Associazione Italiana dei Professori di Storia della Chiesa

Dizionario Storico Tematico La Chiesa in Italia
Dalle origini all'Unità Nazionale
Roma 2015
Copyright © 2015

Congregazioni religiose maschili - vol. I


Autore: Flavio Rurale

Esperienze di vita solitaria e ascetica nella forma estrema dell’anacoretismo (il cui più noto esponente fu sant’Antonio) o in quella del cenobitismo (caratterizzata da momenti di perfetta solitudine alternati ad altri di vita comune: pasti, preghiera, più tardi anche il lavoro) segnarono fin dalle origini la società cristiana. Sorsero a partire dal IV secolo come risposta ai bisogni di singoli individui o di minoranze di fedeli desiderosi di vivere con radicalità il messaggio evangelico, in luoghi appartati «lontano dalle cure del mondo, a guisa di angeli» (S. Pricoco, Da Costantino, 385-386). Dall’oriente (Egitto, Palestina, Siria), loro terra d’origine, tali esperienze si diffusero in Europa e in Italia, dove maturarono particolarmente nel VI secolo «episodi di […] forte e creativo rinnovamento» con l’opera e le fondazioni sublacensi di s. Benedetto da Norcia (ibid., 424).

La vita monastica introdusse un modello di «appartenenza volontaria […] a regole e voti esclusivi di purità» che comportavano durissime rinunzie – «il rifiuto del sesso, del sangue e del denaro» – destinati a improntare l’organizzazione dei futuri ordini regolari (E. Brambilla, Alle origini, 63-65). Tali “religioni private” o sette, come furono chiamate, ebbero molto spesso carattere di spontaneità (come peraltro tante nuove fondazioni dei secoli successivi), e solo in un secondo momento, seguendo percorsi non sempre lineari, raggiunsero un assetto stabile, venendo riconosciute e istituzionalizzate dalle autorità ecclesiastiche o laiche (papa, vescovi, re, principi). Lo stile di vita dei monaci si presentava dunque come alternativo a quello del clero secolare urbano: «il loro modello non era la chiesa stabile dei vescovi e delle diocesi, […] ma quella degli Atti degli apostoli, l’attività carismatica e profetica di missionari mobili» (ibid., 67-78). Condizione, va detto, che permise loro in congiunture drammatiche di infrangere l’isolamento e di intervenire come veri e propri “sgherri di Dio”, anche saccheggiando, uccidendo e fomentando rivolte, contro le sopravvivenze della religione politeista (P. Chuvin, Cronaca degli ultimi pagani, Paideia Editrice, Brescia 2012, 83). Soggetti a norme sempre più rigide, nello spazio immune dei loro monasteri i monaci sperimentarono un regime di ammende e punizioni che si tradusse in un vero e proprio sistema di giustizia penale, che contribuì a definire pratiche di perdono pubbliche (riti di confessione e di grazia, indulgenze) destinate anche ai fedeli esterni e a diventare più tardi concorrenziali con la giustizia dei tribunali laici ed ecclesiastici (vescovili e inquisitoriali).

Occorre sottolineare, «insieme con la genuina spinta religiosa», il forte significato sociale e politico che l’opera del clero regolare (con gli abati) e di quello secolare (coi vescovi) ebbe nel favorire la riorganizzazione dell’Europa cristiana dopo la caduta dell’impero e le invasione barbariche (G. Sergi, Vescovi, monasteri, 79). L’incontro tra il processo di ricostruzione degli organismi di governo territoriale e le forme organizzative che la Chiesa andò approntando a livello locale e a Roma favorì la progressiva sovrapposizione di funzioni temporali e religiose, tra “regno e sacerdozio”. Ne uscì definito un ceto ecclesiastico con forti connotati politico-militari: nelle comunità abbaziali, non semplici comunità di preghiera ma microcosmi culturali, economici, giurisdizionali, nonché strutture di difesa, «si realizzò una simbiosi di funzioni […] destinata a durare secoli, […] di stretta collaborazione politico-ecclesiastica», con esponenti dell’elite (appartenenti alle casate fondatrici dei monasteri stessi) ivi educati e pronti a occupare poi incarichi di rilievo nelle strutture di governo urbano e rurale (ibid., 75-77; S. Pricoco, Da Costantino, 411, 413).

La storia degli ordini religiosi, a partire dalle originarie esperienze di tipo contemplativo, seguì nel corso del primo e secondo millennio traiettorie dagli esiti molto differenti. Si attenuò il divario tra vita nel secolo ed eremitismo, e riacquistarono centralità sia la vocazione sacerdotale, di per sé inizialmente estranea alla spiritualità monacale, sia l’interesse per la cultura (attraverso l’opera di trasmissione e conservazione della tradizione manoscritta e una fiorente creazione artistica). Si trattò di sviluppi i cui esiti furono del tutto evidenti nelle trasformazioni, per certi aspetti radicali, che attraversarono il variegato mondo dei religiosi: dalle comunità monacali del primo millennio si passò, attraverso l’esperienza dei canonici regolari, a quelle mendicanti del XIII secolo e infine ai chierici regolari (teatini, barnabiti, gesuiti, ecc.) cinquecenteschi.

Molto si è scritto del percorso quasi ciclico di fondazione, crisi, morte e/o rinnovamento proprio di tante comunità periodicamente soggette, dopo l’iniziale fase di affermazione, a processi di decadenza e conseguenti interventi di riforma (quando non addirittura a divisioni o a vere e proprie soppressioni, C. Fantappiè, Les ordres religieux entre histoire, droit et sociologie, Revue historique de droit français et étranger, LXXIII, 1995, 501-520). Fu in effetti proprio delle comunità regolari procedere per «rifondazioni, per separazione volontaria» (E. Brambilla, Alle origini, 64), per filiazione, quasi per partenogenesi, e certamente ciò avvenne in molti casi in conseguenza del bisogno di recuperare la coerenza perduta, la regola originaria, ovvero di sperimentare più originali forme di spiritualità e ascesi.

Ma monasteri e conventi, come detto, non furono mai solo uno spazio religioso (aperti com’erano a interessi di vario genere), né furono sempre capaci i loro superiori di impedire l’ingresso a soggetti inabili alla disciplina o, privi di una sincera vocazione, semplicemente interessati a riciclarsi (ex militari) e a garantirsi una carriera curiale (R.L. Guidi, Il dibattito sull’uomo nel Quattrocento, TielleMedia, Roma 1998, cap. IV). La profonda compenetrazione tra le due dimensioni (temporale e religiosa) fu di nuovo evidente nelle urgenze spirituali e devozionali (all’origine dell’esperienza mendicante) nate in risposta alle trasformazioni economiche e politiche che in Italia segnarono il passaggio prima alle città-stato poi ai principati regionali.

Dunque alle comunità (di cluniacensi, vallombrosiani, certosini, cistercensi, olivetani, camaldolesi, ecc.) che adottarono nelle grandi abbazie italiane ed europee le regole ispirate ai testi di s. Basilio, Pacomio, sant’Agostino, s. Benedetto si affiancarono nel ‘200 francescani e domenicani. Spinti da bisogni personali e collettivi, i frati mendicanti aderirono a un modello di vita comunitaria improntato a nuove regole (di s. Francesco, di s. Domenico), espressione di una diversa concezione dell’impegno religioso e della vita di perfezione: non più lontani dal resto dei fedeli, in una solitudine contemplativa, ma inseriti nella società urbana, secondo uno stile austero e di assoluta povertà. Come predicatori, missionari, confessori, veri e propri mediatori e pacieri nel dirimere liti e querelle di ambito cittadino su materie economico-finanziarie e politiche, i mendicanti, arricchitisi di nuove famiglie (agostiniani, serviti, carmelitani), assunsero funzioni di grande rilevanza sociale. Tra gli impegni di maggiore responsabilità vi fu quello di commissari nei tribunali inquisitoriali sorti per combattere l’eresia, incarico ricoperto anche dopo la riorganizzazione cinquecentesca del Sant’Uffizio. Non meno rilevante fu il loro contributo teorico e pratico nel dibattito emerso sulle nuove pratiche economico finanziarie (prestito a interesse) della società basso-medioevale.

Concomitante con l’affermazione dei mendicanti, la crisi trecentesca delle abbazie benedettine trovò sbocco da un lato nell’istituzione della commenda, vano tentativo di rinnovare materialmente e nello stile di vita i comportamenti dei religiosi, che poco o nulla modificò la situazione di abuso e degrado, finendo unicamente per salvaguardare gli interessi e le rendite dei cardinali romani (abati commendatari); dall’altro nella formazione di reti di raccordo tra comunità originariamente autonome e indipendenti per costituzioni e regole ora invece riunite nell’obbedienza a un’abbazia madre riformata (come nel caso padovano di inizio Quattrocento della congregazione benedettina di santa Giustina, divenuta un secolo più tardi congregazione cassinese).

Anche gli ordini mendicanti conobbero ben presto, sulla scia delle lunghe e violente polemiche sull’obbligo di povertà assoluta dei singoli frati e delle loro comunità, l’esigenza di un ripensamento interno che riportasse a una più rigorosa osservanza della regola stabilita dai fondatori. Nacquero, a fianco dei cosiddetti conventuali, le comunità osservanti, inclini a una maggiore coerenza con la spiritualità, gli impegni e lo stile di vita originari, eppure pronti allo scontro, anche armato, magari supportati da principi e patroni, pur di prevalere sulle comunità contrarie alla riforma e impossessarsi dei loro beni. Nel clima quattrocentesco, impregnato di ostilità verso la presenza degli ebrei nella società cristiana, l’impegno sociale dei frati (francescani osservanti) sfociò nella predicazione antigiudaica, che portò all’istituzione di strumenti finanziari, i Monti di Pietà, alternativi ai banchi ebraici e di sostegno al piccolo credito (monetario e in beni naturali) dei ceti medio bassi.

Né fu quello dell’osservanza l’ultimo esempio del procedere dei mendicanti (e dei regolari) tra crisi e rinascite: nel ‘500 i cappuccini rappresentarono un’ulteriore tappa nella progressiva frammentazione dell’ordine dei minori, non rimanendo peraltro immuni, come del resto avvenne per altre congregazioni vecchie e nuove, da divisioni e conflitti dottrinali, che portarono a fughe, espulsioni e processi, e in alcuni casi all’adesione alla riforma luterana (il generale Bernardino Ochino decise di lasciar l’Italia per Ginevra). Tale sviluppo accompagnò una fase di sperimentazione interna al mondo regolare molto complessa, in cui agli aspetti propriamente religiosi (per esempio la ricerca di nuove forme di spiritualità da parte dei laici e tra questi la presenza di figure femminili – si pensi a Paola Antonia Negri – poi direttamente coinvolte sia nella riforma dei vecchi istituti sia nell’istituzione dei nuovi) si sovrapposero gli interessi economici e politici delle grandi casate principesche e di facoltosi patroni.

Nell’ambito della polemica verso il clero regolare che segnò la cultura umanistica (erasmiana) e fu fatta propria non solo dalla riforma luterana ma anche da alcuni ambienti curiali romani (Consilium de emendanda ecclesia, 1537) divampando poi nel concilio di Trento (dove gli ordini religiosi vennero additati come la causa delle deviazioni eretiche), ampio interesse suscitò la discussione sulla necessità di rivedere ruolo e privilegi di monaci e frati, a favore della centralità del clero vescovile e parrocchiale: ma alla fine non produsse i risultati da molti sperati.

Gli ordini mendicanti, al pari delle congregazioni da poco istituite dei chierici regolari, continuarono infatti a conservare per tutta l’età moderna una funzione insostituibile nella Chiesa e nella società cristiana, godendo di ampie autonomie a livello locale (non erano soggetti alla giurisdizione vescovile) e talora anche nei confronti di Roma. Importante fu l’impegno profuso in ambito pastorale (non senza peraltro suscitare preoccupazioni, proteste e interventi censori da parte del clero diocesano): venne infatti spesso loro affidata la stessa cura d’anime, oltre alla semplice amministrazione del sacramento della confessione, alla direzione spirituale e alla predicazione dentro e fuori le loro chiese durante i cicli quaresimali e dell’avvento.

Particolarmente efficace fu il loro intervento anche nell’organizzare la popolazione laica, tanto in città come nelle campagne, attraverso le confraternite dedicate al culto del santissimo sacramento, della vergine, dei santi protettori, spazi non solo di devozione religiosa e di commissione artistica, ma anche di mutuo soccorso e, nelle aree economicamente meno avanzate, occasione per mettere a disposizione del ceto contadino piccole quote di credito. Insostituibile fu il ruolo degli Ordini sia contro l’ignoranza delle plebi e la sopravvivenza di forme cultuali paganeggianti, sia nella ricattolicizzazione delle popolazioni convertite alle fedi riformate, sia nell’attività missionaria nel continente americano, in Africa e in Asia. La loro opera rimase centrale anche in ambito culturale, dove soddisfecero il bisogno di formazione dell’antica aristocrazia e della nuova nobiltà, dei ceti medio-bassi e del clero (con l’insegnamento impartito nei collegi dagli ordini cosiddetti insegnanti: gesuiti, barnabiti, somaschi e scolopi, e con la gestione loro affidata dei seminari vescovili), continuando nel contempo a fare parte, coi loro membri più in vista, della repubblica delle lettere e rimanendo dunque protagonisti del dibattito filosofico e scientifico sei-settecentesco.

Irrisolti, sul lungo periodo, rimasero alcuni aspetti della loro organizzazione: iterati abusi (incapacità di controllo degli ingressi, mobilità indisciplinata, inosservanza delle regole, eccessiva mondanità) e nuovi problemi, come quelli connessi a quell’elite religiosa (confessori, precettori, teologi di corte) sottratta al controllo romano, fortemente dipendente da principi e sovrani, capace di operare in larga autonomia sul palcoscenico della politica europea nella fase di costruzione della moderna statualità. La curia papale, consapevole di dover arginare l’autonomia dei regolari già sottratti all’autorità vescovile, cercò di esercitare uno stretto controllo sulle singole comunità e i loro superiori generali: costoro vennero affiancati nel governo dai cardinali protettori (e dalle congregazioni cardinalizie deputate a risolvere i problemi legati alla vita regolare), furono chiamati a risiedere a Roma con la loro curia generalizia (questione che suscitò non poche polemiche in ordine geograficamente più connotati, come i “milanesi” barnabiti), e periodicamente videro minacciate le loro comunità da interventi di modifica di regole e costituzioni (per imporre ad esempio il generalato temporaneo o una convocazione più frequente dei capitoli generali). Furono in parte questi i contenuti del decreto papale di cui si vociferò a Parigi nel 1642, con il quale Urbano VIII comandava «che per l’avenire tutti li generali di qualunque religione siano per un triennio solo et che la perpetuità sia abrogata». Il papa aveva toccato con mano «che li generali di S. Domenico e dei gesuiti, per la longa durata, vogliono essere padroni assoluti delle religioni, et che pretendono di non riconoscere in una certa misura né il papa né i cardinali» (R. P. Mortier, Histoire des maîtres généraux de l’ordre de frères précheurs, VI, 1589-1650, Alfons Picard et Fils, Paris 1913, 464).

Se durante l’interdetto su Venezia del 1606 l’espulsione dei gesuiti dalla Serenissima per circa mezzo secolo costituì un esempio di dedizione al papato, in molti altri casi i religiosi, come confessori e teologi dei sovrani cattolici e dei loro ministri, si dimostrarono ben disponibili a difendere la giurisdizione secolare mettendo a rischio autorità e interessi della curia papale: occorreva, questa ormai era la convinzione di molti a metà Seicento, assicurare la loro fedeltà alla causa romana con gli stessi strumenti utilizzati dai principi, attraverso cioè una vera e propria opera di reclutamento che riconoscesse ai singoli padri coinvolti (e ai loro parenti) stipendi, rendite, cattedre universitarie, uffici curiali (anche le mense vescovili se necessario).

Pontefici e curie generalizie intervennero a più riprese nel tentativo di ristabilire obbedienza, disciplina e più adeguati processi di selezione e formazione, ma con risultati poco soddisfacenti. L’inchiesta sullo stato dei regolari di metà ‘600, peraltro motivata da preoccupazioni di carattere materiale (patrimoniali e giuridiche), indicò nella soppressione dei cosiddetti conventini la via da seguire per uscire dalla condizione di decadenza: eppure dovette scontrarsi (e di fatto ne uscì ridimensionata) con le esigenze di vescovi e principi contrari a privarsi dell’opera pastorale delle pur piccole e inadeguate (al di sotto delle 12 unità) residenze regolari presenti sul loro territorio.

Il clima culturale di fine Seicento, attraversato da nuove sensibilità religiose, dall’affermazione di nuovi ordini dediti all’opera missionaria (come i lazzaristi, la congregazione delle missioni apostoliche, più tardi i redentoristi di Alfonso Maria de Liguori) e pronto ad accogliere le sollecitazioni anticuriali del radicalismo illuminista e del giurisdizionalismo politico, aprì infine la strada alla tempesta che colpì gli Ordini religiosi nel Settecento, nel passaggio dalle riforme asburgiche, alla rivoluzione francese e infine alla conquista napoleonica dell’Italia.

La penisola, ancora divisa nei suo Antichi Stati, accolse allora, erano gli anni Cinquanta del Settecento, gli inviti provenienti da Portogallo, Spagna, Francia e Impero: un moto anticuriale (e anti-gesuitico) convogliò “le terre italiane […] nella polemica sui beni della Chiesa, […] sulla doverosa povertà degli ecclesiastici, […] sull’autorità del clero, […] sulle scuole, le università” (Venturi, Settecento riformatore, 65). Non mancarono intellettuali di spicco, come Carlantonio Pilati (Di una riforma d’Italia, 1767) e Cosimo Amidei (La chiesa e la repubblica dentro i loro limiti, 1768), a indicare la necessità di porre finalmente confini precisi nei rapporti tra stato e chiesa, mettendo fine al potere temporale del papa e limitando la presenza di quel clero regolare “mal diretto e regolato”, causa dei malanni “onde l’Italia viene da gran tempo travagliata” (Venturi, Settecento riformatore, 261). La svolta non fu radicale, il “processo di declericalizzazione” non produsse affatto in Italia risultati sotto questo profilo “irreversibili” (Venturi, Settecento riformatore, xi, 342). Ma gli esiti immediati furono drammatici: espulsione della Compagnia di Gesù dagli stati borbonici (seguita nel 1773 dalla sua abolizione addirittura per decisione del pontefice Clemente XIV, il frate Giovanni Vincenzo Ganganelli), soppressione dei piccoli conventi e degli ordini contemplativi, incameramento dei beni, controllo degli stati sulle modalità di reclutamento, infine soppressione generale di tutti gli ordini regolari per ordine di Napoleone nel 1810 (R. Rusconi, Gli ordini religiosi, 270-272).

La ricostituzione delle comunità colpite dalla bufera settecentesca e rivoluzionaria dovette fare inevitabilmente i conti a inizio ’800 con le esigenze delle autorità secolari, disposte a riconoscere gli istituti caratterizzati da attività utili alla società (istruzione, assistenza, interventi di carattere sociale), ma nello stesso tempo consapevoli di non dover rinunciare alle conquiste settecentesche. Ovviamente le strategie adottate variarono a seconda delle realtà geografiche e dei governi – la storiografia ha individuato percorsi e modelli diversi, da quello “separatista” piemontese-italiano a quello giurisdizionalista lombardo-veneto, a quello “sanfedista” meridionale (il più lontano dalle conquiste settecentesche) – ma è possibile delineare tratti comuni nelle decisioni prese all’indomani della restaurazione, significativamente contrassegnata dalla rifondazione papale dell’ordine ignaziano (1814, caso unico nella storia della Chiesa), sopravvissuto fino allora, proprio contro gli ordini romani, nella Russia di Caterina (Pavone, Una strana alleanza) e destinato a essere protagonista nell’Otto-Novecento della battaglia contro i processi di laicizzazione e secolarizzazione della civiltà moderna. La scelta di Pio VII non mancò di suscitare anche nel clero reazioni contrastanti: a Milano, per esempio, l’arcivescovo Karl Gaetan Gaysruck ne impedì il rientro privilegiando i barnabiti (De Giorgi, Cattolici ed educazione, 41).

Il caso toscano, con il primo concordato (1815) firmato dalla santa sede dopo le traumatiche vicende napoleoniche (quando vennero chiusi 214 conventi maschili, venduti i loro beni e mandati in pensione i singoli religiosi), può essere preso a esempio delle questioni allora oggetto di negoziazione, perlomeno per quella parte d’Italia incline ad atteggiamenti più concilianti verso Roma, come saranno del resto, nonostante il radicalismo iniziale, le disposizioni piemontesi (De Giorgi, Cattolici ed educazione, 39, 55-60). In discussione nel Granducato furono anche i decreti settecenteschi di Pietro Leopoldo (del 1751 e 1769): il controllo giurisdizionale allora imposto alla chiesa, l’incameramento e l’alienazione dei suoi beni e la volontà di “livellare” le terre rimaste invendute pur assicurando entrate certe ai religiosi. Il prevalere delle correnti ecclesiologiche che avevano posto al centro della vita dei fedeli il clero secolare condizionò la discussione e le decisioni, indirizzate a una forte selezione degli ordini da ristabilire (vennero potenziati scolopi e barnabiti per il loro impiego nella pubblica istruzione), alla loro subordinazione ai vescovi (la dipendenza dai superiori generali rischiava di pregiudicare l’autorità principesca), alla diminuzione in ogni caso dei loro insediamenti, alla regolamentazione degli ingressi per limitarne il numero (essendo ancora appetita la vita monastica da uomini di condizione vile con il solo scopo di una “vita comoda”). Quanto ai loro beni, Ferdinando III e i suoi ministri, attenti a una più razionale organizzazione del settore agrario, auspicavano la concessione in enfiteusi delle terre non ancora alienate assicurando ai religiosi il solo dominio diretto e una rendita fissa e sicura: ma dovettero venire a patti con Pio VII rinunciando di fatto a questo obiettivo. Modello anche per gli accordi tra Roma e il regno delle Due Sicilie del 1818, quello toscano fu l’unico concordato riguardante gli ordini religiosi: “il loro ristabilimento avvenne nella maggioranza degli stati attraverso singoli provvedimenti dei sovrani e fu molto più lento e meno sistematico” (G. Paolini, Il concordato toscano del 1815 sugli ordini religiosi, 40).

Le difficoltà a ripristinare dal nulla le antiche strutture organizzative comportarono scelte talora affrettate e contraddittorie, facendo riemergere abusi e incoerenze ben prima della seconda tempesta, quella che a partire dagli anni Quaranta fino all’unità d’Italia portò alle cosiddette leggi eversive (con nuove soppressioni e abolizioni). L’elenco dei motivi della crisi, ricordati da Giuseppe Martina accanto a vicende esemplari per dedizione e impegno pastorale (“una persistente crisi degli istituti nel loro complesso” si affiancò a “una fioritura di iniziative costruttive”: sintesi efficace di un “contrasto abituale” nella storia della chiesa, Martina, La situazione degli istituti religiosi, 194, 196), riproduce in maniera emblematica molti dei nodi già emersi e rimasti insoluti nel corso del Sei-Settecento, su cui i governi avevano tentato di intervenire dopo il fallimento di iterati provvedimenti pontifici: mancanza di una severa selezione e di un’accurata formazione teologica dei candidati, ricercata indipendenza non solo nei confronti degli ordinari diocesani («non senza provocare i sospetti e le opposizioni di alcuni fra essi, come capitò a don Giovanni Bosco con due arcivescovi di Torino», G. Martina, La situazione degli istituti religiosi, p. 198), ma anche dalla curia papale (opponendosi, come nel caso del ramo napoletano della congregazione del SS. Redentore, al trasferimento a Roma della curia generalizia), persistenza di comunità ridotte a un numero esiguo di membri, discordie dovute al prevalere di fazioni su base familiare e clientelare, dissensi interni anche a causa di differenze regionali e contrapposizioni politiche (soprattutto dopo che i moti liberali del 1848 posero una di fronte all’altra la parte intransigente e quella filo-liberale, ora spalleggiate ora combattute dai poteri politici), abbandono degli istituti senza dispensa proprio in seguito al nuovo fervore risorgimentale. Fino a rendere necessario “il drastico provvedimento” della Congregazione dei vescovi e regolari del novembre 1849, che proibì “a tutti gli istituti esistenti in Sicilia di ammettere novizi alla professione” (Ibidem, 202-209).

Il processo di unificazione dell’Italia introdusse, a partire dal regno sabaudo, misure sempre più restrittive – i gesuiti, già espulsi nel 1848, vennero nuovamente soppressi nel 1855 – e provvedimenti intesi a privare le congregazioni religiose del riconoscimento giuridico necessario per il loro operare (G. Rocca, Istituti religiosi, 225-226) e a incamerarne i beni a favore dello stato. Ciò avvenne in assenza di un’uniformità legislativa – di difficile realizzazione anche nel passaggio al Regno d’Italia – e dunque in condizioni di forte discriminazione «fra ordini colpiti e tollerati» (G. Martina, La situazione degli istituti religiosi, 221). L’obiettivo, di nuovo, fu la riduzione delle comunità contemplative e di quelle ancora improntate a un regime economico basato sulla questua, ritenuta anacronistica e «contraria allo spirito del tempo» (G. Rocca, Istituti religiosi, 229), salvaguardando le corporazioni dedite alla predicazione, all’istruzione e all’assistenza e non coinvolte con i poteri assolutistici pre-unitari. Infine arrivò la legge del 1866, che «non faceva alcuna distinzione” tra congregazioni utili e inutili “e colpiva tutti gli istituti» indistintamente (G. Martina, La situazione degli istituti religiosi, 223). La sua applicazione, tuttavia, elastica e benevola, favorì negli ultimi decenni del secolo il superamento della crisi e “un generale sviluppo degli istituti religiosi in termini di vocazioni e di fondazioni” (De Giorgi, Cattolici ed educazione, 52).

Il confronto con gli apparati dello Stato e con i mutamenti socio-culturali dell’epoca caratterizzò, tra scontri e polemiche, arroccamenti e adattamenti, anche l’azione delle congregazioni fondate nel corso dell’Ottocento. Ben 23 furono i nuovi sodalizi maschili: molti rimasero a lungo non formalizzati canonicamente e furono riconosciuti dalla Chiesa entro lo status regolare solo agli inizi del Novecento (De Giorgi, Cattolici ed educazione, 10-11, 22). Di fronte a cambiamenti epocali e a urgenze sempre più pressanti, fiorirono nel XIX secolo istituzioni dedite soprattutto all’istruzione e all’assistenza (nel 1855 nacquero i salesiani) e caratterizzate da “un’acuta sensibilità pastorale e caritativa verso le nuove piaghe sociali prodotte dalla rivoluzione industriale”. Nel confronto con i problemi della modernizzazione, al cospetto di esiti non sempre felici e sovente contraddittori, fu il loro forse il lascito più significativo, capace sul lungo periodo di rendere disponibili forze e strumenti (ospedali, mense, ricoveri) per la quotidiana battaglia contro le nuove povertà. La conferma ulteriore della “obiettiva importanza” delle congregazioni religiose quale struttura organizzativa e culturale che ha attraversato “con influenza durevole le pieghe della società italiana” (Rosa, Introduzione, 8).

Fonti e Bibl. essenziale

G. Penco, Storia del monachesimo in Italia nell’epoca moderna, Edizioni Paoline, Roma 1968; G. Martina, La situazione degli istituti religiosi in Italia intorno al 1870, in Chiesa e religiosità in Italia dopo l’Unità (1861-1878), Atti del quarto Convegno di Storia della Chiesa, La Mendola 31 agosto – 5 settembre 1971, 4 voll., Vita e Pensiero, Milano 1973, I, Relazioni, 194-335; F. Venturi, Settecento riformatore. La chiesa e la repubblica dentro i loro limiti, Einaudi, Torino, 1976; G. Sergi, Vescovi, monasteri, aristocrazia militare, in G. Chittolini – G. Miccoli (edd.), Storia d’Italia, Annali, 9, La Chiesa e il potere politico, Einaudi, Torino 1986, 73-98; L. Châtellier, L’Europa dei devoti, Garzanti, Milano 1988; M. Pacaut, Monaci e religiosi nel Medioevo, Il Mulino, Bologna 1989; M. Rosa, Introduzione, in Idem, Clero e società nell’Italia contemporanea, Laterza, Roma-Bari, 1992, 5-41; G. Fragnito, Gli ordini religiosi tra riforma e controriforma, in M. Rosa (ed.), Clero e società nell’Italia moderna, Laterza, Roma-Bari 1992, 115-205; R. Rusconi, Gli ordini religiosi maschili dalla controriforma alle soppressioni settecentesche. Cultura, predicazione, missioni, in M. Rosa (ed.), Clero e società nell’Italia moderna, Laterza, Roma-Bari 1992, 207-274; G. Rocca, Istituti religiosi in Italia tra Otto e Novecento, in M. Rosa (ed.), Clero e società nell’Italia contemporanea, Laterza, Roma-Bari 1992, 207-256; S. Pricoco, Da Costantino a Gregorio Magno, in G. Filoramo – D. Menozzi (edd.), Storia del cristianesimo. L’antichità, Laterza, Roma-Bari 1997, 273-442; F. De Giorgi, Cattolici ed educazione fra restaurazione e risorgimento. Ordini religiosi, antigesuitismo e pedagogia nei processi di modernizzazione, Università Cattolica, Milano, 1999; G.G. Merlo, Nel nome di san Francesco: storia dei frati minori e del francescanesimo sino agli inizi del XVI secolo, EFR, Padova 2003; A. Barzazi, Gli affanni dell’erudizione. Studi e organizzazione culturale degli ordini religiosi a Venezia tra Sei e Settecento, Istituto veneto di scienze lettere ed arti, Venezia 2004; F. Landi, Storia economica del clero in Europa. Secoli XV-XIX, Carocci, Roma 2005; G. Pizzorusso, La Congregazione de Propaganda fide e gli ordini religiosi: conflittualità nel mondo delle missioni del XVII secolo, “Cheiron”, 43-44 (2006), 197-240; Libri, biblioteche e cultura degli ordini regolari nell’Italia moderna attraverso la documentazione della Congregazione dell’Indice, a cura di R.M. Borraccini e R. Rusconi, Biblioteca Apostolica Vaticana, Città del Vaticano 2006; G. Paolini, Il concordato toscano del 1815 sugli ordini religiosi. Documenti inediti, Le Monnier, Firenze, 2006; S. Pavone, Una strana alleanza. La Compagnia di Gesù in Russia dal 1772 al 1820, Bibliopolis, Napoli, 2008.


LEMMARIO




Congregazioni religiose maschili - vol. II


Autore: Giancarlo Rocca

La struttura istituzionale delle congregazioni religiose maschili. Anche per le congregazioni religiose maschili fondate in Italia dopo la rivoluzione francese valse il criterio, sino alla Conditae a Christo del 1900, che esse non erano “religiose” in senso stretto, ma solo pie associazioni di sacerdoti. Ciò era già chiaro – oltre i casi di “istituti secolari” come i Sacerdoti secolari dell’istituto Cavanis, fondati a Venezia nel 1802 o dei “missionari apostolici” come gli Stimmatini, fondati nel 1816 a Verona – al momento dell’approvazione dei Rosminiani, nel 1838. Di fatto, alla domanda se si potevano concedere loro i privilegi come “corporazione religiosa”, la S. C. dei Vescovi e Regolari rispose negando che essi potessero essere considerati “corporazione religiosa”, appoggiandosi sul fatto che essi avevano adottato un loro proprio modo di vivere la povertà religiosa, che lasciava il diritto di proprietà ai singoli religiosi, contrariamente a quanto usato sino alla rivoluzione francese dai religiosi che emettevano voti solenni e quindi rinunciavano a qualsiasi proprietà. E in una stessa linea si pose Giovanni Bosco, fondando nel 1859 a Torino il suo istituto, al quale volle dare il titolo di “Società”, distaccandolo da qualsiasi connotazione religiosa.

Conformemente alle usanze del tempo, anche in Italia alcuni istituti maschili (ad es., Rosminiani e Salesiani) ebbero un parallelo istituto femminile, posto alle dipendenze del superiore generale dell’istituto, ma a questo tipo di struttura si pose fine con la Conditae a Christo del 1900 e con le successive Normae del 1901, che riconoscevano una totale autonomia agli istituti femminili. Ci furono resistenze, perché gli istituti femminili traevano vantaggi da un legame con l’istituto maschile per la loro formazione e le scuole che dirigevano (per il caso salesiano cf Grazia Loparco, L’autonomia delle Figlie di Maria Ausiliatrice…: v. bibl.), e quando don Giacomo Alberione, fondatore nel 1914 della Pia Società di San Paolo e nel 1915 delle Pia Società Figlie di San Paolo, chiese alla S. C. dei Religiosi che il superiore generale dell’istituto maschile fosse anche superiore generale dell’istituto femminili si sentì rispondere che ciò non era più possibile dopo le disposizioni del 1900-1901. Così pure, quando negli anni 1949-1953, adducendo motivi apostolici, egli chiese nuovamente che l’istituto delle Figlie di San Paolo fosse diretto dal superiore generale della Società San Paolo, ricevette ancora una risposta negativa, perché la S. C. dei Religiosi era ormai ferma sulla autonomia di tutti gli istituti femminili.

Un contributo all’ampliamento dei fini delle congregazioni religiose venne offerto dalla Società San Paolo. Di fatto, quando l’istituto si presentò alla S.C. dei Religiosi per ottenerne il nulla osta in vista dell’approvazione diocesana, nel 1921 ricevette una risposta negativa perché l’apostolato della stampa non era ritenuto all’altezza della “congregazione religiosa” ed era preferibile, in quel caso, una semplice associazione di sacerdoti e laici. Fu solo con l’intervento di Pio XI che l’istituto poté essere approvato come congregazione religiosa (Rocca, La formazione della Pia Società San Paolo…: v. bibl.).

Le leggi di soppressione del 1866 e 1873. Come già per gli istituti religiosi femminili, le leggi di soppressioni del 1866, estese poi a Roma nel 1873, non portarono alla scomparsa di alcun istituto. Si continuò, anzi, a fondarne di nuovi, come i Missionari Comboniani nel 1867, i Giuseppini del Murialdo nel 1873, i Giuseppini d’Asti nel 1878, gli Scalabriniani nel 1887, i Saveriani nel 1898, i Piamartini nel 1900, gli Orionini nel 1903, i Poveri Servi di don Calabria nel 1907, i Servi della Carità o Guanelliani nel 1908 sulla scia di altre congregazioni dedite alla cura dei disabili, e tanti altri ancora che preferirono, nella quasi totalità, la struttura di congregazione clericale, riducendosi, quelle laicali, solo a pochi esempi (Fratelli Cottolenghini, Figli dell’Immacolata Concezione ecc.).

Per dare una sistemazione giuridica civile ai loro beni e salvarli da eventuali incameramenti, gli istituti maschili adottarono gli accorgimenti allora abituali. I Rosminiani continuarono a intestare i loro beni ai singoli religiosi, secondo la prassi del voto di povertà da loro instaurata. Il Seminario delle Missioni Estere, di Milano, al contrario, costituì nel 1866 una società privata dalla durata indefinita. I Salesiani, che avevano ormai aperto molte scuole, fondarono diverse società anonime o immobiliari: nel 1908 la “Società Anonima Proprietà Fondiarie”, in questo caso valendosi anche dei suggerimenti di papa Pio X e dandole una struttura pressoché “segreta”, conosciuta solo dal superiore generale dell’istituto e non dai confratelli; nel 1919 a Sampierdarena istituirono la “Società ligure-emiliana di beni immboli”; e a Roma, la “Società per case di educazione e istruzione”. Tanti altri istituti si posero nella stessa scia: i Passionisti fondarono nel 1920 la “Società immobiliare varesina”; i Guanelliani nel 1922 la “Società immobiliare anonima Don Guanella”; i Pavoniani nel 1922 la “Anonima Casa istruzione professionale adolescenti derelitti”; la Società San Paolo nel 1923 la Società anonima per azioni San Paolo; i Saveriani la Società anonima per azioni La Previdente; e ancora i Passionisti la Società Francesco Possenti, fondata nel 1927 a Recanati.

Vi furono anche istituti – ultime espressioni di un fenomeno largamente diffuso alla fine dell’Ottocento, quando molti sacerdoti si erano impegnati nella fondazione e conduzione di istituti di credito – che si impegnarono direttamente nella fondazione di “Piccoli crediti”, come allora si diceva. Gli ultimi esempi sembrano essere stati il Piccolo Credito di Rho, fondato nel 1902 come società anonima cooperativa, di cui fecero parte i Figli dell’Immacolata Concezione o Concezionisti, che avevano una casa a Saronno; e il Piccolo Credito di Alba-Benevello, fondato nel 1922 da don Giacomo Alberione.

Il Concordato del 1929 facilitò la sistemazione giuridica, in campo civile, dei beni degli istituti religiosi. In realtà, l’avvicinamento tra Chiesa e Stato era già avvenuto prima, in almeno tre circostanze. Nella prima, quando lo Stato aveva riconosciuto l’utilità degli istituti religiosi per le sue missioni e già poco dopo il 1890 aveva ottenuto di inviare in Eritrea i Cappuccini italiani per sostituirvi i Lazzaristi francesi, con la conseguenza che di fatto non pochi istituti – solo quelli maschili, a quanto risulta – ottennero il riconoscimento civile dal Governo italiano come missionari, e tra essi anche i Salesiani nel 1924 sotto il titolo di “Istituto salesiano per le missioni”. La seconda circostanza, più politica, era il pericolo socialista, individuato come il comune nemico della Chiesa e dello Stato. La terza, invece, riguardava la prima guerra mondiale quando moltissimi religiosi, al fronte come soldati o come cappellani militari, diedero il loro contributo alla patria.

Lo sviluppo delle congregazioni religiose maschili. Le statistiche mettono chiaramente in luce il crollo numerico dei religiosi in Italia dopo la generale soppressione del 1866 e 1873. In pratica, una ripresa, piuttosto limitata, comincia solo dopo il 1911 (Tabella n. 1).

Popolazione italiana e numero dei religiosi in Italia tra il 1861 e il 1931
  Numero popolazione Numero religiosi Indice popolazione Indice religiosi
1861 21.777.334 30.632 100 100
1871 26.801.154 9.163 123 30
1881 28.459.628 7.191 131 23
1901 32.475.253 7.792 149 25
1911 34.671.377 6.644 159 22
1921 38.033.000 7.309 175 24
1931 41.230.047 11.907 189 39

Tabella n. 1. Fonte: Tommaso Salvemini, Il clero secolare, i religiosi e le religiose in Italia dal 1881 al 1931 per compartimenti, Spoleto, Arti grafiche Panetto & Petrelli, 1945 (Estratto dagli “Atti della VII Riunione” della Società Italiana di Statistica, Roma, 27-30 giugno 1943).

Se a ciò si aggiunge che nel numero dei religiosi sono compresi anche Benedettini, Cistercensi, Camaldolesi, Francescani delle varie denominazioni, Gesuiti ecc., cioè religiosi che non appartengono alla figura giuridica della “congregazione religiosa”, qui considerata, appare quasi strepitoso lo sviluppo dei Salesiani, che nel 1931 arrivano a essere un terzo di tutti i religiosi italiani (Tabella n. 2).

Popolazione italiana e numero dei SDB tra il 1871 e il 1931
Popolazione Numero SDB Abitanti per un SDB
1871 26.801.154 77* 348.067
1881 28.459.628 347* 82.016
1901 32.475.253 857* 37.894
1911 34.671.377 2.554* 13.575
1921 38.033.000 2.355* 16.150
1931 41.230.047 3.595* 11.469

Tabella n. 2. Fonte: Archivio della curia generalizia SDB. I numeri contrassegnati con l’* si riferiscono non agli anni indicati per i censimenti, ma tutti a un anno prima, e quindi: 1870, 1880, 1890, 1910, 1920 e 1930.

L’interesse per l’istituzione salesiana dovette essere notevole anche da parte del Governo italiano, perché quando si discusse a quali istituti religiosi concedere le esenzioni fiscali previste dal Concordato del 1929 ci si rifece ai Salesiani. Se era facile, di fatto, definire quali opere fossero di culto e di religione nel caso di istituti dediti alla predicazione e al ministero pastorale, meno lo era nel caso di quelli che svolgevano attività educative o apparentemente commerciali o che in qualche modo rivestivano una veste commerciale. E per quanto riguarda l’attività educativa, la giurisprudenza considerò enti di culto o di religione le fondazioni destinate all’educazione della gioventù, purché modellate sul tipo di quella fondata da s. Giovanni Bosco, cioè su modello salesiano (Il Consiglio di Stato…: v. bibl.).

La confusa situazione politica dopo la seconda guerra mondiale fece sì che la S. C. dei Religiosi si sentisse in obbligo di esortare religiosi e religiose a partecipare alle elezioni del 1948, e si sa che in quelle circostanze non pochi religiosi non esitarono a rendersi presenti di persona, come oratori, ai comizi elettorali.

Le opere degli istituti. Nella molteplicità di opere svolte dalle congregazioni religiose maschili, con un notevole contributo alla creazione del welfare italiano tramite scuole, orfanotrofi, scuole speciali per sordomuti, oratori, ecc., tre meritano di essere sottolineate.

  1. a) Le colonie agricole. Nella tipologia della colonia agricola rientravano istituzioni tra loro differenti, come orfanotrofi, istituti di carità, colonie intese come centri in cui convogliare giovani e ragazzi da rieducare e, ovviamente, istituzioni che intendevano la colonia agricola come strumento di rinascita economica, diventando scuole pratiche di agricoltura (Giovanni Gregorini, Le colonie agricole…: bibl.). In questo campo si impegnarono diversi istituti religiosi, dai Giuseppini del Murialdo a Giovanni Piamarta, cui fu affidata la celebre colonia agricola di Remedello Sopra (Brescia); dagli Orionini ai Guanelliani, impegnati nella colonia San Salvatore in Pian di Spagna e poi a Roma nella colonia S. Giuseppe a Monte Mario; ai Salesiani che tra il 1882 e il 1906 ne diressero oltre una decina raggiungendo una notevole fama con don Carlo Baratta che nello sviluppo dell’agricoltura – attuata secondo il programma di Stanislao Solari – vedeva una nuova funzione del clero (Di una nuova missione del clero dinnanzi alla questione sociale, 1895), per giungere a don Giacomo Alberione che, avviando il suo istituto nel 1914, propose, tra l’altro, anche la fondazione di una colonia agricola.
  1. b) Le scuole professionali. Le congregazioni religiose maschili interessati alla formazione professionale di ragazzi e giovani sono state tante e tra essi vanno annoverate i Pavoniani a Brescia, gli Stimmatini, i Salesiani, i Figli dell’Immacolata Concezione o Concezionisti, i Piamartini, i Frati Bigi, i Fratelli delle Scuole cristiane. In questo quadro certamente i Pavoniani occupano un posto di rilievo con il loro “Istituto S. Barnaba” (con questo nome nel 1821) con le tante specializzazioni di lavoro a favore della gioventù diseredata, tra le quali la più ammirata è la tipografia, che diviene la prima o una delle prime scuole tipografiche italiane. L’interesse qui è notare l’evoluzione di queste scuole. Considerate scuole per ragazzi poveri, orfani e abbandonati, esse avevano inizialmente una preoccupazione soprattutto assistenziale. In questa concezione era naturale che le ore quotidiane di lavoro fossero tante – i ragazzi dovevano in qualche modo provvedere al proprio sostentamento – e poche o pochissime le ore dedicate alla scuola. I Pavoniani, ad es., avevano fissato un tirocinio di ben 9 anni per i loro ragazzi accolti dopo i 10 anni di età, intendendo che il primo triennio fosse tutto a carico dell’istituto; il secondo triennio avrebbe dovuto garantire all’istituto il sostentamento dei ragazzi con il lavoro da essi svolto; il terzo triennio avrebbe costituito un compenso per le spese sostenuto dall’istituto. Ora per questo lungo periodo di formazione essi avevano previsto un orario di lavoro di otto ore quotidiane, rimandando la “scuola” alla domenica. Stessa preponderanza delle ore di lavoro si ritrova all’inizio presso i Salesiani. Poco per volta, la questione mutò e non si tratta solo di imparare un lavoro, ma anche di impartire e ricevere una istruzione. Nasce quindi la questione se queste scuole siano semplicemente dei laboratori-officine per le classi inferiori della società e se non debbono, tenendo conto dell’obbligo di impartire una istruzione, trasformarsi in scuola. La legge del 1902 sul lavoro minorile portò a considerare le scuole professionali come dei laboratori veri e propri, con l’obbligo di fornire dei libretti di lavoro ai loro artigiani. Sarebbe stato lo stravolgimento delle iniziative di religiosi, e per rispondere alle nuove esigenze governative si stabilì una divisione della giornata in quattro ore di lavoro e quattro ore di scuola. Questa particolare struttura portò anche alla edizione di volumi riguardanti il modo di apprendere determinati mestieri (ad es., il tipografo, il calzolaio, il sarto ecc.) e alla figura del maestro coadiutore, maestro d’arti e capo officina nei laboratori e nelle scuole professionali, senza alcun paragone con il fratello converso degli Ordini mendicanti.
  1. c) Le opere a favore degli emigrati italiani. I Salesiani si impegnarono quasi subito nell’assistenza degli emigrati italiani in Argentina già nel 1875, ma poi anche in Belgio, Francia, Germania, Alessandria d’Egitto e, verso la fine dell’Ottocento, negli USA. Il grande passo, però, fu compiuto con la fondazione, nel 1887, di un istituto tutto dedito agli emigrati, gli Scalabriniani o Missionari di San Carlo. In un momento in cui lo Stato italiano ancora non si occupava esplicitamente del problema, con le loro iniziative gli Scalabriniani e altri istituti religiosi non si occuparono solo dei problemi religiosi, ma accanto alle parrocchie italiane fecero sorgere scuole e servizi di vario genere come assistenza ai porti di imbarco, regolarizzazione di documenti, ricerca di un alloggio e di un lavoro.

Dopo il 1950. Anche per le congregazioni religiose maschili italiane il maggior sviluppo numerico si ebbe attorno al 1960.

Religiosi italiani dopo il 1950
 
Anni 1966 1990 2000 2010
 
Religiosi 49.598 27.595 25.880 21.078

Tabella n. 3. Fonte. Per il 1966: S. C. dei Religiosi, Ufficio Statistico. Per gli anni successivi: Annuarium Statisticum Ecclesiae, agli anni indicati. Per gli anni 1990-2000-2010 il totale comprende: vescovi, sacerdoti, seminaristi, diacono permanenti, religiosi non sacerdoti e novizi.

Dopo il concilio Vaticano II gli abbandoni furono numerosi: i Salesiani nel periodo 1969-1973 persero circa 750 religiosi; i Fratelli delle scuole cristiane per il solo anno 1970, 11 religiosi; i Comboniani per il periodo 1975-1979, 39 religiosi. E, come nel case delle religiose, le difficoltà hanno portato a un generale impoverimento economico dei religiosi. Dal 1957 i religiosi italiani sono organizzati nella Conferenza Italiana dei Superiori maggiori (CISM), che pubblica la rivista Religiosi in Italia. Complessivamente, le congregazioni religiose clericali contavano in Italia (nel 2008) 5.542 sacerdoti e 1.014 fratelli laici, di cui oltre 4.000 superavano i 60 anni. La congregazione clericale con il maggior numero di membri era quella dei Salesiani, con circa 2.400 religiosi. Le congregazioni religiose laicali, invece, contavano (nel 2008) 48 sacerdoti e 441 fratelli, di cui oltre 200 avevano oltre 60 anni di età. La congregazione laicale con il maggior numero di membri in Italia era quella dei Fratelli delle Scuole cristiane, di origine francese, con circa 220.

Fonti e Bibl. essenziale

G. Rocca, La storiografia italiana sulla congregazione religiosa, in Religiose, religiosi, economia e società nell’Italia contemporanea, a cura di G. Gregorini, Milano 2008, 29-101. Alla sintesi di D. Gabusi, Metamorfosi della vita religiosa: frati e clero regolare, in Cristiani d’Italia. Chiese, società, Stato, 1861-2011, a cura di A. Melloni, II, Roma, Istituto della Enciclopedia italiana, 2011, 975-986, aggiungere: Ministero dell’Interno, Archivio Storico del Fondo Edifici di Culto, I, Le corporazioni religiose (1855-1977), a cura di C. Iuozzo, Roma, Palombi Editore, 2013. G. Loparco, L’autonomia delle Figlie di Maria Ausiliatrice nel quadro delle nuove disposizioni canoniche, in F. Motto, ed., Don Michele Rua nella storia (Istituto Storico Salesiano – Studi 27), Roma, LAS, 2011, 409-444. G. Rocca, La formazione della Pia Società San Paolo (1914-1927). Appunti e documenti per una storia, in Claretianum 31-32 (1981-1982), 475-690; come estratto: Roma 1992. Per il Consiglio di Stato e il modello salesiano: Il Consiglio di Stato nel sessennio 1941-1946, II, Roma 1949, 99; G. Catalano, Sulla equiparazione agli effetti tributari del “fine di culto o di religione” con i fini di beneficenza e istruzione, in Il diritto ecclesiastico 63 (1952), 268-341. Per il contributo al benessere della società italiana: G. Rocca – T. Vecchiato, edd., Per carità e giustizia. Il contributo degli istituti religiosi alla costruzione del welfare italiano, Padova, Fondazione “Emanuela Zancan”, 2011, in particolare lo studio di G. Gregorini, Le colonie agricole, 142-158, e di V. Rosato, Il contributo degli istituti religiosi a sostegno dell’emigrazione umana, 296-315.


LEMMARIO




Congressi eucaristici - vol. II


Autore: Giuseppe Tuninetti

I congressi eucaristici appartengono alla storia recente della Chiesa: contano 130 anni. Comparvero nell’ultimo scorcio dell’Ottocento, in Francia, a Lille, nel 1881, per decisione dell’Opera dei Congressi Eucaristici internazionali, istituita, per suggerimento di Leone XIII, nel gennaio dello stesso anno. L’iniziativa nacque dall’idea di Émilie Tamisier, ma fu un approdo del movimento eucaristico francese, promosso da varie forze e personalità (san Pier Giuliano Eymard e la sua congregazione, Chévrier, de Ségur e altri), con pellegrinaggi eucaristici, l’adorazione notturna e perpetua, le quarant’ore e altre iniziative, in una particolare atmosfera ecclesiale e politico- sociale.

I c. e., proponendosi anche come rivendicazione della visibilità della fede, professata dalla comunità cristiana, costituirono una forte risposta ecclesiale al contesto politico- culturale- sociale, che tendeva a comprimere le manifestazioni pubbliche della fede. Per questo (e anche per le caratteristiche della spiritualità eucaristica del tempo), essi si caratterizzarono per l’adorazione solenne e le grandiose processioni. Solo dopo il Vaticano II (1962-65) il momento centrale divenne la celebrazione eucaristica. Quanto fosse urgente (anche a causa della ostilità ambientale) la visibilità comunitaria e pubblica della fede si constatò proprio a Lille, dove le autorità proibirono la processione. Nel ventennio successivo i c. e. furono celebrati tutti in Francia e in Belgio, con due eccezioni, in Svizzera nel 1885 e a Gerusalemme nel 1893, quando il papa cominciò a presiederli tramite un legato a latere.

Dal primo di Lille all’ultimo di Dublino (2012), sono cinquanta i c. internazionali, tenuti in media ogni due anni o poco più, con continuità, interrotta solo dalle due guerre mondiali. In Italia, soltanto Roma ospitò il congresso, negli anni l905, 1922 e 2000, anno giubilare. Con Lourdes, nel 1914, si cominciò a seguire un tema guida. Dopo Roma nel 1922, per impulso di Pio XI, si ebbe una loro sistematica internazionalizzazione, con la celebrazione nei vari continenti, a rotazione: Amsterdam (1924), Chicago (1926), Sidney (1928), Cartagine (1930), Dublino (1932), Buenos Ayres (1934), Manila (1937), Budapest (1938 ), Barcellona (1952), ecc. Il Comitato promotore da Parigi passò a Roma nel 1950; nel 1986 Giovanni Paolo II gli attribuì la qualifica di “pontificio” e istituì i Delegati Nazionali per i C. E. Internazionali.

Quasi per gemmazione, dai congressi internazionali sorsero quelli nazionali, là dove il movimento eucaristico era più vivace e dove più diffuse erano le espressioni della devozione eucaristica. Non a caso, il primo congresso si celebrò in Italia, a Napoli (1891), sul tema Difesa dell’Eucaristia e del suo culto, che evidentemente intendeva opporsi alla cultura positivistica – materialistica e agnostica –, la quale, in un contesto di anticlericalismo aggressivo, era culturalmente dominante. Dal primo a quello di Ancona del settembre 2011, sono venticinque i c. italiani. Per numero, l’Italia (fino al 2002) distanzia Francia (18), Brasile (14), Argentina (10), Spagna (9), Perù (8), Filippine (5), Ecuador (5), Colombia, Nigeria e Portogallo (3), ecc.

A Napoli seguì nel 1894 Torino (L’Eucaristia nella devozione privata, nel culto pubblico, nei riguardi dei sacerdoti). Diversamente da Napoli, le autorità non autorizzarono la solenne processione, che si svolse all’interno della cattedrale di S. Giovanni B., mentre centomila persone gremivano la piazza antistante. Seguirono Milano nel 1895 (L’Eucaristia, presenza del Redentore), Orvieto nel 1896 (L’Eucaristia e l’azione sociale) e infine Venezia nel 1897 (Fede, storia, culto dell’Eucaristia). Poi una lunga parentesi, fino al 1920, dovuta a ragioni intra-ecclesiali (crisi del movimento cattolico e modernismo) ed extra-ecclesiali (turbolenze sociali e politiche, eventi bellici); non ultima, l’assenza di una organizzazione nazionale, fino al 1913, quando fu istituito a Roma il Comitato permanente italiano dei C. E.

Il vuoto venne colmato dai c. locali, soprattutto diocesani (frequenti fino al Vaticano II), ma anche, più rari, regionali, celebrati secondo lo schema collaudato e con frequenza variabile, dal Piemonte alla Sicilia. A titolo di esempio: nell’isola, iniziò Catania nel 1905, seguita da Acireale nel 1913 e da Mazara del Vallo nel 1914; in Piemonte, Ivrea dal 1911 al 1964 ne celebrò vent’otto, quasi ogni anno; a Bologna dal 1927 si instaurò la prassi della celebrazione decennale.

I c. nazionali ripresero a Bergamo nel 1920, cui seguirono, a cura del Comitato permanente nazionale, Genova (1923), Palermo (1924), Bologna (1927), Loreto (1930) Teramo (1935), Tripoli, colonia italiana (1937). Dopo la lunga parentesi bellica e postbellica, fu la volta di Assisi (1951), Torino (1953), Lecce (1956) e Catania (1959). A Pisa (1965), pur in pieno concilio, prevalse ancora lo schema preconciliare. La svolta si ebbe nel 1972, a Udine, con un tema tipicamente conciliare, Eucaristia e comunità locale; iniziò la partecipazione del papa. Gli fecero eco Pescara (1977), Il giorno del Signore è la Pasqua della settimana, e Milano (1983), L’Eucaristia al centro della comunità e della missione. Seguirono Reggio Calabria (1988), Siena (1994), Bologna (1997), Bari (2005) e infine Ancona (2011). Con il nuovo statuto del 1996 la gestione dei congressi fu assunta dalla CEI, che li ha inseriti nella programmazione pastorale della Chiesa italiana. Il significato storico e il merito ecclesiale dei c. e.: con modalità diverse e cangianti hanno proclamato la dimensione comunitaria e pubblica della fede, e testimoniato e promosso la centralità dell’Eucaristia e quindi di Cristo nella vita della Chiesa.

Fonti e Bibl. essenziale

Aa.Vv., La Chiesa nella società liberale, 5/I, La vitalità cristiana, Marietti, Torino 1977, 150-171; A. Rimoldi, Profilo storico dei Congressi eucaristici nazionali, Comitato direttivo del 20° CEN, Milano 1981; M. Marcocchi (a cura di), I Congressi eucaristici nella Chiesa e nella società italiana, Vita e Pensiero, Milano 1983; Pontificio Comitato per i Congressi eucaristici internazionali, I Congressi eucaristici internazionali per una nuova evangelizzazione, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 1991; E. Vecchi, La dimensione sociale dell’Eucaristia. Storia, radici e tradizione dei Congressi Eucaristici Nazionali in Italia, Edizioni Centro Eucaristico, Ponteranica 2004; V. Angiuli, I congressi eucaristici nazionali e internazionali, Ecumenica Editrice, Bari 2005.; A. Bello, I congressi eucaristici e il loro significato teologico e pastorale, San Paolo, Cinisello Balsamo (MI) 2005; J.M. Canals Casas, Experiencias y impactos de los Congresos Eucaristicos internacionales en la vida ecclesial, in «Pastoral Lturgica» 3 (2008), 159-180; P. Marini, Eucaristia globalizzata. Il fenomeno dei congressi eucaristici, in «Vita Pastotale» 8 (2011), 77-82.


LEMMARIO




Conservatori – vol. I


Autore: Ferri Giacomo

 

Per noi oggi i conservatori indicano le scuole superiori di musica. Tuttavia, anche se il loro significato si è evoluto nel susseguirsi delle epoche storiche, con scopi anche per la formazione musicale, fino all’epoca recente i conservatori sono stati una delle configurazioni più caratteristiche dell’offerta assistenziale e caritativa in Italia. Essi sorgono inizialmente come istituti di internamento assistenziale destinati ad accogliere bambine e bambini orfani o abbandonati, con il compito di conservarne la virtù. Questi luoghi indicano, verso la fine del medioevo, gli orfanotrofi e gli istituti per i giovani pericolanti, di entrambi i sessi, ove i bambini sono «conservati», ovvero internati, con il fine di crescerli in un ambiente protetto. Tali istituti sono sostenuti ordinariamente da alcune confraternite, da benefattori: sia membri del clero, vescovi protettori, che da ricchi nobili.

I conservatori e strutture assistenziali di questo tipo si sviluppano nei secoli, con una grande affermazione nel periodo post-tridentino, che accentua la preoccupazione etico-religiosa della salvezza, rinvigorendo gli ideali di carità, fino alla fine dell’Ottocento, quando cesseranno di esistere.

Tra Seicento e Settecento, si ha il maggiore periodo di attenzione alle opere di carità, si attua dunque, il perfezionamento di pie opere, quali ospedali, confraternite, ospizi, istituti scolastici, carceri, secondo il sistema di stretta e controllo sociale degli Stati di Antico Regime. In questo determinato contesto, i conservatori assumono una funzionalità perlopiù in favore del genere femminile, dal momento che la separazione sociale, in base al sesso, comprende, non solo il lavoro, ma anche l’assistenza caritativa. La donna all’interno della società è considerata essenzialmente figlia, moglie, madre e sorella, all’interno di un ambiente famigliare il cui governo spetta prevalentemente all’uomo, se non per alcune mansioni domestiche. La seconda alternativa per la donna è la vita monastica, soprattutto di vita claustrale, che diventa obbligatoria con le imposizioni tridentine. Il Concilio di Trento, con le disposizioni sulla clausura, determina la nascita dei «monasteri aperti», che non accettano la clausura (Devote, Oblate, Pinzochere, Case sante, Beghine, Stabilite), ma che si identificano nell’istituto, tollerato dai canoni, denominato comunemente «conservatorio». La presenza di questo tipo di istituti permette la sopravvivenza dei carismi – non claustrali – della vita religiosa, all’interno del più ampio insieme dell’assistenza, e dell’integrazione della donna nella società.

La nascita dei conservatori è legata alla necessità di togliere dalla strada e dalla povertà le cosiddette donne “pericolanti”. Il Piazza, alla fine del Seicento, descrive così i conservatori: «Tra’ l’altre Opere di segnalata Pietà esercitata in Roma, spicca a meraviglia quella di conservar l’onestà nelle povere Zitelle abbandonate da ogni umano aiuto; peroché se li altri istituti servono per sanar le ferite, e per nodrire i corpi, e sostentarli; questo conserva l’innocenza de’ corpi, e dell’anime, e le assicura dalla preda de’ tristi». Il cardinale Morichini, nel suo studio dell’assistenza caritativa in Roma nell’Ottocento afferma: «I conservatori furono eretti, perché ponessero in salvo l’onestà delle fanciulle, dessero loro una cristiana educazione, ed abilitandole ai lavori donneschi e alle faccende domestiche, le preparassero a diventar buone madri di famiglia». La povertà rende pericolosi tutti i soggetti sociali, ma ancor più la donna è minacciata dall’uomo, per questo sorge la necessità di proteggerla. Allo stesso tempo l’instabilità sociale della donna, simbolicamente identifica il disordine morale, mentre la condizione degli uomini, diversamente potrebbe essere soprattutto causa di un pericolo di tipo criminale. Infatti, se per gli uomini il soccorso comporta l’inserimento nel mondo del lavoro e la scolarizzazione, per evitare il vagabondaggio e la delinquenza, nei confronti della donna il soccorso si propone di tenerle lontane dalla prostituzione. Di qui interventi preventivi o riparativi tesi a soccorrere – tramite reclusione – esposte, orfane, ragazze pericolanti, donne pentite, malmaritate e vedove con l’intenzione di avviarle ai destini femminili secondo l’ordine sociale del tempo: il matrimonio, o la monacazione.

Il soccorso alle «zitelle» – come venivano chiamate le nubili, con un accento non ancora spregiativo – ha lo scopo di salvaguardare – conservare – l’onore femminile in pericolo.

In vista di questo obiettivo, questi luoghi non si limitano ad ottemperare ai bisogni primari, ma si caratterizzano come luoghi deputati a mantenere intatta la virtù delle donne in vista della realizzazione del loro destino. Tuttavia, mentre per gli uomini l’assistenza può durare un periodo determinato, per le donne la reclusione può durare anche tutta la vita, visto che coincide con il loro destino, la realizzazione di ogni donna come sposa, o come monaca.

Le donne sono educate su un’impronta propria basata sulla costruzione di una femminilità identificata sui i modi e sugli stili di una educazione di genere, preparando buone madri e mogli destinate a lavorare in ambiente esclusivamente domestico.

I conservatori nascono originariamente per povere e orfane, ma poi finiscono per accogliere ragazze appartenenti ai ceti medio-bassi che godevano di una qualche disponibilità economica o raccomandazione privata. Nel corso degli anni denaro, protezione di padroni e benefattori, raccomandazioni divengono chiave di volta attorno a cui si organizza il sistema di accesso in istituti tesi, più che a soccorrere la miseria, ad aiutare classi particolarmente protette, per esempio le figlie di dipendenti statali. Così all’interno della società, figure di benefattori e protettori, molti di essi cardinali di curia, attraverso rapporti di patronage cercano di amministrare i propri fondi caritativi secondo regole di prestigio familiare e di consolidamento delle proprie clientele, al fine di ottenere l’ascesa nelle istituzioni ecclesiastiche.

L’esperienza dei conservatori è particolarmente caratteristica del panorama italiano. La Roma pontificia, in particolare è il luogo dove i conservatori sono più numerosi all’interno del suo grande sistema di beneficienza, ma anche nel Regno delle due Sicilie. Nel Granducato di Toscana, invece, dopo la strutturazione leopoldina del 1785, i conservatori hanno più la connotazione di educandati e scuole, assumendo una conformazione propria. Nel resto dell’Italia si notano: la fondazione di Carlo Borromeo, il Conservatorio di Santa Sofia fondato a Milano nel 1572; il conservatorio delle Sapelline a Torino, il conservatorio delle Maestre Pie dell’Addolorata a Coriano; il conservatorio Franceschini a Palestrina; il conservatorio delle Clarisse della SS.ma Annunziata a Porto Maurizio.

I principali conservatori funzionanti a Roma fino al XIX secolo sono quello delle Proiette del Santo Spirito e quello delle Neofite, per convertite ed ebree esposte; Santa Caterina dei Funari, il più antico, fondato alle metà del ՚500 e quello di S. Eufemia, aperto nel 1595; il conservatorio delle Mendicanti (1650), quello dell’Immacolata Concezione di Maria detto delle Viperesche (1668); il conservatorio della Divina Provvidenza, noto anche come Ripetta (1672), il conservatorio di San Giovanni in Laterano (1692-93), connesso con l’ospizio apostolico di Ripa, dove sarà trasferito nel 1797; quello di SS. Clemente e Crescentino, detto delle Zoccolette (1698). Nel corso del ՚700 vengono aperti S. Maria del Rifugio del padre Bussi, noto poi come S. Onofrio (1703), S. Pasquale Baylon (1737), il conservatorio Pio (1775), quello della Santissima Trinità in S. Paolo primo eremita (1786), il conservatorio Borromeo (1787), il conservatorio della SS.ma Addolorata detto delle Pericolanti (1788), il conservatorio o ritiro della SS. Croce in S. Francesca Romana (1793). Di fondazione ottocentesca sono il conservatorio del Rifugio di S. Maria in Trastevere (1806), il conservatorio dell’Addolorata o della Sagra famiglia (1820), il conservatorio Pallotta (1836), destinato in seguito al ricovero delle orfane del colera del 1837, e il conservatorio Torlonia (1841). Sempre nell’800 vengono rilanciate, sotto il governo delle religiose del Buon Pastore, due istituzioni che erano state fondate rispettivamente nel ՚600 e nel ՚700: S. Croce della penitenza alla Lungara e il conservatorio del Rifugio della Lauretana. Molti altri conservatori sorti nell’arco di questi secoli finirono per estinguersi o confluirono in istituzioni di più forte tenuta.

Il cambiamento nella composizione sociale delle assistite, il dilatarsi dei tempi di permanenza e il problema degli esiti delle ricoverate – nel quadro di una più generale critica dell’abbandono dello spirito di fondazione – sono i temi che più visibilmente emergono nel corso riformatore dell’800. La Rivoluzione Francese e la dominazione napoleonica, su queste basi, cercano di riformare il sistema assistenziale. In questa fase, si propone la riforma e la ricostituzione degli ordini religiosi, insistendo affinché i conventi femminili siano accessibili a vedove, nubili, malmaritate e divorziate, per risolvere il problema sociale delle donne sole e in difficoltà.

Il fenomeno che determina il maggiore cambiamento è il passaggio da strutture per fanciulle bisognose ad educandati femminili per fanciulle di famiglie oneste e civili. Un indicatore indicativo di questo passaggio è il progressivo aumento in percentuale delle ricoverate che al momento dell’ammissione hanno entrambi i genitori viventi. Le motivazioni dei cambiamenti sono soprattutto di carattere finanziario. I conservatori sono nati quasi sempre su iniziativa di singoli individui o gruppi ristretti di privati che hanno donato beni e una somma circoscritta al fine di mantenere una determinata fondazione. Nella fase successiva, ogni luogo ha bisogno di consolidarsi con aiuti più stabili e protezioni più influenti. A tal scopo si assiste ad una serie continua di aggiustamenti dei progetti iniziali, rimodellati secondo linee di fattibilità in cui risultano rilevanti le risorse economiche e umane che si attivano intorno ad ogni singolo istituto. Una volta finiti i proventi dai benefattori della fondazione, l’istituto non può più assistere in modo indiscriminato fanciulle povere. La presa d’atto del carattere limitato dell’offerta assistenziale impone un’obbligata selezione delle ricoverate. Un’altra ragione del progressivo cambiamento dei conservatori è l’offerta delle doti che ogni istituto detiene per il destino delle proprie fanciulle. I conservatori diventano una sede intermedia tra le famiglie di origine e l’eventuale nuova famiglia, religiosa o laica delle giovani recluse. Per tale ragione, la carità delle origini, pian piano viene sostituita da rapporti dove contano logiche di potere e reti clientelari. Si assiste, anche, nel corso dell’Ottocento, ad un invecchiamento progressivo dell’assistite. Ciò è causato dalla sempre maggiore importanza data dall’istituto alla riuscita del matrimonio o della monacazione della ragazza assistita. Infatti, la dimissione di un istituto di una giovane, senza che abbia ottenuto il suo destino, ne avrebbe decretato il fallimento. Il ristagno delle ricoverate e l’obbligo a contenere il numero dei nuovi ingressi, imposto dai problemi economici, rischia di annullare l’efficacia e la credibilità sociale del progetto dei conservatori con una sempre maggiore diminuzione delle assistite. Inoltre, il mantenimento degli istituti sempre più costoso determina il cambio delle mansioni delle giovani, verso un lavoro di tipo manifatturiero.

Nell’Ottocento, la mancanza di ricambio delle giovani assistite e il progressivo invecchiamento, dovuto ad una perdita di fiducia negli istituti, è per la società dimostrazione dell’insuccesso dei conservatori, identificati, oramai, come luoghi tesi a riprodurre se stessi, e sempre mento un veicolo di mediazione e di integrazione. Il risultato sarà il progressivo snaturamento dei conservatori, e la loro trasformazione, pur mantenendone il nome, in educandati e scuole professionali. Le questioni riguardanti la nuova fisionomia dei conservatori portano lo Stato Pontificio a riorganizzare i regolamenti di questi istituti, a seguito della visita apostolica ordinata da Leone XII nel 1825. Nell’organizzazione dei conservatori, tentata nel 1826, si cerca di ottemperare al problema alla permanenza delle ospiti, oltre i limiti del bisogno assistenziale, a quello di migliorare la conduzione degli istituti, per mezzo della formazione delle reggenti e a quello di valutare il profitto dei lavori manifatturieri delle donne recluse, non sempre compatibili con l’istruzione e l’educazione delle ospiti per farne buone madri, o monache. Questa riorganizzazione non è mai stata portata a termine, sebbene anche Pio IX abbia proposto di limitare la permanenza nell’istituto ad un massimo di 25 anni di età.

Alla fine dell’Ottocento conservatorio ed educandato tendono verso una certa simbiosi, sì da essere quasi sinonimi. I conservatori cambiano il personale dirigente e si assiste sempre più al passaggio di numerosi conservatori nelle mani dei nuovi istituti religiosi che trasformano progressivamente le antiche istituzioni o in orfanotrofi, o in scuole, abbandonando le manifatture e limitando la permanenza delle alunne, in accordo con il nuovo Stato Unitario.

Per quanto riguarda i conservatori intesi come “non monasteri”, la Santa Sede riconosce il carattere religioso, con la Conditae a Christo del 1900, prima, e poi in maniera definitiva con il Codice di diritto canonico del 1917. In questo modo è accettato definitivamente come religioso un «terzo stato» che si pone a metà tra il monastero e il matrimonio. La Chiesa ha accettato la temporaneità dei voti fino alla fine dell’Ottocento, ma poi gradatamente ha chiesto la perpetuità anche agli istituti di voti semplici come condizione per essere approvati. A questo punto il termine conservatorio non è stato più utilizzato, uscendo dall’uso abituale canonico. I conservatori sono ormai trasformati definitivamente in congregazioni religiose centralizzate, o in istituti nuovi.

Fonti e Bibl. Essenziale

Barry, Jonathan – Jones, Colin (ed.), Medicine and charity before the welfare state, London – New York, 1991, Cameraro, Alessandra, «Assistenza richiesta ed assistenza imposta: il conservatorio di S. Caterina della Rosa di Roma», Quaderni Storici, 82,1993, 227-260; Cohen, Sherill, The evolution of woman’s asylum since 1500. From refuges for ex-prostitutes to shelters for battered woman, Oxford1992; Dalla carità all’assistenza, «Studi, metodi, fonti 1978. Atti del convegno di Torino del 21-22 ottobre 1988», Sanità scienza e storia, 1, 57-203, 1990; Droulers, Paul – Martina, Giacomo – Tufari, Paolo (ed.), La vita religiosa a Roma intorno al 1870. Ricerche di storia e sociologia, Roma 1971; Fanucci, Camillo, Trattato di tutte le opere pie dell’alma città di Roma, Roma 1601; Ferrante, Lucia – Palazzi, Maura – Pomata, Gianna, (ed.), Ragnatele di rapporti. Patronage e rei di relazione nella storia delle donne, Torino, 1988; Foucalt, Micheal, Sorvegliare e punire. Nascita della prigione, Torino 1993; Groppi, Angela, Il welfare prima del welfare, Roma 2010;id., I Conservatori della Virtù, donne recluse nella Roma dei Papi, Roma 1994; Martina, Giacomo, «La situazione degli istituti religiosi in Italia intorno al 1870», in Chiesa e religiosità in Italia, dopo l’Unità (1861-1878), Atti del IV Convegno di Storia della Chiesa – 1971, Milano 1973; Monachino, Vincenzo, La carità cristiana in Roma, Bologna 1968; Morichini, Carlo Luigi, Degli Istituti di carità e d’istruzione primaria in Roma. Saggio storico e statistico, Roma 1835; id. Degli Istituti di pubblica carità e d’istruzione primaria e delle prigioni in Roma…, Roma 1842; id. Degli Istituti di carità per la sussistenza e l’educazione dei poveri e dei prigionieri in Roma, 1870; Monticone, Alberto (ed.), I poveri in cammino. Mobilità e assistenza tra Umbria e Roma in età moderna, Milano 1993; Moroni, Gaetano, Dizionario di erudizione storico-ecclesiastica da S. Pietro sino ai nostri giorni, vol. XVII, Venezia1842, 9-42; Piazza, Carlo Borromeo, Eusevologio romano, overo Delle opere pie di Roma…, Roma1698;Piccialuti Caprioli, Maura, «Confraternite romane e beneficienza pubblica tra 1870 e il 1890», Ricerche per la storia religiosa di Roma, 5, 1984, 293-333; Rocca, Giancarlo, Donne religiose. Contributo a una storia della condizione femminile in Italia nei secoli XIX-XX, Roma 1992; id., «Conservatorio ed educandato nell’Ottocento», Annali di storia dell’educazione, 2, 1995, 59-101;Rosa, Mario, «Chiesa, idee sui poveri e assistenza in Italia dal Cinque al Seicento», Società e Storia, 10, 1980, 775-806; Zarri, Gabriella, «Monasteri femminili e città (secoli XV-XVIII)», in Storia d’Italia, Annali 9, La Chiesa e il potere politico dal Medioevo all’età contemporanea, Torino 1986, 359-429.

LEMMARIO




Conversioni - vol. I


Autore: Irene Fosi

Il significato del termine conversione (conversio) per la Chiesa cattolica indica il ritorno di un’anima traviata a Dio e il suo passaggio dal peccato allo stato di grazia. Nella storia culturale e religiosa il termine indica anche la scelta che una persona compie aderendo a un nuovo credo lasciando la precedente confessione, come l’abbandono dell’ateismo per abbracciare una verità religiosa. Il concetto di conversione appare comunque difficile da definire per la complessa e molteplice presenza di fattori che la determinano sia a livello religioso che culturale, politico e sociale nei diversi periodi storici. Nel Cristianesimo, la conversione ha avuto principalmente due modelli forgiati sulle vicende degli apostoli Pietro e Paolo: la conversione folgorante e immediata di Saulo/Paolo e il lento percorso conversionistico di Pietro, che proprio per le sue drammatiche contraddizioni, ha stimolato ricerche più approfondite sia in ambito storico che antropologico. Anche gli studi, soprattutto i più recenti, sulle conversioni riflettono la pluralità di interpretazioni del tema: non solo sono stati analizzati i motiva conversionis, le cause, i diversi percorsi e le fasi individuali dal punto di vista psicologico, teologico, culturale, ma la sociologia della religione e l’antropologia hanno considerato anche i fenomeni di acculturazione, costruzione identitaria, assimilazione legati alla conversione. Nell’Europa dell’età moderna il problema delle conversioni è strettamente collegato alle vicende politiche e, nelle differenziazioni geografiche e cronologiche, si declina in relazione al giudaismo, alla diffusione della Riforma protestante e al fiorire di confessioni riformate, alla presenza musulmana nel Mediterraneo e nei Balcani, oltre che in relazione alle scoperte geografiche, all’azione missionaria nelle Americhe e nell’Estremo Oriente. Anche in Italia fra Cinquecento e Settecento la conversione riguardò ebrei, musulmani – per lo più schiavi turchi, ma anche mercanti – uomini e donne provenienti da paesi europei dove si erano diffuse le confessioni riformate.

Ebrei. La conversione degli ebrei, il battesimo forzato rappresentano costanti all’interno del Cristianesimo e della storia della Chiesa, alimentate anche dall’idea, presente nei Padri e in particolare in Agostino, che la fine dei tempi sarebbe giunta con la conversione di tutti gli infedeli e degli ebrei. Tuttavia, il giudizio cristiano riguardo agli ebrei non fu univoco né uguale nel tempo, ma nel corso del Medio Evo si fece più forte in seno al corpo cristiano il timore di deviazioni e complotti che individuarono spesso negli ebrei il capro espiatorio di un’ansietà diffusa nella società. L’espulsione dalla Spagna (1492) e la conversione forzata in Portogallo (1493) condussero molti ebrei in Italia, sia per un periodo limitato, in attesa di spostarsi in altre parti d’Europa o nell’impero ottomano, sia per stabilirvisi definitivamente. Dal 1542, anno della sua istituzione, l’Inquisizione romana si occupò anche degli ebrei che non ricadevano sotto la sua giurisdizione in quanto infideles, ma potevano essere perseguiti come giudaizzanti – gli ebrei convertiti, battezzati, che ritornavano all’antica religione o ne seguivano di nascosto le pratiche – sia per aver commesso atti o pronunziato parole contro la religione cristiana. La politica conversionistica nei confronti degli ebrei, già sottoposti a limitazioni con l’istituzione dei ghetti e a espulsioni, pur diretta dalle norme inquisitoriali e dalle bolle pontificie – in particolare la Cum nimis absurdum (1555) di Paolo IV che istituiva il ghetto a Roma, la Hebreorum gens (1569) di Pio V, la Antiqua Iudeorum improbitas (1581) e le bolle Cum Hebreorum malitia e Caeca et obdurata (1593) di Clemente VIII – assunse carattere diverso negli stati italiani e nel corso dei secoli. Fra ‘600 e l’inizio del ‘700 non cambiò sostanzialmente la politica di conversioni né mutarono gli strumenti usati per realizzarla: dalla creazione dei ghetti, all’istituzione di collegi per neofiti, alle prediche coatte alle quali era costretto a partecipare di sabato un certo numero di ebrei. Il proselitismo della Chiesa oscillò fra la volontà di segregazione e di conversione, tuttavia non mancarono contatti e strategie per aggirare i divieti imposti dalle normative e se da un lato si arginarono, almeno in parte, forme di violenza rituale, dall’altro divenne più radicato e diffuso il pregiudizio antiebraico. Roma si propose come il centro e l’esempio della volontà conversionistica della Chiesa cattolica. Nel 1543 Paolo III istituì la Casa dei Catecumeni e dei Neofiti che doveva guidare alla conversione, spontanea o forzata ma anche disgregare al suo interno la comunità ebraica. Queste istituzioni si diffusero, pur con caratteristiche diverse, in molte città italiane: da Firenze a Ferrara, da Venezia a Torino. Fra il 1614 ed il 1797 a Roma furono convertiti al cristianesimo in questa istituzione 1959 ebrei e 1086 musulmani. Il battesimo con la scelta del nome, spesso in onore di padrini e madrine, segnava il definitivo mutamento identitario oltre a sanzionare la scelta di fede. Non è facile conoscere i motivi di individuali conversioni spontanee: le condizioni materiali, la volontà di rompere l’isolamento e di facilitare l’inserimento nella società, la possibilità di contrarre matrimonio con cristiani, di ottenere privilegi come la cittadinanza, esenzioni fiscali, facilitazioni nei traffici commerciali possono essere indicate come alcune cause. Più drammatiche furono le vicende delle conversioni forzate, dei battesimi imposti soprattutto a donne e a bambini contro la volontà dei genitori, resa più incisiva dagli anni ’30 del Settecento e sotto il pontificato di Benedetto XIV, quando l’intransigenza antiebraica, alimentata da fattori economici, si saldò con la lotta contro il diffondersi delle idee illuministe. Non mancarono le reazioni da parte degli appartenenti alle comunità ebraiche di fronte a questa violenta strategia conversionistica, controllata dalle autorità ecclesiastiche, guidata e avallata dall’Inquisizione. Nel corso del Settecento le conversioni se divennero meno numerose, continuarono tuttavia a rivestire un forte significato simbolico, saldandosi, nei diversi stati italiani, a livello propagandistico con la difesa della Chiesa di fronte al potere statale, come si evince dalla pubblicistica e dalla propaganda che esaltavano figure di neofiti divenuti zelanti difensori della nuova fede fra i loro ex correligionari.

Musulmani. La presenza, negli stati italiani di islamici è da ascriversi a fattori legati alla posizione geografica delle città, alle vicende politiche che segnarono, in età moderna, i rapporti con l’impero ottomano. Porti franchi, come Ancona, città come Venezia, Napoli, Genova ospitarono costantemente comunità di mercanti musulmani rendendo assai difficile il controllo delle autorità ecclesiastiche su di esse e limitando, quindi, il problema conversionistico. Diversa la situazione degli islamici – turchi, «mori», «negri», come venivano genericamente indicati – fatti schiavi in seguito alla cattura durante operazioni militari condotte nel Mediterraneo sia per mare che per terra, sia giunti nelle città italiane tramite scambi commerciali. La schiavitù era legittima anche per la Chiesa: una bolla di Paolo III (1548) aveva stabilito la liceità di tenere schiavi per «publico utile e bene» sia da parte di singole persone che di istituzioni. Ospizi e collegi per catecumeni, come quelli citati, servivano per preparare alla conversione anche individui di fede islamica che avrebbero poi ricevuto il battesimo e assunto un nuovo nome, spesso in onore di padrini e madrine, comunque segno di un cambiamento identitario e dell’ingresso nella comunità cristiana. Questo sacramento, tuttavia, non cancellava la condizione di schiavitù – come era stato ribadito anche dal cardinal De Luca (1673) – ma, percepito come espressione di docilità e disponibilità alla sottomissione, poteva favorirne l’integrazione presso i padroni che, di solito, continuavano a servire. Le conversioni di musulmani alla fede cristiana, minori numericamente rispetto a quelle di ebrei, sembrano essere state condotte con minore rigore e durezza da parte delle autorità ecclesiastiche. Una particolare ‘conversione’ era poi quella dei rinnegati, cristiani che, catturati da navi turche, erano stati costretti a convertirsi all’Islam per paura o per violenze subite. Riscattati da ordini religiosi come i Trinitari o Mercedari, chiedevano di rientrare nel grembo della Chiesa. Le loro storie, che narrano avventurosi e tragici percorsi di vita, mostrano un atteggiamento indulgente da parte delle autorità cattoliche, specie del Sant’Uffizio, che doveva sincerarsi del pentimento, riconoscere la conversione, reinserire il penitente nella comunità cristiana.

Eretici. La mobilità nell’Europa di età moderna non fu frenata dalle divisioni confessionali: mercanti, viaggiatori, soldati varcavano in continuazione confini, non solo geografici ma anche confessionali. Dopo la Riforma, bolle pontificie – prima di tutte la bolla In Coena Domini, integrata dalla Cum sicut di Clemente VIII e Romani Pontificis di Gregorio XV (1622) – proibivano l’ingresso e la permanenza di stranieri eretici come di apostati in Italia. Chi fosse scoperto doveva essere allontanato e, in caso di rifiuto, condotto davanti al tribunale della fede per convertirsi. In realtà, il controllo si mostrò assai difficile e molte città attuarono una politica di protezione attraverso salvacondotti e privilegi nei confronti di mercanti stranieri eretici, studenti, viaggiatori. Tuttavia, la rete inquisitoriale periferica esercitò a lungo controlli, giungendo in non rari casi al sequestro di beni se famiglie di mercanti rifiutavano di allontanarsi o di convertirsi. Non mancarono conflitti con le autorità statali che sempre meno tolleravano la pressione conversionistica inquisitoriale. Molti stranieri eretici riuscivano a evitare i controlli del tribunale della fede con un accorto nicodemismo; altri, abbastanza numerosi come dimostrano fonti inquisitoriali, si presentavano spontaneamente al Sant’Uffizio (sponte comparentes) mostrando di volersi convertire. L’abiura veniva di solito preceduta da un periodo di indottrinamento nella fede cattolica, condotto, di solito, presso conventi di ordini religiosi o presso istituzioni destinate a questa missione, come ad esempio l’Ospizio dei Convertendi, fondato a Roma nel 1673. Trattandosi, per lo più di appartenenti a confessioni cristiane riformate, i convertiti non venivano di nuovo battezzati: questo avveniva solo in alcuni casi, sub condicione, quando si nutrivano dubbi sulla correttezza e quindi sulla validità del sacramento ricevuto per mano di «ministri eretici» o in circostanze non chiare. Il neocattolico veniva sostenuto economicamente, sia da privati, di solito nobili o ecclesiastici di rango, sia da confraternite, attraverso elemosine per facilitare la sua integrazione nella società ospite ed evitare la caduta in uno stato di miseria che potesse fargli rimpiangere la sua condizione e la fede precedenti. Le motivazioni che spingevano alla conversione sono, anche in questi casi, molteplici e di difficile definizione, intrecciandosi con elementi di natura economica, volontà di integrazione nella società, opportunità di carriera, libertà di movimento nei territori cattolici. L’intensa propaganda che, in età moderna, si sviluppò attorno alle conversioni, soprattutto di personaggi illustri, non aiuta a penetrare nella scelta soggettiva di fede, ma piuttosto a cogliere il significato che le conversioni rivestirono nell’Europa confessionalmente divisa.

 

Fonti e Bibl. essenziale

A. Räss, Die Convertiten seit der Reformation nach ihrem Leben und aus ihren Schriften, 10 Bde, Freiburg i. B., Herder, 1866-1875; Gli Ebrei in Italia, Annali 11, 2, Dall’emancipazione a oggi, a cura di C. Vivanti, Torino, Einaudi, 1997; A. Foa, Ebrei in Europa. Dalla peste nera all’emancipazione XIV-XVIII secolo, Roma-Bari, Laterza, 2001; M. Caffiero, Battesimi forzati. Storia di ebrei, cristiani e convertiti nella Roma dei papi, Roma, Viella, 2004; Schiavitù e conversioni nel Mediterraneo, a cura di G. Fiume, in «Quaderni Storici», 126, 2007; G. Fiume, Schiavitù mediterranee. Corsari, rinnegati e santi di età moderna, Milano, Bruno Mondadori, 2009; Les modes de la conversion confessionelle à l’époque moderne. Autobiographie, alterité et construction des identités religieuses, a cura di M.C. Pitassi e D. Solfaroli Camillocci, Firenze, Olschki, 2010; I. Fosi, Convertire lo straniero. Forestieri e Inquisizione a Roma in età moderna, Roma, Viella, 2011; R. Matheus, Konversionen in Rom in der frühen Neuzeit. Das “Ospizio dei Convertendi” 1673-1750, Berlin-New York, De Gruyter, 2012; P. Mazur, The New Christians of Spanish Naples, 1528-1671: A Fragile Elite, Basingstoke, Palgrave Macmillan 2013; B. Pomara Saverino, Una presenza silenziosa. I moriscos di fronte al Sant’Uffizio romano (1610-1636), in «Quaderni Storici», 144, 2013, 715-744; Introduction: Conversion Narratives in the Early Modern World, ed. by. P. Mazur and A. Shinn, in «Journal of Early Modern History», 17, 2013.


LEMMARIO




Conversioni - vol. II


Autore: Luca di Girolamo

Il panorama storico delle conversioni tra epoca moderna e epoca contemporanea ci presenta un insieme piuttosto variegato di tipologie in cui vengono ad incontrarsi, sovente in modo drammatico, da un lato diverse esperienze di vita e di formazione culturale e, dall’altro, la forza con la quale la trascendenza di Dio irrompe nel vissuto e rende possibile la trasformazione dell’individuo. Le esperienze vissute dai convertiti non fanno altro che confermare il messaggio che la Chiesa ha ricevuto dal suo Signore offrendolo ad un’umanità che, specie nel periodo che noi consideriamo, vive fortemente condizionata dall’Illuminismo ideologico e tecnocratico, dall’efficientismo e dal relativismo che, nel loro complesso, la allontanano dalla trascendenza.

Si tratta di un fenomeno che ha interessato soprattutto l’Occidente europeo e, con forme proprie, anche l’Italia che ne è parte. Su questa piattaforma si inseriscono alcune figure di intellettuali, scrittori, personalità di altre religioni e semplici laici che, inizialmente lontani dal cristianesimo, operano il passaggio alla fede. Di queste figure illustreremo il contesto in cui avviene la singola conversione e le conseguenze anche nella loro opera e nel tessuto sociale in cui vivono. In alcuni di loro, infatti, la ritrovata verità del cristianesimo ha prodotto effetti notevoli soprattutto sul piano della promozione sociale, oltre che su quello di una fede sinceramente professata.

Intellettuali e scrittori. Fra le numerose personalità della nostra letteratura almeno due meritano di essere segnalate nella loro fondamentale diversità di stile e di epoca: A. Manzoni (1785-1873) e G. Ungaretti (1888-1970). Si tratta di due scrittori che danno voce non soltanto alla loro sofferta esperienza, ma anche al contesto culturale ed esistenziale nel quale vivono. Fermeremo la nostra attenzione all’evento della loro conversione e a come essa si riflette in alcuni loro scritti.

Alessandro Manzoni. Alla conversione del più importante romanziere italiano del secolo XIX concorrono alcuni fattori che ne determinano un lento e meditato svolgimento. Diciamo subito che la conversione di Manzoni non è un atto improvviso, ma porta con sé tutta una visione della realtà, frutto di lenta meditazione. Nato a Milano nel 1785, Manzoni conosce la separazione dei genitori e studia nelle scuole dei Somaschi e dei Barnabiti. Sin dal 1792 la madre, ormai divisa da Pietro Manzoni vive a Parigi con Carlo Imbonati, uomo umile e di alti valori interiori che, tuttavia, muore nel 1805. A partire da quell’anno, lo scrittore si reca a Parigi e ivi soggiorna con la madre venendo a contatto con il pensiero razionalista e sensista che gli permette di acquisire una sempre maggiore limpidezza di ragionamento e di analisi psicologica. Sul piano religioso, il Deismo diffuso nella capitale francese lo allontana sempre più dal Cristianesimo e gli fa criticare la superstizione e anche quegli elementi formalistici che aveva conosciuto nella formazione giovanile. Nel 1807 torna in Italia per la morte del padre e qui conosce Enrichetta Blondel figlia di un banchiere ginevrino e di stretta osservanza calvinista. I due si sposano nel 1808 con rito calvinista e tornano a Parigi. Nel frattempo Manzoni compone Urania, un poemetto in cui si celebra la poesia creatrice di un’etica della civiltà e, in una parola, civilizzatrice; notevole ad esempio la presenza delle Virtù, fra le quali la Fede. Proprio durante la stesura di questa composizione abbiamo il primo manifestarsi di un lento processo di conversione determinata da alcuni eventi: nel 1809 nasce la figlia Giulia e, successivamente, Manzoni chiede a Pio VII di potersi sposare con rito cattolico con Enrichetta, permesso che effettivamente ottiene nel 1810; la moglie quale frattanto, guidata da un sacerdote non alieno da idee gianseniste, E. Degola, coltiva la sua formazione alla fede cattolica che giunge al culmine nel maggio del 1810 all’abiura del calvinismo e il conseguente passaggio alla fede cattolica. A questa cerimonia assistono molte persone. In questo insieme di eventi si colloca il famoso ingresso nella Chiesa di St. Roch di un Manzoni tormentato per la perdita della moglie tra la folla esultante delle nozze di Napoleone e Maria Luisa. Nella chiesa egli si reca per rivolgersi ad un Dio che ancora non vede con gli occhi di una fede consolidata. Sovente si limita a questo evento la conversione che, in realtà, è tutto un processo più complesso che arriva al culmine nell’agosto-settembre 1810 quando Alessandro, la madre Giulia ed Enrichetta ricevono la Prima Comunione. Dopo questo fatto, i tre rientrano a Milano e inizia una nuova vita familiare dove sana e cristiana (guidati anche da don Luigi Tosi) è l’educazione impartita ai figli e, per Alessandro, di produzione letteraria a partire dagli Inni Sacri (1812-1822), dalle Osservazioni sulla morale cattolica (1819) e la lunga e complessa gestazione dei I Promessi Sposi (1821-27). Se fra gli Inni sacri è soprattutto l’ultimo (La Pentecoste) a segnalarsi per densità teologica e meditativa, sono soprattutto le altre due opere che ci illustrano la riacquistata religiosità dello scrittore lombardo e il suo utilizzo per i suoi fini artistici. Nelle Osservazioni troviamo almeno quattro elementi propri della personalità di Manzoni: il rigore logico, la profonda adesione al Vangelo, il rifiuto della casistica e di altre autorità che non siano il Vangelo e, da ultimo, la confluenza delle dottrine della Rivoluzione francese con l’attenzione ai diritti dell’uomo. Ne emerge un tipo di Cattolicesimo liberale che, tuttavia, si verrà affinando successivamente con i rapporti sempre più stretti che il nostro instaurerà con A. Rosmini e che gli faranno gradualmente abbandonare ogni residuo di Illuminismo per optare verso una sintesi tra Idealismo e Cattolicesimo. Nel romanzo troviamo ormai consolidato tutto un Credo che, pur con tracce gianseniste, serve a Manzoni per operare una svolta in seno stesso alla narrativa: una religiosità fortemente legata alla Provvidenza, ma non per questo miracolistica o spettacolare e, non meno importante, la centralità data alla semplicità dei protagonisti (analizzati con raffinata psicologia e contrassegnati da un linguaggio molto denso, basterebbe pensare alla mite e risoluta Lucia e alla figura, in certo senso autobiografica, dell’Innominato nel suo processo di conversione) in antitesi a certa letteratura che privilegiava i potenti. Tale connubio di fede ed arte è stato criticato, ma Manzoni vuole sottolineare come il messaggio cristiano obbliga a scelte che vanno contro-corrente e perciò si pone come fattore critico e, in secondo luogo, come esso non fa che accrescere un ideale morale mai sopito nella sua missione di letterato. Inoltre sul piano della cultura italiana, Manzoni rappresenta il corrispettivo letterario di tutta una produzione melodrammatica che, in quello stesso periodo storico-artistico, ha in G. Verdi il suo massimo esponente: non è un caso che il musicista parmense, non certo dichiaratamente impegnato sul piano confessionale come Manzoni, lo chiamava ‘il Santo’ e, ad un anno dalla morte, gli dedica il suo Requiem (1874).

Giuseppe Ungaretti. Quindici anni dopo la morte di A. Manzoni, nel 1888, nasce ad Alessandria d’Egitto, da genitori lucchesi emigrati per lavori al Canale di Suez, Giuseppe Ungaretti. Rimasto ben presto orfano di padre, Ungaretti vive guidato dalla madre, molto religiosa che lo conduce con sé in preghiera al cimitero ogni settimana. Ventiquattrenne si trasferisce a Parigi dove entra in contatto con gli autori letterari più in voga nel tempo: Leopardi, Baudelaire, Mallarmé e il giovane poeta non nasconde una simpatia anche per Nietzsche. È chiaro che la religiosità cristiana si affievolisce tanto che attorno al 1908, Ungaretti sposa idee anarchiche ed atee oltre a scrivere articoli politici e letterari. Gli anni successivi sono contrassegnati da grande mobilità tra Francia, Egitto e Italia. Lo scoppio della I guerra mondiale lo vede come acceso interventista e nel 1915 inizia la sua attività poetica che trova la sua grande prima prova nella raccolta Il porto sepolto del 1919. Gli anni successivi fino al 1928 vengono trascorsi in diverse città italiane. Il 1928 è l’anno della conversione che non è subitanea, ma nasce in seno ad una riflessione sull’uomo condizionata anche dagli orrori della I Guerra alla quale il poeta aveva partecipato. C’è da osservare che, pur nelle diverse esperienze giovanili, talvolta lontanissime dal dato cristiano, Ungaretti non depone mai la sua passione per l’umanità soprattutto nel suo essere minacciata. Dal 1920 egli si stabilisce a Roma dove ha un incarico presso il Ministero degli esteri e 5 anni dopo inizia a frequentare la grotta del Sacro Speco di Subiaco in preda ad una forte crisi religiosa; nel 1928 in vicinanza della Pasqua partecipa alla liturgia pasquale e agli esercizi spirituali. Si parla perciò di una conversione in Ungaretti, ma rispetto a quella di Manzoni (e chiaramente tenendo conto dei diversi contesti), abbiamo con l’accoglienza del cattolicesimo l’approdo e il compimento di tutta la cura che il poeta lucchese mostrava per l’umanità, nonché un riposo per la sua esistenza. Tutto questo lo vediamo densamente vissuto nella sua poesia La pietà composta proprio nel 1928, dove anche gli spazi tra versi e distici assumono una forte e pensosa espressività a servizio di una meditazione sulla fragile situazione dell’uomo. Anche ne La Madre del 1930, affetti familiari, speranza e fede vengono a combinarsi in tono solenne. Ma la grandezza della fede ungarettiana non può separarsi dalla meditazione sull’uomo in quanto al centro della sua poetica campeggia la luce del Figlio di Dio fatto uomo e l’Incarnazione è l’evento che rende il Cristo “purificante amore”. A lui il poeta si rivolge con intense espressioni che coinvolgono l’umanità in un progetto di redenzione: “Fa ancora che sia scala di riscatto / La carne ingannatrice” (La preghiera, 1928). La fragilità umana viene vissuta da Ungaretti in prima persona quando si confronta con il grande dolore per la morte prematura del figlio Antonietto per un’appendicite malcurata nel 1939, in Brasile. Un dolore che troverà voce nella rievocazione del bambino in Giorno per giorno scritta in 17 frammenti dal ’40 al ‘47. Con lo scoppio della guerra, il poeta è costretto a tornare in Italia anche per l’ostilità del Brasile verso l’asse Roma-Berlino dichiarata nel 1942. Una volta a Roma, il poeta è partecipe delle sofferenze imposte dalla guerra e dalla carestie, non senza aprirsi all’ospitalità verso gli ebrei perseguitati. Sempre in questo periodo è la nomina ad Accademico d’Italia. Altra prova di altissima meditazione cristiana è il lungo testo Mio fiume anche tu, che idealmente si collega ad una poesia del ’16 (I fiumi) nella quale il poeta ripercorreva la sua esistenza attraverso l’evocazione dell’Isonzo, del Serchio, del Nilo e della Senna. Ad essi ora unisce il Tevere di una Roma provata dalla guerra: la religiosità ungarettiana dell’uomo viene ora a consolidarsi e a compiersi nell’immagine del “Cristo pensoso palpito, / Astro incarnato nell’umane tenebre, / Fratello che ti immoli / Perennemente per riedificare / Umanamente l’uomo (…) Ecco, Ti chiamo, Santo / Santo, Santo che soffri”. Un Cristo innestato nella sofferenza della città che è centro della cristianità violata da quella “fantasia ritorta / e mani spudorate / dalle fattezze umane l’uomo lacera / l’immagine divina / e pietà in grido si contrae di pietra” (Mio fiume anche tu, 1943-44). A guerra finita, viene sottoposto a procedimenti di epurazione dai quali viene scagionato e confermato nell’insegnamento. Ciò avrà ripercussioni sulla sua salute ma anche sul giudizio che si avrà su di lui. Dal Cristo, uomo lacerato dagli uomini, Ungaretti passa a considerare la Chiesa nella stessa condizione di “tragica patria” che, nonostante venga uccisa “da venti secoli” dall’uomo, rinasce vivificante ed “umile interprete del Dio di tutti” (Accadrà, 1944). Nel 1968, in occasione del suo ottantesimo compleanno, Ungaretti è segno di solenni celebrazioni in Campidoglio da parte del Governo italiano. Due anni dopo (2 giugno 1970) il poeta muore a Milano, ma i funerali vengono celebrati a Roma e presieduti dall’allora Cardinale Vicario mons. Angelo Dell’Acqua. Ungaretti è il poeta convertito, cantore di Cristo e della Chiesa e dell’uomo che vive e si apre alla speranza guidato da entrambe le realtà capaci, se non di eliminare il dolore cosmico ed esistenziale che lo ha toccato profondamente, di inserirlo in tutta la Redenzione che diviene interpretazione della storia anche nelle sue brutture. Nell’ambito della storia letteraria d’Italia, Ungaretti approfondisce e ed universalizza il carattere drammatico e, a volte, tragico, elemento già presente in autori profondamente cristiani (e a lui particolarmente familiari) come Jacopone e Petrarca, passati tuttavia attraverso i canoni espressivi dei poeti simbolisti e visionari francesi tra XIX e XX secolo, come A. Rimbaud e S. Mallarmé. Qui Ungaretti – dopo un lungo percorso stilistico – si fa araldo e portatore di una parola scabra ed essenziale che, proprio per questo, assume una profonda sacralità, derivante dal suo senso religioso cristiano e, al contempo, alla vita in tutte le sue manifestazioni, gioiose e dolorose.

Appartenenti ad altre fedi. Accanto a figure di scrittori ed intellettuali, appaiono singolari i casi di conversione di persone di differenti confessioni, la cui cultura è talvolta segnata da una profonda avversione al cristianesimo. Esamineremo qui due personaggi la cui conversione ha lasciato, per vari motivi, una forte impressione nell’ambiente italiano, soprattutto romano: Alphonse de Ratisbonne e Eugenio Zolli.

Alphonse de Ratisbonne (1812-1884). La vicenda di Alphonse de Ratisbonne si segnala per la straordinarietà del fatto avvenuto nella Chiesa di S. Andrea delle Fratte a Roma e per il contesto mariano di poco antecedente alla definizione del dogma dell’Immacolata. A viverlo è appunto un ricco banchiere ebreo francese il cui tenore di vita gli consente qualsiasi soddisfazione materiale a cui si aggiunge una netta ostilità verso il cattolicesimo inasprita tra l’altro dalla conversione del fratello Théodore che sarà ordinato prete nel 1830, anno delle apparizioni parigine a Rue du Bac a S. Caterina Labouré. Dopo aver trascorso una vita tumultuosa e sempre segnata dall’avversione al cattolicesimo, Alphonse decide di sposarsi con la cugina Flore, non senza prima compiere un viaggio a Gerusalemme per motivi religiosi mai però troppo sentiti. Un problema di navigazione lo costringe a fermarsi a Roma. Qui incontra il barone de Bussières, fervente cattolico e amico del fratello sacerdote, il quale, sembra metterlo alla prova, donandogli la Medaglia miracolosa coniata per volere della Madonna a seguito di quelle apparizioni. L’ebreo accetta, diciamo per forzata cortesia verso il barone e decide di fermarsi qualche giorno in più a Roma. Nel gennaio del 1842 trovandosi nei pressi della chiesa di S. Andrea delle Fratte non resiste alla curiosità di visitare l’interno della chiesa ed è qui che avviene un evento particolare: dapprima immerso in un’oscurità globale, il Ratisbonne vede la maestosa e luminosissima figura della Vergine che lo invita ad inginocchiarsi e, similmente alla vicenda dell’apostolo Paolo, comprende la tenebra di peccato nel quale era vissuto e la bellezza del cattolicesimo. In tal senso non meraviglia l’illustrazione della sua conversione nei seguenti termini: «Posso spiegare questo cambiamento solo col paragone di un uomo che si risvegli improvvisamente da un sonno profondo o con l’analogia di un cieco nato che di colpo veda la luce; egli vede ma non può definire la luce che lo rischiara e in seno alla quale contempla gli oggetti della sua ammirazione» (A. Ratisbonne, Conversione di un Israelita, 47). Riappacificatosi con il fratello Théodore, undici giorni dopo Alphonse riceve il battesimo aggiungendo al proprio nome quello di Maria ed entra nella Compagnia di Gesù venendo poi ordinato nel 1848. Nello stesso anno dell’apparizione, il Vicariato di Roma istituisce una commissione d’inchiesta per verificare l’autenticità di quanto accaduto. Dopo un lungo periodo di deposizioni e testimonianze, il cardinale Patrizi firma un decreto in cui si riconosce come “istantanea e perfetta” la conversione di Alphonse-Marie dall’ebraismo, a seguito dell’apparizione realmente avvenuta. In seguito ad un’ulteriore e forte presa di coscienza dell’importanza della missione di convertire gli ebrei al cattolicesimo, portata avanti dal fratello mediante la Congregazione Notre Dame de Sion, il Ratisbonne lascia i gesuiti (avendo ottenuto la licenza da Pio IX) e si trasferisce in Terra Santa, dove muore il 6 maggio 1884 ad Ain Karin, il luogo, secondo la tradizione, della Visitazione di Maria a Elisabetta. Sul piano storico, la conversione del Ratisbonne – al di là della caratteristica del fenomeno – si colloca in un momento di forte apologia portata avanti dalla Chiesa del secolo XIX dominata dalla figura di Pio IX. La forza dell’insieme dei fatti appare come una vittoriosa sfida del soprannaturale contro quell’imperante razionalismo condannato in blocco (e forse erroneamente) dal famoso Sillabo. A tal razionalismo si uniscono anche tutta la critica e gli attacchi alla Chiesa propri del tempo. Stando però ai fatti avvenuti a S. Andrea delle Fratte, la vicenda di Alphonse-Marie ha agito sulla cristianità proprio con una sincerità del tutto nuova in un ebreo che, dall’ostilità verso il cristianesimo, diviene anello di congiunzione tra l’antica e la nuova Gerusalemme con una personale privazione di favori e agevolazioni che poteva ottenere nella sua vecchia situazione segnata dalla mondanità e dall’amministrazione dei beni terrestri e del danaro.

Eugenio Zolli. Un’altra singolare e travagliata vicenda di conversione dall’ebraismo è quella di Israel Zoller (Eugenio Zolli) (1881-1956) soprattutto per le reazioni contrastanti che sono seguite alla scelta di questo insigne studioso di abbracciare il Cattolicesimo. Nato in Polonia nel 1881 da numerosa ed osservante famiglia ebrea, dopo una breve parentesi a Vienna, Zolli si trasferisce a Firenze dove frequenta tanto l’Università Statale quanto il Collegio Rabbinico di quella città. Si laurea in filosofia nel 1910 con una tesi di psicologia sperimentale e subito si dimostra interessato alla nascente psicanalisi. L’anno successivo è a Trieste dove, dopo la nomina a rabbino capo, inizia la sua docenza di Lingua e letteratura ebraica a Padova che vedrà interrotta nel 1938 in seguito alle leggi razziali. Nel 1922 prende la nazionalità italiana. Dal 1939 si stabilisce a Roma dove viene nominato rabbino capo e direttore del Collegio Rabbinico e inizia la collaborazione con la Rivista biblica tenuta dai Gesuiti nonché altre pubblicazioni di spicco. L’anno successivo è costretto ad italianizzare il nome in Israele Zolli. Durante il periodo bellico vissuto a contatto con la sua gente perseguitata, Zolli si prodiga per la difesa dei suoi correligionari dalla furia nazista, ricevendo l’aiuto da papa Pio XII che ordina a conventi e monasteri di ospitare e nascondere i perseguitati. Pur ebreo ed insignito di importanti cariche all’interno della sua società, Zolli mostra sempre un certo interesse per la figura di Cristo, tanto da pubblicare Il Nazareno (1938) che, insieme a Israele (1935), è una delle sue opere più importanti. Lo studio profondo e l’esperienza vissuta personalmente di un Cristianesimo che, gradualmente, si insinua nella mente e nel cuore lo portano dimettersi da tutte le cariche in seno alla sua comunità e a richiedere il battesimo che viene celebrato il 13 febbraio 1945: Zolli cambia nome prendendo quello di Eugenio Maria. Anche la moglie Emma lo segue. L’anno successivo Zolli diviene terziario francescano. Nel 1946 anche la figlia Myriam passa al Cattolicesimo. Della propria conversione Zolli ne parla diffusamente nella sua autobiografia dal titolo Prima dell’alba pubblicato in inglese negli USA nel 1954 (ma la stesura originale era in italiano). In questa piccola opera si snoda un percorso globale e ci viene offerto il racconto di una visione di Gesù della quale lo stesso Zolli è partecipe durante un rito per la festa dello Yom Kippur (ottobre 1944). Esperienza esaltante e coinvolgente che segna appunto il passaggio dalla fede degli antichi padri al cattolicesimo. Dopo la conversione, Zolli si trova in notevoli difficoltà economiche ed esistenziali, ma viene grandemente aiutato dai Padri Gesuiti della Pontificia Università Gregoriana (soprattutto da p. Dezza). Intensa la sua vita di preghiera e di studio fino al gennaio 1956 quando viene colpito da broncopolmonite; nonostante l’assistenza e la preghiera, questa malattia lo conduce alla morte vissuta dal Nostro con grande abbandono al Cristo Crocifisso. Zolli muore il 3 marzo 1956, primo venerdì del mese alle tre del pomeriggio come il Cristo e come egli stesso aveva confidato ad una suora che lo assisteva. Impegno accademico e fede sono le due costanti della vita di Zolli che mai considerò il passaggio al Cattolicesimo come rottura totale con l’Ebraismo. Questo elemento importantissimo e da lui sottolineato attraverso i suoi studi non lo pose al riparo da un’ondata massiccia di reazioni in seguito al suo cambiamento. In un suo denso volume Mons. A. Comastri, illustrando la personalità e la vicenda di Zolli, evidenzia tre aspetti che investono la sfera personale e le ricadute sociali ed ecclesiastiche conseguenti alla sua conversione: il carattere profondamente biblico della conversione, le reazioni e la valenza ecumenica alla quale non è estranea la figura di Pio XII, altro protagonista discusso di quegli anni (cf. A. Comastri, Dov’è il tuo Dio? pp. 85-97). Anzitutto il carattere biblico: Zolli è un convertito che mostra notevoli punti di contatto con S. Paolo del quale il grande studioso amava il racconto della conversione. Anche Paolo è un rabbino e viene scosso drammaticamente da una visione luminosa. Aggiungiamo che se l’Apostolo delle genti si pone come instancabile evangelizzatore, la religiosità di Zolli dopo la sua conversione si intensifica nel suo carattere orante e di abbandono alla Provvidenza e sempre teso a evitare il conflitto tra le due fedi. Questo ci permette di collegare il secondo elemento: le reazioni a Zolli, soprattutto di parte ebraica, sono durissime (considerato apostata e definito come “serpente” e traditore, è costretto a lasciare la sua vecchia casa al Ghetto), ma anche da parte protestante non sono da meno. Nonostante questo, Zolli non recede dal percorrere interamente e seriamente questa nuova via. Eppure proprio la Chiesa Cattolica rappresenta per lui un indice di continuità con l’antica sinagoga attraverso quegli apostoli che sono i suoi antenati. L’ostracismo nei suoi confronti accomuna Zolli alla figura di Pio XII grande protagonista della storia della popolazione della Roma occupata e degli ebrei perseguitati. Di questo papa, il grande studioso prese il nome (Eugenio) in segno di quel grande debito di riconoscenza che tutta la comunità ebraica gli doveva, ma in un’intervista la figlia di Zolli ricorda che, più volte, il padre ne previde, a guerra finita, la persecuzione a causa del silenzio dinanzi ai crimini nazisti (cf. A. Comastri, Ibidem, p. 92). C’è da osservare che tale debito di riconoscenza, pur contornato da aspre ed immotivate critiche, è stato riconosciuto da diverse personalità di spicco all’interno dell’ebraismo, in Italia e all’estero. Sgomberato il campo dai fraintendimenti e dalle accuse di scarsa incisività e di debolezza attribuiti a Pio XII in relazione al problema ebraico a Roma, Zolli è stato uno dei primi a comprendere ed interpretare rettamente la condotta di questo successore di Pietro costretto ad agire in modo prudenziale per scongiurare un inasprimento delle condizioni già molto dure che la città di Roma stava vivendo. Zolli si configura perciò come maestro ed esempio di altissima cultura posta al servizio della riconciliazione e della pacifica convivenza interreligiosa, profeta (e, come tale, perseguitato persino presso i suoi: cf. Lc 4,24), nonché precursore di successive aperture che favoriranno l’arricchimento reciproco di due confessioni religiose che non possono, né devono dimenticare il loro inscindibile legame.

Laici convertiti. Nel XX secolo abbiamo alcuni casi di conversioni di persone laiche e lontane dal cattolicesimo che, tuttavia, sono accomunate da iniziative di carattere religioso ed assistenziale provocato dalla loro conversione. In particolare, due sono degni di merito in quanto hanno avuto come obiettivo l’aiuto ad ammalati e il potenziamento della cultura scientifica con la creazione di vere e proprie istituzioni benefiche: prima fra tutte l’Università Cattolica del S. Cuore nella persona di A. Gemelli (1878-1959).

Agostino Gemelli. Si tratta di una delle personalità più prestigiose della Chiesa, della cultura e della società italiane tra XIX e XX secolo, dotato tra l’altro di una spiccatissima e risoluta indole. Nato a Milano nel 1878 in una famiglia assai poco credente e intrisa di idee anticlericali e massoniche tipiche di quell’avversione alla Chiesa seguita all’unità d’Italia, A. Gemelli si mette in luce sin dai primi anni di scuola per il carattere forte e ribelle ad ogni regolamento ed insofferente ad ogni pratica religiosa che difatti abbandonò. Finito il liceo si iscrive nel 1896 alla Facoltà di Medicina a Pavia. Nel febbraio del 1902 viene espulso da un collegio per indisciplina. Lontano dal cristianesimo si entusiasma invece per le idee socialiste collaborando a Pavia al giornale di partito La Plebe. Ma anche con il partito, a seguito di polemiche interne contro il suo maestro C. Golgi (premio Nobel 1906), i rapporti si deteriorarono fino all’espulsione. Intanto Gemelli manteneva, pur nella diversità di idee, rapporti con gli universitari del Circolo Severino Boezio della Federazione Universitaria Cattolica Italiana (FUCI). Del luglio 1902 è la sua laurea in medicina con il massimo dei voti e con una serie di gratificazioni tra cui il ruolo di assistente del suo maestro Golgi. Nel novembre successivo iniziò il volontariato come soldato di sanità all’ospedale militare di Milano dove, attraverso un suo amico L. Necchi, inizia a frequentare un giovane sacerdote G. Pini ed altri giovani francescani. Dal 1903 Gemelli riprende la pratica religiosa che culminò in una decisione inattesa e molto contrastata dai suoi familiari: l’ingresso, al termine del volontariato, nell’Ordine Francescano e compie il suo periodo preparatorio e i suoi studi fra Rezzato e Milano. Ne nascono non poche polemiche anche di natura pubblica, ma nessuno riesce a far recedere il giovane medico dal suo proposito. Nella famiglia religiosa egli prende il nome di Agostino: emette i primi voti nel 1904 e viene ordinato nel 1908. I suoi interessi si volgono verso la psicologia, ma dotato di carattere piuttosto impetuoso Gemelli ha come suo obiettivo principale quello di ravvivare la cultura cattolica soprattutto nell’armonizzare fede e scienza. Il 1907 rappresenta per lui e per la cultura cattolica italiana un anno particolare in quanto, incontratosi con il sociologo G. Toniolo, gli sottopone l’idea di creare un Istituto cattolico di studi filosofici. Per ora è soltanto un’idea che avrà sviluppo molto consistente in seguito. Il porre a servizio della Chiesa, non rinunciando tuttavia al loro metodo proprio, tutte le conoscenze scientifiche conduce Gemelli ad affrontare, studiare e insegnare una serie di questioni e discipline teologiche importanti e, fra esse, un rilievo particolare è dato alla medicina pastorale negli studentati francescani. In funzione di tale avvicinamento tra scienza e fede, egli promuove nel 1910 l’associazione Pro Cultura. Dell’anno precedente era stata la fondazione della Rivista di filosofia neoscolastica modellata su quella in lingua francese di Lovanio. A questo intenso periodo di iniziative in Italia, Gemelli unisce, nel periodo 1910-14, anche soggiorni in Germania dove frequenta numerosi laboratori scientifici ottenendo quindi la libera docenza in psicologia sperimentale che eserciterà negli anni successivi. Fedele all’ortodossia e distante dal modernismo, Gemelli, tuttavia guarda con simpatia ad una certa compatibilità del cristianesimo con l’ipotesi evoluzionistica e, fautore dell’idea di una cultura onnicomprensiva sotto l’egida cristiana, la illustra nell’editoriale Medioevalismo nel primo fascicolo della rivista culturale Vita e pensiero da lui fondata nel 1914. Tale scritto appare quasi come il manifesto programmatico di Gemelli che, seppur datato (specialmente per il tono apologetico), presenta alcune problematiche con le quali la Chiesa si è sempre dovuta confrontare: ateismo, perdita della trascendenza, libero pensiero, riduzione della cultura a puro nozionismo, ecc. “Questo è il nostro scopo – scrive Gemelli a conclusione dell’editoriale – lavorare per la Chiesa Cattolica, per difenderla, per dimostrarle il nostro amore, per farla conoscere e seguire. Lavorare per il nostro paese, per ridonarlo a Gesù Cristo” (A. Gemelli, Medioevalismo, 24). Il suo carattere impetuoso si unisce con un aperto patriottismo a riguardo della I guerra mondiale durante la quale viene arruolato come capitano medico e cappellano militare; ciò gli dà la possibilità di istituire un laboratorio di psicofisiologia per la selezione degli aviatori. Finita la Grande Guerra abbiamo la ripresa dell’idea dell’Istituto Cattolico e il graduale conformarsi di quella che sarà, a partire dal 1921 (anno di inaugurazione), l’Università Cattolica del S. Cuore con le iniziali facoltà di filosofia e scienze sociali. Ciò che contraddistingue l’attività di Gemelli non è solo una grande varietà di intuizione, ma la sagacia con la quale egli ha saputo inserire le sue iniziative (in particolare l’Università Cattolica) nel quadro degli ordinamenti statutari italiani. Questo lo porta ad ottenere il riconoscimento statale del suo centro di studi nel 1924 che, gradualmente, si estende con altre facoltà, ma sempre avendo una particolare cura ed attenzione per la psicologia. Sul piano politico le idee di Gemelli erano assai vicine al regime fascista ormai al potere in Italia, sebbene il religioso avesse sempre optato per l’idea di una societas christiana e, per questo motivo, egli favorisce l’idea della Regalità di Cristo sotto il cui nome fonda tre istituti secolari (Missionarie della Regalità di Cristo nel 1919, Missionari nel 1928 e Sacerdoti missionari nel 1953). La vicinanza al regime e certo antisemitismo da lui manifestato in un discorso commemorativo nel 1939 (sebbene ritrattato nelle sue espressioni più forti e tipiche della tradizione ormai millenaria del popolo deicida), pur accompagnate da un forte sostegno alla Resistenza nel II conflitto mondiale (Gemelli non volle mai riconoscere la Repubblica di Salò) non ha sottratto il Nostro al processo intentato dagli Alleati nel ’46 da cui però viene prosciolto da ogni responsabilità. Sempre in questo anno, Gemelli rimane vittima di un incidente stradale dal quale si riprende e torna a guidare l’Università aggiungendovi anche la facoltà di scienze economiche (1948) e agraria (Piacenza, 1953). L’ultimo atto che vede Gemelli protagonista è la fondazione di una facoltà di medicina con sede a Roma che viene approvata nel 1958 dal Consiglio superiore della Pubblica Istruzione. Tuttavia Gemelli non ne può vedere l’effettiva realizzazione poiché muore il 15 luglio 1959. Le esequie sono officiate dall’arcivescovo G. B. Montini, futuro papa Paolo VI. Studioso, promotore di iniziative, uomo di azione: queste sono le caratteristiche principali, unite ad un carattere molto forte e dinamico, proprie di A. Gemelli, autore tra l’altro di numerosi e variegati scritti in cui vengono trattati temi teologici, medici e spirituali. In lui la scienza ha un notevole ed originale esponente tanto che alcuni suoi scritti restano importanti anche oggi nel campo psicologico. Ma la preoccupazione di Gemelli è il voler costituire un’unità di fondo, nel rispetto dei vari metodi, delle varie scienze a servizio dell’uomo nel suo rapporto con sé stesso, con gli altri e con Dio. È questo il dato più singolare di una svolta cristiana da laico e cresciuto in ambiente ateo che egli ha attuato. Più che di conversione (fatto salvo quello che è l’intervento di Dio su ogni anima) è possibile parlare di un avvicinamento che diviene poi consacrazione totale a Dio sorretta da grande intelligenza e lungimiranza (acuita anche dal confronto con situazioni di altri paesi) con il preciso obiettivo di voler contribuire ad una cultura integrale dell’uomo e per l’uomo, tale da liberarlo non solo dal peccato, ma anche dalla grettezza mentale ed aprirlo alle meraviglie del creato. In questo è evidente un processo di ritraduzione in termini scientifici del carisma francescano che A. Gemelli ha attuato similmente ad un suo illustre predecessore quale è stato S. Bonaventura.

Fonti e Bibl. essenziale

Un volume a carattere generale sul periodo considerato è: E. Guerriero (a cura di), La Chiesa in Italia dall’unità ai nostri giorni, Ed. S. Paolo, Cinisello Balsamo 1996. Su A. Manzoni: M. Sansone, Storia della Letteratura Italiana, Principato, Milano 1973; Aa.Vv., Antologia della Letteratura Italiana, Rizzoli, Milano 1979, vol. V, 9-92. G. Alberti, Alessandro Manzoni, in E. Cecchi-N. Sapegno (dir.), Storia della Letteratura Italiana: L’Ottocento, Garzanti, Milano 1969, vol. VII, 621-45; A. Stella, Alessandro Manzoni, in E. Malato (dir.), Storia della letteratura italiana, Il Sole 24 Ore, Roma 2005, vol VII/2, 605-725 (con densa bibliografia divisa per sezioni); W. Binni-R. Scrivano (a cura di), Antologia della critica letteraria, Principato, Milano 1960. Su G. Ungaretti: G. Ungaretti, Vita di un uomo. Tutte le poesie, a cura di L. Piccioni, Mondadori, Milano 1969; L. Piccioni (a cura di), Per conoscere Ungaretti, Mondadori, Milano 1971. W. Mauro, Vita di G. Ungaretti, Camunia, Brescia 1990; S. Pavarini, Giuseppe Ungaretti, in E. Malato (a cura di), Storia della Letteratura italiana, vol. 17: Il Novecento, Il Sole 24 Ore, Roma 2005, 481-504. Su A.M. Ratisbonne: A. Ratisbonne, Conversione di un israelita, Amicizia Cristiana, Roma 2010 (or. franc. 1842); J. Guitton, Ratisbonne, Paris 1964; M. Carmelle, L’évenenent du 20 janvier 1842 et Marie Alphonse Ratisbonne, Sources de Sion, Roma 1978. T. de Le Bussieres, La conversione di Alfonso Maria Ratisbonne, Amicizia cristiana, Roma 2008 (or. franc. 1842); A. Azzimonti, L’ebreo convertito dalla Vergine della Medaglia, in Il Timone, sett-ott. 2000, 24-25. Su E.M. Zolli: E. Zolli, Christus, AVE, Roma 1946; E. Zolli, L’Ebraismo, Ed. Studium, Roma 1953; J. Cabaud, Il rabbino che si arrese a Cristo, S. Paolo, Cinisello Balsamo 2002; A. Comastri, Dov’è il tuo Dio? Storie di conversioni nel XX secolo, S. Paolo, Cinisello Balsamo 2003, pp. 85-97; E. Zolli, Prima dell’alba. Autobiografia autorizzata, S. Paolo, Cinisello Balsamo 2004. Su A. Gemelli: gli scritti di Gemelli sono elencati nella Bibliografia completa di padre Agostino Gemelli curata da E. Preto edita a Milano nel 1981. Notevole e dettagliato è anche l’apparato bibliografico sulla figura e sul pensiero riportato nel Dizionario biografico degli italiani, Istituto dell’Enciclopedia Italiana, Roma 1999, vol. LIII, 34-36. Valida è anche la voce Gemelli Edoardo curata da L. Profili nel Dizionario degli Istituti di Perfezione, vol. IV, 1046-49, volta soprattutto ad evidenziare la fondazione e la difesa, anche giuridica, degli istituti secolari fondati da Gemelli. Recente monografia è quella di M. Tiraboschi, Agostino Gemelli. Un figlio di S. Francesco tra le sfide del Novecento, LEV, Città del Vaticano 2007; Gemelli, Medioevalismo, in Vita e pensiero, 1 (1914), 1-24.


LEMMARIO




Costanzo Alessandra


Nata a Roma il 2/05/1965. Domicilio: Via delle Baleari, 303 – 00121 Ostia Lido-Roma. Indirizzo e-mail: costanzoalex@gmail.com. Telefono: 065613121   cell. 3406158342

Iter formativo: Baccalaureato in Teologia, conseguito presso il Pontificio Ateneo “S. Anselmo” di Roma nell’a.a. 1987/88. Qualifica: Magna cum laude. Corsi di Patrologia Fondamentale, frequentati presso l’Istituto Patristico “Augustinianum” di Roma negli a.a. 1985/86 e 1986/87. Corsi di Teologia Dogmatico-Sacramentaria, frequentati presso il Pontificio Ateneo “S. Anselmo” di Roma nell’a.a. 1989/90. Laurea in Lettere, conseguita presso l’Università degli Studi di Roma “La Sapienza” il 27/03/1995. Titolo della tesi: La vocazione di Mani secondo il Codice Manicheo di Colonia. Votazione: 110/110 e lode. Licenza in Teologia Dogmatico-Sacramentaria, conseguita presso il Pontificio Ateneo “S. Anselmo” di Roma il 16/06/2006. Titolo della tesi: “Velle…non posse”. Una lettura teologica del “Secretum” di Petrarca. Qualifica: Magna cum laude. Dottorato in Teologia Dogmatico-Sacramentaria, conseguito presso il Pontificio Ateneo “S. Anselmo” di Roma il 20/05/2010 (proclamata Dottore il 17/06/2010). Titolo della tesi: Il trattato “De vera et falsa poenitentia”: verso una nuova Confessione. Guida alla lettura, testo e traduzione. Qualifica: Summa cum laude. Vincitrice del “Premio Sant’Anselmo 2011”, istituito dal Pontificio Ateneo Sant’Anselmo. Dal 1988 docente di Religione, attualmente presso il Liceo Classico “Anco Marzio” di Ostia Lido. Cultore della materia “Storia del cristianesimo e delle chiese” (Prof.ssa Emanuela Prinzivalli), presso l’Università degli Studi di Roma La Sapienza (dall’a.a. 2012/13).





Credo - vol. I


Autore: Paolo Siniscalco

Con il termine “Credo” si intende quella formula che riassume per i cristiani gli articoli essenziali della loro fede, l’aspetto oggettivo della verità rivelata. Esso presenta una storia lunga e complessa che, dalle espressioni più semplici, si sviluppa fino alle più complesse stabilite in particolare dai primi grandi concili. In questa esposizione, forzatamente breve, pare opportuno considerare alcuni momenti importanti dell’evoluzione del “Credo”, se si vuole, del “Simbolo di fede” o, con una espressione latina, della Regula fidei. Fin dal Nuovo Testamento si incontrano formule concise che esprimono la fede di chi le pronuncia. Così nelle epistole paoline (cf. Rom 10, 9; 1, 3-4; 8, 34; 1 Cor 12, 3; Fil 2, 11; 1 Tim 3, 16) o nelle epistole pastorali (cf. 1 Gv 4, 15, 5, 5). Esse sono molto spesso di carattere cristologico, e se ne capisce la ragione: la verità inaudita stava nel riconoscere “Gesù il Figlio di Dio”, ”Gesù il Cristo”, “Gesù il Signore”, il Kurios, il Dominus. Compaiono pure formule binarie (cf. 1 Cor 8,6; Rom 4, 24; 1 Pt 123, 21) e trinitarie (cf. 2 Cor 1, 21 s.; 12, 4; 1 Pt 1,2). È probabile che esse fossero legate all’esercizio della liturgia e, a cominciare dal II secolo, alla catechesi. In tale senso sono particolarmente interessanti le espressioni che si leggono negli Acta martyrum e poi nelle Passiones martyrum in quanto riflettono quella che doveva essere, per dire così, la cultura religiosa dei semplici fedeli, uomini o donne che fossero, che, condotti nei tribunali e interrogati, dovevano rendere conto di ciò in cui credevano (cf. Eusebio di Cesarea, Hist. Eccles. 5, 1, 3 ss., ove è riportato il testo della Lettera delle Chiese di Lione e di Vienna nella quale si narra la persecuzione subita subito prima del 180 d.C.).

Negli Acta Iustini (2, 5) e negli Acta Cypriani (1,2) si leggono vere e proprie professioni di fede, ma non è improbabile che tali documenti abbiano subito rielaborazioni successive. Non si può d’altra parte dimenticare che fin dal II secolo e poi nei successivi si diffondono dottrine (gnosticismo, marcionismo, ecc.), respinte dalla Grande Chiesa che sente l’esigenza di meglio definire il contenuto dottrinale proposto. Nel III secolo, con l’aumento del numero dei fedeli, si perfeziona l’istruzione per i catecumeni e comincia ad essere praticato l’uso della traditio e della redditio Simboli, di modo che i catecumeni stessi possano recitare la formula loro consegnata durante il rito del battesimo. Il “Simbolo romano”, che comincia ad avere una fisionomia complessa, si diffonde tra la fine del II e l’inizio del III secolo; è uno dei più antichi e diviene parte essenziale nella liturgia battesimale della Chiesa appunto di Roma. Ippolito nella Traditio Apostolica (inizio III secolo) riferisce di una professione corrispondente in sostanza a quelle riportate più tardi, in greco, da Marcello di Ancira e, in latino, da Rufino di Aquileia. Queste ultime testimonianze danno a vedere che la forma si sta definitivamente fissando e le aggiunte delle epoche successive intendono precisare ciò che sinteticamente è stato espresso.

Con i grandi Concili del IV e del V secolo) i simboli di carattere locale fino ad allora diffusi, lasciano il posto a sommari di fede riconosciti come ortodossi. Con il Concilio ecumenico di Nicea del 325, riunito da Costantino per definire la questione sollevata da Ario, tutti i partecipanti sottoscrivono una unica formula, che sarà ampliata, in rapporto alle discussioni avvenute sullo Spirito Santo, nel Concilio di Costantinopoli del 381. Il Simbolo cosiddetto niceno-costantinopolitano è così destinato a imporsi gradualmente in Oriente e in Occidente e ad essere universalmente riconosciuto come unico “Credo” dalla cristianità e tale rimanere fino ad oggi. All’inizio del VI esso è introdotto dalle Chiese orientali nella liturgia battesimale e nella celebrazione eucaristica. Tra il VI e l’inizio del IX si afferma nella liturgia delle Chiese occidentali. Con Fozio, Patriarca di Costantinopoli, si apre sul “Credo”una controversia con la Chiesa di Roma, controversia ancora viva attualmente. Forse fin dal VI secolo, dapprima in Spagna e poi in altri luoghi, era invalso l’uso, nel punto del Simbolo in cui si recita «Credo nello Spirito Santo che procede dal Padre», di aggiungere «e dal Figlio» in latino Filioque –. La formula fu adottata dalla chiesa di Roma solamente nell’XI secolo. Ma, ben prima, essa fu usata dai missionari romani di Bulgaria. Cosa che provocò la reazione della Chiesa costantinopolitana, che ritenne l’aggiunta teologicamente errata. Si trattò di una disputa sottile, nata anche per difficoltà terminologiche: i latini insistevano sulla substantia, principio di unità nella Trinità; i greci sulla distinzione tra le tre Persone. Il professare che lo Spirito procede dal Padre e dal Figlio sacrificava, secondo il loro punto di vista, la monarchia del Padre.

Fonti e Bibl. essenziale

Ancora fondamentale rimane l’opera di G.N.D. Kelly, Early Christian Creeds, pubblicata a Londra nel 1972. In trad. ital. è uscita di recente una nuova edizione riveduta e corretta (sulla III ed. inglese del 1987), Dehoniane, Bologna 2009; G.L. Dossetti, Il Simbolo di Nicea e di Costantinopoli, Roma 1967; S. Sabugal, Io credo La fede della Chiesa:. Il Simbolo della fede, storia e interpretazione, Dehoniane, Bologna 1990; Gennadios, Metropolita di Sassima, Il “filioque” rimane ancora un motivo idi conflitto tra l’Occidente e l’Oriente nel dialogo ecumenico?, Udine 1998; B. Studer, in NDPAC, vol. II, (ed.), Marietti, Genova-Milano 2007, 1944-1945, s.v. Filioque; A.E. Siecienski, The Filioque. History of a doctrinal controversy, Oxford University Press, Oxford 2010. Vd. pure: http://www.Cathopedia.org.


LEMMARIO




Crociate - vol. I


Autore: Luigi Michele de Palma

Il passaggio dei pellegrini diretti in Terra Santa lungo la penisola italiana è attestato nei testi odeporici a partire dal IV sec. La rete viaria romana aveva facilitato il raggiungimento dei luoghi santi d’oltremare e nello stesso tempo consentiva l’afflusso dei devoti, provenienti anche dalle località più lontane d’oltralpe, verso le mete santuariali altrettanto ambite: i limina Apostolorum a Roma e poi il santuario micaelico del Gargano. L’XI sec., con il ripristino delle vie di comunicazione, aveva favorito la ripresa dei traffici, fra cui anche i pellegrinaggi verso gli antichi santuari d’Italia e la Terra Santa, complice il sistema penitenziale di matrice irlandese.

Nel frattempo Urbano II aveva iniziato (1094) un lungo viaggio attraverso i territori dell’Italia centro-settentrionale e del sud-est francese con lo scopo di rinsaldare la propria autorità e raccogliere maggiori consensi alla sua politica e al suo indirizzo di riforma ecclesiastica. Durante il concilio di Piacenza (marzo 1095), il papa ricevette gli ambasciatori greci, con i quali, molto verosimilmente, trattò della riconciliazione con la Chiesa bizantina dopo la crisi del 1054. Per l’occasione, sembra che ad Urbano II sia stata presentata una richiesta di aiuto militare contro i Turchi. Alcuni mesi dopo, a conclusione del concilio di Clermont-Ferrand in Alvernia (novembre 1095), il papa pronunciò un discorso con cui esortava gli esponenti della feudalità europea ad intraprendere un pellegrinaggio penitenziale, per mezzo del quale essi sarebbero stati purificati dalle sanguinose guerre fratricide di cui si erano resi responsabili e attori principali. L’auspicato transfert di violenza si sarebbe trasformato in un significativo rinforzo occidentale agli eserciti di Alessio I Comneno, imperatore di Costantinopoli, impegnati contro i Turchi in Anatolia, e nello stesso tempo, avrebbe rinsaldato i rapporti con l’Oriente bizantino.

Da questo appello papale ebbe origine il movimento dei crucesignati che dette inizio alla storia delle crociate (termine coniato nel XVIII sec.) e vide coinvolte le aristocrazie europee insieme a larghe fasce della popolazione. Tuttavia gli sviluppi del movimento – dovuti ad un complesso di cause e di condizioni – trascesero le indicazioni contenute nell’allocuzione papale e travalicarono la moderazione imposta dalla disciplina ecclesiastica. Nel corso della loro storia, le crociate si trasformarono in spedizioni armate che non ebbero più come meta soltanto Gerusalemme, né restarono guerre di difesa e di liberazione dei cristiani dalla soggezione agli infedeli, ma finirono col diventare guerre condotte contro i nemici della Chiesa e del papato: infedeli, eretici e ribelli.

Nel 1096 l’Italia venne attraversata da alcuni gruppi di crucesignati diretti in Terra Santa. Due contingenti – capeggiati rispettivamente da Ugo di Vermandois, fratello del re di Francia e Boemondo d’Altalvilla, principe di Taranto e figlio di Roberto il Guiscardo – attraversarono l’Adriatico partendo dalle coste pugliesi, mentre un terzo contingente guidato dal conte di Tolosa Raimondo di Saint-Gilles, insieme al legato pontificio Ademaro vescovo di Le Puy, percorse le regioni settentrionali per poi proseguire lungo il litorale balcanico. L’ultimo contingente, al seguito di Roberto di Normandia, di Roberto di Fiandra e di Stefano di Blois, scese lungo la penisola, fece tappa a Roma e da Bari si imbarcò per Durazzo. A differenza di quanto avvenne oltralpe, lungo i tragitti italiani non si verificarono episodi antiebraici.

La storiografia recente ha superato il giudizio riduttivo di alcuni medievisti, secondo cui gli Italiani furono coinvolti nel movimento crociato soltanto per la posizione centrale della penisola nel Mediterraneo e perché esse era sede del papato, nonché per gli interessi economici legati ai traffici marittimi, di cui le città marinare era le principali protagoniste. I nuovi studi, invece, pur riconoscendo la modesta diffusione della predicazione della crociata e la sua esigua incisività, hanno messo in evidenza i motivi religiosi che animarono i crociati italiani, per esempio, focalizzando l’attenzione sulla personalità e sul ruolo di Daiberto, arcivescovo di Pisa e primo patriarca latino di Gerusalemme (1100), oppure sulla spedizione genovese di Guglielmo Embriago (1099), col quale s’imbarcò il card. Maurizio, vescovo di Ostia e nuovo legato apostolico per la Terra Santa. Significativa fu l’attività di Anselmo di Bovisio, arcivescovo di Milano, in favore della partecipazione dei Lombardi alla crociata. Di fatto, fu rilevante il contributo delle città italiane, marittime e mercantili, offerto alle crociate tramite il trasporto degli uomini d’arme, dei pellegrini aggregati e di materie prime, e grazie alla superiorità delle loro flotte rispetto alle forze navali dei musulmani. Nel 1100 i crociati italiani si concentrarono a Costantinopoli, la flotta veneziana sbarcò a Giaffa, mentre i Genovesi occuparono Arsuf e Cesarea e i Veneziani Sidone. La presa di Acri (1104) fu supportata dalla flotta genovese e la conquista di Beyruth (1109) venne sostenuta da Pisani e Genovesi. I crociati veneziani conquistarono Tiro (1123).

Tuttavia la crociata rimaneva un’esperienza religiosa, perciò i crociati, ritornati in patria, serbavano il ricordo di essa e, così come facevano gli altri pellegrini, ne perpetuarono la memoria. In particolare, l’Italia si arricchì di reliquie, di immagini, di culti dedicati a santi orientali, di luoghi di culto, di monumenti e di santuari che imitavano i prototipi d’oltremare e ne trasferivano la sacralità. Esempi di topomimesi continuarono a diffondersi sul territorio della penisola e sono riconducibili non soltanto alla presenza dei numerosi insediamenti degli ordini religiosi militari e di quello canonicale del S. Sepolcro, ma anche a personaggi legati alla crociata. Per Boemondo d’Altavilla, uno fra i protagonisti della prima crociata, venne edificato a Canosa un mausoleo, le cui forme architettoniche replicavano le fattezze dell’edicola del S. Sepolcro di Gerusalemme. A Brindisi, inoltre, fu costruita la chiesa del S. Sepolcro, probabile sepoltura monumentale del conte normanno Goffredo, nuovo signore della città e artefice della sua ricostruzione. La pianta dell’edificio imitava la rotonda dell’Anastasis gerosolimitana. Sempre in Puglia, regione più ad est della penisola e ricca di attracchi marittimi verso l’Oriente, nel 1162, presso Molfetta, fu fondata una cappella funeraria sul sito della sepoltura di alcuni pellegrini naufragati durante il viaggio d’oltremare. La cappella venne dedicata alla Vergine Maria e ai “santi martiri”. Accostata da uno xenodochio, essa si trasformò in un santuario-simbolo della Terra Santa, mentre i pellegrini “martiri di Cristo” vennero identificati con i crociati.

L’Italia e gli Italiani continuarono ad essere coinvolti nel movimento dei crucesignati durante la 2a crociata (1146/7), sebbene l’imperatore bizantino Manuele I Comneno avesse imposto ai sovrani d’occidente di non accettare la partecipazione dei Normanni di Sicilia. Tuttavia agli eserciti crociati si associarono le truppe di Amedeo III di Savoia e di Guglielmo V di Monferrato. Al termine dell’impresa Luigi VII tornò in Francia facendo tappa in Sicilia. Dopo la caduta di Gerusalemme (1175), all’appello per la nuova crociata, bandita da Gregorio VIII (1187), Guglielmo II di Sicilia rispose inviando una flotta in Siria. Con le sue truppe Filippo II partì da Genova (1190) e i crociati franco-inglesi s’incontrarono a Messina per poi ripartire alla volta di S. Giovanni d’Acri (1191).

Le conquiste della 2a e della 3a crociata si rivelarono effimere, perciò Innocenzo III progettò una nuova spedizione (1198), ma la 4a crociata tradì il suo scopo originario. Principali protagonisti della deviazione furono i Veneziani, i quali stipularono con i crociati un accordo economico (1201) per assicurare il supporto della flotta. La dilazione dei pagamenti ottenne in contraccambio l’apporto dei crucesignati per ristabilire l’autorità della repubblica di S. Marco su Zara, sotto il comando del doge Enrico Dandolo. Nonostante le reazioni opposte all’iniziativa e la condanna di Innocenzo III, la crociata, guidata da Bonifacio, marchese di Monferrato, rispose alla richiesta d’aiuto, formulata dal principe Alessio per rimettere sul trono di Costantinopoli suo padre Isacco II, tenuto prigioniero dall’usurpatore Alessio III. Conquistata la capitale dell’impero d’Oriente, i tre partiti crociati (Veneziani, Francesi e Monferrini) costituirono l’impero latino d’Oriente ed elessero imperatore Baldovino di Fiandra. I Veneziani, inoltre, ottennero il diritto di nomina del patriarca, molte isole e le coste greche dello Ionio. A Bonifacio di Monferrato fu assegnato il regno di Tessalonica.

La degenerazione degli ideali e degli scopi della crociata, insieme alla strumentalizzazione compiuta dai Veneziani, indussero Innocenzo III a bandirne un’altra (1215), ma il progetto venne realizzato dai suoi successori. Tuttavia, l’atteggiamento di Federico II, partito da Brindisi e subito fermatosi ad Otranto (1227) a causa di un’epidemia che colpì la flotta, provocò la scomunica comminata contro di lui da Gregorio IX. Per due volte l’imperatore “spergiuro” fu scomunicato, mentre venne sconfessato il trattato stipulato a Giaffa (4 febbraio 1229) con il sultano d’Egitto al-Kamil: la soluzione diplomatica fu intesa come un ulteriore tradimento dell’ideale crociato, perciò in Italia venne bandita una crociata contro l’imperatore scomunicato. Questi, entrato pacificamente nella Città Santa, s’incoronò re di Gerusalemme presso il S. Sepolcro (7 marzo 1229), avendo acquisito il titolo regale tramite il matrimonio con Isabella di Brienne (1212-1228), sua seconda moglie. La prospettiva “politica”, e non militare, entro cui si era mossa l’iniziativa federiciana peccava di eccessiva modernità. Il papato non poteva accettare l’idea di una coesistenza pacifica fra cristiani, musulmani ed ebrei in Terra Santa. Questa condizione, invece, si era realizzata in Sicilia ed era stata mantenuta dai sovrani normanni e svevi, perciò l’isola era stata appellata “terra senza crociati”. Successivamente, Gregorio IX ratificò (1231) il trattato di Giaffa e Riccardo Filangeri guidò la rappresentanza occidentale incaricata di far rispettare la tregua decennale stipulata da Federico II.

Alla novità dell’indirizzo politico federiciano corrispose, in ambito ecclesiastico, un ripensamento dell’idea e dei fini della crociata. Dinanzi ai risultati poco duraturi delle spedizioni armate, maturò l’idea di coniugare la crociata con l’attività missionaria. Ferma restando la volontà di liberare la Terra Santa dal dominio dei musulmani, l’espansione dell’annuncio evangelico rigettava l’uso della violenza e mirava alla conversione degli infedeli attraverso il confronto sul piano religioso. Emblematica, ma anch’essa deludente nei risultati, fu la vicenda di s. Francesco d’Assisi, il quale, da crociato, raggiunse le truppe occidentali e si recò a predicare il vangelo nell’accampamento avversario alla presenza del sultano al-Kamil. È probabile che il Santo cercasse il martirio – compreso nell’ideale crociato –, ma venne risparmiato dal sultano. D’altra parte, nel 1220, cinque frati Minori – Bernardo, Otone, Pietro, Accursio e Adiuto –, sull’esempio di Francesco, partirono per la Spagna, dove predicarono nelle moschee. Deportati in Marocco, per ordine del sultano vennero decapitati. Sette anni dopo, a Ceuta (Marocco), la medesima sorte subirono i loro confratelli Daniele di Calabria, Angelo, Samuele, Donnolo, Leone, Nicola e Ugolino. Ciò nonostante, i Minori introdussero nella regola l’impegno missionario fra gli infedeli e continuarono a questuare per finanziare la crociata.

Fino alla caduta di S. Giovanni d’Acri (1291), l’Italia venne interessata al flusso dei crucesignati, ma fu anche teatro della crociata antifedericiana: esempio di distorsione dell’originale ideale crociato più volte rinnovatosi sotto altre forme. Nel frattempo, però, andava svanendo la speranza di riconquistare la Terra Santa e fra Trecento e Cinquecento furono numerosi i progetti di crociata elaborati e rimasti irrealizzati. Fino alla riscossa musulmana della fine del XV sec. le potenze marinare italiane mantennero la supremazia sul Mediterraneo ed estesero le proprie propaggini al Mar Nero e alla Cina. Al seguito di esploratori, mercanti e coloni i missionari italiani penetrarono nelle terre più lontane. E comunque, l’appello alla crociata e la sua predicazione rimasero presenti nell’animo di molti Italiani, ad esempio Caterina da Siena, Giacomo della Marca, Cristoforo Colombo. Giovanni da Capestrano predicò la crociata quando essa si presentava trasformata in guerra contro l’espansione turca in Europa, succeduta alla conquista di Costantinopoli (1453). L’appello di un papa italiano, Pio II, per una nuova crociata (Mantova 1459) restò inascoltato e a dimostrazione del generale disinteresse subentrato fra i principi cristiani nei confronti della Terra Santa valsero le parole di Erasmo da Rotterdam, secondo cui la guerra contro i Turchi era diventata un argomento largamente sfruttato per suscitare l’ilarità della gente, insieme agli oroscopi e alle adulazioni dei cortigiani (dedica del Moriae encomium).

Malgrado gli esiti negativi delle imprese militari e l’evanescenza di molteplici progetti di riconquista dei luoghi santi, una presenza “crociata”, inerme e per buona parte italiana, fu favorita dai sovrani di Sicilia Roberto d’Angiò e Sancia di Maiorca, i quali acquistarono (1333) dal sultano al-Naser Mohammad il Cenacolo di Gerusalemme e lo donarono ai Frati Minori. I Francescani si insediarono nell’area del Monte Sion e in seguito diventarono anche custodi e comproprietari del S. Sepolcro. D’allora, con alcuni privilegi concessi da Clemente VI (1342) e l’acquisizione di altri beni e santuari cristiani, si sviluppò la nuova struttura della Custodia di Terra Santa. Essa mantenne e incrementò l’esigua rappresentanza della Chiesa latina (ritornata nei luoghi santi dopo il 1291) e pose in atto – senza soluzione di continuità – il connubio crociata-missione secondo lo spirito di S. Francesco.

Fonti e Bibl. essenziale

I Comuni italiani nel Regno crociato di Gerusalemme. Atti del colloquio “The italian communes in the crusading Kingdom of Jerusalem, Jerusalem May 24-May 28, 1984, a cura di G. Airaldi – B.Z. Kedar, Genova 1986; M.-L. Favreau-Lilie, Die Italiener im Heiligen Land vom ersten Kreuzzug bis zum Tode Heinrichs von Champagne, 1098-1197, Amsterdam 1989; F. Cardini, Gerusalemme d’oro, di rame, di luce. Pellegrini, crociati, sognatori d’Oriente fra XI e XV secolo, Milano 1991, Id., Studi sulla storia e sull’idea di crociata, Roma 19932; B.Z. Kedar, Crociate e missione. L’Europa incontro all’Islam, Roma 1991; Il concilio di Piacenza e le crociate, Piacenza 1996; L.M. de Palma, Pellegrini martiri di Cristo? Storia e leggenda di un culto medievale sulla costa pugliese, «Rivista di Storia della Chiesa in Italia», LIII (1999), 17-38; G. Musca, Il Vangelo e la Torah. Cristiani ed ebrei nella prima crociata, Bari 1999; Verso Gerusalemme. II convegno internazionale nel IX centenario della I crociata (1099-1999) (Bari, 11-13 gennaio 1999), a cura di F. Cardini – M. Belloli – B. Vetere, Galatina 1999; La Terrasanta e il crepuscolo della crociata. Oltre Federico II e dopo la caduta di Acri. Atti del I convegno internazionale di studio (Bari-Matera-Barletta, 19-22 maggio 1994), a cura di M.S. Calò Mariani, Bari 2001; Il cammino di Gerusalemme. Atti del II Convegno Internazionale di Studio (Bari-Brindisi-Trani, 18-22 maggio 1999), a cura di M.S. Calò Mariani, Bari 2002; Il Mezzogiorno normanno-svevo e le Crociate. Atti delle quattordicesime giornate normanno-sveve. Bari, 17-20 ottobre 2000, a cura di G. Musca, Bari 2002; G. Ricci, I Turchi alle porte, Bologna 2008; A. Demurger, Crociate e crociati nel medioevo, Milano 2010; A. Musarra, In partibus ultramarinis. I Genovesi, la crociata e la Terrasanta (secc. XII-XIII), Roma 2017; L. Russo, I crociati in Terrasanta. Una nuova storia (1095-1291), Roma 2018.


LEMMARIO




Culto e devozioni - vol. I


 

Autore: Giovanni Liccardo1

L’importanza delle devozioni popolari. Le recenti canonizzazioni di Giovanni Paolo II e di Giovanni XXIII e la risposta estesa di masse di fedeli a vari eventi ecclesiali ripropongono l’importanza delle devozioni popolari nella società contemporanea. Tali fenomeni si ricollegano ad una forte persistenza di forme di devozione popolare che attraversano l’Italia (ma anche altre aree europee) e che non solo non diminuiscono di intensità, ma si mantengono paralleli ai livelli di crescita (economica e organizzativa) delle collettività locali che li animano. Le più diffuse devozioni, intese come la totalità delle pratiche religiose e dei rituali, nel corso della storia hanno caratterizzato «la ricerca di Dio da parte degli uomini […] espressa in molteplici modi, attraverso le loro credenze ed i loro comportamenti religiosi (preghiere, sacrifici, culti, meditazioni, ecc)» (Catechismo della Chiesa Cattolica, n. 28). E come registrò il Direttorio su pietà popolare e liturgia, edito nel 2002 dalla Congregazione per il culto divino e la disciplina dei sacramenti, la pietà popolare è un dato di fatto nella vita della Chiesa; pertanto va valorizzata ed educata in quanto strumento prezioso di esperienza e di interiorizzazione del mistero rivelato, e luogo di inculturazione della fede.

Le manifestazioni tardo antiche. Tra le prime manifestazioni cultuali furono quelle a favore dei defunti, in de­terminati giorni dopo la sepoltura. Almeno nell’età più antica, si diffuse la consuetudine del refrigerium; il rito consisteva in un pasto funebre collegato alla morte, cioè cristianamente al riposo eterno, nel giorno anniversario dei defunti (dies natalis) o dei santi: lo scopo principale era di portare giovamento all’anima del morto, tanto che Paolino di Nola riferisce espressamente che il popolo credeva che i defunti godessero realmente quando venivano bagnati dal vino (Carme 27, 563-567). Durante il rito si consumavano vino, latte e miele, a cui venivano aggiunti veri e propri pasti; allo scopo si costruivano luoghi appositi per il servizio funebre (cellae). Tollerato inizialmente, dal V secolo a causa di degenerazioni il culto fu avversato apertamente dai vescovi, come indicano le note di Ambrogio ed Ennodio di Pavia e specialmente di Agostino (Confessioni, 6, 2).2

A parte il refrigerio, speciale riguardo fu dedicato alla salma, sulla quale si spargevano balsami e fiori; talvolta, accanto alla testa dei defunti si deponevano delle corone di alloro che dovevano assicurare ai defunti la pace nella tomba. Non poche volte nelle sepolture più antiche sono state scoperte delle monete nella bocca dei morti, con esplicita allusione alla tradizione classica. Di sicuro, ciò che sempre contraddistinse il funerale dei cristiani fu la preghiera. Tertulliano (Sull’anima, 51) menziona le litanie che il sacerdote recitava all’atto della sepoltura, mentre il V capitolo degli Atti del martirio di Cipriano registra con precisione la processione che «con ceri e torce» accompagnò la salma del santo al luogo della sepoltura. Ma è Agostino a fornire la più eloquente rievocazione di una funzione funebre, che comprendeva certamente anche il sacrificio della messa, quando racconta la deposizione della madre (Confessioni, 9, 12).

Molto particolare fu la devozione verso i santi, considerati come “compagni fedeli e invisibili”: «Dammi un compagno, Signore», canta Sinesio di Cirene nel 4 Inno, «un amico, un sacro messaggero di sacro potere, un sacro ambasciatore di preghiera illuminata dalla luce divina, un compagno, un dispensatore di nobili doni, un custode della mia anima, un custode della mia vita, che vigili sulle mie preghiere, che vigili sulle mie azioni». Il fedele al cospetto del martire doveva compiere alcune azioni: vedere, con gli occhi della fede, pregare, per richiedere o ringra­ziare, compiere un voto, cioè eseguire la penitenza che gli era stata chiesta, ottenere un favore, tra i quali era primariamente la guarigione. Prima di ogni altra cosa il fedele doveva «toccare» e «baciare» il santo, come spiega, per esempio, Gregorio di Nissa (Encomio di San Teodoro, 7).

Il bacio delle reliquie del santo significava riverenza e venerazione, ma anche era simbolo di riconciliazione, di unione spirituale e di richiesta di protezione. Soprattutto ba­ciando le spoglie del martire il fedele dichiarava la sua sottomissione, come nel diritto feudale il vassallo era tenuto a baciare la mano del suo signore. Il cristiano bacia la tomba del santo, bacia gli og­getti che vi sono sopra, bacia i libri sacri, bacia la mano del sacerdote in­caricato delle cerimonie; più di ogni altra cosa, il fedele bacia l’altare eretto sul sepolcro del martire: tomba e altare vengono «abbracciate», per­ché sopra l’altare ha sede colui che si è offerto per tutti, invece sotto l’altare si tro­vano quanti sono stati redenti dal suo sacrificio. Roma, innanzitutto, fu il modello di una eccezionale esplosione di culti che segna, con affini dinamiche di insediamento e di evoluzione e con alcune logiche variabili temporali, lo straordinario radicalizzarsi del cristianesimo in tutti i centri abitati, urbani o rurali, grandi e piccoli, dell’Orbis Christianus.3

Presso le tombe dei martiri, davanti alle quali ardevano perennemente ceri, lucerne e candele, mentre intorno si spargeva il profumo degli aromi che i fedeli versavano, diventate luoghi privilegiati delle liturgie e dei riti, soprattutto a Roma, alcuni testi fanno ritenere sicura la pratica della “incubazione”, prassi derivata dal paganesimo. Nonostante la condanna da parte degli scrittori cristiani, questa antica usanza venne praticata a Napoli, per esempio, presso il cubicolo di S. Gennaro, nell’oratorio di S. Agrippino, forse anche in prossimità del sepolcro del vescovo Severo e della tomba di S. Gaudioso; infine, nel recinto di altre chiese e sepolture importanti all’interno delle mura.

Più in generale, il culto delle reliquie è stato uno dei segni più rappresentativi della religiosità cristiana dei primi secoli. Oltre ai resti di ossa, di denti, di capelli, di indumenti o di quant’altro era appartenuto al santo, i fedeli hanno cercato anche i ceri dipinti, i candelabri, l’olio delle lucerne che ardevano presso i loro sepolcri; o i fiori e le foglie che abbellivano le loro tombe. Le reliquie autentiche sono state sempre le più richieste, tuttavia, fu più comune la consuetudine di mettere a contatto delle tombe venerate oggetti di ogni tipo, specie stoffe e fazzoletti, che diventavano per induzione “preziose” e “valide” reliquie.

Gli ex voto. Una forma di devozione è rappresentata dall’offerta a Dio, alla Madonna, ai santi, in particolare al santo protettore, per grazia ricevuta o in adempimento di una promessa fatta, indipendentemente dal risultato sperato di ex voto, ellissi di ex voto suscepto. Circa le origini del fenomeno, già verso la fine del VI secolo vi erano numerosi ex voto sulla croce del Golgota e nella grotta di Betlemme, ornata con oro e argento. Nella tradizione medioevale il segno ex voto si definisce prima sotto forma di ceri e candele di varia grandezza, poi sotto forma di pani o altri cibi, fino ad altre forme, anche di animali ed oggetti di vario tipo; più tardi, superando certe interdizioni ecclesiastiche che vi riscontravano permanenze pagane, sotto forma di rappresentazioni anatomiche delle parti del corpo graziato. Oggi la tipologia è molto varia: dai cosiddetti ex voto anatomici (braccia, gambe, cuori, organi) eseguiti in argento, oro e altro metallo agli attrezzi ortopedici; dalle tavolette dipinte con la scena del miracolo ai ricami e agli abiti da sposa e di battesimo, alle fotografie; dalle orme dei soldati scampati alla morte in guerra agli oggetti in oro. Tali prodotti caratterizzano certi ambienti dei santuari, esprimendo con spontaneità e semplicità l’intervento divino nel quotidiano.

Il culto eucaristico. Il culto eucaristico è il complesso degli atti della venerazione rivolti al sacramento eucaristico durante la celebrazione della messa o fuori di essa. La Chiesa ha dimostrato sempre verso questa funzione una particolare attenzione (come dimostrano l’enciclica Mysterium fides di Paolo VI, l’istruzione Eucharisticum my­sterium della Sacra Congregazione dei riti e la parte del nuovo Rituale romano intitolata De sacra communione et de cultu mysterii eucharistici extra missam, pub­blicata dalla Sacra Congregazione per il cul­to divino e alla quale, nella versione italiana curata dalla CEI, è stato dato il titolo Rito del­la comunione fuori della messa e culto eucari­stico).

L’origine del culto (espressa con genuflessioni, incensazioni, accensione di lampade, ecc.) è assai antica; nondimeno, la negazione della presenza reale di Cristo nell’eucaristia da parte di Berengario, diede avvio come reazione alla nascita e allo sviluppo della devozione che, a partire dal XII secolo, si affermò diffusamente, trovando nel contemporaneo emergere del devozionismo, uno strumento di divulgazione straordinario. Il culto eucaristico diede vita a varie espressioni rituali durante la consacrazione della messa, tra le quali l’elevazione dell’ostia (XII secolo) e del calice del vino (XIII secolo); la festa del Corpus Domini nel 1264 ad opera di papa Urbano IV (con conseguente affermazione della pratica dell’esposizione eucaristica durante la messa e fuori di essa, quale dilatazione dell’elevazione durante la consacrazione della messa, al fine di favorirne l’adorazione devozionale dei fedeli); l’introduzione, nella struttura dell’altare, del tabernacolo/sepolcro per la custodia permanente dell’eucaristia che venne collocato al centro di esso, sormontato da un tronetto per collocare l’ostensorio per l’esposizione eucaristica; l’esposizione eucaristica delle Quarantore; la reposizione del SS. Sacramento nel repositorio specificamente predisposto il giovedì santo dopo la messa in Caena Domini.

In particolare, le radici della pratica delle Quarantore affondano nella consuetudine del digiuno e dell’astinenza praticati negli ultimi giorni della settimana santa, con l’adorazione della croce e poi del crocifisso da parte del vescovo, del clero e dei fedeli: azioni a cui si aggiunsero veglie di preghiera che iniziavano la sera del giovedì santo e si concludevano a mezzogiorno del sabato, nel pensiero del sepolcro in cui Gesù, secondo il computo fatto da Agostino, rimase quarantore. Il passaggio da questa forma liturgico-devozionale locale e particolare alla nota e classica forma dell’adorazione che lentamente prese un carattere più popolare e universale con l’ininterrotta esposizione per quarantore del sacramento, avvenne a Milano nel decennio 1527-1537 ed assunse la fisionomia che, salvo alcune particolarità, dura fino ad oggi.

La festa del Corpus Domini, invece, fu istituita dal vescovo di Liegi Roberto di Torote in segui­to alla rivelazione fatta alla mo­naca agostiniana Giuliana del lebbrosario di Mont­ Cornillon e celebrata per la prima volta nel 1246 a Fosses (Na­mur). Urbano IV, già arcidiacono di Liegi, con bolla Transiturus de hoc mundo dell’11 agosto 1264 la estese alla Chiesa universale; in seguito, commissionò a Tomma­so d’Aquino di comporre la messa e l’ufficio, utilizzando antifone, responsori e le­zioni già in uso presso alcune chiese particolari. Il consenso dei fedeli verso la celebrazione si consolidò dopo il Concilio di Trento; quindi, si diffusero le processioni eucaristiche e le adorazioni prolungate che manifestano pubblicamente la fede del popolo cristiano verso l’eucaristia.4

Il culto mariano. L’esortazione apostolica Marialis cultus di Paolo VI (1974) si presenta ancora oggi come la più efficace sintesi delle motivazioni teologiche del culto verso la Vergine, capace di leggere nell’essenziale alcune caratteristiche devozionali. Nel ricordare che la Chiesa venera con particolare amore Maria Santissima, Madre di Dio, il pontefice sottolinea nell’Introduzione che «la storia della pietà dimostra come le varie forme di devozione verso la Madre di Dio, che la Chiesa ha approvato entro i limiti della sana e ortodossa dottrina si sviluppino in armonica subordinazione al culto che si presta a Cristo e intorno ad esso gravitino come a loro naturale e necessario punto di riferimento». È un modo per ricordare che, nonostante l’importanza del culto e della devozione mariana, il centro non può mai distogliersi dalla Trinità e dalla figura di Cristo, su cui la Chiesa è fondata. Il Vaticano II, poi, ha precisato che la vera devozione non ha niente a che fare con la curiosità, la vana credulità, il miracolismo, il superficiale sentimentalismo e il formalismo delle pratiche esteriori; consiste piuttosto nel riconoscere la singolare dignità di Maria, nel rivolgersi a lei con fiducia e amore filiale, nell’imitare le sue virtù, per seguire Cristo insieme con lei (cf. Lumen Gentium, 67).

Durante il medioevo la pietà mariana, liturgica e privata, si diffonde in ogni circolo vitale del tessuto ecclesiale: da abbazie e cattedrali, da chiese in città e in campagna, risuona concordemente la venerazione per la Madre di Dio e Regina di misericordia. La pietà non è testimoniata soltanto dalle preghiere comunitarie e private: l’architettura, la pittura, la scultura, le vetrate, il mosaico, la miniatura, la melodia, gli inni, la poesia e la prosa in latino e in volgare, contribuiscono a plasmare la fisionomia della venerazione mariana, risultando un tipo di espressione il riflesso dell’altra.

Nell’età moderna Maria è l’Ancilla Domini partecipe alla sua redenzione (Concilio di Trento); la devozione mariana diviene molto popolare e si incentra sulla comprensione del mistero di Cristo. Nell’età contemporanea, infine, le apparizioni della Madonna a Caterina Labourè (1830) e a Bernadette Soubirous a Lourdes (1858) accompagnano la formulazione del dogma dell’Immacolata Concezione (1854) stabilito da Pio IX con tutti i vescovi del mondo. La grande diffusione del culto mariano culmina nel dogma dell’Assunzione di Maria stabilito da Pio XII nel 1950.

Tipica forma della devozione mariana è la recita del rosario, una preghiera a carattere litanico che prevede la sequenza di dieci Ave Maria unite alla meditazione dei “misteri” (eventi, momenti o episodi significativi) della vita di Cristo e di Maria. Con la lettera apostolica Rosarium Virginis Mariae (ottobre del 2002) Giovanni Paolo II ne ha esortato la recita, come avevano fatto prima di lui Leone XIII e Paolo VI nelle encicliche Supremi apostolatus officio e Marialis Cultus; nella lettera il papa, accanto ai tradizionali misteri gaudiosi, dolorosi e gloriosi, ha introdotto una quarta contemplazione, quella dei misteri luminosi. Questa pratica fu resa popolare da San Domenico che secondo la tradizione ricevette nel 1214 il primo rosario nella prima di una serie di apparizioni come un mezzo per la conversione dei non credenti e dei peccatori.

Collegata alla recita del rosario è la supplica alla Madonna di Pompei, ovvero preghiera recitata l’8 maggio e la prima domenica di ottobre davanti all’immagine mariana conservata in quel santuario, una raffigurazione seicentesca (attribuita alla scuola di Luca Giordano) divenuta estremamente popolare; la grande espansione di questo culto, introdotto da Bartolo Longo, ha indotto la Santa Sede a creare nella cittadina campana una prelatura territoriale.5

Il culto della croce, la Via Crucis e il Sacro Cuore di Gesù. Se la fede cristiana comprese fin da subito la centralità della croce, nei primi secoli questo segno non fu facilmente rappresentato né tanto meno ostentato. A partire dal II secolo gli autori cristiani meditano sul senso della croce, fino a elevare ad essa canti e inni: Giustino, Origene, Cipriano trovano in quella figura una simbolica della vita, della comunicazione tra cielo e terra, della congiunzione tra principio maschile e femminile. Con la svolta costantiniana si diffusero le feste e la devozione, legate al ritrovamento leggendario delle sue reliquie. Storicamente la liturgia dell’Exaltatio precede quella dell’Inventio; l’origine deve ricercarsi nell’annuale celebrazione a Gerusalemme della dedicazione (avvenuta il 13 e 14 settembre 335) delle basiliche costantiniane dell’Anastasis e del Martyrion, di cui parla minuziosamente la Peregrinatio Aetheriae. Da Gerusalemme la solennità si radicò in molte chiese orientali, specie in quelle che possedevano una reliquia della croce, come a Costantinopoli e ad Alessandria; in occidente, invece, la più antica testimonianza della celebrazione si trova nella biografia di Sergio I (687-701). Tra il VII e l’VIII secolo si diffuse la festa della Inventionis Sanctae Crucis stabilita al 3 maggio. Oggi la celebrazione prende su di sé un significato più alto del leggendario ritrovamento; la glorificazione di Cristo passa attraverso il supplizio della croce e l’antitesi sofferenza-glorificazione diventa indispensabile nella storia della salvezza: Cristo, incarnato nella sua realtà concreta umano-divina, si sottomette liberamente all’umiliante condizione di schiavo e l’infamante supplizio viene trasformato in gloria perenne, pertanto la croce diventa il simbolo e il compendio della religione cristiana.

La Via Crucis è simbolo di un’esperienza universale di dolore e di morte, di fede e di speranza; commemora l’ultimo tratto del cammino percorso da Gesù durante la sua vita terrena: da quando uscì con i discepoli verso il Monte degli Ulivi fino a quando, sopportando il patibulum, fu condotto al “luogo del Golgota” dove fu crocifisso e inumato in un sepolcro nuovo, scavato nella roccia di un giardino limitrofo. Tracce originarie della pratica sono state identificate nella processione che si snodava fra gli edifici sacri eretti sulla cima del Golgota – l’Anastasis, la chiesetta ad Crucem e la chiesa del Martyrium – e nella via sacra, un cammino attraverso i santuari di Gerusalemme che si desume dalle varie “cronache di viaggio” dei pellegrini dei secoli V e VI. La forma attuale si determinò nel clima delle crociate e del rifiorire dei pellegrinaggi a partire dal secolo XII, specialmente per la presenza stabile dei francescani nei “luoghi santi” che suscitarono nei pellegrini il desiderio di riprodurre quel rito nelle loro terre d’origine. Nella seconda metà del ‘900 Paolo VI è stato il maggior promotore dell’esercizio della Via Crucis allorquando nel 1965 volle cominciare a presiedere personalmente la pratica al Colosseo il venerdì santo.

Al cuore di Gesù, infine, la Chiesa cattolica rende culto onorando sia uno degli organi della sua umanità, sia l’amore del Salvatore per gli uomini, di cui è simbolo il suo cuore. L’istituzione della festa, estesa a tutta la Chiesa da Pio IX nel 1856 con l’enciclica Haurietis Aquas, ha conosciuto un travagliato cammino protrattosi per più di due secoli, e segnato – specialmente nel XVII e XVIII secolo – da forti polemiche. I primi impulsi alla devozione del Sacro Cuore di Gesù provengono dalla mistica tedesca del tardo medioevo, ma un grande impulso al culto si ebbe nel corso del XVII secolo, specialmente per le rivelazioni di Margherita Maria Alacoque, propagate da Claude La Colombière (1641-1682) e dai suoi confratelli gesuiti.

Fonti e Bibl. essenziale

B. Bordin, Il Sacro Cuore di Gesù: storia e dottrina, culto liturgico, devozioni e pii esercizi, Messaggero, Padova 1992; L. Mezzadri (a cura di), Giubilei e anni santi: storia, significato e devozioni, San Paolo, Cinisello Balsamo 1999; G. Moioli, Il mistero dell’Eucaristia, Glossa, Milano 2002; Profili istituzionali della santità medioevale: culti importati, culti esportati e culti autoctoni nella Toscana occidentale e nella circolazione mediterranea ed europea, a cura di C. Alzati – G. Rossetti, GISEM-ETS, Pisa 2010; M. Sordi, L’impero romano-cristiano al tempo di Ambrogio, Jaca Book, Milano 2000; V. Sorce, Inculturazione e fede, SEI, Torino 1996; P. Toschi, Bibliografia degli ex voto italiani, Olschki, Firenze 1970; C. Valenziano, Liturgia e antropologia, EDB, Bologna 1997; M. Walsh, Il grande libro delle devozioni popolari, Piemme, Casale Monferrato 2000; D. Zardin, La “religione popolare”: interpretazioni storiografiche e ipotesi di ricerca, in «Memorandum», 1 (2001), 41-60.

Immagini:

1) Roma, Catacombe di San Callisto, Pittura raffigurante un banchetto (III secolo); 2) Hans Memling, dal Dittico di San Giovanni Battista e la Veronica – Santa Veronica, National Gallery of Art, Washington (1433); 3) Siena, Basilica di San Domenico, Teca delle reliquie; 4) Pittore lombardo, Madonna con bambino. Comune di Trezzo sull’Adda (fine ‘400 – inizio ‘500); Giovanni Maria Morandi, Alessandro VII Chigi alla processione del Corpus Domini del 27 maggio 1655, Musée des Beaux-Arts, Nancy.

Sitografia:

http://www.cisam.org/ (sito del Centro italiano di studi sull’alto medioevo); http://www.reginamundi.info/ (sito dedicato alla Vergine Maria Regina del Mondo e Madre dell’umanità, con notizie storiche e liturgiche); http://www.iconecristiane.it/ (sito dedicato particolarmente ad esplorare il culto delle immagini); http://www.mirabileydio.it/ (sito dedicato alla devozione delle immagini, con speciale attenzione alla loro ideazione).


LEMMARIO