ha il preciso intento di ribadire l’impegno di conoscenza e di ricerca e la pietà nei confronti di Maria di Nazaret. Non meno importante il rinnovamento della pia pratica del Rosario con l’aggiunta dei misteri della luce nella lettera apostolica Rosarium Virginis Mariæ del 2002. Notevoli poi altre iniziative di carattere artistico e cultuale: la costruzione della cappella Redemptoris mater nel Palazzo apostolico, l’immagine musiva della Mater Ecclesiæ sulla facciata del Palazzo apostolico volta sull’antistante piazza S. Pietro, l’aggiunta del titolo Regina della famiglia nelle litanie lauretane, i frequenti pellegrinaggi ai santuari italiani, la solenne consacrazione della nuova chiesa Madonna del Divino Amore (4 luglio 1999). Inoltre sotto il pontificato di S. Giovanni Paolo II vede la luce il Direttorio su pietà popolare e liturgia pubblicato dalla Congregazione per il culto divino e la disciplina dei sacramenti nel 2002, documento importante che riserva i nn. 183-207 alla venerazione alla Madre del Signore ribadendo la solidità di un culto e di una devozione nell’espressione della nota trinitaria e nel profondo legame con Scrittura e Tradizione (n. 186).

Preoccupazione costante del magistero di questo papa è il portare a compimento quanto è sempre stato presente nella coscienza del credente, ossia la devozione a Maria congiunta alla carità e alla presenza nel tessuto sociale, in cui convivono non poche difficoltà, ansie e paure. Ciò conduce a considerare come il malessere diffuso in Europa, in Italia prende una decisa connotazione politica manifestatasi nel terrorismo (pensiamo ai cosiddetti «anni di piombo» – ’70-’80 – in cui grandi personalità cristiane delle istituzioni vengono sequestrate ed uccise come Aldo Moro e Giovanni Bachelet), alla quale si aggiunge la criminalità in simbiosi con la tossicodipendenza e lo squilibrio socio-economico fra nord e sud Italia. Si tratta di fenomeni che hanno prodotto esiti disastrosi nel nostro paese, ai quali si contrappone l’auspicio di un clima più sereno favorito da una religiosità mariana atta a porre allo scoperto e far fruttificare le migliori energie della nostra cultura e popolazione. Il discorso rinvia facilmente a tutta la problematica della donna all’interno della società e nella Chiesa, peraltro affrontata da Giovanni Paolo II nella Mulieris dignitatem del 1988: Maria costituisce un costante modello attraente e lo mostrano gruppi e cenacoli di preghiera che sovente si appoggiano a strutture parrocchiali o santuariali e da esse ricevono incoraggiamento anche per iniziative di carità. Ci si potrebbe chiedere: quale positività per l’oggi? Placata la spirale terroristica più cruenta, la società italiana odierna vive e patisce gli assalti del disorientamento, del malcostume e dell’immoralità esibiti in modo ostentato e a diversi livelli (anche da organismi pubblici e politici di vario orientamento) e senz’altro la Vergine Santa si ripresenta a noi quale modello di vita realizzata: modello visibile ed oggetto di devozione che mai deve perdere le coordinate che la rendono convincente e propositiva: la Scrittura (come canale privilegiato di Rivelazione), il legame con la liturgia della Chiesa universale evitando squilibri ed eccessi dannosi e l’aggancio con la società ferita che attende un soccorso non solo a parole, ma nei fatti. Solo così è possibile mantenere quei legami con la grande tradizione civile, culturale e religiosa del nostro paese. Notevole, in tal senso, l’opera di sensibilizzazione attuata sulla cultura e sulla società italiane dall’AMI (Associazione Mariologica Interdisciplinare Italiana fondata nel 1990) che, attraverso dense pubblicazioni (la Rivista Theotokos e gli Atti dei suoi periodici convegni), affronta problematiche di natura storica, sociale, cultuale e dottrinale. Da non ignorare la decisa presa di posizione di alcune conferenze episcopali regionali su inquietanti fenomeni legati, ad esempio, all’occultismo e alle sette sataniche (Conferenza Episcopale Toscana nel 1994) che riservano alcune righe di commento all’azione potente di Maria.

In margine al clima di grave incertezza della società italiana dove, riprendendo gli insegnamenti di papa Benedetto XVI (singolare merito di questo papa nella sua esortazione Verbum Domini il rapporto fra Maria e la Parola di Dio), il laicismo e il relativismo continuano la loro incessante opera di distruzione, ci sembrano profetiche le parole di Giovanni Testori († 1993), singolare testimone e drammaturgo autore di un lavoro dal titolo emblematico: Interrogatorio a Maria. Un testo ancora attuale in quanto sofferto e scritto in un contesto di lotta ideologica tra cristiani e negatori di ogni forma di vita in nome di una falsa idea di liberazione e, nello stile, debitore della tradizione poetica italiana. Ad un certo punto del dramma viene rivolta a Maria un’urgente e dolorosa domanda sintetizzata come segue: è possibile all’uomo, arrivato sull’orlo della sua autodistruzione, porre fine e distruggere il seme dell’odio? La risposta di Maria è ancora nei termini del servizio e della speranza: “È possibile, sì. Ogni speranza in Dio, nel mio e nel suo Figlio, nasce come da un bulbo il giglio, ma bisogna a lui darsi: in lui e di lui vivere e fidarsi”.

Parole forti e di lontana eco jacoponica, espresse con la fede cristiana e con la generosità che distinguono l’Italia ed il suo popolo sempre pronto a farsi voce, ad accogliere e ad aiutare persone in difficoltà. Potremmo azzardare un paragone: la fede dei semplici è propria dell’Italia (che pure ha donato insigni monumenti di teologia e cultura), una fede che si esprime con forme, a volte, elementari, ma che tiene viva la fiaccola dei valori umani e sociali: rosari, giaculatorie, pellegrinaggi e processioni rappresentano i canali espressivi di un culto e di una devozione che, nel momento in cui celebra la Vergine Santa, contempla le meraviglie di Dio al cui vertice è posto l’uomo creato a sua immagine e somiglianza, capace di opere grandi solo se sostenuto dalla grazia.

Rispetto a Giovanni Paolo II e a Benedetto XVI, l’attuale pontificato di Papa Francesco iniziato nel 2013 si segnala per una devozione mariana molto sentita, sebbene alquanto sobria e poco appariscente. Di notevole impatto (soprattutto nel primo periodo immediatamente successivo all’elezione) con il popolo italiano nelle visite a varie regioni e città della penisola. Frequenti – soprattutto in margine ai suoi viaggi apostolici – sono le sue visite oranti a S. Maria Maggiore. Con questo papa – proveniente da un’area del mondo particolarmente segnata da istanze liberatrici – si sta avendo una forte enfasi sulla dimensione sociale e caritativa (anche nelle omelie) più che su una valorizzazione piena del discorso teologico. Compatibilmente al contesto di provenienza di papa Jorge Mario Bergoglio (tra l’altro di lontane origini italiane) appare una forte insistenza sull’ortoprassi. C’è da segnalare che un tratto mariano emerge sempre nei suoi ultimi documenti (Evangelii gaudium, Laudato si, Amoris lætitia).

In questo anno 2018, l’attuale pontefice poi ha portato a compimento, con un apposito Decreto datato 11 febbraio, quanto proclamato da papa Paolo VI, in pieno svolgimento del Concilio, nel 1964: Maria Mater ecclesiæ. Un titolo che, sappiamo, non compare nei documenti conciliari (specialmente in Lumen gentium cap. VIII), ma che è fatto proprio dall’esortazione apostolica dello stesso papa Montini Marialis cultus di dieci anni dopo (1974) e dalla citata Collectio Missarum de beata Maria Virgine in ben 3 formulari (nn. 25-27). Con tale Decreto si istituisce la memoria liturgica intitolata a Maria Madre della Chiesa fissata al lunedì seguente la Domenica di Pentecoste. Un mese dopo (19 marzo) compare l’esortazione apostolica sulla chiamata alla santità Gaudete et exsultate dove non poche volte compare il riferimento a Maria come modello di santità. Due eventi in qualche modo connessi fra loro e che hanno quale oggetto di interesse l’unica vocazione del cristiano e della Chiesa alla santità guardando alla Tuttasanta.

Conclusione. Le grandi cose compiute da Dio in Maria (cf. Lc 1,49) che culminano con l’Incarnazione salvifica costituiscono il patrimonio di fede di ogni credente, che tende ad esprimerlo e manifestarlo con pluralità di mezzi appartenenti al vasto quadro del culto. Una pluralità che, nel nostro paese, è stata incrementata anche dalla sedimentazione storica di elementi, a volte, provenienti dal resto dell’Europa e che il popolo di Dio della nostra penisola ha saputo far proprio non senza il pericolo, sempre risorgente, dell’eccesso e della ridondanza, anche inconsapevoli ed animate da sincero affetto.

Dinanzi a questo fenomeno, la Chiesa italiana – soprattutto sull’onda del Concilio Vaticano II e sui documenti posteriori anche a carattere locale (si pensi alle conferenze episcopali regionali) – ha mantenuto un atteggiamento di vigilanza tesa a far comprendere al popolo e ai pastori che la validità di un culto e di una devozione a S. Maria vanno ricercate non fermandosi ad un oggetto esteriore (medaglie, scapolari o altro) e/o ad una pia pratica (sia essa una giaculatoria, oppure un pellegrinaggio santuariale), ma considerando ed incarnando i valori che quelle celebrazioni, quelle preghiere e quei segni visibili di devozione vogliono esprimere a beneficio della maturazione del credente.

Valori che si riassumono nel favore che Dio nel Figlio Unigenito ‘ex Virgine natus’ ha offerto all’uomo immerso nelle tenebre del peccato. Tenebre che, pur velando il mondo, non riescono a vincere quel Verbo-Luce delle genti che trasforma coloro che lo accolgono (cf. Gv 1,4-5.12). L’Italia che, sin dagli inizi e per opera degli Apostoli Pietro e Paolo, ha saputo accogliere il germe di vita proprio del Vangelo è chiamata a ripercorrere l’itinerario mariano della Visitazione. Esso è itinerario di fede e di opere che, a sua volta, la Chiesa italiana deve facilitare nella guida e negli atteggiamenti materni e paterni che sono caratteri peculiari del Dio dell’Alleanza che si snoda lungo la storia in parole ed eventi. È questo il vero culto da tributare alla Vergine, coscienti che la nostra fedeltà sarà ricompensata nei cieli, perché essa è segno di conformazione al Servo sofferente e glorioso dalle cui piaghe l’intera umanità è stata redenta (cf. I Pt 2,24).

Fonti e Bibl. essenziale

Per uno studio sulla pietà, sul culto e la teologia mariane è imprescindibile l’uso di alcuni strumenti: la Bibliografia mariana curata dalla Pontificia Facoltà Teologica «Marianum», da G.M. Besutti a partire dal 1948 e continuata da E. M. Toniolo e da S. M. Danieli. Attualmente tale Bibliografia mariana consta di 15 volumi fino al 2013, nonché i volumi dei Simposi Mariologici Internazionali (SIM) organizzati dalla Pontificia Facoltà «Marianum» a scadenza biennale dal 1976 (attualmente consta di 20 volumi fino al 2015, è in stampa il 21° del 2017 ed è in via di organizzazione il 22° SIM che avrà luogo nel 2019). A ciò si aggiunge la pubblicazione annuale della rivista Marianum organo della Pontificia Facoltà «Marianum». Dizionari e repertori: G. M. Roschini, Dizionario di Mariologia, Roma 1961; S. De Fiores-S. M. Meo (a cura di), Nuovo Dizionario di Mariologia, Ed. Paoline, Cinisello Balsamo 1986S. De Fiores, Maria. Nuovissimo Dizionario, Dehoniane, Bologna 2006-2008, 3 voll.; S. De Fiores-V. Ferrari-Schiefer-S. M. Perrella (a cura di), Mariologia, S. Paolo, Cinisello Balsamo 2009; Aa.Vv., Testi mariani del II millennio, Città Nuova, Roma 1996-2012, 8 vollDocumenti ecclesiali: per i documenti ecclesiali ci siamo serviti dei seguenti strumenti: Enchiridion Vaticanum, Dehoniane, Bologna 1981, voll. 1ss.; H. Denzinger-P. Hünermann (a cura di), Enchiridion Symbolorum definitionum ac declarationum de rebus fidei et morum, Dehoniane, Bologna 1995; Pontificia Academia Mariana Internationalis, La Madre del Signore. Memoria – presenza – speranza, Città del Vaticano 2000; Congregazione per il culto divino e la disciplina dei sacramenti, Direttorio su pietà popolare e liturgia, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 2002. Monografie a carattere generale: G. Penco, Storia della Chiesa in Italia nell’epoca contemporanea, Jaca Book, Milano 1982 (2 voll.: I, 326ss. e II, 323ss); S. De Fiores-S. Epis-G. Amorth (a cura di), La consacrazione dell’Italia a Maria. Teologia, storia e cronaca, Ed. Paoline, Roma 1983; E. Cattaneo, Il culto cristiano in Occidente, CLV, Roma 1984; P. Borzomati, La fiducia nella Madre di Dio elemento permanente della spiritualità italiana, in La Madonna 32 (1984), 5-6,75-85; L. Gambero, Culto, S. De Fiores-S. M. Meo (a cura di), Nuovo Dizionario di Mariologia, cit., 425-43; J. Castellano Cervera, Religiosità popolare mariana, in Credere Oggi 49 (1/1989), 93-109; S. Gaspari, Maria nella Liturgia, Dehoniane, Roma 1993; V. Bo, Maria nella pietà popolare, in Theotokos 1 (1993), 227-31; M. M. Pedico, La Vergine Maria nella pietà popolare, Ed. Monfortane, Roma 1993; S. De Fiores, Italia, in Maria. Nuovissimo Dizionario, Dehoniane, Bologna 2008, vol. II, 992-1055. Studi di storia della mariologia relative al periodo esaminato: S. Cecchin, L’Immacolata Concezione. Breve storia del dogma, PAMI, Città del Vaticano 2003; S. De Fiores, L’immagine di Maria dal Concilio di Trento al Vaticano II (1563-1965), in E. M. Toniolo (a cura di), La Vergine Maria dal Rinascimento a oggi, Centro di Cultura mariana “Madre della Chiesa”, Roma 1999, 9-62; G. Calvo Moralejo-S. Cecchin (a cura di), L’Assunzione di Maria Madre di Dio. Significato storico-salvifico a 50 anni dalla definizione dogmatica. Atti del I Forum Internazionale di Mariologia (Roma 30-31 ottobre 2000), Pontificia Academia Mariana Internationalis, Città del Vaticano 2001; S. M. Perrella, Teologia e pietà mariana ai tempi del beato Pio IX, in Marianum 63 (2001), 177-243; G. Grosso, Con Maria figlia di Sion. In ascolto della Parola, Messaggero, Padova 2002; E. M. Toniolo (a cura di), Cinquant’anni del «Marianum», Ed. Marianum, Roma 2005; E. M. Toniolo, La Beata Maria Vergine nel Concilio Vaticano II, Centro di Cultura mariana “Madre della Chiesa”, Roma 2004; R. Ricciardo, Pianto di Maria e dolore di DioL’evento di Siracusa, S. Paolo, Cinisello Balsamo 2004; C. Maggioni, La Tuttasanta nelle testimonianze liturgiche, in F. Lepore (a cura di), L’Immacolata segno della bellezza e dell’amore di Dio, PAMI, Roma 2005, 31-64; E. M. Toniolo (a cura di), Maria nel Concilio. Approfondimenti e percorsi. Centro di Cultura mariana “Madre della Chiesa”, Roma 2005; S. M. Perrella, La Madre di Gesù nella coscienza ecclesiale contemporanea, PAMI, Città del Vaticano 2005; C. Maggioni, Culto mariano e pietà popolare in Giovanni Paolo II, in E. M. Toniolo (a cura di), Il magistero mariano di Giovanni Paolo II, Percorsi e punti salienti. Centro di Cultura mariana “Madre della Chiesa”, Roma 2006, 157-94; S. M. Perrella, Ecco tua Madre (Gv 19,27). La Madre di Gesù nel magistero di Giovanni Paolo II e nell’oggi della Chiesa e del mondo, S. Paolo, Cinisello Balsamo 2007; L. M. Di Girolamo, Teatro, in S. De Fiores-V. Ferrari-Schiefer-S. M. Perrella (a cura di), Mariologia, cit., 1190-99; Id., L’influsso di Maria nella storia e nella società italiana prima e dopo il raggiungimento dell’unità nazionale, in Ephemerides Mariologicæ 63 (2013), 4, 361-96; M. G. Fasoli, Maria nella letteratura del novecento. Un percorso esemplare di mariologia poetica, in Marianum 76 (2014), 95-137; Id., Manzoni e il femminile mariano. Un itinerario ermeneutico tra biografia, poetica e storia, in Marianum 78 (2016), 231-67; S. M. Perrella, La Mariologia dei papi e il Rosario, Ed. Aracne, Roma 2017; Id., La Madre di Gesù nella teologia, Ed. Aracne, Roma 2017; D. Kulandaisamy-L. M. Di Girolamo, Maria di Nazareth tra Bibbia e Teologia, NSO, Sivakasi 2017. L. M. Di Girolamo, L’insegnamento universitario nell’Ordine dei Servi di Maria dalle origini ai giorni nostri, in Studi Storici OSM  6 (2017), 65-95 (dove sono tracciate le vicende della Pontificia Facoltà Marianum a Roma). È in preparazione il secondo fascicolo della rivista Theotokos dedicato al secolo XIX monografico sull’Immacolata.

Immagine: Gonfalone della Mater Misericordiae, nella chiesa di Santa Maria Assunta (Corciano, Pg).


LEMMARIO




Mass-media - vol. II


Autore: Monica Mondo

Radio e televisione. Nel dopoguerra l’informazione era in mano a una cultura normalmente volta a sinistra, con vistose tendenze anticlericali. La tv sembrava uno spazio per poter formare una generazione nuova, recuperando il patrimonio culturale cristiano. L’ispirazione iniziale produsse ad esempio la riproposta di grandi opere della letteratura, programmi educativi e un’attenzione costante e fin maniacale al pubblico decoro. C’era però un intento pedagogico di alto livello, impersonato da figure come Filiberto Guala, amministratore delegato Rai degli anni ’50, o di Ettore Bernabei, che per 15 anni dedicò ogni sforzo a una televisione di qualità orientata in senso cristiano e funzionale al partito di maggioranza, la Democrazia Cristiana. Questa tensione scemò con l’arrivo della concorrenza alla Rai delle cosiddette televisioni commerciali, anche se già nel 1964 nel decreto Inter Mirifica si individuavano i pericoli di un uso eccesivo, incontrollato del mezzo, invitando autori e giornalisti a farsi promotori di evangelizzazione, perché i mezzi di comunicazione “che offrono al genere umano grandi vantaggi… possono essere adoperati contro i disegni del Creatore e volti alla rovina” (Inter Mirifica, intr.1). Auspicava fin da allora che si creassero “sollecitamente anche emittenti cattoliche” (ibidem, 14).

Dapprima furono le radio: nel ’76 una sentenza della Corte Costituzionale sancisce il diritto alla radio diffusione locale e i cattolici puntano da subito a usare questi strumenti di comunicazione, creando le prime radio nelle diocesi, parrocchie, congregazioni, movimenti giovanili organizzati o spontanei. Nel 1979 erano quasi 200, dieci anni dopo 439, ovvero il 10% di tutte le radio in Italia. Un’esplosione di creatività e audacia dopo anni di monopolio della sinistra in campo della cultura e informazione. Il limite era la disorganicità, la scarsità di mezzi e dunque di professionalità. Nondimeno molte di queste realtà furono palestra di giornalismo sul campo per nomi che svetteranno nelle più importanti testate mediatiche.

Su iniziativa di Mons. Francesco Ceriotti, allora direttore dell’Ufficio Comunicazioni Sociali della CEI, nacque nel 1981 il Co.ra.l.lo (Consorzio Radiotelevisioni Libere Locali) di cui è stato presidente storico Franco Mugherli: un punto di riferimento, che vagliava, proponeva programmi, corsi formativi, stabiliva contatti col mondo politico e istituzionale, indirizzando una linea identitaria attenta ai pericoli di un’evangelizzazione via radio, ovvero il clericalismo o l’omologazione (lo slogan era né pulpito né juke box…). Da segnalare in Lombardia Radio SuperMilano e Radio Cooperativa Rho, TVL di Pistoia, Radio Incontro di Pisa, Telsubalpina in Piemonte, e Radio Rete, primo network di ispirazione cristiana in Italia, che poteva collegare contemporaneamente in diretta 32 radio cattoliche nella sola Lombardia. Il Corallo entrò presto in commissione presso il Ministero Poste e Telecomunicazioni e il Servizio Editoria della Presidenza del Consiglio contribuendo alla stesura della legge Mammì che nel 1990 finalmente riconosceva e tutelava le radio comunitarie. Nel 1988 sul consorzio si posa l’attenzione del Segretario della CEI, Monsignor Camillo Ruini, che dà il suo benestare alla nascita di Ecclesia, notiziario informativo settimanale, poi quotidiano, ritrasmesso da 400 stazioni italiane e straniere. Nel 1991 nasce l’agenzia radiotelevisiva News Press, sempre diretta da Franco Mugherli, per la produzione di programmi destinati alle emittenti cattoliche, lasciando scelta e valutazione dei contenuti all’Ufficio Comunicazioni Sociali. Nel 1998 con Sat 2000 nasce Radio In Blu, un progetto radiofonico di ispirazione cristiana a servizio delle radio presenti sul territorio nazionale.

Il mondo cattolico era entrato con forza anche nel mondo televisivo alla fine degli anni ‘70: da segnalare, tra i tanti marchi diffusi sul territorio nazionale, e ben presto tramite satellite e digitale in tutto il mondo, quello di Teleradio Padre Pio, emittente dei Frati Minori Cappuccini che trasmette da San Giovanni Rotondo, a indirizzo totalmente religioso, nota per la sua camera fissa sui devoti e pellegrini nella cripta dove riposa il santo di Pietrelcina. E’ la prima emittente italiana a dotarsi di un’applicazione su smartphone della Apple. TeleNova, nata a Milano, è legata al Gruppo Editoriale San Paolo, dunque al carisma di don Alberione, fondatore dei Paolini. Un nome noto in ambito cattolico quasi si trattasse di una “televisione del Vaticano” è stato quello di Telepace, nata per caso da un gruppo di ragazzi in diocesi di Verona. Grazie all’intraprendenza del suo direttore, don Guido Todeschini, si irradia in tutto il territorio nazionale e ottiene il privilegio di accedere al seguito papale, e la benevolenza di Giovanni Paolo II. La sua sede romana chiude dopo una dolorosa polemica che vede scontrarsi direzione e redazione giornalistica, e un’indagine della Procura che denuncia irregolarità nei contratti ed evasione fiscale.

Dopo gli esperimenti locali di televisioni di identità cristiana, la Chiesa istituzionale risponde con un impegno ufficiale solo dopo il Convegno Ecclesiale di Palermo, nel 1995, (Evangelizzazione e testimonianza di carità) che segnò la svolta nei rapporti tra Chiesa e media. In quei giorni, grazie all’autorevole lungimiranza del cardinal Camillo Ruini, furono gettate le basi del Progetto Culturale della CEI, e solo l’anno dopo, nell’assemblea dei vescovi a Collevalenza, si decise che la Chiesa doveva avere un suo canale satellitare: nasce così Sat 2000, nel 1998. Il nome deriva dal fatto che il canale trasmetteva solo via satellite, e viene mutato in TV 2000 nel 2009, con il passaggio al digitale, satellitare e terrestre. Tuttora viene trasmessa da varie tv locali cattoliche che trasmettono in analogico. La sede principale è a Roma. Il direttore di rete è Dino Boffo, già alla guida di Avvenire.

Giovanni Paolo II lodò la nascita della televisione come una “decisione coraggiosa… per diventare strumento di diffusione del messaggio cristiano”. Benedetto XVI invitò i suoi dipendenti ad essere “felici di appartenere alla Chiesa e di immettere nel grande circuito della comunicazione la sua voce e le sue ragioni.”

Da segnalare nella linea di un’attenzione e un impegno da allora costanti alla realtà dei media i convegni di orientamento pastorale Parabole Mediatiche e Testimoni Digitali, promossi dall’Ufficio Nazionale per le Comunicazioni Sociali della CEI.

Con la nascita di una tv promossa direttamente dalla CEI fatalmente si determinò una perdita di terreno delle televisioni locali, tanto più dopo il passaggio Regione per Regione al digitale terrestre. Molte emittenti chiudono, molte iniziano a procedere in ordine sparso, molte (riunite nel circuito Co.ra.l.lo) si avvalgono della collaborazione e dei servizi offerti da Sat e poi Tv 2000.

Tra i fenomeni mediatici più inattesi e studiati, riferibili al mondo cattolico è quello dell’emittente radiofonica Radio Maria.

Nasce come radio parrocchiale nel 1983, in provincia di Como, in uno studio mobile retto da don Mario Galbiati, a Arcellasco d’Erba; il suo primo direttore lascerà la radio nel 1987, per fondare Radio Mater. In quell’anno diventa emittente nazionale e si diffonde ben presto in altre nazioni, costituendosi in Famiglia Mondiale di Radio Maria. E’ la radio privata col maggior numero di ripetitori sul territorio nazionale (850), è la più diffusa, seconda soltanto a Radio Rai, con una ricezione ottimale, anche perché essendo una radio parlata trasmette in monofonia. Secondo gli ultimi dati Audiradio si stimano 1.600.000 ascoltatori giornalieri (2009). Non ha introiti pubblicitari e si affida all’opera di volontari, sia giornalisti e conduttori che tecnici, avvalendosi come collaboratori di intellettuali cattolici di prestigio. Le trasmissioni trattano soprattutto di catechesi, di teologia, di attualità ecclesiale, e offrono ogni giorno otto ore di preghiera, oltre a trasmissioni di servizio, sempre nella prospettiva della fede. Grande rilievo hanno i discorsi tenuti dal direttore, padre Livio Fanzaga (sacerdote scolopiano lombardo, parroco, missionario in Africa),e i messaggi che la Madonna trasmetterebbe ai veggenti di Medjugorie, della cui verità il direttore è convinto sostenitore. Poiché la posizione della Chiesa sul luogo delle apparizioni della Bosnia Erzegovina è di estrema prudenza, e un’apposita commissione sta studiando il caso, il mondo ecclesiale si divide anche su Radio Maria. Che suscita entusiasmi come alfiere dell’ortodossia e della fedeltà al magistero, soprattutto su temi dell’educazione e della bioetica, o viene sospettata di posizioni preconciliari, di conservatorismo, di un attaccamento anacronistico alla tradizione.

Se a livello di episcopato e di popolo cristiano ci sono voluti anni per passare dallo spontaneismo ad un’idea organica di comunicazione “cattolica”, il Vaticano si è dotato di uno strumento di comunicazione efficace e “universale” ben prima: è infatti nel 1931 che Radio Vaticana viene inaugurata da Pio XI con il radio messaggio Qui arcano Dei, il 12 febbraio, alle ore 16.49: la realizzazione di questo “poderoso mezzo materiale per la diffusione dell’Idea” fu affidata a Guglielmo Marconi, ma la struttura passò presto ai Gesuiti. Secondo lo Statuto, il suo compito fu da allora “ annunciare con libertà, fedeltà ed efficacia il messaggio cristiano” e diffondere il magistero del Papa. Il suo primo direttore fu il fisico e matematico Giuseppe Gianfranceschi, non a caso una delle prime trasmissioni fu lo Scientiarum Nuncius Radiophonicus, che passava in rassegna l’attività della Pontificia Accademia delle Scienze. L’attuale direttore, che presiede altresì il Centro Televisivo Vaticano e la Sala Stampa Vaticana, è Federico Lombardi, nipote del celebre Padre Lombardi soprannominato “microfono di Dio”, per le sue seguitissime prediche via etere. La Radio svolse un ruolo fondamentale durante la guerra mondiale, nonostante i tentativi del ministro della Propaganda nazista, Joseph Goebbels, di ridurla al silenzio: trasmetteva una prudente ma libera informazione e milioni di messaggi per il ritrovamento di civili e militari dispersi. Nel dopoguerra seguì i lavori dei Conclavi, del Concilio Vaticano II, e il primo viaggio di un Papa all’estero, Paolo VI in Terra Santa, nel 1964. Proprio durante il pontificato di Paolo VI nel decreto conciliare Inter Mirifica, promulgato il 4 dicembre 1963, si dichiarava che “la Chiesa accoglie tra le meravigliose invenzioni tecniche che l’ingegno umano è riuscito a trarre dal creato, con l’aiuto di Dio, quelle che hanno offerto nuove possibilità di comunicare”. (intr., 1)

La sede storica è la palazzina Leone XIII nei Giardini della Città del Vaticano. Nell’ottobre del ‘57 viene inaugurato il Centro Trasmittente di Santa Maria di Galeria. Alla Radio lavorano ca 400 giornalisti e operatori di oltre 60 nazionalità, poiché trasmette in 45 diverse lingue.

Negli anni ’90 hanno inizio le trasmissioni satellitari e via internet, e oggi Radio Vaticana viaggia via cavo: con lo stesso impegno, “confortare la fede e sostenere la speranza dei credenti, collegando con la Chiesa di Pietro le Chiese locali che si trovano in precarie condizioni di libertà religiosa” (Giovanni Paolo II); dal 2009, causa problemi nei bilanci, la Radio introduce la pubblicità, selezionata e controllata con cura. Autore di una poderosa spinta verso una diffusione sempre più internazionale della parola della Chiesa, Giovani Paolo II vuole che sia istituito nel 1983 il Centro Televisivo Vaticano, “con il compito di contribuire allo sviluppo della presenza della Chiesa e della cultura cristiana nel mondo mediante l’utilizzo di strumenti audiovisivi”.(discorso20 dicembre 1993 al personale in occasione dei dieci ani dell’istituzione). Dal ’96 è un organismo della Santa Sede e Televisione ufficiale dello Stato della Città del Vaticano, pur svolgendo un ruolo di agenzia, cioè di servizio per altre reti televisive. Ha un rapporto di regia, per i grandi eventi della Chiesa in mondovisione, con Rai Vaticano, la struttura RAI nata nel 1998 tra le attività per il Grande Giubileo, con il nome di Rai Giubileo. Collabora anche con Tv 2000, la televisione promossa dalla CEI. Ogni anno riprende integralmente ca 130 eventi, oltre a seguire i viaggi apostolici del Santo Padre, inoltrando via satellite il segnale in tutti i continenti. Distribuisce quotidianamente le sue immagini alle agenzie e alle tv sulle attività pubbliche del Papa; produce video, news e documentari; gestisce un archivio con una videoteca di oltre 16.000 cassette, oltre 8000 ore di registrazione, solo dal 1984 in poi. L’emittente trasmette in digitale terrestre da Castel Gandolfo per mezzo di un ripetitore posto sul Palazzo Pontificio.

Cinema. Dalle origini della storia del cinema la sua popolarità spinse la Chiesa, com’era stato per il teatro nel Medio Evo, a non comminare solo divieti, ma a cercare di capire e giudicare. Su ispirazione dell’enciclica Vigilanti Cura, di Pio XI, datata 1936, nasce in Italia il Centro Cattolico Cinematografico, i cui giudizi sui film prodotti vengono riportati nelle Segnalazioni Cinematografiche, che valutano la moralità e l’immoralità, riflettendo il senso del pudore e le visioni culturali del tempo, ma senza mai, almeno come indicazione generale, ricorrere a tagli di censura che manchino di rispetto all’autore e stravolgano il senso dell’opera. Si privilegiano due filoni di film: quello religioso, che si occupa della figura di Gesù, Sati, Pontefici, e quello spirituale, con la forma di registi quali Bresson e Dreyer fino a Zanussi, e Kieslovski.

Nel 1942 nasce la prima casa di produzione cattolica, l’Orbis Film, che segna il superamento del dilettantismo dei cattolici nel cinema: l’occasione è il compito affidato al CCC di produrre il cine ritratto firmato da Ennio Flaiano di Pio XII, Pastor Angelicus. La neonata casa di produzione coinvolge maestri come Zavattini e Blasetti, Suso Cecchi D’Amico e Soldati, Lattuada: tra i primi titoli La porta del cielo di De Sica, Il testimone di Germi. Il suo lavoro non cessò durante l’occupazione nazista della città di Roma, e cast gonfiati di attori e comparse permisero la salvezza di perseguitati politici ed ebrei. L’eredità di Orbis passa poi a Universalia (di cui si ricordano i capolavori La terra trema di Visconti e La bellezza del diavolo di Réné Clair). Nel 1946 compare l’Ente dello Spettacolo, che segna da un punto di vista cattolico il rilancio del cinema italiano del dopoguerra. Suo primo Presidente, non a caso, fu Luigi Gedda, l’intellettuale e attivista del movimento cattolico che aveva portato la Democrazia Cristiana al trionfo del ‘48. Nel 1949 nasce l’Acec, Associazione Cattolica Esercenti Cinema, che portava avanti il progetto delle prime Sale Ricreative cattoliche d’inizio secolo. Il Centro Studi Cinematografico, sorto a Milano all’inizio degli anni 50, e affidato dal cardinal Montini a don Francesco Ceriotti, aveva l’ambizione di educare gli spettatori a capire i film non solo nei contenuti, ma a comprendere la grammatica dei linguaggi dell’immagine. Ben presto il modello milanese si diffuse in tutta Italia, con lo stesso metodo, ovvero si proiettavano diversi film per diverse categorie di spettatori, studenti, lavoratori, educatori, bambini, introdotti e commentati da volontari esperti: lo scopo principale non era il commento, il giudizio morale, ma l’educazione a leggere i film per cogliere i messaggi culturali e i co dizionamenti che ne potevano derivare. Le sale diventarono presto e sempre più luoghi e spazio di incontro, testimonianza, con il sostegno di due Note pastorali della CEI e il riconoscimento giuridico avvenuto nel 1994.

Con la crisi culturale degli anni ‘70 i cattolici perdono un protagonismo di ampio respiro e lasciano il passo, mentre si esaurisce l’esperienza delle sale di comunità, che in gran parte chiudono. Anche l’attenzione del Magistero che era stata un tempo solerte e puntuale (ricordiamo che nel 1955 Papa Pio XII pronuncia due Discorsi sui film ideali) vien meno, fino all’avvento sul soglio pontificio di un papa polacco, che da giovane aveva fatto l’attore. La sua predilezione per lo spettacolo e la coscienza della sua importanza si traducono in diversi discorsi fino a culminare con il Giubileo speciale dedicato nel 2000 al mondo dello spettacolo.

L’Ente dello spettacolo, di cui è presidente Mons. Dario Edoardo Viganò, continua a seguire attività editoriali, convegni, rassegne, festival e a proporre anteprime; promuove oggi il festival del Cinema Spirituale Tertio Millennio, assegna annualmente durante la Mostra del Cinema di Venezia, il premio Robert Bresson a un regista che si sia distinto nella ricerca del significato spirituale dell’esistenza. Tra le iniziative più recenti citiamo l’International Catholic Film festival, presieduto dalla regista Liana Marabini, sotto il patronato del Pontificio Consiglio della Cultura, dal 2010, e il Fiuggi Family Fest, con opere che puntano sulla valorizzazione della famiglia e l’educazione dei ragazzi.

Fonti e Bibl. essenziale

D. Edoardo Viganò, La Chiesa al tempo dei media, Ocd, 2008; A. Verdecchia, Il maestro magico, Paoline Edizioni, 2010; A. Grasso, Storia della televisione italiana, Garzanti, 2000; D.E. Viganò, Il Vaticano II e la comunicazione. Una rinnovata storia tra Vangelo e società, Paoline, Milano 2013; F. Ruozzi, Da «buona maestra» a scrupolosa professoressa. Il ruolo della televisione nel preparare la società italiana al Concilio Vaticano II (1959-1962), in «Chiesa e Storia. Rivista dell’Associazione Italiana dei Professori di Storia della Chiesa» 3 (2013), 179-228.


LEMMARIO




Massoneria - vol. II


Autore: Francesco Cipollini

Dal 1870 al 1903. All’indomani dell’unità d’Italia, l’atteggiamento nei confronti della Massoneria da parte della Chiesa sostanzialmente non cambia, rispetto al periodo precedente.

Gli eventi che riguardano la sofferta unificazione della nostra nazione vedono coinvolti in prima persona esponenti della “libera muratoria”, alcuni dei quali non nascondono la loro avversione per tutto ciò che sa di “cattolico”.

Basti il riferimento a Livio Zambeccari, patriota bolognese poi esponente di spicco della Società Nazionale, e ad un folto gruppo di deputati e senatori tra cui Giuseppe La Farina e Michele Coppino, soltanto per riportarne alcuni. Citazione a parte merita lo stesso Giuseppe Garibaldi che nelle elezioni del 1° marzo 1862 non viene eletto Gran Maestro del Grande Oriente d’Italia per due soli voti di scarto e che nella sua impresa più famosa, la spedizione dei mille, fu coadiuvato da fratelli appartenenti alla massoneria.

Il 17 marzo 1866 sul periodico Lo Stivale, il “fratello” Luigi Settembrini attacca in maniera chiara e diretta la Chiesa: «a voler distruggere la mala pianta che aduggia tutta la terra cristiana bisogna tagliar le radici intorno […]. Il potere temporale non è soltanto il potere che il papa ha in Roma ma è principalmente il potere che hanno i vescovi, i preti e gli ordini religiosi per tutto il cattolicesimo: e questo potere nasce perché sono organizzati e hanno denaro. Sciogliete quell’organismo, spogliateli dalle male acquistate ricchezze e voi avrete distrutto il potere temporale dei Papi».

Ma già il 19 maggio 1861, a qualche mese dall’unità, la Gazzetta del Popolo di Torino, diretta dal massone Felice Govean, salutava con favore le iniziative dei “fratelli” Ricciardi e Bixio volte all’incameramento dei beni ecclesiastici.

Una coraggiosa risposta viene fornita da papa Pio IX Mastai Ferretti nella sua Enciclica Etsi multa luctuosa pubblicata il 21 novembre 1873 [ASS 7 (1872-1873), 496].

In essa il Pontefice denuncia gli attacchi sempre più frequenti ai diritti e alla libertà della Chiesa. In particolare, si sofferma sulla situazione in Germania, caratterizzata dal Kulturkampf, criticando la politica del Bismarck; prende in esame poi la situazione in Svizzera, denunciando i tentativi dei legislatori elvetici di introdurre l’elezione democratica e popolare dei parroci. Alla base di questi attacchi alla Chiesa, il Pontefice vede le sette, tra cui la Massoneria, definita, per la prima volta, la Sinagoga di Satana.

«Si meraviglierà forse qualcuno di Voi, Venerabili Fratelli, che la guerra che oggi si muove alla Chiesa Cattolica si espanda tanto. Ma chiunque conosce il carattere, gli obiettivi ed il proposito delle sette, sia che si chiamino massoniche, sia che si chiamino con qualsivoglia altro nome, e li paragoni al carattere, al modo, e all’ampiezza di questa guerra, da cui la Chiesa è assalita quasi da ogni parte, non potrà certamente dubitare che questa calamità si debba attribuire alle frodi ed alle macchinazioni di quelle sette. Da esse infatti è formata la sinagoga di Satana, che ordina il suo esercito contro la Chiesa di Cristo, innalza la sua bandiera e viene a battaglia».

Il problema viene affrontato ancora da Pio IX anche nella Exortae in ista, [ASS 9 (1876), 338] una Lettera Apostolica pubblicata il 20 aprile 1876 che, sebbene scritta all’Episcopato del Brasile per denunciare i mali della Massoneria, contribuisce ad evidenziare quanto i pericoli rappresentati da questa dottrina siano a cuore del pontefice.

Si dovrà però al successore di Pio IX, papa Leone XIII Pecci, la promulgazione di testi decisi e fermi di censura dell’associazione massonica, che si pongono in strettissima ideale correlazione con la lettera apostolica di Clemente XII In eminenti apostolatus specula del 1738.

Già con la Etsi nos, enciclica leoniana scritta il 15 febbraio 1882, il Pontefice scrive ai vescovi italiani sulla necessità di difendere l’opera del Papato nella storia italiana e sull’iniquità delle nuove leggi italiane che offendono e combattono la Chiesa e la Fede concludendo il suo testo con un’approfondita analisi sulle colpe della massoneria.

Soltanto due anni dopo, il papa torna sull’argomento con l’enciclica Humanum genus che Leone XIII pubblica il 20 aprile 1884 [ASS 16 (1883-1884), 417]; in essa affronta in maniera esaustiva la problematica evidenziandone, sistematicamente ed organicamente, l’inconciliabilità con il Cristianesimo pur potendo gli aderenti non abiurare alla fede. Instaurando il paragone fra la città di Dio e la città dell’uomo sulle orme dell’opera agostiniana De Civitate Dei, il papa sostiene che «i partigiani della città malvagia, ispirati ed aiutati da quella società […] che piglia il nome di Società Massonica, pare che tutti cospirino insieme. […]». Con riferimenti chiari e diretti, il papa afferma la necessità di comprendere «la stessa società Massonica nel complesso delle sue dottrine, dei suoi disegni, delle sue tendenze, delle sue opere, affinché meglio conosciutane la malefica natura, ne sia schivato più cautamente il contagio».

L’uso della lingua italiana nell’altra enciclica di papa Pecci Dall’alto dell’Apostolico Seggio datata 15 ottobre 1890 [ASS 23 (1890-1891), 193], scritta all’Episcopato e ai fedeli d’Italia ed interamente dedicata alla Massoneria e ai suoi pericoli, è un evidente segnale del fatto che la diffusione della setta nella nazione italiana preoccupava il vertice della Chiesa, tanto da spingere il pontefice ad inviare direttamente alla popolazione italiana questo scritto.

Leone XIII torna sull’argomento ancora una volta con due testi, pubblicati sia in lingua latina sia in lingua italiana, l’8 dicembre 1892: sono le encicliche Inimica vis [ASS 25 (1892-1893, 274)] e Custodi di quella fede. In esse il pontefice condanna le dottrine massoniche utilizzando ancora una volta anche la lingua italiana come a sottolineare la gravità del problema nella nazione italiana.

Ancora due riferimenti nei testi leoniani riguardano la Massoneria. Il 20 giugno1894 con la Epistola Apostolica Praeclara gratulationes [ASS 26 (1893-1894), 705] e il 19 marzo 1902 con la Lettera apostolica Pervenuti all’anno vigesimoquinto [ASS 34 (1901-1902), 513]; in entrambe il papa ricorda e sottolinea la pericolosità e la negatività degli effetti della setta massonica sulla società e sulla comunità ecclesiale.

Dal 1903 al 1962. La morte di papa Pecci il 20 luglio 1903 e la successiva elezione (il 4 agosto dello stesso anno) di papa Sarto con il nome di Pio X segnano l’inizio di una fase durante la quale, pur in assenza di provvedimenti diretti ed espliciti da parte del magistero, procedono i lavori per la ricezione ed esplicitazione della condanna dell’appartenenza massonica nel documento legislativo più importante per la Chiesa cattolica: fervono infatti durante il pontificato sartiano i lavori per la redazione del Codex Juris Canonici, la cui promulgazione avverrà però il 27 maggio 1917, sotto il pontificato di papa Benedetto XV (eletto il 3 settembre 1914).

La problematica è affrontata nel canone 2335 che commina la scomunica “ipso facto” a chiunque prende parte a sette massoniche, “o dello stesso genere” recita il canone, che operano contro la Chiesa.

Il successivo canone 2336 rivolge invece la sua attenzione a quei chierici che dovessero aderire a simili associazioni per i quali è prevista la sospensione e la privazione da qualsiasi ufficio e dignità, nonché la denuncia alla Congregazione del S. Offizio.

Durante i pontificati successivi la necessità di altre esplicite riprovazioni ufficiali della Massoneria è fortemente attenuata, in considerazione della chiara e definitiva codifica della condanna ad opera del citato canone 2335.

Dal 1962 al 1983. La celebrazione del Concilio Ecumenico Vaticano II ha comprensibilmente impegnato la riflessione della Chiesa su se stessa in un enorme sforzo di autocomprensione ad intra e ad extra.

Coerentemente con l’impostazione voluta dai padri conciliari, dall’assise non è stata emessa alcuna condanna di approcci errati alla fede. Anzi la nuova visio dei rapporti fra Chiesa e mondo costringeva tutti i cristiani a rivedere il loro approccio con l’“altro” in una rinnovata concezione dei rapporti con il mondo contemporaneo.

Tuttavia l’opportunità del dialogo alla ricerca della verità esige, coerentemente, anche la necessità della condanna di posizioni inconciliabili con il deposito della fede. Questa esigenza di coerenza da parte della Chiesa ha comportato, il 19 luglio del 1974, la pubblicazione da parte della Congregazione della Dottrina della Fede di una lettera De catholicis qui nomen dant associationibus massonicis. La comunicazione, a firma dell’allora prefetto il card. Franjo Šeper, era rivolta principalmente al card. Krol, arcivescovo metropolita di Philadelphia, ma venne notificata anche ad alcuni episcopati particolari; in essa si stigmatizzavano interpretazioni false e capziose in merito alla possibilità dell’appartenenza a logge massoniche, chiarendo che nulla era mutato rispetto a quanto disposto dal can. 2335 del CJC allora vigente e pertanto, sostanzialmente, nessuna abrogazione della scomunica era stata disposta.

La pubblicazione del contenuto della notificazione, inizialmente riservato, ha richiesto un seguente pronunciamento da parte della Congregazione, la quale, il 17 febbraio 1981, con una successiva Dichiarazione circa l’appartenenza dei cattolici ad associazioni massoniche, a firma dello stesso card. Šeper, oltre a ribadire la consueta interpretazione del canone 2335 del CJC, precisava anche la impossibilità da parte delle locali conferenze episcopali di valutare soggettivamente i casi in questione: «Non era invece intenzione della S. Congregazione rimettere alle Conferenze Episcopali di pronunciarsi pubblicamente con un giudizio di carattere generale sulla natura delle associazioni massoniche che implichi deroghe alle suddette norme».

Tale dichiarazione si inserisce in un panorama italiano fortemente sensibile alla problematica, in quanto il 12 settembre 1978 era stata pubblicata dal giornalista Mino Pecorelli la lista degli aderenti alla loggia massonica “P2”. Uno scandalo che aveva coinvolto eminenti personaggi della politica e della finanza fino a lambire, secondo alcune fonti, anche alte sfere della gerarchia vaticana.

La pubblicazione il 25 gennaio 1983 del nuovo Codex Juris Canonici ad opera del papa Giovanni Paolo II segna un nuovo approccio alla problematica rispetto alla precedente codificazione; emerge, infatti, un atteggiamento diverso nel canone 1374 che genericamente proibisce l’appartenenza ad associazioni “che macchinano” contro la Chiesa. Non vengono più esplicitamente menzionate le sette massoniche, ma coerentemente con il principio, ogni associazione che si pone contro la chiesa viene condannata e con essa chi la promuove e la modera.

La mancata esplicita menzione del carattere massonico delle sette condannate nella nuova codificazione del CJC è parsa a molti foriera di ambiguità e di confusione.

Al fine di sgombrare il campo da equivoci interpretativi, la Congregazione per la Dottrina della fede il 26 novembre dello stesso 1983 emana la breve, ma incontestabile quanto a chiarezza, Dichiarazione sulla massoneria, firmata dall’allora Prefetto il card. Joseph Ratzinger ed approvata dal papa Giovanni Paolo II. In essa si afferma l’inconciliabilità della doppia appartenenza di un fedele cattolico a qualsiasi loggia massonica e, nell’eventualità dell’appartenenza, lo stato di peccato grave che impedisce di accedere alla Santa Comunione.

Viene, pertanto, confermata la condanna della massoneria e la conseguente diffida all’adesione, dando così una interpretatio authentica del “nuovo” canone 1374 e ponendo un punto fermo e risolutivo nei rapporti fra cristianesimo e massoneria.


LEMMARIO




Migranti - vol. II


Autore: Mutegeki Robert

Le principali analisi demografiche, economiche e sociali condotte a livello internazionale concordano nell’affermare che c’è un attore non protagonista negli attuali processi di globalizzazione: il fenomeno delle migrazioni. Chi migra si percepisce come parte di un sistema fortemente interconnesso, in cui lo sfruttamento e la povertà di alcuni non è una realtà sganciata dal ciclo produttivo e dal benessere di altri. Il migrante decide di spostarsi nel tentativo di collocarsi diversamente all’interno di questo sistema e di stabilirsi laddove ritiene vi siano migliori possibilità di vita.

Lo studio e la conoscenza del fenomeno migratorio costituisce una priorità per Caritas Italiana (un’organizzazione simile a Catholic Charities negli Stati Uniti), un’associazione laica che collabora con l’Unione Europea e la Chiesa Cattolica, che sostiene e promuove da anni ricerche, studi e pubblicazioni su questo tema. Due sono i percorsi per la trattazione del fenomeno della migrazione:

  1. Storicizzare il fenomeno cioè ricostruire “archeologicamente”, direbbe Foucault, le sue origini e/o la sua storia materiale; questo approccio evidenzia come ciò che ci sembra essere un dato di fatto è invece il prodotto di precise dinamiche storiche e dunque delle azioni umane
  2. Individuare e smontare le retoriche (scelte terminologiche, figure del discorso, reti di immagini e simboli, strutture argomentative) attraverso cui le principali agenzie della comunicazione (mediatica e politica) costruiscono una rappresentazione più o meno condivisa, quindi un luogo comune.

Nelle epoche più antiche, nonostante l’introduzione dell’agricoltura, in alcune zone del mondo (X-VIII millennio a.C.) per lungo tempo moltissime popolazioni sono rimaste sostanzialmente nomadi o, più in generale, mobili proprio perché la loro economia era legata alla pastorizia, al commercio o al mare. Nel Medioevo europeo la diffusa mobilità transnazionale aveva un ruolo strutturale, benché non ufficialmente riconosciuto: la densa presenza di vagabondi ed emarginati che si spostavano attraverso i territori del continente serviva infatti a mantenere attiva la pratica cristiana della carità. Con il Medioevo, insomma, il movimento delle persone diventa qualcosa che occorre controllare e limitare e lo spazio diventa il linguaggio della differenziazione sociale. Nel 1973, però, accade una svolta nella storia delle migrazioni della nostra penisola: per la prima volta i rimpatri superano gli espatri. Siamo nell’Italia del boom economico, e le condizioni di vita sono migliorate abbastanza da rendere il nostro paese una meta più attraente rispetto all’altra sponda del Mediterraneo.

Da qui iniziano, perciò, ad arrivare persone il cui progetto migratorio è diretto soprattutto al miglioramento della propria situazione economica. Negli anni ottanta, periodo di consolidamento della presenza straniera in Italia, a partire sono anche persone più giovani, istruite e provenienti da ambienti urbani, che si spostano perché i cambiamenti nell’economia mondiale hanno messo parzialmente in crisi i loro settori di occupazione. Superata nel 1987 la soglia del mezzo milione di soggiornanti, da fenomeno episodico l’immigrazione diventa una realtà socialmente ed economicamente rilevante. Mentre i problemi migratori erano allora di tipo socio-economico, oggi il problema principale è che ci sono guerre in Africa e Medio Oriente e il 90 per cento dei migranti sono persone in fuga da situazioni molto difficili. La storia delle migrazioni dimostra quindi che i flussi migratori non sono movimenti casuali ed “emotivi”: la colonizzazione ha strutturato dei precisi rapporti di potere a livello mondiale che oggi parlano il linguaggio della frontiera e del continuo travaso di forza lavoro.

La Chiesa Italiana a partire dagli anni sessanta del secolo scorso ha mostrato interesse particolare per i migranti. Il decreto Christus Dominus (1965) ricorda così a tutti gli ordinari diocesani che devono dimostrare particolare interessamento per “quei fedeli che, a motivo delle loro condizioni di vita, non possono godere dell’ordinario ministero dei parroci o sono privi di qualsiasi assistenza”. Tra questi il decreto elenca i migranti, gli esuli, i profughi, i marittimi, gli addetti al trasporto aereo e i nomadi. Sempre nel 1965 Paolo VI istituisce l’Opera per l’Apostolato dei Nomadi con annesso segretariato internazionale, l’una e l’altro in seguito coordinati nell’ambito della Congregazione per i Vescovi alle altre Opere e agli altri segretariati per l’assistenza della popolazione mobile (motu proprio del 1969 per la cura pastorale dei migranti).

Un anno dopo, l’Apostolicae Caritatis istituisce all’interno della Congregazione per i Vescovi la Pontificia Commissione per la pastorale dei migranti e degli itineranti. Quest’ultima scrive nel 1978 alle conferenze episcopali su Chiesa e mobilità umana ed accenna alla condizione dei nomadi “quasi sempre estranei alla società” e quindi da questa rifiutati.  L’esigenza di accettazione culturale e di specifica pastorale è ribadita dalla costituzione apostolica Pastor Bonus (1985). In Italia il coordinamento dell’azione, che si impernia su cappellani e centri missionari, è garantito dall’Ufficio Nazionale per la Pastorale dei Rom e dei Sinti (UNPRES), inserito nella Fondazione Migrantes. Inoltre parte dello sforzo ricade sulle spalle di un volontariato che cerca di mediare tra la cultura ecclesiastica tradizionale e la cultura dei migranti.

Praticamente, esiste una commissione per l’assistenza socio-pastorale agli stranieri in Italia: circa 60 sono i cappellani incaricati nelle diocesi italiane al servizio pastorale per gli immigrati di circa 60 diverse nazionalità; molti altri operatori pastorali, italiani e stranieri, vi sono impegnati spontaneamente a tempo parziale. Sono quasi 650 i centri pastorali di varia natura (parrocchie personali, missioni con cura d’anime, cappellanie e centri pastorali riconosciuti ma non ufficialmente istituiti dall’autorità diocesana) gestiti dalle predette forze pastorali. 12 sono i “Coordinatori nazionali” della pastorale etnica.

Il 28 febbraio scorso, a circa due anni dal suo inizio, è terminato lo stato d’emergenza causato dagli “Eccezionali arrivi di migranti dal Nord Africa”, cominciato con gli sbarchi a Lampedusa di cittadini tunisini, cui sarebbero seguiti gli arrivi dalla Libia di persone originarie di molti paesi africani. Alla chiusura in via amministrativa di quest’emergenza non ha corrisposto, però, la fine dei problemi collegati all’accoglienza di migliaia di persone (rispetto alle 55 mila giunte in Italia), che ancora oggi attendono risposte e vivono una condizione di grande incertezza e precarietà esistenziale. Il provvedimento che decreta la fine dell’emergenza fornisce comunque lo spunto per fare un bilancio di 22 mesi di intenso lavoro che ha visto la Caritas Italiana, insieme a molte Caritas diocesane, spendersi nell’assistenza e nella tutela dei profughi giunti in Italia.

Sono molte le voci che andrebbero analizzate per comprendere se questa vicenda si è chiusa con un saldo positivo o meno. Se ci dovessimo limitare a quanto scritto e dichiarato anche da Caritas Italiana sull’azione di governo, il giudizio sarebbe tranchant in negativo, a maggior ragione se si analizzasse il rapporto costi (economici per lo stato) – benefici (di integrazione per i rifugiati). Ma in questa complessa esperienza non hanno contato solo il governo, con tutto il suo apparato, e le risorse stanziate per l’accoglienza, ma anche gli attori in gioco che sono stati molteplici, le relazioni instaurate sono state numerose, sia all’interno delle organizzazioni che hanno lavorato per l’emergenza e in emergenza, che tra le varie organizzazioni, istituzioni ed organismi di tutela e accoglienza.

Sulle falle del sistema si è scritto molto e vale la pena ricordare alcuni aspetti particolarmente critici: l’individuazione delle strutture ove ospitare i migranti è stata spesso frettolosa e poco concordata con le istituzioni locali; la scelta delle strutture è caduta su tipologie assai varie, con enormi differenze in termini di qualità dei servizi offerti alle persone; i costi di gestione sono stati enormi. Inoltre, la grande indecisione governativa circa lo status da attribuire ai profughi ha contribuito a determinare la lunga durata delle accoglienze, con pesanti ripercussioni sull’efficacia e la serenità delle stesse: in diversi contesti gli animi degli ospiti si sono surriscaldati, a causa dell’assenza di prospettive per il futuro, creando non pochi problemi di ordine pubblico. Tali criticità hanno condizionato anche la vita delle Caritas coinvolte nell’accoglienza. È innegabile, però, che questo lungo periodo abbia costituito anche una palestra per tutti coloro che hanno voluto contribuire alla risoluzione di un’emergenza umanitaria con caratteristiche complesse. Ci si è incontrati, scontrati e confrontati su vari terreni e a più livelli.

Dal lavoro in banchina a Lampedusa e sui binari a Ventimiglia, all’accoglienza diffusa nell’intero paese, fino alla costante interlocuzione con le istituzioni locali e nazionali. Insomma, si è trattato di un’esperienza intensa, pur nel suo non sempre intelligibile e a tratti faticoso sviluppo. Le peculiarità di questo percorso sono anzitutto consistite nel fatto che ci si è dovuti misurare con profughi originari di paesi che, in gran parte, non erano quelli da cui provenivano: ciò ha imposto agli operatori una costante “ridefinizione geografica”. Si è lavorato per persone giunte da Libia e Tunisia, ma spesso originarie dell’Africa sub sahariana o del subcontinente indiano e ciò ha richiesto un notevole sforzo nell’attivare contatti con le rappresentanze consolari in Italia, con i vari ministeri competenti, con le Caritas nazionali presenti nei paesi di origine e di transito.

Un altro aspetto nuovo, almeno nella sua evoluzione, è stato il coinvolgimento diffuso di Caritas di diversi territori. Lo sforzo per tentare di seguire efficacemente le varie realtà diocesane ha imposto alla Caritas Italiana l’attivazione di nuovi strumenti di coordinamento, come la costituzione di gruppi di lavoro ad hoc, oltre che la formazione specifica degli operatori impegnati nell’accoglienza in emergenza. Non bisogna poi dimenticare che gli attori istituzionali sono stati diversi: dal ministero dell’interno, con le sue articolazioni territoriali, alla Protezione civile nazionale, dal ministero del lavoro alla Conferenza Stato-Regioni, passando per l’ANCI. Un panorama vasto che ha complicato ulteriormente il quadro ma che ha permesso di attivare relazioni e in alcuni casi anche buone prassi (basti pensare al sistema delle strutture ponte per l’accoglienza dei minori stranieri non accompagnati).

L’approccio della chiesa Italiana è quello di creare l’ambiente caratterizzato da un clima di accoglienza, di fiducia e di benevolenza dove ogni ospite possa trova attenzione, affetto e rispetto della propria dignità di persona. Quello che si propone è di operare sul territorio in favore delle persone, famiglie e delle coppie interculturali, intese come fenomeno sociale “cruciale” dei nostri giorni. Rappresentare, valorizzare e tutelare questo tipo di realtà sociale è ciò in cui crede. Tra le tante attività verso i migranti si possono numerare: inclusione sociale,  e  sensibilizzazione (conoscere questo tipo di realtà permette di comprendere che la coesistenza tra “differenze“ è possibile. In tal senso, le coppie e le famiglie interculturali sono dei testimoni privilegiati), intercultura (costruire un rapporto o una famiglia con una persona di differente origine nazionale e/o religiosa rappresenta un laboratorio in cui praticare l’esperienza e la curiosità del contatto con “l’Altro“), eventi e formazione (seminari, incontri tematici, dibattiti, collaborazioni con associazioni, con comunità migranti e con entri pubblici e privati. Ascoltare per capire, agire per cambiare).

In definitiva, dunque, il bilancio è fatto di luci e ombre. Le prime, indubbiamente, ascrivibili alle tante realtà diocesane che, con la loro indefessa opera di tutela dei cittadini stranieri giunti in Italia, hanno dimostrato che la Caritas e la Chiesa sono reti capaci, in maniera innovativa e utilizzando in modo trasparente le risorse pubbliche, di fare sistema e di costruire modelli di esperienza per rispondere efficacemente a emergenze internazionali che presentano un alto grado di complessità. Come i migranti hanno cominciato a venire in Italia per mezzo di “barconi” nel 1980, gli edifici delle Chiese, (soprattutto in Sicilia, Palermo e Catania), sono diventati dormitori per le persone che non avevano nessun altro posto dove andare. Dato che è stata il primo gruppo a rispondere alle esigenze dei migranti, la Chiesa Cattolica è diventata un’autorità in materia di immigrazione in Italia. Molti stimano che la Chiesa sia responsabile per la metà del servizio per i migranti in Italia, e la Caritas Italiana sostiene di essere la principale organizzazione di lavoro in materia di immigrazione.

Le esortazioni di Papa Francesco sono sostenute da parte di più organizzazioni cattoliche e dai loro partner secolari, come parte di una visione di responsabilità fraterna. La Chiesa italiana ha avuto molte opportunità per mettere in pratica questa visione. Nel 2014 circa 160.000 migranti hanno attraversato il Mediterraneo verso l’Italia, rispetto ai 42.000 nel 2013. Gli sforzi di Papa Francesco di rifocalizzare la Chiesa sulle questioni sociali hanno coinciso con l’aumento dei migranti che intraprendono il pericoloso viaggio attraverso il Mediterraneo. Nel mese di ottobre del 2013, a pochi mesi dal suo viaggio a Lampedusa, 360 migranti sono morti quando la loro barca è naufragata al largo dell’isola. Gli ingressi non autorizzati via mare in Europa sono stati sì più di un milione durante il 2015, ma la maggior parte ovvero oltre 850mila in Grecia (contro i 40mila dell’anno precedente 2014, rotta dalla Turchia) e circa 150mila in Italia (contro i 170mila del 2014, rotta dalla Libia). Rispetto all’anno 2015 la situazione nell’anno 2016 è comunque sensibilmente cambiata. Secondo la IOM, fino al 30 giugno 2016 sono sbarcati in Italia 78.487 migranti, contro i 70.354 sbarcati nello stesso periodo del 2015. Secondo i dati dell’UNHCR, che fornisce i dati degli sbarchi mese per mese, nel solo mese di luglio sono sbarcate in Italia 17.878 persone, contro le 23.186 sbarcate nel luglio 2015. Le cifre mese per mese mostrano come nel corso del 2016 gli sbarchi di migranti siano stati più o meno pari a quelli avvenuti nello stesso periodo dell’anno scorso. Nella comparazione tra i due anni si vede che all’inizio del 2016 c’è stato un aumento, a cui ha corrisposto una diminuzione in primavera e nei mesi estivi. La chiusura della rotta balcanica, quindi, non ha prodotto, come molti temevano, un aumento dei flussi verso l’Italia. L’Italia è tornata ad essere il primo paese d’arrivo dei migranti, con numeri paragonabili a quelli dell’anno precedente.

La maggior parte dei migranti, in particolare siriani, non vogliono rimanere in Italia in quanto la sua economia depressa non fornisce abbastanza posti di lavoro sia per gli italiani che per i lasciare che i nuovi arrivati ​​ed il sistema di accoglienza dei rifugiati è sovraffollato, sotto finanziato e corrotto. A livello politico, questo significa che la Chiesa vuole vedere la normativa UE modificata per consentire ai richiedenti asilo più libertà per andare dove essi possono già avere la famiglia o una struttura di supporto.

Idealmente, le politiche di migrazione più generose, attraverso un reinsediamento dei rifugiati, avrebbero permesso loro di raggiungere l’Europa senza rischiare la vita in mare. Da segnalare che  circa 200 giovani coinvolti nella Comunità di Sant’Egidio nell’anno 2014 hanno continuato ad organizzare aiuti on-line per portare cibo, vestiti ed amore per i migranti. Le autorità si rivolgono continuamente   alla comunità Sant’Egidio per la prima assistenza agli sbarchi di migranti. Tuttavia questo fenomeno ha causando malumore e conflitti. Lo scorso autunno, infatti, sono scoppiate rivolte anti-immigrati, durate una settimana, in un quartiere occupato per gran parte da immigrati, alla periferia di Roma. Papa Francesco esortò le parrocchie a diventare luoghi di dialogo tra italiani e migranti nel suo discorso settimanale a seguito delle rivolte. Oggi possiamo dire che è grazie alle esortazioni papali che il sentimento anti-immigrati si è generalmente attenuato e ridotto.

Fonti e Bibl. essenziale

Alessio Menonna, L’immigrazione straniera in Italia: tendenze recenti e prospettive, Fact Sheet, Milano Italia, Luglio 2016, in: Fondazione ISMU – Iniziative e Studi Sulla Multi etnicità (Fonte: elaborazioni ISMU su dati UNHCR (2014-2015) e IOM (2016); Alessio Menonna, Migrazioni dall’Africa scenari per il futuro, Marzo 2015; Alessio Menonna, La presenza musulmana in Italia, Giugno 2016; Centro Studi e Ricerche IDOS, I.P.R.I.T. – Immigrazione Percorsi di Regolarità in Italia. Prospettive di collaborazione italo-marocchina, Edizioni IDOS, Roma, 2013; Curtin Philiph, The Atlantic Slave Trade: a Census, University of Wisconsin Press, Madison, 1969; Dossier Statistico Immigrazione Caritas-Migrantes 2011, Venerdì 21 Ottobre 2011, 21° Rapporto”Oltre la crisi, insieme”, Caritas Italiana – Fondazione Migrantes Caritas diocesana di Roma; Fondazione Migrantes,  Le minoranze: dinamica per la società e per la Chiesa, Roma, Quaderno di Servizio Migranti, 2010.  UNPRES, Comunicazione tra Babele e Pentecoste, Roma, UNPRES, 2006; Gambino Ferruccio, “Processi migratori internazionali e cause storico-sociali del fenomeno migratorio in Italia e nel Veneto: un compendio di problemi aperti”, Seminario tenuto a Treviso, Nov. 2011; Giorgia Papavero, Sbarchi, richiedenti asilo e presenze irregolari,Milano, Febbraio 2015; Giorgia Papavero, Minori e seconde generazioni, Aprile 2015; Giorgia Papavero, Le rimesse degli immigrati, Maggio 2015; Giorgia Papavero, I detenuti stranieri in Italia, Luglio 2015; Giorgia Papavero, Arrivi via mare in Italia e nuove rotte migratorie verso l’Europa, Novembre 2015; Giorgia Papavero, Le acquisizioni di cittadinanza italiana, Ottobre 2015; Hoerder Dirk, Cultures in Contact, Duke University Press, Durham, 2002; Lia Lombardi, Salute e benessere della popolazione immigrata in Lombardia. Crisi economica e stili di vita, Luglio 2015; Sayad Abdelmalek, La doppia assenza. Dalle illusioni dell’emigrato alle sofferenze dell’immigrato, Raffaello Cortina, Milano, 2002; Veronica Merotta, Welfare tra immigrazione e sostenibilità, Luglio 2015; Veronica Merotta, Immigration and Sustainability in Welfare Policies,  July 2015.

Sitografia

https://it.wikipedia.org/wiki/Immigrazione_in_Italia
http://www.interno.gov.it/it/notizie/line-dati-e-statistiche-sui-migranti-italia
MigraMed2013:Meeting internazionale delle Caritas del Mediterraneo 22-24 maggio 2013.
Emergenza Nord Africa e immigrazione: l’impegno della Caritas (Papa Francesco, 19 ottobre 2016).
http://appelli.amnesty.it/canali-sicuri-per-i-rifugiati/?utm_source=ads&gclid=CNTMtcv6mNACFUo6GwodDMcLQw
www.progettoculturale.it/…/2%20-%20Strutture%20pastorali.doc Pontificio Consiglio della Pastorale per i Migranti e gli Itineranti, strutture pastorali e socio-pastorali in Italia.
http://www.ismu.org/2016/07/limmigrazione-straniera-in-italia-tendenze-recenti-e-prospettive/
http://www.ilpost.it/2016/07/26/cinque-punti-migranti/

LEMMARIO




Millenarismo - vol. II


Autore: Fabio Besostri

Il termine “millennio” (da cui “millenarismo”) nasce nell’Ottocento (da un raro aggettivo di uso dotto, “millenne”, “di mille anni, che dura mille anni”, ricalcato su “decenne” e simili): è interessante notare che il contesto in cui il vocabolo viene coniato è quello del cattolicesimo liberale italiano, dove viene usato da alcune figure eminenti per congiungere insieme l’espressione della fede cristiana e il sentimento del moderno: ad esempio Vincenzo Gioberti (1801-1852) ne Il Gesuita moderno, pubblicato a Losanna nel 1847 (p. 196) afferma che «il regno temporale di Cristo sulla terra, espresso coll’allegoria del millennio, non è altroche la civiltà moderna partorita dal Cristianesimo».

Attraverso il recupero di un concetto per altro problematico (v. la voce “millenarismo” nel primo vol.) i cattolici liberali intendevano far risaltare la vocazione ed il destino dell’Italia nella particolare congiuntura storica che si era creata a metà del secolo XIX, ed insieme promuovere il ruolo che il papato avrebbe dovuto assumere, nella loro visione politica, nei confronti della nazione e dell’Europa intera. I successivi sviluppi della vicenda risorgimentale italiana e le posizioni ostili assunte da Pio IX nei confronti di quel processo storico vanificarono le attese e le speranze dei cattolici liberali, mentre le loro prospettive millenariste, private del loro afflato più propriamente cristiano, venivano curiosamente assunte da altre istanze culturali, anticlericali e quasi anche anticristiane, come suggerisce l’Inno a Satana del Carducci (che destò grande scalpore al tempo della sua pubblicazione, nel 1865), anticipando per certi versi i messianismi sottostanti alle ideologie rivoluzionarie di stampo marxista e totalitario del secolo successivo.

Nel contesto della realtà italiana, il millenarismo non scomparì però del tutto, riemergendo in maniera imprevista in un ambito completamente diverso e inatteso, privato però delle sue caratteristiche più “alte”. Fu il movimento popolare suscitato da David Lazzaretti, “il messia dell’Amiata” (1834-1878), a riprenderne in maniera confusa e per così dire “carismatica” le istanze, rievocando per breve tempo le gesta e le aspirazioni dei millenaristi medievali (v. DBI, s.v.).

Dal canto suo, la Chiesa cattolica mantenne un atteggiamento sempre piuttosto guardingo nei confronti delle diverse sfumature millenaristiche che nel corso del XIX e XX secolo sono variamente apparse sulla scena italiana e mondiale. Il Catechismo della Chiesa cattolica (nn. 675-676) del 1997 riassume i contenuti ortodossi della fede sulla seconda venuta di Cristo e sugli eventi che la precedono, mettendo in guardia i credenti da ogni messianismo di stampo materialista, riprendendo in questo le affermazioni del magistero precedente (specialmente l’enciclica Divini Redemptoris di Pio XI, 19 marzo 1937, contro il comunismo).

Il Catechismo definisce anche “falsificazione” il cosiddetto “millenarismo mitigato”, proposto dall’ex-gesuita Manuel de Lacunze y Diaz, che nel 1810 pubblicò (sotto lo pseudonimo di Juan Josafat Ben-Ezra) l’opera Venida del Mesías en gloria y majestad, proibita nel 1824 dal Sant’Uffizio. La dottrina si ripresentò nel XX secolo, e fu oggetto di una lettera della stessa “Suprema Congregazione” all’arcivescovo di Santiago del Cile pubblicata su AAS (=Acta Apostolicae Sedis) nel 1944 (cf. Denzinger-Schoenmetzer 3839), nella quale si dichiarava che tale dottrina non poteva essere insegnata con sicurezza. Il Catechismo rigetta con maggior decisione la dottrina in questione, forse anche a causa di alcune sue nuove manifestazioni in tempi molto recenti, sulla scorta dei movimenti di tipo pentecostale e di suggestioni legate alle numerose asserite apparizioni mariane di questi ultimi decenni a cavallo del nuovo millennio, verso le quali sembra esserci una acuta sensibilità anche in Italia (che di alcuni fenomeni è stata anche teatro).

A questo proposito, vale la pena di ricordare come nel periodo immediatamente precedente l’inizio del nuovo millennio, il Magistero ecclesiale, e soprattutto Giovanni Paolo II si siano costantemente preoccupati di purificare da ogni falsa attesa l’appuntamento: si vedano, ad esempio, le meditazioni che accompagnano l’Angelus di domenica 6 settembre 1998, quando il papa ha ricordato che un mistero d’amore avvolge l’uomo e il creato; per cui non servono oroscopi e previsione magiche, ma piuttosto la preghiera. E in un’omelia nel febbraio 1997, soffermandosi sul passo biblico relativo al diluvio universale e all’alleanza stabilita con Noè (Genesi 6,5 – 9,17) ha affermato: «Nel corso delle epoche della storia gli uomini hanno continuato a commettere peccati, forse persino maggiori di quelli descritti prima del diluvio: tuttavia dalle parole dell’alleanza stretta da Dio con Noè si comprende che ormai nessun peccato potrà portare Dio ad annientare il mondo da Lui stesso creato» (Omelia della prima domenica di Quaresima, 16 febbraio 1997).

Fonti e Bibl. essenziale

G. Bonomi, Gioberti, Brescia, La Scuola, 1948; G. Guderzo, Pietro Tamburini, (estr. da Grande Dizionario Enciclopedico), Torino, UTET, 1962; F. Bardelli, David Lazzaretti, Siena, Cantagalli, 1978; I. Garlaschi, Vita cristiana e rigorismo morale: studio storico-teologico su Pietro Tamburini (1737-1827), “Pubblicazioni del Pontificio seminario lombardo in Roma”, 24, Brescia, Morcelliana, 1984; P. Apolito, Il cielo in terra : costruzioni simboliche di un’apparizione mariana, Bologna, Il Mulino, 1992; V. De Cesari, Pro Judaeis: il filogiudaismo cattolico in Italia (1789-1938), Milano, Guerini, 2006.


LEMMARIO