Associazione Italiana dei Professori di Storia della Chiesa

Dizionario Storico Tematico La Chiesa in Italia
Dopo l'Unità Nazionale
Roma 2015
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Ambiente - vol. II


Autore: Simone Morandini

Scrivere della Chiesa italiana in relazione all’ambiente significa concentrarsi soprattutto sugli ultimi decenni, in cui giungono a maturazione alcuni elementi ricchi di significato già presenti in fasi precedenti. Ci si riferisce qui a quel secolare rapporto con la terra intrattenuto da molte comunità rurali, che dal 1950 aveva trovato espressione nella Giornata del Ringraziamento del 19 novembre; a quella relazione con l’ambiente boschivo che ha storicamente caratterizzato molte comunità religiose (basti citare il Monastero di Camaldoli); a quella radicata tradizione francescana, giustamente valorizzata dal Giovanni Paolo II nel 1979, con la proclamazione di Francesco d’Assisi a “patrono dei cultori dell’ecologia”.

È, però, negli anni ’80 che si fa strada in Italia una tematizzazione teologica della questione ambientale, soprattutto a partire da quella recezione critica di alcuni autori di area tedesca – J. Moltmann e, sul versante etico-teologico, B.Haering ed A. Auer – che è stata realizzata da diversi teologi moralisti e nell’Associazione Teologica Italiana (ATI). Spunti importanti vengono in quegli anni dal ricco Magistero di Giovanni Paolo II, che al rapporto tra uomo e creato dedica, tra l’altro, il Messaggio per la Giornata Mondiale della Pace 1990 Pace con Dio Creatore, pace con tutto il creato, come da quel processo ecumenico su Giustizia, pace e salvaguardia del creato, che culminerà nella I Assemblea Ecumenica Europea (I AEE, Basilea, 1989) e nella Convocazione Ecumenica Mondiale di Seul (1990). In tale contesto si colloca anche la Lettera Pastorale dei vescovi della Lombardia del 1988 su La questione ambientale, che ne coglie la fondamentale dimensione etica e religiosa.

Il testo resta abbastanza isolato per diversi anni: lo stimolo decisivo per il passaggio ad un’assunzione del tema a livello nazionale verrà solo nel 1997 dalla II AEE di Graz, che, nel raccomandare un impegno più attivo dei cristiani europei a protezione dell’ambiente, auspicherà la formazione di strutture e reti di cristiani impegnati in tal senso. La Conferenza delle Chiese Europee (KEK, che raccoglie il mondo ortodosso e protestante) sosterrà quindi l’ECEN (European Christian Environmental Network), cui si collegherà anche l’azione per l’ambiente del protestantesimo italiano. Per la parte cattolica, invece, il Consiglio delle Conferenze Episcopali Europee (CCEE) promuoverà l’attivazione delle realtà ecclesiali nazionali, con la convocazione tra il 1999 e il 2004 di sei incontri per i delegati per l’ambiente delle varie Conferenze Episcopali.

La CEI – come le altre CE europee – si vede così chiamata a individuare figure che sappiano rispondere a tale invito, ma soprattutto avviare una pastorale del creato, fino ad allora praticamente inesistente a livello nazionale. Il compito è affidato all’Ufficio Nazionale per i Problemi Sociali ed il Lavoro che, a partire dal 1999, avvia un gruppo sulla Responsabilità per il Creato, supportato anche dal Servizio Nazionale per il Progetto Culturale. A condurlo il direttore dello stesso Ufficio, mons. M. Operti, quindi dal 2000 mons. P. Tarchi, dal 2008 mons. A. Casile, cui si deve l’attuale denominazione “Custodia del creato”, dal 2013 mon.F.Longoni. Tra i soggetti coinvolti, da segnalare il fondamentale contributo di mons K. Golser (poi presidente dell’Associazione Teologica per lo Studio della Morale (ATISM) e quindi vescovo di Bolzano-Bressanone), ma anche il ruolo della Fondazione Lanza di Padova (Centro Studi in Etica), che già nel 1988 aveva avviato un progetto su “Etica e Politiche Ambientali”, affidato dal 1995 a M. Mascia.

Alla stessa Fondazione è affidata la costituzione e l’aggiornamento di un Database on-line di documenti ecclesiali (cattolici, di altre confessioni e del movimento ecumenico) sulla teologia della creazione e la salvaguardia del creato, che troverà spazio nel sito del Progetto Culturale. Per sensibilizzare la comunità ecclesiale italiana, poi, il gruppo opererà tramite Convegni e Giornate di Studio e con la pubblicazione di sussidi e materiali. Un particolare rilievo, in tal senso, avrà il volume Responsabilità per il creato. Un sussidio per le comunità del 2002, cui farà seguito nel 2005 Per il futuro della nostra terra. Prendersi cura della creazione. Dalla collaborazione con il Servizio Nazionale per l’Insegnamento della Religione Cattolica nascono poi nello stesso anno quattro fascicoli per una didattica della responsabilità per il creato nei vari ordini di scuola.

È in tale contesto che si colloca la forte attenzione per la dimensione ecologica che caratterizza nel 2005 la Nota pastorale della Commissione Episcopale della CEI per i Problemi Sociali Frutto della terra e del lavoro dell’uomo, sui cambiamenti del mondo rurale. Anche Caritas Italiana – tramite l’Ufficio Emergenze Ambientali – avvia un’attenzione per il tema, che trova espressione in una varietà di progetti, come nei quattro volumetti del 2005. Ma sono pure parecchie le Associazioni cattoliche (si pensi alle ACLI o a Coldiretti) che in questi anni inseriscono o potenziano la dimensione ambientale della loro azione.

Un deciso salto di qualità per la Chiesa italiana si ha, però, nel 2006 quando la Conferenza Episcopale accoglie la proposta – inizialmente formulata nel 1989 dal Patriarca Ecumenico Dimitrios I di Costantinopoli e poi ripresa nel 1997 dalla II AEE – di celebrare annualmente anche in Italia la Giornata del Creato, affiancandosi a quanto già facevano diverse comunità evangeliche. La data è il 1 settembre (ecumenicamente significativa: inizio dell’anno liturgico ortodosso), ma con l’indicazione pastorale di una disseminazione dei relativi eventi sull’intero mese. L’attenzione per l’iniziativa, dapprima limitata a poche diocesi, si diffonde sull’intero territorio nazionale, assumendo spesso una connotazione ecumenica e dando luogo a momenti dalla forte portata simbolica (si pensi a quelli realizzati dalle quattro diocesi dolomitiche di Como, Belluno, Bolzano-Bressanone e Trento). Tale ricchezza trova alimento nei numerosi spunti del magistero di Benedetto XVI (si pensi ai nn. 48-51 di Caritas in Veritate e al Messaggio per la Giornata Mondiale della Pace 2010 Se vuoi coltivare la Pace, custodisci il Creato) e successivamente di Francesco, così come nel Messaggio pubblicato annualmente per la stessa Giornata a firma del presidente della Commissione Episcopale per la Giustizia e la Pace e di quello della Commissione per l’Ecumenismo e il Dialogo (inizialmente mons. A. Miglio e mons. V. Paglia, cui succedono mons. G. Bregantini e mons. M. Bianchi). Se nel 2006 esso delinea un orizzonte generale (“Dio pose l’uomo nel giardino di Eden, perché lo coltivasse e lo custodisse (Gn 2,15”), i successivi testi mediteranno specifici temi ambientali (acqua, terra, rifiuti, clima…). Espressione della stessa accresciuta percezione della responsabilità ecclesiale per la terra è pure la Rete Interdiocesana Nuovi Stili di Vita, sorta nel 2007 dall’incontro tra alcuni uffici di diocesi del Nord-Est impegnati nella formazione a stili di vita sobri e sostenibili. L’interesse del tema la estendono a coinvolgere decine di realtà (Caritas diocesane, Uffici Missionari, Uffici PSL…) sull’intero territorio nazionale: oltre quaranta nel 2011 le diocesi coinvolte nel nella Campagna “Acqua, dono di Dio e bene comune”.

Tale crescente sensibilità pastorale viene supportata, poi, a partire dal 2009 dal lavoro di approfondimento teologico realizzato nei seminari promossi da UNPSL e SNPC in collaborazione con ATI e ATISM e coordinati da S. Morandini. Alcuni primi frutti di tale ricerca nel volume Custodire il creato. Teologia, etica e pastorale del 2013.

L’attenzione per la custodia del creato resta ancora, comunque, in Italia un dato recente, anche rispetto ad altre Chiese europee e non stupisce che essa si esprima soprattutto in indicazioni per il rinnovamento teologico e per la formazione a stili di vita più sobri. Ancora parziale, invece, la loro integrazione nei percorsi di formazione ecclesiale, mentre appena incipiente – limitato a singole diocesi o comunità religiose – è il passaggio ad un’azione più strutturale, capace di tradursi, ad esempio, in una gestione sostenibile dei beni ecclesiastici. Quell’amore per la terra che si radica nella fede nel Creatore attende ancora di esprimersi appieno in pensieri ed in pratiche efficaci di cura del creato.

 Fonti e Bibl. essenziale

 J. Moltmann, Dio nella creazione. Dottrina ecologica della creazione, Queriniana, Brescia 1986 (ed. or. ted. 1985); A. Auer, Etica dell’ambiente, Queriniana, Brescia 1988 (ed. or. ted. 1984); B. Haering, Ecologia ed etica, in Id., Liberi e fedeli in Cristo. Teologia morale per preti e laici, Vol. III Voi siete la luce del mondo, Paoline, Roma 1981, 216-263 (ed. or. ted. 1981); A. Autiero, Essere nel mondo. Ecologia del bisogno, in T. Goffi, G. Piana (edd.), Corso di Morale, Volume II, Diakonia, Etica della persona, Queriniana, Brescia 1983, 97-124; Conferenza Episcopale Lombarda, La questione ambientale, aspetti etico-religiosi, Centro ambrosiano di documentazione e Studi religiosi, Milano, 1988; P. Giannoni (ed.), La creazione. Oltre l’antropocentrismo?, Messaggero, Padova 1993; G. Colzani (ed.), Creazione e male del cosmo. Scandalo per l’uomo e sfida per il credente, Messaggero, Padova 1995; Ufficio Nazionale per i Problemi Sociali e il Lavoro della CEI, Servizio Nazionale per il Progetto Culturale della CEI (a cura), Responsabilità per il creato. Un sussidio per le comunità, Elledici, Leumann 2002; Idd. (a cura), Per il futuro della nostra terra. Prendersi cura della creazione, Gregoriana, Padova 2005; A. Giordano, S. Morandini, P. Tarchi (edd.), La creazione in dono. Giovanni Paolo II e l’ambiente, EMI, Bologna 2005; N. Doro (a cura), Responsabili per il creato, Elledici – Capitello, Torino 2005 (4 voll.); Commissione Episcopale della CEI per i Problemi Sociali, «Frutto della terra e del lavoro dell’uomo». Mondo rurale che cambia e Chiesa in Italia, 19 marzo 2005; Caritas Italiana, La riflessione e il confronto, Il percorso, I progetti, Strumenti per l’animazione e la preghiera, Roma 2005; S. Numico, M. Vogt (edd.), Salvaguardia del creato e sviluppo sostenibile: orizzonti per le chiese in Europa, Gregoriana, Padova 2007; Consiglio delle Conferenze Episcopali Europee, Responsabilità per il creato in Europa. L’impegno delle Conferenze Episcopali, a cura della Fondazione Lanza, Euganea, Padova 2007; Ufficio Nazionale per i Problemi Sociali e il Lavoro della CEI, Servizio Nazionale per il Progetto Culturale della CEI (a cura di), Custodire il creato. Teologia, etica e pastorale, EDB, Bologna 2013. Alcuni siti: sull’azione della CEI la sezione “Custodia del Creato” all’indirizzo www.chiesacattolica.it/lavoro ed il database tematico di documenti ecclesiali all’indirizzo www.progettoculturale.it, Sezione Collaborazioni. Sulla Rete Interdioscesana Nuovi Stili di Vita: http://reteinterdiocesana.wordpress.com/; sull’ECEN: http://www.ecen.org; sulla Commissione Globalizzazione ed Ambiente (GLAM) della Federazione delle Chiese Evangeliche Italiane (FGEI): http://www.fedevangelica.it/comm/glam0.php.


LEMMARIO




Anticlericalismo - vol. II


Autore: Belluomini Flavio

 

Il termine “anticlericalismo” è espressione di un fenomeno tipico dell’epoca contemporanea. Infatti, se attività anticlericali – cioè un agire contro clero – precedono questa epoca, esse non devono essere confuse con l’anticlericalismo che si sviluppa nel contesto dello Stato laico.

Analizzare le circostanze in cui sorge la parola “anticlericalismo” permette di comprendere le caratteristiche di quella realtà, sviluppatasi nel XIX secolo, di cui il lemma è espressione. Nel 1848, in Francia, i sostenitori della repubblica cominciarono ad usare l’aggettivo “clericale”, che fino ad allora designava chi apparteneva al clero distinguendolo dal laico, per indicare chi sosteneva la monarchia confessionale. L’aggettivo “clericale” fu sostantivato intorno agli anni ’60, facendo sì che il suo uso influisse sulla parola “laico” che, dal significare chi non era chierico, iniziò ad indicare chi assumeva un atteggiamento di autonomia dalla Chiesa o addirittura di ostilità verso di essa. Le parole “clericale” e “laico” subirono così un mutamento semantico, ricevendo una connotazione politica. In tale contesto, l’anticlericale era colui che, in contrapposizione al clericale, difendeva in modo deciso e polemico lo Stato laico. I termini “clericalismo” e “anticlericalismo” iniziarono ad esistere verso la fine degli anni ’60, indicando nella forma astratta la suddetta dimensione politico-polemica, nel contesto del II Impero francese.

La parola “clericale” fu utilizzata in Italia col suddetto significato nel Piemonte preunitario. Dal 1860 e nel successivo quindicennio, ossia nei primi anni del Regno d’Italia, troviamo il suo impiego nell’ambito politico. Su questa scia di progressivo utilizzo politico del termine “clericale”, lentamente si sarebbero affermati i termini “anticlericale” e la forma astratta “anticlericalismo”, già in uso in Francia.

Da quanto detto, ci accorgiamo che il lemma esprime la lotta per la laicità dello Stato che, sulla base dei principi della Rivoluzione francese, rivendicava la sua aconfessionalità e il conseguente separatismo. L’anticlericalismo, durante la storia del nostro paese, si espresse con idee, atteggiamenti e scelte giuridiche ostili alla Chiesa gerarchica e ai suoi tentativi d’influire sullo Stato, giungendo, in certi casi, a voler eliminare lo stesso sentimento religioso. Tale avversità dall’ambito politico si sarebbe riverberata in quello sociale, col sottrarre alla Chiesa servizi di utilità pubblica e culturale, volendo creare una mentalità laica. Il lemma quindi contiene in sé un atteggiamento di scontro con tutto quello che, in modo reale o presunto, è ritenuto il nemico principale dello Stato laico e cioè il clericalismo.

Vista la complessità e trasversalità dell’anticlericalismo è necessario prendere in considerazione alcuni esempi del suo esprimersi nella storia italiana.

Nei primi anni dell’Italia unita, i rapporti della classe dirigente con la Chiesa furono dominati dalla “questione romana”. La politica del governo italiano, pur prevedendo il separatismo, cercò di mantenere una linea conciliatorista, ritenuta utile anche per lo Stato. In questi primi anni solo una minoranza propose leggi decisamente ostili alla Chiesa, come quella di una costituzione civile del clero, presentata il 27 gennaio 1864, che però non fu nemmeno ammessa alla lettura nella Camera dei deputati. Dello spirito di questo periodo sono espressione scritti polemici contro la gerarchia cattolica, come Il Papato, l’Impero e il Regno d’Italia di Francesco Liverani e periodici del taglio dell’Emancipatore cattolico che insistono sulla rinuncia al potere temporale e ai privilegi ecclesiastici, presentati per altro come motivo di impedimento per una reformatio Ecclesiae. È un anticlericalismo religioso che rivendica la libertà di azione dello Stato, ma ammette la religione e non nega il suo influsso benefico sulla società. Da questo si distingue un anticlericalismo minoritario di ispirazione razionalistica, legato a Giuseppe Ferrari e Ausonio Franchi, che però darà i suoi frutti successivamente, quando le sue proposte confluiranno nelle società dei liberi pensatori.

La situazione sarebbe però peggiorata per motivi dottrinali e politici. L’8 dicembre 1864 l’emanazione del Sillabo da parte di Pio IX riaffermò il valore e la necessità del potere temporale, il rifiuto del separatismo e la netta negazione della libertà di coscienza. Di fronte a tale atto magisteriale si registrò un irrigidimento dei liberali e alcuni cattolici moderati si spostarono verso il liberalismo. La guerra del 1866, pur comportando per l’Italia l’annessione del Veneto, rivelò la debolezza del giovane Stato italiano. Il bisogno di consolidamento interno e il timore di un clero reazionario condussero il governo ad azioni più determinate. Un esempio di tale irrigidimento è offerto dalla legge del 17 maggio 1866, sul domicilio coatto, applicata con durezza negli anni successivi nei confronti dei cattolici e del clero, quando questi erano ritenuti presunti sostenitori dei regimi preunitari.

Un contributo allo spirito anticlericale lo dette la massoneria che, con il Grande Oriente d’Italia costituitosi nel 1859, riuscì a stabilire un coordinamento tra i vari gruppi della penisola. Alla massoneria aderirono uomini di cultura e uomini politici. Questo fece sì che i massoni incidessero nella vita politica italiana, contribuendo alla nascita di associazioni anticlericali e influenzando la formulazione di leggi avverse alla Chiesa.

A metà degli anni ’60, nella classe borghese, si diffuse una mentalità razionalistica, grazie a gruppi, iniziative e periodici. Tra questi ultimi, Il Libero pensiero e Il Libero pensatore, pur esprimendo posizioni spesso alternative al governo, avevano nel loro programma la lotta alla religione e alla Chiesa, ritenute nemiche della ragione. In questo caso un anticlericalismo di matrice razionalistica propugnava un’avversione ad ogni religione rivelata, conducendo ad una visione nettamente atea. Questa non toccava solo la sfera politica, ma si estendeva anche a quella culturale, presentando la religione come un male in sé da debellare come tale.

Nel decennio che va dal 1866 al 1876 – il periodo della Destra storica – si manifestò un sentimento anticlericale che venne a formularsi nella durezza delle leggi. Il 7 luglio 1866 furono soppressi gli ordini religiosi e il 15 agosto 1867 si procedette all’incameramento dei beni ecclesiastici. Nel 1869 fu stabilito che gli ecclesiastici partecipassero alla leva militare, successivamente, nel 1873, vennero abolite le facoltà di teologia delle università statali.

Lo scontro tra il papato sostenuto dai clericali, da una parte, e il governo e gli anticlericali, dall’altra, fu alto e non venne a mutare con la celebrazione del Concilio Vaticano I. Nel concilio, iniziato l’8 dicembre 1869, fu ribadita la posizione del Sillabo di fronte alla società moderna e riaffermato l’assolutismo papale, fino a giungere alla proclamazione dell’infallibilità pontificia. Oltre a manifestare contro gli ecclesiastici che si recavano al concilio, le varie forze anticlericali, tra cui le società di libero pensiero, organizzarono un anti-concilio a Napoli con l’intento di celebrare la ragione e la libertà. Il Vaticano I si interruppe per la presa di Roma da parte dell’esercito italiano il 20 settembre 1870. La fine dello Stato Pontificio per l’opera delle truppe del Regno d’Italia – dichiarato dal papa «illegittimo e usurpatore» – approfondì il solco tra i cattolici e liberali. La frattura venne ad aumentare con il non expedit del 1874 che proibiva la partecipazione dei cattolici alla vita politica del nuovo Stato italiano.

L’anticlericalismo avrebbe continuato ad intervenire nella compagine del governo dopo l’avvento al potere della Sinistra Storica nel 1876. Alla formulazione di alcune leggi che risentivano dello spirito anticlericale, si aggiunsero manifestazioni esteriori con la partecipazione o il tacito assenso di esponenti del governo.

Riguardo alla legislazione del periodo della Sinistra, sono da evidenziare la legge Coppino sulla scuola e la legge sulle opere pie. La prima del 1877 stabiliva obbligatorietà e gratuità della scuola, ma interveniva anche abolendo la figura del padre spirituale e proponendo l’insegnamento di una morale laica. L’insegnamento religioso, a cui la legge non faceva cenno, era implicitamente soppresso nelle scuole secondarie, mentre nelle primarie restava facoltativo. Questa situazione creò confusione nell’applicazione della legge, dando occasione di contrasti tra clericali e anticlericali. La laicizzazione delle opere pie nel 1890 sottrasse alla Chiesa un ulteriore ambito di intervento aumentando i dissapori. Ad allargare la tensione si aggiungeva l’azione delle logge massoniche per sobillare l’opinione pubblica e ottenere la possibilità della legalizzazione del divorzio che però trovò un freno nell’Opera dei Congressi e nel sentimento del popolo ancora legato alla visione cattolica della famiglia.

Manifestazioni anticlericali potevano avvenire in occasione di feste religiose in modo pesante e blasfemo. Emblematico fu nel luglio 1881, l’attacco da parte di gruppi anticlericali alle spoglie mortali di Pio IX che dalla basilica vaticana veniva traslato, per espressa volontà del pontefice defunto, al Verano.

L’immagine plastica dell’anticlericalismo anticattolico e antipapale di codesto periodo è il monumento a Giordano Bruno, ideato dal Gran Maestro della massoneria ed eretto il l9 giugno 1889 a Roma, a Campo dei Fiori. Sventolando due bandiere con l’effige del demonio, cantando inni a Garibaldi, l’inno di Mameli e la Marsigliese, in sprezzo al pontefice e alla religione ritenuta nemica della libertà e del progresso, veniva esaltato il nome di Crispi che guidava il governo. Proprio sotto il governo di Francesco Crispi nel venticinquesimo anniversario della “breccia di Porta Pia”, su richiesta di movimenti laico-massonici, il 20 settembre divenne festa nazionale.

L’attività degli anticlericali, anche grazie al coinvolgimento della classe dirigente, pareva aver raggiunto il suo apice. L’affermarsi del socialismo, che in Italia divenne partito politico nel 1892, poneva però sulla scena un nuovo soggetto che avrebbe ridimensionato il vecchio anticlericalismo politico e ne avrebbe fatto sorgere un altro non meno incisivo.

Tramite i propri giornali, L’Avanti e Critica sociale, i socialisti offrivano proposte sociali a vantaggio dei lavoratori e criticavano la classe dirigente. Gli uomini di Stato erano contestati perché ritenuti responsabili della tragica situazione del proletariato. Il timore che scaturiva da tali critiche portò i liberali a prendere in seria considerazione l’avanzata socialista e a modificare il loro atteggiamento nei confronti della Chiesa e del Vaticano. L’irruzione sulla scena politica del socialismo attenuò l’anticlericalismo dei liberali. Ma anche il socialismo era pervaso da idee anticlericali e, in questo caso, esse erano di impianto decisamente ateo. Critica sociale sosteneva che la religione doveva essere considerata come un fatto privato. La religione e la Chiesa non dovevano incidere sulla società e avrebbero trovato la loro conclusione naturale grazie al progresso, alla scienza e alla nuova condizione economico sociale dei lavoratori. La Chiesa poi era presentata come alleata dei ricchi e il messaggio cristiano, basato sulla speranza ultraterrena, era mostrato come un mezzo della classe privilegiata per mantenere i poveri in stato di soggezione. Da tale visione ne derivava il disprezzo per la religione cristiana in sé e un’accesa critica alle iniziative sociali dei cattolici. La critica dei socialisti si rendeva particolarmente aspra nei confronti del magistero papale e l’enciclica sociale Rerum Novarum, promulgata da Leone XIII nel 1891, fu presentata come una concessione di qualche diritto al lavoratore nel vecchio stile paternalistico. La stampa socialista contribuì sicuramente a far entrare l’anticlericalismo nella sfera della vita quotidiana dei militanti socialisti e quindi anche della classe bassa della società. Accanto all’impegno a vantaggio del mondo del lavoro, la scuola laica diventava uno degli obiettivi del socialismo. Essa doveva essere liberata dall’influsso della Chiesa e da ogni dogmatismo.

Come abbiamo visto, il socialismo, percepito come un nemico comune, contribuì a promuovere un processo di ravvicinamento tra liberali e cattolici. In conseguenza, questi ultimi ripresero ad essere presenti sulla scena politica. L’enciclica Il fermo proposito, emanata da papa Pio X nel 1904, permetteva infatti delle eccezioni al non expedit e il “patto Gentiloni” del 1913 portava un’attiva presenza dei cattolici in parlamento. Quello però che avrebbe condotto a un più concreto riavvicinamento fu lo scoppio della prima guerra mondiale. Le avversità del periodo bellico dettero motivo al popolo italiano di unirsi, venendo a rafforzare l’ideale di patria anche in ambito cattolico. Il sostegno morale verso i soldati al fronte e verso le loro famiglie da parte del clero durante il periodo bellico e la dichiarazione di Benedetto XV sull’«inutile strage» posero la Chiesa e il papato in un legame più stretto con la nazione e ne fecero crescere il prestigio a livello internazionale.

Dopo la Grande Guerra, il sentimento anticlericale, pur presentandosi nelle componenti tradizionali del socialismo e manifestandosi nei Fasci di Combattimento e nei Futuristi che avevano sostenuto dal 1918 la legge sul divorzio e la piena laicizzazione della scuola, non riuscì a prevalere. Il timore di una propagazione a Occidente del comunismo fece percepire la Chiesa come garante dei valori tradizionali e della coesione sociale, portando l’anticlericalismo a ridursi. A questa distensione contribuì, a partire dal 1919, l’azione del Partito Popolare che, pur muovendosi nel solco della dottrina della Chiesa, si presentava svincolato da una visione confessionale, facendo della vita nazionale il centro della sua azione. La mancanza di coesione interna nel Partito Popolare, oltre alla proibizione che questo ricevette dal Vaticano di allearsi con i socialisti, fece sì che il partito non reggesse il confronto col fascismo che in quegli anni si stava affermando. Si aprì così la strada al regime totalitario e in esso si giunse ai Patti Lateranensi del 1929 che permisero la conciliazione tra il Regno d’Italia e la Santa Sede. La suddetta conciliazione non segnò comunque la fine dell’anticlericalismo che si espresse nel movimento fascista in modo più o meno esplicito. Già dopo la firma dei Patti Lateranensi, Benito Mussolini, nei discorsi fatti alle camere, sostenne che la Chiesa aveva libertà perché offertale dallo Stato. La visione fascista prevedeva un monopolio sulle coscienze che partiva dall’educazione nelle scuole e nelle associazioni giovanili. Nel 1931 il duce stabilì lo scioglimento e la perquisizione delle associazioni giovanili cattoliche, cui fece eco l’accesa protesta di Pio XI con l’enciclica Non abbiamo bisogno. In essa il pontefice denunciava le pretese totalitarie dello stato fascista, ribadendo i diritti naturali della famiglia e quelli soprannaturali della Chiesa nell’educazione.

In questo clima di una riconciliazione piena di contrasti, si giunse alla II guerra mondiale. Durante la guerra, la Chiesa e il papa dettero prova di vicinanza nei confronti del popolo italiano, soprattutto nel periodo che seguì il 25 luglio 1943. Il Vaticano non riconobbe la Repubblica di Salò e molti cattolici, tra cui esponenti del clero, parteciparono alla liberazione d’Italia. Alla fine della guerra, le critiche rivolte al Vaticano in relazione al legame con il fascismo, riferite soprattutto ai Patti Lateranensi, non trovarono un ampio terreno. Tra cattolici e laici si stabilì invece un rapporto che avrebbe posto le basi per superare la vecchia visione anticlericale e per costruire l’Italia del dopoguerra. Se nell’Ottocento e nei primi del Novecento i cattolici erano percepiti come l’ostacolo per la tenuta dell’unità italiana, ora, vista la loro maggioranza in parlamento, essi erano i protagonisti dell’Italia che stava rinascendo dopo il lungo periodo bellico. Il voto sull’art. 7 della Costituzione, cui aderì anche il PCI, sancì la sconfitta degli anticlericali e ne evidenziò la marginalità. Proprio questa situazione di forte presenza dei cattolici in parlamento portava però alcuni gruppi politici a riprendere le armi dell’anticlericalismo per il timore delle interferenze vaticane, soprattutto tramite la DC, nella costruzione dell’Italia, ormai divenuta una repubblica. Le forze anticlericali si espressero attraverso periodici come Don Basilio, Il Mercante e Il Pollo. Quest’ultimo vide il direttore socialista Ruggero Maccari condannato a due anni di carcere per offesa alla religione e al clero e per pubblicazioni ritenute oscene. Tali giornali furono interpreti e, nello stesso tempo, fomentatori di un anticlericalismo che, tra il 1946 e il 1947, si manifestò anche con la nascita di circoli ed associazioni. Le pubblicazioni anticlericali, come quelle altrettanto pungenti della parte clericale – tra cui il giornale satirico Il Rabarbaro – contribuirono all’affermarsi di opinioni differenti sulla vita politica e sociale nella nuova realtà democratica.

Forti polemiche anticlericali si riaccesero poi quando la Chiesa, con un decreto del Sant’Uffizio del 1949, condannò con la scomunica l’ideologia comunista e chiunque votasse candidati comunisti o sostenesse il PCI. Anche in questo caso si contestò l’ingerenza vaticana, visto che, stando al decreto, solo i partiti e candidati che garantivano la difesa della Chiesa e il suo insegnamento nella sfera privata e pubblica potevano essere votati.

A partire dal 1949, il settimanale Il Mondo, che vedeva tra i fondatori e primo direttore Mario Pannunzio, spingeva per un avvicinamento dell’Italia alle democrazie più evolute, biasimando contemporaneamente l’incidenza clericale e il totalitarismo comunista. La Chiesa era presentata come una delle principali cause dell’arretratezza in cui si trovava l’Italia. Il Mondo insieme a L’Espresso, divennero veicolo per la sensibilizzazione dell’opinione pubblica per una cultura laica. Ai periodici si aggiunsero alcune iniziative, come i convegni degli Amici de Il Mondo. Nel giugno 1950, su Il Ponte, Piero Calamandrei parlò di «Repubblica pontificia», denunciando l’ingerenza clericale del Vaticano nelle scelte politiche tramite la DC.

La nascita del Partito Radicale segnò un’ulteriore tappa. Con le proposte di Ernesto Rossi, il partito fece dell’anticlericalismo una delle realtà principali della sua azione negli anni a cavallo tra i Cinquanta e i Sessanta. Rossi scrisse sui suddetti giornali d’ispirazione laica e promosse la pubblicazione della collana Stato e Chiesa, di cui uscirono quindici volumi negli anni 1957-1962. Dopo la crisi interna del 1962, il Partito Radicale vide come figura di riferimento Marco Pannella che mirò a promuovere le riforme laiche che non erano state possibili, né nell’Italia liberale, né nel periodo repubblicano.

Negli anni tra il 1962 e 1965, la Chiesa cattolica celebrò il Concilio Vaticano II. L’assemblea ecumenica assunse un atteggiamento di dialogo con il mondo, facendo emergere la necessità di una inculturazione del dato rivelato nella contemporaneità. I temi della partecipazione attiva dei fedeli al culto e alla vita della Chiesa e della libertà religiosa avrebbero influito sulla Chiesa e sul suo porsi in rapporto con il mondo moderno, disarmando alcune frange dell’anticlericalismo. Dai documenti conciliari emergeva una Chiesa intesa come «mistero» e come «popolo di Dio», modificando l’impostazione bellarminiana di Ecclesia societas perfecta, intesa come alternativa allo Stato, giunta fino al codice di diritto canonico del 1917. Per inciso, è opportuno notare che nei documenti conciliari si usarono i sostantivi laico e chierico, come pure l’aggettivo clericale nella forma originaria. Ne deriva che l’insistenza nella Chiesa postconciliare, fino ai nostri giorni, sul protagonismo dei laici e sulla necessità di una Chiesa meno clericale non ha a che fare con l’anticlericalismo: in questo caso si può piuttosto parlare di declericalizzazione, cioè di un fatto interno alla Chiesa stessa.

Quello che restava come motivo di scontro e di cui si fecero interpreti soprattutto i Radicali erano i temi inerenti alla famiglia, alla biogenetica, alla scuola. Questi, ancora una volta, chiamavano in causa la rivendicazione della laicità dello Stato di fronte alla Chiesa che desiderava continuare ad incidere sulle coscienze e in certi casi sulle stesse istituzioni per sostenere la sua dottrina.

Insieme ad alcuni socialisti, nel 1965, il partito radicale promosse la Lega italiana per il divorzio e, nel 1967, proclamando l’«anno anticlericale», ribadì il fatto che la battaglia per la laicizzazione dello Stato era sempre in corso. Non erano comunque solo le forze anticlericali che si adoperavano perché passasse la legge sul divorzio. Ormai anche i cattolici avevano maturato una mentalità che li portava a pensare ad uno Stato laico e quindi accogliente di una pluralità di pensiero. Nel dicembre 1970, l’approvazione della legge Fortuna introdusse il divorzio nell’ordinamento giuridico italiano, confermato quattro anni dopo dal referendum popolare. L’offensiva dei Radicali per la laicità dello Stato si mosse anche con il desiderio di abrogare il Concordato, attraverso la proposta, nel 1969, di un referendum popolare, fino alla costituzione, nel febbraio 1971, della Lega italiana per l’abrogazione del Concordato. La legge sull’interruzione volontaria di gravidanza del 1978 vide la Chiesa impegnata nel sostenere il referendum abrogativo. La legge venne confermata nel 1981.

Negli anni a seguire, l’anticlericalismo avrebbe continuato a manifestarsi in modo trasversale a realtà politiche o culturali con la denuncia dell’invadenza vera o presunta della Chiesa nella politica e nella società civile. Quello però che caratterizzerà la situazione italiana negli anni seguenti sarà una crescente indifferenza al dato religioso più che un anticlericalismo. A livello istituzionale, i rapporti tra lo Stato italiano e la Santa Sede sono stati ridefiniti con il concordato del 1983, criticato dai Radicali come ripresentazione aggiornata di quello del 1929, e proseguono tutt’ora senza evidenti difficoltà.

L’anticlericalismo ha perso vitalità anche perché la laicità dello Stato è ormai parte della vita dei cattolici italiani ed è accolta dalla Chiesa gerarchica. In alcune occasioni però si sono presentati casi di manifestazioni anticlericali, come la protesta contro la Lectio magistralis di Benedetto XVI nel 2008 all’università la Sapienza di Roma, che costrinse il papa a rinunciare all’invito fattogli dal rettore dell’ateneo romano. In un articolo di La Civiltà Cattolica del 2008, col titolo È inevitabile per un laico essere anticlericale?, Giandomenico Mucci, di fronte al perdurare di un atteggiamento anticlericale nella stampa, fa osservare come, da parte della Chiesa, l’intenzione di incidere nel contesto attuale non passi più attraverso una costrizione legale o sociale, ma attraverso l’illuminazione delle coscienze. Per questo egli ritiene l’anticlericalismo anacronistico e pretestuoso, intollerante verso il sentimento religioso stesso.

L’anticlericalismo e, del resto, il clericalismo, come abbiamo visto, si presentano in modi diversi e in situazioni anche opposte. Lo scontro tra le due realtà ideologiche è ciò che ne permette la reciproca esistenza.

Di fatto se si vuole conoscere la storia dell’Italia unita è necessario approfondire questo scontro ideologico nei suoi passaggi, visto che lo stesso ha inciso sull’esistenza del nostro paese. Non si può comunque sostenere che tale scontro sia finito. Ormai la Chiesa e lo Stato hanno risolto ampiamente problemi territoriali e sono concordi nella collaborazione sulle questioni sociali. Il problema però resta ancora quando vengono affrontati temi che riguardano la bioetica, la sessualità, la famiglia. La Chiesa fonda il suo insegnamento sul dato rivelato e sulla legge naturale e questo sarà sempre un possibile motivo di contrasto con lo Stato laico.

Fonti e Bibl. essenziale

Bada J., Il clericalismo e l’anticlericalismo, Milano 1998; Caimi L., «Laicità», in Dizionario delle idee politiche, a cura di E. Berti – G. Campanini, Roma 1993, 419-427; Casella M., Anticlericali in Italia. 1944-1947, Bologna 2009; Conti F., Breve storia dell’anticlericalismo, in Cristiani d’Italia. Chiese, Stato e società, 1861-2011, a cura di A. Melloni, Istituto della Enciclopedia Italiana Treccani, Roma 2011, 667-683; Mangio G., «Clericalismo», in Dizionario di politica, a cura di N. Bobbio – N. Matteucci – G. Pasquino, Torino 2004, 114-115; Martina G., Storia della Chiesa da Lutero ai nostri giorni, III, L’età del liberalismo, Brescia 1995 (ristampa 2006), 311-348; Mucci G., È inevitabile per un laico essere anticlericale?, «La Civiltà Cattolica» 2 (2008), 318-324; Scoppola P., Laicismo e anticlericalismo, in Chiesa e religiosità dopo l’Unità, (1861-1878), Atti del IV convegno di storia della Chiesa. La Mendola 31 agosto-5 settembre 1971, Relazioni, II, Milano 1973, 225-274; Spadolini G., Per una storia dell’anticlericalismo, in I repubblicani dopo l’unità, Firenze (1960) 19632, (appendice); Verucci G., L’Italia laica prima e dopo l’unità, 1848-1876, Bologna, 1981; Id., Anticlericalismo, libero pensiero e ateismo nel movimento operaio e socialista italiano, (1861-1878), in Chiesa e religiosità dopo l’Unità, (1861-1878), Atti del IV convegno di storia della Chiesa. La Mendola 31 agosto-5 settembre 1971, Relazioni, II, Milano 1973, 177-223; Id., «Anticlericalismo», in Dizionario di politica, a cura di N. Bobbio – N. Matteucci – G. Pasquino, Torino 2004, 16-17.

LEMMARIO




Antigesuitismo - vol. II


Autore: Sabina Pavone

Nella seconda metà dell’Ottocento l’antigesuitismo fu legato soprattutto a una identificazione della Compagnia di Gesù con la parte più retriva e conservatrice della Chiesa di Roma. Vincenzo Gioberti con Il Gesuita moderno (1847) ne cristallizzò definitivamente l’immagine ma in Italia non fu certo l’unico a esprimere posizioni antigesuitiche. Negli anni Cinquanta del secolo il principale detrattore dell’ordine fu il filosofo Bertrando Spaventa, autore di una serie di articoli che ebbero come principale bersaglio la Civiltà Cattolica, organo ufficiale della Compagnia di Gesù. Tali articoli – poi raccolti in volume nel 1911 da Giovanni Gentile con il titolo La politica dei gesuiti nel XVI e XIX secolo – uscirono anonimi sul Cimento e poi sul Piemonte (su quest’ultimo giornale il filosofo aveva una rubrica dal titolo «I sabbati dei gesuiti»). Spaventa – con stile caustico e polemico – propugnava una visione laica dello Stato; i gesuiti erano visti come coloro che svalutavano in massimo grado l’essere umano che per loro non aveva «valore come uomo, come pensiero e ragione, come cittadino di uno Stato, come figlio di una nazione […] ma come membro della Chiesa» (Teocrazia o papocrazia?, in Cimento, 31 agosto 1855). In tal modo, a suo dire, lo stesso divino veniva sminuito e si rischiava di avviarsi a un bieco «materialismo religioso». Egli sottolineava inoltre un distacco fra antichi e nuovi gesuiti: laddove i primi, per combattere contro il desiderio d’indipendenza degli Stati dalla Chiesa, avevano enunciato il principio della doppia potestas, per la quale il monarca aveva un potere indiretto, di tipo contrattuale (il riferimento è a Bellarmino, Suarez, Mariana), i secondi si ritrovavano invece a sostenere i cascami delle monarchie assolute. I gesuiti insomma, si presentavano tutti dediti agli affari spirituali quando invece le loro azioni erano imbevute di politica e da questa dirette.

D’altronde la politica in quegli anni ebbe un’immediata ricaduta sul destino di alcuni ordini religiosi: sin dal 1859 l’antigesuitismo in Italia aveva colpito soprattutto la struttura educativa dell’ordine e molti collegi erano già stati soppressi; la legge del 7 luglio 1866 sulla soppressione delle congregazioni religiose indebolì ulteriormente la Compagnia di Gesù, rimasta indenne solo nello Stato pontificio. Peraltro, le difficili condizioni di esistenza all’interno della penisola alimentarono l’emigrazione all’estero e il rafforzamento delle missioni extra europee, dall’Asia alle Americhe.

Nella seconda metà dell’Ottocento l’antigesuitismo scivolò anche su un piano letterario: il romanzo di Giuseppe Garibaldi I mille (1874) con protagonista un’anima nera come quella del gesuita monsignor Corvo, rimase un tentativo mal riuscito di scrittura anticlericale; diversamente, Le confessioni di un italiano di Ippolito Nievo (scritto nel 1858 ma pubblicato postumo), tratteggiando la figura dell’intrigante abate Pendola, contribuirono con il loro successo alla definizione dell’immagine del gesuita furbo, ambizioso e legato a un passato ormai in via di estinzione.

Un discorso a parte merita l’attenzione rivolta ai gesuiti da Antonio Gramsci nei Quaderni dal carcere. Per Gramsci la Chiesa cattolica aveva avuto, unica in Italia, la capacità di stabilire un rapporto tra «intellettuali e semplici» e i gesuiti erano stati i principali «artefici di questo equilibrio». Per conservarlo essi avevano «impresso alla Chiesa un movimento progressivo che tende a dare soddisfazione alle esigenze della scienza e della filosofia, ma con ritmo così lento e metodico che le mutazioni non sono percepite dalla massa dei semplici, sebbene esse appaiano rivoluzionarie e demagogiche agli integralisti» (Quaderni, p. 1381). Gesuiti, integrali (capeggiati da mons. Benigni) e modernisti erano per Gramsci le tre tendenze «organiche» che si contendevano l’egemonia all’interno della Chiesa cattolica. La lotta al modernismo da parte degli integrali aveva portato sotto Pio X a un eccessivo squilibrio verso destra e papa Pio XI – «vero papa dei gesuiti» – intendeva ora riequilibrare al centro la situazione, facendo perno proprio sulla Compagnia di Gesù. Di fatto però l’intenzione della Chiesa e dei gesuiti non era quella di elevare i semplici ma di lasciarli a uno stadio di minorità. Da un punto di vista letterario massima espressione di un atteggiamento paternalistico, deciso a tenere le masse in uno stato di sudditanza rispetto all’ordine costituito erano stati romanzi come L’ebreo di Verona del padre Antonio Bresciani (1798-1862), per Gramsci a tal punto responsabile di un clima culturale reazionario da fargli coniare la categoria di «brescianesimo». Sorprende d’altro canto come Gramsci, pur penetrante nella sua analisi sulle correnti interne alla Chiesa, mostrasse però di credere a uno dei più classici topoi della letteratura antigesuita (specie, ma non solo, di quella francese): l’esistenza di «gesuiti laici» (in francese jésuites de robe courte) che agivano all’interno della società, pur essendo segretamente affiliati all’ordine, con il fine di favorirne gli obiettivi.

Sulla scia di un antigesuitismo interno alla Compagnia sin dal Cinquecento – e che nel Novecento si era rinvigorito con la stampa della Historia interna documentada de la Compañía de Jesús (pubblicata postuma nel 1913 e messa all’Indice nel 1923) di Miguel Mir y Noguera – alla metà del XX secolo fece scalpore in Italia il caso del padre Alighiero Tondi, dimessosi dalla Compagnia ed entrato di lì a poco nel Partito comunista italiano. Tondi pubblicò un pamphlet dal titolo La potenza segreta dei gesuiti (1953) nel quale accusò gli ex confratelli di «vaticanismo» e di essere dediti agli affari politici anziché a quelli spirituali. Egli non si limitò ad accuse generiche ma – partendo soprattutto dai suoi contatti interni alla Compagnia – rivelò l’esistenza di una centrale spionistica antibolscevica legata al collegio Russicum di Roma. Inoltre, prendendo a testimonianza una serie di articoli apparsi sulla Civiltà Cattolica, definì ampi strati della Compagnia collusi con il fascismo, il franchismo e il nazismo. Che Civiltà Cattolica fosse stata sin dalle origini impregnata di antisemitismo lo confermano una serie di studi recenti fra cui anche la Storia della Compagnia di Gesù in Italia (1814-1983) dello storico gesuita Giacomo Martina.

In forme più o meno radicali, almeno fino alla metà del Novecento l’antigesuitismo è stato connaturato a una certa cultura laica italiana, investendo tanto il terreno politico quanto quello più propriamente letterario. Va citato, per concludere, il romanzo di Furio Monicelli – Il gesuita perfetto (1960, ripubblicato nel 1999 con il titolo Lacrime impure e trasposto in film da Saverio Costanzo nel 2006 con il titolo In memoria di me) – dal carattere assai più intimistico (narra infatti dell’esperienza di un giovane novizio e della sua lenta consapevolezza di non essere portato per la vita religiosa) nel quale ritroviamo però una descrizione della gerarchia interna, della durezza dei superiori e dell’obbedienza richiesta assai simile a quella riportata in uno dei più noti pamphlet antigesuiti, i Monita secreta Societatis Iesu (1614). In un passo il rettore del collegio, invitando fratel Zanna a comportamenti più consoni allo spirito di obbedienza ignaziano, gli ricordava che «con le sue osservazioni di ieri, tu venivi a insinuare che la prassi della Compagnia rispecchia almeno in parte e in modo evidente le teorie di [quel] libello, quasi che i Monita secreta siano una caricatura del senso vero di cui è penetrata ogni parola delle sante Costituzioni ignaziane». Un esempio letterario e concreto – poiché autobiografico – della pervasività in pieno Novecento di un certo immaginario antigesuitico tanto all’esterno quanto all’interno dell’ordine.

Fonti e Bibl. Essenziale

G. Cubbitt, The Jesuit Myth. Conspiracy Theory and Politics in Nineteenth-Century France, Clarendon Press, Oxford 1993; P.-A. Fabre – C. Maire (sous la dir. de ), Les antijésuites, Presses Universitaires de Rennes, Rennes 2011; L. Malusa, Gioberti, Vincenzo, in Dizionario storico dell’Inquisizione, diretto da A. Prosperi, Edizioni della Normale, Pisa 2010, t. II, 691-693; G. Martina, Storia della Compagnia di Gesù in Italia (1814-1983), Morcelliana, Brescia 2003; C.E. O’ Neill, Antijesuitismo, in C.E. O’ Neill – J.M. Dominguez (a cura di), Diccionario histórico de la Compañìa de Jésus, I, Institutum Historicum S. I.- Universidad Pontificia Comillas, Roma-Madrid 2001, I, 178-189; S. Pavone, El antijesuitismo, la antigua y la nueva Compañía de Jesús. Nuevas perspectivas de investigación, in S. Monreal, S. Pavone, G. Zermeño (coord.), Antijesuitismo y Filiojesuitismo: dos identidades ante la restauración, Ciudad del Mexico 2014.


LEMMARIO




Apologetica - vol. II


Autore: Cesare Silva

Nella seconda metà dell’Ottocento l’apologetica in Italia risente fortemente delle lotte e delle polemiche che avvelenano il clima politico e culturale e che si acuiscono con l’avversarsi della Questione Romana dopo il 1870.

La rivista La Civiltà Cattolica fondata nel 1850 e prodotta a Roma, diretta dai Padri Gesuiti, tra cui spiccano le firme di P. Carlo M. Curci (1809-1891) e di P. Salvatore Brandi (1852-1915), si propone di offrire il punto di vista cattolica in tutti gli ambiti della società e della cultura italiana. In articoli specifici come in genere in quelli di articoli di approfondimento, l’apologetica costituisce la prospettiva di fondo che sarà mantenuta per più di un secolo, così da essere punto di riferimento e fonte di ispirazione per una vasta pubblicistica, tendente a difendere i valori della società cristiana di fronte alla secolarizzazione incipiente. La legislazione laicista e anticlericale dello Stato unitario spingono l’apologetica sul tema della difesa e della giustificazione storica e religiosa del potere temporale del Papato, senza disdegnare toni polemici (del resto comuni su stampa e pubblicistica). Un’altra rivista importante per l’apologetica italiana è La Scuola Cattolica, fondata nel 1873 e curata dai docenti del Seminario Arcivescovile di Milano.

Un tono popolare e moralistico riecheggia nell’opera del gesuita P. Antonio Bresciani (1798-1862), che scrive anche romanzi che riscossero all’epoca un certo successo, intesi come una forma di apologetica diretta ed efficace. Un confratello, P. Secondo Franco fa uscire a Roma nel 1859 un volumetto agile e semplice intitolato Risposte populari alle objezioni più communi contro la religione.

Negli stessi anni San Giovanni Bosco (1815-1888) intraprende una lunga e feconda attività come pubblicista e divulgatore attraverso volumetti e riviste periodiche allo scopo di difendere la fede e la morale, oltre che l’istituzione ecclesiastica, dalle principali obiezioni del tempo con un tono popolare ed efficace. Nella seconda metà dell’Ottocento in risposta alla pubblicistica protestante (soprattutto Valdese) che approfittando del clima politico post-unitario comincia a prendere piede in Italia (pur restando assai marginale) escono diverse opere tese a difendere la dottrina e la tradizione cattolica. Ricordiamo tra gli autori l’Arcivescovo di Torino Gaetano Alimonda (1818-1891), noto al grande pubblico come fecondo oratore e il gesuita P. Giovanni Perrone (1794-1876). Quest’ultimo, esponente di spicco della Teologia romana, con altri docenti del Collegio Romano (poi Università Gregoriana) del calibro di Passaglia, Palmieri, Franzelin, Billot, costituiscono la base teorica dell’A. diffusa in Italia fino alla seconda metà del novecento, restando marginale l’influsso delle nuove istanze provenienti dalla Francia.

In risposta alle nuove sensibilità e con un tono popolare e accattivante è l’opera del vescovo di Cremona Geremia Bonomelli (1831-1914) intitolata Seguiamo la ragione edita nel 1898.

A partire dai primi decenni del novecento si diffondono diversi manualetti di A. composti per i membri dell’Azione Cattolica quali trattati di cultura cattolica, che segnano il passaggio della materia anche al laicato.

Dopo la seconda guerra mondiale, nel clima di forte contrapposizione politica e sociale si sviluppa un’A. tesa a difendere la dottrina cattolica (non solo dal punto di vista religioso) dall’ideologia comunista allora dilagante, con una pubblicistica assai variegata.

In questi anni ha un certo risalto l’edizione italiana (uscita nel 1954) dell’Enciclopedia Apologetica pubblicata in Francia nel 1948 (con il titolo Apologétique) che vanta tra i collaboratori Garrigou-Lagrange. L’opera, pensata come sostituzione più che aggiornamento del Dictionnaire apologétique de la foi catholique, uscito tra il 1925 e il 1928, pur nel rispetto delle tradizionali forme dell’apologetica, registra l’influsso della Nouvelle Theologie francese che inizia a infiltrarsi anche negli ambienti italiani piuttosto conservatori; la presenza di prospettive del tutte nuove e aperte al contesto del mondo contemporaneo, anticiperà la stagione del rinnovamento anche dell’A. nel contesto del Concilio Vaticano II.

Un nuovo impulso all’apologetica viene il 14 settembre 1988 con la pubblicazione della lettera enciclica Fides et Ratio del papa Giovanni Paolo II che stimola una vasta produzione di studi teologici che prosegue con gli interventi magisteriali del successore, Benedetto XVI, i cui scritti sono da tempo noti al pubblico italiano. È infatti da notare nell’ultimo ventennio un significativo ritorno di pubblicazioni di carattere dichiaratamente apologetico, a sfondo teologico o prevalentemente storico, attraverso singoli volumi e riviste periodiche specializzate allo scopo di interessare il vasto pubblico. Tra gli autori ricordiamo L. Negri, V. Messori e A. Socci.

Da segnalare lo sforzo compiuto dalla Conferenza Episcopale Italiana nell’ambito del Progetto Culturale che ha partorito tra le varie iniziative un convegno internazionale Dio oggi. Con Lui o senza di Lui tutto cambia, i cui atti sono stati pubblicati nel 2010.

Fonti e Bibl. essenziale

L. Maisonneuve, Apologetique, in Dictionnaire de Théologie catholique, I, Paris 1909, coll. 1511-1580; G. Monti, Apologetica, in Enciclopedia Cattolica, I, Città del Vaticano 1948, coll. 1650-1659; G. Monti, Apologetica, Letteratura, in Enciclopedia Cattolica, I, Città del Vaticano 1948, coll. 1659-1669; G. La Piana, Apologetica, in Enciclopedia Italiana, III, Roma 1929, 691-697.


LEMMARIO




Archeologia - vol. II


 

Autore: Giovanni Liccardo1

Tra apologia e ricerca scientifica. La preoccupazione dei teologi cattolici (tra i primi Onofrio Panvinio, Alfonso Ciacconio, Filippo De Winghe e S. Filippo Neri) di opporre la prova degli antichi monumenti cristiani alle argomentazioni dei Pro­testanti, diede il primo impulso agli studi di archeologia cristiana. Ma sul finire del ‘500 le esplorazioni di Antonio Bosio (copiò iscrizioni, riprodusse con disegni pitture e sculture) furono in parte già condotte con metodo scientifico; nondimeno, l’interesse verso le catacombe fu orientata generalmente a ricercare “corpi santi” e “segni” di martirio: palme, corone, pettini, conchiglie, anelli di osso, lucerne, ampolle di vetro e vasi di creta. Fu l’azione di papa Benedetto XIV, più attento al significato scientifico dell’archeologia, ad iniziare la collezione dei monumenti delle catacombe nel Museo cristiano della Biblioteca Vaticana, dove riunì vetri dorati e diverse iscrizioni. Più tardi, su suggerimento di Gaetano Marini, Pio VII ampliò la raccolta, da cui Pio IX prese poi alcune delle principali epigrafi cristiane per il Museo che egli istituì nel Laterano. Giuseppe Marchi guidò, invece, gli studi Giovanni B. de Rossi (1822-1894), considerato il fondatore della moderna archeologia cristiana. Le tante opere da lui pubblicate compongono un prodotto scientifico di primaria rilevanza e attestano la validità del suo metodo. Dai primi del Novecento gli specialisti di archeologia cristiana si sono poi moltiplicati e sono fiorite vere e proprie scuole, oltre che in Italia, in varie altre parti del mondo.

Studi e scoperte. Negli ultimi decenni il quadro dell’archeologia cristiana è andato sempre più trasformandosi, grazie agli scavi che spesso hanno riportato alla luce testimo­nianze delle chiese primitive e le hanno inserite in un più ampio contesto storico-culturale. Per quanto riguarda l’Italia, di notevole rilievo sono stati i lavori eseguiti negli anni quaranta-cinquanta del Novecento sotto la basilica di S. Pietro alla ricerca del suo sepolcro. Le esplorazioni, eseguite in quel particolare frangente storico con notevole accortezza e superando grandi ostacoli, hanno confortato le testimonianze di una tradizione cultuale bimillenaria: sono stati scoperti parti di una necropoli romana con ricchi edifici sepolcrali e in mezzo ad essi una modesta edicola, risalente al 160 d. C., che presumibilmente fu costruita sulla tomba di S. Pietro.2

Sempre a Roma, negli ultimi decenni del Novecento sono stati eseguiti importanti scavi presso la basilica di S. Cecilia in Trastevere, nella basilica di S. Clemente, nei pressi del Colosseo, e nella basilica di S. Lorenzo in Lucina, mentre un edificio chiesastico è stato rinvenuto lungo la Via Ardeatina, nel complesso di S. Callisto. La chiesa, di carattere funerario, è purtroppo ridotta al livello delle fondazioni, ma si sono identificate la navata centrale, le absidi e il deambulatorio. L’intero pavimento era coperto da tombe, tra le quali una è collocata proprio al centro dell’abside, purtroppo depredata già nell’antichità: gli studiosi ritengono che questa chiesa fu costruita da papa Marco nel 336 e in quella tomba “privilegiata” era deposto proprio il suo corpo. Infine, in un cubicolo delle catacombe romane di santa Tecla, in via Ostiense, vicino alla basilica di San Paolo fuori le mura, recentemente sono state identificate le più antiche icone degli apostoli Pietro, Paolo, Andrea e Giovanni.

Importanti scoperte di archeologia cristiana sono state realizzate negli ultimi decenni anche in diversi siti italiani; degni di nota sono i ritrovamenti fatti nel 1975 nelle catacombe di S. Gennaro a Napoli (con la scoperta della tomba del martire e di una ricchissima serie di mosaici) e quelli realizzati nel complesso di basiliche di Cimitile (Nola), sempre in Campania, dove è stata meglio chiarita l’intricata sequenza di strutture cristiane e pagane: ha trovato conferma l’ipotesi che vede nella cittadina campana uno dei centri di spiritualità più attivi e frequentati dell’Italia meridionale per l’età antica. In Liguria notevole è il ritrovamento di un secondo fonte battesimale, a pianta ottagonale, nel suburbium meridionale di Albingaunum; ma rilevanti risultati hanno conseguito anche i molti scavi nelle catacombe (per esempio, in quella di Villagrazia di Carini) e nelle chiese siciliane (edificio della Pirrera). A Taranto e a Classe le indagini hanno consentito di rileggere la topografia delle città nella tarda antichità, mentre consistenti recuperi sono stati fatti nel sito archeologico della cappella di San Cerbone nel Golfo di Baratti a Populonia (LI), nel cimitero medievale della cappella di San Cerbone, sempre nel Golfo di Baratti a Populonia, nell’abbazia di S. Secondo all’isola Polvese del lago Trasimeno, nell’area di S. Giovanni a Canosa di Puglia, e a Siponto, dove è stato studiato un nuovo edificio religioso presso il tratto settentrionale delle mura. Molti risultati hanno conseguito anche le ricerche sugli insediamenti religiosi nelle Marche meridionali e in diversi contesti della Sardegna, come quello di S. Giulia a Padria (SS).

Istituzioni pontificie e scientifiche. Dell’attenzione dedicata all’archeologia cristiana dai papi e tra i loro interventi più concreti, oltre alla Pontificia Accademia Romana di Archeologia, sono l’istituzione, da parte di Pio IX su suggerimento di de Rossi, della Commissione di Archeologia Sacra il 6 gennaio del 1852 e la fondazione da parte di Pio XI l’11 dicembre del 1925 del Pontificio Istituto di Archeologia Cristiana. La prima struttura nel 1925 fu dichiarata Pontificia e ne vennero particolarmente definite le competenze, ribadite, ancora di recente, nelle convenzioni tra la Santa Sede e lo Stato Italiano, nel 18 febbraio 1984; secondo questi accordi spettano alla Commissione esclusivamente l’esplorazione, lo scavo e la custodia delle catacombe ubicate a Roma e nelle altre città d’Italia. Con le funzioni direttive e operative del Presidente e del Segretario, con la Commissione collaborano l’èquipe dei suoi membri, i commissari corrispondenti, i diversi officiali e i vari ispettori locali (per il Lazio, la Campania, la Sicilia orientale, la Sicilia occidentale, la Toscana e l’Umbria). Nei luoghi affidati alla Pontificia Commissione nulla si può modificare senza il suo permesso; inoltre, essa ha la direzione di qualunque lavoro da praticarsi e ne pubblica i risultati, stabilisce le norme per l’accesso del pubblico e degli studiosi nelle catacombe e, infine, indica quali ambienti e con quali cautele possono essere adibiti per le eventuali liturgie. In questi ultimi anni la Pontificia Commissione ha ricevuto un grande impulso, sia per quanto riguarda le operazioni archeologiche e conservative, realizzate secondo i più recenti criteri di scavo e di restauro, sia per quanto attiene l’organizzazione tecnica, documentaria ed operativa, per avanzare un sempre più valido ed efficace supporto alla conoscenza ed alla tutela del patrimonio monumentale ad essa affidato.3

Il Pontificio Istituto di Archeologia Cristiana, invece, fin dalla sua fondazione affiancò la Pontificia Accademia Romana di Archeologia e la Pontificia Commissione di Archeologia Sacra. Attualmente l’Istituto accoglie studenti che abbiano ultimato gli studi universitari per il corso di specializzazione di durata triennale. Inoltre, l’Istituto cura la pubblicazione della “Rivista di Archeologia Cristiana” e di varie collane di monografie riguardanti i tipici campi d’indagine della disciplina. Infine, è sede del Comitato Promotore Permanente dei Congressi Internazionali di Archeologia Cristiana, del quale i docenti sono membri di diritto e a cui sono aggregati i Direttori delle Scuole e Accademie straniere a Roma e studiosi di fama internazionale, come pure i rappresentati dei Comitati nazionali organizzatori dei più recenti congressi.

Riguardo alla Pontificia Accademia, essa si richiama all’Accademia delle Romane Antichità, istituita nel 1740 da Benedetto XIV, e all’Accademia Romana creata da Pomponio Leto nel secolo XV. Per concessione di Pio VIII ebbe il titolo di Pontificia nel 1829; l’Accademia ha il fine di promuovere lo studio dell’archeologia e della storia dell’arte antica e medievale. Cura in maniera particolare l’illustrazione dei monumenti archeologici ed artistici di spettanza della Santa Sede; svolge la sua azione, per il progresso del sapere e lo sviluppo della cultura, attraverso comunicazioni scientifiche, conferenze, pubblicazioni, concorsi e ogni altra forma di indagine e di studio. L’Accademia ha per suo Protettore il Cardinale Segretario di Stato; oggi è costituita da 140 soci, di cui 20 onorari, 40 effettivi e 80 corrispondenti. Sotto gli auspici dell’Accademia sono stati pubblicati dalla Direzione Generale dei Musei e Gallerie Pontificie i Monumenti Vaticani di Archeologia e d’Arte, dal 1922 al 1957 (volumi 10). Nel 2011, infine, ha ottenuto quale riconoscimento della sua azione il I Premio Internazionale “Terras sem sombras”, nella sezione del “Patrimonio Culturale”.4

La cura pastorale della Chiesa. Grande sollecitudine per l’archeologia cristiana hanno dimostrato anche i pontefici Giovanni XXIII, Paolo VI e soprattutto Giovanni Paolo II. Il documento di quest’ultimo La formazione liturgica nei seminari del 1979 raccomanda, per esempio, che «l’archeologia delle antichità cristiane» contribuisca «efficacemente a illustrare la vita liturgica e la fede della Chiesa primitiva». Questa medesima sollecitazione è ripetuta nella Costituzione Apostolica Sapientia Christiana, sempre del 1979, dove l’archeologia cristiana è additata tra le materie indispensabili negli studi di teologia. L’importanza del patrimonio artistico come espressione della fede e come strumento per il dialogo con l’umanità ha diretto anche le strategie della Pontificia Commissione per i Beni Culturali della Chiesa, la cui responsabilità fu indicata da Giovanni Paolo II nella Pastor Bonus. La Chiesa, quindi, si è sempre prodigata in iniziative pastorali adattandosi all’indole di culture assai diverse tra loro con l’unico scopo di annunziare il vangelo; in questi anni ha mostrato quanto la considerazione dell’antichità cristiana impegni tutti coloro che hanno a cuore i valori della cultura umana e religiosa. «I vescovi, personalmente o per mezzo di delegati», si legge nel Catechismo della Chiesa Cattolica, «devono prender­si cura di promuovere l’arte sacra, antica e moderna, in tutte le sue forme, e di tenere lontano con il medesimo zelo, dalla Liturgia e dagli edifici del culto, tutto ciò che non è conforme alla verità della fede e all’autentica bellezza dell’arte sacra» (n. 2503). Secondo Giovanni Paolo II il cristiano che entra nello spirito della tradizione artistica non impoverisce, ma arricchisce il suo pensiero, perché ogni primavera che sorride nel mondo è una cosa vecchia e nuova; vecchia di millenni, nuova come le foglie e i fiori freschi: è la vita. Come la vita è bellezza e «la bellezza è cifra del mistero e richiamo al trascendente. E’ invito a gustare la vita e a sognare il futuro. Per questo la bellezza delle cose create non può appagare, e suscita quell’arcana nostalgia di Dio» (Lettera agli artisti, 16).

Fonti e Bibl. Essenziale

 1852-2002. Centocinquanta anni di tutela delle catacombe cristiane d’Italia, Città del Vaticano 2002; C. Angelelli, La basilica titolare di S. Pudenziana. Nuove ricerche (Monumenti di Antichità Cristiana 21), Città del Vaticano 2010; O. Brandt, Il cerimoniere, l’epigrafista e la fondazione del Pontificio Istituto di Archeologia Cristiana, in Rivista di Archeologia Cristiana, 83 (2007), 193-221; B. Vinci, Intorno alla Rinascita dell’Accademia Romana di Archeologia, (4 ottobre 1810), in Rendiconti dell’Accademia d’Archeologia, XLIV 1971-1972, 329-341; T.T. Chmielecki, La protezione internazionale dei Beni Culturali e la Chiesa Cattolica, LEV, Città del Vaticano 1996. Dieci anni di restauro nelle catacombe romane. Bilancio, esperienze e interventi conservativi delle pitture catacombali, Città del Vaticano 2000; Giovanni Battista de Rossi e le catacombe romane. Mostra fotografica e documentaria in occasione del 1° Centenario della morte di Giovanni Battista de Rossi (1894-1994), Città del Vaticano 1994; L’Archéologie Chrétienne. Allocution de Sa Sainteté Pie XII, in Bulletin des Amis des Catacombes Romaines 12 (1939), 358-360; G. Ferretto, Note storico-bibliografiche di archeologia cristiana, Città del Vaticano 1942; F. Magi, Per la storia della Pontificia Accademia Romana di Archeologia, in Rendiconti dell’Accademia d’Archeologia, XVI 1940, 113-130; S. Heid – M. Dennert (Hrsg.), Personenlexikon zur Christlichen Archäologie. Forscher und Persönlichkeiten vom 16. bis zum 21. Jahrhundert. 2 Bände. Schnell & Steiner, Regensburg 2012; G. Mancini, Il Pontificato romano e l’archeologia sacra, in Studiosi e artisti italiani a Sua Santità Pio XII nel XXV anniversario della sua consacrazione episcopale, Città del Vaticano 1943, 296-303; N. Parmegiani – A. Pronti, S. Cecilia in Trastevere. Nuovi scavi e ricerche (Monumenti di antichità cristiana 16), Città del Vaticano 2004; Ph. Pergola, I settantacinque anni del Pontificio Istituto di Archeologia Cristiana, in Annuario. Unione Internazionale degli Istituti di Archeologia, Storia e Storia dell’Arte in Roma 42 (2000), 211-213; V. Saxer, Cent ans d’archéologie chrétienne. La contribution des archéologues romains à l’élaboration d’une science autonome, in Acta XIII congressus internationalis archaeologiae Christianae. Split-Porec (25.9-1.10.1994) (Studi di antichità cristiana pubblicati a cura del Pontificio Istituto di Archeologia Cristiana 54), Città del Vaticano-Split 1998, 115-162.

Immagini:

1) Roma, Scavi archeologici del Castrum Sancti Pauli; 2) Firenze, Scavi nei pressi del Duomo (24 Agosto 1895); 3)Giovanni Paolo II e P. Antonio Ferrua sj, tra i massimi promotori dell’archeologia cristiana; 4) Roma, Lo stemma pontificio all’ingresso del Pontificio Istituto di Archeologia Cristiana.

Sitografia:

www.catacombe.roma.it/indice.html (sito di informazioni sulle catacombe e sulla Chiesa delle origini); http://www.piac.it/ (sito del Pontificio Istituto di Archeologia Cristiana); http://www.lettere.unige.it/dipartimenti/darficlet/sezi_arch.html (sito dell’Università degli studi di Genova. Dipartimento di Archeologia, Filologia Classica e loro tradizioni in epoca cristiana, medievale e umanistica “Francesco Della Corte “); http://www.arcadria.eu/ (sito del Centro di Studi per l’Archeologia dell’Adriatico); http://rmcisadu.let.uniroma1.it/ (sito dell’Università di Roma “La Sapienza”. CISADU, Centro interdipartimentale di servizi per l’automazione nelle discipline umanistiche); http://soi.cnr.it/iscima/ (sito dell’Istituto di Studi sulle Civiltà Italiche e del Mediterraneo Antico, ISCIMA).


LEMMARIO




Architettura - vol. II


 

Autore: Giovanni Liccardo1

La svolta moderna. Tra la fine dell’Ottocento e la prima metà del Novecento l’architettura di chiese propone nuovi temi legati essenzialmente alle innovazioni della tecnica edilizia, all’impiego di moderni mezzi costruttivi (strutture di am­pio respiro in cemento armato, acciaio e vetro, ecc.) e all’approfondimento di soluzioni tecniche e impiantistiche (visibilità, illuminazione, acustica, ecc.). In Italia tra le prime interessanti esperienze di strutture in ferro e muratura fu quella della chiesa di San Leopoldo nel centro di Follonica, consacrata nel 1838 su progetto degli architetti Alessandro Manetti e Carlo Reishammer, con molteplici elementi in ghisa, come il pronao, il rosone della facciata e l’abside, identificabili nell’esterno della struttura; in ghisa sono anche la punta del campanile e alcuni arredi interni. Più in generale, gli architetti che ora svolgono il tema dell’edificio di culto, pur applicando largamente i nuovi mezzi, tendono di preferenza ad una libera utilizzazione delle strutture e dei tipici effetti che da questi derivano, piegandoli ad un deciso intento espressivo, sia nelle proporzioni, sia nell’uso promiscuo di ma­teriali diversi, a seconda dei fini e delle condizioni ambientali.

Inoltre, anche nell’abbondante produzione di edi­fici chiesastici, in Italia non si evidenzia un indirizzo sti­listico deciso, essendo ancora gli architetti incerti tra forme nostalgiche inutilmente perseguite con nuove semplificazioni e i più vivaci apporti dell’architettura contemporanea. Eppure appare evidente che l’edificio a carattere religioso, in quanto luogo a vocazione sociale e destinato al pubblico, si palesa bisognoso di una nuova veste formale, così come le altre destinazioni d’uso, mentre le città stesse si trasformano sotto la guida dei piani urbanistici e delle capacità tecniche dei nuovi materiali da costruzione. Però le forti resistenze in Italia all’avvento del moderno per l’architettura degli spazi religiosi condizionano notevolmente i prodotti artistici creando una certa frattura tra chi (architetto, sacerdote, teologo, artista) si prodiga per un cambiamento formale e fruitivo e chi si schiera nettamente contro un totale rinnovamento. La discussione si rispecchia frequentemente nei bandi di concorso e negli esiti delle gare per le competizioni più popolari dell’inizio del XX secolo che vedono la partecipazione di un centinaio di architetti e ingegneri attivi a vario titolo in tutta la nazione; esemplificativo, per esempio, è l’ampio salto progettuale tra le proposte presentate per il concorso della cattedrale della Spezia (1929) e i disegni delle chiese per la diocesi di Messina (1931), balzo che non è paragonabile al breve lasso temporale di appena 36 mesi che divide i due eventi.

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Ovviamente, anche in Italia – come nel resto dell’Europa – la Chiesa ha strenuamente bisogno degli artisti d’avanguardia, certamente i più abili nel saper dare una forma coeva e coerente al cemento armato, al vetro e all’acciaio. Si può dire, in generale, che agli inizi del XX secolo l’edificio-chiesa perde la sua riconoscibilità tipologica e questo non è solo consequenziale alla caduta degli stili, al rifiuto dei neo- e all’avvento degli –ismi, ovvero al disdegno delle riproposizioni formali di precedenti epoche nella disperata ricerca di riprodurre la condizione dei tempi gloriosi del cristianesimo, o all’entrata in scena delle avanguardie architettoniche imponenti le loro sperimentazioni. Questo esito non è esclusivamente figlio degli architettonici esercizi di stile promossi dai gruppi avanguardistici, bensì proviene da altre esigenze: queste si individueranno sempre più nella centrale necessità di comunicazione con il fruitore dello spazio sacro, ovvero il fedele, che deve partecipare del rito religioso che vi si svolge.

Di un certo interesse sono in questo periodo, fra le altre, le opere dell’architetto Giovanni Muzio per la chiesa di S. Maria della Rossa in Milano (consacrata dal cardinale Ildefonso Schuster nel 1932); il santuario di S. Antonio a Cremona (ultimato nel 1937); i progetti per la chiesa Regina Pacis a Milano e per quella di S. Ambrogio a Cremona; la basilica del Sacro Cuore di Cristo Re, a Roma, realizzata a cavallo degli anni ‘20 e ‘30 su progetto dell’architetto Marcello Piacentini, considerata la prima applicazione dei canoni moderni nel panorama dell’architettura sacra romana; ancora a Roma, infine, la basilica dei SS. Pie­tro e Paolo all’EUR, chiesa progettata da Arnaldo Foschini (con pianta centrale a croce greca), costruita tra il ‘38 e il ‘43, ma inaugurata solo nel giugno del ’55.2

Dal Concilio Vaticani II ad oggi. Il tema di una nuova liturgia, una questione da principio vaga poi sempre più interessante e convincente negli anni che precedono il Concilio Vati­cano II, confluisce necessariamente in quello di una nuova architettura di chiese. La questione aveva trovato indicazioni teoriche, tra gli altri, nel domenicano Marie Alain Couturier, direttore della rivista francese Art Sacré, favorevole ad un’architettura sacra non accademica e ripetitiva, ma che coinvolgesse gli artisti, senza considerare il loro singolo atteggiamento verso la fede, tuttavia facendo appello al loro “genio”. La questione in Italia ebbe echi interessanti specialmente grazie ai circoli cattolici che facevano ca­po al cardinale Montini della diocesi ambrosiana, al sindaco di Firenze Giorgio La Pira e al padre scolopio Ernesto Bal­ducci, al bolognese Giuseppe Dossetti, al cardinale Lercaro sotto la cui egida nasce nel 1955 la rivista “Chiesa e Quartiere”: quarantotto numeri il cui ultimo uscirà nel fatidico 1968, in coincidenza con la morte di Lercaro e con i sommovimenti del maggio studen­tesco. Un fervore di idee che investe la Chiesa ambrosiana, quella bolognese e quella fiorentina, da cui sortiranno frutti molto interessanti che offriranno l’occasione di realizzare chiese necessarie sia per il loro intrinseco valore propria­mente architettonico, sia per il nuovo messaggio di fede che rappresentano. In questo caso l’architettura appare come uno degli strumenti di apostolato della “Chiesa militante”, che, tra l’altro, negli anni successivi alla guerra deve rendere evidente il proprio ruolo nella ricostruzione morale e civile del Paese attraverso l’edificazione di opere assistenziali e di apostolato. A titolo esemplificativo può essere citata la chiesa della Madonna dei Poveri a Milano, progettata e costruita dal 1952 al 1954 dagli architetti Luigi Figini e Gino Pollini. La chiesa, dall’aspetto esteriore disadorno e quasi rude e dal linguaggio architettonico interno essenziale e brutale, lascia alla sincerità dei materiali e al gioco della luce naturale il compito di coinvolgere il fedele emozionalmente. Allo stesso tempo, si tratta di una modulazione vibrante che parla il linguaggio di una spiritualità intensa e universale che coglie il credente così come l’ateo, quasi di sorpresa, dopo il primo diffidente incontro nel tessuto urbano con un volume indifferente, quasi inquietante per l’inespressività violenta del linguaggio industriale. A questo clima ideativo risalgono anche, tra le altre, la chiesa di Le Corbusier sulle colline di Bologna e la chiesa di Alvar Aalto a Riola di Vergato (in provincia di Bologna).

L’avanzare del movi­mento liturgico e la pubblicazione dell’enciclica Mediator Dei (20 novembre 1947), traduce un’indubbia determinazione teorica; così Pio XII poteva affermare che le forme e le imma­gini recenti non si dovevano ripudiare gene­ricamente per partito preso, ma era assolu­tamente necessario dar libero campo all’arte moderna, se serve, con la dovuta ri­verenza ed il dovuto onore, ai sacri edifici ed ai riti sacri. In luogo dello scetticismo e delle timorose censure che ancora vive, Giovanni XXIII apre la Chiesa alla speranza, dimostra di accettare il dialo­go e la mentalità sperimentale del mondo moderno; si arriva di nuovo a parlare di domus ecclesiae in senso ana­logo a quello usato nei primi secoli.3

Il passo seguente che pone le basi dei principi biblico-liturgici di una nuova ar­chitettura di chiese è la costituzione conciliare sulla liturgia (SC 122-129); essa rappresenta il ri­ferimento fondamentale per un’architet­tura che voglia concretare nelle forme il carattere comunitario delle celebrazioni. In essa, infatti, si esprime la volontà della Chiesa di accettare la collaborazione dell’arte con­temporanea, precisando tra l’altro, per i nuovi edifici sacri, due obiettivi principa­li: la funzionalità in ordine alla celebrazio­ne liturgica e la partecipazione attiva dei fe­deli alla liturgia (ma appare sorprendente che passarono più di trent’anni prima della pubblicazione della Nota pastorale L’adeguamento delle chiese secondo la riforma liturgica, il 31 maggio 1996). La maggioranza delle chiese costruite fino a quel momento era piuttosto tradizionale: l’altare maggiore addossato all’abside spesso orientata ad est e incastonato in composizioni monumentali e riccamente decorate (con tabernacoli di marmo all’esterno e oro all’interno); un crocifisso realistico e a grandezza reale; una balaustra fra navata e presbiterio; un gran numero di quadri, statue e vetrate raffiguranti santi e angeli; file diritte di banchi in legno. I cambiamenti successivi al concilio sono stati praticamente universali, con due effetti principali: in molte chiese l’altare è stato spostato a metà del presbiterio – o posto a cerniera con la navata – cosicché la Messa si possa celebrare versus populum; il tabernacolo è stato spostato in qualche cappella laterale e, al suo posto, prima centrale, ora sta la sede del celebrante.

Di sicuro, nell’età post-conciliare (e almeno fino agli inizi degli anni ’80) la costruzione delle chiese è stata caratterizzata da modelli architettonici e soluzioni tipologiche discontinue, specchio del rapporto chiesa/comunità, Chiesa universale/comunità locali. Ma nel percorso architettonico italiano di questo trentennio è stata notata una dispersione conoscitiva legata alle troppe esperienze realizzate dal dopoguerra ad oggi; una pluralità di modelli che rende difficile il lavoro storico, pure se è possibile tipizzare come esemplificativi gli anni della ricostruzione, attraverso il rapporto Chiesa/Stato, il laboratorio milanese con il passaggio dalla tradizione all’esclusione esornativa, il modello di chiesa paupere spiritu, prodotto della crisi della società rurale. La novità apportata dal concilio, seppur fattore nodale della metamorfosi dell’edificio-chiesa, tuttora in una fase di ricezione, scarta a priori dei prototipi architettonici per prediligere i temi della pastorale; lo spazio della celebrazione diventa indispensabile per la partecipazione consapevole, attiva e fruttuosa dei fedeli.

Questa tendenza esprime, per esempio, la chiesa di S. Giovanni Battista (allo svincolo del casello autostradale di Firenze-Nord, proprio a ridosso della banchina) dell’architetto Giovanni Michelucci. L’opera, che risente di una profonda espressività, non sembra esibire un mero compiacimento stilistico, ma è caratterizzata da una di serie percorsi e di spazi realizzati dalla contrapposizione di pieni e vuoti, nei quali il fedele può rintracciare una corrispondenza di ciò che più si addice al suo stato d’animo; essa è chiesa del “dialogo” e del “silenzio”, o di entrambe le cose: di un silenzioso monologo con l’Assoluto. Concezioni teoriche altrettante profonde, sia pure a livelli diversi, esprimono anche le più recenti architetture chiesastiche di Mario Botta (come la chiesa di S. Maria degli Angeli sul monte Tamaro) e la chiesa per il Giubileo a Roma (progettata da Richard Meier).4

Oggi, infine, si auspicano ambienti progettati per la comunità dove per l’architetto demiurgo è previsto l’accompagnamento di un’artista e di un liturgista per evitare la semplice o astratta applicazione di nuovi stilemi. Una situazione progettuale che ogni volta deve mediare tra due posizioni estreme: lasciare al tecnico/artista ogni decisione o preordi­nare, da parte delle commissioni ecclesia­stiche competenti, dei modelli univoci. Si avverte l’opportunità, di conseguenza, di riconsiderare la dottrina teo­logica sulla chiesa sia per le comunità locali sia per gli artisti, come mo­mento di crescita della comunità e di co­scientizzazione dell’artista.

È indispensabile, da ultimo, l’in­dividuazione non di spazi e di forme, ma di contenuti, di significati delle “presenze” e delle specifiche esigenze locali; questo impegno può costituire il substrato del “program­ma edilizio”, alla cui realizzazione concor­rono allo stesso modo l’intuizione, la creatività, la sen­sibilità dell’artista – correlate ai vincoli in­terni ed esterni del programma stesso – in un processo unitario formativo dell’opera. La comunità locale, le commissioni dioce­sane e quella centrale per l’arte sacra potranno poi verificare in questo corretto rap­porto la pertinenza e la qualità della risposta artistica.

Fonti e Bibl. Essenziale

C. Barucci (a cura di), I progetti per le chiese della diocesi di Messina nel concorso del 1932, Gangemi, Roma 2002; L. Benevolo, Storia dell’architettura moderna, GLF editori Laterza, Roma 2003; G. Cappellato (a cura di), Mario Botta. Architetture del sacro. Preghiere di pietra, catalogo della mostra (Firenze), Editrice Compositori, Bologna 2005; P. Culotta – G. Gresleri – Gl. Gresleri, Città di fondazione e plantatio ecclesiae, Compositori, Bologna 2007; F. Debuyst, Chiese: arte, architettura, liturgia dal 1920 al 2000, Silvana, Cinisello Balsamo 2003; G. Della Longa – A. Marchesi – V. Valdinoci (a cura di), Architettura e liturgia nel ‘900, Nicolodi Editori, Marano d’Isera (TN) 2004; Innovazione liturgica e sperimentazione progettuale: esperienze europee a confronto. Atti del convegno internazionale del Master di II livello in Progettazione Architettonica degli Edifici per il Culto, marzo – aprile 2006, TEMI, Trento 2006; G. Lercaro, La chiesa nella città: discorsi e interventi sull’architettura sacra, San Paolo, Cinisello Balsamo 1996; A. Longhi – C. Tosco, Architettura Chiesa e società in Italia (1948-1978), Edizioni Studium, Roma 2010; S. Mavilio,Guida all’architettura sacra. Roma 1945-2005, Electa, Milano 2006, G. Montanari, “Tra sacro e moderno. La committenza della chiesa nel periodo delle avanguardie”, in V. Franchetti Pardo (a cura di), L’architettura nelle città italiane del XX secolo: dagli anni venti agli anni ottanta, Jaca Book, Milano 2003, 418-424; V. Sanson,Architettura sacra nel Novecento. Esperienze, ricerche e dibattiti, Messaggero, Padova 2008; G. Santi, Architettura e teologia. La Chiesa committente di architettura, Il Pozzo di Giacobbe, Trapani 2011; R. Schwarz, Costruire la chiesa: il senso liturgico nell’architettura sacra, Morcelliana, Brescia 1999; C. Valenziano, Architetti di chiese, L’Epos, Palermo 1995.

Immagini:

1) Novoli (Le), Chiesa di Sant’Antonio Abate; 2) Bettona, Chiesa parrocchiale della Madonna del Ponte; 3) Torino, Interno della chiesa del Santo Volto; 4) Roma, Esterno della chiesa Dives in Misericordia.

Sitografia:

www.vatican.va/holy_father/john_paul_ii/letters/documents/hf_jp-ii_let_23041999_artists_it.html (sito dove è riportata la Lettera agli artisti di Giovanni Paolo II, 1999); http://www.greatbuildings.com (sito inglese sull’architettura, completo e ben strutturato); http://www.treccani.it/enciclopedia/l-edilizia-sacra-dalla-restaurazione-al-xxi-secolo-architettura-delle-nostalgie_%28Cristiani_d%27Italia%29/ (sito per una essenziale storia dell’edilizia ‘sacra’, dalla Restaurazione al XXI secolo); www.artemotore.com/storia.html (sito dove sono sviluppati contenuti artistici relativi a diversi periodi fin dalle origini).


LEMMARIO




Archivi ecclesiastici - vol. II


Autore: Emanuele Boaga †

Gli archivi ecclesiastici e le leggi eversive. La sorte toccata alle 4.474 case religiose, colpite dalle leggi “italiane” della soppressione delle corporazioni religiose portò i loro archivi ad alterne vicende. Dal punto di vista giuridico si vennero a verificare tre situazioni diverse: gli archivi divenuti proprietà dello Stato, quelli appartenenti a complessi “monumentali d’importanza”, e quelli che rimasero di assoluta proprietà ecclesiastica.

Per gli archivi incamerati dallo Stato – oltre a provvedimenti legislativi per regolare la vendita dei beni ex-conventuali e anche per la loro tutela – si ebbe il passaggio dagli uffici del Demanio, delle Intendenze di Finanza, del Registro e del Fondo per il culto fino a giungere, per la maggioranza di essi, agli Archivi di Stato. Alcuni archivi ex-conventuali andarono però dispersi o rimasero spezzettati tra gli enti statali. Si ebbe anche casi in cui detti archivi finirono sul mercato e acquistati all’asta da privati e anche da benefattori di ex-conventi e poi dati da essi ai rispettivi religiosi. Non mancarono anche acquisti fatti per i religiosi da alcuni prestanome.

Tra gli archivi rimasti presso i complessi monumentali, in base all’art. 30 del Concordato del 1929 tra la S. Sede e l’Italia, alcuni hanno continuato ad essere proprietà ecclesiastica, mentre altri, perché annessi a monumenti nazionali, furono posti sotto la dipendenza del Ministero della Pubblica Istruzione e soggetti alla vigilanza delle Sovrintendenze.

Per gli archivi di assoluta proprietà ecclesiastica, quali quelli diocesani, capitolari, seminarili, parrocchiali, religiosi, confraternali, ecc., sono stati oggetto di attenzione da parte delle competenti autorità ecclesiastiche a partire soprattutto dopo l’apertura agli studiosi dell’Archivio Segreto Vaticano nel 1880, i cui regolamenti influenzarono in gran parte detti interventi e gli orientamenti seguiti soprattutto negli archivi diocesani e in quelli più rilevanti di altri enti ecclesiastici.

Gli archivi ecclesiastici fino alla seconda guerra mondiale. Già nell’agosto 1898 la S. Congregazione del Concilio promosse un’inchiesta sugli archivi diocesani d’Italia. Seguì il 30 settembre del 1902 una lettera circolare del Segretario di Stato di Pio X, Rafael Merry del Val, con la quale veniva trasmesso ai vescovi diocesani d’Italia una serie di istruzioni in forma di regolamento per l’ordinamento, l’inventario, la custodia e l’uso degli archivi e biblioteche ecclesiastiche. Ancora lo stesso Segretario di Stato di Pio X inviò una circolare del 12 dicembre 1907 alle diocesi italiane ordinando l’istituzione di un commissario permanente per l’inventario e la tutela dei documenti, monumenti e oggetti artistici custoditi dal clero diocesano. A questi provvedimenti si aggiunsero, con forte incisione, alcuni canoni del Codice di Diritto Canonico del 1917, con precise prescrizioni sugli archivi diocesani e sulla tenuta dei libri parrocchiali. In seguito, con lettera del 15 aprile 1923, Pietro Gasparri, Segretario di Stato di Pio XI, inviava agli ordinari diocesani una circolare molto dettagliata, nella quale, richiamata l’osservanza delle precedenti disposizioni, indicava suggerimenti e istruzioni per il restauro di codici con l’aiuto della S. Sede, per la formazione di commissari e direttori di archivio idonei, per la compilazione e stampa dei cataloghi, e per il servizio degli studi e degli studiosi; e nella stessa circolare si sottolineava con un certo rigore di nominare il personale veramente idoneo.

Tutti questi interventi ebbero l’effetto di promuovere la preparazione degli archivisti mediante adeguati corsi presso le locali università e specialmente presso la Scuola Vaticana istituita nel 1884 a questo scopo da Leone XIII. E così non pochi archivi ecclesiastici, specialmente quelli diocesani, ebbero un proficuo riordinamento e conseguente valorizzazione da parte degli studiosi. Però, nonostante gli interventi dell’autorità ecclesiastiche, alcuni archivi giacevano in stato di abbandono e subivano in vario tempo manomissioni e deterioramenti.

Gli archivi ecclesiastici dopo la seconda guerra mondiale. Tra questi interventi della S. Sede e i successivi si ebbero le vicende del secondo conflitto mondiale, e anche gli archivi ecclesiastici subirono gravissime distruzioni o danneggiamenti di locali e di materiale. In questo contesto nel 1941 maturò l’idea di un censimento degli archivi ecclesiastici italiani per affrontare gli inevitabili danni e prevenire possibili nuove dispersioni e anche per evitare possibili attriti con lo Stato in conseguenza delle leggi nel 1939 su il “nuovo ordinamento degli archivi del Regno”. Fu così che dopo il lavoro svolto da apposita commissione, tale censimento – noto anche come “Censimento Mercati” dal card. Giovanni Mercati che ne era l’anima – prendeva il via nel novembre del 1942. Si ebbe però una drastica interruzione l’anno seguente a causa degli eventi politici e bellici. Nel frattempo vari archivi e biblioteche ecclesiastiche e statali furono salvati con il trasporto in Vaticano.

Al termine della guerra, la S. Sede fece un’inchiesta per conoscere, almeno in parte, i danni subiti dagli archivi ecclesiastici: si ebbe così una lista di ben 779 archivi, e il loro stato e quello di molti altri archivi risultava poco consolante a seguito anche del loro trasferimento in altre sedi, in locali spesso inadatti, e del disordine in cui si trovava il materiale documentario, del personale impreparato o addirittura mancante. Piuttosto pochi erano gli archivi ben ordinati e funzionanti, mentre diffusa era la poca cura verso altri archivi da parte delle autorità competenti.

Fu così che prese forma ed ebbe attuazione l’attenzione dello Stato Italiano per aiuti notevoli per il consolidamento e ripristino dei locali di vari archivi ecclesiastici, e del restauro del loro materiale documentario. Maturò anche da parte della S. Sede la necessità di intervenire mediante una istituzione adeguata e così nell’aprile del 1955 Pio XII istituì la Pontificia Commissione per gli Archivi ecclesiastici d’Italia, con il compito di accertare i singoli casi e proporre i provvedimenti necessari. In seguito, con Giovanni XXIII, questa Commissione fu in parte modificata e dotata di un nuovo statuto nel 1960, e nel dicembre dello stesso anno seguiva una Istruzione agli Ordinari diocesani e ai Superiori religiosi d’Italia sull’amministrazione degli archivi. Purtroppo per varie cause la Commissione praticamente smise di funzionare.

In questo clima nacque nel 1956 l’Associazione Archivistica Ecclesiastica, con sede in Vaticano e con membri provenienti non solo dall’Italia ma anche da altre nazioni d’Europa. Questa Associazione, tuttora funzionante, ha svolto un notevole ruolo per inculcare l’attenzione e la cura degli archivi ecclesiastici, per sviluppare una più attenta coscienza archivistica attraverso una visione dell’archivistica ecclesiastica rinnovata e aperta, anche di fronte ai nuovi mezzi informatici. Gran parte di questo lavoro è stato svolto nei 24 convegni di studio finora celebrati dal 1957 al 2014 su temi specifici, e con due conferenze europee delle associazioni archivistiche ecclesiastiche (2002 e 2013). Inoltre la stessa Associazione ha promosso numerosi saggi e monografie; ha aiutato l’adeguata formazione degli archivisti, tenendo anche conto del ruolo, per certi aspetti nuovo, che essi devono compiere di fronte alle esigenze odierne. Inoltre ha curato la pubblicazione della Guida degli archivi diocesani d’Italia (3 vol., Città del Vaticano, 1990-1998) e della Guida degli archivi capitolari d’Italia (3 vol., Roma, 2000-2006) e di altre pubblicazioni utili al lavoro degli archivisti, e ha offerto collaborazione alla Conferenza Episcopale Italiana per il Regolamento degli archivi ecclesiastici proposto ai vescovi diocesani (Roma 1998). Ha anche promosso la realizzazione e la pubblicazione di un manuale di archivistica ecclesiastica, intitolato Consegnare la memoria (a cura di S. Palese, E. Boaga, G. Zito, Giunti, Firenze, 2003), che riflette lo sviluppo di una nuova cultura archivistica ecclesiastica, colmando una lacuna dopo le opere edite da Ambrogio Palestra e Angelo Ciceri nel 1965, da Simeone Duca e Basilio Pandizc nel 1967, da Simeone della S. Famiglia (T. Fernández) nel 1978, e da Gino Badini nel 1984.

Odierna situazione degli archivi ecclesiastici in Italia. L’Associazione Archivistica Ecclesiastica è rimasta per vario tempo in materia di archivi ecclesiastici l’interlocutore principale con il Ministero per i Beni Culturali e Ambientali, svolgendo una proficua opera di collaborazione reciproca.

Tra gli organismi ecclesiastici ufficiali, sorti per i beni culturali in genere e per le biblioteche e archivi ecclesiastici in particolare, si possono ricordare il Pontificio Consiglio per i Beni Culturali della Chiesa, istituito da Giovanni Paolo II con il Motu Proprio “Inde a pontificatus nostri initio” del 25 marzo 1993, e avente competenza per impartire direttive a tutti gli Ordinari diocesani e ai Superiori religiosi dell’intera Chiesa; e la Consulta nazionale dei Beni culturali ecclesiastici in seno alla Conferenza Episcopale Italiana e anche l’Ufficio specifico per i Beni Culturali della Chiesa Italiana.

I rapporti della Conferenza Episcopale Italiana con il Ministero per i Beni Culturali e Ambientali nel settore archivistico hanno portato nel 1996 ad un accordo per regolare meglio la reciproca collaborazione per la salvaguardia, inventariazione, valorizzazione e godimento dei beni culturali della Chiesa, prevista dall’art. 12 del testo di revisione del Concordato Lateranense (1984). Una collaborazione già ben consolidata specialmente in alcune aree regionali, e anche favorita della legge statale 253/86 nei confronti degli archivi ecclesiastici. Infine l’intesa del 18 aprile del 2000 tra la Conferenza Episcopale Italiana e il Ministero dei Beni Culturali e Ambientali dello Stato Italiano ha fissato i principi in base ai quali si realizza la suindicata collaborazione ai fini dell’ordinamento, conservazione e consultazione degli archivi ecclesiastici italiani.

È bene ricordare che in ogni diocesi italiana esistono un archivio della Curia Vescovile, un archivio o biblioteca capitolare della cattedrale, gli archivi delle parrocchie, delle confraternite, associazioni, movimenti ecc, di diritto vescovile o solo operanti di fatto e con dipendenza da quale autorità ecclesiastica, e gli archivi della case religiose maschili e femminili.

In questi ultimi anni si registra un notevole sviluppo di centri di studio, spesso con sede presso gli archivi diocesani, che pongono la loro attenzione specialmente su questi archivi e su quelli parrocchiali e del mondo confraternale. Dal 2004 l’Ufficio Nazionale per i Beni Culturali della Conferenza Episcopale Italiana promuove e offre una serie di strumenti informatici per gli archivi ecclesiastici che partecipano al progetto CeiAr, con l’intento di facilitare la loro fruizione e accesso.

Inoltre si registra un sottolineatura sulla valenza del materiale archivistico vedendo in esso, secondo un’espressione di Paolo VI, le tracce del “transitus Domini” nella storia degli uomini. In questa linea si pone oggi la funzione pastorale che gli archivi ecclesiastici nella “mens” della Chiesa hanno come luoghi della memoria delle comunità cristiane e come fattori di cultura per la nuova evangelizzazione. A questo riguardo è notevole l’illustrazione di questa funzione pastorale fatta dalla Pontificia Commissione per i Beni Culturali della Chiesa con circolare del 1997.

Fonti e Bibl. essenziale

Enchiridion Archivorum Ecclesiasticorum. Documenta potiora Sanctae Sedis de archivis ecclesiasticis a Concilio Tridentino usque ad nostros dies, quae collegerunt Rev.dus Dom. Simeon Duca et P. Simeon a S. Familia, O.C.D., Archivio Segreto Vaticano, Città del Vaticano, 1966; Per gli archivi ecclesiastici d’Italia. Strumenti giuridici e culturali, a cura di G. Zito, Associazione Archivistica Ecclesiastica, Città del Vaticano, 2002 (Quaderni di “Archiva ecclesiae”, 8); Le conseguenze sugli archivi ecclesiastici dal processo di unificazione nazionale: soppressioni, concentrazioni, dispersioni, Atti del Convegno di Modena (19 ottobre 2011), a cura di G. Zacchè, Mucchi Esditore, Modena, 2012. (Centro nazionale sugli archivi ecclesiastici di Fiorano e Ravenna, Atti dei Convegni, 16); Il libro del centenario. L’Archivio Segreto Vaticano a un secolo dalla sua apertura 1880/82 – 1980/82), Città del Vaticano, 1981-1982; Pagano S., Il censimento degli archivi ecclesiastici d’Italia del 1942. Introduzione, Archivio Segreto Vaticano, Città del Vaticano, 2010 (Collectanea Archivi Vaticani, 73). F. Bartoloni, Gli archivi ecclesiastici, in Notizie degli Archivi di Stato, 12 (1952), 10-14; G. Battelli, Gli archivi ecclesiastici d’Italia danneggiati dalla guerra, in Rivista di storia della Chiesa in Italia, 1 (1947), 306-308; M. Giusti, I compiti della Pontificia Commissione per gli Archivi ecclesiastici d’Italia, in Archiva Ecclesiae, 2 (1959), 149-157; V. Monachino, La “Associazione Archivistica Ecclesiastica” e l’odierna situazione degli archivi ecclesiastici in Italia, Associazione Archivistica Ecclesiastica, Città del Vaticano, 1993 (Quaderni di “Archiva Ecclesiae”, 1); Cinquant’anni di attività (1956-2006). Bilancio e prospettive, Associazione Archivistica Ecclesiastica, Città del Vaticano, 2007 (Quaderni di “Archiva ecclesiae”, 11); G. De Longis Cristaldi, Interventi e contributi dello Stato a favore degli Archivi ecclesiastici, in Archiva Ecclesiae, 34-35 (1991-192), 85-91; Le carte della Chiesa. Archivi e biblioteche nella normativa pattizia, a cura di A.G. Chizzoniti, Bologna, 2003, 65-105.


LEMMARIO




Archivi militari - vol. II


Autore: Cargnello Giulio

Gli archivi delle Forze armate contengono fondi utili per la storia della Chiesa, in particolar modo per l’indagine sul clero castrense, la cui presenza in Italia risale a tempi lontani, anche se in questa sede ci limiteremo a descrivere le opportunità di ricerca nello stato italiano unificato. La documentazione a disposizione, condizionata dal periodo storico o dalla stessa struttura dell’organizzazione militare, presenta delle caratteristiche peculiari, da tenere in considerazione per una corretta lettura delle fonti.

I parametri di queste carte saranno sovente lontani dalla misura della vocazione o del lavoro pastorale. Il mantenimento di un morale alto tra la truppa, ai fini della combattività, la naturale commistione tra il servizio, il potere e la missione (un costantinismo di fondo), saranno, ad esempio, interessi preminenti nella valutazione del superiore gerarchico di un cappellano militare.

La naturale caratteristica delle carte militari di fornire quantificazioni numeriche, porterà a descrivere, nelle relazioni dei Comandi ai superiori sull’attività dei cappellani, il numero di sacramenti impartiti e l’esternalità dell’efficacia in chiave motivazionale delle pratiche e delle cerimonie, piuttosto che la fede trasmessa, in ogni caso difficile da descrivere e da leggere.

Nell’enfasi risorgimentale il clero castrense fu fortemente limitato dopo l’unità d’Italia, anche se nella guerra di Libia e soprattutto nella Prima guerra mondiale, i cappellani militari furono presenti sui campi di battaglia. L’istituzione dell’Ordinariato militare, voluto dal governo Mussolini, con la legge 417 del 1926, previde per la prima volta una tabella organica in pianta stabile di cappellani assunti nelle Forze armate, anche in tempo di pace, con la loro assimilazione al grado di capitano. Tre anni prima della Conciliazione, il governo italiano designò unilateralmente un vescovo quale Ordinario militare. Il Pontefice avvallò tacitamente la legislazione del 1926, per quanto unilaterale, confermando la nomina dell’Ordinario (S.E. Mons. Angelo Bartolomasi). Non è privo di significato tale atto: i primi abboccamenti tra lo Stato e la Chiesa, in vista del Concordato, avvennero con il ripristino del clero castrense. Il duce, del resto, in un intervento al Senato, si dimostrò convinto dell’utilità dei servizi dei cappellani militari nelle Forze armate; in particolare nell’instillare senso del dovere ed obbedienza.

L’arcivescovo Ordinario militare, oggi come ieri, è immediatamente soggetto al Pontefice, essendo i cappellani militari sacerdoti in cura d’anime di una circoscrizione ecclesiastica, non determinata in base a criteri territoriali, come normalmente avviene, ma in base a un criterio personale, individuato dalla speciale professione militare del fedele e dalla sua frequente mobilità.

Il Concordato del 1929 sancì espressamente la presenza dell’Ordinariato militare, il cui arcivescovo, però, necessita una conferma da parte dello stato italiano, diversamente dagli ordinari territoriali, eletti solo canonicamente e privi di necessità d’approvazione statale. Durante il periodo fascista, l’Ordinariato fu rafforzato con successivi provvedimenti di legge e fornì pure il clero alle organizzazioni paramilitari e militari di regime.

 Le fonti archivistiche e loro caratteristiche

La documentazione archivistica a disposizione è composta principalmente dalle relazioni dei Comandanti di unità ai superiori, dai fogli matricolari dei cappellani e dai fascicoli personali, quali dipendenti dal Ministero della Difesa.

La lettura delle carte disponibili vorrebbe mirare alla comprensione intima dell’uomo cappellano, al di là del rigido burocratismo delle fonti archivistiche militari e di una certa impronta agiografica della memorialistica.

Questa operazione è parzialmente realizzabile, attraverso lo studio dei meccanismi sovrintendenti alla produzione della documentazione del personale militare, per intendere sigle, linguaggi specifici, codici comunicativi e gerarchici.

Il tentativo di estrarre dalla documentazione il lavoro pastorale è quindi faticoso, proprio perché le carte stesse sono per natura rivolte ad altri scopi.

Si farà una breve presentazione sui centri dove è possibile fare ricerca archivistica sui cappellani militari, con qualche cenno utile alla buona lettura delle carte, da considerarsi valido in generale, anche per i non cappellani. Quali Ufficiali delle Forze armate, militari a tutti gli effetti, i cappellani non risentono di specificità, rispetto a un militare non ecclesiastico, nell’impianto della documentazione archivistica.

La conservazione delle carte all’interno dei fascicoli e la creazione di quest’ultimi, avvengono di solito per sedimentazione.

Ministero della Difesa. Uffici storici di Forza armata. La documentazione storica- militare è conservata presso il Ministero della Difesa. Per espressa disposizione di legge (D.P.R. 37/2001, art.1), il Ministero della Difesa non versa all’Archivio Centrale dello Stato ma mantiene, presso i rispettivi Uffici storici di Forza armata (che sono anche centri di ricerca), le carte di valore storico. Le carte concernenti i cappellani rinvenibili presso gli archivi degli Uffici storici (Esercito, Marina, Aeronautica e Carabinieri), si riferiscono soprattutto agli aspetti dell’impiego operativo di questo personale, consistendo, il più delle volte, nelle relazioni del Capo dell’Unità operativa (caserma, nave ecc.), al superiore diretto o allo Stato Maggiore (il vertice di Comando di una Forza armata), circa l’attività del personale. Tali relazioni, ovviamente, sono volte a dimostrare il perfetto funzionamento del Comando e a segnalare soprattutto nuove necessità logistiche.

Citando l’azione dei cappellani, raramente si lamenterà la carenza di personale, tipica voce monocorde di qualsiasi comandante militare, ma piuttosto la concordanza dell’azione del cappellano con i fini della catena di comando della caserma, nave ecc. Il sistema militare tende naturalmente a giudicare meno utile tutto ciò che non concorre all’attività operativa o all’accrescimento di una posizione di potere. Il cappellano integra e fonde due aspetti, quello religioso e quello militare, in un connubio non sempre facile.

Di conseguenza l’attività del cappellano è spesso valutata in quest’ottica; altrimenti è giudicata secondaria o di minore interesse per l’unità. Si proferiranno giudizi lusinghieri per i cappellani non in conflitto con il Comando e collaborativi ai fini operativi militari, prescindendo, di solito, da notazioni che mettano in luce l’efficacia dell’azione evangelizzatrice. Le relazioni ai superiori militari, in linea generale, sono strutturate in modo da giustificare le proprie attività soprattutto in termini quantitativi e di efficienza di azione. Questa documentazione sarà quindi utile a misurare il numero di messe, comunioni, interventi ma non a stabilire la percezione di fede.

La stessa descrizione delle celebrazioni eucaristiche solenni risente dell’organizzazione dei riti militari: saranno quindi ben apprezzati lo schieramento composto, la marzialità, l’ordine, la presenza di autorità militari e civili, l’accento nella predicazione su: motivazione al combattimento, amore alla patria e senso del dovere del militare. Un’eventuale omelia di natura pacifica o di benevolenza verso il nemico, aderente ai principi evangelici, difficilmente avrebbe incontrato, almeno fino a ieri, il favore dei comandi. L’emersione di discordanze con il comando potrebbe essere indice di un accento troppo forte su queste tematiche. In particolare durante il periodo fascista, l’omiletica di un cappellano non avrebbe potuto affermare l’inutilità della guerra, riportando, ad esempio, le note parole di Benedetto XV concernenti la Grande guerra, o esprimere dubbi sulla bellicosità volta alla partecipazione a continui conflitti nell’ultimo decennio del regime.

Un cappellano siffatto sarebbe stato allontanato senza fallo dal suo ministero per insubordinazione o per spirito antipatriottico. Nella documentazione depositata presso gli Uffici storici si rinvengono esempi di cappellani che potrebbero ricadere in questa casistica. In questi termini le mancanze di un cappellano, nelle relazioni del comando, con poca probabilità, si esprimono in termini quantitativi (scarso numero di messe, sacramenti impartiti ecc.), ma nell’aderenza o meno all’etica militare, rispondente a valori gerarchici ben definiti.

Archivio Centrale dello Stato. Presso questo centro è conservata la stessa documentazione di cui al punto precedente, fino agli inizi del novecento, momento di istituzione degli Uffici storici di Forza armata, ai quali da quel momento furono conferite le carte.

 Archivio della Direzione Generale del Personale Militare (PERSOMIL). Ministero della Difesa. Presso la Direzione Generale del Personale Militare, organo interforze, è conservata la documentazione di gestione amministrativa del personale militare, nello specifico il foglio matricolare, uno dei due documenti, di cui si compone la documentazione personale di ogni militare. L’accessibilità dell’archivio della Direzione Generale è limitata e va preceduta da lettera di presentazione.

Il foglio matricolare, da pochi anni informatizzato, è una scheda sintetica contenente i dati di base di ogni militare: generalità anagrafiche, studi, condizione lavorativa (in servizio permanente, di leva ecc., promozioni), destinazioni di servizio con i relativi periodi, ricompense, onorificenze, notizie sanitarie ed economiche- amministrative. Documento non soggetto a scarto d’archivio, esibisce dati e non apprezzamenti o pareri di merito.

La consultazione di un foglio matricolare di un qualsiasi militare, quindi anche dei cosiddetti preti- soldato della Prima guerra mondiale, non avendo essi alcuna funzione ecclesiastica all’interno delle Forze armate, è possibile presso gli archivi della Direzione Generale (per gli Ufficiali e i Sottufficiali e la truppa di Marina) o per la truppa dell’Esercito, presso i Centri documentali regionali (ex-distretti). Le carte del solo personale di truppa dell’aeronautica si trovano nel deposito matricolare di Orvieto.

Prima della costituzione dell’Ordinariato, nel 1926, i fogli matricolari dei cappellani (e i loro fascicoli), non costituivano un’unità archivistica separata, ma erano inclusi in quelli del Corpo/Armata, nel quale il sacerdote era stato immesso come Ufficiale.

Costituisce eccezione il personale cappellano di lingua italiana proveniente dalle zone ex-austro ungariche annesse dopo la Prima guerra mondiale (Trieste, Gorizia, Istria, Dalmazia, Trentino e Alto Adige). Questo personale fu riassorbito nell’amministrazione pubblica italiana. Presso gli archivi della Direzione Generale del Personale Militare è conservato uno schedario anagrafico di questi elementi, facente riferimento ai fascicoli personali di questi cappellani, oggi integralmente trasferiti all’archivio dell’Ordinariato Militare.

Archivio dell’Ordinariato Militare

Si tratta di archivio con materiale adeguatamente ordinato, con inventario parziale. Qui sono conservati i fascicoli personali dei cappellani militari, documenti tra i più interessanti per la ricostruzione storica delle loro vicende. Il fascicolo personale è spesso serbato presso l’ufficio d’impiego del personale (in questo caso l’Ordinariato), oppure all’Ufficio storico della Forza armata di appartenenza ed eccezionalmente presso la Direzione Generale (PERSOMIL).

I fascicoli personali contengono tutti i carteggi, riguardanti un qualsiasi militare dall’arruolamento alla morte. Sono composti normalmente da alcuni sottofascicoli (non sempre presenti come unità archivistiche separate) che qui si descrivono:

Per il personale ricaduto sotto la giurisdizione della Repubblica Sociale Italiana, più che i certificati di appartenenza alle brigate partigiane, sono spia di resistenza passiva, almeno per i funzionari ministeriali di Roma, l’apparizione di certificati medici per “reumatismi” o malattie dovute al clima rigido, per opporsi al trasferimento a Salò e località circonvicine nel 1944. Chiaramente questa resistenza potrebbe anche essere stata dettata da semplici ragioni logistiche. Raramente i cappellani militari si trovarono nelle condizioni di utilizzare questi stratagemmi per evitare i trasferimenti: il loro senso del dovere pastorale abitualmente fece sì che il loro impiego, al momento dell’armistizio dell’otto settembre 1943, fosse dettato dalla necessità di seguire il contingente di militari assegnato alla loro cura, qualsiasi fosse il regime politico vigente. Alcuni cappellani vissero l’esperienza di fiancheggiare i loro uomini passati alle brigate partigiane. La sezione creata dall’Ordinariato a Verona, presso il governo della Repubblica Sociale Italiana, non fu in particolar modo collaborazionista, tanto che il suo direttore, il pro vicario mons. Casonato, fu congedato per mancata convinta aderenza ai principi fascisti.

La discriminazione dal fascismo fu avocata, nell’agosto 1945, allo stesso Ordinario militare. Pochissime furono le epurazioni tra i cappellani, comunque poi superate dalle amnistie.

Le relazioni di discriminazione contengono la cronistoria degli spostamenti, del servizio prestato dopo l’armistizio e l’atteggiamento, assunto dall’interessato, nei confronti delle autorità della RSI. I toni sono generalmente imperniati, qualsiasi fosse stata la scelta, all’attenersi al senso del dovere, giustificando così i propri atti e mirando normalmente a omettere ciò che di compromettente o presunto tale si sarebbe potuto rilevare. Da queste carte sono realizzabili delle deduzioni, chiaramente da soppesarsi con molta attenzione: la ricerca delle vere ragioni delle scelte o delle riflessioni del cuore, è diametralmente opposta alla natura burocratica delle carte.

Spesso il metro di valutazione è appiattito verso l’alto. Solo nel giudizio analitico finale, un occhio esperto o un militare possono rilevare, in mezzo a termini laudatori che seguono uno stereotipo ben codificato, una piega d’insoddisfazione del superiore. Il giudizio analitico pone comunemente la sua attenzione, in tre o quattro righe al massimo, sul senso del dovere, sull’ordine della tenuta (la divisa), sull’efficienza, sul rispetto gerarchico, sulla dedizione al Corpo ecc.

Il più delle volte la segnalazione è finalizzata non ad ottenere una condizione di privilegio, ma semplicemente ad assicurarsi una legittima aspettativa che tarda a venire. Al contrario degli altri sottofascicoli, questo contiene documentazione di più immediata ed efficace lettura sulle caratteristiche della persona in oggetto. Spesso sono descritte difficoltà personali, o di servizio, che per un cappellano potrebbero essere rappresentate dall’impedimento allo svolgimento di un lavoro pastorale, dallo sfinimento per il lavoro al fronte, dal desiderio di ritornare alla diocesi di provenienza e da altri motivi. Queste lettere di intermediazione sono utili per intendere la personalità umana del soggetto, le sue conoscenze e l’ambiente sociale nel quale è inserito.

Non mancano, in tali relazioni, accenni a difficoltà del cappellano: la più comune riportata è l’ostilità del Comando ad un’attività pastorale non svolta solo nel binario della motivazione e del benessere materiale del personale.

***

A differenza degli estratti matricolari, a conservazione perpetua, i fascicoli sono soggetti a procedura di scarto, anche se non vi è una norma che ne stabilisca le tempistiche di conservazione. Una copia integrale del solo fascicolo contenente le note di qualifica è trattenuta anche dalla Direzione Generale del Personale Militare, che lo scarta ad intervalli regolari. I fascicoli dei cappellani militari non sono stati sottoposti a scarto e sono conservati all’Ordinariato.

Conclusioni

Da questa breve disamina della documentazione militare si può intendere che essa è di complessa lettura se il nostro scopo si situa nella comprensione della pastoralità di un cappellano militare.

La presenza di un linguaggio specifico e di giudizi comprensibili a volte solo da un militare rende questa documentazione di difficile analisi, se non dopo un intenso impegno di ricerca continuato nello stesso ambiente e con lo stesso tipo di carte. Le informazioni rilasciate da questi archivi non sono concordanti con quelle che si aspetterebbe uno studioso dell’uomo sacerdote e della sua azione evangelizzatrice.

Lo scopo della documentazione personale e matricolare è la gestione del personale dal punto di vista burocratico. I controlli di funzionamento, che l’organizzazione delle Forze armate si prefigge, sono, di solito, mirati all’efficienza operativa dell’unità. La stessa presenza del cappellano è, a tutt’oggi, inquadrata nelle azioni per il benessere del personale, al pari dell’esistenza delle sale ricreazione nelle caserme, dei circoli Ufficiali, dei soggiorni marini e montani, del servizio medico psicologico, per garantire motivazione, riposo e rendimento operativo ottimali. La prospettiva evangelizzatrice, nella quale la presenza di Dio nella vita di una persona è spina dorsale della stessa, dal punto di vista del benessere, si riduce a uno dei corollari. In quest’ambito ristretto il cappellano si trova a dover agire, con delle limitazioni intrinseche all’ambiente.

Uno dei pregi universali della documentazione personale è il fornire in maniera massiva informazioni generali, utili poi per analisi statistiche (studi, condizioni fisiche, provenienza geografica ecc.) sulla popolazione maschile del paese. Solo l’archivio centrale di un ordine religioso e non un archivio diocesano, potrebbe avere uno spettro geografico così ampio.

Da queste poche annotazioni si potrà almeno giungere ad una sospensione di giudizio sul “cuore del cappellano”, se basato solo sulla documentazione qui descritta, in mancanza di altre testimonianze dirette. Le speculazioni ed interpretazioni fondate sull’esperienza di manipolazione di queste carte possono certamente mancare il bersaglio dell’identificazione dell’essenza della persona trattata.

La stessa lettura poi risente dell’epoca storica e della sua mentalità, dalla quale non è facile prescindere. La tensione postbellica dell’Ordinariato militare a dimostrare la sola opera pastorale dei propri sacerdoti è ugualmente una concezione problematica, quanto quella opposta, volta a dimostrare ideologicamente il sostanziale sostegno al regime fascista dei cappellani militari.

L’archivistica militare risente di questi contrasti e la sua visione, dopo le nostre analisi, non sembra così lineare, senza comprendere profondamente un linguaggio proprio di un mondo altamente ricco di simbolismo e di riti, quale è quello militare.

Fonti e Bibl. essenziale

Benedetto XV, Lettera ai capi dei popoli belligeranti, 1 agosto 1917, in: http://w2.vatican.va/content/benedictv/it/letters/1917/documents/hf_ben-xv_let_19170801_popoli-belligeranti.html; Cargnello G., «Gli impiegati civili delle Capitanerie di porto», in: Fiume, rivista di studi Adriatici, 1-6(2016), 93-100; Fontana F., Croce ed armi: l’assistenza spirituale alle Forze armate italiane in pace e in guerra, Torino 1956; Franzinelli M., – Balducci E., Il riarmo dello spirito: i cappellani militari nella seconda guerra mondiale, Paese 1991; Franzinelli M., I cappellani militari italiani nella Resistenza all’estero, Roma 1993; Greco L., Homo militaris, Milano 1999; La Racine, R. B., «Storia dei cappellani militari e della loro presenza in Marina dall’unità d’Italia alla liberazione, Roma 1945», in: Bollettino d’archivio dell’Ufficio storico della Marina militare, 24(2010); Lovison F., I Cattolici e la Santa Sede nella Prima guerra mondiale. I cappellani militari nell’Europa in guerra, Relazione al Convegno di giovedì 16 ottobre 2014 – Aula S. Pio X – h. 15.00, Pontificio Comitato di Scienze storiche, Roma 2014; Morozzo Della Rocca R.,- Monticone A., La fede e la guerra: cappellani militari e preti-soldati, 1915-1919, Roma 1980; Pugliese F. A., Storia e legislazione sulla cura pastorale alle Forze armate, Torino 1956; Rochat G., I cappellani valdesi, Torre Pellice 1996; Rossi A., Le guerre delle camicie nere, Pisa 2004; Sale G.M., La Chiesa di Mussolini: i rapporti tra fascismo e religione, Milano 2011.


LEMMARIO

 




Arte cristiana - vol. II


Autore: Andrea Spiriti

La proclamazione dogmatica dell’infallibilità pontificia (1870) e la coeva fine dello Stato della Chiesa sono certamente due eventi simbolici del papato di Pio IX, ai quali si può aggiungere la proclamazione dogmatica dell’Immacolata Concezione (1854), con il conseguente impulso iconografico. Il tutto in un contesto di scontro duro col nascente stato italiano, prosecutore delle soppressioni di case religiose e conquistatore di Roma. Il papato di Leone XIII (1878-1903) appare per alcuni versi il prosecutore del precedente su alcuni temi-guida: l’uso dell’eclettismo e dello storicismo come strumenti di recupero del passato cristiano, compresi interventi massici (si pensi al Laterano o ai Musei Vaticani), in parallelo col recupero ideologico del tomismo. D’altro canto il rilancio missionario già iniziato con Pio IX aveva portato a singolari applicazioni di arte coloniale cristiana che grazie all’eclettismo riusciva a trovare punti importanti di contatto con le civiltà incontrate. Il Giubileo 1900 appare decisivo per la devozione al Sacro Cuore, oggetto di una sterminata iconografia e di grandi architetture a Roma come a Parigi. Appartiene al papato di Pio IX sia l’evento (1858) sia l’approvazione (1862) delle apparizioni di Lourdes; ma è col papato leonino che inizia un fenomeno esploso più tardi sotto Pio XI, la creazione presso chiese e luoghi sacri di grotte di Lourdes: uno dei fenomeni più tipici dell’arte cattolica del Novecento. Il contesto , tuttavia, è quello della perdita radicale non tanto di peso sociale in assoluto, quanto di possibilità concreta di incidere sull’edificato, in contesti di statalizzazione e musealizzazione sempre più accentuati in tutta Europa; e questo malgrado “riconquiste” come le tappe della piena acquisizione dei diritti civili e politici per i cattolici inglesi, con annessa possibilità di realizzare i luoghi di culto (si pensi al Brompton Oratory o alla Westminster Cathedral di Londra).

La sostanziale omogeneità stilistica dei papati di Pio X (1903-1914) e Benedetto XV (1914-1922) coesiste coi danni vistosi al patrimonio sacro nelle aree di fronte della prima guerra mondiale, fino al quasi mitizzato incendio alla cattedrale di Rheims. E tuttavia questa lunga fase 1846-1922 segna anche la perdita radicale di primato dell’arte cristiana, o meglio la biforcazione fra la presenza (in fondo importante) del mistero di Cristo nelle opere di pittori in sé indipendenti dalle chiese (oppure con netta divisione di ruoli: si pensi al pastore protestante Vincent Van Gogh); e le committenze dirette dei pontefici, dei vescovi, delle parrocchie, degli ordini religiosi, sempre più finalizzate a prodotti devozionali lontane dalla modernità. Un’arte da Sillabo, insomma; peraltro inserita in architetture spesso notevoli per aggiornamento (si pensi al Chiappetta o già allo stesso Viollet-le-Duc) anche se ancorate al paradigma eclettico.

Così opere come l’Erodiade di Moreau o il Cristo giallo di Gauguin o l’Entrata di Gesù a Gerusalemme di Ensor sono religiose solo in senso lato; e semmai la drammatica ricerca cristologica di Georges Rouault, iniziata nel 1917, può inserirsi meglio nella tipologia dell’itinerario verso la fede. All’opposto si hanno scelte devozionali spesso conservatrici, rese ancora più prudenti da traumi come la rivoluzione russa del 1917 con susseguenti distruzioni del patrimonio sacro ortodosso. Il papato di Pio XI (1922-1939) segna l’equilibrio fra architetture eclettiche (Pinacoteca Vaticana) e aperture razionaliste che nei vescovi più acuti giungeva a singolari forme neopaleocristiane: si pensi all’opera milanese di Alfredo Ildefonso Schuster, dalla spinta alla riqualificazione neopaleocristiana di San Lorenzo alla reinvenzione di Cassiciacum. In effetti il restauro, spesso la riscoperta o la reinvenzione del passato medioevale degli edifici sacri stava divenendo un ambito forte della cultura cattolica; fino però a scelte discutibili come il pauperismo francescanizzante iniziato con la reinvenzione della tomba di Francesco (1926) e ancora in corso. Il pontificato di Pio XII (1939-1958) è segnato dalle terribili distruzioni della seconda guerra mondiale, dall’annientamento di interi centri urbani (Varsavia, Berlino, Dresda), dalle distruzioni ideologiche prima delle guerre civili e poi delle invasioni sovietiche; ma anche da interventi che il papa fa condurre, con chiara valenza ideologica, nella stessa basilica vaticana, dalla reinvenzione della tomba di Pietro e della propria tomba, fino agli inizi, compiuti sotto il successore, della Porta della Morte, con una riproposizione ultima e alta del classico nesso fra committenti (Pacelli e Roncalli), iconografo (Giuseppe De Luca) e artista (Giacomo Manzù); e infine con la proclamazione dogmatica dell’Assunzione di Maria (1950), che codifica in realtà una tradizione figurativa precedente più che aprirne una nuova.

Gli anni di Giovanni XXIII (1958-1963) e di Paolo VI (1963-1978) vedono con il Vaticano II una rivoluzione liturgica che agisce in profondità sullo spazio sacro; ma che, negli edifici storici, dà origine a pochi interventi assennati e a molti vandalismi, con distruzioni e dispersioni imponenti. Più fecondo (anche se discusso) il tema della nuove strutture, con una rivoluzione architettonica che si serve dei più grandi architetti in Italia (Michelucci, Nervi), del resto preceduti fin dagli anni cinquanta dagli interventi francesi di Le Corbusier. L’uso sistematico di figurazioni astratte (potenti ma rischiose perché rompenti il nesso realistico durato millenni), l’adozione di nuovi rapporti spaziali, l’estetica della luce se per un verso hanno creato tensioni per un altro hanno prodotto decisi svecchiamenti: si pensi al gesto simbolico della Collezione di Arte Religiosa Moderna vaticana (1973), ma senza riuscire a cogliere appieno il significato delle proseguite ricerche individuali, per le quali bastino i Crocefissi di Salvador Dalì. Dopo il brevissimo papato di Giovanni Paolo I (1978), quello di Giovanni Paolo II (1978-2005) segna una linea proseguita in quello attuale di Benedetto XVI (2005 – a.m.a.): la coesistenza, non sempre armoniosa, fra una linea di moderato ripristino di spazi e usi (con susseguente recupero di quanto non disperso), un pauperismo suggestivo quanto astorico, rigori neoastratti e spunti da culture diverse. Emblematica, in questo senso, l’invasione di icone, viste come massimo portato di una cultura ortodossa spesso malintesa e comunque incompatibile con gli spazi storici del cristianesimo occidentale del secondo millennio.

Fonti e Bibl. essenziale

Mancano studi d’insieme. Notevole A. De Micheli, Le avanguardie artistiche del Novecento, Milano 1973. Importante il Catalogo della Collezione di Arte Religiosa Moderna, Città del Vaticano, 1980.


LEMMARIO




Assemblea Costituente - vol. II


Autore: Francesco Bonini

Dal momento della fine del regime fascista tutta l’azione del complesso e articolato mondo cattolico si sviluppa, con crescente intensità, in una prospettiva costituente, per riassetto del sistema politico-istituzionale italiano. I radiomessaggi natalizi di Pio XII scandiscono questo tempo, a partire dall’appello lanciato nel 1942, l’anno in cui era stata fondata la Democrazia Cristiana: «Non lamento, ma azione è il precetto dell’ora; non lamento su ciò che è o che fu, ma ricostruzione di ciò che sorgerà e deve sorgere a bene della società».

Dal 18-23 luglio, pochi giorni prima della decisione del Gran Consiglio del Fascismo di sfiduciare Mussolini, si svolgeva a Camaldoli un convegno, promosso da mons. Bernareggi, cui partecipavano – su 90 inviti – 45 esperti dal vario mondo cattolico, che fanno il punto sui Principi dell’ordinamento sociale, portando poi in breve alla pubblicazione del cosiddetto Codice di Camaldoli. Parallelamente, nell’Italia del nord, all’Università cattolica un gruppo di “professorini” sviluppa le riflessioni sui radiomessaggi del Papa che porteranno ad accumulare altro importante materiale.

A questo dà forma politica de Gasperi, cosicché si può preparare un’ampia piattaforma per la discussione costituente. Essa non si identifica con la questione istituzionale, anche se la implica. Il grande consenso infatti che si esprime nel mondo cattolico per il riassetto costituente non si riproduce automaticamente sulla scelta repubblicana, anche se il leader politico era certamente pro-repubblicano e il Pontefice non vi era pregiudizialmente contrario.

Al consiglio dei ministri del 18 marzo 1944 De Gasperi afferma: «I democratici cristiani sono per la soluzione democratica, perché sanno che il popolo vuole la libertà, cioè vuol essere padrone in casa sua, ciò che gli può venir garantito in via pacifica con la Costituente, ove il rinnovamento deve avvenire per la forza interna di autodisciplina e di autogoverno».

L’attività di elaborazione, trasversale nel mondo cattolico, si coagula nella celebrazione della XIX settimana sociale, prima dopo l’interruzione durante il Regime, che si svolge a Firenze dal 22 al 28 ottobre 1945, sul tema Costituzione e costituente e viene rilanciata nel congresso della DC, che si tiene il 24-27 aprile 1946 alla vigilia delle elezioni del 2 giugno.

Si può dire dunque che i cattolici sono gli unici ad elaborare un compiuto progetto costituente, formalizzato nella relazione di Gonella delle cosiddette 27 libertà.

Sintetizza la Civiltà Cattolica la contiguità del percorso mondo cattolico-DC: «non bisogna dimenticare che non sarà la forma della monarchia o della repubblica che potrà assicurarci un costituzione cristiana, ma un solido partito che abbia una tale maggioranza da imposi a tutte le altre formazioni politiche».

Alla costituente il lavoro redazionale vede particolarmente impegnato Giuseppe Dossetti con i “professorini” La Pira, Fanfani e Moro, sotto l’attenta regia dello stesso De Gasperi e dei suoi più stretti collaboratori alla Costituente, come Umberto Tupini. La Santa Sede segue con grande attenzione il complesso lavoro costituzionale, d’intesa con gli esponenti della DC, ma anche in relazione con lo stesso Meuccio Ruini, presidente della commissione dei 75, cioè di fatto coordinatore del processo di elaborazione e di redazione, oltre che con gli esponenti dei partiti moderati (qualunquisti e monarchici). Il partito comunista dal canto suo aveva presente con particolare attenzione gli interessi della Chiesa. Le posizioni più spiccatamente laiche, anche se senza radicale contrapposizione, sono dei socialisti e di esponenti liberal-democratici.

Le indicazioni vaticane, espresse pubblicamente dalla Civiltà Cattolica e dall’Azione Cattolica, vertono su tre punti: i temi di architettura, relativi all’impostazione di fondo, ai diritti ed alle libertà, a partire dalla libertà religiosa; il rapporto Stato-Chiesa con la necessità di affermare la conferma costituzionale dei patti Lateranensi e le questioni relative ai grandi campi della dottrina sociale, famiglia, scuola, lavoro.

Il processo costituente italiano si caratterizza per essere stato lungo, con l’obiettivo di produrre consenso e di accompagnare il consenso costituente oltre una dialettica politica sempre più caratterizzata dalla frontiera della guerra fredda.

Questo vale anche per i rapporti con la Chiesa. «Non si può ottenere interamente — disse De Gasperi al Nunzio — tutto ciò che la Chiesa chiede in materia di religione».

L’articolo 5 del progetto, relativo alla definizione dei rapporti Stato-Chiesa ed alla costituzionalizzazione del principio (e non della lettera) dei Patti Lateranensi viene approvato senza sorprese, con il voto favorevole del PCI. Emblematico diventa anche il caso dell’articolo 23, sul matrimonio. Il vincolo dell’indissolubilità, introdotto nel progetto con una votazione che vede accanto alla DC le destre, viene espunto in sede di discussione generale, con la determinante assenza di ben 32 deputati democristiani, mentre un duttile atteggiamento comunista, fa comunque passare il concetto di “società naturale”.

Gli indubbi risultati ottenuti in termini sostanziali sui grandi temi di architettura avevano parimenti sconsigliato qualsiasi battaglia per inserire un riferimento o un appello a Dio, scegliendo così una via mediana tra la legge fondamentale tedesca, che lo contempla, e le due costituzioni successivamente approvate in Francia, che invece affermavano esplicitamente la “laicité” (anche) della (quarta) Repubblica.

In ogni caso il risultato del bargain costituente disegna il profilo di un sistema democratico fortemente caratterizzato dall’ispirazione e dalla presenza cristiana.

Fonti e Bibl. essenziale

Per l’inquadramento istituzionale: F. Bonini, Storia costituzionale della Repubblica, Roma, Carocci, 2077. Nel merito G. Sale, Il Vaticano e la Costituzione, Jaca Book, Milano 2008. Si veda anche E. Gavalotti, Il professorino. Don Giuseppe Dossetti tra crisi del fascismo e costruzione della democrazia 1940-1948, Bologna 2013.


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