Associazione Italiana dei Professori di Storia della Chiesa

Dizionario Storico Tematico La Chiesa in Italia
Dopo l'Unità Nazionale
Roma 2015
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Culto e devozioni - vol. II


Autore: Giovanni Liccardo

Tendenze cultuali nell’età moderna. A partire dalla fine dell’Ottocento si è andato definendo un corredo di indicazioni pratiche e liturgiche, perché i fedeli potessero, con le preghiere e con le azioni, venire in soccorso a una Chiesa sempre più abbandonata dagli uomini e dai ceti colti. Le pratiche devozionali subiscono anche una ‘purificazione’ a opera delle influenze moderniste, che incide nella formazione del clero in un senso di sobrietà, peraltro considerata troppo pericolosa dalle gerarchie. Un esempio illuminante è rappresentato dal sacerdote faentino Francesco Lanzoni, al quale si ispireranno generazioni di sacerdoti emiliano-romagnoli. Le minacce della modernità attualizzano il martirio della Chiesa delle origini; nella seconda metà del secolo XIX, gran parte della letteratura apologetica cattolica compirà per questo un parallelo tra le persecuzioni dei governi liberali e quella dei martiri, vittime degli imperatori romani.

La prima guerra mondiale depone il suo spirito religioso in una rivitalizzazione devozionale nazionalistica sul piano pubblico e in una personale richiesta di protezione sul piano intimo. Una varietà di culti e simboli ampiamente studiata e catalogata come vera e propria devozione di guerra; ma certe forme regressive e infantili, come le reliquie, i santini, le medagliette prese spesso dal santuario più vicino al proprio paese, saranno condannate come superstiziose da Agostino Gemelli, l’unico che tenterà un’uniformità nazionale mediante la consacrazione dell’esercito al Sacro Cuore.

Durante il fascismo, secondo una visione autarchica, Mussolini fece notevoli pressioni sull’Opera italiana dei pellegrinaggi per diminuire il numero dei pellegrinaggi a Lourdes e potenziare quelli di Loreto, da lui visitato il 24 ottobre 1936 (il 28 agosto era andato al santuario di Montevergine presso Avellino). Ma a questa richiesta restò indifferente la cultura delle élites, anzi verso i fenomeni religiosi così detti ‘popolari’ certi intellettuali mostrarono estraneità e insofferenza, come dimostra l’atteggiamento di D’Annunzio che, affascinato da Loreto, inorridiva di fronte al fenomeno dei santuari meno suggestivi (come quello dedicato alla Madonna dei Miracoli di Casalbordino, vicino Chieti). Invece, nel Mezzogiorno le tradizioni cultuali riflettono in modo molto immediato la generale condizione di povertà e d’incertezza dei ceti medi; le ricerche (suppliche, lettere, ex voto) provano che le richieste si rivolgono più alle insicurezze materiali, che non alle guarigioni. Disoccupazione, ricerca di un posto fisso, concorsi, viaggi, così come tutte le occasioni di ascesa e di ricerca di un nuovo status sono, per esempio, al centro delle richieste alla Madonna di Pompei.

La devozione della Madonna del Divino Amore di Roma è emblematica dello spirito di ricostruzione dell’Italia che esce distrutta dal secondo conflitto mondiale; più in generale, si coagula intorno a un rinnovato culto mariano un’effervescenza devozionale e liturgica spontanea che riflette un bisogno di rassicurazione comunitaria, un ‘sentirsi insieme’ generato dal senso collettivo dell’epoca, dal forte coinvolgimento della società civile nella guerra e infine dalla rinnovata credibilità della Chiesa e della religione, viste come pressoché uniche speranze nel panorama di macerie materiali e simboliche della nazione. Il culto mariano focalizza, ancora una volta, queste attese: rassicurazione e condivisione materna della sofferenza pervadono le variegate devozioni mariane, dalle statue della Madonna che lacrimano (come la Madonna di Siracusa, piangente il 29 agosto del 1953) alla devozione rivolta all’Addolorata, la variante mariana certamente più sentita nella desolazione postbellica. Eppure per il Vaticano II la questione non sarà la scelta tra fede adulta e fede dei semplici, quanto piuttosto l’importanza di rivitalizzare una liturgia stanca e ormai vuota perché sia sempre più vissuta e partecipata. Peraltro, se la frequenza dei fedeli alle messe e alle attività parrocchiali appare sempre più saltuaria, i pellegrinaggi ai santuari vecchi e nuovi, le devozioni tradizionali o quelle rinnovate dai nuovi movimenti, proseguono senza la minima interruzione. A fronte di questa nuova vivacità devozionistica, non si affievolisce il culto legato ai santi di sempre: il santuario di s. Antonio da Padova o quello di San Pio in Puglia rafforzano la rete delle loro associazioni e pubblicazioni; a titolo esemplificativo, si veda «Il Messaggero di Sant’Antonio», un periodico che vende in Italia circa 700.000 copie e che viene tradotto in undici lingue raggiungendo la tiratura complessiva di 1.200.000 copie.

In tempi recenti, l’impulso che papa Wojtyla ha dato alle devozioni tradizionali, specialmente quelle a Maria e ai santi, ha reso definitivamente chiaro che la pietà popolare non muore con la modernità; non solo, ritorna anche una fedeltà al carisma papale potente e autorevole. Come documenta ora la popolarità di papa Francesco che, da ultimo, appare intenzionato a rinnovare la Chiesa, liberarla da tramezzi, cerimoniali vuoti e burocrazia, con la svalutazione della materialità e del potere, sotto qualunque forma.

Fonti e Bibl. essenziale

B.M. Bosatra, Liturgia e pietà popolare oggi: prospettive pastorali, in «Ambrosius», 1988, 313-346; Congregazione per il culto divino e la disciplina dei sacramenti, Direttorio su pietà popolare e liturgia, LEV, Città del Vaticano 2002; A. Cuva, Io sono il pane vivo. Rito della comunione fuori della messa e culto eucaristico, Edizioni Paoline, Roma 1984; S. De Fiores, Maria nella teologia contemporanea, Centro di Cultura Mariana “Madre della Chiesa”, Roma 1991; G. De Rosa, Chiesa e religione popolare nel Mezzogiorno, Editori Laterza, Roma-Bari 1978; G. De Vita, Verso l’aldilà: devozioni e solidarietà, Schena, Fasano 2007; P. Golinelli, Culti, devozioni e società, AIEP, Repubblica di San Marino 1987; A. Maggiolini, Preghiere della gente: devozioni popolari, Mondadori, Milano 1998.

Sitografia:

http://www.aissca.eu/ (sito dell’Associazione Italiana per lo Studio della Santità, dei Culti e dell’Agiografia); http://www.agensir.it/hp_on_line_/00003322_Home_Page.html (sito dell’Agenzia S.I.R., Servizio Informazione Religiosa); http://www.viaggispirituali.it/ (sito che mette in rete esperienze suggestive di devozioni religiose); http://www.santiebeati.it/ (sito dedicato particolarmente alla conoscenza dei santi, alle loro ricorrenze liturgiche e alla definizione delle cosiddette “pie pratiche”, cioè le devozioni popolari, le novene, l’utilizzo di medaglie o la recita di preghiere particolari).


LEMMARIO




De Giorgi Fulvio


Nato a Lecce, 26.05.56). 1973-75 studia, con una borsa del Ministero degli Esteri, presso lo United World College of the Atlantic (UK); 1975 consegue l’International Baccalaureate (sul quale cfr. nota del Ministero P. I. n. 1457, del 15 aprile 1971, diretta ai Rettori delle Università); 1975-79 è alunno del corso ordinario della Scuola Normale Superiore di Pisa; è allievo di Furio Diaz; consegue il diploma di licenza della Scuola Normale; 1975-79 studia presso la Facoltà di Lettere dell’Università di Pisa; è allievo dei proff. Giorgio Candeloro, Claudio Pavone e Cinzio Violante; 1979 si laurea in Lettere moderne (con la votazione di 110/110 e la lode); relatori della tesi sono i proff. Pavone e Violante; ottiene un posto di perfezionamento presso la Scuola Normale; 1985 consegue il diploma di perfezionamento della SNS (con la votazione di 70/70 e la lode); relatori della tesi sono i proff. Furio Diaz e Alberto Caracciolo; 1985-86 è docente di ruolo presso il liceo scientifico statale di Tricase (LE), avendo vinto il relativo concorso a cattedre di storia, filosofia e pedagogia; 1987 dal 1 gennaio è ricercatore (prima di Storia moderna, poi di Storia contemporanea) presso la Facoltà di Lettere dell’Università Cattolica di Milano (è confermato nel ruolo nel 1991); collabora con i proff. Nicola Raponi e Luciano Pazzaglia; gli è affidato l’insegnamento di Storia contemporanea presso la Facoltà di Lettere dell’Università Cattolica, sede di Brescia (affidamento riconfermato nei successivi anni accademici); 1997 Premio Chiocchetti per la sua monografia La scienza del cuore. Spiritualità e cultura religiosa in Antonio Rosmini; 2000 risulta idoneo nella valutazione comparativa per l’ammissione nel ruolo dei Professori di II fascia – per il settore scientifico disciplinare MO9Y Storia della Pedagogia – presso la Facoltà di Scienze della Formazione dell’Università di Urbino (G. U. n. 31 del 20.4.1999); dal 1 novembre è professore associato di Storia dell’educazione (M-Ped-02) presso la Facoltà di Scienze della Formazione dell’Università Cattolica del S. Cuore di Milano; risulta idoneo nella valutazione comparativa per l’ammissione nel ruolo dei Professori di I fascia – per il settore scientifico disciplinare M-Ped-02 – bandita dall’Università di Bari; 2005 Presidente del Centro Studi “Paolo VI – Mai più la guerra!” (presidenza che lascia nel giugno 2008); membro del Comitato editoriale dell’Editrice La Scuola (riconfermato per il triennio 2008-2010 e 2011-2013 e successivo); dal 1° novembre è chiamato, come professore straordinario di Storia della Pedagogia, dalla Facoltà di Scienze della Formazione dell’Università di Modena e Reggio Emilia; 2008  è eletto Presidente del Consiglio di Corso di Laurea in Scienze dell’Educazione (riconfermato nel settembre 2010, per il successivo triennio accademico); è cooptato nel Consiglio Direttivo del Centro Studi Gallarati Scotti di Milano; la sua monografia Il Medioevo dei modernisti riceve il Premio Raffaele La Porta – lo Stilo d’oro (edizione 2009); è confermato nel ruolo (e perciò nominato professore ordinario, con Decreto Rettorale nr. 014 del 7.2.2011); 2011 membro del Comitato promotore del Centro di Studi e Ricerche “Antonio Rosmini” di Rovereto; 2012 Con-direttore della rivista “Annali di storia dell’educazione e delle istituzioni scolastiche”; 2012 Condirettore della collana “Saggi/storia dell’educazione” (della Editrice La Scuola); 2012 (novembre) membro del direttivo CIRSE; 2014 (giugno) membro della Giunta del Dipartimento di Educazione e Scienze Umane (Unimore); 2014 (dicembre) Direttore del Centro Studi “Antonio Rosmini” di Rovereto; La sua figura di studioso è legata alla ricerca storica che, avendo come arco temporale la tarda età moderna e l’età contemporanea, si incentra su temi di storia della cultura e di storia dell’educazione. Collabora all’attività dell’Archivio per la storia dell’educazione in Italia (Brescia). È membro del Comitato Scientifico della Fondazione Micheletti di Brescia. Ha pubblicato saggi sulle riviste della contemporaneistica italiana (Storia contemporanea, Italia contemporanea, Rivista di storia contemporanea) ed è membro, dalla fondazione, della redazione di “Contemporanea”, edita dal Mulino. È membro della Società Italiana per lo Studio della Storia Contemporanea (SISSCO), sin dalla fondazione della stessa, e del CIRSE. È stato tra i fondatori della Società Storica Saronnese e fa parte del suo Consiglio Direttivo. La ricerca scientifica di Fulvio De Giorgi ha avuto come criterio metodologico la prospettiva della storia dell’educazione come storia culturale. Egli ha esplicitato e sviluppato questa sua linea metodologica, tanto aprendo un dibattito sulla rivista “Contemporanea” quanto nella relazione, tenuta a quattro mani con Luciano Pazzaglia, al Convegno internazionale, tenutosi a Brescia nel 2004, sulla storia dell’educazione in Europa.





De Palma Luigi Michele


 





Dell'Omo Mariano


 





Democrazia - vol. II


Autore: Francesco Bonini

«Se la democrazia sarà cristiana farà un gran bene al mondo»: è la consegna lasciata da Papa Leone XIII, nell’udienza dell’agosto 1900, a Luigi Sturzo. In realtà, sul piano storico, il termine democrazia assume significato in tanto in quanto è aggettivato. E proprio all’inizio del XX secolo si manifesta un tornante decisivo.

Il magistero pontificio infatti accetta la scommessa sulla democrazia cristiana, sia pure con la definizione, contenuta nell’enciclica Graves de Communi Re (18 Gennaio 1901) di «actio benefica in populum». Democrazia dunque come azione sociale. Resta infatti la forte diffidenza nei confronti termine concetto della democrazia politica, legato al lascito della rivoluzione francese e al suo indirizzo laicista.

Una minoranza rischia l’affermazione politica della democrazia cristiana, e viene puntualmente sconfessata ed emarginata. Il movimento cattolico, per evitare le tensioni dottrinali del primo decennio del Novecento, privilegia la linea delle pratiche realizzazioni e degli spazi di libertà.

I limiti dell’assetto del liberalismo italiano emergono con la guerra: si aprono nuovi spazi di proposta politica.

Al centro della proposta politica di Luigi Sturzo – radicata nella sua esperienza amministrativa di inizio secolo e poi formalizzata nel programma del Partito popolare italiano, fondato nel 1919 – c’è l’idea di uno «Stato veramente popolare», che «rispetti i nuclei e gli organismi naturali – la famiglia, le classi, i Comuni – che rispetti la personalità individuale e incoraggi le iniziative private», in un programma di libertà, a partire dall’affermazione della libertà religiosa, «non solo agl’individui, ma anche alla Chiesa».

Questi spazi si richiudono rapidamente, con l’avvento del fascismo ed i compromessi conseguenti. Tuttavia Francesco Luigi Ferrari pone immediatamente, il 24 dicembre 1922, sul “Domani d’Italia” il dilemma strutturale: «o fascismo o democrazia cristiana». Tramontate le illusioni delle democrazia radicale e socialista «la democrazia di domani, perché sia realmente la democrazia e non una larva che ne illustri le esterne fattezze, deve essere cristiana. Perché essa possa affratellare categorie, classi e nazioni, dilacerate da un egoismo eretto a legge e a sistema, deve essere cristiana».

Di fronte al (pur imperfetto o tendenziale) totalitarismo fascista e a quelli nazista e comunista viene proposto dal magistero il concetto di sussidiarietà e viene sperimentata una vita associativa libera nell’Azione Cattolica.

Sarà Pio XII a parlare di democrazia nei radiomessaggi durante il periodo di guerra: «All’opera dunque e al lavoro, diletti figli! Serrate le vostre file. Non cada il vostro coraggio; non rimanete inerti in mezzo alle rovine. Uscitene fuori alla ricostruzione di un nuovo mondo sociale per Cristo», afferma nel 1943 e l’anno successivo riprende il filo della riflessione da Leone XIII, delineando i tratti di «una sana democrazia, fondata sugl’immutabili principi della legge naturale e delle verità rivelate».

De Gasperi formalizza in un breve testo, elaborato tra il 1942 e il 1943, le Idee ricostruttive della democrazia cristiana, che si organizza rapidamente come un partito capace di egemonia la nuova sintesi tra gli aspetti sociali e politici della democrazia, delineando un programma globale di riordinamento dello Stato e della Società, volto a superare «lo Stato totalitario com’è oggi» e «lo Stato democratico come fu ieri», ponendo al centro «l’affermazione delle libertà organiche e il riconoscimento del valore essenziale della persona umana». L’elaborazione poi si sviluppa rapidamente, con un apporto corale, nel vivo del passaggio verso la Costituente, superando rapidamente le incrostazioni del linguaggio e dei riferimenti organicistici tradizionali.

L’affermazione della democrazia cristiana comporta la denuncia delle radicali contraddizioni della “democrazia marxista”, che pure rappresenta una seduzione per piccoli gruppi di “cristiano-sociali”.

Affermata la democrazia repubblicana, come disse De Gasperi, con «fiducia nella direttiva democratica e nel metodo della libertà, da me sempre professate», si pongono due questioni ulteriori. La prima è nel senso dell’attuazione della costituzione, nel senso della democrazia sostanziale, la seconda nel quadro dello sviluppo delle istituzioni internazionali ed europee, che riposizionano la forma-stato in un quadro di molteplici livelli di governo.

Questi due processi si sviluppano, con alterne vicende, fino all’ulteriore data periodizzante del 1989.

A metà di questo lungo periodo di sviluppo e di progresso, cioè lungo gli anni Sessanta, caratterizzati dal Concilio, le rapide trasformazioni sociali che investono l’Italia pongono la questione del tessuto democratico e dei valori e dei principi di riferimento. La contestazione “globale”, che ha significative radici anche nel mondo cattolico italiano, pone anche una questione sulla democrazia, tanto all’interno della Chiesa, quanto nella società italiana, in un processo di frammentazione crescente, che ha uno dei suoi esiti nella crisi del sistema politico dei primi anni Novanta.

La XLII settimana sociale, svoltasi a Torino, 28 settembre-2 ottobre 1993 tenta di tirare le fila del complesso intreccio Identità nazionale, democrazia e bene comune, mentre, allargando ed approfondendo la prospettiva, la 44a settimana sociale, tenutasi a Bologna il 7-10 ottobre 2004, mette a tema La Democrazia: nuovi scenari, nuovi poteri, nel quadro mondiale della globalizzazione ed in presenza di una nuova “questione antropologica”.

L’enciciclica Centesimus Annus nel frattempo aveva chiuso un percorso appunto centenario del magistero, certificando (n. 46) che «la Chiesa apprezza il sistema della democrazia», e nello stesso tempo avvertendo che essa può convertirsi, qualora smarrisca il suo riferimento valoriale, in forme di «totalitarismo aperto oppure subdolo, come dimostra la storia».


LEMMARIO




Democrazia Cristiana - vol. II


Autore: Andrea Ciampani

Nella seconda metà del 1942 alcuni esponenti del laicato cattolico nazionale (tra i quali alcuni leader del → Partito popolare, dirigenti → dell’Azione cattolica (Ac), professori dell’Università cattolica e militanti “neoguelfi”) iniziarono a discutere per delineare l’orizzonte di uno Stato democratico dopo l’auspicata caduta del Fascismo. La loro iniziativa si inserì nel processo costitutivo dei comitati delle “democrazie unite” (quella del lavoro, quella socialista e quella “cristiana”), con l’obiettivo di creare un’ampia coalizione antifascista nel gennaio 1943. Dal marzo seguente, prese forma nella clandestinità il programma di un partito democratico cristiano che, dopo l’arresto di Mussolini, era pronto per circolare col titolo Idee ricostruttive della Democrazia cristiana. Pochi giorni prima, alcuni cattolici si raccolsero per riflettere intorno alle fondamenta di uno Stato democratico durante alcune giornate di studi, le cui conclusioni vennero poi fissate nel documento noto come Codice di Camaldoli. Così, mentre l’Ac si offriva come punto di riferimento per la ricostruzione civile nell’Italia, la Democrazia cristiana (Dc) dal settembre 1943 partecipò al Comitato di liberazione nazionale, all’organizzazione della Resistenza e infine alla formazione dei governi che seguirono la liberazione di Roma nel giugno 1944. Ad Alcide De Gasperi, leader del partito, fu affidato prima il ministero degli Affari esteri, poi, nel dicembre 1945, la stessa la presidenza del Consiglio nel governo di coalizione (col socialista Romita ministro dell’Interno e il comunista Togliatti ministro di Grazia e Giustizia) che condusse l’Italia al referendum per la monarchia e la repubblica e al voto per eleggere l’Assemblea costituente, il 2 giugno 1946.

Col sostegno della Chiesa locale la Dc aveva iniziato a organizzarsi nel territorio, mentre dal centro nazionale metteva a punto strutture proprie per confrontarsi con una nuova classe dirigente con gli esponenti del liberalismo prefascista e con i militanti socialisti e comunisti. I risultati elettorali della Assemblea Costituente diedero alla Dc il 35,2 % dei voti validi, presentandola come il maggiore partito in tutto il territorio del Paese, davanti a socialisti e comunisti, e come il raggruppamento politico preminente (207 eletti su 555 costituenti). Nel grave contesto internazionale che vedeva l’Italia nazione sconfitta nella guerra mondiale e nella complessa situazione interna di ricostruzione socioeconomica, dialogando col Vaticano la Dc si trovò anche a svolgere il difficile compito di rappresentare il mondo cattolico italiano nel processo che avrebbe dato al Paese le basi costituzionali della giovane repubblica. Grazie al consenso elettorale ricevuto e alla stima di cui godeva la sua leadership antifascista, la Dc si pose al centro degli schieramenti politici, ricercando ampie coalizioni, senza rinunciare ad esercitare responsabilmente le scelte che richiedevano congiunture straordinarie e strategie di lungo periodo. In tale scenario va collocato sia il contributo democratico cristiano all’elaborazione della carta costituzionale, in un meditato percorso di mediazione con le altre culture politiche, sia l’esclusione del Partito comunista italiano (Pci) dal governo nel maggio 1947, dopo la scissione socialdemocratica dal Partito socialista.

La Chiesa cattolica italiana e il pontefice (che avevano ottenuto il mantenimento in vigore dei Patti Lateranensi) compresero l’importanza della nuova emergenza che si stava delineando, in vista delle prime elezioni politiche dell’Italia repubblicana, con la costituzione del Fronte popolare – col simbolo di Garibaldi – che raccoglieva insieme socialisti e comunisti (una forza elettorale potenzialmente superiore alla Dc). Nell’incipiente clima da Guerra fredda i cattolici rafforzarono il loro sforzo formativo per favorire non solo un maggiore impegno civile, ma anche scelte elettorali ispirate al magistero ecclesiale; per sostenere la propaganda democristiana non mancò una mobilitazione prepartitica dei militanti d’Ac attraverso la costituzione di Comitati civici. Contemporaneamente, l’elettorato liberal conservatore faceva confluire il suo consenso sul partito democristiano come perno di un sistema politico democratico e occidentale, contrapposto alla pretesa egemonica comunista, collegata alla politica sovietica. Infine, il risultato delle elezioni del 18 aprile 1948, un evento decisivo per la storia dell’Italia repubblicana, assegnò alla Dc il 48,5% dei voti alla Camera dei deputati, mentre il raggruppamento social-comunista raccoglieva il 31% (da allora, peraltro, i comunisti ebbero nelle elezioni più consensi dei socialisti). Attraverso la Dc, il cattolicesimo italiano partecipava pienamente, per la prima volta nella storia dello Stato nazionale, al governo del Paese, con l’obiettivo primario di restituirgli coesione sociale all’interno e credibilità sul piano della politica estera.

Si impostò allora la stagione politica del “centrismo”, in cui, pur forte di una salda maggioranza parlamentare, il partito democristiano s’impose come elemento di equilibrio tra diversi interessi politici (coinvolgendo socialdemocratici, repubblicani e liberali) e sociali (confrontandosi con i sindacati, le imprese e il movimento cooperativo). Auspicata dalla gerarchia cattolica, l’unità dei diversi orientamenti del cattolicesimo politico italiano all’interno della Dc rese presto più complesso il rapporto tra azione cattolica e azione politica. Nel mondo cattolico che sosteneva la Dc, sotto la spinta di una sorta di populismo evangelico, non mancavano le aspettative per un governo impegnato a realizzare il magistero sociale della Chiesa. Nel dibattito pubblico si accentuò il radicale contrasto tra una sorta di spiritualizzazione della politica sostenuta da Giuseppe Lazzati e la mobilitazione della spiritualità incoraggiata da Luigi Gedda. Nel 1951 suscitò motivo di riflessione la scelta di Giuseppe Dossetti, già vicesegretario della Dc e influente esponente della Costituente, di lasciare la vita politica per quella religiosa. De Gasperi, peraltro, doveva continuamente richiamare la distinzione tra la responsabilità politica del laicato cattolico e la rappresentazione degli interessi religiosi nella sfera pubblica, come anche in occasione delle elezioni amministrative di Roma nel 1952.

Intanto, il perseguimento di un’efficace politica di alleanze e l’esigenza di calare i valori della tradizione cristiana nel concreto delle trasformazioni sociali posero le basi per avviare significative riforme. Si promossero negli anni Cinquanta la piccola proprietà contadina e la riforma agraria, si svilupparono piani per l’occupazione e per l’edilizia popolare, si agevolò il credito per la piccola industria, l’artigianato e la cooperazione, si favorì il risparmio e la produttività, si coordinò l’assistenza sociale. Più arduo si rivelò il percorso di riforma della scuola, del sistema burocratico e delle autonomie locali. Mentre si accettava il costituirsi di un moderno sistema di relazioni industriali sul riconoscimento delle libertà sindacali, s’impostò un articolato intervento pubblico in un regime di economia mista: si istituì la Cassa per il Mezzogiorno, si promosse l’Eni, si ristrutturò l’Iri. Accanto alla ripresa produttiva la Dc sostenne la partecipazione italiana alle dinamiche internazionali: dall’impostazione della politica atlantica alla realizzazione del piano ERP; dalla Comunità Europea del Carbone e dell’Acciaio del 1951, primo gradino di un’integrazione europea (cui De Gasperi attribuì una chiara valenza politica, come dimostrò nel dibattito sulla Comunità Europea di Difesa), fino ai Trattati di Roma della CEE e dell’Euratom nel 1957. Nell’Italia che si avviò al boom economico alla fine degli anni Cinquanta, durante la segreteria politica di Amintore Fanfani la Dc si diede una robusta organizzazione, si confrontò con i soggetti sociali, ricercò aperture ed equilibri politici in grado di sostenere maggiori riforme. Dopo il 1956, la divisione tra socialisti e comunisti, del resto, aveva incoraggiato la verifica di possibili aperture per ampliare il consenso ai governi democratici repubblicani.

Una rinnovata identità politica democristiana prendeva forma, piuttosto, all’inizio degli anni Sessanta, durante la segreteria politica Dc di Aldo Moro, nel percorso di preparazione di un governo di “centro sinistra organico”, realizzato, infine, nel 1963 con la partecipazione del Partito socialista. Mentre cristallizzate correnti interne influivano sulla rappresentazione pubblica del partito, la Dc rinnovava le leadership locali con uomini che avrebbero svolto un ruolo importante nei decenni successivi. La Dc poneva ora la primazia dell’agire politico al centro dei suoi rapporti con formazioni sociali considerate “collaterali”, nell’ambito del generale processo di penetrazione dei partiti nella società civile. Nello stesso tempo, la Dc continuava a costituire per la Chiesa italiana un’autorevole interlocuzione nel delineare il ruolo pubblico dei cattolici nella vita sociale; nel periodo segnato dal Concilio Vaticano II, tuttavia, la crescente critica alla società consumistica e all’autoritarismo dei gruppi dirigenti coinvolse l’immagine di un partito democristiano sempre più identificato con l’establishment dello Stato repubblicano.

La contestazione del Sessantotto e la conflittualità sindacale del 1969 videro i governi democristiani avvertiti dell’esigenza di introdurre ulteriori riforme (come nel campo delle pensioni e della sanità), così come di provvedere a un rinvigorimento delle strutture sociali (anche attraverso la realizzazione dell’ordinamento regionale). I limiti della programmazione economica del centro-sinistra richiedevano il coinvolgimento di imprese e sindacati di fronte all’incipiente crisi economica. Sul piano politico, mentre si evidenziavano i limiti di un bipolarismo imperfetto, negli anni Settanta si affacciò l’ipotesi di un compromesso storico tra le culture popolari democristiana e comunista. Fu il profondo mutamento nei rapporti sociali che, tuttavia, sembrò sorprendere una Dc impegnata con Mariano Rumor a tamponare la fragilità politica dei governi, scossi anche dall’emergenza terroristica e da ripetute perturbazioni economiche internazionali. Il valore politico della sconfitta parlamentare sulla legge sul divorzio del 1970 si tramutò, col fallimento del suo referendum abrogativo nel 1974, nella fine conclamata dell’unità politica dei cattolici nella Dc. Si colsero allora le conseguenze politiche della profonda laicizzazione avvenuta nella società italiana, in cui nuova centralità dei media e autoreferenzialità consumistica contribuivano a una progressiva frammentazione delle soggettività popolari. La Dc concentrò il suo impegno sul mantenimento del proprio bacino elettorale, impedendo al Pci di diventare il primo partito italiano (nel 1976, il 38,7% dei voti andò ai democristiani mentre i consensi comunisti si fermarono al 34,4%), e sulla formulazione di nuovi equilibri politici durante i governi di Giulio Andreotti, in occasione della “solidarietà nazionale” e della grave crisi politico-istituzionale provocata dal rapimento e dall’uccisione di Moro da parte delle Brigate Rosse nel 1978.

Negli anni Ottanta la formazione dei ministeri continuò a far perno sulla Dc: occorreva misurarsi con la spirale inflazionistica che frenava il Paese, ripensando il rapporto tra politica ed economia, mentre si delineava l’unificazione economica e monetaria europea. Per la prima volta, però, il partito democratico cristiano si trovò a sostenne governi affidati a leader repubblicani, come Spadolini, e socialisti, come Craxi (che condusse in porto la riforma del Concordato). Soprattutto, la sconfitta sul referendum sull’aborto del 1981 produsse un ripensamento del profilo politico della Dc, rilanciando un dialogo con la società civile e con le articolazioni del mondo cattolico, attraverso il coinvolgimento di esponenti “esterni” al partito. Non ci fu, tuttavia, un’adeguata percezione dell’affermarsi delle problematiche che riguardavano il rapporto tra morale e politica nelle società industrialmente avanzate. La Dc appariva identificata nel ruolo di partito di moderazione in uno scenario neocorporativo orientato da concezioni elitiste, mentre la rappresentanza elettorale sembrava ridursi a mera procedura per investire oligarchie di comando. Si andavano trasformando, anche per questo, il ruolo tradizionale dei partiti: sul piano interno, sotto il peso del debito pubblico entrava in crisi il consociativismo democristiano, specialmente nelle regioni settentrionali; le dinamiche internazionali seguenti al 1989 e al crollo dell’URSS, che minarono l’esistenza del Pci, mettevano in discussione i presupposti politici di una diga anticomunista e occidentale aggregata intorno alla Dc, impegnata in una società globalizzata a conseguire per l’Italia l’approdo dell’Unione europea economica e monetaria (realizzata nel 1992).

L’identità democristiana, tuttavia, veniva frantumata dall’incapacità di un ricambio generazionale, non meno grave delle accuse giudiziarie rivolte ad alcuni leader storici, e dalle campagne referendarie in materia elettorale del 1991 (contro le preferenze multiple) e del 1993 (sul sistema uninominale e maggioritario). Le ripercussioni mediatiche e politiche di Tangentopoli, seguite alle inchieste della magistratura per colpire il finanziamento illecito ai partiti, travolsero una parte rilevante del gruppo dirigente democristiano. Il 19 gennaio 1994 il segretario della Democrazia cristiana Mino Martinazzoli, dopo un rapido e duro dibattito interno, faceva sorgere sulle ceneri della Dc un nuovo Partito popolare (Ppi); in dissenso con tale scelta si costituì il Centro Cristiano Democratico. Ad occupare lo spazio politico moderato e raccogliere l’eredità elettorale della Dc (che nel 1992 poteva contare ancora il 29,7% dei voti) nelle elezioni politiche del 1994, comunque, non fu solo il Ppi (11%), ma anche il neonato partito Forza Italia (21%). Negli anni successivi, peraltro, non sono mancate occasioni per interrogarsi sulla presenza di esponenti cattolici in diverse formazioni politiche, alla luce del magistero pontificio e delle esperienze della Chiesa nella vita sociale italiana.

Fonti e Bibl. essenziale

P. Scoppola, La proposta politica di De Gasperi, Il Mulino, Bologna, 1977; F. Malgeri (a cura di), Storia della Democrazia cristiana, voll. 1-5, Cinque Lune Roma / voll. 6-7 Mediterranea, Palermo, 1987-2000; G. Tassani, La terza generazione: da Dossetti a De Gasperi, tra Stato e rivoluzione, Roma, Edizioni Lavoro, 1988; A. Giovagnoli, La cultura democristiana: tra Chiesa cattolica e identità italiana 1918-1948, Laterza, Roma – Bari, 1991; M. Casella, 18 aprile 1948: la mobilitazione delle organizzazioni cattoliche, Congedo, Galatina, 1992; G. Formigoni, La democrazia cristiana e l’alleanza occidentale, Il Mulino, Bologna, 1996; A. Giovagnoli, Il partito italiano: la Democrazia cristiana dal 1942 al 1994, Laterza, Roma – Bari, 1996; V. Saba, Quella specie di laburismo cristiano: Dossetti, Pastore, Romani e l’alternativa a De Gasperi, 1946-1951, Edizioni lavoro, Roma 1996; A. Canavero, Alcide De Gasperi: cristiano, democratico, europeo, Rubbettino, Soveria Mannelli, 2003; F. Malgeri, L’Italia democristiana: uomini e idee del cattolicesimo democratico nell’Italia repubblicana (1943-1993), Gangemi, Roma, 2005; P. Scoppola, La nuova cristianità perduta, Studium, Roma, 2008 terza edizione; V. Capperucci, Il partito dei cattolici: dall’Italia degasperiana alle correnti democristiane, Rubbettino, Soveria Mannelli, 2010; G. Bianco, La Balena bianca. L’ultima battaglia 1990 -1994, conversazione con Nicola Guiso, Rubbettino, Soveria Mannelli, 2011.


LEMMARIO




Di Carpegna Falconieri Tommaso


 





Di Girolamo Luca


Nato a Roma, 1959, laureato in Materie Letterarie presso la Facoltà di Magistero dell’Università “La Sapienza” di Roma nel 1983, è entrato nell’Ordine dei Servi di Maria compiendo gli studi filosofico-teologici iniziali di Baccelierato presso la Pontificia Università Gregoriana e la Pontificia Facoltà Teologica “Marianum”. Successivamente è tornato alla Pontificia Università Gregoriana dove ha conseguito la Licenza (1992) e la Laurea (1997) in Teologia. Attualmente insegna Teologia Fondamentale e Antropologia Teologica presso la Pontificia Facoltà Teologica “Marianum”. Diversi sono i campi di interesse teologico e culturale (Teologia Dogmatica, Mariologia, Medioevo, Agiografia e Musica operistica). Ha prodotto diverse pubblicazioni su riviste ed un volume curato dalle edizioni Carmelitane su S. Maria Maddalena de’ Pazzi (1566-1607), mistica carmelitana.





Diaconato - vol. I


Autore: Paolo Siniscalco

Sotto il lemma ‘diaconato’ sono indicate realtà e funzioni diverse svolte nella Chiesa durante i secoli fino ad oggi. L’argomento è vasto e complesso anche in relazione al tempo in cui lo si può considerare. Si indica qui qualche primo elemento orientativo, rimandando ai riferimenti bibliografici per ogni approfondimento.

Può essere conveniente considerare in primo luogo quale sia la radice del diaconato, segnalare qualche sviluppo che l’istituzione ha avuto nei primi secoli in speciale modo a Roma e che ne è oggi del diaconato, dopo il Concilio Vaticano II. Già nel greco classico si incontrano il termine diakonia con il senso di ‘servizio’ o ‘azione del servire’ o ‘azione di compiere i propri doveri’, e pure diakonos con il senso di ‘colui che è al servizio’, ‘servitore’. Il latino cristiano antico, con un prestito formale dal greco, forgia un nuovo termine, diaconus, un vero e proprio grecismo, (insieme ad una serie di altre parole, sostantivi o aggettivi, aventi la stessa radice: diaconia, diaconatus, diaconalis, diaconicum). L’idea della diaconia nasce dal servizio che Gesù rende ai ‘piccoli’ e anche ai discepoli (cf. Mc 10, 42-45 e par.).

Si sa che Luca in Atti degli Apostoli (cf.6, 1-6) parla di ‘diaconi’. L’episodio è noto. Nella prima comunità di Gerusalemme sorge un malcontento degli Ellenisti verso gli Ebrei perché le loro vedove vengono trascurate nel servizio quotidiano. Allora i dodici convocano l’assemblea dei discepoli e dicono agli Ellenisti di scegliere sette uomini da proporre a questo incarico. L’assemblea elegge sette uomini, tra i quali Stefano, li presenta agli apostoli, che impongono loro le mani. Numerosi sono i problemi posti da questo passo; su di essi non ci si può attardare in questa sede (cf. infra, la bibliografia). Basterà notare che per lungo tempo si è ritenuto che la narrazione lucana si riferisse all’istituzione del diaconato – così già afferma Ireneo di Lione (cf. Adu. haer.I, 26, 3; IV, 15, 1) – e che i sette siano stati i primi diaconi della Chiesa. Una serie di difficoltà consiglia prudenza interpretativa. A prova del fatto che inizialmente la gerarchia ecclesiastica non fosse ancora ben definita, si possono ricordare le espressioni paoline della lettera ai Filippesi, ove si indica il legame tra i ‘diaconi’ e gli ‘episcopi’; mentre la prima lettera a Timoteo (cf. 3, 8-13) segnala quali debbano essere le qualità dei diaconi, aggiungendo che, se svolgono bene il loro compito, possono parlare con sicurezza della fede in Gesù Cristo.

Nel II secolo e poi nel III si stagliano, accanto a quella del ‘diacono’, altri uffici destinati a compiere nelle comunità cristiane servizi specifici. Successivamente saranno chiamati ‘ordini minori’: i lettori’, i suddiaconi’, gli ‘accoliti’, gli ‘esorcisti’, gli ‘ostiari’ (li menzionano Tertulliano e Ippolito). Anche le donne offrono all’interno della vita della Chiesa ‘servizi’ nei primi secoli. Paolo in un passo discusso della lettera ai Romani (16,1) menziona una diaconessa della Chiesa di Cencre, ma, in questo caso, non è possibile stabilire il ruolo che avrebbe svolto. Una voce pagana, quella di Plinio il Giovane, in una lettera all’Imperatore Traiano, parla di due ministrae cristiane sottoposte a tortura per estorcere loro notizie sui cristiani. In varia forma, di donne che collaborano al ministero degli apostoli parlano Clemente di Alessandria e (Strom. III, 6, 53) e Origene (Comm. in Rom. 10, 17). Più esaurienti sono le notizie contenute nella Didascalia apostolorum (II, 26, 4-6), risalente alla prima metà del III secolo, ove si legge che le diaconesse assistono al battesimo delle donne, visitano e curano le ammalate. Tuttavia non è loro consentito di insegnare e di amministrare il battesimo (si vedano pure in proposito le Constitutiones apostolicae III, 6, 1-2).

Dal IV secolo le testimonianze sulle diaconesse si fanno più frequenti in Oriente: esse hanno ruolo e considerazione a parte, ben distinguendosi dalle vergini e dalle vedove. I critici esprimono pareri discordanti sul fatto di attribuire al diaconato femminile un valore sacramentale. Significativo è il cenno che si può fare alle diaconie romane, il Cronografo del 354 (cf. Liber Pontificalis I, 148) afferma che papa Fabiano intorno alla metà del III secolo avrebbe assegnato a sette diaconi, coadiuvati da sette suddiaconi, le 14 regioni della città con compiti di amministrazione e di assistenza (più sicuramente l’istituzione delle sette diaconie è attestata dal V secolo). Pochi anni dopo Sisto II (257-258), secondo una notizia di Cipriano di Cartagine (Epist. 80, 1,4), subisce la morte insieme a quattro diaconi, a causa del secondo editto di Valeriano che prescriveva l’esecuzione di vescovi, presbiteri e diaconi. I diaconi, dunque, erano collaboratori stretti dei vescovi e avevano un ruolo non trascurabile nella gerarchia ecclesiastica. Per molte ragioni l’istituzione in secoli successivi declina. Di recente la Lumen gentium (29), costituzione dogmatica sulla Chiesa dopo avere parlato dei sacerdoti, aggiunge che in un grado inferiore della gerarchia stanno i diaconi, ai quali sono imposte le mani “non per il sacerdozio, ma per il ministero”. A loro è demandato, fra l’altro, l’ufficio di amministrare il battesimo, conservare e distribuire l’Eucarestia, leggere la Sacra Scrittura, istruire e esortare il popolo, amministrare i sacramenti. Con il Concilio Vaticano II, nella Chiesa cattolica di rito latino è così stato ripristinato il diaconato come grado proprio e permanente della Gerarchia. La riforma di Paolo VI (1972) ha abolito il suddiaconato e gli ‘ordini minori’, sostituendoli con due ‘ministeri’, il lettorato e l’accolitato.

Fonti e Bibl. essenziale

Th. Klauser, in RAC, Hiersemann Verlags, Stuttgart 1957, 888-903, s.v. Diakon; J. Colson, La fonction diaconale aux origines de l’Église, Bruges 1960; P. Sorci, Diaconato e altri ministeri liturgici della donna, in U. Mattioli (ed.), La donna nel pensiero cristiano antico, Marietti, Genova 1992, 331-364; E. Cattaneo (ed.), I ministeri della Chiesa antica. Testi patristici tre primi tre secoli, Paoline, Milano 1997 (ivi si trova una ricchissima bibliografia sui ministeri dei vescovi, dei presbiteri, dei diaconi, sui ministeri minori, sulle diaconesse; bibliografia che è corredata da una ampia serie di testi antichi; Diakonia, diakoniae, diaconato); Semantica e storia nei Padri della Chiesa. XXXVIII Incontro di Studiosi dell’Antichità Cristiana, Roma 7-9 maggio 2009, Studia Ephemeridis Augustiniana, 117, Roma 2010 (vasto e utilissimo panorama sul ministero in argomento).


LEMMARIO




Diaconato - vol. II


Autore: Tonino Cabizzosu

Il progetto di promuovere il diaconato permanente nella Chiesa cattolica cominciò a prendere forma già all’indomani dell’ultimo conflitto mondiale. La drammatica vicenda di moltissime persone in carcere o costrette all’esilio o, ancora, in fuga dalla loro terra di origine spinse alcuni laici e sacerdoti tedeschi ad ipotizzare un nuovo ministero ecclesiale, diverso dal presbiterato, che permettesse alle vittime di questa emarginazione conseguente alla guerra e alle tante comunità isolate di rimanere comunque “in comunione” attiva e consolante con la Chiesa. Il Concilio Vaticano II, a lunga distanza dalla decisione – assunta ma non attuata – del Concilio di Trento di ripristinare il diaconato, segnò quella svolta decisiva rispondente alla “maturità del tempo” che avrebbe portato alla restaurazione del diaconato nella Chiesa latina come grado permanente della gerarchia. Il Vaticano II stabilì in maniera inequivocabile che il ministero diaco­nale – conferibile a uomini sia celibi che sposati (cfr. Lumen Gentium n. 29) – dovesse rinascere nella Chiesa come ministero proprio e non sola­mente come tappa per i candidati al presbiterato. Con il Concilio si avviò per il diaconato una stagione nuova, caratterizzata da un vitale e faticoso cammino che si sviluppò su due fronti: da un lato, l’approfondimento normativo da parte della S. Sede e delle Confe­renze Episcopali; dall’altro, la presa di coscienza delle comunità che si aprivano, anche se lentamente, ad accogliere questo ministero.

La restaurazione del diaconato in Italia fu il primo documento che i vescovi italiani approvarono nell’Assemblea della Conferenza Episcopale Italiana del 13 novembre del 1970 per reintrodurre il ministero diaconale. La Rivista II diaconato in Italia, fondata da don Altana nel 1966, pubblicata dalla Comunità del diaconato in Italia, ha registrato puntualmen­te quanto le comunità diocesane, i vescovi, i diaconi e i teo­logi hanno detto, scritto e prodotto di valido sulla diaconia ordinata, configurandosi così come un importante strumento e di riflessione e di accompagnamento del percorso diaconale nel nostro.

Le statistiche vedono i diaconi italiani raddoppiar­si negli ultimi dieci anni, avviandosi ormai a raggiungere e superare la cifra delle 3.734 ordinazioni (più di 2.342 sono i candidati). Attualmente i diaconi sono distribuiti in maniera quasi omoge­nea su tutto il territorio nazionale, con una presenza in ben 217 dioce­si su 222 e una prevalenza nel Centro-Sud. Questo ministero non si presenta tuttavia in forma omogenea, ma piuttosto con una varietà di realizzazioni che, più che risolversi in mera diversità di metodi ed itinerari, sottende invece proprio concezioni diverse del ministero stesso. Tra identità e mutazione generazionale, si può dire che tre diverse generazioni di diaconi si sono susseguite in Italia dal do­po-Concilio fino ad oggi. Vediamone brevemente i tratti salienti.

La prima generazione seguendo il Concilio Vaticano II, aveva chiara la direzione da percorrere: Chiesa, eucaristia, carità formavano un trinomio teso verso una progettualità che permetteva di congiungere il ministero dei diaco­ni ai poveri. All’interno della Chiesa italiana c’era in quegli anni una parte dell’episcopato propensa ad accettare i servigi del diaconato senza recepire quei cambiamenti che la presenza del diacono esige­va all’interno delle comunità. In Italia, nel primo decennio di vita del diaconato, soltanto undici diocesi avevano i diaconi, e tra queste le prime tre sono state: Na­poli (si deve alla grande figura pastorale del card. Ursi), Torino (sotto la guida del card. Pellegrino) e Reg­gio Emilia (per l’instancabile opera di don Altana).

La seconda generazione (intorno agli anni ‘80), ha vi­sto il diaconato crescere in molte diocesi e i vescovi mettere al centro il problema della formazione ministeriale e teologica. Que­sta attenzione alla formazione ha dato ai diaconi un’impronta innega­bilmente più colta ed una intonazione più ecclesiale che eucaristi­ca: si erano creati appositi istituti di formazione con corsi e professo­ri adeguati, ma l’istituzionalizzazione della diaconia ordinata comin­ciava a togliere smalto alle cure caritative, con il conseguente rischio di perdere il ri­ferimento eucaristico della carità che spingeva verso i poveri (relazio­ne che invece sembrava connaturale alla prima generazione).

Nella terza generazione (dagli anni ‘90 in poi), la formazio­ne ha preso un indirizzo molto più pensato ed equilibrato, completan­do il suo percorso istituzionale anche grazie all’uscita di importanti documenti magisteriali. Si è tuttavia presentato un altro rischio interpretativo che ha in buona misura frenato la carica ministeriale e la potenzialità pastorale del diaconato: i vescovi e i preti hanno co­minciato ad apprezzare, in maniera riduttiva, il ruolo suppletivo dei diaconi, e il loro servi­zio è stato interpretato come ausilio per rimediare ad una certa carenza di forze clericali, finendo così per dimenticare o sottovalutare i poveri quali primi destinatari del servizio amorevole della Chiesa. Oggi il diaconato sta recuperando una dimensione più equilibrata e fedele alla diaconia di Cristo Servo.

A ragione, dunque, sempre più si parla di un “diaconato di frontiera”, una collocazione motivata dalle sfide che la nuova evangelizzazione pone ai diaconi in particolare in questo nostro tempo e tale da rendere il ser­vizio diaconale la puntuale traccia sto­rico-sacramentale della realtà eccle­siale di cui partecipa e, soprat­tutto, il segno che ne rivela il cam­mino di crescita nello Spirito.

Fonti e Bibl. essenziale

A. Altana, Il rinnovamento della vita ecclesiale ed il diaconato, Queriniana, Brescia 1973; G. Bellia, Discernere oggi. Le vie, i problemi, le emergenze, San Lorenzo, Reggio Emilia 1998; G. Bellia – V. Cenini (edd.), I diaconi italiani: storia e prospettive, San Lorenzo, Reggio Emilia 2003; E. Petrolino, Diaconato. Servizio – Missione. Dal Concilio Vaticano II a Giovanni Paolo II, LEV, Città del Vaticano 2006; E. Petrolino, Enchiridion sul diaconato, LEV, Città del Vaticano 2009; S. Zardoni, I diaconi nella Chiesa. Ricerca storica tecnologica sul diaconato, Ed. Dehoniane, Bologna 1991.


LEMMARIO