Associazione Italiana dei Professori di Storia della Chiesa

Dizionario Storico Tematico La Chiesa in Italia
Dopo l'Unità Nazionale
Roma 2015
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Congregazione degli Affari Ecclesiastici Straordinari - vol. II


Autore: Roberto Regoli

La Congregazione degli Affari Ecclesiastici Straordinari nasce con papa Pio VII il 19 agosto 1814, quale istituzione permanente, di natura consultiva, a disposizione della Segreteria di Stato nella trattazione degli affari ecclesiastici. Essa è progettata quale aiuto principale al Papato nell’opera di Restaurazione.

Struttura

La Congregazione è costituita dai cardinali membri, che ne determinano le decisioni. In funzione del lavoro esiste una struttura stabile, operativa ed amministrativa, composta da un segretario, da un sottosegretario, da minutanti ed archivisti. I cardinali membri sono i più rilevanti per il loro ruolo in Curia. A seguito della riforma della Curia del 1908 (costituzione Sapienti Consilio), l’organico della Congregazione viene inserito nella nuova Segreteria di Stato, in una sezione denominata “prima”. Da allora gli officiali della Congregazione sono anche gli officiali della Segreteria di Stato. Sulla struttura interviene una riforma di Pio XI nel 1925, che oltre a stabilire i membri di diritto della Congregazione, determina che a capo vi sia un vero e proprio prefetto, così come avveniva per tutte le altre strutture similari, e stabilisce che lo sia il segretario di Stato. Si esce così dall’anomalia, unica del suo genere, di una Congregazione permanente priva di un prefetto.

Competenze

Le questioni rimesse alla Congregazione concernevano inizialmente i complessi rapporti tra Stato e Chiesa, i problemi spirituali, dogmatici, morali e disciplinari. Era di fatto una competenza vasta ed indeterminata, che a volte invadeva ambiti non evidentemente propri, come l’esame nel febbraio del 1848 dell’opera «Il Gesuita moderno» di Gioberti, che sarebbe stata questione propria dell’Indice. Le competenze rimasero tali fino alla riforma curiale del 1908, quando l’azione della Congregazione è limitata agli affari per i quali occorre alla Santa Sede procedere d’intesa con i Governi civili, massimamente in relazione ai concordati. Allo stesso tempo, alcuni territori (le province dell’America Latina, le diocesi in Russia e i possedimenti coloniali portoghesi d’Asia e d’Africa) vengono sottratti alla sua giurisdizione, eccezion fatta per le questione inerenti la stipulazione dei concordati con le autorità civili, mentre altri le sono affidati (Inghilterra, Scozia, Irlanda, Olanda, Lussemburgo, Canada, Terra Nuova e Stati Uniti d’America fino a quel momento sotto Propaganda Fide). In definitiva, l’influsso della Congregazione rimane pressoché invariato, anche se tende ad essere più significativo nel cosiddetto blocco occidentale, dove il cattolicesimo è meglio strutturato, all’interno di regimi politici più stabili. Le attribuzioni della Congregazione vengono ulteriormente confermate e meglio definite nel Codice di Diritto Canonico del 1917, al canone 255, specificando la sua competenza in relazione alle nomine episcopali per i paesi in cui ci sono accordi («pacta»). Nonostante la chiarificazione delle competenze, si hanno diverse testimonianze di frizioni con la Congregazione Concistoriale in relazione alle nomine vescovili, sicuramente in Francia (dopo la reprise del 1921) e in Italia (dopo il concordato del 1929). In quest’ultimo paese solo poche nomine passano di fatto per gli Affari Ecclesiastici Straordinari (nel 1929 L’Aquila, Crema, Pinerolo e Pontremoli), ma senza incisività in quanto alla fine le decisioni dei cardinali sono cambiate da Pio XI, anche là dove c’era unanimità di voti. In quello stesso anno, il papa fa presente che per l’Italia «non è favorevole ad una sollecita riduzione di diocesi, potendosi far peggio, però esige che per il mantenimento di diocesi si abbia la garanzia di un minimo per la vita conveniente e prospera di esse». A volte le due Congregazioni devono necessariamente cooperare alla pari, come nel caso della diocesi di Gorizia e del suo vescovo (1925), quando quest’ultimo viene contestato davanti al governo italiano e al papa da pochi preti per mancanza di lealtà governativa. L’ambito operativo della Congregazione si allarga nel 1922, quando le sono affidate Svezia, Norvegia, Danimarca e Finlandia, e nel 1923, quando i territori coloniali africani ed asiatici del Portogallo rientrano nuovamente nella sua giurisdizione. Rispetto alla Segreteria di Stato, si nota una graduale fagocitazione della Congregazione, sin da inizio Novecento. La Congregazione diviene di fatto sempre più luogo di riflessione di fronte alle emergenze e crisi degli anni Trenta del Novecento: si pensi in particolare alla situazione politico-religiosa in Spagna e Germania. Le grandi questioni sono affiancate da altre meno rilevanti. Per il Regno d’Italia, ad esempio, la Congregazione tratta nel 1924 dell’Ordine militare Costantiniano sotto il titolo di S. Giorgio, dal quale la Santa Sede prende distanza. Alcune questioni che possono apparire secondarie, come l’aumento di congrua ai capitoli minori di Roma (16 agosto 1925), vanno comprese ed affrontate in una visione politica più ampia, che dice del rapporto Chiesa-Stato in Italia:la Santa Sede nel tempo della legge delle guarentigie non può permettere a nessun capitolare romano o suburbicario di chiedere aumenti di congrua al governo italiano, perché corrisponderebbe ad una legittimazione del Regno.

Funzionamento

Le riunioni della Congregazione possono essere plenarie (quando è convocato l’insieme dei suoi membri), particolari (una parte dei suoi componenti) o miste (insieme a cardinali membri di altre Congregazioni). Durante il pontificato di Leone XIII (1878-1903) esiste un’altra modalità di riunione denominata commissione, includente uno stretto numero di cardinali. La Congregazione tratta le tematiche che le vengono trasmesse dalla Segreteria di Stato ed è il segretario di Stato a dare corso alle risoluzioni approvate. Le riunioni cardinalizie sono discontinue, dipendono dalla volontà superiore (papa e cardinale segretario di Stato) di voler coinvolgere la Congregazione o meno. Anche là dove vi è una sua chiara competenza, come per le questioni concordatarie, non sempre è convocata. La stessa constatazione vale per le nomine episcopali, gli ordinamenti ecclesiali, le relazioni diplomatiche e via dicendo. Il reale spazio operativo della Congregazione dipende dalle esigenze dei papi e dei segretari di Stato, cioè dal loro temperamento, carattere, cultura, progetto di governo e visione ecclesiale. Nel tempo si arriva all’eliminazione del ruolo decisionale dei cardinali membri della Congregazione, quando questa si trasforma da Congregazione cardinalizia a Gabinetto di Governo, divenendo prima Consiglio per gli Affari Pubblici della Chiesa (costituzione di Paolo VI Regimini Ecclesiae universae del 1967) e poi l’attuale seconda sezione della Segreteria di Stato (costituzione Pastor Bonus del 1988, firmata da Giovanni Paolo II). La seconda parte del Novecento costituisce la lenta agonia della Congregazione, che, cambiando il nome nel 1967, muore nel 1988, essendo soppiantata da una Segreteria di Stato sempre più forte e presente nei lavori della Curia.

Riguardo all’Italia

Dando uno sguardo all’Italia, la Congregazione interviene su più ambiti sin dal tempo degli Stati pre-unitari, come anche sotto il Regno d’Italia. Proprio al 1861 risalgono le riunioni che si preoccupano delle soppressioni di congregazioni religiose, collegiate, abbazie, cappellanie, conventi, ecc. attuate da parte del nuovo governo italiano per i territori umbri e marchigiani (cioè del precedente Stato Pontificio). Delle soppressioni, in realtà, quella Congregazione se ne era occupata anche negli anni precedenti per i diversi territori italiani, secondo la più ampia categoria interpretativa delle «pretenzioni» e «usurpazioni» governative sull’amministrazione ecclesiastica. Nell’attenzione all’orbe cattolico, si erano seguiti da vicino gli avvenimenti del 1848 e il processo di unificazione italiana. È in questo contesto che nel 1860 i vescovi italiani ottengono speciali facoltà. E sono proprio questi che nel 1865 chiedono istruzioni sulle elezioni parlamentari, tanto che i cardinali della Congregazione devono discuterne. Questione che sarà dibattuta ancora nel 1868. Curiosamente i cardinali non si occupano per niente dell’Italia tra il 1870 ed il 1875, un periodo stranamente lungo, nonostante le evidenti tensioni tra le due sponde del Tevere. A partire da quel tempo, le questioni presentate ai cardinali riguardano affari ecclesiastici ma con implicazioni e conseguenze politiche relative al governo italiano (regio exequatur, provviste di priorati, ecc.). Un esempio particolare riguarda l’atteggiamento della Sede Apostolica in occasione della morte e dei funerali del re italiano Vittorio Emanuele (1878). Questioni più volte affrontate dai cardinali hanno a che fare con le nomine episcopali (là dove il governo italiano pretende la nomina regia) o le collazioni di benefici ecclesiastici. Per tutta l’ultima parte del XIX secolo, le nomine episcopali sono la questione principe, affiancata dalla ricerca da parte dei porporati dell’individuazione di atteggiamenti e modi di procedere dell’episcopato italiano nel contesto politico-religioso di allora. La Congregazione si occupa della partecipazione dei cattolici alle elezioni politiche sin dal 1882, ma è sul finire del pontificato di Leone XIII che i maggiori temi di attualità politica e del movimento cattolico entrano nelle discussioni cardinalizie: la Democrazia Cristiana ed il più ampio movimento sociale cattolico (1899-1903). Con un papa pastore (Pio X) ed un segretario di Stato non italiano (Merry del Val), la Congregazione ha una visione più mondiale e per niente italiana. Le problematiche peninsulari vengono affrontate solo in una riunione nei primi mesi del pontificato, che appare più una conclusione di un dossier del precedente pontificato, che un nuovo impulso, trattandosi ancora una volta della Democrazia Cristiana e dell’Opera dei Congressi. Secondariamente si affronta in una sola riunione la politica del governo italiano, ma in relazione ai missionari dello Chan-si. È con un papa diplomatico e politico (Benedetto XV) che l’Italia ridiviene significativa, ma ancora marginale nelle discussioni della Congregazione, sia in relazione alle contingenze della prima guerra mondiale, sia nella problematica più tipicamente peninsulare circa la partecipazione dei cattolici italiani alle elezioni politiche. Tra le due guerre mondiali (per lo più sotto Pio XI) le problematiche italiane sono affrontate, ma solamente quelle secondarie (ad esempio non si discute dei Patti Lateranensi del 1929). Il papa è attento all’ordinamento ecclesiastico dell’Etiopia (in quel momento colonia italiana) per la quale richiede un’adunanza in sua presenza (1937). Si può allora comprendere che a partire dal pontificato di Pio X le questioni italiane sono trattate direttamente dal papa e dalla Segreteria di Stato, evitando il più possibile di passare per le istanze collegiali della Congregazione. L’attività di questa Congregazione aiuta a vedere effettivamente il pensiero e lo sguardo della Santa Sede sulla società ed il paese Italia, come la reale consistenza del rapporto tra episcopato nazionale e mondo romano, che veramente determina ed indirizza le forme ecclesiali della Penisola.

 

Fonti e Bibl. essenziale

Alessandro Colombo, Una fonte per la storia del movimento sociale cattolico tra Otto e Novecento. L’archivio della S. Congregazione degli AA.EE.SS., in«Bollettino dell’Archivio per la storia del movimento sociale in Italia», 33 (1998) 267 – 273. Niccolò Del Re, La Curia romana. Lineamenti storico-giuridici, Edizioni di storia e letteratura, Roma 19984, 428-434. François Jankoviak, La Curie romaine de Pie IX à Pie X : le gouvernement central de l’Eglise et la fin des Etats pontificaux (1846-1914), (Bibliothèque des Ecoles françaises d’Athènes et de Rome, 330), Ecole française de Rome, Rome, 2007. Lajos Pásztor, La Congregazione degli Affari Ecclesiastici Straordinari tra il 1814 e il 1850, in «Archivum Historiae Pontificiae», 6 (1968), 191–318. Lajos Pásztor, Archivio della Congregazione degli Affari Ecclesiastici Straordinari, in Id., (a cura di), Guida delle fonti per la storia dell’America Latina negli Archivi della Santa Sede e negli archivi ecclesiastici d’Italia, Libreria Editrice Vaticana,Città del Vaticano 1970, (Collectanea Archivi Vaticani, 2), 305 – 328. Laura Pettinaroli, Les sessions de la congrégation des Affaires ecclésiastiques extraordinaires : évaluation générale (1814-1939) et remarques sur le cas russe (1906-1923), in MÉFRIM 122/2 (2010), pp. 493-537. Diego Pinna, Leone XIII, la Congregazione degli Affari Ecclesiastici Straordinari e l’Italia. Direttive papali e orientamenti cardinalizi nel primo decennio del pontificato leonino (1878-1887), in “Chiesa e Storia”, 2 (2012), 331-354. Roberto Regoli, Il ruolo della Sacra Congregazione degli Affari Ecclesiastici Straordinari durante il pontificato di Pio XI, in C. Semeraro (a cura di), La sollecitudine ecclesiale di Pio XI. Alla luce delle nuove fonti archivistiche. Atti del Convegno Internazionale di Studio. Città del Vaticano, 26-28 febbraio 2009, Città del Vaticano, 2010 (Pontificio Comitato di Scienze Storiche. Atti e Documenti, 31), pp. 183-229. Roberto Regoli,Congrégation pour les Affaires ecclésiastiques extraordinaires, in Christophe Dickès, (dir.), Dictionnaire du Vatican et du Saint-Siège, con la collaborazione di Marie Levant e Gilles Ferragu, Robert Laffont, Paris 2013, 309-312. Roberto Regoli, Decisioni cardinalizie ed interventi papali. Il caso della Congregazione degli Affari Ecclesiastici Straordinari, in Laura Pettinaroli (ed.), Le gouvernement pontifical sous Pie XI. Pratiques romaines et gestion de l’universel, École française de Rome, Rome 2013 (Collection de l’École française de Rome, 467), 481-501.


LEMMARIO




Congregazione dei Vescovi e Regolari - vol. I


Autore: Antonio Menniti Ippolito

L’origine della Congregazione dei Vescovi e regolari può essere individuata nella speciale commissione cui Pio V affidò il compito d’affrontare alcune gravi questioni in materia ecclesiastica relative al Patriarcato di Aquileia. Esauritasi l’emergenza in quella sede, la commissione continuò a operare in tema di controllo sull’attività dei vescovi fino a divenire nel 1576, con Gregorio XIII, un organo, peraltro da ora permanente, che prese il nome di Sacra Congregatio super consultationibus episcoporum. Ad essa si affiancò, dieci anni più tardi, con Sisto V, nel 1586, la Sacra Congregatio super consultationibus regularium e lo stesso papa, l’anno successivo, accolse nel suo elenco di quindici organismi le due congregazioni con personale e competenze distinte. Fu sotto Clemente VIII che esse furono infine accorpate ed ebbero, almeno dal 1593, un unico prefetto. Dal 1601 l’organismo viene presentato quale Sacra Congregatio negotiis et consultationibus Episcoporum et Regularium praeposita.

Tali e tante le sue competenze, che Urbano VIII ebbe a specificare che esse potevano considerarsi di fatto universali: di fatto le era solo precluso il compito di affrontare questioni legate all’interpretazione dei canoni conciliari che restava esclusivo della Congregazione del Concilio. In realtà nel 1622 era stata già sottratta all’ufficio la giurisdizione sui vescovi in area di missione, passata a Propaganda Fide, e nel 1626 le questioni relative all’Immunità e privilegi di giurisdizione del corpo ecclesiastico che passarono, appunto, alla Congregazione dell’Immunità. Nel 1649 Innocenzo X istituì poi la Congregazione sullo Stato dei regolari che si proponeva di analizzare la situazione dei vari conventi in vista di una riforma disciplinare.

Composizione, procedura e competenze. A comporre la Congregazione dei Vescovi e regolari erano soli cardinali con l’eccezione del prelato segretario (ma tale ruolo, scriveva de Luca, era «tra i più prossimi al cardinalato»), e un discreto numero di detti componenti, rivelano gli Annuari, partecipavano – venendo a costituire di fatto una sorta di “supercongregazione” – anche all’attività delle Congregazioni del Sant’Uffizio, del Concilio e dell’Immunità, che costituivano i “dicasteri” pontifici con competenza sulla realtà ecclesiastica (e non solo). Chi si rivolgeva per qualsiasi genere di problema a questa, come alle altre Congregazioni su nominate, non doveva pagare nulla, neppure per le spedizioni. Le competenze della Congregazione dei Vescovi e regolari si sovrapponevano inevitabilmente soprattutto con quelle della Congregazione del Concilio, ma il cardinal de Luca notava però in proposito che mentre quest’ultima camminava in termini strettamente giuridici, «i quali risultano dai canoni o dai concilii», la prima «ragionevolmente alle volte suol camminare da principe ecclesiastico, con le regole prudenziali, non devianti però dal senso, ovvero dalla ragione de’ sacri canoni e de’ concilii, e con le notizie e informazioni anche occulte, così richiedendo la qualità de’ negozi, molti de’ quali, o per sostenere la dignità episcopale, o la riputazione delle religioni, o de’ monasteri, non conviene di mettere in pubblico […], sicché comple di governarli con una pia ecclesiastica politica». La Congregazione doveva insomma solo ispirarsi alle norme giuridiche, ma le sue deliberazioni dovevano essere improntate a duttilità e prudenza e adattarsi alle realtà che s’incontravano. Da qui una procedura lenta, attenta, complessa. I memoriali che venivano spediti o direttamente ai padri della Congregazione o al papa, e che contenevano denunce contro comportamenti illeciti o comunque critici di ecclesiastici, richieste d’autorizzazione per alienare o tramutare benefici ecclesiastici o relative a riti, vacanze, conflitti di giurisdizione, ecc., venivano in analizzati in prima battuta dai membri del dicastero e poi, assai di frequente, rispediti al vescovo o ad altri che potevano ragionevolmente esprimersi sulle tematiche presentate, con richieste di approfondimento. Non di rado, e soprattutto quando lo stesso ordinario era coinvolto nel quesito, erano rivolte invece ad altri prelati o vescovi vicini. Tutto, come detto, con metodi extragiudiziali e con metodo «prudenziale», «ad uso di principe più che di giudice». Le richieste di fatto sistematiche di approfondimento rendevano lunghissima la trattazione delle cause, che si trascinavano solitamente per anni: ciò era soprattutto dovuto alla natura dei memoriali presentati alla Congregazione, che erano atti di parte, composti per sostenere (presunti) diritti, per difendersi da accuse, per denunciare qualcuno o qualcosa e a tal fine spesso artificiosamente, se non maliziosamente, caricati di elementi impropri. Al memoriale iniziale seguiva poi tra l’altro spesso un contro-memoriale altrettanto poco oggettivo, oppure omissivo, o, ancora, ugualmente caratterizzato da una spiccata tendenza a drammatizzare, ad esagerare ogni elemento.

In sintesi, alla Congregazione venivano sottoposte tutte le denunce riguardanti ordinari, prelati minori e regolari d’ogni Ordine o Religione. Per quel che riguardava i vescovi i temi trattati nei memoriali possono essere raccolti in sei gruppi. 1) Questioni beneficiarie e patrimoniali, legate ad esempio all’amministrazione di proprietà ecclesiastiche infruttuose, magari ricevute grazie a donazioni o lasciti testamentari, oppure alla possibilità di utilizzare rendite destinate ad uno scopo per un’altra funzione. 2) Questioni legate ai chierici, al loro numero spesso eccessivo, e, più di rado, insufficiente. Erano soprattutto i chierici coniugati e quelli «selvatici» o «vaganti» a costituire un problema, spesso grave. 3) Casi legati a vacanze beneficiarie, a elezioni, contestate o non, ad esempio dei vicari capitolari in tempo di sede vacante. 4) Quesiti relativi a riti e cerimoniali: norme ad esempio sui funerali e su quanto poteva essere richiesto per il loro svolgimento, questioni legate a processioni, predicatori, ecc. 5) Contenziosi tra chierici e comunità, tra chierici e autorità civili, tra chierici e chierici. 6) Questioni legate all’amministrazione della giustizia penale, oppure disciplinari e d’ordine pubblico in generale. All’interno di tali casi si presentavano anche, e spesso, conflitti di giurisdizione che coinvolgevano i vescovi con i loro tribunali, i Nunzi e le autorità civili con le loro proprie strutture. Nello specifico, quando le cause riguardavano i vescovi, gli ordinari inquisiti potevano essere convocati a Roma o essere sottoposti al vaglio di un Vicario apostolico o di altre figure speciali rappresentanti l’ufficio romano. La Congregazione poteva spedire un Vicario Apostolico qualora il vescovo si trovasse inabile al servizio per questioni di salute o per altro, oppure quando fossero insorti in sede di vacanza dell’ordinario dissidi all’interno dei Capitoli per l’elezione del Vicario capitolare (dissidi, va sottolineato, molto comuni), o qualora i Capitoli esitassero troppo per qualsiasi ragione all’elezione del detto Vicario. Quanto ai regolari, la Congregazione decideva sulle fondazioni di nuovi monasteri o conventi; sul passaggio di religiosi da un monastero ad un altro, sulle domande di fuoriuscita dal Chiostro. Decideva poi sulle richieste di licenza presentate perché «fanciulle» potessero essere educate in specifici monasteri o per introdurre in detti luoghi servitù utile ad assistere le monache; prendeva posizione sulle pretese di aumentare o di ridurre in certe circostanze le doti necessarie per entrare nei monasteri; risolveva questioni legate alla elezione dei superiori decidendo se erogare dispense; autorizzava la scelta di confessori straordinari; decideva se autorizzare l’abbandono di un luogo religioso per entrare in un altro; accordava i «gradi religiosi»; stabiliva la legittimità di «gravami imposti da’ Prelati agli stessi regolari». La Congregazione aveva poi diritto di disporre ispezioni per verificare le elezioni a cariche compiute in ogni monastero o convento o di autorizzare alienazioni di beni compiute senza preventiva autorizzazione romana. Anche quando le cause riguardavano i regolari le procedure erano lunghe e ispirate a grande prudenza. Le richieste tese ad ottenere chiarimenti e ulteriori informazioni erano sistematiche (e non di rado erano rivolte a regolari che vivevano fuori dell’Europa) e a volte, quando le pratiche erano costituire da ricorsi di religiosi contro i superiori, esse venivano rimesse al Generale della religione, se presente in Curia, o al Procuratore generale della stessa.

L’attività della Congregazione. Il poderoso fondo dell’Archivio Segreto Vaticano che testimonia dell’attività della Congregazione dei vescovi e regolari costituisce una fonte primaria per lo studio della Chiesa soprattutto italiana. Le cause che vi sono descritte riguardano infatti in primo luogo la Chiesa della penisola, che di fatto costituiva la Provincia religiosa del papa. Sondaggi hanno dimostrato che la Congregazione si occupava di Italia per il 98% dei casi e che l’80% di questa quasi totalità di cause italiane riguardava le terre sottoposte al dominio diretto del pontefice romano e l’Italia meridionale continentale, terra questa caratterizzata da un numero straordinario di diocesi, da una debole sovranità – per largo tratto dell’età moderna esercitata da un vicerè spagnolo – anche caratterizzata dalla forte presenza baronale, da una organizzazione ecclesiastica ricca di elementi peculiari, basti pensare al sistema delle chiese ricettizie. Nel XVIII sec., quando nel Meridione d’Italia agli Asburgo di Spagna si sostituirono prima quelli d’Austria e poi i Borbone, che acquisirono un più che sostanziale controllo della Chiesa meridionale soprattutto con il concordato con la Santa Sede del 1741, l’afflusso, verrebbe da dire il diluvio, di memoriali meridionali si esaurì e a venir trattate dalla Congregazione furono quasi esclusivamente cause relative allo Stato pontificio. Nell’area centro settentrionale della penisola, nei diversi domini in cui essa si trovava divisa, furono istituzioni statali più solide e interessate ad accrescere il controllo sulle Chiese locali ad intercettare naturalmente i memoriali che altrove venivano inviati a Roma. C’è anche da notare come queste aree fossero assai più stabili, relativamente più compatte e meno inquiete di quelle meridionali e con un corpo più disciplinato di chierici e di ordinari.

Per quel che riguarda i contenuti dei memoriali v’è da notare come a redigerli fossero soprattutto soggetti laici, singoli o comunità, che denunciavano comportamenti impropri, storture, inadempienze. Dalle denunce di gravi crimini (omicidi, reati sessuali, ruberie, abusi compiuti da chierici) o anche solo inadempienze (magari relative alla cattiva gestione del seminario), erano insomma attori laici a chiedere non solo genericamente comportamenti corretti, ad esempio che i chierici vestissero da chierici o svolgessero almeno qualcuna delle funzioni legate al loro ruolo, ma anche a richiamare all’attenzione dei membri della Congregazione dei vescovi e regolari le norme del Concilio tridentino che quei comportamenti e abusi già avrebbero potuto impedire o reprimere. E però, come detto, la Congregazione si regolava altrimenti. Per fare un esempio concreto, nei riguardi di uno dei problemi maggiori della Chiesa del tempo, quello dell’eccessivo numero dei chierici esclusivamente ordinati in minoribus (e si denunciava come ciò avvenisse per il desiderio di costoro di godere delle immunità, fiscali e giudiziarie, legate allo status), per tutta l’età moderna la Congregazione rispose alle continue denunce provenienti dal mondo dei laici solo con generiche raccomandazioni ai vescovi o vicari da cui il fenomeno dipendeva. I canoni tridentini descrivevano invece con precisione i requisiti necessari per divenire chierici e gli obblighi a ciò legati, ma nella realtà d’antico regime, in specie quella del Meridione continentale italiano, non v’era evidentemente modo di applicarli e bisognava agire, ricordando de Luca, politicamente, come un principe e non come un giudice. Una difficoltà che non riguardava peraltro la sola Congregazione dei vescovi e regolari: anche quella del Sant’Uffizio infatti, quando veniva chiamata ad occuparsi delle medesime tematiche riguardanti i comportamenti del mondo dei chierici, agiva allo stesso modo e ricordo come sistematicamente alcuni dei suoi componenti partecipassero del resto anche all’attività dell’altra Congregazione.

La Congregazione dei vescovi e regolari attiva nelle forme fin qui descritte fu soppressa nel 1908 da Pio X che devolse le sue competenze in parte alla Congregazione Concistoriale in parte alla Congregazione dei religiosi. Oggidì la giurisdizione sui patriarcati, arcidiocesi e diocesi, prelature e abbazie territoriali, ecc. spetta a tre diversi organi: alla Congregazione dei Vescovi e a quelle per le Chiese orientali e per l’Evangelizzazione dei popoli.

Fonti e Bibl. essenziale

G.B. de Luca, Theatrum Veritatis et Iustitiae […], XV, Napoli 1678; Id., Il Dottor volgare ovvero il compendio di tutta la legge civile, canonica, feudale e municipale […], IV, Firenze 1843; C. Donati, Vescovi e diocesi d’Italia dall’età post-tridentina alla caduta dell’Antico regime, in Clero e società nell’Italia moderna, a cura di M. Rosa, Laterza, Roma-Bari 1992, 321-389; N. Del Re, La Curia romana. Lineamenti storico-giuridici, IV ediz., Città del Vaticano 1998; G. Romeo, La Congregazione dei Vescovi e Regolari e i visitatori apostolici nell’Italia post-tridentina: un primo bilancio, in Per il Cinquecento religioso italiano. Clero, cultura e società, a cura di M. Sangalli, II, Edizioni dell’Ateneo, Roma 2003, 607-614; A. Menniti Ippolito, 1664. Un anno della Chiesa universale. Saggio sull’italianità del papato in età moderna, Roma, Viella 2011.


LEMMARIO




Congregazione del Sant'Uffizio - vol. I


Autore: Francesco Castelli

Con la bolla Licet ab initio il 21 luglio 1542 Paolo III istituì una commissione cardinalizia deputata a giudicare e perseguire in tutto il mondo cattolico i reati contro la fede. La denominazione dello speciale organismo, scelta dagli stessi cardinali membri, fu Congregatio Sanctae Inquisitionis haereticae pravitatis ma negli anni successivi entrarono nell’uso comune espressioni quali «S. Congregazione del Sant’Uffizio dell’Inquisizione», «Inquisizione Romana», o più genericamente «Sant’Uffizio».

La Congregazione era composta da sei cardinali «super negotio fidei commissarios et inquisitores generales et generalissimos», coadiuvati nelle loro mansioni da cinque teologi consultori, dal maestro generale dei domenicani, dal maestro dei Sacri Palazzi e da un teologo con funzioni di commissario. Più tardi sarebbe stata introdotta la figura dell’assessore, alle dipendenze del commissario. Era presente anche un avvocato fiscale con funzioni di pubblica accusa. Ben presto la Congregazione aumentò i suoi componenti e i suoi uffici, disponendo anche di sedi periferiche, collocate in prevalenza nell’Italia centro-settentrionale. Nel frattempo, nel 1550, Giulio III disponeva che il tribunale dovesse occuparsi in particolare della penisola italiana e della sua vita religiosa. Le sedi periferiche sopravvissero per un arco di tempo limitato. I singoli stati italiani, gelosi custodi della propria giurisdizione, abolirono unilateralmente i tribunali locali dell’Inquisizione e con l’inizio del XIX secolo non rimase in piedi alcuna sede giudiziaria tranne che nello Stato Pontificio. Con l’unificazione italiana, infine, cessarono di sopravvivere anche queste ultime. Da allora rimase in funzione unicamente la sede centrale nel palazzo del Sant’Uffizio che continuò a svolgere le sue funzioni anche se la massa di lavoro si ridusse in modo considerevole.

 

Fonti e Bibl. essenziale

Sulla Congregazione del Sant’Uffizio la bibliografia aumenta costantemente. Tra le opere più significative si veda: Inquisizione romana e Controriforma. Studi sul cardinal Giovanni Morone (1509-1580) e il suo processo d’eresia, ed. rivista e ampliata, Brescia 2005; A. Prosperi, Tribunali della coscienza. Inquisitori, confessori, missionari, Einaudi, Torino 1996; J. Tedeschi, Il giudice e l’eretico. Studi sull’Inquisizione romana, Vita e Pensiero, Milano 1997.


LEMMARIO




Congregazione del Sant'Uffizio - vol. II


Autore: Francesco Castelli

I primi mesi del pontificato di Pio X (1903-1914) segnarono, per il Sant’Uffizio, l’inizio di un periodo di intensa elaborazione normativa e di definizione (sia pur in continuità con il passato) dei propri aspetti istituzionali e procedurali. I primi interventi legislativi si ebbero già il 17 dicembre 1903 quando con il motu proprio Romanis Pontificibus Pio X trasferì al Sant’Uffizio la funzione di provvedere all’elezione dei vescovi italiani.

Il 29 giugno 1908, riformando la Curia Romana con la costituzione apostolica Sapienti Consilio Pio X assegnò al dicastero il nome ufficiale di «S. Congregazione del Sant’Uffizio». Significative furono le innovazioni in materia di funzioni e competenze. Soppressa la S. Congregazione per le indulgenze, furono trasferite al Sant’Uffizio «universa res de Indulgentiis, sive quae doctrinam spectet, sive quae usum respiciat». Furono invece sottratti alle competenze della Congregazione il compito di provvedere all’elezione dei vescovi d’Italia e di provvedere alle dispense dei voti religiosi.

Alla pubblicazione della Sapienti Consilio seguì, pochi mesi dopo, quella dell’Ordo servandus in Sacris Congregationibus Tribunalibus Officiis Romanae Curiae. Nelle Normae Peculiares si stabiliva che officiali maggiori del Sant’Uffizio, «post Cardinalem a secretis, sunt Adsessor et Commissarius». Oltre a disposizioni minori, si decretava che la Congregazione doveva quanto prima promulgare il proprio mos procedendi. Il documento, preparato al termine di una visita apostolica affidata al cardinale Domenico Ferrata e José Calasanz Vives y Tutó nonché ai sottovisitatori il cappuccino Pie de Langogna e il redentorista Willem Marinus van Rossum, fu approvato da Pio X il 7 settembre 1911 e denominato Lex et Ordo Supremae Sacrae Congregationis S. Offici. Nel testo confluiva la secolare tradizione giuridica della Congregazione con opportune modifiche e innovazioni. Prefetto della Suprema era il Sommo Pontefice. Membri della Congregazione erano alcuni cardinali, detti inquisitori generali i quali, in assemblea (detta anche congresso o più abitualmente congregazione dei cardinali), erano presieduti da un cardinale «segretario», con funzioni di prefetto. Il loro numero non era definito. In ordine di importanza, seguiva immediatamente la figura dell’assessore, con le stesse funzioni di un segretario degli altri dicasteri. A capo della sezione istruttoria delle cause criminali c’era il commissario, scelto tra i frati dell’ordine dei Predicatori il quale, a differenza di quanto stabilito nel secolo XVI, costituiva una figura principale ma secondaria rispetto all’assessore. Lo affiancavano due figure: il primus socius il quale «absente vel impedito Patre Commissario, eius in omnibus vices gerit» e il secundus socius. Una figura di primo piano era anche l’«advocatus fiscalis» (dal 1920 denominato «promotore di giustizia») con la mansione di proporre gli accertamenti giudiziari (figura che conferiva al Sant’Uffizio elementi del modello accusatorio). Era previsto un «advocatus reorum». Esistevano poi altre figure particolari, non deputate ad assumere decisioni, ma a favorire lo svolgimento delle attività della Congregazione: il sommista, chiamato a stendere i sommari delle cause ed a scrivere i voti dei consultori proposti dopo il loro congresso; l’archivista, il notaio con 5 sostituti, due scrittori e un protocollista, addetti alla cancelleria; un economo, un bidello, un portiere. Oltre a tali figure comparivano – e non in modo secondario per l’andamento dei lavori – i consultori: membri del clero secolare e regolare, o anche patriarchi, arcivescovi o vescovi, noti per le doti intellettuali, erano chiamati a svolgere un ruolo puramente consultivo, quasi mai decisionale. Svolgevano un ruolo di consulenza anche altri ecclesiastici detti qualificatori. La macchina processuale del Sant’Uffizio, stando alle indicazioni del regolamento, aveva tempi precisi. I lavori si svolgevano secondo un programma ben definito che indicava in quali giorni, detti feriae, dovessero tenersi le adunanze all’interno della Suprema. Ogni settimana si tenevano tre congregazioni: dei consultori il lunedì, dei cardinali il mercoledì, e il congresso particolare il venerdì o il sabato. Il giovedì, invece, l’assessore si recava dal Papa a riferire le decisioni dei cardinali e a ottenerne l’approvazione.

La Congregazione Particolare costituiva in realtà la prima tappa della quasi totalità dei procedimenti allestiti nel Sant’Uffizio. Era un’adunanza interna alla Congregazione, composta unicamente da alcuni officiali del Sant’Uffizio. Vi partecipavano l’assessore, il commissario con il primo socio, l’avvocato fiscale. Durante i suoi lavori, l’assessore e il commissario dovevano riferire circa le cause, gli affari ma anche le lettere e i documenti che avevano ricevuto. La Congregazione Particolare, che a partire dal 1916 fu presieduta dal cardinale segretario, doveva esaminare le singole questioni, decidere quali di esse dovessero essere inserite in un protocollo segretissimo, valutare l’opportunità di richiedere un voto ad un consultore o ad un qualificatore su specifiche questioni o promuovere ulteriori indagini su affari ancora non chiari. Se il procedimento non riceveva un reponatur o non si suggeriva la stesura di un voto orientativo da parte di perito, la pratica passava all’esame dei consultori. La rispettiva congregazione era così composta: oltre a tutti i consultori era presente l’assessore, che presiedeva l’assemblea, il commissario, il primo socio e l’avvocato fiscale qualora svolgeva simultaneamente l’ufficio di consultore. Nelle cause criminali compariva anche l’avvocato dei rei per la difesa. L’assemblea dei consultori doveva emettere un voto solo consultivo «de omnibus communibus quaesitis, dubiis, causis ac negotiis alicuius momenti vel difficultatis ad S. Congregationem delatis».

La pratica esaminata con i voti dei consultori veniva così trasmessa per la feria IV. La seduta cardinalizia del mercoledì era suddivisa in due riunioni, l’una successiva all’altra. Alla prima, detta segreta, «prendevano parte insieme ai cardinali soltanto l’assessore, il commissario e il procuratore fiscale: vi si trattavano le materie più delicate, con le ricusazioni degli inquisitori e vi si esaminavano i documenti inviati dalla segreteria di Stato o dalle altre congregazioni». Alla seconda riunione, detta generale o pubblica, potevano essere ammessi anche i consultori.

Oltre agli affari esaminati dai consultori, i cardinali dovevano esaminare tutte le cause e le questioni trattate in Congregazione. All’apertura dei lavori, l’assessore riferiva quanto, nell’ultima udienza, era stato ordinato dal pontefice. Prendeva dunque la parola il cardinale segretario e introduceva i lavori. Dopo il dibattimento collegiale, si formulava una decisione detta decreto o sentenza che veniva poi riferita al Sommo Pontefice per la sua approvazione. Questa era, almeno nelle linee essenziali, la struttura e la ratio agendi del Sant’Uffizio a partire dal 1911. Una parziale modifica avvenne nel 1916: il cardinale segretario fu formalmente investito di tutti i poteri degli altri ufficiali e incaricato di presiedere la Congregazione Particolare. Nella sostanza, comunque, i compiti e le responsabilità dell’assessore rimasero molto ampie. Prima del 1965, l’ultima modifica al regolamento, sinora conosciuta, avvenne l’anno successivo, il 25 marzo 1917. Con il motu proprio «Alloquentes» Benedetto XV soppresse la S. Congregazione dell’Indice annettendone le funzioni ad una sezione del Sant’Uffizio e trasferì la sezione delle indulgenze, sino ad allora di competenza del Sant’Uffizio, alla Penitenzeria Apostolica. Si discusse più tardi anche della possibilità di riformare l’ufficio dell’Indice (v. Congregazione dell’Indice) ma il progetto rimase inattuato.

Dal Concilio Ecumenico Vaticano II sino ad oggi. Il 7 dicembre 1965, con il motu proprio Integrae servandae Paolo VI modificò il nome della Congregazione in Congregazione per la Dottrina della Fede. Rimanendo invariate le finalità della Congregazione, furono modificate alcune procedure. In particolare, nel caso di esame dei libri, era indispensabile convocare l’autore per ascoltare la sua difesa. L’assetto della Congregazione conobbe nuove modifiche con la riforma della Curia Romana compiuta da Giovanni Paolo II tramite la costituzione apostolica Pastor Bonus del 28 giugno 1988. L’innovazione più significativa fu la riformulazione delle finalità della Congregazione: scopo del dicastero diveniva non solo tutelare ma anche favorire la promozione della fede.

Aspetti tematici. La vicenda del confessore di Cavour, fra’ Giacomo da Poirino; il modernismo: i casi di Ernesto Buonaiuti e Olinto Marella; Sant’Uffizio, «affettata santità», stimmate; la condanna delle opere di Benedetto Croce e Giovanni Gentile; il rapporto tra il Governo italiano e il Sant’Uffizio; le relazioni di Agostino Gemelli con il Sant’Uffizio

La vicenda del confessore di Cavour, fra’ Giacomo da Poirino. In attesa di studi specifici sull’attività del Sant’Uffizio durante il Risorgimento, una prima esplorazione del fondo archivistico attesta che il dicastero raccolse carte relative ai movimenti di alcuni settari (ad esempio di Paolo Perelli) avversi al potere temporale. Nell’archivio si conservano anche alcune lettere autografe di Giuseppe Mazzini. Comunque, allo stato attuale della ricerca, sono ancora limitatissime le notizie circa l’attività della Congregazione negli anni precedenti l’unificazione o immediatamente successivi ad essa. Di sicuro, il dicastero fu coinvolto in alcuni casi politici quando questi presentavano anche risvolti dottrinali o morali. Tra questi merita speciale menzione la questione relativa al confessore di Cavour fra’ Giacomo da Poirino, sospeso a divinis per aver assolto il morente (e irretito dalla scomunica papale) Camillo Benso senza però esigere alcuna ritrattazione dell’operato politico, secondo le disposizioni canoniche per simili casi. Le ricerche hanno consentito di appurare tre nuovi dati, ovvero la totale estraneità dell’Inquisizione Romana al provvedimento di sanzione canonica del frate; l’esistenza di una ‘supplica’, datata 26 aprile 1882, indirizzata dal religioso a Leone XIII per la propria riabilitazione; la tempestività con la quale, i cardinali membri del Sant’Uffizio, investiti dell’affare, concessero il nulla osta alla riabilitazione il 7 giugno 1882.

Il modernismo: i casi di Ernesto Buonaiuti e Olinto Marella. Gli studi sul modernismo condotti sulle fonti della ‘Suprema Congregazione’ sono ancora numericamente limitati per la recente apertura agli studiosi dell’archivio della Congregazione per la Dottrina della Fede (1998). Anche le singole vicende di vari personaggi italiani (si pensi ad esempio a Umberto Fracassini, Francesco Mari, Tommaso Gallarati Scotti, Francesco Ferrari, Brizio Casciola, Giovanni Genocchi, Mattia Federici, Bacchisio Raimondo Motzo, Luigi Salvatorelli, Giuseppe Filograssi, Luigi Piastrelli, Angiolo Gambaro, Primo Vannutelli, Alessandro Ghignoni, Olinto Marella) non sono state analiticamente ricostruite e, salvo rari casi (si pensi a quello ben documentato di Giovanni Semeria) disponiamo principalmente di primi saggi di esplorazione e di approfondimento. Di sicuro, per uno studio della Curia Romana durante la crisi modernista e per una definizione dell’antimodernismo in Italia la documentazione del dicastero offre nuovi apporti, revisioni di giudizi e apertura di altri percorsi d’indagine. Si noti, ad esempio, come siano ancora nell’ombra personaggi come p. Joseph Lemius la cui centralità in diverse questioni inquisitoriali è ancora poco conosciuta. Analoga considerazione vale per il frate carmelitano e poi vescovo e cardinale Carlo Raffaello Rossi, la cui attività pur centrale in diverse vicende (Semeria, Buonaiuti ma anche per gli scritti di Teresa di Lisieaux) non ha ancora sufficiente rilievo nella storiografia. Simili osservazioni possono farsi anche sulla lunghissima attività del Promotore di Giustizia Giuseppe Latini che per circa quarant’anni occupò un ruolo centrale in tutte le questioni del dicastero. Si tratta, in altri termini, di definire come l’antimodernismo italiano studiato sino ad oggi (si pensi ai preziosi apporti di Lorenzo Bedeschi et alii) sia stato effettivamente presente e operante tra le mura del Sant’Uffizio.

Tra le vicende che più impegnarono la Congregazione vi è indubbiamente il lungo, teso e non facile rapporto con don Ernesto Buonaiuti. Si tratta, nonostante molti studi e lavori scientifici già pubblicati sul caso, di una storia ancora incompleta non essendo state studiate a fondo le fonti conservate in proposito nell’Archivio della Congregazione per la Dottrina della Fede. Sinora, alcuni nuovi elementi sono stati acquisiti solo riguardo alla censura dell’opera s. Girolamo, a firma di Buonaiuti. Ne richiamiamo i dati essenziali. Nel 1919 B. sottopose al Sant’Uffizio una biografia ancora inedita di s. Girolamo chiedendo, per l’occasione, l’imprimatur. Per l’esame del testo, diversamente dalla prassi, fu il pontefice in prima persona a stabilire il revisore. L’incarico cadde sull’apprezzato ed equilibrato carmelitano fra’ Carlo Raffaello Rossi. Dopo uno studio analitico e meticoloso (Rossi aveva individuato la letteratura scientifica cui Buonaiuti aveva fatto ricorso; aveva esaminato la correttezza della traduzione dei passi di Girolamo e suggerito alcune correzioni; aveva riflettuto sulle espressioni adoperate forse in chiave polemica contro il primato di giurisdizione del papa e sottolineato la forzatura di alcune ricostruzioni) suggerì di consentire la pubblicazione ma anche di comunicare all’autore alcune correzioni prima della stampa. Le osservazioni di Rossi, trasmesse a Buonaiuti, non furono condivise integralmente dall’autore. Appresa la notizia, Benedetto XV «diede ordine che il medesimo consultore [Rossi] a fianco delle bozze stesse segnasse gli emendamenti opportuni; ingiungendo poi al Buonaiuti di stamparli come sono: sotto minaccia di una eventuale condanna in caso contrario». Questa volta Buonaiuti non esitò e, corretto, il volume lo diede alle stampe. Per futuri approfondimenti sul rapporto tra Buonaiuti e il Sant’Uffizio, alcune lettere del cardinale Pietro Gasparri (conservate nell’Archivio della Congregazione) potranno dare altri utili elementi.

Un altro caso di particolare interesse di cui ebbe a occuparsi il Sant’Uffizio fu quello di d. Olinto Marella (1882-1969). Di ottime doti intellettuali, sospettato di coltivare aperture verso il modernismo, per l’accoglienza offerta in casa propria a d. Romolo Murri, già scomunicato vitando, fu sospeso a divinis nel 1909. In quella situazione il sacerdote rimase per lunghi anni, tra povertà e disagi personali, fino a quando chiese di essere riabilitato sul finire del 1922. La Congregazione, acquisite le necessarie informazioni, lo reintrodusse alla vita ministeriale inizialmente ad annum. Da allora Marella esercitò un intenso apostolato, in particolare nell’ambito della pastorale giovanile. Chiedendo l’elemosina per raccogliere contributi per le proprie iniziative pedagogiche, promosse diverse istituzioni assistenziali ed entrò in contatto con parecchi ecclesiastici quali il card. Angelo Roncalli, padre Pio da Pietrelcina, il card. Giovan Battista Montini. Attualmente è in corso il processo di beatificazione.

Sant’Uffizio, «affettata santità», stimmate. Sin dal suo sorgere, la Congregazione fu il tribunale competente sui fenomeni di presunto misticismo e su quanto poteva essere rubricato sotto la voce di affettata santità. A partire dalla fine della Prima Guerra Mondiale, tale campo d’indagine e di giudizio fu sempre più praticato dal dicastero, come mai era avvenuto nella storia inquisitoriale. Il falso misticismo divenne una materia preoccupante quasi quanto questioni dottrinali, al punto tale che si è parlato di nuova invasione mistica. Non si trattò di una scelta strategica del dicastero ma di una questione imposta dall’alto afflusso di denunce. Le segnalazioni giunsero in buona parte dall’Italia. Si riferiva del fiorire, ad opera di singolari personaggi, di nuovi ambiziosi ordini religiosi animati dalla velleità di imprimere un’accelerazione positiva alla vita della Chiesa e alla santificazione del clero. Le denunce spesso lamentavano l’infondatezza di pretesi miracoli, di profezie e visioni, di stimmate. A questo proposito, tra le due Guerre mondiali, oltre al caso di padre Pio da Pietrelcina, dall’Italia giunse in dicastero notizia di altri stimmatizzati, o meglio di altre stimmatizzate. Si posero così sotto osservazione le stimmatizzate Lina Salvagnini (Padova), Ester Moriconi (Montelupone), Elena Aiello (Cosenza), Lina Barone (Fiumefreddo, Calabria). Il caso del cappuccino del Gargano fu certamente quello più complesso: da parte del Sant’Uffizio vi fu la richiesta della collaborazione da parte dell’autorità civile ad altissimo livello (Mussolini compreso). Meno documentata è la vicenda di Elena Aiello, un caso protrattosi nel tempo senza che la Congregazione riuscisse ad acquisire elementi sufficienti per una valutazione. Le indagini su Lina Salvagnini, Ester Moriconi e Lina Barone si chiusero invece con una decisa smentita della soprannaturalità dei fenomeni.

La condanna delle opere di Benedetto Croce e Giovanni Gentile. Il 21 marzo 1932, dopo aver ricevuto il volume dal papa Pio XI, la Congregazione iniziò l’esame dottrinale della Storia d’Europa nel secolo decimonono di Benedetto Croce. Affidata la censura al consultore Marco Sales, l’opera fu messa all’indice 13 luglio 1932. Sorte analoga ebbero la Storia d’Italia e la Storia del Regno di Napoli, sebbene, temporaneamente, la pubblicazione della decisione fu sospesa in vista di un esame globale dell’opera omnia di Croce. Nel luglio 1932, durante lo studio delle opere del filosofo napoletano, si decise, peraltro, di esaminare la produzione intellettuale di Giovanni Gentile perché, osservavano i consultori, «l’idealismo crociano non differiva sostanzialmente da quello di Gentile» (Verucci).Il «voto» sulle opere di Gentile fu affidato per volontà di Pio XI ad Agostino Gemelli il quale presentò la sua censura (probabilmente coadiuvato dai due professori Francesco Olgiati e Amato Masnovo) nel gennaio 1933. Per lo scienziato francescano esistevano gravi elementi che giustificavano una condanna dell’opera di Gentile ma in tale ipotesi si sarebbe corso il rischio di alimentare una polemica contro la riforma scolastica di Gentile, pure meritevole di apprezzamento per alcune innovazioni dal punto di vista religioso e cattolico. Nel maggio 1933, dunque, il caso si arrestò temporaneamente per quella che appare, stando agli studi più recenti, una lunga pausa di riflessione. L’iter della causa sulle opere di Croce e Gentile riprese ad un anno esatto. Nel maggio 1934, con l’arrivo di una nuova relazione di Gemelli che dichiarava superate le preoccupazioni e le perplessità avanzate l’anno precedente, il 20 giugno 1934 i cardinali ordinarono la condanna delle opere dei due filosofi.

Il rapporto tra il Governo italiano e il Sant’Uffizio tra le due Guerre Mondiali. In diverse occasioni, le carte del Sant’Uffizio mostrano il rapporto diretto, e a volte intenso, che la Suprema Congregazione ebbe con le autorità politiche italiane. Entrando nello specifico, per il disbrigo dei loro affari o per la conduzione delle inchieste, i membri, gli officiali o i consultori del Sant’Uffizio non disdegnarono il ricorso alla collaborazione dell’autorità civile, e in particolare del Governo italiano, anche in situazioni di generale tensione diplomatica tra i rappresentanti delle due parti. Di seguito si riporta qualche esempio. Nel 1920, ancora lontani dai Patti Lateranensi, i consultori del dicastero suggerirono di condurre una trattativa con il Capo del Governo italiano per il trasferimento di padre Pio da Pietrelcina in altra sede. Sempre per risolvere questo problema che si sarebbe rivelato di non facile soluzione, in udienza con l’assessore del Sant’Uffizio Nicola Canali, nell’aprile 1931 Pio XI – nel mezzo della crisi per l’Azione Cattolica – ordinava alla Congregazione di preparare una relazione sul caso e di trasmetterla a Mussolini per conoscerne il giudizio. Un nuovo episodio, sinora inedito, di collaborazione tra la Suprema Congregazione e Mussolini si verificò nel 1933 quando padre Tacchi Venturi fu incaricato di sollecitare l’impegno di Mussolini per far ritirare dal commercio alcuni libri dal contenuto dottrinale non ortodosso.

Le relazioni di Agostino Gemelli con il Sant’Uffizio. Un uomo non di secondo piano nell’attività del Sant’Uffizio fu Agostino Gemelli, il fondatore dell’Università Cattolica. Gemelli si trovò coinvolto, o per sua iniziativa o per essere stato interpellato dalla Congregazione, nelle vicende relative a opere e pubblicazioni di Giovanni Gentile, Teilhard de Chardin, Fréderic Marie Bergounioux, Maurice Blondel, Manfredo Baronchelli, Ernesto Buonaiuti, Erich Przywara, Gaetano Durante, Piero Martinetti, Giovanni Semeria, Alberto Del Fante, Carl Adam, Primo Mazzolari, Giuseppe Zamboni, Benedetto Croce, Gabriele D’Annunzio. Egli, peraltro, fu molto attivo in materia di «affettata santità» inviando, o suggerendo di inviare, al Sant’Uffizio segnalazioni sui casi di non pochi personaggi che presentavano il fenomeno delle ‘stimmate’, e ciò allo scopo di verificarne l’autenticità: padre Pio da Pieltrecina (San Giovanni Rotondo), Lina Salvagnini (Padova), Elena Aiello (Cosenza), Ester Moriconi (Montelupone), Therese Neumann (Konnesreuth, diocesi di Regesburg), Marie Naud (Lourdes). Da ricerche recenti emerge che le autorità della Congregazione, pur affidando allo scienziato studi e analisi su questioni dottrinali, preferirono non coinvolgerlo mai in alcun caso di presunto misticismo, neanche nei casi in cui egli stesso domandava verifiche e approfondimenti.

Fonti e Bibl. essenziale

A seguito dell’apertura dell’Archivio della Congregazione sono stati offerti alcuni contributi, di cui almeno si vedano: A. Borromeo (a cura di), L’inquisizione. Atti del Simposio internazionale. Città del Vaticano, 29-31 ottobre 1998, Biblioteca Apostolica Vaticana, Città del Vaticano 2003; A. Del Col, L’Inquisizione in Italia. Dal XII al XXI secolo, Mondadori, Milano 2006; A. Gentili, Il processo al P. Semeria nella documentazione inedita dell’ex SantOfficio (1909-1919), in «Studi Barnabiti» (2010), 187-260. Sulle innovazioni legislative durante il pontificato di Pio X, sul card. Rossi e l’affettata santità, nonché su Ernesto Buonaiuti e Agostino Gemelli si veda: F. Castelli, Padre Pio e il Sant’Uffizio. Fatti, protagonisti, documenti inediti, Studium, Roma 2010. Per un resoconto bibliografico sino al 2010 si veda: A. Prosperi, diretto da, Dizionario storico dell’Inquisizione, IV vol., Edizioni della Normale, Pisa 2010. Indispensabile l’opera di H. Wolf, Prosopographie von Römischer inquisition und index kongregation, 1814-1917, 2 vol., Ferdinand Schöningh Verlag, Paderborn – München – Wien – Zürich 2005; ora si veda anche il più recente Id., Prosopografphie von Römischer Inquisition und Indexcongregation 1701-1813, 2 vol., Ferdinand Schöningh Verlag, Paderborn – München – Wien – Zürich 2011.


LEMMARIO




Congregazione dell'Indice - vol. II


Autore: Francesco CastelliCastelli

Istituita da Pio V il 14 aprile 1571 con la costituzione In apostolicae, la Congregazione dell’Indice era incaricata di esaminare i testi potenzialmente nocivi alla vita spirituale dei fedeli e di pubblicare (periodicamente aggiornato) l’Indice dei libri proibiti nel quale erano inseriti i titoli delle opere condannate. Con la costituzione Sollicita ac provida (1753) Benedetto XIV introdusse alcuni cambiamenti rispetto alla precedente legislazione e stabilì una rigorosa procedura per la censura delle opere. Si trattò di un intervento legislativo di grande importanza che sostanzialmente rimase invariato fino alla soppressione della Congregazione e che costituì un’ulteriore espressione dell’inclinazione giuridica di papa Lambertini, assai sensibile al disciplinamento normativo (si pensi ad esempio al De servorum Dei beatificatione et beatorum canonizatione).

Agli inizi dell’Ottocento si aprì un periodo particolarmente complesso per l’attività e il funzionamento della Congregazione. In modo graduale ma sempre più evidente si impose ai membri e ai funzionari della Congregazione (come anche ai vescovi diocesani) l’impossibilità di conoscere tempestivamente, segnalare ed esaminare in modo adeguato la sempre maggiore quantità di libri che venivano pubblicati in un mercato librario costantemente in crescita. Allo stesso tempo si faceva largo la necessità di non promuovere solo un’azione repressiva ma di favorire la sensibilizzazione dei credenti alle ‘buone letture’ e di agevolarne la produzione. Tali elementi fecero strada all’ideazione di un progetto di riforma della Congregazione, esaminato nel 1868 da una commissione istituita da Pio IX in vista di una discussione nell’assise del Concilio Ecumenico Vaticano I. Le proposte pervenute suggerirono di trasferire ai vescovi diocesani il compito di esaminare i libri pubblicati nelle rispettive diocesi riservando alla Congregazione dell’Indice la funzione di ‘tribunale di seconda istanza’ nonché la revisione di bibbie e opere di teologia. Il lavoro prodotto dalla commissione non fu discusso dal Vaticano I ma, almeno nei contenuti, gli orientamenti furono sostanzialmente ripresi negli anni successivi. Nel frattempo, dal 1866 al 1878 la Congregazione aveva messo all’Indice circa una novantina di libri tra opere di pregio e testi di scarso valore che presto sarebbero finiti nel dimenticatoio. In tale arco di tempo, tra i libri non condannati ma sottoposti a esame, vi furono anche quelli di autori molto noti e zelanti sacerdoti. Si pensi a mons. Luigi Martini (1803-1887), già rettore del seminario di Mantova, e perfino a don Bosco la cui opera Il centenario di s. Pietro fu oggetto di precisi rilievi del segretario della Congregazione p. Vincenzo Modena. Stando agli studi sin qui condotti e che costituiscono ancora l’alba di maggiori approfondimenti, si evidenza un netto scarto tra gli atteggiamenti delle autorità della Congregazione e quello del papa Pio IX, ben più moderato e alieno da aspra intransigenza che talvolta emerge nel tono delle osservazioni dei censori. Anche in questo arco di tempo si conferma la scarsa efficacia pastorale (almeno nell’immediato) delle condanne e non appare in modo subitaneo se vi fosse o meno una precisa strategia nei criteri di scelta delle opere da porre sotto esame.

Sul finire del secolo, nella costituzione apostolica Officiorum ac munerum (25 gennaio 1897), Leone XIII modificò la normativa della Congregazione. Confermando la validità della Sollicita ac provida circa la procedura di censura dei libri, Leone XIII abrogò tutte le altre norme precedenti, indicò le materie da ritenersi proibite e ribadì ai vescovi le responsabilità loro affidate in ordine alla vigilanza sui libri. La costituzione fu pubblicata nelle pagine introduttive della nuova edizione dell’Indice dei libri proibiti del 1900, dove il nuovo catalogo non presentava più i testi condannati prima del 1600 (quali le opere di Petrarca, Boccaccio, Macchiavelli) e i libri posteriori a quella data ma nel frattempo divenuti irrilevanti o non realmente pericolosi per la vita spirituale dei lettori. Durante la crisi modernista, il dicastero fu in prima linea nella condanna di opere ‘infette’ e, proprio all’azione censoria dell’Indice più che a quella del Sant’Uffizio, si deve il maggior numero di condanne.

Prima della fine della Grande Guerra, Benedetto XV diede attuazione a un progetto da tempo meditato e, con il motu proprio Alloquentes proxime (25 marzo 1917), mise fine alla Congregazione istituendo, presso il Sant’Uffizio, una sezione de censura librorum (composta da un sostituto con funzioni di archivista e da un protocollista-scrittore).

Tale provvedimento arrivava al termine di lunghe discussioni sull’efficacia e la tempestività della condanna dei libri. Di fronte a un mercato librario oramai divenuto vastissimo, nel 1929 il Sant’Uffizio emanò un’istruzione sollecitando i vescovi a sentirsi coinvolti in prima persona nella questione e a vigilare con solerzia sui libri pubblicati nelle proprie diocesi. La necessità di un effettivo controllo sull’editoria fu formalmente discussa all’interno della Congregazione a partire dal 1934. Fu richiesto unparereintroduttivoa un consultore, Ernesto Ruffini (poi cardinale e arcivescovo di Palermo) il quale suggerì di affidare la vigilanza sulle pubblicazioni alla Congregazione dei Seminari e delle Università degli Studi. La vicenda sembrò arenarsi. Nel 1936 il Sostituto della Censura dei libri Giuseppe Monti fece notare che, a partire dal 1917, le denunce pervenute al suo ufficio erano state ben poche e su opere spesso di poca o nessuna rilevanza. Si riprese a riflettere e a domandare a diversi ecclesiastici pareri e soluzioni. La questione della vigilanza sulla stampa rimase, comunque, in uno stato di stallo, senza approdare ad alcuna effettiva decisione. Commentando la situazione, Pio XI rilevò vivacemente la paralisi in cui si era finiti («è da parecchio tempo che mi si vengono a riferire tali costatazioni, e intanto non si fa mai niente; si cominci dunque a fare meno chiacchiere e qualche cosa di fatto»). Si giunse pertanto alla stesura di un Progetto di Statuto dell’Ufficio di vigilanza della stampa. Il nuovo ufficio non vide di fatto la luce, almeno sino alla fine del pontificato di Pio XI (a partire dal quale non è possibile consultare la documentazione successiva). Nel frattempo Benito Mussolini aveva promosso un’intensa attività di controllo e di repressione del dissenso politico mostrandosi poco disposto a pressioni e/o condizionamenti da parte vaticana in materia libraria: nel 1926 la pubblicazione del Testo unico di Pubblica Sicurezza (con il quale l’autorità civile si attribuiva la più vasta competenza in materia di autorizzazioni e di censura libraria) sancì formalmente la volontà governativa di avocare a sé il controllo dell’editoria.

Dell’Indice dei libri proibiti l’ultima edizione fu pubblicata nel 1948. Fu definitivamente abrogato il 15 novembre 1966.

A fronte dell’assenza di studi sistematici sulla Congregazione, di seguito ci limitiamo a una prima messa a fuoco di alcune questioni. In primo luogo merita una certa attenzione la consistenza del monitoraggio sulla produzione libraria, l’efficacia e la tipologia delle condanne comminate dal dicastero romano a partire dall’unificazione italiana. Sembra che, a partire dal Regno d’Italia e con la scomparsa di inquisitori locali e dunque con l’indebolimento della rete di segnalatori periferici, nella maggior parte dei casi il dicastero fu alquanto frenato nella sua attività.

Con la fine dell’ancien régime, peraltro, le autorità del Regno d’Italia si dimostrarono gelose della propria giurisdizione anche in materia di controllo della stampa. Sguarnita della collaborazione del ‘braccio secolare’ (e dunque impossibilitata a compiere sequestri od a comminare pene pecuniarie), la Congregazione dell’Indice assistette anche ad un’eterogenesi dei fini: le poche condanne finirono in molti casi per favorire la diffusione dei testi garantendo alle opere incriminate notorietà e interesse (come avvenne di fatto per quelle di Gabriele D’Annunzio). Non mancò chi, ironicamente, volle scrivere alle autorità del dicastero per ‘ringraziare’ dell’inserimentonell’Indice. Nel complesso le personalità messe sotto esame non poche volte furono di profilo minore. I preti, in particolare,risultarono i principali destinatari del monitoraggio della Congregazione e comunque le figure più sanzionabili dal dicastero.

L’attività di controllo censorio da parte dell’autorità ecclesiastica suscitò spesso timori e acredine, sia per la scelta della Congregazione di non rivelare le ragioni della condanna con una chiara indicazione delle affermazioni erronee sia per la prassi di tenere all’oscuro l’autore inquisito e di impedirgli una sua qualsivoglia difesa (salvo il caso di alcune eccezioni, quale quella offerta a A. Rosmini per intervento diretto e personale di Pio IX).

Tra i documenti del dicastero meritevoli di menzione e di studio un posto particolare meritano i voti, ossia i pareri scientifici redatti dai consultori per la messa all’Indice delle opere. Alcuni di essi sono particolarmente sintomatici e rivelatori del metodo, della mentalità e delle finalità dei funzionari del dicastero: si pensi a quelli sul volumeStato e Chiesa  di Marco Minghetti (personaggio a lungo presente sulla scena politica italiana), quelli sulle opere di Giacomo Leopardi e sul Santo di Antonio Fogazzaro ma anche ai voti sulle opere di personaggi risorgimentali quali Filippo De Boni e Terenzio Mamiani della Rovere. Interesse suscita anche la censura sull’opera di Giuseppe Ferrari, filosofo della rivoluzione e tra i più noti esponenti dell’anticlericalismo risorgimentale, poi deputato in Parlamento dopo l’unificazione.

Per un’adeguata conoscenza del dicastero, futuri studi dovrebbero mettere a punto una proposografia dei funzionari, dei consultori e dei membri del dicastero unita alla ricostruzione degli interventi e delle consulenze prodotte nello svolgimento delle rispettive mansioni. Andrebbe ad esempio ricostruita l’attività di don Giuseppe Pennacchi (1831-1913), del cappuccino Pie de Langogne (1850-1914) o del servita Gavino Secchi Murro (1794-1868): le loro analisi e la loro opera di censori fu richiesta in misura molto maggiore rispetto a quella degli altri consultori. Quali ragioni spinsero le autorità del dicastero ad avvalersi in modo prevalente dell’opere di tali consulenti?

Lungo, complesso e a tratti tortuoso ma utile per conoscere l’attività della Congregazione, le sue relazioni e gli eventuali conflitti di competenze con il Sant’Uffizio,fu il caso del gesuita fondatore della Civiltà Cattolica Carlo M. Curci. La produzione intellettuale di Curci fu monitorata dai due dicasteri volta per volta, libro per libro, senza alcuna apparente collaborazione tra i due organismi vaticani. Gli ecclesiastici chiamati allo studio dei suoi testi furono consultori ora dell’una, ora dell’altra, ora di entrambe le Congregazioni (Smeulders, Bausa, De Martinis, Guarino, Eschbach) ma non è ancora definito in quale misura si avvalsero degli studi dei precedenti censori e se, in certa misura, si esercitassero influenze reciproche.

Non trascurabile appare l’impatto dell’Indice dei libri proibiti sulla mentalità e sul costume del clero e dei cattolici in Italia. Non è sempre facile definire cosa abbia spinto a una denuncia quanti si decidevano a una segnalazione, se cioè essi fossero mossi dall’intento di preservare la fede da testi infetti o sentissero la pressione inconsciamente esercitata da obiettivi personali e/o da eventuali risentimenti. Si ha a volte la percezione che nei denuncianti fossero in movimento antiche gelosie e rivalità, a volte inconfessabili e inconfessati malumori, per il successo di validi colleghi e di colti ecclesiastici.

Una considerazione specifica merita l’incidenza dei divieti di lettura emanati dall’Indice. Gli studi mostrano che, soprattutto a partire dall’unificazione, essi furono ora ignorati ora elusi abilmente dai lettori. Ciò, tuttavia, non significò l’irrilevanza dell’attività del dicastero.  A volte, il pericolo di una condanna spingeva l’autore a fare ricorso all’anonimato o allo pseudonimìa; in altre circostanze, indirizzava l’autore verso un atteggiamento prudente fino al conformismo. Per non dire di quella autocorrezione dei testi e dell’autocensura frutto delle tensioni tra autori ed editori che costituisce interessanti e complessi percorsi di ricerca ancora inesplorati.

Fonti e Bibl. essenziale

G. Martina, Pio IX (1867-1878), Editrice Pontificia Università Gregoriana, Roma 1990, 282-288; H. Wolf, Storia dell’Indice. Il Vaticano e i libri proibiti, Donzelli Editore, Roma 2006; M.I. Palazzolo, La perniciosa lettura. La Chiesa e la libertà di stampa nell’Italia liberale, Viella, Roma 2010; E. Rebellato, v. Congregazione dell’Indice, in Dizionario storico dell’Inquisizione, diretto da A. Prosperi, 4 vol., Pisa 2010, 386-388; M. Dissegna, Italiani all’Indice. Le opere messe all’Indice dei libri proibiti dall’Unità d’Italia in poi, in A. Melloni (a cura di), Cristiani d’Italia. Chiese, società, Stato, 1861-2011, Istituto dell’Enciclopedia Italiana, vol. II, Roma 2011, 1514-1528; per alcune considerazioni desumibili da un catalogo di Indici dei libri proibiti: D. Pattini-P. Rambaldi, Index Librorum prohibitorum. Note storiche attorno a una collezione, Aracne editrice, Roma 2012; A. Cifres-D. Ponziani, La censura degli archivi del Sant’Ufficio e dell’Indice, «Dimensioni e problemi della ricerca storica», 1 (2012), 297-321; M. Brera, Gabriele d’Annunzio e la Santa Sede. Il processo e la condanna del 1911 nei documenti della Congregazione dell’Indice, «Quaderni del Vittoriale», Nuova serie 8 (2012), 27-43; Id., Il Poeta, il Papa e il Dittatore. L'”Opera omnia” di Gabriele d’Annunzio all’Indice e i difficili rapporti tra Stato e Chiesa all’ombra del Concordato, «Quaderni del Vittoriale», Nuova serie 9 (2013), 43-67; sullo sfondo di alcune questioni utile la lettura di P. Delpiano, Liberi di scrivere. La battaglia per la stampa nell’età dei Lumi, Latenza, Bari 2015. Indispensabile l’opera di H. Wolf, Prosopographie von Römischer inquisition und index kongregation, 1814-1917, 2 vol., Ferdinand Schöningh Verlag, Paderborn – München – Wien – Zürich 2005; ora si veda anche il più recente Id., Prosopografphie von Römischer Inquisition und Index congregation 1701-1813, 2 vol., Ferdinand Schöningh Verlag, Paderborn – München – Wien – Zürich 2011.

Immagine: Edizione dell’Indice dei Libri proibiti (anno 1564).


LEMMARIO




Congregazione per gli Istituti di vita consacrata e le Società di vita apostolica - vol. II


Autore: Alejandro M. Dieguez

Degli affari riguardanti i religiosi nell’Italia unitaria la S. Sede continuò ad occuparsi sia per mezzo della Congregazione dei Vescovi e Regolari, che della Congregazione della disciplina regolare e della Congregazione sopra lo stato dei Regolari, che con la prima condividevano lo stesso prefetto e segretario. Solo nel 1906 Pio X concentrò tutta la materia dei religiosi nella Congregazione dei Vescovi e Regolari, poco prima di affidarla alla nuova ed autonoma Congregazione dei Religiosi (negotiis religiosorum sodalium praeposita), istituita con la riforma della curia (cost. Sapienti consilio, del 28 giugno 1908) e confermata dal CIC 1917. Pio XII gli affidò poi la competenza sugli istituti secolari (cost. Provida Mater, del 2 febbraio 1947), quindi con la riforma della curia romana di Paolo VI (cost. Regimini Ecclesiae universae, del 15 agosto 1967) il dicastero fu denominato Congregazione per i Religiosi e gli Istituti Secolari, strutturando la sua attività in due sezioni paritetiche dedicate a queste due forme di vita consacrata. La riforma di Giovanni Paolo II (cost. Pastor bonus, del 28 giugno 1988) gli assegnò il nome attuale di Congregazione per gli istituti di vita consacrata e le società di vita apostolica.

Oltre alle questioni di cui la Congregazione della disciplina regolare (1694-1906) si occupava in questo periodo (novizi e noviziati, pratica del voto di povertà, facoltà di ottenere benefici ecclesiastici, acquistare beni, alienare oggetti ritenuti inutili per sostentare le opere di restauro edilizio, fare testamento, secolarizzazione ed altri indulti e dispense), dopo il 1872 il dicastero dovette affrontare i complessi problemi che la soppressione «cum violenta manu» (cioè per effetto della legislazione «eversiva») degli ordini religiosi aveva creato alla disciplina regolare in Italia. Esortò quindi i superiori maggiori a fare tutti gli sforzi per confortare i religiosi «dispersi nel secolo» e ripristinare la vita comune separando, se necessario, dagli istituti, «quelle disgraziate individualità, che, perduto lo spirito di vocazione ed il santo timor di Dio, anziché profittare della tribolazione per emendarsi, ne usarono per emancipare senza ritegno detestabili passioni» (1872).

La Congregazione sopra lo stato dei Regolari (1846-1906), istituita per migliorare la disciplina, l’osservanza e lo stato dei religiosi, andrà incontro ad un progressivo decadimento nel periodo unitario italiano, affrontando solo affari di ordinaria amministrazione (dubbi circa la validità di alcuni voti solenni, recezione di elenchi e relazioni concernenti l’ammissione al noviziato e altre questioni disciplinari).

La Congregazione dei Vescovi e Regolari, per la parte relativa ai religiosi, esercitò oltre a funzioni amministrative anche quelle giudiziarie, trattando sia cause contenziose che criminali. Di particolare importanza, soprattutto in Italia, fu il compito di concedere l’approvazione ai nuovi istituti religiosi, ai quali impose l’obbligo di trasmettere relazioni periodiche sul proprio stato (prima triennali, poi, con il Codice del 1917, quinquennali), codificando la normativa con le Normae secundum quas… del 1901.

Dal 1908 la Congregazione dei Religiosi continuò anzitutto ad occuparsi, come si veniva già facendo dal 1890 con una apposita commissione, dell’esame delle richieste di approvazione pontificia dei nuovi istituti, che nel Novecento conobbero una particolare fioritura (decreto di lode, decreto di approvazione definitiva degli istituti, decreto di approvazione delle costituzioni).

Continuò ad esercitare la sua giurisdizione sulle persone giuridiche e fisiche, cioè sugli istituti religiosi e sui loro membri, per quanto riguardava l’erezione, costituzione, approvazione, divisione, soppressione degli istituti; il loro governo, con l’elezione, scadenza, mutazione, rimozione dei superiori; la disciplina interna ed esterna: formazione e studi, amministrazione dei beni, concessione di privilegi e dispensa dalle norme canoniche comuni e dalle costituzioni approvate dalla S. Sede, e sanazione delle invalidità. Le stesse competenze, esercitò, mutatis mutandis, nei confronti delle società di vita comune senza voti e degli istituti secolari. In seguito ai Patti Lateranensi il dicastero emanò ripetutamente precise istruzioni affinché gli istituti avviassero le pratiche occorrenti per ottenere dallo Stato italiano il riconoscimento della personalità giuridica (1930, 1935).

Per quanto riguarda gli studi dei religiosi, nel 1931 la congregazione ribadì in modo riservato il divieto di iscrizione alle università civili, indicando l’Università cattolica del S. Cuore di Milano e l’Istituto apostolico del Sacro Cuore di Castelnuovo Fogliani come istituzioni da preferire, rispettivamente, per gli studi superiori dei religiosi e delle religiose d’Italia. Una particolare attenzione fu rivolta a diversi ambiti specifici dell’apostolato dei religiosi: nel 1932 si notificò a tutti i superiori la costituzione di un Ufficio centrale per le scuole ed istituti cattolici in Italia presso la Congregazione dei Seminari e delle Università degli Studi. Con circolare dello stesso anno si esortarono gli istituti femminili a conformarsi quanto prima alle prescrizioni della legislazione corrente per le infermiere, «per non esporsi al pericolo certo di vedersi limitate ad opere secondarie e puramente materiali nell’assistenza ai malati»; veniva quindi istituito un Ufficio scuole-convitto per infermiere che promuovesse l’apertura di tali istituti professionali per religiose infermiere e, con altra circolare del 1940, si indicavano delle prudenti “misure di riserva” alle quale le stesse religiose dovevano attenersi nell’assistenza ai malati di sesso maschile.

Nel 1953 fu istituito presso il dicastero un Segretariato per le monache d’Italia, il quale si prodigò per offrire sostegno e assistenza alle monache e religiose inferme. Nel clima di rinnovata partecipazione civile alla vita del Paese, un pressante appello a tutti i superiori religiosi italiani fu rivolto con circolare del 1952, in vista delle elezioni politiche dell’anno successivo, affinché si accertassero della regolarità della posizione anagrafica ed elettorale dei singoli dipendenti. Allo stesso motivo si deve probabilmente il divieto imposto ai superiori nel 1954 di non trasferire all’Estero, fino a nuovo ordine, religiosi e religiose italiani.

La congregazione sostenne poi la costituzione di diversi raggruppamenti per affinità di attività o di apostolato (come le Federazioni italiane di Religiose ospedaliere, di Religiose educatrici e Religiose rieducatrici, ecc.) e promosse congressi e corsi di aggiornamento. In seguito al primo Congresso generale sugli stati di perfezione del 1950, per dare nuovo vigore alla vita religiosa italiana, favorì la costituzione dell’Unione delle superiori maggiori d’Italia e della Conferenza italiana superiori maggiori. Promosse, in seguito al Concilio Vaticano II e in armonia con i superiori maggiori, uno spirito di maggiore fraternità e collaborazione tra gli istituti e un maggiore coordinamento con la gerarchia ecclesiastica. Oltre ad essere stata la prima congregazione romana ad avere nel proprio organico delle donne – suore di diversa nazionalità –, dal 2004 una religiosa italiana è assunta alla carica di sottosegretaria.

Anche se non sempre è possibile distinguere delle norme esplicitamente varate per l’Italia tra le disposizioni generali del dicastero, molte di queste hanno avuto origine da situazioni verificatesi a livello nazionale, oltre ad avere poi una singolare ricaduta sull’Italia. Si pensi ad esempio al notevole influsso esercitato sulla vita religiosa italiana da atti come le istruzioni postconciliari Renovationis causam sull’aggiornamento della formazione alla vita religiosa e Venite seorsum sulla vita contemplativa e la clausura monacale (1969) e l’istruzione Mutuae relationes sui rapporti fra vescovi e religiosi nella Chiesa (1978). Come per altri dicasteri pontifici, il filo conduttore nell’interazione con l’Italia sembra volgere da una posizione inizialmente difensiva rispetto alla novità dello Stato unitario ad un atteggiamento di promozione e stimolo pastorale, secondo le nuove esigenze sociali, risentendo di volta in volta degli orientamenti dei diversi pontificati e del proprio personale direttivo.

Fonti e Bibl. essenziale

Enchiridion de statibus perfectionis, vol. I: Documenta Ecclesiae sodalibus instituendis, Officium Libri Catholici, Roma 1949; N. Del Re, La curia romana. Lineamenti storico-giuridici, Edizioni di storia e letteratura, Roma 19984, 174-182. Si vedano, all’interno della voce Sacre Congregazioni Romane del Dizionario degli istituti di perfezione, i capitoli dedicati da Lajos Pásztor alla S.C. dei Vescovi e Regolari (DIP, VIII, coll. 188-192), alla S.C. della Disciplina Regolare (ibid., coll. 210-215), alla S.C. sopra lo Stato dei Regolari (ibid., coll. 223-229), e quello redatto da Jesús Torres sulla S.C. per i Religiosi e gli Istituti secolari (ibid., coll. 229-251); L’attività della S. Sede, 1939-2005; F. Jankowiak, La Curie romaine de Pie IX à Pie X. Le gouvernement central de l’Église et la fin des États pontificaux (1946-1914), École française de Rome, Rome 2007, 578-579; L. Leidi, La Congregazione per gli Istituti di vita consacrata e le Società di vita apostolica. Ruolo, competenze e funzionamento, in Ephemerides iuris canonici 50 (2010), 249-278; D. Salvatori, Congregación para IVC y SVA, in Diccionario general de derecho canónico, II, Universidad de Navarra-Thomson Reuters Aranzadi, Navarra 2012, 552-554.


LEMMARIO




Congregazione per i Vescovi - vol. II


Autore: Alejandro M. Dieguez

L’attività dell’attuale Congregazione per i Vescovi all’indomani dell’Unità d’Italia, è da indagare sotto un duplice aspetto. Quello della Congregazione Concistoriale, istituita da Sisto V con la costituzione Immensa aeterni Dei del 22 gennaio 1588 per la preparazione degli atti relativi alle decisioni da sottoporre in concistoro per l’approvazione formale dei cardinali, e quello della Congregazione dei Vescovi e Regolari, per quanto riguarda la competenza sui vescovi, da Pio X affidata alla Concistoriale con la riforma della curia romana.

Con la Sapienti consilio del 29 giugno 1908, appunto, la Concistoriale uscì notevolmente rafforzata: oltre all’antico compito di predisporre gli atti preparatori ed esecutivi per i concistori, acquistò giurisdizione personale e completa sui vescovi: preparava gli atti di provvista, sceglieva i candidati e li proponeva al pontefice per l’approvazione e la nomina; sorvegliava la loro attività, esercitando la vigilanza e la tutela sul governo delle diocesi e sullo stato economico delle mense vescovili ed esaminando le relazioni diocesane presentate alla S. Sede ogni cinque anni. Provvedeva inoltre alla nomina dei coadiutori, ausiliari, amministratori apostolici e altri ordinari particolari, come quello militare. Quanto alle diocesi (incluse le prelature ed abbazie nullius), la sua competenza si estendeva dall’erezione, unione, soppressione delle stesse, alla rettifica dei confini, alla costituzione dei capitoli cattedrali o collegiali e ad ogni provvedimento riguardante la costituzione, conservazione e stato di esse – nominando, nel caso, dei visitatori apostolici –, nonché la costituzione delle province ecclesiastiche e delle regioni conciliari.

Dal punto di vista territoriale esercitava la sua giurisdizione sulle diocesi latine di diritto comune. Invece ogni volta che per la nomina dei vescovi e l’erezione delle diocesi occorreva trattare con i governi civili in base a concordati o convenzioni, come nel caso dell’Italia in seguito ai Patti Lateranensi del 1929, la competenza spettava alla Congregazione degli Affari Ecclesiastici Straordinari, alla quale la Concistoriale subentrava solo per la redazione degli atti esecutivi e per la giurisdizione sul governo diocesano.

La Concistoriale ebbe inoltre il compito di vigilanza sui seminari, i collegi e le scuole dipendenti dall’autorità ecclesiastica dal 1908 al 1915, quando fu istituita la nuova Congregazione dei Seminari e delle Università degli Studi. Nel 1912, Pio X decretava un ulteriore ampliamento delle competenze della Concistoriale affidandole l’assistenza spirituale di tutti gli emigranti di rito latino ed il controllo dell’emigrazione dei sacerdoti. Con la costituzione di riforma generale della Curia romana Regimini Ecclesiae universae del 15 agosto 1967, Paolo VI confermava sostanzialmente tali disposizioni, ridefinendo però alcune delle competenze del dicastero e attribuendogli l’attuale denominazione di Congregazione per i Vescovi.

Rispetto all’Italia unita, l’attività della Congregazione dei Vescovi e Regolari inizialmente sembra attestarsi su posizioni difensive, davanti al «nuovo ordine delle cose». Fu costretta anzitutto ad occuparsi di riordinare tutta la materia beneficiale, sconvolta «ob usurpationes et gravamina bonorum Ecclesiae in Italia existentium» (1871, 1873, 1881). Dovette poi fare i conti con l’ingerenza governativa nella nomina dei vescovi e con il preteso diritto di regio patronato sulle chiese cattedrali di Italia (1878). In seguito alle nuove leggi sulle confraternite ed altre opere pie, intervenne a difesa di queste istituzioni, «da sacrilego spoglio colpite e defraudate dei mezzi necessari a religiosamente adempiere le inviolabili volontà dei fondatori» (1891).

Della formazione e disciplina del clero italiano si occupò ripetutamente, impartendo disposizioni sulla sacra predicazione per condannare l’opera dei «predicatori ammodernati», responsabili di portare sul pulpito «quelle pompose dicerie che trattano argomenti più speculativi che pratici, più civili che religiosi» (1894). «Ob mutatas rerum vices in Italia», emanò il divieto per il clero secolare e regolare di frequentare le università statali (1896), mentre della formazione e disciplina dello stesso clero, davanti al serpeggiare di una «cotal brama d’innovazioni inconsulte», ebbe cura sia sorvegliando l’adempimento di quanto prescritto dalle encicliche pontificie Fin dal principio (1902) e Pieni l’animo (1906), sia promulgando il Programma generale di studi per uniformare e migliorare l’insegnamento nei seminari italiani (1907) e le conseguenti Norme per l’ordinamento educativo e disciplinare degli stessi istituti (1908). Attenzione che con la Concistoriale assunse una dimensione piuttosto scrupolosa, vietando ad esempio agli ordinari di Italia l’introduzione nei seminari della Storia della chiesa antica di Louis Duchesne (1911) ed indicando con altra apposita circolare i libri e i manuali da dare in lettura ai seminaristi (1913).

Su aspetti più prettamente disciplinari il dicastero intervenne disciplinando l’afflusso del clero secolare delle diocesi meridionali italiane alla città di Napoli (1908), vietando ai chierici di prendere parte all’amministrazione di banche e casse rurali (1910), di accedere alle cariche di consigliere comunale e provinciale e di appartenere ai sindacati (1914). Davanti a casi estremi di violazione della disciplina ecclesiastica reagì energicamente fulminando l’interdetto alle città di Adria (1909) e Galatina (1913), in seguito all’aggressione fisica subita dai rispettivi vescovi.

Rispose agli sconvolgimenti cagionati dalla Grande Guerra impartendo direttive sul clero militarizzato (1916-17) e istituendo un ordinario comune per i sacerdoti e i seminaristi profughi, internati o dispersi nelle varie diocesi di Italia (1918). Alla fine del secondo conflitto mondiale, con una circolare del 1945 assunse dirette informazioni dai vescovi italiani circa l’entità dei danni provocati dagli eventi bellici a persone e cose nelle loro diocesi. Le gravi strettezze economiche della maggior parte del clero italiano furono oggetto di alcuni provvedimenti straordinari tendenti a far sì che «chi serve l’altare possa e debba vivere dell’altare» (1919).

Dal 1908 al 1929, la Concistoriale si occupò dell’elezione dei vescovi in Italia, provvedendo le sedi vacanti con soggetti che possedessero capacità organizzative per far fronte alla scristianizzazione della società per mezzo di una attività pastorale ispirata ai criteri definiti da Pio X, dello sviluppo dell’associazionismo cattolico e della repressione di ogni indizio di modernismo.

Fino al 1970, quando fu costituita l’apposita commissione pontificia, la Concistoriale si prese cura poi delle problematiche legate al fenomeno migratorio con circolari ai vescovi italiani sulla cura dei migranti (1914-15) e ai vescovi calabresi sulla costituzione di patronati ecclesiastici in favore degli stessi (1916), con l’istituzione di un prelato per l’emigrazione italiana (1920) e con la “tessera ecclesiastica” dell’emigrante (1923). Con circolare del 1947 il dicastero chiese ai vescovi italiani di presentare “sacerdoti di vita intemerata” e “pronti al sacrificio” per l’assistenza agli emigranti. Promosse e coordinò inoltre diverse iniziative per l’apostolato del mare, dell’aria e dei nomadi. La giurisdizione dell’ordinario militare e dei cappellani militari in Italia fu invece definita con due decreti (1925, 1940).

Per quanto riguarda le conferenze episcopali italiane, sanzionate già a livello regionale da una circolare del 1889 della Congregazione dei Vescovi e Regolari, fu disciplinata la celebrazione dei concili regionali (1919) e approvato lo statuto della nuova Conferenza Episcopale Italiana (1965). Per rispondere meglio alle mutate esigenze della cura animarum da una parte invitò gli ordinari italiani ad una migliore distribuzione del clero, esortando a soccorrere generosamente le diocesi che ne erano sprovviste (1951), dall’altra sancì diversi riordinamenti destinati a dare alle diocesi «una dimensione demografica ed ecclesiastica sufficiente» per rispondere alle esigenze del diritto canonico e dei bisogni pastorali moderni (1966, 1987).

Come per altre congregazioni romane, la linea dominante nell’interazione con l’Italia sembra evolvere da una posizione di iniziale resistenza alla novità dello Stato unitario ad una posizione più attenta alle nuove esigenze pastorali e sociali, ovviamente risentendo di volta in volta degli orientamenti dei diversi pontificati e del personale direttivo del dicastero.

Fonti e Bibl. essenziale

M. Costalunga, La Congregazione per i Vescovi, in La Curia romana nella Cost. Ap. «Pastor Bonus», Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 1990, 281-292; N. Del Re, La Curia romana. Lineamenti storico-giuridici, Edizioni di storia e letteratura, Roma 19984, 136-145; G. Vian, La riforma della Chiesa per la restaurazione cristiana della società. Le visite apostoliche delle diocesi e dei seminari d’Italia promosse durante il pontificato di Pio X (1903-1914), Herder, Roma 1998, 241-934; F. Jankowiak, La Curie romaine de Pie IX à Pie X. Le gouvernement central de l’Église et la fin des États pontificaux (1846-1914), École française de Rome, Rome 2007, 573-576; L’attività della S. Sede, 1939-2005; A.R. Baker, Congregación para los obispos, in Diccionario general de derecho canónico, II, Universidad de Navarra-Thomson Reuters Aranzadi, Navarra 2012, 554-556; A.M. Dieguez, Governo della Chiesa e vigilanza sulle chiese nelle plenarie della Congregazione Concistoriale. Proposte degli eminentissimi padri e decisioni del Santo Padre, in Le gouvernement pontifical sous Pie XI: pratiques romaines et gestion de l’universel, a cura di Laura Pettinarioli, École française de Rome, Roma 2013, 585-606.


LEMMARIO




Congregazione per il Clero - vol. II


Autore: Alejandro M. Dieguez

Così denominata dalla cost. Regimini Ecclesiae Universae di Paolo VI, del 15 agosto 1967, la Congregazione del Concilio, venne istituita per curare la retta interpretazione e applicazione delle norme del Concilio di Trento. Anche dopo l’unità d’Italia continuò ad occuparsi prevalentemente della disciplina ecclesiastica del clero secolare e del popolo cristiano, dirigendo l’istruzione catechistica e curando l’osservanza dei precetti di vita cristiana, esercitando la sua giurisdizione su parroci, canonici, confraternite, pie associazioni, azione cattolica, legati pii, benefici, offici, beni ecclesiastici, tasse e tributi. Oltre ad occuparsi della revisione degli atti dei concili e delle conferenze episcopali nazionali e regionali, curò l’esame delle relazioni ad limina ma solo fino al 1908, quando tale compito fu devoluto alla Congregazione Concistoriale dalla Sapienti consilio, che tolse al Concilio buona parte delle sue attribuzioni tradizionali. Anche se strutturato formalmente in tre sezioni specifiche solo dal 1929, il dicastero esplicitò la sua attività nei tre campi della disciplina del clero e dei fedeli, dell’attività pastorale e catechistica e dell’amministrazione dei beni ecclesiastici.

Occupandosi della disciplina del clero in seguito alla costituzione dello Stato italiano, dovette affrontare casi non privi di implicazioni politiche, come la situazione giuridica di un canonico condannato al carcere «quia adversus actuali gubernandi ordini et quia obsequens aulae Romanae» (1868) o quello, ancor più rumoroso, del “processo del caffè” intentato dalla curia milanese contro don Davide Albertario, noto e scomodo campione dell’intransigenza, per aver infranto la legge del digiuno eucaristico (1884-1885). Dovette poi regolare l’emigrazione del clero italiano in America (1890), ribadire l’impossibilità di nominare due vicari generali nella stessa diocesi (1893-1894), condannare l’abuso della celebrazione di messe come merce di scambio per l’acquisto di libri, di suppellettile sacra o di abbonamenti a giornali (1893, 1897).

Fino al 1908, quando questi due compiti furono poi concentrati nella Concistoriale, esercitò la sua sorveglianza sul governo pastorale dei vescovi tramite l’esame sia delle relazioni quinquennali (ad limina) che, per un breve quadriennio, delle relazioni sulla visita apostolica alle diocesi di Italia, indette da Pio X per mezzo del Concilio in modo da poter conoscere, nelle mutate condizioni delle popolazioni, «quid boni ac meriti alicubi sit, aut quid forte reprehensione dignum» (1904). Per quanto riguarda i concili e le conferenze episcopali regionali – nell’Italia postunitaria non furono celebrati concili nazionali e la Conferenza Episcopale Italiana mosse i primi passi soltanto nel secondo dopoguerra – ribadì nel 1932 la necessità di convocare ogni anno le conferenze episcopali nelle singole regioni ecclesiastiche italiane e di rimettere le deliberazioni alla stessa congregazione per l’esame dei relativi decreti.

Nell’ambito della tutela della disciplina dei fedeli, cercò inizialmente di contrastare il proselitismo protestante, soprattutto a Roma (un questionario sull’argomento fu diramato agli ordinari d’Italia nel 1947), poi con l’istituzione del Centro per la Preservazione della fede nel 1959 la sua attività attenuò il tono polemico per assumere un compito di illustrazione dei principi della dottrina cattolica e di promozione della cultura biblico-religiosa. Dal 1961 si occupò anche del fenomeno turistico per provvedere alle cui esigenze fu istituito nel 1966 un apposito Ufficio per la pastorale del turismo. Seguì inoltre con particolare attenzione il fenomeno della moda, il problema del comunismo e della partecipazione dei credenti al Partito comunista.

Un altro importante ambito di impegno della congregazione è stato quello della promozione dell’insegnamento catechistico: per dargli un maggiore impulso diramò un questionario ai vescovi italiani sull’insegnamento della dottrina cristiana ai fanciulli e agli adulti (1920), ribadendone l’importanza con altra circolare in seguito al ripristino dell’insegnamento religioso nelle scuole primarie operato dal Fascismo (1924) e promulgando un testo nazionale per le scuole primarie d’Italia (1931). Istruzioni e norme per lo stesso insegnamento nelle scuole pubbliche italiane furono diramate invece con una circolare del 1930, mentre con un decreto del 1931 furono modificate alcune formule del Catechismo della dottrina cristiana di Pio X, in seguito al riconoscimento degli effetti civili al sacramento del matrimonio, sancito dai Patti Lateranensi. Con decreto del 1935 istituì l’obbligo per gli ordinari di trasmettere una relazione quinquennale sull’insegnamento catechistico. Oltre alla normale e continua vigilanza sull’insegnamento religioso nelle scuole statali con la relativa revisione ed approvazione dei testi, promosse congressi, convegni e corsi per lo studio dei problemi catechistici e per l’approfondimento della metodologia.

In seguito agli eventi che decretarono l’unità d’Italia, la Congregazione del Concilio fu chiamata ad intervenire in difesa dei beni ecclesiastici «a Praedonibus publicis usurpata» con le leggi che, ad esempio, consentivano di impossessarsi dei fondi di iuspatronato cedendo al fisco la terza parte e di abolire le decime ecclesiastiche (1867-1887). Prese poi energicamente posizione davanti ai tentativi di introdurre nelle province ecclesiastiche veneta e milanese la prassi dell’elezione popolare dei parroci, appena concessa per le diocesi della Svizzera (1874).

Dopo i Patti Lateranensi diramò istruzioni relative all’amministrazione dei beni beneficiari ed ecclesiastici in Italia, stabilendo precise norme circa la consegna della gestione economale, la custodia di titoli e valori, il funzionamento degli uffici amministrativi diocesano e centrale (1929-1930); norme richiamate con circolare del 1960, onde evitare inconvenienti «in una materia così complessa e delicata». Si occupò del patrimonio artistico delle chiese italiane emanando nel 1939 disposizioni per la sua custodia e conservazione, mentre alcune norme circa il prestito del materiale conservato negli archivi ecclesiastici furono comunicate successivamente con lettera del dicembre 1952. Inoltre esercitò sorveglianza sugli enti ecclesiastici in Italia, in particolare sulla gestione delle casse diocesane, delle casse rurali e banche cattoliche, dei santuari (il prefetto del Concilio fu alla guida anche della Congregazione Lauretana, tacitamente soppressa dal CIC del 1917 e ripristinata come commissione da papa Giovanni XXIII nel 1960), e delle basiliche palatine (Acquaviva, Altamura, Bari, Benevento e Manfredonia).

Nel periodo della ricostruzione dopo la seconda guerra mondiale, il dicastero si impegnò a favorire la riparazione dei danni bellici e la costruzione di nuove case parrocchiali. Per consentire la dotazione di nuove parrocchie, dal 1955 permise l’esecuzione di stralci di terreno dai benefici meglio provvisti in Italia. Approvò poi la conversione della proprietà fondiaria ecclesiastica sia per assecondare la politica agraria italiana che per favorire lo sviluppo dell’edilizia popolare, procurando comunque nuovi e utili investimenti.

Nel 1963, in seguito alla entrata in vigore del nuovo catasto edilizio in Italia e all’applicazione di nuove imposte erariali, intervenne con determinazione affinché fossero tenuti in dovuta considerazione i fini degli stabili, oltre alla carenza dei mezzi in cui si trovavano gli enti tassati, costituiti a scopo di religione, di cultura, di carità, di istruzione e formazione cristiana del popolo. Alla formazione del personale delle curie vescovili provvide con il corso di prassi amministrativa canonica tenuto presso lo studio annesso alla congregazione. Un obiettivo fortemente perseguito dal dicastero sin dagli anni Venti fu il miglioramento della vita spirituale e materiale del clero in Italia: vi furono infatti tentativi di imporre delle pensioni o tributi sui benefici pingui, di aprire una casa di riposo per il clero anziano e povero e di riordinare la distribuzione del clero nell’Italia meridionale. Raccogliendo il contributo delle diocesi italiane, favorì l’apertura nel 1936 del “sanaclero” di Arco per i sacerdoti poveri e ammalati.

Dopo un primo progetto di “previdenza per il clero in Italia” del 1924, nel 1941 il Concilio provvide ad istituire una “Cassa di sovvenzioni per il clero bisognoso-invalido in Italia”. Oltre a sostenere l’attività della Federazione tra le associazioni del clero affinché fosse sempre rispondente alle esigenze dei tempo, seguì con attenzione le fasi parlamentari della legge civile che nel 1961 istituì un Fondo per l’assicurazione di invalidità e vecchiaia del clero in Italia. Dopo la promulgazione dei decreti conciliari e delle relative norme esecutive nel 1966, il dicastero si adoperò per adeguare la sua giurisprudenza e la sua prassi alle nuove direttive e allo spirito del Concilio Vaticano II. Come per altre congregazioni romane, la politica ecclesiastica nei riguardi dell’Italia sembra evolvere da una posizione inizialmente difensiva rispetto alla novità dello Stato unitario ad un atteggiamento di promozione e stimolo, secondo le nuove esigenze pastorali e sociali, gli orientamenti dei diversi pontificati e del proprio personale direttivo.

Fonti e Bibl. essenziale

La Sacra Congregazione del Concilio. Quarto centenario dalla fondazione (1564-1964). Studi e ricerche, Città del Vaticano 1964; N. Del Re, La curia romana. Lineamenti storico-giuridici, Edizioni di storia e letteratura, Roma 19984, 149-162; L’attività della S. Sede, Città del Vaticano 1939-2005; F. Jankowiak, La Curie romaine de Pie IX à Pie X. Le gouvernement central de l’Église et la fin des États pontificaux (1846-1914), École française de Rome, Rome 2007, 577-578; M. Piacenza, La Congregazione per il Clero, in Ephemerides Iuris Canonici 50 (2010) 79-120; D. Salvatori, Congregación para el Clero, in Diccionario general de derecho canónico, II, Universidad de Navarra-Thomson Reuters Aranzadi, Navarra 2012, 532-535; A.M. Dieguez, La sollecitudine pastorale della Chiesa nelle Plenarie della Congregazione del Concilio durante il pontificato di Pio XI (1922-1939), in Studi in onore del Cardinal Raffaele Farina, Biblioteca Apostolica Vaticana, Città del Vaticano 2013, 497-522.


LEMMARIO




Congregazioni religiose femminili - vol. I


Autore: Gaetano Greco

Con il termine congregazione religiosa femminile si designa un istituto religioso, i cui membri sono dediti alla vita attiva nella società e sono vincolati all’osservanza di voti semplici, perpetui o temporanei, con esclusione del voto della clausura. A proposito di queste famiglie si è parlato di un «terzo stato» femminile. Con questo paradigma s’intende una condizione della donna diversa sia dal matrimonio (caratterizzato, secondo la tradizione cattolica, dalla vita domestica e dalla funzione procreatrice), sia dal monachesimo (a sua volta caratterizzato dalla vita claustrale e dalla funzione contemplativa): una condizione attiva, incentrata su una vita non vincolata dalle mura del chiostro e dedita all’assistenza, all’educazione, all’insegnamento, al lavoro. Né sono mai mancate, nel corso dei secoli, donne che hanno scelto un’ulteriore strada: la consacrazione, in forma pubblica o anche solo privata, ad una vita religiosa, nella preghiera e nella carità verso il prossimo, conducendo individualmente ma in una dimensione spirituale e materiale ascetica e rigorosa, una vita o da recluse carcerate o dedicandosi alla cura di un edificio sacro. Sono note, a proposito si questa scelta, alcune esperienze medievali dell’Italia centro-settentrionale, come le “devotae” (per esempio s. Bona da Pisa, nella seconda metà del sec. XII) o le “mulieres incarceratae” o “cellane” (si pensi alla beata Verdiana da Castelfiorentino, morta nel 1241). Con aspetti meno radicali, ma con maggior successo, invece, si presenta il fenomeno delle cosiddette “monache di casa” dell’Italia meridionale e insulare, che dimoravano nelle abitazioni familiari e vivevano singolarmente o con i loro parenti, sotto la direzione spirituale di sacerdoti diocesani o, forse più spesso, di regolari. Si tratta di un universo femminile magmatico, dalla diffusione e dalle caratteristiche non sempre definibili: un fenomeno che che è emerso in ambito storiografico come problema di una densa consistenza a proposito dell’epoca moderna e ancora oggi è presente, sotto il manto – allora come ore – di differenti denominazioni.

Venendo più propriamente al terzo stato, già nel Medioevo, oltre alle monache dei chiostri femminili legati agli ordini monastici e mendicanti erano presenti altre figure di religiose, con esperienze di vita a carattere comunitario, come le «ospedaliere», le «oblate», le «pinzochere», le «beghine» ed altre ancora. Oblate e ospedaliere prestavano la loro assistenza negli ospizi e negli ospedali. In parte erano vedove o zitelle, che si offrivano individualmente per servire in questi luoghi pii, ai quali donavano i loro beni in cambio del mantenimento a vita. Come nel resto dell’Europa cristiana, vi erano anche delle comunità femminili più istituzionalizzate: comunità che hanno avuto la capacità di durare nel tempo, nonostante i mutamenti normativi, come le Oblate Ospedaliere Terziarie Francescane di Santa Chiara, al servizio – ancora oggi – dell’Ospedale di S. Chiara di Pisa sorto alla metà del Duecento, o le Oblate Ospedaliere di Santa Maria Nuova, sorte a Firenze fra il 1284 ed il 1288 su ispirazione di una povera serva, Monna Tessa, per assistere gratuitamente le povere inferme. Un istituto contemplativo, ma aperto anche ad iniziative sociali, a partire dall’educazione, fu anche quello delle Oblate del Monastero di Tor de’ Specchi, fondato a Roma nel 1433 da suor Francesca Romana. Né mancarono in Italia esperienze assimilabili al grande movimento europeo del beghinaggio, come dimostra la vicenda delle Umiliate in Lombardia, le cui case talora furono legate ai conventi dei Mendicanti per motivi di opportunità.

Nella società del Basso Medioevo sorsero numerose anche le case del movimento del Terz’ordine regolare (→ voce) femminile degli Ordini Mendicanti. Esemplare, in questo senso, fu il caso della beata Angela da Corvaro, che dal 1397 creò delle case di Terziarie nella cittadina di Foligno. A partire dalla fine del Trecento furono riconosciute formalmente e nel 1428 papa Martino V concesse a ciascuna di queste case il diritto di eleggere una propria superiora, che avesse la facoltà di accogliere le novizie e di accettare le nuove professioni. La mancanza dell’obbligo della clausura consentiva a queste comunità e alle loro sorelle di dedicarsi più facilmente alle attività assistenziali; ma vennero anche sottoposte ad una forte pressione – soprattutto da parte degli Osservanti – per trasformarle in veri e propri monasteri, con la professione dei tre voti (compresa una rigida povertà e la vita in comune) e con l’adozione della clausura. Nel 1487 con il breve Dudum papa Innocenzo VIII dichiarò facoltativa l’accettazione della clausura da parte delle comunità di terziarie: su questa linea si mossero gli organi di governo delle varie congregazioni religiose. Tuttavia, nell’ultimo quarto del XVI secolo anche le terziarie furono costrette a trasformarsi in monache, almeno dove trovarono le risorse finanziarie e i locali adatti per la nuova disciplina a loro imposta; in caso contrario, queste antiche comunità furono condannate all’estinzione (→ Ordini monastici femminili).

Un destino analogo colpì, in Italia e fuori d’Italia, alcuni nuovi istituti femminili, che nel clima della «Riforma cattolica» presero ispirazione dalle nuove famiglie dei chierici regolari per coniugare la vita comunitaria con l’impegno apostolico ed assistenziale nella società. Le Angeliche, la cui nascita intorno al 1530 si deve al barnabita Antonio Maria Zaccaria e a Ludovica Torelli contessa di Guastalla, nonché alla guida spirituale della «divina madre» Paola Antonia Negri, poterono dedicarsi per una quarantina d’anni alle loro opere di apostolato esterno, finché negli anni Settanta non subirono l’imposizione della clausura e della vita contemplativa, al punto che sul finire del Settecento caddero sotto i colpi della soppressione giuseppina dei monasteri femminili giudicati privi di utilità sociale. Estinte nel 1849, risorgeranno secondo l’ispirazione dei loro fondatori solo nel 1879, in un contesto politico, sociale e religioso lontanissimo da quello delle origini. A loro volta, anche le Orsoline, fondate a Brescia da Angela Merici nel 1535 come “luogo pio” dedito all’assistenza delle “incurabili”, non avevano adottato la clausura e, addirittura, molte di loro vivevano presso le rispettive famiglie; tuttavia, nei decenni successivi la gerarchia ecclesiastica riuscì a imporre prima il passaggio del governo delle case dalle vedove alle vergini e, dopo la diffusione della compagnia anche in Francia, la sua trasformazione in un vero ordine monastico femminile, con i voti solenni e la clausura.

Questi fallimenti non devono far dimenticare che, nonostante il trionfo della disciplina claustrale di Pio V e di Gregorio XIII e sebbene fossero degradati a semplici associazioni religiose, anche nella società italiana della Controriforma e dell’Antico Regime da una parte sopravvissero istituti di oblate dedite all’assistenza ospedaliera e alla cura delle fanciulle, dall’altra nacquero nuovi istituti religiosi, che furono coronati da un grande successo, ancorché troppo spesso oscurato nella memoria storica. Come in altre regioni dell’Europa occidentale, queste famiglie avevano alcuni caratteri, che li distinguevano nettamente dagli ordini monastici, tanto sul piano della disciplina, quanto sul piano dell’impegno esistenziale delle religiose. Quest’ultime, infatti, si limitavano a pronunciare voti semplici, talora solo temporanei (persino anno per anno), e non erano vincolate al rigore della clausura, perché le loro attività imponevano di vivere nella società o, almeno, l’apertura delle loro case alla società: l’accoglimento, la cura e l’educazione gratuita delle bambine e fanciulle povere, e talora anche dei bambini orfani, l’istruzione delle ragazze dei ceti più elevati, il recupero di donne “traviate”, l’assistenza ai malati e ai vecchi presso gli ospedali o nei loro stessi domicili. Come nei secoli precedenti, queste comunità si presentavano con un carattere “semi-religioso”: vivevano in comunità, che però non osservavano la clausura (oppure adottavano una sorta di clausura “aperta” per le ospiti ricoverate nelle loro case) e che non di rado contavano pochi membri; pronunciavano voti semplici, talora a carattere temporaneo; mettevano in comunione i beni dotali delle consorelle, privilegiavano il lavoro (anche quello manuale, per mantenere se stesse e i loro assistiti) rispetto alla vita contemplativa e alla preghiera, che, pur presenti, non dovevano ostacolare l’impegno nelle loro varie attività; tendevano a riconoscere il magistero carismatico delle loro fondatrici e delle loro superiori. Certo, le norme adottate da papa Pio V impedivano che fossero riconosciuti come “religiose” le donne che operavano in quegli istituti, le cui regole non prevedessero la professione dei voti solenni e l’adozione della clausura, ma le Congregazioni romane praticavano nei confronti di questi istituti una certa tolleranza, finché papa Benedetto XIII abrogò gli impedimenti formali fra il 1724 e il 1730. Le disposizioni di questo pontefice, poi, furono confermate dalla costituzione apostolica Quamvis justo del 30 aprile 1749 di Benedetto XIV, che, pur essendo rivolta all’istituto delle Dame Inglesi (chiamate anche “Gesuitesse”) di Mary Ward, costituì in seguito il riferimento normativo per le altre analoghe iniziative.

Maggior fortuna conobbero, invece, le Dimesse della Madonna, nate a Vicenza sullo scorcio degli anni Settanta del Cinquecento; tuttavia, si trattava di una compagnia di secolari, che pur conducendo una vita comunitaria, si dedicavano alle opere caritative ed all’insegnamento del catechismo, senza emettere i voti: solo agli inizi del Novecento si trasformeranno in una congregazione religiosa. Un discorso analogo può farsi per le Suore Medee o Suore di S. Giovanni Battista e di S. Caterina da Siena, sorte a Genova nel 1594. Probabilmente, in Italia la prima congregazione religiosa femminile finalizzata all’educazione delle fanciulle povere fu fondata a Firenze nel 1630 da Eleonora Ramirez di Montalvo, con la collaborazione del gesuita Cosimo Pazzi: quelle Ancelle della Santissima Vergine della Divina Incarnazione, che riuscirono a superare indenni la bufera suscitata dagli scandali che di lì a poco travolsero la comunità femminile fondata da Faustina Mainardi. Altre comunità sorsero nei decenni successivi, dalla Pianura Padana alla Sicilia: le compagnie venete di Dimesse della Madonna (da Tiene a Feltre, da Padova a Bergamo, da Verona a Udine), le Brignoline e le Maestre Pie Franzoniane a Genova (rispettivamente nel 1631 e nel 1754), le Oblate Agostiniane del Santo Bambino Gesù (Roma, 1640 c.), le Oblate Sacramentine (Avellino, 1654), le Convittrici del Bambino Gesù a Roma (1662), le Suore Francescane Missionarie d’Assisi (1700), le Oblate di S. Francesco di Sales (inizi del XVIII secolo, a Firenze), le Suore della Beata Vergine Maria del Rosario (Udine, 1705), le Oblate Cistercensi della Carità (Anagni, 1713), le Oblate di Gesù e Maria (Albano Laziale, 1714-1727), le Suore Collegine di Frascati, le Oblate di San Francesco Saverio ad Ariano Irpino (1732), le Figlie della Carità del padre Filippone (Palermo, 1727), ed altre ancora, a lungo trascurate da una storiografia più attenta ai grandi ordini regolari e ai loro rami femminili. Un accenno particolare meritano le Maestre Pie, fondate da Rosa Venerini a Viterbo nel 1685 e introdotte anche a Roma agli inizi del Settecento dalla sua allieva Lucia Filippini, per la loro capacità di irradiarsi anche nei piccoli centri rurali del Lazio e della Toscana in decine e decine di piccole “scuole pie” (ciascuna con soltanto due-tre maestre) dedite all’educazione religiosa ed all’istruzione delle fanciulle povere: la loro diffusione fra le comunità della Maremma ha prodotto in quell’area un tasso di alfabetizzazione femminile relativamente alto già alle soglie della Rivoluzione Nazionale.

Queste piccole, e meno nobili (almeno rispetto ai monasteri di clausura), comunità di vita attiva riuscirono a sopravvivere alla Rivoluzione e a Napoleone, e decollarono definitivamente nei decenni della Restaurazione con la loro risposta vincente alle molteplici esigenze della società italiana: non solo la vasta gamma delle attività assistenziali necessarie per alleviare le sofferenze di quegli anni di accelerazione dei processi di trasformazione e di rivoluzione degli assetti sociali tradizionali, ma anche il recupero e la rieducazione delle donne dimesse dal carcere (come nel caso delle Figlie di Gesù Buon Pastore fondate nel 1823 a Torino da Giulia Faletti di Barolo o le Ancelle dell’Immacolata Concezione di Maria, fondate a Parma nel 1857 da Anna Maria Adorni) e persino il sostegno alle vocazioni sacerdotali dei giovinetti nelle scuole preparatorie ai seminari (nel caso delle Ancelle del Divin Prigioniero, sorte a Sondrio nel 1826, o delle Suore di Carità dell’Immacolata Concezione di Ivrea). Anzi, sulla loro scia nacquero, persino in piena età napoleonica e poi con maggiore spinta nei lunghi decenni della Restaurazione, nuove famiglie di religiose come le Clarisse Sacramentarie (Venezia, 1806), le Suore di Carità dell’Immacolata Concezione o Suore d’Ivrea (dal 1806/1828) le Figlie della Carità o Canossiane (Verona, 1808), le Figlie del Cuore di Gesù (Verona, 1810), le Oblate di S. Luigi Gonzaga (Alba, 1815), le Oblate di S. Francesco di Sales (1816 a Città di Castello e 1818 a Cortona), le nuove famiglie di Maestre Pie a Forlì, a Roma, a Sestri Levante e a Genova, le Dorotee di Venezia (1821) e Vicenza (1836) e di Genova (1834, ad opera di Paola Frassinetti), le Figlie Francescane della Carità di Faenza (1824), le Figlie di Nostra Signora al Monte Calvario (Roma, 1827, quale filiazione dell’omonimo istituto genovese), le Povere Figlie della Provvidenza (1827, negli Stati estensi, per assistere ed educare le sordomute), le Giannelline di Chiavari (Figlie di Maria Santissima dell’Orto, 1829), le Ministre degli Infermi di S. Camillo di Maria Domenica Brun Barbantini a Lucca (1829-1841), le Figlie di Maria Immacolata (Verona, 1830), le Figlie del Sacro Cuore (Bergamo, 1831), le Suore di Maria Bambina (Lovere di Brescia, 1832), le Figlie della Divina Provvidenza di Roma (1832), le Suore della Provvidenza o Rosminiane (Domodossola, 1832), le Adoratrici del Sangue di Cristo (Frosinone, 1834), le Suore della Provvidenza di S. Gaetano da Thiene (Udine, 1837), le Figlie di Nostra Signora della Misericordia di Savona (1837), le Marcelline di Milano (1837-1838), le Ancelle della Carità (Brescia, 1840), la Compagnia di Maria per l’educazione delle sordomute di Verona (1841), le Povere Figlie delle Sacre Stimmate di S. Francesco (Firenze, 1850), le Ancelle dell’Immacolata Concezione di Maria (Parma, 1857), le Figlie di Gesù a Modena ed a Verona. A tutte queste, e a tante altre ancora, vanno aggiunte le congregazioni femminili estere, che s’insediarono nel nostro paese, come la Società del Sacro Cuore di Gesù o le Figlie della Carità di san Vincenzo de Paoli: queste ultime, anzi, furono fra le poche famiglie di vita attiva, che riuscirono a svilupparsi prima dell’Unità anche nell’Italia meridionale, dove ancora prevaleva il modello femminile della vita contemplativa. Se l’operosa carità nei confronti del prossimo e in tutti gli ambienti e situazioni sociali caratterizza la loro poliedrica attività, questi istituti presentano una grande innovazione sul piano organizzativo, pur conservando il principio della vita comunitaria: la tendenza a centralizzare il governo delle singole case sotto l’autorità di un superiore generale, ma anche spesso di una superiora generale. Non sfugga la duplice novità di quest’ultima aspirazione, che pure collideva apertamente con la mentalità diffusa nelle gerarchie maschili del tempo, che ancora guardava con forte sospetto – o condannava apertamente – le donne in movimento e non recluse fra quattro mura, che ancora giudicava le donne incapaci di governare sistemi complessi sul piano organizzativo-istituzionale, come su quello economico-finanziario. Pur fra tanti ostacoli, come in Francia anche in Italia in quei decenni furono gettate le basi di un “nuovo cattolicesimo sociale […] in cui le donne divennero un esercito professionale di infermiere, insegnanti e assistenti sociali” (Hufton, p. 329). Né si può trascurare la diversa composizione sociale rispetto al modello classico del monachesimo femminile: nelle nuove congregazioni l’iniziativa, il governo e l’impegno nei ruoli di primo piano non erano prerogativa esclusiva delle affiliate di estrazione sociale superiore, ma anche di quelle del ceto medio basso o persino di umili origini. Con le leggi di soppressione del 1855-1866, che pure disgregarono l’universo monastico femminile, queste famiglie religiose uscirono pressoché indenni, anzi rafforzate sul piano sociale, sia perché le loro forme di aggregazione e di attività nella vita sociale dimostrarono una piena corrispondenza alle nuove emergenze civili e religiose, a partire dall’impegno nella catechesi per i ceti più umili, accettando di confrontarsi con le problematiche di «classe» della società italiana liberale, investita da processi inediti, innestati dal capitalismo nelle attività produttive agrarie e industriali (come nel caso dell’occupazione femminile giovanile nelle fabbriche tessili, per esempio).

Fonti e Bibl. essenziale

A parte le numerosissime voci dedicate dal Dizionario degli Istituti di Perfezione (Roma, Edizioni Paoline, 1974-2003) alle singole congregazioni religiose femminili, si vedano: P.R. Baernstein, A Convent Tale. A Century of Sisterhood in Spanish Milan, New York – London, Routledge, 2002; G. Boccadamo, Le bizzoche a Napoli tra ’600 e ’700, in La Santa dei Quartieri. Aspetti della vita religiosa a Napoli nel Settecento. Studi in occasione del II centenario della morte di S. Maria Francesca delle Cinque Piaghe, 1791-1991, «Campania Sacra», XXII (1991), 351-39; M. Caffiero, Femminile/popolare. La femminilizzazione religiosa nel Settecento tra nuove congregazioni e nuove devozioni, in «Dimensioni e problemi della ricerca storica», II (1994), 235-245; M. Campanelli, Monasteri di provincia (Capua secoli XVI-XIX), Milano, Franco Angeli, 2012; L. Pazzaglia ed., Chiesa e prospettive educative in Italia tra Restaurazione e Unificazione, Brescia, La Scuola, 1994; E. Colagiovanni, Le religiose italiane. Ricerca sociografica, Roma, Centro Studi U.S.M.I. 1976; G. Galasso – A. Valerio edd., Donne e religione a Napoli. Secoli XVI-XVIII, Milano, Franco Angeli, 2001; M. Farina, Donne consacrate oggi. Di generazione in generazione alla sequela di Gesù, Milano, Figlie di S. Paolo, 1997; Donne e fede, G. Zarri – L. Scaraffia edd., Bari, Laterza, 1994; O. Hufton, Destini femminili. Storia delle donne in Europa, 1500-1800, Milano, Mondadori, 1996; M.C. Nazzari, Rona Venerini 1656-1728. La «fedeltà al popolo» come educazione femminile, Tesi di Laurea in Pedagogia Generale, relatore prof. Nicola Siciliani de Cumis, Università «La Sapienza» di Roma, 2002 (“TFO-SWIFT”, www.swif.it/tfo); R. Fusco – G. Rocca edd., Nuove forme di vita consacrata, Roma, Urbaniana University Press, 2010; M. Palazzi, Donne sole. Storia dell’altra faccia dell’Italia tra antico regime e società contemporanea, Milano, Mondadori, 1997; N. Raponi, Congregazioni religiose e movimento cattolico, in Dizionario storico del Movimento Cattolico in Italia. Aggiornamento, 1997, 82-96; G. Rocca, Donne religiose. Contributo a una storia della condizione femminile in Italia nei secoli XIX-XX, Roma, Edizioni Paoline, 1992; G. Rocca, Gesuiti, gesuitesse e l’educazione femminile, in «Annali di storia dell’educazione e delle istituzioni scolastiche», XIV, 2007, 65-75; M. Sensi, «Mulieres in Ecclesia». Storie di monache e bizzoche, Spoleto, Centro Italiano sull’Alto Medioevo, 2010; G. Tardio, Donne eremite, bizzoche e monache di casa nel Gargano occidentale, San Marco in Lamis (FG), Edizioni SMiL, 2007; M.E. Wiesner, Le donne nell’Europa moderna 1500-1750, Torino, Einaudi, 2003.


LEMMARIO




Congregazioni religiose femminili - vol. II


Autore: Giancarlo Rocca

La struttura istituzionale della congregazione religiosa. Al momento dell’Unità d’Italia, nel 1861, la struttura istituzionale della congregazione religiosa era ormai definita, grazie anche al contributo delle congregazioni italiane sorte tra gli inizi dell’Ottocento e il 1861. In particolare, superato il momento delle origini nel 1808, in cui le Figlie della Carità Canossiane avevano ancora adottato l’antica struttura della autonomia delle singole case, gli istituti religiosi italiani si erano incamminati verso la centralizzazione dell’istituto, con superiora generale, superiora provinciale e case filiali, e in questo cammino un contributo – per il riconoscimento della figura della superiora generale – era stato dato dalle Figlie del Sacro Cuore di Gesù, fondate nel 1831 dal canonico Giuseppe Benaglio e Teresa Eustochio Verzeri, e dalle Ancelle della Carità di Brescia, fondate nel 1840, da Paola Di Rosa, per la figura della vicaria generale.

Un tentativo di ampliare la struttura della congregazione religiosa, presentato attorno agli anni ’80 a Napoli da parte di Caterina Volpicelli, fondatrice delle Ancelle del Sacro Cuore, che desiderava far riconoscere come religiose anche le sue Ancelle che vivevano nelle loro case, senza abito religioso, ricevette la risposta negativa della S.C. dei Vescovi e Regolari, ormai tesa a chiarire e fissare giuridicamente la struttura della congregazione religiosa, e quindi, inserendo tra le sue caratteristiche, l’obbligo della vita comune.

Ciò nonostante, anche le congregazioni italiane, alla pari delle congregazioni del mondo intero, non furono riconosciute come “religiose”, ma solo come pie associazioni femminili, certamente sino alla Conditae a Christo del 1900, che cominciò a usare questa parola nei loro confronti, sancita definitivamente nel Codice di diritto canonico del 19.

Le leggi generali di soppressione del 1866 e 1873. Le leggi generali di soppressione degli istituti religiosi in Italia del 1866, estese a Roma nel 1873, provocarono, ovviamente, delle difficoltà, ma non portarono, di fatto, alla scomparsa di alcun istituto religioso. Le leggi di soppressione tolsero anche alle religiose quel riconoscimento giuridico civile che garantiva i loro beni – come corporazioni – di fronte allo Stato, ma non la possibilità di continuare a vivere in comune, come libere cittadine, e quindi a possedere, come religiose a titolo personale, sottostando in tutto alle leggi dello Stato.

Le congregazioni religiose avevano, in quel momento, un notevole punto di forza, nel fatto di non essere riconosciute come religiose dal diritto canonico del tempo. Così, proprio basandosi sul loro carattere “non religioso”, furono molti gli istituti che riuscirono a salvarsi dalla soppressione. Tra i primi figura quello delle Maestre Pie della Presentazione di Maria SS.ma, di Genova, nello stesso anno 1866, subito seguito dai vari istituti di suore Dorotee, e da molti altri, dichiarato dallo Stato istituti pubblici di educazione e di istruzione femminili. In un resoconto del 1872 erano già 156 gli istituti che, considerati laicali, avevano potuto conservare i loro beni.

Per le congregazioni religiose residenti in Lombardia la via per sfuggire alla soppressione fu quella di appellarsi al Trattato di Zurigo, stipulato nel 1859. Prevedendo – a seguito delle guerra d’indipendenza – che la cessione della Lombardia al Regno di Sardegna avrebbe comportato la soppressione delle corporazioni religiose e l’incameramento dei loro beni (come già avvenuto nel Regno di Sardegna nel 1848 e nel 1855), nel trattato tra Austria, Francia e Regno di Sardegna, siglato nel 1859, era stato inserito (su proposta del preposito generale dei Gesuiti, padre Peter Johann Beckx) l’articolo XVI a favore delle congregazioni religiose presenti in Lombardia nel caso il territorio passasse alle dipendenze di una autorità civile che non autorizzasse il mantenimento delle loro istituzioni.

Al Trattato di Zurigo si appellarono molte congregazioni religiose lombarde, e tra esse le Orsoline di San Carlo, di Milano, le Figlie della Carità Canossiane a Como, le Suore della Sante Capitanio e Gerosa, ancora a Milano. La via maestra, comunque, per salvare gli immobili fu quella di adottare le leggi dello Stato, cioè quelle forme di possesso previste per i singoli cittadini e per le società civili che essi potevano legittimamente costituire. In questo modo si comportarono le Marcelline di Milano, che, nel dicembre del 1866, costituirono una “Società educativa” e contemporaneamente distribuirono le proprietà delle loro case di Cernusco, Vimercate e Milano a piccoli gruppi di Marcelline in società tra loro. E ugualmente fecero le Figlie della Carità Canossiane, di Milano; le Suore di Carità delle Sante Bartolomea Capitanio e Vincenza Gerosa, di Milano; le Figlie di San Giuseppe fondate da don Luigi Caburlotto, le Serve dei Poveri di Palermo (che costituirono una società tontinaria), e le Ancelle della Carità di Brescia, che costituirono la “Società anonima San Giuseppe”, e le Figlie di Maria Ausiliatrice che costituirono la società anonima immobiliare “L’Ausiliare”, e tante altre ancora che sarebbe troppo lungo elencare. Il risultato finale fu che, proprio adeguandosi alle leggi dello Stato, anche le congregazioni religiose femminili riuscirono non solo a difendere i loro patrimoni, ma ad accrescerli, anche in misura considerevole, costruendo continuamente nuove case, scuole, oratori, chiese, asili ecc. Ciò era reso possibile, per un verso, dalla vita comune delle religiose, che facilitava il risparmio; per l’altro, dai compensi che le amministrazioni comunali (nel caso di asili, scuole ecc.) o statali (per le carceri) versavano loro previe apposite convenzioni. In questo modo le religiose arrivarono al concordato del 1929 con una presenza molto rilevante nella vita italiana.

L’evoluzione delle opere. Tra le tante opere svolte nel lungo periodo 1861-2010 – asili nido per aiutare la madre che lavorava; orfanotrofi; educandati; convitti per operaie; scuole speciali per sordomuti; case religiose trasformate in ospedale nel corso della prima guerra mondiale; cucine economiche; dormitori per poveri; aiuto a ex carcerate; accoglienza degli Ebrei durante la seconda guerra mondiale a Roma particolarmente, ma anche in tante altre case d’Italia, ecc. – tre rivestono un particolare interesse.

L’ospedale. Le congregazioni ospedaliere avevano provveduto, sin dalla prima metà dell’Ottocento, a preparare le proprie religiose per lo svolgimento delle mansioni infermieristiche, con appositi insegnamenti impartiti dai medici degli ospedali nei quali esse prestavano servizio. In Italia sino ai primi anni del Novecento non esistevano alcun manuale per l’assistenza infermieristica, e quindi degno di nota appare l’iniziativa di mons. Giovanni Antonio Farina, fondatore delle Suore Dorotee a Vicenza, che per loro fece tradurre e pubblicare in italiano nel 1878 un manuale francese sulla formazione delle infermiere. In seguito la formazione delle religiose infermiere venne svolta nelle cosiddette “scuole samaritane” e più tardi nelle scuole infermieristiche annesse agli ospedali dove già lavoravano le religiose. Il presupposto base, comunque, era che le suore dovessero essere infermiere e non potessero divenire medici, essendo la medicina una delle professioni proibite al clero e ai religiosi sin dal Medioevo.

I “convitti per operaie”. Essi erano sorti per aiutare le giovani che si trovavano lontano da casa per esigenze di lavoro, quindi in risposta a richieste sia di famiglie, che cercavano una protezione per le loro figlie, sia di parroci, che temevano per l’incolumità delle giovani, sia di imprenditori, alla ricerca di una sistemazione soddisfacente per le loro filandiere. E molte furono le congregazioni impegnatesi in quest’opera, dalle suore della Sacra Famiglia, fondate da Elisabetta Cerioli, alle suore della Carità di Lovere che complessivamente diressero 26 convitti per operaie, tutti localizzati nel Nord Italia; alle Salesiane di don Bosco, alle Guanelliane e a tanti altri ancora, sicuramente sin verso il 1930-1940 (Giovanni Gregorini, I convitti per operaie…: v. bibl.).

La scuola. Subito dopo l’Unità d’Italia, diversi istituti inviarono le loro religiose alle conferenze magistrali e pedagogiche per essere abilitate all’insegnamento elementare, e poi anche a regolari scuole normali per conseguire la patente elementare e successivamente anche i diplomi di ginnastica, mentre non pochi istituti crearono scuole normali interne per formare le proprie religiose e le giovani, sottoponendole poi tutte a esami pubblici. Tra le prime figurano le Marcelline di Milano, le Suore di S. Anna di Torino, le Figlie della Carità di s. Vincenzo de’ Paoli a Napoli. E numerose furono le religiose avviate a studi universitari, già alla fine dell’Ottocento, e tra le prime figurano ancora una volta le Marcelline di Milano, le Salesiane di don Bosco e le Figlie del Sacro Cuore di Gesù fondate da Teresa Eustochio Verzeri. L’apertura, nel 1882, del Magistero femminile a Firenze e a Roma costituì una nuova possibilità per la formazione delle religiose, alcune delle quali si diplomarono avendo come esaminatori Giosué Carducci e Maria Montessori.

La conclusione – banale, si potrebbe dire – è che con le loro opere le religiose italiane contribuirono notevolmente ad aumentare il benessere economico dell’Italia.

Il Concordato del 1929. Già prima del Concordato del 1929 lo Stato italiano non aveva mancato di servirsi degli istituti religiosi femminili, chiamando, ad es., le Figlie di S. Anna nella neocolonia italiana dell’Eritrea, o altri istituti per il servizio nelle carceri femminili. Il Concordato apriva ampie possibilità per il riconoscimento giuridico degli istituti religiosi di diritto pontificio, e quindi per la sistemazione dei loro beni. Gli istituti religiosi, però, sul momento furono restii a utilizzarlo, timorosi di ritorsioni da parte di uno Stato che aveva incamerato tanti loro beni, e fu necessario l’intervento di Pio XI – tramite il card. Ildefonso Schuster – perché rompessero gli indugi.

Da parte sua, la S. Sede cercò di facilitare il più possibile gli istituti religiosi bisognosi di trovare una sistemazione civile alle loro proprietà, e creò il cosiddetto “pro-decreto di lode”, concesso a istituti configurati di diritto pontificio di fronte allo Stato italiano, ma che restavano di diritto diocesano di fronte alla Chiesa. Esso venne concesso a molti istituti femminili (Ancelle dell’Immacolata, Figlie del Sacratissimo Cuore di Gesù, Francescane Ancelle di Maria ecc.), suscitando, alla fine, difficoltà da parte del Governo italiano, che premeva per il rispetto di quanto sancito nel Concordato del 1929.

L’insegnamento delle statistiche. Le statistiche indicano chiaramente che ancora nel 1881 – come già nel censimento del 1861 – le regioni con il maggior numero di religiosi erano quelle del Sud, con Campania e Sicilia in testa. Si sa, però, che esse erano per lo più monache, mentre al Nord si stavano sviluppando le nuove congregazioni religiose, che poco per volta superano il numero delle monache in tutte le regioni, anche nel Sud. Le percentuali del 1951, in base al numero degli abitanti (10.000) indicano che al Nord si superano le percentuali del 30%, mentre Campania e Sicilia restano tra il 10 e il 20%. Ciò conferma che la storia e la presenza della vita religiosa in Italia si differenzia tra Nord e Sud.

Le religiose italiane nei censimenti posteriori all’Unità d’Italia
               
  1881 1901 1911 1921 1931 1951
            Suore %
Piemonte 2.645 4.435 5.380 10.373 16.225 18.335 50
Lombardia 2.183 4.637 7.637 11.139 20.841 26.738 41,5
Trentino-Alto Adige 2.020 2.497 34
Veneto 1.151 2.969 4.030 7.834 11.621 20.581 34
Friuli-Venezia Giulia 854 1.426 34
Liguria 1.964 2.844 3.513 4.573 6.455 7.309 40,4
Emilia-Romagna 859 1.543 1.656 3.984 6.788 7.816 30,7
Toscana 1.984 3.204 2.875 5.671 8.072 9.278 25,9
Umbria 812 1.053 1.315 1.963 2.746 3.582 35,4
Marche 975 1.285 1.222 2.309 3.338 4.215 29,7
Lazio 2.427 5.353 5.317 7.235 12.453 19.682 63,4
Abruzzo e Molise 712 764 566 935 1.130 1.673 12,9
Campania 4.938 5.072 5.137 5.434 7.179 6.719 19,8
Puglia 1.962 2.816 1.981 2.116 3.154 4.273 15,9
Basilicata 335 302 294 149 386 2.242 13,2
Calabria 536 584 629 590 1.085 1.632 8
Sicilia 4.465 4.122 3.679 3.913 5.999 8.534 16,5
Sardegna 224 268 349 637 923 1.457 10,7
               
Totale 28.172 40.251 45.616 71.679 112.208 144.171 30,3

Un ulteriore confronto con le percentuali di nubilato permette di comprendere che il numero delle religiose in Italia non diminuisce a seguito del concilio Vaticano II, ma già prima, tra il ventennio 1931 e 1951. Se le percentuali di crescita fossero state quelle del 1931, le religiose nel 1951 sarebbero state non 144.171, bensì 169-170.000. Ciò indicava un mutamento che non poteva essere attribuito alle conseguenze della seconda guerra mondiale, ma a un mutamento che stava ormai avvenendo nella società, avvertito soprattutto nelle religioni settentrionali, cioè quelle regioni che nella prima metà dell’Ottocento avevano dato avvio al nuovo sviluppo della vita religiosa.

Le religiose italiane dal 1966 al 2010
 
Anni 1966 1990 2000 2010
 
Religiose 155.962 111.087 89.386 66.965

Fonte. Per il 1966: S. C. dei Religiosi, Ufficio Statistico. Per gli anni successivi: Annuarium Statisticum Ecclesiae, agli anni indicati. Per gli anni 1990-2000-2010 il totale comprende religiose di voti perpetui, temporanei e novizie.

Dopo il concilio Vaticano II. Al Primo congresso generale degli stati di perfezione, svoltosi a Roma nel 1950, le religiose non erano presenti. Le statistiche indicano chiaramente una forte diminuzione del numero delle religiose italiane, dovuto sia al minor reclutamento, sia alle uscite dagli istituti verificatesi negli anni immediatamente seguiti al concilio Vaticano II. Si calcola, infatti, che tra il 1965 e il 1974 circa 15.000 religiose abbiano lasciato i loro istituti. La loro presenza, nel 1974, restava tuttavia molto forte (cf Colagiovanni, Le religiose italiane…: v. bibl.)., poiché esse potevano contare 9.451 scuole materne (circa il 37% di tutte le scuole materne italiane), 1650 scuole elementari (5% rispetto alle scuole statali), 544 scuole medie inferiori (circa il 6,26 in rapporto alle statali), 646 scuole medie superiore (12,50 rispetto alle scuole statali). Per quanto riguardava i servizi ospedalieri, le congregazioni erano proprietarie di 107 cliniche (circa il 12,55 di tutte le cliniche private italiane, che erano 844), operavano in 256 cliniche private e in 1.090 istituti di cura pubblici (circa l’83,39% di tutti gli istituti pubblici). Questa molteplicità di opere è poi notevolmente diminuita, a seguito del costante calo del numero delle religiose, producendo un generale impoverimento economico delle congregazioni religiose femminili (dalle 12.832 case del 1990 si è passati a 8.163 nel 2010), dovendo, da una parte, provvedere alle loro religiose anziane o inferme, dall’altra, sostenere i costi di tante opere, ormai affidate a laici. Dal 1956 tutte le religiose italiane si trovano organizzate nella Unione Superiore Maggiori d’Italia (USMI), che per loro pubblica la rivista Consacrazione e servizio.

Fonti e Bibl. essenziale

G. Rocca, La storiografia italiana sulla congregazione religiosa, in Religiose, religiosi, economia e società nell’Italia contemporanea, a cura di Giovanni Gregorini, Milano 2008, 29-101. A carattere generale: G. Rocca, Riorganizzazione e sviluppo degli istituti religiosi in Italia dalle soppressioni del 1866 a Pio XII (1938-59), in Problemi di storia della Chiesa. Dal Vaticano I al Vaticano II, a cura dell’Associazione italiana dei professori di storia della Chiesa, Roma 1988, 239-294; Id., Istituti religiosi in Italia tra Otto e Novecento, in M. Rosa, ed., Clero e società nell’Italia contemporanea, Bari 1992, 207-256; Id., Donne religiose. Contributo a una storia della condizione femminile in Italia nei secoli XIX-XX, in Claretianum 32 (1992) 5-320 (come estratto, con Appendice, Bibliografia e Indici: Roma, [Edizioni Paoline], 1992; Id., Le religiose italiane, in Cristiani d’Italia. Chiese, società, Stato, 1861-2011, a cura di A. Melloni, II, Roma, Istituto della Enciclopedia italiana, 2011, 959-973; Ministero dell’Interno, Archivio Storico del Fondo Edifici di Culto, I, Le corporazioni religiose (1855-1977), a cura di C. Iuozzo, Roma, Palombi Editore, 2013. Per l’economia durante il periodo delle soppressioni: G. Rocca, Le strategie anticonfisca degli istituti religiosi in Italia dall’Unità al Concordato del 1929: appunti per una ricerca, in Clero, economia e contabilità in Europa. Tra Medioevo ed età contemporanea, a cura di R. Di Pietra e Fiorenzo Landi, Roma 2007, 226-247; Id., L’économie des instituts religieux italiens de 1861 à 1929. Données pour une recherche, in The Economics of Providence / L’économie de la Providence, a cura di Maarten Van Dijck et alii, Lovanio 2012, 295-322. Per le statistiche: Aldo Leoni, Aggiornamento o processo di adeguamento degli istituti religiosi femminili alle esigenze della società italiana, Roma 1958; Emilio Colagiovanni, Le religiose italiane. Ricerca socio grafica, Roma, Centro Studi USMI, 1976, 459ss (scuole) e 495ss (cliniche e ospedali). Per il contributo al benessere della società italiana: Giancarlo Rocca e Tiziano Vecchiato, edd., Per carità e giustizia. Il contributo degli istituti religiosi alla costruzione del welfare italiano, Padova, Fondazione “Emanuela Zancan”, 2011, in particolare lo studio di Giovanni Gregorini, I convitti per operaie, 122-141.


LEMMARIO