Associazione Italiana dei Professori di Storia della Chiesa

Dizionario Storico Tematico La Chiesa in Italia
Dopo l'Unità Nazionale
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Concilio Vaticano II - vol. II


Autore: Alexandra von Teuffenbach

La preparazione. Il Concilio Vaticano II fu annunciato pubblicamente dalla radio italiana a partire dalle ore 12,30 del 25 gennaio 1959. Solo quasi un’ora più tardi la notizia sarebbe stata data da papa Giovanni XXIII anche ai cardinali riuniti a San Paolo fuori le mura in occasione della chiusura della settimana di preghiera per l’unità dei cristiani. L’idea di celebrare un Concilio non era nuova. Soprattutto nell’ambito curiale romano era ben conosciuto sia il tentativo di papa Pio XI degli anni ’20 – poi lasciato da parte a favore di altri programmi più urgenti – sia quello, più articolato, di papa Pio XII. Questo secondo tentativo di preparazione si arenò quando Pio XII – di fronte all’alternativa di realizzare un Concilio lungo e complesso o un mero “spettacolo d’unità” – decise di interrompere ogni lavoro. Subito dopo la sua elezione al soglio pontificio Papa Giovanni XXIII espresse più volte in udienze private il suo desiderio di voler convocare un Concilio. Nell’annuncio ai cardinali a San Paolo aggiunse anche la sua intenzione di celebrare un sinodo per la città di Roma e di aggiornare il diritto canonico. La stampa italiana in linea di massima accolse positivamente e in modo corretto questo annuncio, ad eccezione del quotidiano Avanti! che non perse l’occasione di evidenziare in modo offensivo la differenza tra i pontificati di Pio XII e Giovanni XXIII, definendoli il primo oscurantista, il secondo conciliante.

Papa Roncalli diede una grande importanza alla preparazione del Concilio, anche prendendo a modello i sinodi da lui già celebrati in cui non aveva mai accettato alcuna discussione o scambio di opinioni, in quanto a suo avviso dovevano consistere principalmente in una solenne dimostrazione di unità della diocesi intorno al vescovo. Giovanni XXIII mise a capo della commissione antepreparatoria istituita il 17.5.1959 il suo cardinale segretario di Stato, Domenico Tardini, e chiamò ad esserne membri gli assessori o i segretari delle Congregazioni romane, tutti italiani ad eccezione di Acacio Coussa e Paolo Philippe. Alla commissione antepreparatoria fu affidato il compito di indicare i temi da proporre al futuro Concilio dopo aver sentito il parere dei vescovi sparsi nel mondo e di suggerire la composizione degli organi preparatori del Concilio. Alla grande inchiesta rispose il 76,4% degli intervistati nel mondo. Dei vescovi e abati italiani interpellati, l’86,3% diede un riscontro inviando i propri suggerimenti.

Il periodo preparatorio iniziò il 5 giugno 1960 con il motu proprio Superno Dei nutu in cui era stabilita l’istituzione di dieci commissioni preparatorie, due segretariati e una commissione centrale. Ad eccezione dei cardinali Agagianian e Bea, entrambi da anni in Italia, gli altri presidenti delle commissioni, segretariati e il segretario della commissione centrale erano italiani. Il papa infatti aveva voluto i prefetti e i segretari delle congregazioni romane corrispondenti a capo della preparazione più prossima del Concilio. Nella designazione dei membri della commissione centrale preparatoria invece si era posta particolare attenzione ad una scelta che indicasse la più grande internazionalità, come anche nella nomina dei segretari delle commissioni e dei segretariati. I soli italiani che troviamo tra loro sono Pericle Felici, segretario della Commissione preparatoria centrale, Cesare Berutti OP, Annibale Bugnini, delle commissioni per la disciplina del clero e della liturgia e Sergio Guerri del segretariato amministrativo.

Il 9 luglio alle commissioni fu inviato un fascicolo con i temi che il papa chiedeva fossero preparati. Da quel momento in poi – e fino all’esaurimento dei loro compiti – lavorarono alla preparazione del Concilio più di 880 persone, provenienti da quasi ottanta paesi. Non sempre è facile ricostruire per ognuno di loro di che nazionalità fossero, poiché non pochi tra loro vivevano in Italia da decenni e venivano contati per questo tra gli italiani. In ogni caso è sicuramente corretto sostenere che, tra italiani e “italiani di adozione”, la metà di loro viveva stabilmente nella penisola. Furono elaborati 70 testi, schemi disciplinari e dottrinali, tra i quali alcuni dovevano evidentemente essere unificati ad altri che trattavano una materia affine se non addirittura uguale, altri erano invece piuttosto capitoli di schemi che schemi veri e propri.

Mentre fervevano i preparativi da parte delle autorità ecclesiastiche, nell’estate 1962 il governo italiano promosse la formazione di un Comitato che doveva rendere onore, favorire l’ospitalità e facilitare il soggiorno dei Padri partecipanti al Concilio e delle personalità che si sarebbero riunite in quella occasione. Il 3 luglio 1962 il papa concesse un’udienza al presidente italiano Antonio Segni. A settembre Giovanni XXIII ricevette in udienza il presidente della regione Lazio che donò al papa una penna da tavolo per firmare i documenti conciliari e il sindaco di Roma – che aveva stabilito con tutto il consiglio comunale di stanziare 14 milioni di lire per le spese di rappresentanza in occasione del Concilio (si trattava di interventi relativi all’illuminazione, alla presenza di bandiere e, in genere, a rendere più bella la città) – donò al pontefice un calice con una scritta nel basamento a ricordo del Concilio.

Lo svolgimento: Primo periodo. Il Concilio si aprì l’11 ottobre 1962 con una solenne celebrazione che fu filmata dalla “RAI TV” e ripresa dalle televisioni di tutto il mondo. Non è mai stato calcolato il numero esatto di padri conciliari che presero parte alle cerimonie di apertura. Il 30 settembre 1962 erano stati contati 2908 tra vescovi e superiori religiosi aventi diritto alla partecipazione al Concilio; di questi 1089 erano europei e 430 italiani. Nelle congregazioni generali in cui si fece il conteggio dei padri però non si superarono mai i 2540 presenti, di cui 385 italiani. Il calcolo degli italiani presenti deve tuttavia essere rivisto a ribasso poiché non pochi vescovi esiliati dai loro paesi e impiegati in lavori in curia, come anche indistintamente tutti i cardinali di curia venivano conteggiati tra gli italiani.

Nei giorni precedenti avevano prestato giuramento gli ufficiali e i ministri che servivano il Concilio. Le famiglie nobili romane dei Colonna e dei Torlonia ricoprirono il compito di custodi del Concilio. L’Italia accolse positivamente la grande assise conciliare. Alle celebrazioni dell’11 ottobre fu presente nella tribuna d’onore il presidente della repubblica italiana Antonio Segni che mandò anche un messaggio augurale al Papa. Nello stesso giorno a Montecitorio, sotto la presidenza di Giovanni Leone, e a Palazzo Madama, sotto Cesare Merzagora, venne commemorato il Concilio di cui parlarono positivamente deputati e senatori di tutte le forze politiche. Anche il governo – nel consiglio dei ministri del 9 ottobre – si occupò del Concilio, e Amintore Fanfani, allora presidente del Consiglio, inviò un messaggio augurale. Inoltre il ministero degli esteri aveva rilasciato a tutti i padri Conciliari un documento speciale che dava loro diritto a varie facilitazioni. In quel primo giorno di Concilio la stampa italiana, anche quella di sinistra, fu positiva e elogiativa verso questo evento.

Con l’inizio dei lavori, il 13.10, si manifestò anche un certo nazionalismo, presto superato. Ogni conferenza episcopale elaborò infatti una lista di candidati per l’elezione dei 16 membri in ognuna delle dieci commissioni. La lista della conferenza episcopale italiana presentava 62 nomi, di cui 47 italiani. Questa lista fu poi molto lodata, per la sua “internazionalità”. Alla fine, quando anche il papa ebbe nominati i membri da aggiungere ad ogni commissione – erano undici con il segretariato ormai elevato a rango di Commissione – sui 274 membri che prestarono il loro servizio in seno a questi organi conciliari, 155 erano europei, di cui 52 italiani.

Un primo frutto del Concilio fu sicuramente la prima riunione nella storia dell’episcopato italiano, il 14 ottobre, sotto la presidenza del cardinale Siri. Le riunioni che ebbero luogo alla Domus Mariae diventarono presto settimanali e la formazione di questa conferenza episcopale aiutò ad una maggior consapevolezza nazionale e aprì ai vescovi la possibilità di agire in modo comune, come collegio. Dopo il nunzio al mondo, in questo primo periodo che terminò l’8.12, nell’aula conciliare si discusse dello schema della Liturgia, della Rivelazione, dei mezzi di comunicazione sociale, dell’ecumenismo e della Chiesa. Gli oratori italiani furono numerosi, si può dire infatti che uno su sei tra quelli che presero la parola, fu un padre conciliare italiano. Tra questi sono frequenti le prese di posizione – in aula e non – dei cardinali italiani, Montini, Siri, Ruffini, Lercaro e Ottaviani.

La Commissione di coordinamento istituita da papa Giovanni XXIII alla fine del primo periodo conciliare, composta da sette cardinali, rispecchiava l’internazionalità tipica di un Concilio ecumenico anche se sia il presidente – il segretario di Stato A.G. Cicognani – sia altri due cardinali – Urbani e Confalonieri – erano italiani. Nacquero in Italia svariate iniziative di supporto spirituale al Concilio, p.e. la Commissione diocesana di Roma per la preparazione (spirituale) al Concilio, poi ricevuta anche in udienza dal papa, e altre, come p.e. il pellegrinaggio nazionale a Loreto il 6 e 7 ottobre 1962, vennero sostenute e incoraggiate dalla Conferenza episcopale italiana. Il Concilio venne sospeso dopo la morte di papa Giovanni XXIII avvenuta il 3 giugno 1963.

Il secondo, terzo e quarto periodo Conciliare. Con l’elezione di Giovanni Battista Montini la Chiesa italiana aveva visto elevare al soglio pontificio uno dei suoi più attivi padri del Concilio. Fin dall’indomani dell’annuncio, il 26 gennaio 1959, Montini aveva spiegato, in una notificazione alla sua diocesi, l’importanza del Concilio ecumenico che sarebbe stato celebrato; aveva poi tenuto svariate conferenze e infine aveva mandato delle lettere alla diocesi durante la sua permanenza a Roma nel primo periodo conciliare. Anche come Pontefice rimase vicino alla Chiesa italiana come si può evincere sia dalla lettera che indirizzò solo poche settimane dopo la sua elezione al cardinale Siri – presidente della Conferenza Episcopale italiana –, sia ricevendo in udienza la conferenza episcopale italiana riunitasi in assemblea plenaria e presentando lui stesso il 14.4.1964 i temi del terzo periodo conciliare.

Nel secondo periodo conciliare erano stati trattati lo schema sulla Chiesa e quello sui vescovi, mentre lo schema sulla liturgia fu terminato e promulgato il 4.12.1963.

Con i giornalisti si venne in questo periodo ad una più stretta e ordinata collaborazione così da poter limitare, almeno in parte, i malintesi dovuti alle notizie – troppo frammentarie – che, nel primo periodo, erano uscite dall’aula Conciliare, malgrado il segreto che era stato imposto. Nel secondo periodo era stata formata un’équipe con due periti conciliari italiani – il padre Roberto Tucci SJ direttore della Civiltà Cattolica e Carlo Colombo, professore di dogmatica – insieme al direttore del centro di documentazione Mario Puccinelli come mediatore, pensata appositamente affinché incontrasse quotidianamente i giornalisti. La maggior parte dei giornalisti italiani erano tuttavia abituati a seguire gli avvenimenti che avevano luogo in Vaticano e questa abitudine si riverberò anche negli articoli relativi al Concilio che si lessero numerosi sulla stampa italiana. Questo non evitò che l’opinione pubblica italiana, pur riconoscendo il Concilio come un evento importante, non sapesse spiegare, neppure a grandi linee, che cosa fosse. In una indagine fatta al proposito, il 70% degli intervistati non seppe rispondere a questa domanda e solo un quarto di loro dichiarò di seguire con regolarità le notizie sul concilio (Caprile, Primo periodo, 485ss.)

Il terzo periodo conciliare, che era stato anticipato dal segretario generale Felici come sicuramente caratterizzato da intensissimo lavoro, vide la discussione e il perfezionamento dello schema sulla Chiesa, il decreto disciplinare sui compiti pastorali dei vescovi ed anche due appendici allo schema sull’ecumenismo: la dichiarazione sulla libertà religiosa e quella sugli ebrei e sui non cristiani. Ci furono alcune congregazioni riservate alla discussione sullo schema sulla divina rivelazione e poi su quello disciplinare sull’apostolato dei laici, come anche sulla vita e il ministero sacerdotale, le Chiese orientali, la vita religiosa, la missione, l’educazione cristiana. Fu riservato molto tempo al dibattito – iniziato il 20 ottobre 1964 e concluso solo il 10 novembre – riguardante lo schema che diventerà poi la costituzione Gaudium et Spes.

Soprattutto da parte della stampa non italiana fu enfatizzata molto la settimana, definita addirittura “nera”, che precedette la promulgazione della Costituzione dogmatica Lumen Gentium e dei decreti Unitatis Redintegratio e Orientalium ecclesiarum, durante la quale fu disposta da parte del papa l’aggiunta della Nota explicativa praevia al testo della Costituzione sulla Chiesa, per indicare in che senso dovevano essere letti alcuni passaggi della costituzione. Il papa chiese anche di inserire alcuni cambiamenti nel testo del decreto sull’Ecumenismo. L’apporto dei padri conciliari italiani fu costante e fu anche molto positivo il contatto che molti vescovi italiani mantennero con le loro diocesi cercando di presentare ai fedeli loro affidati il Concilio e le sue decisioni.

Il quarto periodo conciliare, che portò alla promulgazione dei restanti documenti conciliari grazie a un intenso lavoro nelle congregazioni generali e nelle commissioni, vide due momenti in cui il ruolo dei padri Conciliari italiani o della stampa italiana furono decisamente importanti.

Ci fu un forte interesse da parte del Coetus Internationalis Patrum – composto anche da influenti porporati italiani –, con l’apporto fattivo di Luigi Maria Carli, per ottenere l’inserimento nella Gaudium et Spes di una menzione relativa al comunismo. Firmarono la petizione in 334, ma per una irregolarità procedurale non si tenne conto di questa richiesta. A questo fatto fu dato ampio spazio dalla stampa, soprattutto da quella italiana. La stampa italiana fu ancora più interessata alla discussione sul celibato dei sacerdoti di cui si discusse solo brevemente poiché papa Paolo VI intervenne per evitare il proseguimento di un dibattito che stava provocando troppo scalpore. Anche la questione sulla libertà religiosa ebbe vasto eco sulla stampa internazionale.

Per il settimo centenario della nascita di Dante il 13 e 14 novembre 1965 furono invitati dall’arcivescovo di Firenze più di 500 padri conciliari a festeggiare il grande poeta italiano.

Per la conclusione del Concilio – che avvenne l’8 dicembre 1965 – il cardinale vicario di Roma chiese una più intensa preghiera ai fedeli di Roma e l’Azione cattolica italiana salutò con varie manifestazioni e scritti i padri conciliari; in questa occasione giunsero a Roma anche numerosi gruppi di pellegrini da varie diocesi italiane.

Paolo VI il 6 dicembre 1965 aveva già ricevuto l’episcopato italiano. Durante l’udienza spiegò quale spirito sarebbe stato necessario per attuare quanto aveva chiesto il Concilio, spiegando inoltre ciò che si sarebbe dovuto fare negli anni a venire. Qualche giorno prima il cardinale Urbani, aveva riassunto con parole assai positive l’apporto dell’episcopato italiano al Concilio. Carlo Colombo gli fece eco qualche anno più tardi dicendo, rispetto alla collaborazione dei vescovi e teologi italiani al Concilio: “Troppo facilmente si è scritto (…) che l’apporto italiano al Concilio è stato nullo o quasi. Ebbene, chi conosce come si è realmente svolto il lavoro conciliare sa che invece esso non è stato affatto scarso e insignificante: è stato almeno pari a quello degli Stati Uniti, che hanno un numero pressappoco uguale di cattolici praticanti, ed un complesso ben maggiore di mezzi e di uomini.” Dopo aver fatto qualche esempio di effettivo lavoro di vari padri conciliari italiani, Colombo concluse: “Non abbiamo quindi nessun complesso di colpa o di inferiorità per la partecipazione italiana al Concilio. E perdonino questa digressione, che mi sembrava non inutile, perché non si perpetuino come una leggenda giudizi storicamente superficiali e inesatti in mezzo ai nostri sacerdoti e ai nostri laici”. (Caprile, Primo periodo, 366.) Pur non essendo un Concilio ecumenico un evento nazionale, il fattore nazionale vi ha sempre giocato un ruolo importante, anche se minore da quando i regnanti cattolici non hanno più in esso una funzione attiva. In conseguenza non può essere sottovalutato il ruolo e l’apporto dell’Italia e degli italiani al Concilio Vaticano II.

Fonti e Bibl. essenziale

Fonti: Acta et Documenta Sacrosancto Concilio Oecumenico Apparando; Acta et documenta Concilio Oecumenico Vaticano II apparando; cura et studio Secretariae Pontificiae Commissionis Centralis Praeparatoriae Concilii Vaticani II, Vaticano 1960-1961; Acta Synodalia sacrosancti Concilii Oecumenici Vaticani II, Vaticano 1970-1999; Il Concilio Vaticano II. Cronache del Concilio Vaticano II edita da “La Civiltà Cattolica”, a cura di G. Caprile, 5 voll., Roma 1966-1969. Storie generali (libri): Storia del Concilio Vaticano II, diretta da Giuseppe Alberigo, a cura di A. Melloni, 5 voll., Bologna 1995-2001; G.F. Svidercoschi, Storia del Concilio, Milano 1967; R. de Mattei, Il Concilio Vaticano II. Una storia mai scritta, Torino 2010; J. O’ Malley, What happened at Vatican II, Cambridge, London 2008; R. Burigana, Storia del Concilio Vaticano II, Torino 2012; I. Ingrao, Il Concilio segreto, Milano 2013; P. Chenaux, Il Concilio Vaticano II, Roma 2012; F.S. Venuto, Il Concilio Vaticano II, Storia e recezione a cinquant’anni dall’apertura, Cantalupa (Torino) 2013; J. Ratzinger, Die erste Sitzungsperiode des Zweiten Vatikanischen Konzils. Ein Rückblick, Köln 1963; id., Das Konzil auf dem Weg. Rückblick auf die 2. Sitzungsperiode des 2. Vatikanischen Konzils, Köln 1963; id., Ereignisse und Probleme der dritten Konzilsperiode, Köln 1965; id., Die letzte Sitzungsperiode des Konzils, Köln 1966. Alcuni contributi più specifici (libri): G. Alberigo, Transizione epocale: studi sul Concilio Vaticano II, Bologna 2009; A. Marchetto, Il Concilio Ecumenico Vaticano II: contrappunto per la sua storia, Vaticano 2005; id., Il Concilio Ecumenico Vaticano II: per la sua corretta ermeneutica, Città del Vaticano 2012; I vescovi della Toscana e il Concilio Vaticano II, a cura di R. Burigana, Fiesole (FI) 2012; L. Ettore, Il PCI e il Concilio Vaticano II: dal partito dei cattolici al Cattolicesimo, Roma 2014; G. Colombo, Il Concilio Vaticano II: discorsi e scritti, a cura di Inos Biffi, Milano 2013; Giovanni XXIII e Paolo VI: i due Papi del Concilio, a cura di P. Chenaux, Città del Vaticano 2013; N. Bux, P. Gumpel, A. von Teuffenbach, Pio XII e il Concilio, Siena 2012; T. Cabizzosu, I vescovi sardi al Concilio Vaticano II: fonti, Cagliari 2013. Diari: G. Sale, Giovanni XXIII e la preparazione del Concilio Vaticano II nei diari inediti del direttore della “Civiltà Cattolica” padre Roberto Tucci, Milano 2012; U. Betti, Diario del Concilio, 11 ottobre 1962 – Natale 1978; A. von Teuffenbach, Konzilstagebuch Sebastian Tromp mit Erläuterungen und Akten aus der Arbeit der Theologischen Kommission, II. Vatikanisches Konzil, vol. I/1, I/2, Nordhausen 2006, vol. II/1, II/2, Nordhausen 2011; vol. III/1, III/2, Nordhausen 2014; vol. IV e V in preparazione. La documentazione bolognese per la storia del Concilio Vaticano II: inventario dei fondi G. Lercaro e G. Dossetti, a cura di Lorella Lazzaretti, Bologna 1995.


LEMMARIO




Concilio Vaticano II, Recezione - vol. II


Autore: Francesco Saverio Venuto

Definizione generale di recezione: componenti, dinamiche e periodizzazione. Con il termine “recezione” si intende generalmente «un processo di carattere spirituale attraverso cui un concilio e le sue decisioni vengono assimilati e integrati nella vita di una comunità eccle­siale come espressioni viventi della fede apostolica» (G. Routhier, La réception d’un concile, Editions du Cerf, Paris 1993, 69). L’espressione, desunta dall’am­bito giuridico, è stata introdotta nella riflessione storico-teologica cattolica, principalmente per descrivere dinamiche relative allo sviluppo del dogma e alla prassi ecclesiale, da due insigni teologi: Alois Grillmeier e Yves Congar. Entrambi hanno contribuito a definire il significato storico e teologico della recezione, differenziandolo da interpretazioni giuridiche di stampo conciliarista e gallicano, secondo le quali la recezione equivarrebbe ad un’approvazione necessaria dal basso. Una lettura sincronica e diacronica della Tradizione della Chiesa e, in particolare della storia dei concili, ha consentito loro di descrivere gli elementi portanti di un processo recettivo: il soggetto operante (la comunità ecclesiale), il contenuto (l’avvenimento conciliare e le sue codificazioni), le dinamiche (la relazione tradizione-progresso) e, non ultimo in ordine di importanza, i soggetti intermediari, meglio identificati come “agenti della recezione” (persone, istituzioni, mezzi d’informazione), che in modi e gradi di influenza differenti favoriscano o, al contrario, limitano un fenomeno recettivo, fino al punto di impedirlo e annullarlo. I suddetti fattori sono indice della complessità delle dinamiche recettive di un’assise conciliare, in riferimento alle quali è opportuno distinguere due precisi momenti. Primo: la fase ermeneutica, ossia la comprensione e l’interpretazione dell’avvenimento conciliare e delle sue decisioni in relazione ad un presente e ad un vissuto ecclesiali. Secondo: l’applicazione, vale a dire la realizzazione totale o parziale dei dettami conciliari da parte della competente autorità. In tal modo, il processo recettivo di un concilio non si esaurisce con il solo atto ermeneutico, e neppure con quello semplicemente applicativo, ma dipende dalla sinergia di entrambi. Nel caso specifico del Concilio Vaticano II, in ambito storiografico si è generalmente concordi nel suddividere la periodizzazione della recezione – dalla conclusione nel 1965 al discorso del 2005 di Benedetto XVI alla Curia Romana, relativo all’ermeneutica conciliare (riforma-continuità-discontinuità-rottura) – in due ventenni: dal 1965 al 1985 e dal 1985 al 2005. La fase intermedia tra questi due periodi coincide con la convocazione del Sinodo Straordinario dei Vescovi del 1985, promosso da Giovanni Paolo II per commemorare il primo ventennio dalla chiusura del Concilio e per verificarne soprattutto la recezione nella Chiesa.

Informazione e orientamenti ermeneutici sul Vaticano II. «Il concilio, così concluso, segna un punto di svolta, grazie alla costituzione sulla chiesa e all’apertura espressa; esso aziona degli scambi, ma in quest’istante storico non sappiamo ancora dire dove arriverà il treno, poiché le forze della tradizione e del progresso combattono fra loro». (H. Jedin, Storia della mia vita, Morcelliana, Brescia, 1987, 323).

All’interno del dibattito sulla dinamica Tradizione-Progresso, caratterizzante in particolare il Vaticano II, non principalmente i vescovi o i decreti sinodali ricoprirono un ruolo fondamentale, bensì i mezzi d’informazione, che già dalla fase preparatoria e poi durante l’intera celebrazione orientarono la recezione, non soltanto in ambito ecclesiale, ma anche rispetto all’opinione pubblica generale. Riviste ecclesiali, divulgative e scientifiche e, per la prima volta, documentari televisivi raggiunsero le molteplici componenti della Chiesa italiana. Periodici internazionali come Concilium e Communio in edizione italiana ebbero una larga diffusione e favorirono un processo recettivo del Vaticano II ampiamente favorevole alle istanze di rinnovamento e riforma, pur se con differenti indirizzi: Concilium, più disposto a una riforma radicale delle istituzioni ecclesiali (promozione della collegialità episcopale, della sinodalità nel governo della Chiesa, e della responsabilità del laicato) e a un confronto più aperto con il mondo; Communio, intenzionato a formulare una più incisiva ripresentazione della fede cristiana di fronte ai repentini cambiamenti del mondo, pur mantenendo rispetto ad esso una tensione, dal momento che questa era giudicata necessaria per la custodia dell’identità del dogma cristiano. Ben presto apparvero altri periodici, rappresentativi delle principali tendenze diffuse tra i Padri conciliari soprattutto in relazione all’attuazione dell’aggiornamento ecclesiale secondo le intenzioni di Giovanni XXIII. In accordo con le istanze della minoranza conciliare, favorevole ad un rinnovamento ecclesiale piuttosto moderato, il periodico Renovatio, espressamente voluto dal Cardinale Giuseppe Siri (Arcivescovo di Genova e Presidente della Conferenza Episcopale Italiana durante l’intero svolgimento del Vaticano II), intese difendere l’integrità della dottrina cristiana in opposizione alle audaci tesi “progressiste” della rivista internazionale Concilium. Diversamente, periodici come Testimonianze, Il Regno, Idoc, Il Gallo si espressero per un aggiornamento più radicale in campo dottrinale ed ecclesiologico e per un libero e più aperto dialogo con la modernità, superando per certi aspetti le posizioni della maggioranza conciliare. Ben presto le tesi più estreme di alcuni periodici e pubblicazioni prevalsero: gruppi “tradizionalisti” (simpatizzanti del vescovo francese Mons. Lefebvre) e comunità di base (Isolotto di Firenze, Comunità del Vandalino a Torino), contrari i primi, e favorevoli le seconde, al “rivoluzionario” rinnovamento del Vaticano II – così da entrambi qualificato –, contestarono apertamente l’autorità ecclesiale, ritenuta la principale responsabile dello stravolgimento della Tradizione per gli uni, o della mancata riforma profetica della Chiesa per le altre.

Anche le cronache e i diari conciliari, le ricostruzioni storiche e i commentari teologici sul Concilio contribuirono ad animare il dibattito post-Vaticano II. Specialmente presso gli Istituti teologici e i Seminari, ebbero un’ampia diffusione in traduzione italiana le opere dei più importanti esponenti della teologia rinnovatrice di area franco-olandese-tedesca (Y. Congar, M.-D. Chenu, H. de Lubac, E. Schillebeeckx, H. Küng, K. Rahner, J. Ratzinger). Le cronache conciliari, soprattutto quelle del gesuita G. Caprile e di R. La Valle, di stampo giornalistico, insieme a molte altre, in traduzione o in lingua originale (Y. Congar Diario del Concilio, Torino 1964; H. Fesquet Diario del Concilio. Tutto il Concilio giorno per giorno, Milano 1967; X. Rynne Letters from Vatican City, 4 vol., London 1963-1966; A. Wenger Vatican II, 4 vol., 1963-1966; R. Wiltgen The Rhine flows into the Tiber. The Unknown Council, New York 1967), divennero un importante riferimento per l’ambiente ecclesiale italiano. La televisione ebbe per la prima volta un ruolo decisivo. Già durante il Concilio furono realizzate trasmissioni televisive (Diario del Concilio, a cura del giornalista Luca di Schiena), che in modo più immediato e persuasivo raggiunsero un pubblico più vasto, anche al di là degli ambienti strettamente ecclesiali. Un dato comune, tendenzialmente mitizzante, sembra unificare e caratterizzare i diversi orientamenti sul Concilio amplificati dai mezzi di comunicazione. Il Vaticano II più che significare una raccolta di documenti dottrinali e pastorali, ai molti appariva come un evento epocale, un’atmosfera, una rinnovata e creativa Pentecoste, se non addirittura un’utopia (G. Zizola, L’utopia di papa Giovanni, Cittadella, Assisi 1973).

Recezione del Vaticano II e il fenomeno del ’68: contestazione e pluralismo. Paolo VI, già dal 1965, dovette confrontarsi con due realtà: un’opinione pubblica sempre più critica verso la Chiesa e l’affermarsi di un pluralismo ideologico all’interno degli ambienti ecclesiali. Se da un parte Montini, in linea con il suo mandato di pontefice per l’intera Chiesa, considerava fondamentale il ruolo centrale di Roma nell’applicazione e realizzazione dei dettami conciliari, dall’altra riteneva doverosa anche una collaborazione sinodale con le periferie. Il Papa guardava così all’Italia e in particolare alla sua “giovane” Conferenza Episcopale, invitandola in qualità di Primate dei Vescovi italiani all’unità e alla corresponsabilità per far fronte collegialmente ai nuovi problemi delle diocesi italiane e favorire l’applicazione del Vaticano II. Era necessario un nuovo episcopato e in tal senso si orientò la nomina dei vescovi per le più importanti diocesi italiane: Pellegrino a Torino, Ursi a Napoli, Pappalardo a Palermo, Colombo a Milano, Dell’Acqua e poi Poletti Vicari di Roma, Ballestrero a Bari e poi a Torino, e Poma a Bologna. Ma gli entusiasmi che contrassegnarono le prime riforme conciliari (la liturgia, la catechesi, la pastorale) furono smorzati al punto tale da mettere in discussione le novità introdotte e, addirittura, lo stesso Concilio di fronte ad un’inattesa crisi, correlata al fenomeno “rivoluzionario” del ’68, secondo alcuni, o culminante con esso, secondo altri. L’unità del mondo cattolico italiano subì una frantumazione. La Tradizione con le sue relazioni di continuità e sviluppo venne messa in discussione. La ricerca emotiva del nuovo e la soggettività, condivise in modo trasversale per età e per posizione da numerose componenti del laicato e del clero, prevalsero nel modo di interpretare la volontà e i contenuti di riforma del Vaticano II, fino al punto che la stessa istituzione ecclesiale fu radicalmente criticata sulla base di concetti idealizzati, come “popolo di Dio” e “assemblea”.

Le tesi del teologo H. Küng (Veracità per il futuro della Chiesa, Queriniana, Brescia 1968 e La Chiesa, Queriniana, Brescia 1969) divennero fonte di ispirazione per esperienze che ritenevano possibile un’autoriforma spontanea della Chiesa a partire dalla base. Parma, Torino (la Comunità del Vandalino), Firenze (l’Isolotto di don Mazzi), Milano (l’Università Cattolica), Ravenna (il Vescovo Baldassarri), Roma (l’Abate Fransoni), divennero così luoghi simboli di movimenti che aspiravano a cambiare la Chiesa. Tuttavia, il dissenso secondo il modello italiano differiva da quello di altri luoghi. Esso non si delineò come il tentativo di dare vita ad una Chiesa parallela scismatica, quanto piuttosto nell’inseguire modelli ecclesiali alternativi e pluralisti. In Italia questo fenomeno si orientò generalmente nel cercare nuove espressioni di presenza cristiana in politica: bisognava rompere il collateralismo con il partito cristiano di maggioranza, ovverosia la DC e, soprattutto, aprire un intenso dialogo con il marxismo. Questo significò la messa in discussione dell’unità politica dei cattolici, verso la quale Montini non fece mai mancare il suo accorato sostegno. Tuttavia, le spinte della base prevalsero e le conseguenze di questo orientamento si evidenziarono con l’esito contraddittorio del referendum sul divorzio (1974). I repentini cambiamenti, ma specialmente lo stato di crisi e, in alcuni casi, di ingovernabilità venutisi a creare allarmarono l’episcopato italiano. I giudizi, le reazioni e le scelte pastorali furono assai diversi: segno di un pluralismo ormai affermatosi. Alcuni attribuivano la crisi direttamente all’interpretazione “progressista” del Concilio, se non addirittura direttamente ad esso, e per tal ragione auspicavano drastici interventi di restaurazione. Altri ritenevano necessario proseguire sulla via delle riforme, ma come conseguenza di una “conversione” alla vita cristiana. Questa posizione fu ampiamente condivisa dai nascenti movimenti e comunità ecclesiali. Altri ancora imputavano a Paolo VI e a gran parte dell’episcopato la responsabilità di aver “bloccato” le spinte innovatrici del Vaticano II. L’autorità della Chiesa si trovò in stato di smobilitazione. Questo si rese ancora più evidente nella contestazione contro di essa, specialmente in seguito alla pubblicazione da parte di Paolo VI dell’enciclica Humanae vitae (1968) e alle dimissioni del Card. Lercaro, uno dei protagonisti del Vaticano II.

Dalla crisi al rinnovamento: da Paolo VI a Giovanni Paolo II. Uno dei segni maggiori della crisi della Chiesa si manifestò nel drastico calo delle vocazioni. I seminari si svuotavano, ma soprattutto era l’identità tradizionale del sacerdote ad essere radicalmente criticata. Paolo VI si trovò così a dover concedere a sacerdoti in crisi sempre più dispense dal loro ministero. La CEI prese coscienza delle difficoltà e dell’inadeguatezza del clero di fronte alle nuove sfide pastorali, ma in particolare dell’invito montiniano a superare la polarizzazione intorno all’interpretazione del Vaticano II e a guardare ad esso piuttosto come ad una fonte di rinnovamento. L’episcopato italiano promosse iniziative in vista di una piena recezione del Vaticano II: il rinnovamento della catechesi e della liturgia (Evangelizzazione e sacramenti: 1972-1975), l’elaborazione di un Liber pastoralis per rispondere alle problematiche del clero, e nel 1976 un convegno, Evangelizzazione e promozione umana. Questo meeting della Chiesa italiana sembrò offrire l’opportunità alle diverse anime del laicato di ascoltarsi reciprocamente e di tendere, pur nella legittima articolazione, ad un modello unitario di presenza ecclesiale. Se il clero e le istituzioni furono più colpite dalla crisi post-conciliare, il laicato, pur se non esente da essa, viveva un periodo di particolare fermento. Nel mondo laicale italiano era venuta meno la compattezza intorno all’Azione Cattolica che tuttavia tentò un rinnovamento: la discussa “scelta religiosa” e, quindi, la separazione dal diretto impegno politico. Accanto al tradizionale associazionismo, si ebbe una fioritura di nuovi movimenti ecclesiali: alcuni in polemica con la gerarchia (Cristiani per il socialismo); altri (Comunione e Liberazione, Movimento dei Focolari, Cammino Neocatecumenale, Rinnovamento nello Spirito), al contrario, in risposta all’appello per l’evangelizzazione. L’episcopato italiano, temendo l’azione dei primi, non sempre dimostrò un’immediata simpatia verso queste nuove realtà che difficilmente riusciva ad inquadrare nei propri piani diocesani. Il pluralismo divenne ormai un elemento qualificante della Chiesa in Italia: Paolo VI chiese ai vescovi di “vegliare” che questa diversificazione non diventasse causa di scontro ideologico. L’avvento di Giovanni Paolo II con la sua ferma convinzione di continuare e portare a compimento la recezione e l’applicazione del Concilio contribuì ulteriormente a superare alcune difficoltà. Il pontefice offrì ai vescovi due importanti appuntamenti sinodali. Nel 1985 fu convocato un sinodo in forma straordinaria per celebrare il primo ventennio dalla chiusura del Vaticano II e per verificarne le modalità recettive. Nel 1987 un secondo sinodo ebbe come oggetto di riflessione la missione dei laici. Wojtyła, in continuità con Paolo VI, incoraggiò lo sforzo per una nuova evangelizzazione, offrendo piena fiducia alle nuove comunità e movimenti ecclesiali, espressione più genuina del rinnovamento conciliare in ambito laicale. Giovanni Paolo II incoraggiò la celebrazione di un secondo convegno per la Chiesa italiana (Riconciliazione cristiana e comunità degli uomini). Sotto la guida del Card. Ballestrero, Presidente della CEI, furono affrontati alcuni nodi ecclesiali (rapporto tra Chiesa locale, associazioni e movimenti; spazi di partecipazione all’interno della Chiesa; pluralismo culturale) che in chiusura del pontificato montiniano rischiavano di lacerare la spinta missionaria e l’azione pastorale della Chiesa in Italia.

Gli entusiasmi e le tensioni di fronte alla recezione del Vaticano II – ancora nella sua fase iniziale in Italia e nel resto del mondo – non permettono una qualificazione globale dell’avvenimento conciliare dal punto di vista storico e teologico. In ogni caso, il dibattito ermeneutico e la sua recezione continuano. “Riforma”, “continuità-discontinuità” e “rottura”, come di recente ha sottolineato anche Benedetto XVI nel suo intervento alla Curia Romana del 22 dicembre 2005, sono le categorie che animano ultimamente il confronto ecclesiale sul Vaticano II.

Fonti e Bibl. essenziale

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LEMMARIO




Concordati - vol. I


Autore: Carlo Fantappiè

Nella storia dei patti, accordi, convenzioni, concordati tra la Santa Sede e gli Stati preunitari italiani si possono distinguere nettamente tre fasi, corrispondenti ad altrettante fasi significative del contesto europeo: a metà del Quattrocento, nella prima metà del Settecento, nella Restaurazione. Il clima di queste tre epoche è ovviamente molto diverso, così come l’andamento, l’oggetto e la portata dei singoli concordati. C’è però una costante, ed è il peso decisamente minore che gli accordi con i piccoli Stati italiani hanno rivestito lungo queste epoche a differenza di quelli conclusi con gli altri Stati dell’Europa. Certamente la presenza del papa e della Corte di Roma nella penisola hanno reso meno frequente, se non inutile, il ricorso ad atti bilaterali con i sovrani per regolare materie o risolvere controversie a motivo dei rapporti diretti del papa e delle fitte relazioni politico-diplomatiche. Ma anche la natura di tali accordi è differente, perché mancano convenzioni destinate a regolare nel suo complesso il regime giuridico della Chiesa di uno Stato. Fino al concordato italiano del 1803, che nell’aspetto formale risente dell’influenza del concordato con la Francia del 1801, non si dovrebbe neppure parlare di una moderna convenzione diplomatica quanto di pattuizioni dirette a regolare l’esercizio di certi diritti di entrambe le parti oppure a comporre un conflitto su una materia determinata nelle relazioni tra esse. Va infine osservato che, mentre nell’antico regime si agiva sul presupposto della superiore e armonica concordia tra le due potestà, dopo Napoleone si stipulano concordati sulla base del principio di uguaglianza tra le parti.

A metà Quattrocento, mentre i «concordati con le nazioni» risentono delle conseguenze della crisi conciliarista che aveva colpito il papato, quelli con gli Stati italiani s’inquadrano nel progressivo inserimento del papato nel sistema politico della penisola e tendono a creare una situazione di equilibrio e di stabilizzazione mediante la regolamentazione delle materie dei benefici e delle immunità ecclesiastiche secondo le forze in campo. Due aree hanno la preminenza sulle altre: il regno di Sicilia, dove Ferdinando I si trova a dover attenuare le prerogative giurisdizionali della casa d’Aragona rispetto al papato, che deteneva sul regno il diritto d’investitura feudale (si vedano i patti di pace del 1486-1492), e il regno di Savoia dove, in compenso della rinuncia spontanea di Amedeo VIII alla tiara, la casa regnante ottiene dalla Santa Sede notevoli concessioni in materia di riserva di benefici e di nomine ecclesiastiche (indulto di Niccolò V del 1452 rinnovato e innovato da diversi papi fino al 1819).

Ben diversa la situazione della prima metà del Settecento, quando la Santa Sede si trova in posizione difensiva e ricerca una «concordia» con gli Stati assoluti. Oggetto centrale delle convenzioni stipulate tra il 1720 e il 1758 da Benedetto XIII, Clemente XII e Benedetto XIV non sono tanto le materie beneficiarie o giurisdizionali quanto le materie immunitarie e disciplinari. Poiché gli abusi della vita clericale erano spesso coperti dal privilegio dell’immunità, gli Stati tendono ad abbinare le due questioni e a presentare le loro richieste come mezzi per ristabilire la disciplina ecclesiastica sancita dal concilio di Trento. Di fatto i governi assoluti tendono a intervenire nella vita della Chiesa ricorrendo agli iura circa sacra per estendere il loro potere politico e rimodellare gli assetti delle chiese nazionali nelle strutture dello Stato (v. Giurisdizionalismo).

Mediante abili trattative diplomatiche, i Savoia, ora re di Sardegna, riescono a strappare a Benedetto XIII nel 1727 due concordati assai vantaggiosi sulle immunità ecclesiastiche e sulle materie beneficiarie. Dopo la dichiarazione di nullità del concordato da parte di Clemente XII, Benedetto XIV apre nuove trattative che conducono a due altre convenzioni nel 1741: una sui feudi pontifici del Piemonte che prevede l’investitura del re di Sardegna in modo che possa conferire benefici, l’altra sulla riserva dei benefici ecclesiastici a «persone ecclesiastiche». Con un’Istruzione ai vescovi del 6 gennaio 1742, pattuita col re di Sardegna e confermata dai papi fino al 1826, Benedetto XIV ottiene che dalla «visione» dei brevi e delle bolle papali da parte dell’autorità governativa siano esclusi gli atti di natura dogmatica, morale e disciplinare emanati dalle Congregazioni romane e dalla Penitenzieria. Tra il 1759 e il 1761 si giunge ad un’altra Istruzione di Clemente XIII che elimina gli abusi che si erano introdotti in materia di immunità e diritto di asilo, nell’ammissione al chiericato e nella disciplina ecclesiastica col fenomeno dei chierici coniugati.

Larghe concessioni vengono fatte da Benedetto XIV anche al regno di Napoli col concordato del 1741. Le trattative per un compromesso sembravano ben iniziate; gli ostacoli frapposti dai funzionari della Curia finiscono però per estendere le prerogative del regalismo borbonico. Su questa linea va letta la previsione del regio exequatur per le bolle e brevi pontifici, l’esclusione dalle immunità reali dei beni ecclesiastici e il conseguente obbligo di contribuzione alla tassazione governativa, la limitazione del diritto di asilo a luoghi predeterminati, la facoltà di reprimere gli abusi del privilegio del fòro compiuti da soggetti che non ne avevano il diritto, la riserva di tutti i benefici e pensioni ecclesiastiche ai soli regnicoli, l’istituzione di un tribunale misto per giudicare le controversie sulle immunità. Ispirati a princìpi di collaborazione tra le due potestà sono altre disposizioni dello stesso concordato: il controllo dei requisiti dei promovendi agli ordini sacri, il diritto di visita episcopale e di controllo dell’amministrazione di chiese, cappelle, confraternite, ospedali conservatori e altri luoghi pii, fatta eccezione di quelli posti sotto la protezione regia, l’introduzione della censura sui libri contrari alla fede e alla morale. Anziché appianare i conflitti giurisdizionali, questo concordato del 1741 spinge la politica del ministro Tanucci dopo il 1761 ad accelerare le riforme in senso anticuriale.

Nel complesso lo sforzo di papa Lambertini di superare l’isolamento politico della Chiesa e la subordinazione dalle potenze cattoliche non ottiene risultati positivi e prelude una radicalizzazione delle politiche statali in materia ecclesiastica dopo gli anni Sessanta Ne è prova il concordato di Pio VI con Giuseppe II del 1784 relativo alle nomine episcopali nella Lombardia austriaca che assegna al Duca di Milano e di Mantova, compresi i loro successori, il diritto di nomina dei principali uffici ecclesiastici delle chiese, abbazie, propositure e collegiate.

Come accennato, il concordato del 1803 tra Pio VII e la Repubblica italiana riveste più un’importanza tecnico-giuridica che storica, considerata la sua sostanziale inapplicazione per motivi connessi ai contrasti di vedute tra il Melzi e Napoleone e alle vicende politiche dell’Italia e dell’impero francese. In linea con la concezione centralizzatrice e amministrativa dello Stato napoleonico, questo concordato mira a riorganizzare, in maniera uniforme e gerarchica, le strutture ecclesiastiche nel territorio nazionale e ad affermare su di esse le prerogative del potere politico. Da qui il riassetto razionale delle circoscrizioni (province e diocesi), l’estensione del diritto di nomina del presidente della Repubblica a tutti i vescovati, il giuramento politico di vescovi e parroci, la composizione mista delle amministrazioni delle opere pie e il diritto presidenziale di nomina degli amministratori. Particolare cura si ha poi nell’estendere al presidente della Repubblica i diritti e le prerogative dell’imperatore e nell’ottenere la condonazione dei beni ecclesiastici alienati.

Al tempo stesso, però, il concordato del 1803 si rivela innovativo perché, nella regolazione delle materie strettamente ecclesiastiche, rinvia al diritto canonico e, sulle materie che potremmo definire miste, prevede una disciplina bilaterale. Da qui la libertà di comunicazione della Santa Sede con i vescovi, la libertà di ordinazione dei chierici, la direzione esclusiva dei seminari, il riconoscimento della potestà coattiva dei vescovi, la tutela penale della religione e dei suoi ministri, l’esenzione del clero dal servizio militare.

Nell’età della Restaurazione il clima politico-culturale muta in senso favorevole alla Santa Sede. L’abbandono di qualsiasi progetto di riforma esterna della Chiesa favorisce un maggiore riconoscimento della sua autonomia. Nonostante ciò, gli Stati difendono le conquiste essenziali del giurisdizionalismo settecentesco per una ragione eminentemente sociale e politica. La mescolanza di princìpi cesaro-papisti e confessionalisti che troviamo nel concordato del 1803 fa da sfondo anche al concordato del 1818 tra Pio VII e Ferdinando I re delle Due Sicilie. Anche qui è affermata la religione cattolica come religione di Stato, si abroga la legislazione precedente per sostituirla con il nuovo concordato e si rinvia alla vigente disciplina della Chiesa nelle materie o oggetti non negoziate. Ma anche qui si prende occasione del concordato per operare una vasta riorganizzazione politica delle strutture ecclesiastiche del regno, la quale investe sia gli aspetti patrimoniali (con la sanazione dei beni alienati, la restituzione parziale dei patrimoni non alienati, lo scorporo di una quota di beni del clero regolare a vantaggio delle istituzioni secolari), sia la rete istituzionale (con la riduzione delle circoscrizioni diocesane e il riordino degli ordini religiosi e delle abbazie), il sostentamento di parte del clero (con il supplemento di congrua a una quota di parroci). Nella sfera propriamente giurisdizionale, oltre ad abolire tutte le immunità, si afferma il regio exequatur e la competenza dei tribunali laici sulle cause degli ecclesiastici, il controllo statale sulle nomine episcopali anche di collazione pontificia mediante rilascio di apposito indulto papale e l’obbligo del giuramento dei vescovi, la riserva della collazione dei benefici semplici ai sudditi del regno, la limitazione delle ordinazioni sacerdotali e dell’ingresso dei novizi in proporzione ai mezzi di sussistenza. Viene invece considerato in netta controtendenza con queste disposizioni l’affidamento alla Chiesa del controllo sull’istruzione, il riconoscimento della giurisdizione ecclesiastica sulle cause matrimoniali e la reintroduzione della censura religiosa sulla stampa. La compresenza di aspetti confessionalisti, regalisti e giurisdizionalisti ha indotto gli storici a dare valutazioni disparate del concordato del 1818. Forse bisognerebbe distinguere maggiormente tra le affermazioni di principio e l’effettiva prassi amministrativa. Nel dare esecuzione alle norme concordatarie le cancellerie della Restaurazione, a somiglianza dell’amministrazione napoleonica, introducono clausole limitative oppure condizionano l’esercizio delle libertà riconosciute alla Chiesa a verifiche e controlli piuttosto penetranti.

La tradizione giurisdizionalista di Pietro Leopoldo si mantiene ancora forte e radicata nell’amministrazione del Granducato di Toscana. Il concordato del 1815 per il ripristino degli ordini religiosi costituisce un’occasione per attuare una ristrutturazione organica della presenza del clero regolare in funzione delle attività sociali e educative dello Stato. La convenzione del 1851, nata per armonizzare la legislazione statuale con quella canonica in materia di cause civili o criminali del clero e per trovare un accordo, mediante delega a commissioni miste, tanto nella gestione dell’amministrazione delle entrate dei benefici vacanti quanto nel cambio di destinazione dei beni dei legati pii, invece che eliminare le differenze tra i diplomatici romani e gli apparati amministrativi locali, lascia dietro di sé uno strascico di controversie.

Assai diverso il contesto dello Stato sabaudo, dove si era andata consolidando dai primi decenni del Settecento una politica ecclesiastica di accordo con la Santa Sede. Nell’età della Restaurazione l’attività concordataria si restringe a due convenzioni minori relative alla riorganizzazione delle circoscrizioni ecclesiastiche del Piemonte (1817) e alla limitazione dell’immunità personale degli ecclesiastici circa alcuni reati (1841). Un cambiamento radicale si avrà negli anni 1848-1855, allorché si procederà con le leggi Siccardi all’abolizione del privilegio del fòro, del diritto d’asilo, delle decime nonché alla soppressione degli ordini religiosi.

Con l’unità d’Italia l’esigenza di uniformare su tutto il territorio nazionale la legislazione ecclesiastica conduce, nel 1860, all’abolizione dei concordati stipulati dagli ex-Stati con la Santa Sede, anche di quelli che avevano validità per singole regioni (come il concordato austriaco del 1855 per il Lombardo-Veneto) oppure all’introduzione di norme che rendessero inapplicabili gli impegni pattizi preesistenti.

Fonti e Bibl. essenziale

F. Ruffini, Relazioni tra Stato e Chiesa, Bologna 19742; A. Mercati, Raccolta di concordati su materie ecclesiastiche tra la Santa Sede e le autorità civili, vol. I, 1098-1914, Città del Vaticano 19542Chiesa e Stato. Studi storici e giuridici per il decennale della conciliazione tra la Santa Sede e l’Italia, vol. I, Studi storici, Milano 1939; W. Maturi, Il concordato del 1818 tra la Santa Sede e le Due Sicilie, Firenze 1929; A.M. Bettanini, Il concordato di Toscana 25 aprile 1851, Milano 1933; D. Arru, Il concordato italiano del 1803, Milano 2003; F. Vecchi, Gli accordi tra potestà civili ed autorità episcopali, Napoli 2006; G. Paolini, Il concordato toscano del 1815 sugli ordini religiosi. Documenti inediti, Firenze 2006; M. Pignotti, Potestà laica e religiosa autorità. Il concordato del 1851 fra Granducato di Toscana e Santa Sede, Firenze 2007; M. Pellegrini, Il Rinascimento come stagione della politica concordataria, in Papato e politica internazionale nella prima età moderna, a cura di M.A. Visceglia, Roma 2013, 63-102; M. Rosa, Una rilettura della politica dei concordati nel Settecento, ivi, 173-197.


LEMMARIO




Concordati - vol. II


Autore: Carlo Fantappiè

Nel corso del Novecento la posizione giuridica della Chiesa in Italia è stata definita, in maniera organica, dai concordati dell’11 febbraio 1929 e del 18 febbraio 1984, che revisiona il precedente di comune accordo dello Stato e della Santa Sede allo scopo di armonizzare i Patti Lateranensi rispettivamente con i princìpi sanciti dalla Costituzione italiana e con i princìpi del concilio ecumenico Vaticano II. Sebbene di diverso rilievo, queste due date scandiscono differenti regimi legislativi che, se analizzati in modo comparativo tra loro e con la legislazione liberale in materia ecclesiastica, permettono di ricostruire sinteticamente l’intera parabola dei rapporti tra Stato e Chiesa in Italia dall’Unità ad oggi. Il taglio storico di questo Dizionario non permette di soffermarsi sui profili dottrinali e interpretativi, pure rilevanti, e neppure sulla storia delle trattative politiche preliminari, su cui esiste una ricca bibliografia. L’attenzione sarà rivolta, invece, sulle conseguenze istituzionali e organizzative dei due concordati nella storia della chiesa italiana. Per l’applicazione della legislazione concordataria vigente si rinvia all’Enchiridion della Conferenza episcopale italiana.

I Patti Lateranensi del 1929 si compongono di due separate convenzioni con specifica finalità. Col Trattato si pone fine alla «questione romana», ossia al dissidio che si era originato dopo la presa di Roma del 1870 tra la Santa Sede e il Regno d’Italia, mediante la costituzione dello Stato Città del Vaticano e la concessione di speciali prerogative al papa per tutelare, in modo stabile e completo, l’indipendenza e la libertà della sua persona e della missione religiosa universale della Chiesa: garanzie che lo Stato italiano aveva varato unilateralmente il 13 maggio del 1871 ma che la Santa Sede aveva sempre respinte come inadeguate. Col Concordato, invece, viene fissata in modo bilaterale un’apposita disciplina giuridica per enti, persone e cose della chiesa cattolica in Italia, che modifica radicalmente la legislazione ecclesiastica statale emanata dopo il 1861.

Le norme concordatarie del 1929, infatti, mentre sostituiscono la regolamentazione di diritto comune o di diritto singolare che lo Stato liberale aveva varato in vari momenti col duplice scopo di garantire la libertà religiosa dei cittadini e di limitare l’organizzazione e l’attività della chiesa cattolica, introducono una legislazione speciale che pone quest’ultima in una condizione privilegiaria rispetto alle altre confessioni o «culti ammessi» (per i quali è emanata una legge apposita del 24 giugno 1929, n. 1159).

All’interno di una ripristinata concezione confessionalista dello Stato (art. 1 del Trattato), presente nello Statuto albertino ma modificata dalla legislazione dei governi della Destra e Sinistra, il Concordato opera un riassetto giuridico delle istituzioni ecclesiastiche su molteplici livelli, a cominciare dalla figura della Chiesa nel suo complesso. Mentre lo Stato giurisdizionalista laico considerava la Chiesa un’associazione meramente privata soggetta al diritto comune, ora se ne riconosce l’autonomia sostanziale perché l’ordinamento canonico è considerato un ordinamento giuridico primario al pari di quello dello Stato.

La prima applicazione di questo principio si ha nell’affermazione delle garanzie di libertà della Chiesa nell’ordinamento italiano. Il concordato lateranense le assicura sia l’esercizio del potere spirituale, del culto e della giurisdizione, sia la comunicazione della Santa Sede con i vescovi e di questi col clero e con tutti i fedeli, sia la pubblicazione degli atti di governo spirituale dei fedeli (artt. 1-2). Con ciò sono aboliti i classici istituti del giurisdizionalismo (v.) fino allora in vigore (exequatur, regio placet, regalia, regio patronato sui benefici) (artt. 24-25), le forme di sorveglianza e di controllo sui patrimoni ecclesiastici (art. 30, c. 1-2), le limitazioni al riconoscimento degli enti ecclesiastici (artt. 29, 31-32).

A tali garanzie si aggiungono prerogative personali per i chierici e religiosi non previste dal diritto preconcordatario. In particolare i chierici e religiosi sono esenti dal servizio militare, dall’ufficio di giurato, dall’obbligo della testimonianza (art. 3-4, 7), dalla pignorabilità degli stipendi e assegni derivanti dall’ufficio (art. 6) e godono di speciali cautele in caso di procedimenti penali o condanne (art. 8). Mentre lo Stato liberale nutriva una decisa avversione verso la condizione dei religiosi e non riconosceva i loro ordini e congregazioni, adesso si ammette l’erezione degli ordini e delle loro strutture in enti morali dotati di personalità giuridica (art. 29 b). L’ordinazione e i voti hanno rilevanza giuridica per gli effetti civili delle sentenze e provvedimenti emanati dall’autorità ecclesiastica e per la privazione dell’abito religioso (art. 29 i).

Le leggi soppressive del 1866-67 (D. legisl. 7 luglio 1866, n. 3036 e legge 15 agosto 1867, n. 3848) avevano diviso gli enti in «soppressi» e «conservati» e tassativamente ridotto la categoria e il numero alle mense vescovili, abbazie, prelature nullius, capitoli cattedrali, 12 canonicati e 6 benefici nelle Cattedrali, benefici parrocchiali e coadiutoriali, chiese palatine. Il concordato del 1929 non pone limiti di categoria al riconoscimento di nuovi uffici eretti dall’autorità ecclesiastica (art. 31), anche se prevedeva una riduzione del numero esorbitante delle diocesi in accordo con la Santa Sede (art. 16) (v. Diocesi).

Nella riforma concordataria dell’organizzazione della chiesa italiana rientrano, oltre le diocesi, i cui confini dovevano corrispondere alle province dello Stato: i santuari, sopravvissuti di fatto alle soppressioni ed amministrati da chierici e laici sotto il controllo della pubblica amministrazione; le chiese palatine, legate alle famiglie regnanti negli ex-Stati, per le quali lo Stato rinuncia ai privilegi di esenzione dalla giurisdizione ecclesiastica per regolare le nomine e provviste di benefici secondo il diritto comune, fatta eccezione per il clero di alcune chiese e in particolare del capitolo del Pantheon addetto ai servizi religiosi della casa reale (art. 29 g); l’ordinariato militare, il cui arcivescovo è capo del Pantheon e i cui sacerdoti svolgono l’ufficio di cappellani militari prestando servizio di assistenza spirituale alle forze armate dello Stato (artt. 14-15).

Oltre a sopprimere o ridurre molti enti ecclesiastici nel 1866-1867, lo Stato aveva anche provveduto nel 1890 a trasformare le istituzioni di beneficenza e di assistenza per adeguarle ai tempi (legge 17 luglio 1890, n. 6972). Avevano subìto un mutamento di scopo e una diversa destinazione del patrimonio i seguenti enti: a) i conservatori o educandati, gli ospizi per pellegrini, i ritiri, gli eremi; b) le confraternite e congreghe; c) le opere pie, i lasciti e legati di culto con alcune eccezioni. Il concordato lateranense interviene sulle confraternite (v.), anche laicali, con scopo di culto per garantirne la stabilità e farle dipendere esclusivamente dall’autorità ecclesiastica (art. 29 c). Con disposizioni di poco successive si fissano criteri per il riconoscimento civile di nuove confraternite e associazioni laicali con scopo di religione o di culto. Vi sono compresi: i Terzi ordini, le Pie unioni, le Conferenze di San Vincenzo, le Dame di carità, e le organizzazioni dell’Azione cattolica (per la cui attività si fissano però restrizioni nell’art. 43).

Per quanto il concordato del 1929 non abbia ripristinato gli enti soppressi né restituito i loro beni, tuttavia ha disposto, tra l’altro, indennizzi e donazioni di chiese alla Santa Sede (le basiliche della Santa Casa di Loreto, di San Francesco di Assisi e di Sant’Antonio da Padova, art. 27), dotazioni alle chiese palatine (art. 29 g) e la restituzione delle chiese aperte al pubblico già appartenenti ad enti soppressi (art. 29 a). Inoltre per tutti gli enti ecclesiastici abroga il divieto di possedere beni immobili ed elimina ogni intervento statuale nella gestione dei beni ecclesiastici secolari e regolari, eccetto che per i benefici ecclesiastici dotati in maniera insufficiente. Per questi ultimi continua a provvedere in modo indiretto col c.d. «supplemento di congrua», erogato dal Fondo per il culto, costituito nel 1866 dai beni provenienti dagli enti soppressi e alimentato dalla «quota di concorso» versata dagli enti conservati (art. 30).

Nel campo dell’insegnamento e dell’educazione è garantita alla Chiesa la piena autonomia per i seminari, accademie, collegi, università e altri istituti di cultura (art. 39). Sono riconosciuti i titoli di laurea in teologia e di diploma vaticano (art. 40), mentre per le scuole di istruzione media tenute da ecclesiastici o religiosi resta l’esame di Stato (art. 35). La nomina dei professori all’Università Cattolica del Sacro Cuore è subordinata al nulla osta della Santa Sede (art. 38).

La posizione di favore del cattolicesimo si evidenzia specialmente nell’istruzione religiosa e nella disciplina del matrimonio canonico (nel Codice penale del 1930 anche con la tutela del sentimento religioso). L’insegnamento della religione cattolica nelle scuole pubbliche era stato introdotto come obbligatorio dalla legge Casati del 1859, ma la prassi governativa dopo il 1876 l’aveva reso facoltativo sia per gli alunni che per i comuni. Nel 1923 il regime fascista aveva dichiarato la dottrina cattolica «fondamento e coronamento dell’istruzione pubblica». Il concordato del 1929 estende l’obbligo di tale insegnamento dalle scuole pubbliche elementari alle scuole medie e lo affida a maestri e professori approvati dall’autorità ecclesiastica, cui «spetta anche il controllo dei libri di testo» (art. 36).

Lo Stato post-unitario considerava proprio diritto esclusivo regolare il matrimonio come fondamento della famiglia e della nazione, mentre la Chiesa poteva dare ad esso una sanzione religiosa che però era irrilevante per lo Stato. Per evitare i gravi inconvenienti della validità esclusiva del matrimonio civile, la Chiesa aveva imposto ai parroci di accertare che il rito religioso fosse accompagnato dal rito civile. Il concordato lateranense elimina il regime della doppia celebrazione, riconosce gli effetti civili «al sacramento del matrimonio, disciplinato dal diritto canonico» tramite la «trascrizione», concede ai tribunali e dicasteri ecclesiastici la riserva di competenza nel decidere le cause di nullità dei matrimoni canonici e nel pronunciare lo scioglimento dei matrimoni «rati e non consumati» mediante ordinanze della Corte di appello competente. Le cause di separazione personale dei coniugi sono affidate ai tribunali civili (art. 34).

Il principio dell’autonomia della Chiesa rispetto allo Stato trova tuttavia limitazioni e eccezioni di diversa portata. Si è detto della conservazione del patronato regio sui canonici del Pantheon e della collazione straordinaria del clero addetto alle basiliche palatine. Ancora più penetranti sono però le ingerenze statuali sulle nomine dei vescovi e dei parroci. I loro nomi devono essere comunicati rispettivamente al governo e al prefetto per verificare che non vi siano ostacoli di carattere politico o gravi ragioni, anche pastorali che ne sospendano la nomina (artt. 29 e 21). Una volta nominati, i vescovi devono prestare giuramento nelle mani del Capo dello Stato e promettere di non partecipare ad atti contro lo Stato e l’ordine pubblico e di evitare danni contro lo Stato (art. 20). Tutti gli investiti negli uffici e benefici devono possedere i seguenti requisiti: la cittadinanza italiana, la conoscenza della lingua nazionale, non avere motivi per cui il governo si opponga alla loro nomina (artt. 19, 21, 22). In estrema sintesi: la «conciliazione» del 1929 rappresenta il passaggio dall’atteggiamento di ostilità verso la Chiesa da parte dello Stato liberale alla valorizzazione nazionale del cattolicesimo da parte del regime fascista. Questa implica la modifica della neutralità statale in materia religiosa in un sistema privilegiario per la Chiesa italiana che risente dell’intreccio di motivi confessionalistici e giurisdizionalisti.

Assai differente è la cornice politica e sociale che fa da sfondo al nuovo concordato del 1984-1985. Tra il 1929 e il 1984 si inserisce la Costituzione italiana del 1947 che ha modificato la forma dello Stato e posto a suo fondamento la neutralità in materia religiosa come conseguenza del diritto di libertà religiosa, di uguaglianza e pari dignità dei cittadini ed uguale libertà di tutte le confessioni religiose. Il passaggio dallo Stato corporativo allo Stato democratico e l’ulteriore declinazione dello Stato democratico nello Stato sociale hanno poi introdotto nuovi princìpi regolativi che contribuiscono a spiegare l’abbinamento del nuovo concordato con le intese con le altre confessioni. Sulla base dell’articolazione pluralistica della società e dell’autonoma “valenza contrattuale” riconosciuta alle formazioni sociali si tende ad attuare un riequilibrio istituzionale, un ampliamento dei diritti e degli ambiti sociali di presenza e di intervento delle confessioni religiose.

Questi princìpi costituzionalistici si vengono poi a coordinare, per un verso, con le novità del concilio Vaticano II in materia di libertà religiosa, di rinuncia ai privilegi della Chiesa, di autonomia delle realtà terrene e di collaborazione con la società civile e con gli Stati; per un altro con la riforma del diritto canonico attuata nel Codex del 1983.

Sotto il profilo formale, gli Accordi del 18 febbraio (con Protocollo addizionale) e del 15 novembre 1984 e relative leggi di esecuzione del 25 marzo 1985 n. 121 e del 20 maggio 1985 n. 206, presentano due significative innovazioni rispetto ai Patti lateranensi: 1) estendono la materia pattizia alla «tutela del patrimonio storico e artistico» (art. 12); 2) prevedono «per ulteriori materie» specifiche «intese» con la Conferenza episcopale italiana. Ad esse si è dato corso, dal 1985 in avanti, circa la riforma degli enti e dei beni ecclesiastici, i rapporti finanziari, l’insegnamento della religione cattolica nelle scuole pubbliche, il riconoscimento dei titoli accademici conferiti dalle Facoltà approvate dalla Santa Sede, le festività religiose, la regolamentazione dell’assistenza spirituale nell’ambito delle n.d. strutture obbliganti, i beni culturali.

I punti più significativi della revisione concordataria del 1984-1985 scaturiscono dalle premesse generali sopra indicate. Innanzi tutto l’abrogazione del principio della religione cattolica come «sola religione dello Stato italiano», già decaduto con la Costituzione (Protocollo addizionale, n. 1). Inoltre il principio di non ingerenza che, riferendosi all’indipendenza dell’ordine civile e religioso, impegna Stato e Chiesa al «pieno rispetto nei loro rapporti della reciproca sovranità e indipendenza», a sua volta collegato con il principio di «reciproca collaborazione per la promozione dell’uomo e il bene del paese» (art. 1), da intendere come il superamento di vecchie diffidenze e una convergenza ideale di interessi.

Particolare sviluppo ha il principio dell’autonomia della Chiesa rispetto alle disposizioni del concordato lateranense. L’art. 2 degli Accordi riconosce la potestà giurisdizionale ecclesiastica alle materie spirituali e disciplinari («piena libertà della Chiesa di svolgere la sua missione pastorale, educativa e caritativa, di evangelizzazione e di santificazione»), che implica l’indifferenza dello Stato rispetto a quelle materie, a meno che non sia leso con un provvedimento un interesse o un diritto tutelato costituzionalmente dalle leggi dello Stato (Protocollo addizionale, n. 2 c). L’art. 3, nell’affermare che «la nomina dei titolari di uffici ecclesiastici è liberamente effettuata dall’autorità ecclesiastica», elimina le ingerenze giurisdizionaliste e confessionaliste del concordato del 1929 sul giuramento dei vescovi (artt. 20), sulle preghiere per la prosperità della nazione (art. 43), sulle nomine dei vescovi e dei parroci (artt. 19 e 21), fermo restando il requisito della cittadinanza italiana per ricoprire gli uffici ecclesiastici fuori della città di Roma. È altresì abolito l’istituto giurisdizionalistico delle chiese palatine restituendo la nomina del relativo clero agli ordinari diocesani. Con l’art. 4 dell’Accordo cadono anche i privilegi favorevoli e sfavorevoli del clero; l’esenzione dal servizio militare per sacerdoti, diaconi e religiosi è sostituita da tre diverse soluzioni (esonero, assegnazione al servizio civile sostitutivo o adempimento degli obblighi). Il rispetto dell’autonomia organizzativa della Chiesa implica anche la libera determinazione delle circoscrizioni ecclesiastiche (art. 3 n. 1), il divieto di requisire, occupare, espropriare o demolire edifici aperti al pubblico così come quello di entrare in essi con la forza pubblica senza previo accordo con l’autorità ecclesiastica (art. 5 n. 1 e 2).

L’art. 7 promuove il riordino del quadro legislativo degli enti ecclesiastici in rapporto alla loro tipicità, attività e pluralità. Si afferma il principio di non discriminazione rispetto alle altre persone giuridiche che operano nell’ambito dello Stato e si distingue tra gli enti con finalità di religione e di culto, e gli altri enti per i quali si deve procedere singolarmente all’accertamento, con la conseguenza di sottoporre le altre attività diversamente graduate (assistenza e beneficenza, istruzione, educazione e cultura, commercio o lucro) alle leggi civili e al diritto comune anche per ciò che attiene il regime tributario. Le categorie di enti subiscono un adattamento alla molteplicità delle situazioni reali anche con l’introduzione di una figura mista, che potrà essere riconosciuta come persona giuridica privata anche se regolata nella sua struttura statutaria e attività dall’ordinamento canonico. Uno dei vantaggi di questa riforma è quello di evitare l’identificazione della missione della Chiesa, che investe virtualmente ogni sfera umana, con gli strumenti o enti di cui essa si serve nella società civile.

Si segnalano alcune conseguenze istituzionali. La Conferenza episcopale italiana acquista la personalità giuridica civile quale ente ecclesiastico. In accordo col nuovo codice canonico i capitoli cattedrali o collegiali che non rispondono «a particolari esigenze o tradizioni religiose e culturali» perdono il riconoscimento civile. Il riconoscimento della personalità giuridica per gli istituti religiosi di diritto diocesano sorti dopo il 1929 necessita del previo assenso della Santa Sede e di garanzie di stabilità; per quello delle società di vita apostolica e delle associazioni pubbliche di fedeli oltre l’assenso della Santa Sede, è richiesto che non abbiano carattere locale.

Un’innovazione storica radicale è stata introdotta nei beni e nel sistema del sostentamento del clero per effetto della riforma del sistema beneficiale (can. 1272 CIC1983) e della volontà dello Stato di evitare il finanziamento diretto della Chiesa. Gli assegni di congrua ai parroci, stabiliti dallo Stato liberale e confermati dal concordato lateranense, erano ormai divenuti, col decorrere degli anni, una sorta di contributo stipendiale per i titolari dei benefici e la loro gestione comportava controlli amministrativi statali. Di comune accordo con la Conferenza episcopale, si prevede la creazione di Istituti per il sostentamento del clero che provvedano direttamente a garantire un più equo assegnamento a tutti sacerdoti che svolgono servizio nella diocesi mediante i fondi degli ex-benefici, ora concentrati in tali Istituti, e l’eventuale integrazione finanziaria da parte di un Istituto centrale, che ha anche compiti di coordinamento e di programmazione del nuovo sistema di sostentamento e che riceve le entrate provenienti dallo Stato in virtù dei nuovi rapporti finanziari tra Stato e confessioni religiose.

Va osservato che la riforma di questa delicata disciplina esclude sia la posizione confessionalista (finanziamento diretto), sia la posizione separatista (sostegno esclusivo dei fedeli), essendo fondata sul principio della manifestazione di volontà dei cittadini. Al di là, infatti, delle erogazioni volontarie, i cittadini possono destinare ogni anno, al momento della dichiarazione dei redditi, una quota pari all’8 per mille del gettito complessivo IRPEF alternativamente allo Stato, alla chiesa cattolica o alle altre confessioni religiose che hanno stipulato un’intesa. La destinazione delle quote per la chiesa cattolica sono predeterminate per esigenze di culto della popolazione, per il sostentamento del clero, per interventi caritativi a favore della collettività nazionale o di paesi del terzo mondo.

Nel campo dell’istruzione si sostituisce il principio confessionalistico dell’obbligatorietà dell’insegnamento della religione col principio della facoltatività, motivandolo col fatto che «i princìpi del cattolicesimo fanno parte del patrimonio storico del popolo italiano» (art. 9 n. 2). L’assistenza spirituale alle forze armate, alla polizia, ai degenti in ospedali, case di cura o di assistenza pubblica o a coloro che si trovano negli istituti di prevenzione e pena è assicurata da ecclesiastici designati dall’autorità ecclesiastica e nominati da quella civile (art. 11).

Data la complessità della materia, il nuovo concordato non ha fornito una soluzione organica e lineare alla riforma della disciplina matrimoniale varata nel 1929. Da un lato ha riaffermato la connessione della normativa canonica con l’ordinamento civile in quanto, insieme con gli effetti civili dei matrimoni celebrati col rito cattolico, si continua a dare rilevanza alle norme canoniche sugli impedimenti e cause di nullità. Dall’altro ha introdotto tre princìpi innovativi consistenti nella riconoscibilità del matrimonio canonico solo nel caso in cui sussista la possibilità di un matrimonio civile valido; nella rilevanza della volontà delle parti per decidere l’acquisto degli effetti civili o l’efficacia delle eventuali sentenze di nullità; nel sottoporre le sentenze di nullità canoniche ad un giudizio di delibazione dello Stato analogo a quello previsto per le sentenze straniere.

Fonti e Bibl. essenziale

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LEMMARIO




Conferenza Episcopale Italiana - vol. II


Autore: Francesco Sportelli

Nella seconda metà degli anni Quaranta del Novecento iniziano a profilarsi esigenze di una organizzazione centrale per i vescovi italiani, distinta dalle strutture della Santa Sede. La prima idea risale al 1946 e si rivela all’interno della Commissione episcopale nominata dalla Santa Sede per la preparazione dei nuovi statuti dell’Azione cattolica italiana dove viene presentato un progetto per una commissione di presidenti delle conferenze regionali allo scopo di studiare i problemi della Chiesa in Italia. Il progetto è giudicato prematuro e si nomina una Commissione episcopale per l’alta direzione dell’Azione cattolica. Fra il 1947 e il 1948 è il gesuita Riccardo Lombardi ad inviare al papa un progetto per rinnovare il cattolicesimo, all’interno del quale c’è l’istituzione di un organismo ecclesiastico nazionale per l’intero episcopato.

Nel 1951 il cardinale di Palermo Ernesto Ruffini compie passi decisivi per la costituzione di un organismo unitario dell’episcopato italiano. Chiede a Pio XII di farsi promotore di una riunione dei presidenti delle conferenze regionali e il papa acconsente. La congregazione Concistoriale invia il 12 dicembre 1951 una lettera riservata a tutti i cardinali e i vescovi presidenti delle conferenze regionali convocandoli dall’8 al 10 gennaio 1952 a Firenze per discutere i problemi del clero e del laicato cattolico. Inizia così la vicenda della Conferenza episcopale italiana, denominazione utilizza già nel 1952 nel verbale del primo incontro. Altre riunioni della CEI si tengono a Sestri Levante e Pompei. Nel febbraio 1954 viene pubblicata la prima lettera pastorale collettiva dei presidenti delle conferenze episcopali regionali a nome di tutti i vescovi italiani, mentre il 1° agosto 1954 è approvato il primo statuto provvisorio della CEI. I primi incontri della CEI rappresentano un osservatorio di interesse estremo per leggere l’Italia cattolica dei primi anni Cinquanta. Si riscontrano poche vocazioni perché, secondo i vescovi della Conferenza, è diminuito il senso cristiano delle famiglie. Preoccupano le condizioni economiche dei preti che non sono assicurati contro le malattie, l’invalidità e la vecchiaia. C’è molto imbarazzo nell’affrontare il problema dell’eccessivo numero delle diocesi, quasi trecento e molto diverse fra loro. C’è ignoranza sulle verità religiose, i vescovi vorrebbero una revisione del catechismo di Pio X e una maggiore presenza degli adulti agli incontri. Nei primi dibattiti si trova molta attenzione per la situazione politica, soprattutto per il partito dei cattolici e per il comunismo, forte avversario. I primi itinerari della CEI sono fortemente condizionati e diretti dagli uffici vaticani. Una funzione decisiva è svolta da Montini e dal segretario della Concistoriale, Piazza, che si occupa dei vescovi e dirige l’unica struttura episcopale nazionale, la commissione per la direzione dell’AC. Il problema che si pone per l’Italia è quello del rapporto tra il ministero del papa e l’azione collettiva dell’episcopato, ma è un problema risolto alla partenza, visto che l’episcopato italiano non esprime una volontà di distacco da Roma, anzi moltiplica durante le prime riunioni della CEI gli attestati di fedeltà al papa.

Negli anni della modernizzazione dell’Italia i vescovi della CEI studiano intensamente i temi emergenti dalla realtà ecclesiale e dalla società civile. Profonde trasformazioni stanno cambiando l’Italia. Durante gli anni Cinquanta alla CEI si discute sui cambiamenti del costume, le migrazioni, la disgregazione della famiglia, le condizioni delle periferie urbane e la scristianizzazione, le difficoltà dei preti, l’adeguamento dell’istruzione religiosa, la situazione del Sud. Alla CEI sono preoccupati della trasformazione delle campagne, ma ci sono problemi anche nel laicato organizzato. Lo sforzo di analisi dei vescovi alla CEI è notevole e talvolta spietato. Le questioni politiche sono molto intrecciate con i problemi religiosi. L’Italia sta entrando nel boom economico e i vescovi della CEI capiscono che molti equilibri tradizionali stanno per essere sconvolti. Giudicano positivamente la modernizzazione italiana, che provoca avanzamento e miglioramento generale delle condizioni economiche, ma criticano gli effetti: allontanamento dalla religione, diffusione di orientamenti morali distorti, laicizzazione della vita collettiva. Nel 1958 muore Pio XII, gli succede Angelo Giuseppe Roncalli che ha partecipato alle riunioni della CEI.

Nel 1959 la CEI ha un nuovo statuto, rispetto al vecchio criterio che dava la presidenza al cardinale decano si stabilisce che il direttivo indichi il nominativo del candidato al papa, al quale rimane riservata la nomina. Così Giuseppe Siri viene designano e nominato presidente nell’ottobre 1959. Al Vaticano II l’Italia presenta l’episcopato più numeroso del mondo, 430 convocati. Dopo tre giorni dall’apertura tutti i vescovi d’Italia si incontrano alla Domus Mariae, è la prima riunione dell’intero episcopato italiano. Al concilio la CEI arriva con una struttura in via di consolidamento, non produce interventi collettivi e concordi, come altri episcopati. Il concilio, però, porta l’episcopato italiano ad uscire da un lungo periodo di particolarismo istituzionale per accedere a punti di riferimento unitari e capaci di approfondimenti, proposte e sintesi per l’intero paese. E’ al Vaticano II che si delinea la fisionomia di una chiesa “italiana”, dovuta allo sforzo di Paolo VI che vive intensamente il ruolo di primate d’Italia. Il 16 dicembre 1965 viene approvato un nuovo statuto che tiene conto delle indicazioni conciliari. Scompare la CEI dei presidenti regionali. La CEI rinnovata dal concilio comprende tutti i vescovi italiani che costituiscono l’assemblea generale, massimo organo dell’episcopato. A questa CEI tocca il compito di lavorare per la recezione del concilio fra problemi delicati e in anni carichi di fermenti innovatori in campo ecclesiale e civile. Ha inizio un nuovo periodo nella storia della Chiesa italiana, l’impostazione di una pastorale globale per l’intero Paese è il punto di arrivo. Una delle tappe imprescindibili è il riordino delle diocesi che arriverà nell’ottobre 1986 quando verrà varato un definitivo riordinamento che ridurrà da 325 a 228 le diocesi in Italia. Il 4 febbraio 1966 Paolo VI nomina Giovanni Urbani presidente della CEI. Il tema dell’introduzione del divorzio sollecita la CEI a parlare dell’unità dei cattolici in politica. Alla CEI si discute di “mediocre” cultura teologica italiana, di clima anticoncordatario, contestazione studentesca all’Università Cattolica, scelta socialista delle ACLI. Urbani con pazienza e mediazione tiene insieme le tessere della Chiesa italiana e traghetta la CEI dai vecchi incontri di cardinali e presidenti alle nuove assemblee, diventando uno degli esponenti più caratteristici della “via italiana” alla recezione del Vaticano II. La CEI degli anni Settanta è guidata da Antonio Poma, arcivescovo di Bologna. In questi anni la CEI elabora il piano pastorale pluriennale “Evangelizzazione e sacramenti” che segna la fine esplicita del collateralismo alla DC. E’ un piano per una nazione in crisi e afferma il primato dell’evangelizzazione. Il cambiamento conciliare porta al rinnovamento della catechesi, con la stesura di nuovi catechismi che modificano in profondità l’educazione alla fede delle nuove generazioni e all’approvazione dei nuovi libri liturgici e del nuovo messale che rinnovano l’immagine della Chiesa che prega. Nasce anche la Caritas che modifica l’impegno sociale dei cattolici. In questo cammino si inserisce il 4 settembre 1972 Enrico Bartoletti, nominato da Paolo VI segretario generale della CEI in sostituzione di Andrea Pangrazio. La sua segreteria assume un ruolo di propulsione; il papa lo ascolta e lo utilizza per compiti e contatti spesso lontani dal suo ruolo istituzionale.

La partenza dei piani pastorali e la stabilizzazione statutaria postconciliare concorrono fortemente ad una definizione di coscienza unitaria dei vescovi. La CEI è ormai un organismo consolidato, articolato, funzionale e maturo per assumere la guida della Chiesa italiana. Nel 1976 si svolge a Roma il primo convegno ecclesiale della chiesa italiana, “Evangelizzazione e promozione umana”, una esperienza non immaginabile prima del Vaticano II. L’elezione di un papa non italiano non porta al cambiamento immediato della Chiesa in Italia, ma l’avvento del nuovo papa rappresenta un crinale per i rapporti fra Chiesa e società. L’impostazione del nuovo pontefice è alternativa rispetto alla linea della CEI voluta da Montini. Giovanni Paolo II attende dal cattolicesimo italiano un annuncio esplicito delle verità cristiane e un ruolo attivo dentro la vita della nazione. Il 18 maggio 1979 il papa nomina presidente della CEI il carmelitano Anastasio Ballestrero, arcivescovo di Torino; nel 1985 gli succederà Ugo Poletti, vicario del papa per la diocesi di Roma. Per gli anni Ottanta la CEI vara un piano pastorale sul rapporto fra comunione e comunità, seguito dal documento “La Chiesa italiana e le prospettive del paese” che qualifica in modo nuovo la presenza e il coinvolgimento della chiesa nei problemi del paese. La CEI organizza il secondo convegno ecclesiale a Loreto nell’aprile 1985 dove il papa interviene e sottolinea che l’identità storica del popolo italiano non è separabile dal cristianesimo.

Dopo Loreto per la CEI e per la Chiesa italiana si apre una nuova fase. L’impostazione di papa Wojtyla alla CEI si armonizza e si incontra con la revisione del Concordato del 1984 e con l’attuazione per l’Italia del Codice di diritto canonico del 1983. Nel nuovo statuto del 1985 si riconosce alla CEI una competenza distinta da quella della Santa Sede per trattare con le autorità civili, questa valorizzazione della CEI non è estranea al progetto di Giovanni Paolo II per l’Italia. In questo decennio la CEI riprende le settimane sociali, si occupa del Mezzogiorno e lancia gli orientamenti pastorali per gli anni Novanta sul tema dell’evangelizzazione e la testimonianza della carità. Il segretario generale Ruini guida il potenziamento della CEI che coincide con il processo di rinnovamento wojtyliano della Chiesa italiana. Agli inizi del 1991 Ruini è il nuovo presidente della CEI, avverte subito l’esigenza di una nuova inculturazione della fede. Al convegno ecclesiale nazionale di Palermo del 1995 viene proposto un “progetto culturale ispirato e orientato in senso cristiano”.

La settimana sociale di Napoli del 1999 si interroga su “quale società civile per l’Italia di domani?”. È una domanda che proietta la CEI, e con essa la Chiesa italiana, nel terzo millennio. Nel 2005 muore Giovanni Paolo II, Benedetto XVI chiede alla CEI di “proseguire nel lavoro che avete intrapreso perché la voce dei cattolici sia costantemente presente nel dibattito culturale italiano”. Le linee pastorali della CEI per il primo decennio degli anni 2000 riguardano gli aspetti della comunicazione del Vangelo in un mondo che cambia. Il quarto convegno ecclesiale di Verona dell’ottobre 2006 costituisce un momento di questo piano pastorale in cui domina l’attenzione alla speranza. Il 7 marzo 2007 termina la presidenza di Ruini e il papa nomina Angelo Bagnasco, arcivescovo di Genova.

Fonti e Bibl. essenziale

G. Bonicelli, Conferenza Episcopale Italiana, in F. Traniello, G. Campanini (edd.), Dizionario Storico del Movimento Cattolico in Italia, I/2, Marietti, Torino 1981, 226-229; Enchiridion della Conferenza Episcopale Italiana, 1-8, Edizioni Dehoniane, Bologna 1985-2011; G. Alberigo, Santa Sede e vescovi nello Stato unitario. Verso un episcopato italiano (1958-1985), in G. Chittolini – G. Miccoli (edd.), La Chiesa e il potere politico dal medioevo all’età contemporanea, Einaudi , Torino 1986, 855-879; F. Sportelli, La Conferenza Episcopale Italiana (1952-1972), Congedo, Galatina 1994; La Conferenza Episcopale Italiana, in “Communio”, 149 (1996), 5-94; F. Sportelli, I vescovi italiani al Vaticano II: il ruolo della Conferenza Episcopale Italiana, in “Rivista di Scienze Religiose”, 23 (1998), 37-90; G. P. Milano, Santa Sede, Conferenza Episcopale Italiana, Conferenze episcopali regionali, province ecclesiastiche, vescovi diocesani: gerarchia delle fonti e ripartizione delle competenze, in G. Feliciani (ed.), Confessioni religiose e federalismo, Il Mulino, Bologna 2000, 127-155; P. Gheda, La Conferenza Episcopale Italiana e la preparazione del Concilio Vaticano II, in P. Chenaux (ed.), La PUL e la preparazione del Concilio, Mursia, Roma 2001, 99-119; A. Riccardi, I cinquant’anni della Conferenza Episcopale Italiana. Alle origini di una storia, supplemento a “L’Osservatore Romano”, Città del Vaticano, 2002, 3-22; A. Acerbi, La Chiesa italiana dalla conclusione del Concilio alla fine della Democrazia cristiana, in La Chiesa e l’Italia. Per una storia dei loro rapporti negli ultimi due secoli, A. Acerbi (ed.), Vita e Pensiero, Milano 2003, 449-520; G. Feliciani, La Conferenza episcopale come soggetto della politica ecclesiastica italiana, in “Quaderni di diritto e politica ecclesiastica”, 12 (2004), I, 249-256; R. Astorri, La Conferenza episcopale italiana, in M. Impagliazzo (ed.), La nazione cattolica. Chiesa e società dal 1958 a oggi, Guerini e associati, Milano 2004, 117-146; L. Bianco, La Conferenza Episcopale Italiana. Profilo storico e giuridico, Pontificia Universitas Gregoriana, Roma 2005; A. Acerbi A. – G. Frosini, Cinquant’anni di Chiesa in Italia. I convegni ecclesiali da Roma a Verona, Edizioni Dehoniane, Bologna 2006; F. Sportelli, CEI – Conferenza Episcopale Italiana, in Dizionario storico Le diocesi d’Italia. I, Le regioni ecclesiastiche, E. Guerriero, L. Mezzadri, M. Tagliaferri (edd.), Edizioni San Paolo, Cinisello Balsamo (Milano) 2007, 278-286; F. Sportelli, La Cei e la collegialità italiana, in A. Melloni (ed.), Cristiani d’Italia. Chiese, società, stato. 1861-2011, 2, Treccani. Istituto della Enciclopedia Italiana, Roma 2011, 841-852.


LEMMARIO




Conferenze Episcopali Regionali - vol. II


Autore: Francesco Sportelli

I processi risorgimentali degli anni Venti e Trenta dell’Ottocento, le rivoluzioni del 1848 e la creazione dello Stato unitario nel 1861, con la conseguente legislazione, pongono in maniera urgente ai vescovi italiani l’esigenza di abbandonare il proprio particolarismo diocesano e di intraprendere forme di collaborazione tali da permettere una azione efficace ed adeguata rispetto ai nuovi problemi che la Chiesa è chiamata ad affrontare. Con tale scopo si riuniscono conferenze regionali di vescovi nel luglio del 1849 a Villanovetta di Saluzzo, per la provincia torinese; a Napoli, per il Mezzogiorno d’Italia, nel novembre dello stesso anno e successivamente in Liguria, in Umbria, nella provincia di Vercelli. Dopo l’invito del papa dell’8 dicembre 1849 con l’enciclica Noscitis et Nobiscum, si riuniscono nel 1850 i vescovi delle Marche, della provincia di Urbino, della Sardegna, della Sicilia e della Toscana. Dopo il 1861 l’azione collettiva dell’episcopato italiano si sviluppa ulteriormente con proteste collettive contro la politica e le legislazioni ecclesiastiche del governo. L’episcopato italiano diventa, così, consapevole della positività e della fecondità di una azione episcopale concordata a livello territoriale. Fra il 1881 e il 1887 la Congregazione vaticana per gli Affari Ecclesiastici Straordinari avvia una riflessione per l’Italia sulle strutture di collegamento dei vescovi a base territoriale. A partire dal 1887 si fa serrato il dibattito vaticano teso ad abbandonare la formula del coinvolgimento solo di alcuni vescovi in ogni regione italiana e passare al coinvolgimento diretto di tutti i vescovi accorpati per aree geografiche al fine di far funzionare efficacemente il rapporto fra centro e periferia. Nel marzo del 1889 gli interrogativi romani vengono interrotti da un quesito dei vescovi delle “tre Puglie” che chiedono alla Santa Sede di rivedere la ripartizione ecclesiastica della loro area geografica e di giungere alla creazione di un vero e proprio “corpo regionale”.

L’iniziativa è dell’arcivescovo di Taranto Pietro Alfonso Jorio che nella lettera di accompagnamento al quesito sottolinea che i fatti accaduti in Italia dopo l’unificazione nazionale hanno reso necessaria una unione maggiore ed un aiuto reciproco fra i vescovi ed inoltre afferma che è ormai indispensabile una ripartizione dell’Italia meridionale in “tanti centri quante sono le regioni”. Leone XIII incarica i componenti della Congregazione per gli Affari Ecclesiastici Straordinari di discutere la richiesta. Questa Congregazione elabora la proposta di inviare all’episcopato italiano una lettera circolare che attribuisce ad “alcuni Arcivescovi e Vescovi d’Italia” la richiesta delle riunioni episcopali collettive e che suddivide l’Italia in regioni ecclesiastiche, prescrivendo adunanze collettive annuali. Si giunge così all’invio da parte della Congregazione dei Vescovi e Regolari della “Lettera circolare”, con la data del 24 agosto 1889, che indica i confini di 17 regioni ecclesiastiche in cui viene divisa l’Italia. Il documento vaticano chiede che le Conferenze regionali si riuniscano almeno una volta all’anno e promuovano l’uniformità della disciplina ecclesiastica, redigano atti collettivi, individuino linee comuni per superare le difficoltà di governo delle singole diocesi, uniformino nell’ambito regionale la formazione del clero, potenzino l’attività religioso-sociale del laicato.

Nel giro di pochi anni tutti gli episcopati delle nuove regioni ecclesiastiche italiane iniziano l’organizzazione e la celebrazione delle conferenze episcopali. Le norme vaticane del 1889 vengono confermate negli anni successivi: nel 1919 vengono ribadite dalla Congregazione Concistoriale e nel 1932 dalla Congregazione del Concilio. L’istituzione della Conferenza episcopale italiana, avviata nel 1952 e istituzionalizzata con uno Statuto nel 1954, non svuota di significato le conferenze regionali, ma ne valorizza l’importanza inquadrandole in un più ampio contesto di collaborazione, attribuendo alle conferenze regionali funzioni rilevanti all’interno della conferenza nazionale. Lo statuto della CEI del 1985 si preoccupa di assicurare che le conferenze regionali non costituiscano una sorta di riunione privata di vescovi, ma le raccorda con il contesto ecclesiale e sociale, esigendo che le conferenze regionali promuovano ed accolgano “la collaborazione dei presbiteri, dei diaconi, dei membri di istituti di vita consacrata e di società di vita apostolica, dei laici, attraverso i loro organismi istituzionali regionali” e lo stesso statuto richiede alle conferenze regionali di mantenere “rapporti con le autorità civili e con le realtà culturali, sociali e politiche delle regioni civili, al fine di contribuire, in spirito di sincera collaborazione, alla promozione umana delle popolazioni delle regioni stesse”. L’esplicita menzione delle conferenze regionali nell’Accordo di revisione del Concordato lateranense del 18 febbraio 1984 costituisce un riconoscimento significativo dell’importanza che esse assumono nella Chiesa italiana come elementi integranti nella sua struttura istituzionale. L’identità delle conferenze regionali italiane viene modificata e integrata da una serie di decreti con cui il 4 novembre 1994 la Congregazione per i vescovi attribuisce alle Regioni ecclesiastiche italiane la personalità giuridica canonica pubblica e contemporaneamente provvede ad approvare lo statuto di ogni Conferenza allo scopo di ottenere il riconoscimento delle Regioni ecclesiastiche quali enti ecclesiastici civilmente riconosciuti.

Fonti e Bibl. essenziale

M. Costalunga, De episcoporun conferentiis, in “Periodica de re morali canonica liturgica”, 49 (1968), 268-273; G. Feliciani, Azione collettiva e organizzazioni nazionali dell’episcopato cattolico da Pio IX a Leone XIII, “Storia contemporanea”, 3 (1972), 325-363; G. Feliciani, Legislazione ecclesiastica ed azione collettiva dell’episcopato italiano (1861-1878), in Studi in onore di Pietro Agostino d’Avack, II, Giuffré, Milano 1976, 225-275; G. Feliciani, Le regioni ecclesiastiche italiane da Leone XIII a Giovanni Paolo II, in G. Feliciani (a cura), Confessioni religiose e federalismo, Il Mulino, Bologna 2000, 103-155; A. Marani, Una nuova istituzione ecclesiastica contro la secolarizzazione. Le conferenze episcopali regionali (1889-1914), Herder editrice e libreria, Roma 2009.


LEMMARIO




Confessione, Penitenza - vol. I


Autore: Alessandra Costanzo

All’interno dei tre sistemi – antico, tariffato e moderno – che scandiscono le tappe salienti della storia della penitenza, l’Italia apporta alcuni significativi contributi alla teologia e alla prassi penitenziale.

Intorno alla metà del II secolo, Erma, fratello del papa Pio I (140-154 ca.), scrive a Roma il Pastore, in cui formula per la prima volta il principio della non reiterabilità della penitenza: chi si è macchiato di una colpa grave dopo il battesimo (omicidio, adulterio, apostasia della fede) ha un’unica possibilità di ricorrere alla penitenza. Questo principio, definitivamente sancito nel III secolo da Tertulliano, che considererà la penitenza la “seconda tavola di salvezza” dopo il battesimo, segna tutto il sistema penitenziale antico fino al VI secolo.

L’irripetibilità della penitenza resiste persino alla questione dei lapsi, ossia di tutti coloro che, dopo aver rinnegato la fede durante le persecuzioni, desiderano essere accolti di nuovo nella comunità cristiana. Rispetto alla loro riammissione, la Chiesa appare divisa tra i seguaci di Cornelio, eletto vescovo di Roma nel marzo 251, che si mostra indulgente verso i lapsi, e i sostenitori del presbitero Novaziano, che non permette alcuna accoglienza degli apostati e si fa consacrare antipapa da tre vescovi dell’Italia meridionale. Nell’autunno 251 egli viene scomunicato dal sinodo di Roma, ma lo scisma cui Novaziano aveva dato origine trova seguaci in oriente e in occidente protraendosi per qualche secolo.

Contro i Novaziani prende posizione Ambrogio, che a Milano, tra il 386 e il 390, compone il De poenitentia, in due libri: il primo, in cui confuta le tesi dei seguaci della setta circa l’irrimediabilità dei peccati mortali e la necessità di un nuovo battesimo per gli adepti al movimento; il secondo, in cui espone in modo positivo la sua concezione della penitenza e della maniera di esercitarla. Contro il rigorismo degli avversari, che pretendevano di fondare le proprie tesi su alcuni passi della Scrittura, Ambrogio ricorda la misericordia di Dio, che assicura a tutti i peccatori pentiti la sua grazia, riferendosi alle parabole del samaritano, del figlio prodigo o all’episodio della resurrezione di Lazzaro. In questa linea, egli riprende gli stessi passi scritturistici di cui si avvalgono i Novaziani, fornendone un’interpretazione diversa. Ribadisce l’analogia tra battesimo e penitenza circa l’irripetibilità di entrambi i sacramenti, dai quali scaturisce una trasformazione radicale di vita, sempre possibile a chi si penta sinceramente del male commesso. Ambrogio denuncia l’incongruenza della dottrina dei Novaziani, che annunciano la penitenza, ma negano il perdono, pensano di onorare Dio con la loro intransigenza, ma in realtà lo offendono con la propria durezza.

Mentre Ambrogio attende alla composizione del De poenitentia, Agostino si trova a Milano come professore di retorica. Attirato dalla predicazione di Ambrogio, si converte al cristianesimo, ricevendo da lui il battesimo nel 387. Agostino, a differenza di Ambrogio, non scrive un trattato specifico sulla penitenza, ma ad essa si ispira in varie opere, prima fra tutte le Confessiones, i cui primi nove libri costituiscono una biografia “sui generis”, dove il racconto si snoda, attraverso le tappe del percorso spirituale dell’autore, nella confessione dei suoi smarrimenti dinanzi a Dio. Così confessare la lode della grandezza e misericordia divina va insieme al confessare la propria miseria umana, riconoscendo che solo la misericordia di Dio può chinarsi sulla miseria dell’uomo e redimerla. Nella sua attività pastorale, Agostino tratta spesso della penitenza: in particolare, nei sermoni 351-352 (PL 39, 1535-1549; 1549-1560), De utilitate agendae poenitentiae, distingue tre specie di penitenza: quella prebattesimale, per cui è necessario pentirsi delle colpe commesse per poter iniziare una nuova vita attraverso il battesimo; la penitenza quotidiana, indispensabile per tutti, nella misura in cui la consacrazione battesimale non rende nessuno immune dalla caduta nel peccato, e pertanto occorre pentirsi ogni giorno delle colpe lievi, offrendo quotidianamente preghiere, elemosine e digiuni; infine la penitenza per i peccati mortali, più severa delle altre, per cui è necessario sottoporsi innanzitutto al tribunale della propria coscienza, prima ancora che a quello della Chiesa, e astenersi dalla mensa del Signore in attesa della riconciliazione.

Nonostante il contributo di Ambrogio e Agostino alla teologia e alla prassi penitenziale, alla fine del periodo antico il ricorso alla penitenza si fa sempre più raro: l’irripetibilità del sacramento e la sua scarsa accessibilità, insieme alla gravosità degli interdetti penitenziali, che condizionano la vita del penitente anche dopo la riconciliazione, determinano una disaffezione crescente alla penitenza, che spesso viene differita in punto di morte.

Un’inversione di tendenza si profila all’inizio del VII secolo, quando il monaco irlandese Colombano giunge in Italia, dove fonda nel 614 il monastero di Bobbio, ed introduce un nuovo sistema penitenziale, proveniente dalle isole celtiche. Le comunità cristiane della Gran Bretagna e dell’Irlanda infatti non conoscevano il regime della penitenza antica e avevano elaborato un particolare sistema penitenziale che prevedeva la penitenza privata ripetibile. In questo ambito, probabilmente nei monasteri cui queste comunità facevano riferimento, nascono i primi Libri poenitentiales come guide ai ministri della penitenza, che contengono le classificazioni delle colpe cui corrispondono le penitenze da imporre, le “tariffe”, particolarmente lunghe e onerose. Grazie dunque a S. Colombano e ai suoi seguaci, tra il VII e l’VIII secolo, questo sistema si diffonde nel continente, trovando ampi consensi. La penitenza tariffata infatti sembra offrire tutto ciò che al regime antico mancava, in una sorta di puntuale “coincidentia oppositorum”: la ripetibilità del sacramento al posto dell’unicità, la segretezza del processo penitenziale al posto della dimensione pubblica, la liberazione dalle tasse penitenziali una volta saldate al posto della gravosità degli interdetti attivi anche dopo la riconciliazione, l’accessibilità della penitenza a tutti al posto della sostanziale inaccessibilità ai più.

Tra la fine dell’VIII e gli inizi del IX secolo, i Libri penitenziali conoscono una particolare fioritura: le “tariffe” che essi contengono consistono sostanzialmente in digiuni, che vengono imposti non solo in base alla gravità della colpa, ma talvolta anche in rapporto allo stato di vita di chi l’ha commessa, e possono durare giorni, mesi o addirittura anni, rendendosi così praticamente insostenibili. Pertanto i Penitenziali contengono, sin dalle origini, liste di commutazioni per consentire al peccatore di “riscattare” il proprio digiuno attraverso opere espiatorie compiute da lui stesso o effettuate tramite terzi, in cambio di denaro, celebrazioni di messe o donazioni di terre. A lungo andare, la naturale conseguenza fu lo svuotamento di significato dell’espiazione.

Così i teologi carolingi, a partire dal IX-X secolo, iniziano a spostare l’accento dall’espiazione all’accusa dei peccati, ritenendola sempre più cuore del processo penitenziale, senza la quale non può esservi perdono. Il rilievo che in età carolingia si inizia a dare alla confessione trova la sua compiuta manifestazione tra la fine dell’XI e l’inizio del XII secolo, grazie ad un breve trattato, il De vera et falsa poenitentia (PL 40, 1113-1130), scritto, secondo Pierre-Marie Gy in Italia (ma tale localizzazione rimane dubbia). Sotto il nome prestigioso di Agostino, l’opera segnerà come una pietra miliare la storia della penitenza medievale, offrendo la prima formulazione teologica del valore della confessione, per cui nell’accusa dei peccati il peccatore sperimenta il dolore per quanto ha commesso, che comporta vergogna e umiliazione. Sono questi sentimenti che ora rendono la confessione la vera penitenza (cfr. PL 40, 1122: cap. X, par. 25), capace di colmare il vuoto delle altre penitenze ormai logore del loro senso. La vis confessionis è talmente grande che, in mancanza del ministro, l’accusa dei peccati può esser fatta al prossimo e il peccatore può divenire degno di misericordia ex desiderio sacerdotis, sebbene il laico non abbia potere di assolverlo (cfr. ibidem). Il trattato, che a partire dalla metà del XII secolo viene tramandato in ampie sezioni dal Decretum di Graziano e dalle Sententiae di Pietro Lombardo, grazie ai quali conosce una straordinaria diffusione, lancia alla riflessione teologica posteriore alcune fondamentali linee prospettiche: sulla sua scia, l’attenzione dei primi Scolastici verterà sugli atti del penitente, e in particolare sul pentimento; la loro distinzione tra contritio e attritio scaturisce con ogni probabilità da quella, operata nel trattato, tra penitenza vera e falsa. L’intero processo penitenziale, che lo pseudo-Agostino designa significativamente con il termine confessio, già nella sua stessa epoca viene più precisamente indicato da Lanfranco da Pavia come sacramentum confessionis (Cfr. Lanfranco, De celanda confessione, in PL 150, 625-626), definizione difficilmente concepibile senza il contributo dell’autore del trattato. Significativo inoltre del cambiamento di accento sulla confessione, avvenuto attraverso il De vera et falsa poenitentia, sarà che, tra la fine del XII e gli inizi del XIII secolo, i Libri penitenziali cederanno il posto alle Somme dei confessori; e ancor più significativo sarà il canone 21 del IV Concilio Lateranense del 1215, Omnis utriusque sexus, che prescrive ad ogni fedele cristiano, giunto in età conveniente, di confessare privatamente i suoi peccati al proprio sacerdote almeno una volta l’anno e di comunicarsi nella sua parrocchia almeno a Pasqua (Cfr. DS 812 già 437): viene sancita così, in modo ufficiale, la centralità della confessione orale nella pratica sacramentale e – particolare di sorprendente rilievo – in quel concilio alcune espressioni, in materia di disciplina sacramentale, vengono direttamente desunte dal Tractatus de poenitentia, inserito nel Decretum Gratiani, quindi proprio dal De vera et falsa poenitentia.

Di fatto, però, l’obbligo stabilito dalla costituzione conciliare viene attuato solo in parte, ovvero soltanto per quel che riguarda la prescrizione della confessione annuale. L’obbligo di confessarsi al “proprio” sacerdote, invece, non riesce a realizzarsi, se non in modo marginale e per colpe lievi, che richiedono una penitenza privata, la cui giurisdizione spetta al parroco. Per i peccati gravi, che esigono una penitenza pubblica, è necessario rivolgersi al vescovo, se non addirittura al papa. Del resto, il clero curato risulta inadeguato ad accogliere la confessione annuale dei parrocchiani a causa della sua scarsa formazione teologico-canonistica, che non gli consente di avvalersi nemmeno dell’aiuto offerto dalle Summae confessorum, che cominciano a diffondersi all’indomani del Lateranense IV come guide teoriche e pratiche per una rigorosa amministrazione del sacramento della penitenza. Questi poderosi trattati, che a partire dal modello fornito dal domenicano catalano Raimond di Peñafort (1220-1240) vengono scritti anche in Italia – per citare solo qualche nome, dai francescani Astesano d’Asti (1317 ca.) e Angelo da Chivasso (1480-1490) o dal domenicano Bartolomeo da Pisa (1338) – restano fuori della portata del clero diocesano, del tutto impreparato a comprendere la complessa disciplina dei “casi”, strettamente congiunta al diritto canonico, che contraddistingue queste opere.

Più adatti al modesto livello culturale del clero curato appaiono i “manuali per la confessione”, spesso scritti in lingue volgari, che si limitano ad offrire sia ai confessori che ai penitenti le indicazioni necessarie per amministrare e ricevere il sacramento della penitenza. Gli autori di questi manuali, come quelli delle Summae, sono per lo più dei religiosi appartenenti agli ordini mendicanti: per fare solo qualche esempio, in Italia i domenicani fiorentini Jacopo Passavanti e S. Antonino o il francescano S. Bernardino da Siena. In effetti, sono proprio i membri dei nuovi ordini religiosi che, in virtù della loro preparazione culturale e della propria attività pastorale, assumono dagli inizi del XIII secolo il compito della predicazione e dell’ascolto delle confessioni. Nel 1221 il papa Onorio III, nell’enciclica Cum qui recipit prophetam, affida all’ordine domenicano, cui in seguito si aggiungerà anche quello francescano, la pratica della confessione; disposizioni analoghe verranno prese anche da Gregorio IX e Innocenzo IV, a conferma del fatto che non basta essere sacerdoti per poter confessare e assolvere, ma occorre aver ricevuto una specifica delega dal vescovo o dal papa. Così l’amministrazione del sacramento della penitenza si realizza solo in parte attraverso il clero diocesano, e l’obbligo di confessarsi al “proprio” sacerdote, previsto dal Lateranense IV, viene in gran parte disatteso mediante il sistema della riserva dei casi, di cui è competente il papa, il foro episcopale, al quale viene affidata l’assoluzione dei peccati più gravi, e l’attività dei membri degli ordini mendicanti con poteri delegati dal papa.

L’obbligo del 1215 sarà sempre meno realizzabile quando sorgeranno, tra la fine del XII e la metà del XIII secolo, il tribunale della Penitenzieria apostolica e quello dell’Inquisizione, legati ad autorità giudiziarie che, pur passando attraverso la confessione, vanno oltre il ruolo del confessore. La Penitenzieria nasce infatti dalla figura del penitenziere papale, il cardinale delegato all’assoluzione dei peccati riservati al papa; l’Inquisizione pone al suo centro la figura dell’inquisitore, il giudice chiamato a reprimere i sospetti di eresia e combattere la corruzione all’interno della Chiesa. Entrambi i tribunali diventano rappresentativi dell’esercizio del potere ecclesiastico, sebbene declinato in modi diversi, attraverso la concessione di grazie e dispense, fornite dalla Penitenzieria, o mediante il metodo giudiziario-repressivo, adottato dall’Inquisizione. Questi sviluppi istituzionali determinano prassi nuove e fanno emergere concezioni latenti in ambito penitenziale: il ricorso alla concessione di grazie dà luogo alla pratica delle indulgenze, ossia della remissione delle pene temporali dei peccati ottenuta al di fuori del sacramento della penitenza; l’adozione del sistema repressivo nei confronti dei sospetti di eresia rafforza sempre più l’idea della confessione come atto giudiziario. Contro questo modo di vivere ed intendere la penitenza reagisce Lutero, che nel 1517 promulga come segno di rottura le sue 95 tesi sulle indulgenze e nel 1520, per sottolineare anche simbolicamente il suo rifiuto della pratica penitenziale cattolica, brucia la Summa angelica di Angelo da Chivasso.

In polemica con i Riformatori, il Concilio di Trento (1545-1563) afferma, sulla base di Gv 20, che la penitenza è un sacramento istituito da Cristo (cfr. DS 1701-1710); del resto, essa era già stata inclusa tra i sette sacramenti al Concilio di Firenze (1438-1445), nella Bolla di unione degli armeni (cfr. DS 1310-1313). Il Concilio tridentino distingue tra sacramenti maggiori e minori (cfr. DS 1603, can. 3), per cui la penitenza risulta subordinata ai sacramenti dell’iniziazione cristiana, conferma che essa va amministrata dall’autorità ecclesiastica e la ritiene necessaria per la remissione dei peccati. Il Concilio ribadisce l’obbligo della confessione annuale per tutti i battezzati, sancito dal canone 21 del Lateranense IV, e difende il diritto della Chiesa di concedere indulgenze, sia pure con moderazione (cfr. DS 1835). Il Concilio puntualizza che la contrizione, la confessione e la soddisfazione del penitente sono parti o “quasi materia” del sacramento, mentre l’assoluzione del sacerdote è la “forma”, e sottolinea che il potere di assolvere non dipende dalla santità del ministro, ma si fonda sul comando di Gesù Cristo, contenuto in Mt 18,18 e Gv 20,23. In questa linea, i Padri conciliari ribadiscono il carattere di atto giudiziario della confessione sacramentale, di cui il giudice è il confessore.

Tra il ministro e il penitente occorre dunque che si instauri un legame stabile e intenso, ma che sia rispettoso della distanza dovuta tra chi giudica e chi è giudicato (in modo particolare se si tratta di donne penitenti, con cui poteva sempre accendersi la sollicitatio ad turpia). Da questa preoccupazione nasce l’idea del confessionale, la cui struttura originaria viene proposta per la prima volta nel 1542 dal vescovo di Verona Gian Matteo Giberti, sotto forma di tabula divisoria, che separa il confessore dalla penitente. Dopo il Concilio di Trento, nel 1577, essa trova la sua piena realizzazione, come vero e proprio mobile, con il cardinale Carlo Borromeo, arcivescovo di Milano, e ben presto si diffonde in tutta la cristianità cattolica. Ma mentre il confessionale diviene il simbolo della confessione sacramentale intesa come atto giudiziario, garantendo la distanza tra confessore-giudice e penitente-imputato, si introduce l’attività penitenziale dei Gesuiti, che “lavorano” nel confessionale in un modo del tutto nuovo. La Compagnia di Gesù, fondata da Ignazio di Loyola nel 1539, e ben presto diffusa anche in Italia, si fa promotrice infatti di una nuova forma di rapporto tra confessore e penitente e di un nuovo modo di intendere la confessione.

Dotati di una solida preparazione nei casi di coscienza, i confessori gesuiti si offrono ai penitenti come conforto e guida spirituale. Malgrado i poteri loro conferiti – possono assolvere da ogni vincolo di scomunica e da tutti i casi riservati – non si pongono dinanzi ai penitenti come giudici, ma come padri e medici. La relazione che si instaura nel confessionale è dunque profonda e durevole, e pertanto richiede una frequentazione assidua, che va ben oltre l’obbligo annuale stabilito dal Lateranense IV e ribadito dal Concilio di Trento. La confessione diviene così il luogo della fiducia e dell’ascolto, dello svelamento e dell’aiuto. È opportuno che sia “generale”, ovvero che comporti un profondo scavo interiore e un’attenta analisi della propria vita, perché possa costituire l’inizio di un percorso di perfezionamento, volto alla conversione e alla guarigione.

Entrambe le novità introdotte dai Gesuiti – il rapporto tra confessore e penitente e la confessione intesa come inizio di un cammino di perfezionamento – si fondano sulla riscoperta dell’antica concezione del peccato come malattia, che affligge il peccatore-malato, al quale il confessore-medico può prestare la sua cura per ricondurlo alla guarigione attraverso il sacramento della confessione. Il recupero di questa concezione terapeutica della penitenza, che nel tempo era stata offuscata da quella di tipo giudiziario, consente ai Gesuiti di improntare la propria attività penitenziale sulla direzione spirituale, segnando una svolta nella storia della confessione. L’idea che il confessore non è più un giudice, ma un medico e un padre, porterà un Gesuita italiano come Francesco Saverio, in una lettera del 1549, a suggerire ai confessori di rivelare per primi le proprie mancanze ai penitenti pur di suscitare in essi una fiduciosa apertura d’animo, libera dal timore del giudizio.

In questa linea, circa due secoli dopo, il napoletano Alfonso de’ Liguori, fondatore dei Redentoristi, parla dei “doveri di padre” nella sua Guida del confessore del 1764. Per adempiere a tali doveri, il confessore deve porsi nei confronti del penitente con benevolenza e carità, non dimenticando di essere per lui un medico spirituale. Ancora nel XIX secolo, don Giovanni Bosco, fondatore dei Salesiani, nell’ambito dell’attività penitenziale ad opera delle parrocchie, sottolinea la necessità di accogliere il penitente con amorevolezza e di correggerlo con bontà perché la penitenza costituisca l’inizio di un percorso di crescita spirituale, volto alla guarigione dal peccato e alla conversione del peccatore.

Fonti e Bibl. essenziale

W. De Boer, Ad audiendi non videndi commoditatem. Note sull’introduzione del confessionale soprattutto in Italia, Quaderni storici 26 (1991), 543-572; J. Delumeau, La confessione e il perdono. Le difficoltà della confessione dal XIII al XVIII secolo, Paoline, Cinisello Balsamo (Milano) 1992; P. Prodi, Una storia della giustizia. Dal pluralismo dei fori al moderno dualismo tra coscienza e diritto, Il Mulino, Bologna 2000; A. Prosperi, Tribunali della coscienza. Inquisitori, confessori, missionari, Einaudi, Torino 2009; Pseudo-Agostino, Sulla vera e falsa penitenza. Introduzione, testo e traduzione, A. Costanzo ed., Sussidi Patristici Augustinianum, Roma 2011; R. Rusconi, L’ordine dei peccati. La confessione tra Medioevo ed età moderna, Il Mulino, Bologna 2000; K. Rahner, La penitenza della Chiesa. Saggi teologici e storici, Paoline, Cinisello Balsamo (Milano) 19923; J. Ramos-Regidor, Il sacramento della penitenza. Riflessione teologica biblico-storico-pastorale alla luce del Vaticano II, ElleDiCi, Leumann (Torino) 1972; M. Simonetti, La letteratura cristiana antica greca e latina, Sansoni – Accademia, Milano 1969; C. Vogel, Il peccatore e la penitenza nel Medioevo, ElleDiCi, Leumann (Torino) 19882; M. Sodi – R. Salvarani (edd.), La penitenza tra I e II millennio. Per una comprensione delle origini della Penitenzieria Apostolica, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 2012; A. Costanzo, Il Penitenziere Maggiore: stato degli studi e prospettive di ricerca, in R. Rusconi – A. Saraco – M. Sodi (edd.), La penitenza tra Gregorio VII e Bonifacio VIII. Teologia – Pastorale – Istituzioni, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 2013, 193-217. Integrazioni bibliografiche: Renzo Gerardi, Eucaristia e Penitenza: sacramenti di riconciliazione, nella dottrina del Concilio di Trento, Pontificia Università Lateranense, Roma, 1975; Fabio Fabbi, La confessione dei peccati nel cristianesimo, Ed. Pro Civitate Christiana, Assisi, 1947; Nicola Bux, Confessione, penitenza e comunione nelle epistole canoniche di San Basilio,  Milano 1983; Elena Brambilla, Alle origini del Sant’Uffizio: penitenza, confessione e giustizia spirituale dal medioevo al XVI secolo, Il Mulino- Bologna, 2000; Dino M. Manzelli, La confessione dei peccati nella dottrina penitenziale del Concilio di Trento, Centro di Studi Ecumenici Giovanni XXIII: Sotto il Monte, 1966; Dizionario degli Istituti di perfezione, edizione paoline, Tipografia Città Nuova della PAMOM, Roma, 1975.


LEMMARIO




Confessione, Penitenza - vol. II


Autore: Alessandra Costanzo

Nel XX secolo il percorso della teologia e della prassi penitenziale è segnato da alcune tappe decisive avvenute in Italia. Nel 1905 il decreto sulla comunione frequente, promulgato da papa Pio X, introduce la pratica di confessarsi altrettanto frequentemente (DS 3375-3383) prima di ricevere l’eucaristia. L’invito di Pio X viene recepito dai fedeli e trova un adeguato sostegno nell’attività penitenziale del frate cappuccino Pio da Pietrelcina. Ricevuta l’ordinazione presbiterale nel 1910 a Benevento, dal 1916 fino alla sua morte, avvenuta nel 1968, Padre Pio esercita il suo ministero a S. Giovanni Rotondo, ponendo al centro del suo apostolato l’amministrazione del sacramento della penitenza. Il suo carisma penitenziale attira per oltre 50 anni innumerevoli pellegrini, che egli accoglie con pronta disponibilità nel suo confessionale, rendendosi “generoso dispensatore della misericordia divina”, come ricorderà papa Giovanni Paolo II nell’omelia in occasione della canonizzazione di Padre Pio, avvenuta il 16 giugno 2002.

Intanto, pochi anni prima della morte del frate cappuccino, tra il 1962 e il 1965, si svolge il Concilio Vaticano II, che nella Costituzione sulla Sacra Liturgia richiede un rinnovamento del rito della penitenza in modo da esprimere più chiaramente il vero significato del sacramento (SC 72). Il Concilio si limita ad avanzare tale richiesta, senza entrare direttamente nella questione. Tuttavia la prospettiva ecclesiale, presente in tutti i documenti conciliari, e che ricorre anche laddove si parla del sacramento della penitenza (cfr. LG 11 b; PO 5 a; LG 11 b; 8 c, 65, UR 3,7) offre già un’indicazione utile per operare quel rinnovamento, richiesto dalla SC, relativamente alla celebrazione del sacramento. Prima di realizzare tale compito passano circa 10 anni.

Nel frattempo, all’indomani del Concilio, il 17 febbraio 1966, papa Paolo VI promulga la Costituzione apostolica Paenitemini, sulla disciplina penitenziale. Il documento, articolato in tre parti, in cui vengono presi in esame gli aspetti biblici e teologici, pratici e normativi della penitenza, recepisce la prospettiva ecclesiale indicata dal Vaticano II, ritenendo la Chiesa santa per vocazione divina, ma allo stesso tempo continuamente bisognosa di conversione nelle sue membra (LG 8). La penitenza dunque, pur essendo un atto religioso personale, che richiede un intimo e totale cambiamento interiore, capace di esprimersi in forme penitenziali visibili, riguarda tutti i fedeli, chiamati a partecipare all’opera di Cristo.

L’anno di promulgazione della Paenitemini, il 1966, segna anche l’inizio del lavoro delle commissioni per la riforma del rito, promossa dal Concilio; lavoro che trova il suo compimento solo il 2 dicembre 1973, quando papa Paolo VI promulga il nuovo Ordo paenitentiae (l’edizione italiana è dell’8 marzo 1974). Nel frattempo infatti era emersa in piena luce la crisi del sacramento della penitenza, sicché non ci si poteva limitare alla riforma del rito, ma si dovevano analizzare tutti gli elementi (storici, teologici e pastorali) per rispondere ai problemi che affliggevano la prassi sacramentale e operare un efficace rinnovamento rituale. Necessaria è stata un’attenta riflessione sulla natura del sacramento, che si è alimentata del confronto con il decreto tridentino e la fonte biblica. Il nuovo Ordo riprende lo schema classico del Concilio di Trento per la struttura del sacramento, che si compone di quattro parti; tuttavia ne modifica l’ordine, iniziando non più dall’assoluzione, ma dagli atti del penitente, che acquistano così un rilievo non ancora conosciuto a Trento. Dalla fonte biblica il nuovo Ordo recupera il concetto di metanoia, intesa come “conversione del cuore”, che diviene l’elemento chiave sul quale si fonda tutta la riforma, a livello teologico, pastorale e rituale. Ogni singola componente del sacramento viene infatti definita in rapporto alla metanoia, che si rivela così l’elemento unificante di tutte le parti. Il rilievo dato alla conversione del cuore si riflette anche sul ruolo del ministro, considerato non più, come a Trento, simile a un giudice, ma, in linea con le immagini bibliche, simile a un Padre e Pastore, rappresentante di Cristo e dell’intera Chiesa che, come insegnano il Vaticano II e la Paenitemini, partecipa attivamente all’opera di conversione del peccatore attraverso la carità, l’esempio e la preghiera. All’interno di questo quadro ecclesiologico, il nuovo Ordo prevede, oltre al rito ordinario per la riconciliazione dei singoli penitenti, anche altre due forme rituali non ordinarie: il rito per la riconciliazione di più penitenti con confessione e assoluzione individuale e quello per la riconciliazione di più penitenti con confessione e assoluzione generale. Entrambe queste forme presentano carattere di eccezionalità, nella misura in cui sono concretamente realizzabili in piccole comunità (secondo rito) o laddove si presenti una grave necessità (terzo rito). Coerentemente con il rilievo dato alla metanoia, il nuovo Ordo prevede inoltre la possibilità di celebrazioni penitenziali non sacramentali, che pur essendo prive del momento rituale dell’assoluzione (dunque ben distinte dal sacramento della penitenza), intendono tuttavia suscitare, attraverso l’ascolto della Parola di Dio, la conversione del cuore.

Dieci anni dopo la promulgazione dell’Ordo paenitentiae, nel 1983, si riunisce il Sinodo dei vescovi sulla “Riconciliazione e penitenza nella missione della Chiesa”, da cui scaturisce, nel 1984, l’Esortazione apostolica di papa Giovanni Paolo II Reconciliatio et paenitentia. Il documento si apre con un proemio, nel quale dall’invito a riscoprire le parole del vangelo di Marco – “convertitevi e credete al vangelo” – sorge la domanda sulle ragioni della conversione. L’analisi dei segni di divisione presenti nel mondo e nella stessa realtà ecclesiale conduce il papa ad individuare nel peccato la radice di tutte le lacerazioni e a riscoprire nella nostalgia della riconciliazione la possibilità di un cammino di autentica metanoia. Dopo il proemio, l’Esortazione prosegue articolandosi in tre parti: nella prima, il papa rileva che sia compito della Chiesa operare per la conversione del cuore e la riconciliazione degli uomini, sottolineando però che per essere riconciliatrice la Chiesa deve essere riconciliata, testimone di riconciliazione anzitutto al suo interno. Nella seconda parte del documento, il papa riflette sul peccato come rottura della relazione con Dio e con i fratelli, ed individua, come peccato del secolo, attivo nel mondo e nella Chiesa, la perdita del senso del peccato. Invita così a recuperare il mysterium iniquitatis da parte dell’uomo, ma anche a riscoprire il mysterium pietatis da parte di Dio, che è l’amore più potente di ogni peccato. Nella terza parte dell’Esortazione, il papa si occupa della pastorale della penitenza, considerando la catechesi e i sacramenti come strumenti fondamentali attraverso i quali la Chiesa può suscitare la conversione e offrire il dono della riconciliazione. Benché il sacramento della penitenza non esaurisca in se stesso il cammino della metanoia (che si esprime anche in altre forme), tuttavia il papa si sofferma sul quarto sacramento come segno efficace della misericordia divina; ne sottolinea il carattere terapeutico e la dimensione personale ed ecclesiale, che sostengono il penitente nel suo sforzo di autentica conversione del cuore e di vita.

L’esigenza della conversione, che l’Esortazione apostolica estende dalla realtà ecclesiale al mondo, viene ribadita dal secondo convegno della Chiesa italiana, che si svolge a Loreto dal 9 al 13 aprile 1985, sul tema “Riconciliazione cristiana e comunità degli uomini”. La riflessione del convegno si colloca in un delicato momento storico del Paese, messo a dura prova dagli anni bui del terrorismo, e quindi particolarmente sensibile alla domanda di riconciliazione. Il discorso di papa Giovanni Paolo II, tenuto l’11 aprile, affronta in modo sistematico i nodi fondamentali della difficoltà della riconciliazione, sia all’interno della Chiesa che nel suo rapporto con la realtà sociale italiana. Come nell’Esortazione apostolica Reconciliatio et paenitentia, il papa sottolinea l’importanza di una Chiesa internamente riconciliata per poter essere primizia del mondo riconciliato. Il pontefice invita inoltre a riscoprire il sacramento della penitenza nella pienezza della sua dimensione personale e comunitaria, e richiama l’attenzione sul rapporto tra la celebrazione della misericordia e la rigenerazione di un impegno morale che corrisponda alla misericordia ricevuta, attraverso il contributo che la Chiesa è chiamata a dare, in ambito culturale, sociale e politico, alla costruzione della comunità degli uomini.

In linea con questa riflessione sulla relazione Chiesa-mondo, il 30 dicembre 1987 viene pubblicata l’enciclica Sollicitudo rei socialis, in cui il papa affronta le questioni inerenti la condizione di grave disparità sociale ed economica che affligge il mondo contemporaneo, e propone il rispetto e la promozione della dignità della persona perché si possa realizzare un autentico sviluppo a vantaggio di tutti. Nella sua “lettura teologica dei problemi moderni” (capitolo V del documento, che si articola in 7 capitoli), il pontefice individua alcune “strutture di peccato”, cui il mondo risulta sottomesso. Egli rileva che tali strutture, radicate nel peccato personale – come già aveva sostenuto nell’Esortazione apostolica Reconciliatio et paenitentia – sono introdotte dalla brama del profitto e dalla sete di potere, ricercati a qualunque prezzo. Di qui l’invito, rivolto a tutti gli uomini, anche a quelli privi di una fede esplicita, a prendere coscienza dell’urgente necessità di un cambiamento degli atteggiamenti spirituali per ridefinire il rapporto con se stessi, con gli altri e con la natura. In particolare, ai cristiani il papa rivolge il suo appello alla conversione, attraverso la quale possano vincere le strutture di peccato, sostituendo alla brama del profitto e alla sete di potere gli atteggiamenti opposti della disponibilità a perdersi in favore e a servizio dell’altro.

A distanza di cinque anni dall’enciclica Sollicitudo rei socialis, nel 1992 viene pubblicato il Catechismo della Chiesa cattolica, che dedica al sacramento della penitenza un’ampia sezione, articolata in ben 62 paragrafi (parr. 1422-1484), a cui ne seguono altri 13 di sintesi (parr. 1485-1498). Il Catechismo offre dunque una trattazione teologica che intende comprendere tutti gli aspetti del quarto sacramento, nella quale confluiscono le acquisizioni maturate nel corso della riflessione teologica precedente, in particolare quelle espresse nel decreto tridentino e nell’Ordo paenitentiae.

Di assoluta novità è invece il documento Memoria e riconciliazione: la Chiesa e le colpe del passato, ad opera della Commissione Teologica Internazionale, pubblicato il 7 marzo 2000, in occasione della celebrazione del Giubileo. Il documento viene redatto infatti in vista della Giornata del perdono, che si tiene alcuni giorni dopo (il 12 marzo) nella basilica di S. Pietro a Roma: si tratta di un atto penitenziale senza precedenti nella storia, in cui il papa, a nome della Chiesa, chiede perdono delle colpe commesse dai cristiani nel passato. Il riconoscimento di tali colpe sorge dall’esigenza di una “purificazione della memoria”, della quale avevano già sottolineato l’importanza, al fine di vivere la grazia del Giubileo, la Lettera apostolica Tertio Millennio Adveniente (10 novembre 1994) e la Bolla di indizione dell’Anno Santo del 2000, Incarnationis mysterium (29 novembre 1998). La purificazione della memoria si fonda sulla fiducia nella forza della Verità ed è volta alla glorificazione di Dio, nella misura in cui la confessione della sua misericordia si realizza attraverso la confessione delle colpe. Il documento Memoria e riconciliazione si compone di sei capitoli e si propone di chiarire i presupposti che rendono fondato il pentimento relativo a colpe passate. Il giudizio storico deve infatti coniugarsi con quello teologico per individuare le implicanze morali, pastorali e missionarie del pentimento. Come nell’Esortazione apostolica Reconciliatio et paenitentia, il papa riconosce che il peccato è personale, e pertanto nessuno può sostituirsi al peccatore nella sua richiesta di perdono; tuttavia è la stessa particolare natura del soggetto ecclesiale – per cui la comunione nell’unico Spirito fa sì che i cristiani di oggi si sentano legati a quelli di ieri – a rendere ragione della domanda di perdono delle colpe passate. Così, a nome della Chiesa, papa Giovanni Paolo II opera la purificazione della memoria, chiedendo perdono, per la prima volta nella storia, dei comportamenti dei cristiani che hanno contraddetto il Vangelo (per citarne solo alcuni: la divisione delle Chiese; l’uso della violenza nell’evangelizzazione; i pregiudizi antigiudaici; la responsabilità per i mali di oggi). Dal riconoscimento delle colpe e dalle richieste di perdono formulate dal papa scaturisce il monito a non ripetere gli errori del passato e a favorire un percorso di rinnovamento e riconciliazione. Al tempo stesso però la purificazione della memoria costituisce un esempio, che richiama ogni uomo ad un esame di coscienza attento e onesto del proprio operato in vista della riconciliazione.

Due anni dopo la pubblicazione del documento sulle colpe del passato, il 7 aprile 2002 papa Giovanni Paolo II pubblica la Lettera apostolica Misericordia Dei su alcuni aspetti della celebrazione del sacramento della penitenza per favorire un modo migliore di amministrarlo. Egli rileva con preoccupazione che in alcuni luoghi si tende sempre più a trascurare la confessione personale in favore di un ricorso abusivo all’assoluzione generale, dimenticando che questa è un mezzo straordinario previsto in situazioni del tutto eccezionali. Il papa invita dunque a ricordare che la confessione individuale è l’unico modo ordinario attraverso il quale il fedele è riconciliato con Dio e con la Chiesa e che le altre forme rituali della celebrazione sono possibili solo in casi di estrema necessità. Nel 2009 viene indetto l’Anno sacerdotale, dedicato alla figura del curato d’Ars, san Giovanni Maria Vianney (1786-1859), del quale ricorre il 150° anniversario della morte. Frutto dell’Anno sacerdotale sarà, nel 2011, il sussidio della Congregazione per il Clero, dal titolo Il sacerdote ministro della misericordia divina, che vuole essere uno strumento utile alla riscoperta del valore della celebrazione del sacramento della riconciliazione e della direzione spirituale.

Fonti e Bibl. essenziale

Studi: E. Mazza, La celebrazione della penitenza. Spiritualità e pastorale, EDB, Bologna 2001; G. Pasquale, Padre Pio. Maestro e guida dell’anima. Le lettere del santo di Pietrelcina, San Paolo, Cinisello Balsamo (Milano) 2006; J. Ramos-Regidor, Il sacramento della penitenza. Riflessione teologica biblico-storico-pastorale alla luce del Vaticano II, ElleDiCi, Leumann (Torino) 1972; A. Costanzo, Cambiare vita. Epoche, parole e fonti del “fare penitenza”, San Paolo, Cinisello Balsamo (Milano) 2014. E. Mazza, La liturgia della penitenza nella storia. Le grandi tappe, EDB, Bologna 2013. W. Kasper, Misericordia. Concetto fondamentale del vangelo – Chiave della vita cristiana, Queriniana, Brescia 2013. Documenti magisteriali (in ordine cronologico): Paolo VI, Costituzione apostolica Paenitemini del 17/02/1966; Ordo paenitentiae del 2/12/1973; Giovanni Paolo II, Esortazione apostolica Reconciliatio et paenitentia del 2/12/1984; Id., Enciclica Sollicitudo rei socialis del 30/12/1987; Il Catechismo della Chiesa cattolica, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 1992, nn. 1422-1498; Commissione Teologica Internazionale, Memoria e riconciliazione: la Chiesa e le colpe del passato del 7/03/2000; Giovanni Paolo II, Lettera apostolica Misericordia Dei del 7/04/2002; Congregazione per il Clero, Il sacerdote ministro della misericordia divina. Sussidio per confessori e direttori spirituali, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 2011. Integrazioni bibliografiche: Associazione italiana “Noi siamo Chiesa”, Confessione addio?, edizione la meridiana paginealtre, 2005; Giuseppe Sovernigo, L’umano in confessione: la persona e l’azione del confessore e del penitente, Edizioni Dehoniane: Bologna, 2003; Jan Dohnalik, Il precetto pasquale: la normativa sulla Comunione e la Confessione annuale (cann. 920 e 989) alla luce della tradizione canonica, Pontificia Università Gregoriana: Roma, 2015; Vincentius Kraljic, La celebrazione liturgica della penitenza comunitaria come forma penitenziale autonoma e propria: analisi liturgico-dogmatica, Angelicum, Roma, 1974; Bronislaw Sienczak, Partecipazione dei fedeli al sacramento della penitenza, Pontificia Università Gregoriana, 1974; Pietro Hui Nam Kim, La penitenza: il sacramento della conversione e riconciliazione: riflessione teologico-pastorale alla luce del Concilio Vaticano II, Pontificia Università Urbaniana, Roma, 1991; Fabio Fabbi, La confessione dei peccati nel cristianesimo, Ed. Pro Civitate Christiana, Assisi, 1947.


LEMMARIO




Confraternite laicali - vol. I


Autore: Emanuele Boaga †

Un notevole esempio di associazionismo dei laici è costituito dalle confraternite tra medioevo e epoca moderna. Tale esperienza cristiana aggrega un gruppo di fedeli allo scopo di venire incontro – attraverso la mutua assistenza, opere di carità e di pietà – ad esigenze differenziate ed avvertite da larghi strati delle popolazioni urbane e rurali alle quali le istituzioni allora esistenti non erano in grado di dare una risposta adeguata. Per gli associati o membri essa costituisce, in diverse misure, un luogo di socializzazione, di scambio di idee e di elementare acculturazione; ed è anche mezzo notevole d’inserimento sociale tramite la partecipazione degli associati alla gestione di opere e iniziative, e l’embrionale mutua assistenza in contingenze difficili. Ma soprattutto, l’esperienza confraternale offre ai membri un concreto e puntuale impegno religioso, una prassi comunitaria cultuale, liturgica e di preghiera, e una partecipazione a benefici, indulgenze, e suffragi per le proprie anime.

L’origine delle confraternite è molto incerta. Per alcuni studiosi gli antecedenti nel mondo tardo antico sarebbero le associazioni dei “fossores” a Roma e a Cirta, dei “parabolani” a Costantinopoli, dei “philopones” e “spoudaei”. Le scarse notizie su tali associazioni mostrano però una loro forte differenza rispetto alle confraternite medievali, che risultano invece un fenomeno tipicamente medievale con complessa varietà.

Nel suo sviluppo storico l’associazionismo confraternale in Italia presenta infatti una varia denominazione da regione a regione. I termini più frequenti sono: confraternitas, fraternitas, fraterie, confraterie, consortia, fratele, fraglia, sodalitium, gilda, gildonia, schola e congrega. In uso a Napoli vi è anche il termine estaurita o staurita. Inoltre i singoli tipi o famiglie delle confraternite in relazione alla loro finalità risultano estremamente varie. Qui di seguito si offre un breve panorama delle loro origini e sviluppo facendo riferimento ad alcune particolarmente importanti.

In Italia l’esistenza delle confraternite è provata dal secolo IX in poi. Riscontri e documenti più precisi per il secolo X attestano l’esistenza a Napoli di diverse associazioni miste di chierici e laici, mentre a Modena vi era una “fraternitate” di laici (75 uomini e 44 donne) intitolata a S. Geminiano. Nel secolo XI si hanno esempi a Ravenna e Ivrea di laici che si associano «pro Dei timore et Christi amore». Nel frattempo, in alcune chiese di Napoli, di Sorrento e di Benevento si hanno i casi di fedeli ammessi ed iscritti a confraternite clericali. Ma è soprattutto dal secolo XII che i laici sviluppano le confraternite autonome, come quelle composte da uomini e donne e sorte per scopi ospedalieri nel Veneto già nella seconda metà di quel secolo.

Nel secolo XIII il dilatarsi del movimento dei Disciplinati nell’Italia centrale e settentrionale spinge al sorgere di numerose confraternite di carattere penitenziale. La prima di esse sorge a Perugia nel 1260. Notevole è anche il numero di confraternite che sorgono sotto l’impulso dei laudesi, avendo la loro origine a Siena nel 1267. A Roma nel 1246 nacque la compagnia dei Raccomandati di Madonna S. Maria, riconosciuta da Clemente IV nel 1267 fu favorita dagli ordini mendicanti e unita ad altri sodalizi diverrà nel 1486 con intervento di Innocenzo VIII la confraternita del Gonfalone, che conoscerà con il passare degli anni una larga diffusione e una forte influenza. Altre confraternite nascono nel secolo XIII per scopi assistenziali e devozionali, e anche dal movimento cosiddetto dei Bianchi ne derivarono numerose in tutta Italia a partire dal 1399 a Chieri presso Torino. Un caso particolare riveste invece la confraternita di S. Maria delle Neve sorta nel 1258 nel regno di Napoli che, alle attività devozionali collegate ai santi suoi patroni, aggiunse il fine di contrastare il potere politico svevo in favore della politica filopontificia.

Dal XIV al XVIII secolo si assiste ad una larga diffusione e sviluppo delle confraternite. Molte di esse divennero importanti e portarono un contributo non indifferente non solo nella lotta contro le eresie, ma anche per contrastare il protestantesimo nei vari Stati della penisola. Numerose furono le confraternite che forti dal punto di vista finanziario contribuirono efficacemente allo sviluppo sociale, artistico ed economico delle città e paesi in cui erano inserite. Ad esse infatti si devono l’erezione di ospedali, ospizi per i poveri e pellegrini, orfanatrofi e conservatori per ragazze in pericolo, di chiese, oratori e monumenti, nonché la organizzazione e gestione di scuole per diffondere la conoscenza di mestieri e l’educazioine religiosa, ed infine, ma non ultimo, per gestire luoghi di sepoltura. Notevolissimo è stato poi l’apporto che esse hanno dato allo sviluppo delle arti, commissionando agli artisti per le loro sedi sculture, dipinti, oggetti pregiati e di culto. Diedero anche un forte impulso alla musica; basta pensare allo Stabat Mater di Pergolesi composte su commissione dell’arciconfraternita dei Cavalieri della Vergine dei Sette Dolori di Napoli. Inoltre, in occasione delle feste e delle processioni alimentavano anche espressioni folkloristiche.

Già nel secolo XIV erano numerose le confraternite che amministravano ospedali, specialmente per i malati non accolti altrove a causa della loro infermità ripugnante, come ad es. nel “ridotto degli incurabili” di Genova (1499). A Roma nel 1499 esisteva una confraternita di S. Rocco, alla quale Alessandro VI dava l’autorizzazione di costruire chiesa ed ospedale. Altre confraternite gestivano delle banche per la lotta contro l’usura.

Nel secolo XV si assiste al diffondersi tra gli scopi delle confraternite l’assistenza ai malati e ai condannati a morte, come ad esempio a Genova la confraternita della Misericordia e a Napoli quella dei Bianchi della Giustizia. E non mancano casi in cui l’opera dei membri di una confraternita era l’impegno nel pacificare gli animi divisi da interessi e fazioni cittadine, come a Genova con la confraternita «pacis et amoris» nella chiesa di S, Lorenzo. Né mancano confraternite che sorgono per assistere gli indigenti e dare sepoltura ai poveri. In questo un caso particolare a Roma è la Confraternita della Pietà dei fiorentini sorta in occasione della peste del 1448. Più tardi sempre a Roma, con il sacco compiuto nel 1527 dai lanzichenetti al soldo di Carlo V, alcuni laici provvidero a dare cristiana sepoltura ai numerosi cadaveri che giacevano sulle vie e sui campi dell’Urbe. Tale iniziativa caritativa continuò e assunse caratteri organizzativi più definiti in occasione della grave carestia che colpì nel 1538-39 la città eterna e i suoi dintorni, mietendo numerosissime vittime. Nacque così la confraternita della Morte ed Orazione, che ha svolto in seguito una vasta azione per la sepoltura dei cadaveri di vagabondi e pellegrini rimasti insepolti, ricercati e raccolti a Roma e negli agglomerati isolati delle campagne circostanti. Lo sviluppo di questo tipo di compagnie della Morte fu in epoca moderna assai impetuoso e vasto in tutta Italia, poiché la cura dei defunti, la tumulazione delle salme, la gestione dei luoghi funerari furono sempre considerate questioni inerenti strettamente alla pietà e carità cristiana, più che ad una preoccupazione di natura pubblica e civile.

Inoltre, sempre nel secolo XV, non vanno dimenticate le confraternite erette, presso le proprie chiese, da frati degli ordini mendicanti: a Mantova la confraternita della Madonna, che nel 1460 ebbe regola e statuti dal b. Bartolomeo Fanti, e le confraternite «de signo ordinis» presso i carmelitani; la confraternita di S. Orsola di Faenza e quelle dei Cinturati di S. Monica e S. Agostino presso gli agostiniani; la confraternita della S. Corona, quella della Purità in S. Maria Novella a Firenze e la compagnia di S. Tommaso a Perugia presso i domenicani; la compagnia di S. Bernardino e il Consorzio della Carità a Milano nonché la confraternita di S. Giovanni a Perugia presso i francescani.

La complessa e molteplice importanza delle confraternite nella vita religiosa italiana del secolo XV viene rivelata anche dai compiti e dalle caratteristiche che dal punto organizzativo e da quello della spiritualità emergono dall’esame delle relative regole o statuti, dalla scelta dei Santi titolari, dall’impegno dell’insegnamento catechistico. Sovente da quest’epoca in poi le confraternite cercarono uno spazio proprio tra gli organismi ecclesiali e il popolo, e spesso venivano ad essere alternativa o sostegno delle attività di pertinenza delle parrocchie. Significativo è pure il diffondersi, all’interno delle confraternite sotto lo stesso titolo e finalità, degli schemi iconografici propri, come nel caso della prima filiale italiana – fondata nel 1480 a Venezia – della Confraternita del Rosario e della sua ulteriore diramazione in varie città, con la raffigurazione della Vergine col Bambino e i santi Domenico e Caterina da Siena.

Agli inizi del secolo XVI la confraternita del SS. Sacramento, che in precedenza era scarsamente diffusa, conobbe una forte rifioritura. La prima confraternita eucaristica romana eretta in S. Lorenzo in Damaso, alla quale nel 1508 lo stesso papa Giulio II volle essere affiliato. Ad essa seguì poco dopo nel 1513 quella a S. Maria in Traspontina, ed entrambe vennero poi trasferite in altre sedi. Quella eretta nel 1538 a S. Maria sopra Minerva e approvata l’anno seguente da Paolo III e dotata dei privilegi liturgici delle basiliche, divenne in breve il modello di tutte le altre che sarebbero sorte successivamente e che si sarebbero a centinaia aggregate ad essa. Ciò determinò un incremento della devozione eucaristica, anche se le altre antiche e nuove confraternite continuavano a seguire la consuetudine della santa Comunione una volta al mese.

A partire alla metà del secolo XVI, anche se il Concilio di Trento si soffermò in modo frettoloso e non organico sulle confraternite, non mancarono iniziative promosse dai vescovi per l’attuazione dello spirito tridentino nel mondo confraternale. Emblematica di ciò è la riforma delle confraternite disciplinate operata a Milano da S. Carlo Borromeo, che imponeva ai vescovi suffraganei la visita di quelle esistenti nei territori della loro giurisdizione, l’esame dei loro statuti e libri di preghiera, e l’accertamento dello stile di vita dei loro membri. Negli anni successivi queste disposizioni furono seguite non solo nelle diocesi suffraganee di Milano, ma anche in altre diocesi in Piemonte e in Liguria.

Sempre in questo periodo assai florido per le confraternite italiane, i papi elargirono molte indulgenze e privilegi alla arciconfraternite, che venivano designate tramite una bolla o breve pontificio. Inoltre volsero la loro attenzione alla riorganizzazione giuridica. Così nel 1595 Clemente VIII, in applicazione del Concilio di Trento che aveva stabilito la dipendenza dai vescovi delle pie associazioni e le confraternite, parlava di indulti e facoltà necessari all’erezione delle confraternite. E nel 1604 lo stesso papa, con la costituzione Quaecumqua a Sede Apostolica, designava una organica e nuova visione giuridica per le confraternite, definendo chiaramente le modalità della loro erezione, di acquisizione e di partecipazione di indulgenze e privilegi spirituali, i diritti e i doveri di controllo e di disciplina da parte dei vescovi e superiori degli ordini religiosi. Inoltre stabiliva che qualsiasi tipo di confraternite avesse la sede primaria, detta arciconfraternita, in Roma e ad essa dovessero essere aggregate tutte le altre confraternite simili per poter godere dei privilegi e benefici spirituali; anche le confraternite già esistenti erano tenute a chiedere tale affiliazione, aggregandosi così alle arciconfraternite romane. In seguito il titolo e i privilegi delle arciconfraternite vennero pure concessi ad altri sodalizi con sede fuori di Roma.

Nel periodo dopo Trento assai attive furono pure le confraternite – diffuse a Como, Genova, Verona, Parma, Piacenza, Lodi e Cremona – per organizzare e favorire l’insegnamento della dottrina cristiana. I vescovi Carlo Borromeo a Milano e Gabriele Paleotti a Bologna, favorirono la istituzione sistematica di queste confraternite della dottrina cristiana nella parrocchie delle loro rispettive diocesi. Dopo l’erezione in arciconfraternita decretata da Paolo V nel 1607 della scuola fondata a Roma nel 1560 da Marco de Sadi Cusano e Enrico Pietra, questa si diffuse ampiamente anche fuori d’Italia giungendo tra il 1607 e il 1908 ad aggregare 528 analoghe compagnie.

Nel corso del secolo XVII aumentano, sotto nuovi titoli, le confraternite di culto e di devozione alla Vergine Madre di Dio e ai Santi. Ad esse si aggiungono quelle per il suffragio delle anime del Purgatorio, istituite dal cappuccino Alessio Segàla da Salò (†1628), e quelle del nome di Gesù, le congregazioni mariane, le pie società di S. Giuseppe e le associazioni degli Schiavi di Maria istituite dai Teatini, nonché le compagnie dell’Angelo Custode diffuse dai Somaschi.

Nel corso dello stesso secolo, però, i consistenti patrimoni delle confraternite fecero emergere una serie di problemi relativi alla loro amministrazione, tra cui quello del rapporto con i frati, nel caso delle confraternite erette dagli istituti religiosi, e l’eventuale presenza del fenomeno “clericalizzazione“ nella loro gestione. Certo la presenza di sacerdoti diocesani in varie confraternite è un fenomeno rilevante alla fine del secolo XVII e nei secoli seguenti. A volte alcuni di essi divenivano anche priori o governatori delle confraternite. Questo fenomeno trova la sua spiegazione non solo nella pietà e nella devozione dei singoli membri di una confraternita, ma anche nelle necessità amministrative dei patrimoni ormai consistenti che persone poco o per nulla istruite erano incapaci di gestire. Inoltre si ha una pressione da parte dei parroci nei vari luoghi per unire le confraternite più strettamente alla parrocchia, non tanto per motivi pastorali, quanto per situarle meglio nella sfera ecclesiastica. E sempre riguardo all’amministrazione, anche se la documentazione relativa oggi nota spesso mostra una gestione accurata e una particolare attenzione alle attività di culto, non tutto doveva scorrere liscio se a volte in questo secolo XVIII alcuni vescovi intervennero per imporre la compilazione di inventari del patrimoniale difendendolo così da eventuale usurpazione di alcuni, e per comporre e sanare il partitismo che divideva gli animi in questioni amministrative, con discussioni accese e anche violente.

Nell’Italia meridionale, sempre nel secolo XVIII, sotto l’influsso della politica riformista dei Borboni, le confraternite subirono trasformazioni verso un carattere più secolarizzato e più amministrativo sanzionato dai regi assensi, che portavano in vari casi allo sgancio dallo spirito originario, e ad una forte caratterizzazione formale e secolarizzata.

Con le vicende del periodo napoleonico in Italia (1796-1814) molte confraternite vennero soppresse o costrette dall’evolvere degli eventi a ridurre notevolmente le relative attività proprie. Altre invece, si rianimarono o si rifondarono nell’opera svolta per la restaurazione, e non poche assunsero un orientativo caritativo e pastorale con una più stretta connessione con gli organismi ecclesiastici, ma il loro declino era ormai segnato nelle varie regioni d’Italia.

Fonti e Bibl. essenziale

G. Angelozzi, Le confraternite laicali. Un’esperienza cristiana tra medioevo e età moderna. Editrice Queriniana, Brescia, 1978; J.R. Banker, Death in the Community: Memorialization and Confraternities in an Italian Commune in the late Middle Ages, Athens, Georgia, Usa, 1988; Ch. F. Black, Italian Confraternities in the Seixteenth Century, Cambrigde 1989 (traduzione italiano, Milano 1992); Chiesa e società. Aspetti e problemi dell’associazionismo laicale europeo moderno e contemporaneo, a cura di L. Bertoldi Lenoci, Fasano, 1994; G. De Sandre Gasparini, Appunti per uno studio sulle confraternite medievali: problemi e prospettive di ricerca, in “Studia patavina”, 15 (1968), 115-124; G. De Sandre Gasparini, Movimento dei disciplinati, confraternite e ordini mendicanti, in I Frati Minori e il terzo ordine. Problemi e discussioni storiografiche. Atti del convegno, Todi 17-20 ottobre 1982, Todi, 1985, 79-114; Le confraternite in Italia fra Medioevo e Rinascimento, a cura di G. de Rosa, Atti della tavola rotonda, Vicenza, 3-4 novembre 1979, in “Ricerche di storia sociale e religiosa”, num. spec., 17-18 (1980); P. Lopez, Le confraternite laicali in Italia e la riforma cattolica, in “Rivista di studi salernitani”, 2 (1969), IV, 153-238; G.G. Meersseman, La riforma delle Confraternite laicali in Italia prima del Concilio di Trento, in Atti del convegno di storia della Chiesa in Italia, Padova 1960; G.G. Meersseman, Ordo fraternitatis. Confraternite e pietà dei laici nel Medioevo, in collaborazione con G.P. Pacini, Roma, 1977, 3 voll; G.M. Monti, Le confraternite medievali dell’alta e media Italia, Venezia 1927, 2 voll.; D. Zardin, Le confraternite in Italia settentrionale fra XV e XVIII secolo, in “Società e Storia, 10 (1987), 81-137.


LEMMARIO




Confraternite laicali - vol. II


Autore: Emanuele Boaga †

La situazione delle confraternite laicali (= c.) agli inizi dell’unità d’Italia rifletteva in gran parte le alterne vicende da esse subite nella prima metà del secolo XIX e che avevano avviato per molte di esse un lento ma inesorabile affievolimento di presenza nel tessuto sociale e religioso. A peggiorare questo stato giunse da parte del governo italiano una serie di leggi emanate tra il 1870 e il 1890 per regolare la situazione delle c. nel contesto dei criteri da seguire in vista del riconoscimento statale degli enti di beneficenza. Ciò portò un profondo sconvolgimento del mondo confraternale, con l’estinzione di una gran numero di c., alcune già del tutto esaurite ed altre ancora vitali e ben presenti nella vita associativa cittadina. In questo contesto si ebbe anche la pubblicazione di opuscoli di propaganda e libelli degrignatori che diedero vita a polemiche molte accese. Così il termine c. divenne sinonimo di associazione ristretta, di arretratezza, e di malevoli preconcetti. Inoltre la legge del 18 luglio 1904, n. 390, stabiliva che le c. erano sottoposte alla commissione provinciale di assistenza e pubblica beneficenza per l’approvazione dei bilanci e per gli atti eccedenti la semplice amministrazione. Solo più tardi, con l’articolo 29 del Concordato del 1929 tra lo Stato Italiano e la S. Sede, verrà stabilito che le c., aventi scopo esclusivo o prevalente di culto, dipendono dall’autorità ecclesiastica; e per tutte le c. esistenti prima del 1929 verrà riconosciuta la loro personalità giuridica.

Sul finire del secolo XIX in varie c. si registrava un impegno ad affrontare i problemi che venivano posti per la loro esistenza, in rapporto alla loro finalità di culto e di beneficenza. Per portare un esempio, nel 1899 a Pisa fu creata l’Unione Federativa delle Misericordie (divenuta in tempi più recenti la Confederazione Nazionale delle Misericordie).

Con la promulgazione del Codice di Diritto Canonico del 1917 si ebbe un organico complesso normativo sia per le c. “storiche” sia per quelle nuove. Così il Codice pio-benedettino riconosceva ai fedeli il diritto di associarsi, il riconoscimento giuridico e l’erezione formale delle conseguenti associazioni, e per le c. stabiliva norme circa la loro istituzione, l’amministrazione dei beni temporali, lo stabilire statuti, il tenere adunanze, il cambio di sede. Inoltre l’atteggiamento ecclesiastico verso le c. sottolineava in quegli anni che le c. non portassero alcun pregiudizio ai diritti del parroco nella chiesa parrocchiale, e in casi di dubbio e di contestazione la decisione spettasse all’Ordinario del luogo.

Dopo la prima guerra mondiale per la vita delle c. conobbe un’altro periodo di difficoltà abbastanza lungo e che si è protratto fino ai tempi dopo il Concilio Vaticano II, e la conseguente fase iconoclastica, durante la quale venne spesso a mancare la dovuta e indispensabile attenzione da parte di chi aveva il compito di proteggerle e vivificarle. Così si verificava un progressivo abbandono e la fine per inedia di molte c. Un’eccezione fu l’attenzione dei vescovi pugliesi al mondo confraternale, per il quale scrissero una lettera pastorale collettiva.

Dagli anni ‘80 del secolo scorso il cammino storico delle c. italiane viene segnato da due aspetti. Il primo presenta una ripresa di queste istituzioni, assai rilevanti per la pietà popolare, anche con un interessante diffondersi di nuove c. Questo risveglio comprende certamente tante cose, piccole o grandi, ma sicuramente la più importante è quella di adeguare ancor più lo stile della vita confraternale al messaggio del Concilio Vaticano II, trasformando il partecipare alla vita della c. stessa in esperienza personale e comunitario di “cammino di fede”. Così l’attenzione ad una serie di valori e di gesti rafforza e motiva l’impegno dei membri delle c. Ormai risulta chiaramente dalle numerose pagine web di c. che la loro vita non viene più ridotta ad alcune attività con al centro la processione annuale in onore dalla Madonna o di un santo patrono, o per la Settimana Santa, ma si apre sempre più a una intensa vita di preghiera, di partecipazione a celebrazioni liturgiche attraverso il calendario mensile delle attività, la carità come solidarietà aiuto, amicizia e comunione con le persone del territorio. Realtà che stanno divenendo la chiave di lettura dell’agire confraternale e la ragione, ancor oggi, della sua esistenza vitale radicata nel territorio. Un contributo notevole a questa ripresa e revisione della vita confraternale è stato dato e viene ancora offerto dalla rivista Confraternite oggi pubblicata dal 1983-1984, e soprattutto dalla Confederazione delle Confraternite delle Diocesi d’Italia, eretta dalla C.E.I. il 14 aprile 2000 con sede in Roma.

Il secondo aspetto riguarda invece quelle confraternite che risultano non più operanti. Negli ultimi anni la Conferenza Episcopale Italiana ha invitato i vescovi diocesani a procedere alla soppressione di queste c. “quiescenti”. In sintonia con tale orientamento il Ministero degli Interni ha promosso un’attività di rilevazione di tali c. per verificare, tramite le Prefetture-Uffici territoriali di Governo e le Diocesi competenti, se esistano ancora, se siano operanti, se abbiano mutato natura giuridica, al fine di eliminare dall’ordinamento italiano tutti quegli enti ritenuti inutili o non più funzionanti. Nel decreto di estinzione della c. emanato dall’ordinario diocesano di competenza, deve venire specificato l’ente ecclesiastico cui sono devoluti i beni mobili e immobili.

In questo contesto si apre la via anche ad un’altra soluzione, quella di riattivare le c. dormienti. Un esempio è l’azione vigile svolta dai Priorati diocesani di Genova e Savona che, in sintonia con le varie curie, e mettendo in atto le disposizione della C.E.I., hanno proceduto a sensibilizzare e a valorizzare confratelli sfiduciati e stanchi riuscendo a rivitalizzare diverse c. salvandole così dall’estinzione.

Fonti e Bibl. essenziale

Finora manca uno studio sul percorso delle c. in Italia dal 1861 in poi. Si sono utilizzate informazioni date da monografie locali, e dalle pagine web di molte confraternite e in modo particolare www.chiesacattolica.it/confraterniteoggi.


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