Associazione Italiana dei Professori di Storia della Chiesa

Dizionario Storico Tematico La Chiesa in Italia
Autori
Roma 2015
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Dibisceglia Angelo Giuseppe


 





Dieguez Alejandro M.


 





Diocesi - vol. II


Autore: Giorgio Feliciani

Fin dai primi anni del Regno d’Italia governo e parlamento si rivelano talmente sensibili all’esigenza di giungere a una notevole riduzione del numero delle diocesi, giudicato decisamente eccessivo, da promuovere studi ed elaborare progetti in tal senso, senza peraltro riuscire a pervenire ad alcun risultato concreto a causa, soprattutto, della indisponibilità della Santa Sede.

La questione viene riproposta durante le trattative per il Concordato del 1929 che non manca di dedicarvi ampia e specifica attenzione. Da un lato prevede «una revisione della circoscrizione delle diocesi, allo scopo di renderla possibilmente rispondente a quella delle province dello Stato». Dall’altro sancisce il principio che «nessuna parte del territorio soggetto alla sovranità del Regno d’Italia dipenderà da un Vescovo, la cui sede si trovi in territorio soggetto alla sovranità di altro Stato; e che nessuna diocesi del Regno comprenderà zone di territorio soggette alla sovranità di altro Stato» (art. 16).

L’attuazione di quest’ultima disposizione non incontra particolari difficoltà. Invece il previsto adeguamento delle circoscrizioni diocesane alle province civili si rivela subito quanto mai problematico sì che negli anni successivi si registrano ben pochi provvedimenti diretti a valorizzare i capoluoghi di provincia e a rivedere i confini tra le diocesi per farli coincidere con quelli delle province civili.

La questione assume nuova attualità quando Paolo VI, nell’allocuzione del 23 giugno 1966 all’episcopato italiano, dichiara di avere disposto un serio e maturo esame del problema da parte della Congregazione Concistoriale, rimettendone i risultati a un’apposita commissione della CEI per i necessari approfondimenti.

I criteri indicati sono di due tipi. Da un lato occorre «dare alla Diocesi una dimensione demografica ed ecclesiastica sufficiente per adempiere pienamente le funzioni, che le sono affidate dal Diritto Canonico e che sono richieste dai bisogni pastorali moderni». Dall’altro è necessario «tener conto delle circoscrizioni civili, facendo coincidere, ove possibile, i confini diocesani con quelli delle Province dello Stato italiano».

In ossequio alle direttive così ricevute, il Consiglio di Presidenza della CEI nella riunione del 25-27 ottobre 1966 definisce i criteri generali da seguire per porre ogni diocesi in «condizioni di efficiente funzionalità». In tale prospettiva si prevede, innanzitutto, che le diocesi «autosufficienti» con più di duecentomila abitanti «rimangono nella loro autonomia». Quanto, poi, a quelle con popolazione più ridotta, se hanno meno di cinquantamila abitanti, verranno «aggregate alle diocesi vicine», se superano tale consistenza demografica saranno «unite ad una diocesi principale». In ogni caso si porrà specifica attenzione all’esigenza di rispettare i confini delle province civili.

Ma le speranze di una rapida e positiva conclusione della vicenda vanno ben presto deluse. L’insabbiamento del progetto – che riduceva le circoscrizioni diocesane a sole 119 circa – non appare dovuto a limiti e carenze intrinseche, ma all’intervento di fattori esterni che si è ritenuto di identificare, nelle preoccupazioni del governo italiano circa possibili «riflessi politici negativi» (A. Bobbio, E la politica, 87).

Nonostante tutte le difficoltà la Santa Sede non desiste dal suo proposito di dare un assetto più razionale alla organizzazione territoriale della Chiesa in Italia. Peraltro nel 1976, dalle direttive impartite alla CEI dal prefetto della Congregazione per i Vescovi, risulta evidente che la Santa Sede non annette più particolare importanza alle circoscrizioni civili provinciali, e dedica invece nuova e specifica attenzione a quelle regionali. I motivi di questo mutamento di indirizzo sono sufficientemente chiari: da un lato le province hanno perso molta della loro rilevanza, dall’altro le regioni italiane hanno ottenuto rilevanti funzioni in settori di notevole interesse per la Chiesa. E poiché il compito di stabilire gli opportuni rapporti con le autorità civili delle regioni spetta alle conferenze episcopali regionali, istituite da Leone XIII nel 1889 con la instructio «Alcuni Arcivescovi», è evidente l’opportunità di far coincidere il più possibile i rispettivi territori. In tale prospettiva il decreto emanato il 12 settembre 1976 dalla Congregazione per i vescovi, da lato sopprime le regioni pastorali beneventana e lucano-salernitana, e, dall’altro, istituisce la regione pastorale Basilicata. Inoltre l’8 dicembre si dispone l’unificazione delle regioni pastorali emiliana e romagnola.

La Santa Sede non ritiene però opportuno realizzare una perfetta coincidenza tra regioni ecclesiastiche e regioni civili in quanto in alcune di queste ultime il numero delle diocesi risulta troppo ridotto per consentire l’istituzione della conferenza episcopale, come avviene ad esempio nel Trentino-Alto Adige, per non parlare della Valle d’Aosta che è soggetta alla giurisdizione di un solo vescovo.

Continuano, invece, a rimanere inattuati i progetti diretti a realizzare una consistente riduzione del numero delle diocesi italiane che dalla fine della seconda guerra mondiale al momento dell’entrata in vigore dei nuovi accordi pattizi diminuisce di circa una ventina di unità. Va però segnalato come lungo questo periodo la Santa Sede proceda «al proposto riordinamento in modo indiretto e provvisorio, unendo cioè le piccole diocesi che si rendevano vacanti sotto l’Amministrazione Apostolica o nella persona del Vescovo di una diocesi vicina» (L. Moreira Neves, Un fatto storico, II).

Una nuova fase della annosa e complessa vicenda si apre con l’Accordo concordatario del 1984, che si limita a prevedere l’impegno della Santa Sede «a non includere alcuna parte del territorio italiano in una diocesi la cui sede vescovile si trovi nel territorio di altro Stato». e, per il resto, riconosce che «la circoscrizione delle diocesi e delle parrocchie è liberamente determinata dall’autorità ecclesiastica» (art. 3).

Ma curiosamente l’Accordo, mentre liberava la Chiesa da ogni impegno in materia, poneva anche le premesse per il più imponente riordinamento delle diocesi che la Chiesa in Italia abbia mai conosciuto. Infatti le disposizioni formulate dalla Commissione paritetica istituita dall’art 7 dell’Accordo stesso ed ed emanate dalle Parti nei rispettivi ordinamenti con legge 20 maggio 1985, n. 222 e con decreto del cardinal Segretario di Stato del 3 giugno successivo, hanno radicalmente innovato la condizione giuridica civile delle diocesi. Infatti tali disposizioni, non solo attribuiscono alle diocesi quella personalità giuridica agli effetti civili che non era loro riconosciuta durante il vigore del Concordato lateranense, ma prevedono per l’attribuzione della stessa una procedura singolarmente accelerata. Si dispone, infatti, che le diocesi acquistino la personalità giuridica civile dalla data di pubblicazione nella Gazzetta ufficiale del relativo decreto del ministro dell’interno, da emanarsi entro sessanta giorni dalla ricezione dei provvedimenti dell’autorità ecclesiastica che abbiano determinato «la sede e la denominazione delle diocesi (…) costituite nell’ordinamento canonico» (art. 29).

Queste previsioni offrivano alla Santa Sede l’occasione per procedere, in condizioni particolarmente favorevoli, all’auspicato riordinamento. Dopo ampie consultazioni e attento studio dei diversi aspetti della questione, emergeva nelle competenti sedi ecclesiastiche la convinzione che la soluzione possibile e più opportuna fosse quella di unificare le diocesi che risultassero affidate, a qualunque titolo, allo stesso vescovo. Un criterio che presentava diversi vantaggi poiché, mentre assicurava la continuità della guida pastorale delle singole diocesi, dispensava da un lungo e defatigante esame delle loro specifiche esigenze e, al contempo, riduceva notevolmente la possibilità di contestazioni, presentandosi come una regola generale che non consentiva eccezioni. Di conseguenza esso veniva senz’altro adottato dalla Congregazione per i vescovi nel decreto del 30 settembre 1986 che riduceva le diocesi, e comunità ecclesiali assimilate, italiane da 325 a 228 di cui 39 sedi metropolitane, 21 arcivescovili, 156 vescovili, 2 prelature territoriali, 6 abbazie territoriali, 3 circoscrizioni di rito orientale, 1 ordinariato militare.

A giudizio della Congregazione, che ha voluto «associare, nella denominazione dell’unica diocesi, i nomi delle diocesi fuse, nessuna diocesi veniva «abolita» o «assorbita», ma tutte «amalgamate» in «nuove entità» nelle quali conservavano «il proprio nome, la propria storia, le proprie tradizioni, la propria Cattedrale o Concattedrale ecc.». Peraltro lo stesso Segretario della Congregazione non poteva evitare di riconoscere che le diocesi in tal modo «fuse» perdevano la loro precedente identità, poiché «là dove erano più diocesi», veniva istituita «una sola e unica diocesi con unico Seminario, unico Tribunale, unico Consiglio Presbiterale e Pastorale, unico Coetus Consultorum, anche se con la possibilità di decentramento di alcuni servizi amministrativi» (L. Moreira Neves, Un fatto storico, III).

La riforma operata dal decreto del 1986 è indubbiamente imponente ma la sua importanza non deve essere sopravalutata. A ben guardare la Congregazione per i vescovi, riunendo in una sola diocesi le diverse circoscrizioni affidate alla guida pastorale dello stesso vescovo, si è limitata a «codificare» la situazione esistente e a semplificarne l’organizzazione e il governo, consentendo «un risparmio di personale ecclesiastico, un suo migliore impiego, la diminuzione del tasso di burocratizzazione, almeno per le diocesi interessate, ma anche, indirettamente, per la Chiesa italiana nel suo complesso» (G. Brunetta, Riordinamento, 239).

In ogni caso le disposizioni del provvedimento del 1986 non possano assolutamente considerarsi come risolutive come è chiaramente dimostrato dalle successive costituzioni apostoliche che, nei primi anni del nuovo secolo, hanno profondamente innovato l’assetto delle province ecclesiastiche nelle Marche, in Sicilia e in Calabria, nonché dai decreti della Congregazione per i vescovi che hanno disposto l’estinzione dell’abbazia territoriale di San Paolo fuori le mura e il ridimensionamento dei territori delle abbazie di Subiaco e Montevergine.

L’organizzazione territoriale della Chiesa in Italia è dunque ancora ben lontana dall’avere raggiunto un assetto soddisfacente: mentre il numero delle diocesi continua a risultare decisamente eccessivo in rapporto sia al numero dei fedeli sia a quanto avviene in altri paesi, accanto a circoscrizioni di grandi dimensioni ne sussistono ancora alcune del tutto minuscole. Inoltre, nonostante gli auspici del Concilio («Christus Dominus», n. 40) e le disposizioni del Codice (can. 431 § 2) continuano a sussistere numerose diocesi immediatamente soggette. E vi sono ancora, nonostante le direttive impartite da Paolo VI con il motu proprio «Catholica Ecclesia» del 23 ottobre 1976, varie abbazie territoriali.

Fonti e Bibl. Essenziale

D. Barillaro, In tema di revisione delle circoscrizioni diocesane, «Il diritto ecclesiastico», 60 (1949), 112-155; G. Feliciani, Diocesi e territorio nella prospettiva di revisione del Concordato lateranense, in «Il diritto ecclesiastico», 70 (1977), parte I, 202‑221; G. Brunetta, La revisione delle diocesi in Italia, «Aggiornamenti sociali», 18 (1967), 201-220; Conferenza Episcopale Italiana, Riordinamento delle diocesi d’Italia, Dati statistici delle diocesi italiane, pro manuscripto, Roma, 1967; M.P., Il riordinamento delle diocesi, «L’Osservatore romano», 21 maggio 1976, 2; A. Bobbio, E la politica bloccò la vera riforma delle diocesi italiane, in «Jesus. Mensile di cultura e attualità cristiana», 8 (1986), n. 12, 87-91; G. Giachi, Riordinamento delle diocesi in Italia, in «La Civiltà Cattolica», 137 (1986), volume IV, quaderno 3274, 15 novembre 1986, 377-381; L. Moreira Neves, Un fatto storico: la nuova “geografia” delle diocesi in Italia, in documento Denominazione e sede delle diocesi in Italia, allegato a «L’Osservatore romano«, 9 ottobre 1986, II-III; G. Brunetta, Riordinamento delle diocesi italiane, «Aggiornamenti sociali», 38 (1987), 229-239; G. Feliciani, Le regioni ecclesiastiche italiane da Leone XIII a Gìovanni Paolo II, in (id. ed.), Confessioni religiose e federalismo, Il Mulino, Bologna, 2000, pp. 103-126; G. Feliciani, Il riordinamento delle diocesi in Italia da Pio XI a Giovanni Paolo II, in L. Vaccaro (ed.), Storia della Chiesa in Europa tra ordinamento politico-amministrativo e strutture ecclesiastiche, Morcelliana, Brescia 2005, 283-300. Per un quadro dettagliato della situazione, aggiornato al 2000, vedi Conferenza Episcopale Italiana, Atlante delle diocesi d’Italia, Officine grafiche De Agostini, Novara 2000.


LEMMARIO




Diritti umani - vol. II


Autore: Diego Pinna

La promozione e la difesa da parte della Chiesa dei diritti umani è frutto di un lungo e travagliato processo storico di accettazione, iniziato con la condanna verso i diritti fondamentali contenuti nella “Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino” proclamati dall’Assemblea nazionale francese il 26 agosto 1789. Per circa un secolo il Magistero pontificio proseguì in questa posizione di chiusura verso i diritti fondamentali e le libertà moderne, ma a partire da Leone XIII – in particolare con la Rerum novarum (15 maggio 1891) – si avviò un processo di riappropriazione dei diritti dell’uomo: pur confermando la condanna verso i diritti storicamente definiti dalla rivoluzione, egli riuscì a trovare nuovi spazi di riflessione a partire dal concetto di legge naturale, di cui la Chiesa si riteneva depositaria e custode, e stabilì alcuni diritti naturali che lo Stato doveva tutelare e promuovere.

Nel solco della dottrina leoniana, incentrata sul concetto di legge naturale, si mosse anche Pio XI, rivendicando i diritti di Dio e della Chiesa che i totalitarismi e il laicismo intendevano distruggere. Una certa apertura cominciò a profilarsi nei radiomessaggi natalizi di Pio XII degli anni 1942 e 1944, anche se la “Dichiarazione Universale dei diritti fondamentali” del 1948 venne accolta con freddezza dal papa e ricevette una severa recensione dalla Civiltà Cattolica per mezzo del gesuita A. Messineo il quale, pur riconoscendo in essa un certo riferimento al patrimonio del pensiero cristiano, ne diminuiva la portata, riducendola a dichiarazione internazionale, e ne sottolineava la scissione tra «il concetto dell’uomo come i suoi diritti fondamentali, naturali e inalienabili, dall’anello trascendente al quale li aveva legati la dottrina cristiana» (La Civiltà Cattolica, 100 (1949) II, p. 382). Questa posizione fu superata con la Pacem in terris di Giovanni XXIII (11 aprile 1963), il quale, pur confermando le riserve circa la fondazione dei diritti del documento, lo considerava come «passo importante nel cammino verso l’organizzazione giuridico – politica della comunità mondiale», poiché veniva riconosciuta «nella forma più solenne la dignità di persona a tutti gli esseri umani» (n.75).

Questa svolta fu possibile anche grazie al contributo del prof. Pietro Pavan, docente all’Università Lateranense, che a partire dagli anni cinquanta aveva sostenuto come la rivendicazione dei diritti fondamentali della persona fosse l’espressione umana più significativa della crescente coscienza della dignità dell’uomo. Questa svolta, approfondita dal Concilio Vaticano II nei documenti Gaudium et Spes e Dignitatis Humanae, ebbe immediate ripercussioni anche nella vita della Chiesa italiana. Nel settembre 1968, in occasione del ventesimo anniversario della Dichiarazione universale, la XXXIX Settimana sociale dei cattolici fu dedicata al tema: Diritti dell’uomo ed educazione al bene comune. Il segretario Mons. A. Ferrari Toniolo considerò l’evento come il segno concreto della volontà dei cattolici d’Italia di celebrare il ventennale «con il vero apporto di una riflessione approfondita sulle responsabilità della famiglia, della scuola, delle associazioni religiose, delle organizzazioni imprenditoriali e sindacali» (Atti della XXXIX Settimana sociale dei cattolici d’Italia, p. 317). È significativo, dunque, come l’approccio positivo alla Dichiarazione aprì la strada, più che a una sua celebrazione, all’affermazione dei diritti della persona derivanti dalla legge naturale.

La posizione dei vescovi italiani in materia di diritti umani riecheggiò questo cambiamento di rotta. Nella raccolta degli atti della Conferenza Episcopale Italiana (1954-2005) il tema viene trattato in sette documenti, di cui due elaborati in contesto europeo, nei quali emergono alcune caratteristiche fondamentali: anzitutto il richiamo al Magistero conciliare, arricchito successivamente dagli approfondimenti apportati dall’insegnamento di Giovanni Paolo II. Nel solco di questa tradizione essi formularono alcune priorità nel campo dei diritti della persona: vita umana, libertà religiosa, matrimonio, famiglia, diritto al lavoro. In secondo luogo emerge la consapevolezza dell’episcopato circa il ruolo di promozione e tutela dei diritti loro affidato e il contributo per la vita politica. Nel comunicato in vista delle elezioni del 1963, i vescovi posero come una priorità la difesa dei «diritti inalienabili della persona umana con particolare riguardo a quanti ispirano ad una giusta e doverosa elevazione» (Ench. CEI, vol. 1, n.368). Richiamandosi alla Costituzione italiana, essi auspicarono che nelle politiche sociali si tenesse conto di questi diritti e in particolare che il riconoscimento della dignità dell’uomo esigesse un impegno di solidarietà nella reciprocità (cf. Commissione Giustizia e Pace, Nota Pastorale 1998, Ench. CEI, vol. 6, n.1198). A questo ruolo è legata l’attività di denuncia che la Chiesa ha assunto di fronte allo snaturamento ideologico dei diritti umani che «arriva a legittimare presunti diritti per sottomettere altri uomini secondo logiche di possesso, di potere e di sfruttamento» (Messaggio del Consiglio permanente, Ench. CEI, vol. 7, n. 697).

Nell’atto organizzato dal Pontificio Consiglio “Giustizia e Pace”, nel 60º anniversario della Dichiarazione Universale, Benedetto XVI ha ricordato che i diritti dell’uomo sono ultimamente fondati in Dio creatore, fonte e garanzia di tutti i diritti, e radicati nella legge naturale, il cui riconoscimento costituisce «la grande base per il dialogo tra i credenti delle diverse religioni e tra i credenti e gli stessi non credenti» (Benedetto XVI, Persona umana, cuore della pace, Messaggio per la Giornata Mondiale della Pace, 1.01.2007, n.3). Una frase che compendia efficacemente il lungo percorso della Chiesa da presunta oppositrice a «sentinella» contro le «gravi e sistematiche violazioni dei diritti dell’uomo» (Benedetto XVI, Angelus, 7.12.2008). Accanto al pensiero dottrinale, la Chiesa italiana ha favorito anche lo sviluppo di iniziative concrete per la promozione e il rispetto dei diritti umani: tra queste va menzionata l’opera di Caritas Italiana e della fondazione Migrantes, soprattutto nel campo dell’integrazione sociale e dell’immigrazione; la nascita di comitati e movimenti in difesa della vita umana e della sua dignità, come il Movimento per la vita fondato nel 1975 e le associazioni in difesa dei diritti dei lavoratori.

Fonti e Bibl. essenziale

Diritti della persona, in Pontificio Consiglio della Giustizia e della Pace – G. Crepaldi e E. Colom (edd.), Dizionario di dottrina sociale della Chiesa, Libreria Ateneo Salesiano, Roma 2005, 220-232; G. Filibeck, Diritti umani, in Dizionario di dottrina sociale della Chiesa, Vita e Pensiero, Milano 2004; Id., Diritti umani (tutela dei), in Dizionario di dottrina sociale della Chiesa, cit., 247-351; F. Biffi, I diritti umani da Leone XIII a Giovanni Paolo II, in G. Concetti (ed.), Diritti umani. Dottrina e prassi, AVE, Roma 1982, 199-243; D. Menozzi, Diritti naturali e diritti umani. L’opposizione di Pio XI ai totalitarismi, in J. P. Delville et M. Jacov (edd.), La papauté contemporaine (XIXe-XXe siècle). Hommage au chanoine Roger Aubert, Louvain, Collège Erasme 2009, 483-494; Id., Chiesa cattolica e diritti umani: l’apertura del pontificato giovanneo, in A. Melloni (ed.), Tutto è grazia. In omaggio a Giuseppe Ruggieri, Jaca Book, Milano 2010, 397-416.


LEMMARIO




Diritto Canonico - vol. I


Autore: Carlo Fantappiè

Nel corso del XII secolo la distinzione del diritto canonico dalla teologia e la ricezione del diritto romano da parte della Chiesa, hanno costituito le premesse della costruzione dell’edificio canonistico classico. L’Italia è stata la culla della scienza canonistica, i canonisti italiani hanno detenuto un primato indiscusso negli studi in Europa per buona parte del medioevo, l’Università di Bologna e la Curia romana ne sono stati, a differente titolo, i maggiori centri propulsivi.

A Bologna avviene la fondazione scientifica del diritto canonico ad opera del maestro Graziano ricordato da Dante nel Paradiso (X, 103-105). Tra il 1139 e il 1145 egli redige, per uso degli studenti, due redazioni della Concordia discordantium canonum, poi denominata Decretum. L’impresa culturale di Graziano – che costituirà la prima pietra su cui verrà innalzato nel corso dei due secoli successivi, l’edificio normativo del Corpus iuris canonici – consiste nel raccogliere le principali fonti autoritative della disciplina ecclesiastica del primo millennio, assai composite e talora contraddittorie per la varietà dei tempi e dei luoghi (decreti conciliari, decretali papali, massime patristiche, tariffari penitenziali, ecc.) e nel tentare di armonizzarle mediante l’impiego di princìpi ermeneutici presi a prestito dalla nascente teologia scolastica.

Sempre a Bologna si compie, lungo il secolo successivo, l’edificazione della scienza canonistica attorno al Decretum, seguendo metodi e fasi che vanno considerate paradigmatiche per lo studio del diritto. Un primo livello, esegetico, si forma a cominciare dalle glossae, apposte dagli studenti su indicazione dei maestri, fino agli apparati di glosse, che chiosano, precisano, specificano e applicano le soluzioni dottrinali date da Graziano (i c.d. dicta). Seguono le summae, a metà strada tra gli apparati e l’esposizione sistematica, nonché altri generi letterari minori, come i brocarda, le quaestiones, i consilia. A questo lavoro ermeneutico si dedicano tre generazioni di «decretisti» italiani: Paucapàlea, o meglio Pocapaglia (1140-1148), e il maestro Rolando, i primi a aggiungere norme del diritto romano; Rufìno (1157-1159), che offre un’esegesi quasi completa, e Giovanni di Faenza (dopo il 1171), la cui somma sarà molto diffusa; Simone di Bisignano (1171-1179) e Uguccione di Pisa (1188), l’esponente più elevato della Scuola bolognese dei decretisti ma pure esperto di diritto romano e di teologia.

Nell’età dei grandi papi-giuristi (da Alessandro III a Innocenzo III) la Curia romana diviene l’officina giuridica in cui si avvia la produzione seriale delle decretali. In questo periodo decisivo per la fissazione dell’ordinamento canonico, nella scienza canonistica si attua il passaggio dalla «decretistica», centrata sull’analisi del Decretum, alla «decretalistica», rivolta all’interpretazione e al commento delle norme pontificie. Bernardo Baldi di Pavia la inaugura nel 1190 ca. fissando la futura sistematica delle collezioni ufficiali (Liber Extra di Gregorio IX nel 1234, Liber Sextus di Bonifacio VIII nel 1298, Clementinae di Giovanni XXII nel 1317).

Con la fine del XII secolo si aprono nuovi studia o università in Italia, Francia e Spagna, ma la Scuola di Bologna mantiene il suo primato culturale anche per l’innesto del diritto romano nel diritto canonico. Il legame, contrastato, fra i due diritti (utrumque ius) è assai sviluppato nelle Summae di due canonisti del Duecento, Goffredo da Trani († 1245) e Enrico da Susa, dal titolo cardinalizio detto l’Ostiense († 1271). Entrambi sentono l’insufficienza del livello esegetico e sviluppano tecniche che guardano verso il nuovo genere del commentario. Alla costruzione di apparati di glosse delle decretali gregoriane si dedicano, con notevoli risultati sul terreno dottrinale, tanto l’Ostiense, la cui opera si ispira al principio dell’aequitas canonica, quanto Sinibaldo dei Fieschi (futuro Innocenzo IV), anticipatore della teoria della «persona giuridica». Il coronamento e la conclusione dell’attività scientifica dei decretalisti si ha nella Glossa ordinaria di Bernando da Parma (1266).

Nella prima metà del XIV sec. la scienza canonistica italiana si concentra sul nuovo genere del commentario, esposizione del significato e non della lettera del testo delle decretali, e sul trattato, costruzione tenzialmente sistematica di un singolo istituto o materia. Le figure più eminenti per cultura non solo giuridica ma anche filosofica e teologica sono il mugellano Giovanni d’Andrea († 1348), il perugino Baldo degli Ubaldi († 1400), allievo di Bartolo da Sassoferrato, Pietro d’Ancarano († 1416), Francesco Zabarella († 1417), Antonio da Butrio († 1408). La stagione post-classica della scienza canonistica, convenzionalmente fatta coincidere con la «cattività» avignonese del papato, si conclude con l’opera di Niccolò Tedeschi († 1445), spesso citato col semplice epiteto di Panormitano.

Seppure appartenenti a epoche diverse, i canonisti dell’età classica e post-classica presentano caratteri comuni che li differenziano rispetto ai loro successori. Rappresentano una classe di studiosi che attua al proprio interno un processo di professionalizzazione, essendo destinati a ricoprire cattedre universitarie o uffici ecclesiastici elevati; pur provenendo la più parte dall’Università di Bologna vanno ad insegnare anche in altri atenei in Italia e in Europa; in genere coltivano, anche se con diversa intensità entrambi i rami del diritto canonico e civile; in maggioranza sono ecclesiastici ma non mancano laici, specialmente nella serie dei docenti bolognesi dell’intero Trecento.

Nel complesso il contributo culturale dei canonisti italiani alla scienza giuridica europea è enorme e risalta per acume, autonomia e originalità. Benché legati al testo normativo, fedeli alla tradizione e rispettosi dell’autorità dei dottori, essi si sentono interpreti creativi, esprimono con libertà le loro opinioni sulle questioni più delicate della Chiesa, sviluppano conciliazioni, sistemazioni e ipotesi giuridiche anche ardite. Alla base del loro atteggiamento v’è una grande fiducia nella dialettica delle opinioni e nella ricerca comune della verità (la communis opinio doctorum è, con qualche eccezione, un criterio ermeneutico). La gerarchia è del resto consapevole dell’aiuto indispensabile che essi recano alla Chiesa e alla società.

Il paesaggio e il clima sono destinati a mutare con la crisi tardo-medievale del papato e della Chiesa nell’età moderna. La necessità di difendere l’unità dell’organizzazione ecclesiastica dalle tendenze autonomistiche delle Chiese nazionali e dagli scismi religiosi nel XVI secolo conduce, è noto, alla centralizzazione romana e curiale. Il divieto di interpretare i decreti tridentini, i controlli sulla produzione del sapere nelle Università, i sospetti sull’ortodossia dei docenti, sono fattori che modificano la dinamica della scienza canonistica. Dal Seicento in avanti cambiano sedi e orientamenti di studio, scompaiono gli autori laici, si indebolisce l’autonomia della ricerca e si afferma la tendenza ad uniformarsi alle direttive della Curia. La dottrina assume il compito non più di adattare bensì di riprodurre il sistema canonistico; per questo si elaborano nuove metodiche didattiche con le Institutiones di Giovan Paolo Lancellotti († 1590). L’oggetto degli studi diviene la prassi amministrativa e giudiziaria delle Congregazioni e dei Tribunali della Curia.

Il centro degli studi canonistici si sposta in Spagna, dove fiorisce la Scuola di Salamanca, poi in Francia, dove si congiunge con le tendenze gallicane, quindi in Germania, dove riceve nuovo impulso nei collegi degli ordini religiosi, infine passa a Roma. I più importanti esponenti italiani del Seicento sono alti funzionari della Curia o dello Stato pontificio: il marchigiano Prospero Fagnani († 1678), segretario della Congregazione del Concilio, commentatore delle Decretali, e il venosino Giovan Battista De Luca († 1683), cui si deve la sistemazione del tardo diritto comune sulla base della giurisprudenza, in special modo della Rota romana (Theatrum veritatis et iustitiae, 1669-1673), un’analisi organica dei profili giuridici dei vari status personali nella Chiesa (opere sul religioso, sul vescovo, sul cardinale, sul principe cristiano, 1675-1680), provvedimenti di riforma amministrativa diretti ad attuare una più razionale divisione delle competenze spirituali e temporali del papato.

I caratteri tipici del XVIII secolo si riscontrano anche in alcune grandi opere canonistiche italiane: la nota enciclopedia giuridica Prompta bibliotheca canonica, iuridica, moralis, theologica nec non ascetica, polemica, rubricistica, historica (1746) del francescano piemontese Lucio Ferrari († 1763) e i due fondamentali trattati del bolognese Prospero Lambertini, futuro Benedetto XIV, il De servorum Dei beatificatione et beatorum canonizatione (1734-1738) e il De synodo dioecesana (1748). Vanno poi ricordati gli scritti eruditi del proposto modenese Ludovico Antonio Muratori († 1750), dei fratelli veronesi Pietro († 1769) e Girolamo Ballerini († 1781) e del gesuita Francesco Antonio Zaccaria († 1795), oppositore delle teorie di Hontheim.

I canonisti alimentano i contrasti giuridico-politici tra la Santa Sede e gli Stati. All’Università di Torino si forma una scuola di tendenza gallicana e giurisdizionalista che, partendo dallo scolopio torinese Carlo Sebastiano Berardi († 1786) arriva fino a Giovanni Nepomuceno Nuytz († 1874), la cui opera è condannata nel 1851. A Roma si concentra, sul finire del Settecento, una Scuola canonistica di tendenza apologetica ma scientificamente solida facente capo a religiosi quali Tommaso Maria Mamachi († 1792), Gian Vincenzo Bolgeni († 1811) e Mauro Cappellari (futuro Gregorio XVI), che intende rivendicare il primato papale contro le varie forme di giurisdizionalismo, di regalismo e di giansenismo riformatore. Su questa tradizione si innesta l’opera canonistica, di tipo didattico e scientifico, di Giovanni Devoti († 1820) che unisce l’impronta romana ad una solida erudizione storica. In Sicilia fiorisce una scuola canonistica tendente ad ammodernare il tradizionale regalismo con l’episcopalismo e il giurisdizionalismo: il maggiore rappresentante è Stefano Di Chiara († 1837).

Dopo le vaste soppressioni di conventi, monasteri, facoltà e seminari decretate nel periodo illuministico-riformatore e napoleonico, occorre attendere il secondo Ottocento per assistere ad una ripresa della scienza canonistica italiana nelle facoltà e nei seminari pontifici di Roma. Si tratta perlopiù di un sapere giuridico-pratico finalizzato alla creazione dei funzionari ecclesiastici della Curia e delle diocesi del mondo cattolico. Al Seminario romano dell’Apollinare appartengono Giuseppe De Camillis, autore di un innovativo manuale di Istituzioni canoniche (1868), e i due maestri del cardinale Pietro Gasparri e di altri canonisti di spicco, Filippo De Angelis († 1881) e Francesco Santi († 1885).

Tra le Università statali, Torino resta l’unico centro di trasmissione delle dottrine giurisdizionaliste del Settecento. Nel clima di contrasto risorgimentale tra Stato e Chiesa il canonista Giovanni Nepomuceno Nuytz († 1874) è condannato da Pio IX per la negazione del potere temporale e della potestà coattiva della Chiesa.

Fonti e Bibl. essenziale

J.F. Schulte, Die Geschichte der Quellen und Literatur des canonischen Rechts von Gratian bis auf die Gegenwart, voll. I-III, Stuttgart 1875-80, rist. an. Graz 1956; F. Ruffini, Lo studio e il concetto odierno del diritto ecclesiastico (1892), ora in Id., Scritti giuridici minori, vol. I, Milano 1936, 5-45; E. Cortese, Il diritto nella storia medievale, voll. I-II, Roma 1995; P. Grossi, L’ordine giuridico medievale, n. ed. Bari-Roma 2006; C. Fantappiè, Chiesa romana e modernità giuridica, 2 voll., Milano 2008; L. Sinisi, Oltre il Corpus iuris canonici. Iniziative manualistiche e progetti di nuove compilazioni in età post-tridentina, Soveria Mannelli 2009; K. Pennington – W. Müller, The Decretists: The Italian School, in History of medieval Canon Law in the classical Period, 1140-1234. From Gratian to the Decretals of Pope Gregory IX edited by W. Hartmann and K. Pennington, Washington 2008, 121-173; C. Fantappiè, Storia del diritto canonico e delle istituzioni della Chiesa, Bologna 2011; Enciclopedia Italiana di Scienze, Lettere ed Arti, Il contributo italiano alla storia del pensiero, Ottava Appendice, Diritto, a cura di P. Cappellini, P. Costa, M.  Fioravanti, B. Sordi, Roma 2012; Diccionario general de derecho canónico, obra dirigida y coordinada por J. Otaduy, A. Viana, J. Sedano, voll. I-VII, Cizur Menor (Navarra) 2012; Dizionario biografico dei giuristi italiani (XII-XX secolo), diretto da I. Birocchi, E. Cortese, A. Mattone, M.N. Miletti, voll. I-II, Bologna 2013.


LEMMARIO




Diritto Canonico - vol. II


Autore: Carlo Fantappiè

Da alcuni secoli la tradizione canonistica italiana aveva perduto il suo primato e si era ridotta a un sapere pratico, adatto a formare funzionari ecclesiastici. La decadenza ottocentesca è visibile nelle facoltà ecclesiastiche e nelle facoltà statali. La creazione del Regno d’Italia segna una cesura culturale oltre che istituzionale e politica. Le facoltà di teologia sono soppresse nel 1873 e il diritto canonico è assorbito nella nuova disciplina del diritto ecclesiastico insegnata nelle facoltà statali di giurisprudenza. Da allora si diramano due strutture didattiche e due scuole parallele di diritto canonico: quella pontificia e quella statuale laica, i cui fondatori sono Francesco Scaduto († 1942) e Francesco Ruffini († 1934).

Nelle facoltà pontificie la centralizzazione culturale operata dal papato nel tardo Ottocento produce quella Scuola canonistica romana che, con distinte impostazioni al Seminario dell’Apollinare (poi Università del Laterano) e al Collegio Romano (poi Università Gregoriana), crea quella squadra di giuristi che avrà la parte maggiore nei lavori di redazione del Codex iuris canonici tra il 1904 e il 1917. Oltre a Pietro Gasparri († 1934), cui va la direzione dei lavori, vanno considerati principali collaboratori italiani il docente della Gregoriana Benedetto Ojetti († 1932) e i docenti dell’Apollinare Carlo Lombardi († 1908), Guglielmo Sebastianelli († 1920), Michele Lega († 1935), Giuseppe Latini († 1938).

Alla promulgazione del Codex segue, dal 1918 al 1936, un’età dell’esegesi e del commento. Si produce una messe di studi di vario genere ad opera di studiosi ecclesiastici e laici: dalle introduzioni (la più importante è quella dell’israelita Mario Falco del 1925), ai manuali e commentari cui si dedicano specialmente le Università pontificie. Si ricordano le trattazioni di Ojetti e di Felice Cappello della Gregoriana, di Lega e di Francesco Roberti (m. 1977) della Lateranense. Mons. Silvio Romani fonda e dirige a Roma, dal 1935 al 1940, una rivista aperta alla discussione dei problemi emergenti, la “Rassegna di morale e di diritto”.

Nell’Università Cattolica del Sacro Cuore il diritto canonico è insegnato, come disciplina autonoma, dal 1927 in poi, prima da Vincenzo Del Giudice (1884-1970), poi da Orio Giacchi (1909-1982).

Un salto di qualità della disciplina è compiuto grazie a Pietro Agostino d’Avack (m. 1982), rettore dell’Università di Roma, cui va il duplice merito di avere applicato in modo coerente il moderno metodo dogmatico-giuridico alle dottrine della Curia romana e di avere elaborato una fondazione scientifica del diritto canonico per le università statali. Il suo lavoro canonistico si svolge lungo due direttrici, convergenti nella costruzione del diritto canonico come ordinamento giuridico sui generis. La prima vuole attuare l’assimilazione della teoria medievale e moderna della Chiesa quale societas juridice perfecta al concetto di «ordinamento giuridico originario, primario, autonomo». La seconda mira a costruire una nuova ermeneutica delle dottrine curiali mediante il confronto con le teorie dogmatiche contemporanee e la loro traduzione in categorie e concetti del diritto pubblico e privato, per quanto possibile, analoghi e intercambiabili.

Tra il 1936 e il 1943 si accende una vivace discussione sulla questione del metodo per merito soprattutto di Pio Fedele (m. 2004), autore del Discorso generale del diritto canonico (1941) e fondatore con d’Avack, dell’«Archivio di diritto ecclesiastico». Ma il problema del metodo rinvia, in realtà, al problema dell’ermeneutica del diritto canonico. Se Fedele condivide con d’Avack la scelta del metodo giuridico, dissente però sul preteso carattere neutro della tecnica, che ha necessità di essere adattata alle peculiari esigenze e finalità dei singoli ordinamenti. Quello canonico ha una fisionomia inconfondibile, che gli deriva sia dalla natura mista, dove si intrecciano elementi teologici e giuridici, sia dagli istituti tipici (aequitas, dispensa, tolleranza, dissimulazione, buona fede, ecc.), sia dallo scopo trascendente. Per questo, nell’accostarsi ad esso, l’interprete deve possedere una precomprensione teologica e giuridica nonché una prospettiva giusnaturalistica ed etica che non possono combaciare con i presupposti del diritto secolare.

L’originale posizione di Fedele resta sostanzialmente isolata fino agli anni del Vaticano II, quando beneficerà di un rinnovato interesse. Nella scienza canonistica del decennio post-bellico si registra un assestamento mediante la manualistica ispirata alle fortunate Nozioni di Del Giudice (tradotte in lingua castigliana nel 1955) incentrate sulla potestà di giurisdizione della Chiesa come ponte che collega la produzione delle norme con la loro effettività nella società dei fedeli.

Dopo la fase esegetica e quella del commentario o del trattato sperimentate dalla dottrina medievale, i canonisti laici si impegnano nella costruzione dogmatica del diritto canonico in parallelo con la tendenza dominante negli studi giuridici. Il problema maggiore della Scuola italiana è infatti rappresentato dalle obiezioni alla «giuridicità» del diritto canonico provenienti dall’imperante positivismo giuridico e tendenti a minarne la validità scientifica nelle Università statali (studi di Giuseppe Forchielli, d’Avack, Pio Ciprotti tra il 1953 e il 1963). Si approfondiscono anche istituti e problemi nell’ottica della comparazione dell’ordinamento canonico con quello civile (Giuseppe Olivero, Guido Saraceni, Piero Bellini).

Questa svolta dogmatico-giuridica non viene recepita dalla canonistica ecclesiastica, che reagisce negativamente agli stimoli della modernizzazione tecnica e pretende di riservare l’adeguamento della disciplina a «coloro che operarono dal di dentro del diritto canonico e che della scienza canonistica sono i continuatori, i custodi, gli interpreti più naturali e sensibili» (intervento di D. Staffa sulla rivista «Apollinaris», 1957, p. 423).

Le deliberazioni del concilio Vaticano II non hanno un impatto né immediato né univoco sulla canonistica. Mentre si coglie subito la crisi della concezione confessionista del ius publicum ecclesiasticum externum e il problema della sua revisione (Lorenzo Spinelli, Giuseppe Dalla Torre, Giuseppe Caputo), l’invito del concilio e del magistero di Paolo VI a tener conto della nuova ecclesiologia nell’esposizione del diritto canonico apre un percorso assai tortuoso. Un ruolo importante per la fase di passaggio tra il Concilio e il nuovo Codice spetta al canonista poi cardinale Pericle Felici († 1982).

Prima ancora dell’adeguamento del metodo, gli studiosi si pongono il problema della qualificazione giuridica delle delibere conciliari (Gaetano Lo Castro), della ricezione canonistica della concezione della Chiesa come «popolo di Dio» (convegno su La Chiesa dopo il Concilio del 1972; Giuseppe Dossetti) e della visione personalistica del matrimonio canonico (L. De Luca, O. Giacchi, O. Fumagalli Carulli). Si cerca di adattare la manualistica alle idee conciliari anche se riesce difficile costruire una sistematica corrispondente (Mario Petroncelli, Pietro Gismondi).

Nel primo lustro del post-concilio, venato di antigiuridicismo e turbato dalla contestazione ecclesiale, il diritto canonico è come posto sotto processo. Gli studiosi italiani partecipano alle discussioni sulla reimpostazione della sua «natura» e del suo «concetto» dietro gli stimoli dello studioso svizzero Eugenio Corecco. Mentre la canonistica ecclesiastica si colloca a metà strada rispetto alle posizioni di Corecco – convinto sostenitore della qualificazione teologica dell’ordinamento della Chiesa-comunione –, approfondisce i legami tra diritto e pastorale (Fiorenzo Romita) e la teologia del diritto canonico (Dario Composta), la canonistica laica, forte della sua tradizione dogmatica nelle università italiane, rivendica il carattere essenziale della dimensione tecnico-giuridica. D’Avack, Orio Giacchi, Piero Bellini, Salvatore Berlingò, Gaetano Lo Castro, se ammettono l’indissociabilità dell’ottica giuridica da quella teologica, si oppongono però al mutamento di paradigma del diritto canonico e concepiscono il suo oggetto in funzione della Chiesa-società. Più sensibile alle istanze teologiche appare invece Rinaldo Bertolino.

Quest’angolazione ha permesso ai canonisti italiani di contribuire alla revisione del Codice pio-benedettino su questioni dottrinali rilevanti come la progettata Lex fundamentalis Ecclesiae, il diritto amministrativo e il matrimonio. Sul rinnovamento di quest’ultima materia in senso personalistico hanno influito le decisioni di alcuni uditori di Rota (come Aurelio Sabattani e Mario Francesco Pompedda) e alcuni canonisti laici (Orio Giacchi, O. Fumagalli Carulli, Pierantonio Bonnet). La sostanziale coincidenza temporale tra la promulgazione del Codice canonico del 1983 e la revisione del Concordato lateranense del 1984 ha poi stimolato, per l’intreccio di alcune materie, l’opera di rinnovo della manualistica e l’apertura di collane editoriali da parte di Francesco Margiotta Broglio e di Rinaldo Bertolino.

Il comune ancoraggio alla metodologia giuridica, anziché uguagliare le posizioni, ha fatto registrare una varietà di orientamenti e di impostazioni. Essi si possono riassumere nell’integrazione del dato teologico con gli schemi giuridici (Giorgio Feliciani), nella costruzione di una teoria dell’ordinamento ecclesiale come ordine di salvezza (R. Bertolino), nella rivisitazione del diritto canonico alla luce della combinazione di giustizia e carità (Salvatore Berlingò), nell’interpretazione dell’ordinamento della Chiesa quale fenomeno pluralistico frutto della dialettica tra la continuità del diritto divino e la discontinuità del diritto umano (P.A. Bonnet).

Dopo la promulgazione del Codex del 1983 i grandi dibattiti metodologici appaiono relegati sullo sfondo e l’attenzione si concentra sulle interpretazione delle innovazioni normative. Mentre le scuole pontificie hanno necessità di sviluppare nuovi manuali e commentari, gli studiosi laici preferiscono affrontare questioni dottrinali e dogmatiche. La crisi della nozione di ordinamento in senso normativista stimola il ripensamento di alcune fonti o istituti tipici: legge canonica, consuetudine, aequitas, dispensa, restitutio in integrum, ecc. (Giuseppe Comotti, Bonnet, Berlingò, Andrea Bettetini); al tempo stesso si tenta di ridefinire alcune categorie fondamentali della riforma legislativa del 1983, come le relazioni tra potestà di giurisdizione e potestà sacra (Guido Saraceni, Gianfranco Ghirlanda), tra principio gerarchico, collegialità e principio sinodale (Giorgio Feliciani, Gian Pietro Milano, S. Ferrari, C. Cardia). Suscita attenzione il tema dei diritti dei fedeli, a cominciare dal rapporto problematico tra soggetto e persona (Lo Castro) fino alla tutela delle situazioni soggettive (Piero Bellini, Bertolino). Un contributo specifico, di tipo ricostruttivo e sistematico – che tiene particolare conto della giurisprudenza della Rota romana – è stato dato sulla materia matrimoniale (Bonnet, Paolo Moneta, Luciano Musselli). Partendo dai problemi irrisolti della disciplina sul matrimonio canonico, un giovane studioso, prematuramente scomparso, Edoardo Dieni, ha allargato in modo originale il proprio sguardo sul laboratorio canonistico in modo da evidenziare le attitudini dissimulatorie dell’autorità ecclesiastica di fronte allo scarto tra realtà effettuale e norme o precetti. Negli ultimi decenni, anche a causa degli scandali commessi da chierici, si è registrato un sensibile cambio di orientamento nel diritto penale canonico rispetto all’ottica post-conciliare che tendeva a ridimensionare la nozione di pena (Franco Edoardo Adami, Raffaele Coppola, Velasio de Paolis, David Cito).

Nel campo degli studi di storia del diritto canonico medievale e moderno, i canonisti hanno proseguito la prestigiosa tradizione che va da Ruffini a Jemolo, da Cesare Magni a Gaetano Catalano. Rilevante il vasto lavoro di ricostruzione delle dottrine teocratiche medievali e del loro adattamento nell’età moderna e contemporanea svolto da Piero Bellini.

Agli inizi del terzo millennio sembrava superata la stagione dell’antigiuridicismo che aveva segnato in Italia la fase post-conciliare. Nondimeno la ripresa d’interesse verso il diritto canonico non è stata accompagnata da uno sforzo adeguato per superare lo scarto mentale tra teologi e canonisti, e quindi tra la dimensione pastorale e quella giuridica propria della Chiesa.

Fonti e Bibl. essenziale

M. Vismara Missiroli, Diritto canonico e scienze giuridiche. L’insegnamento del diritto della Chiesa nelle Università italiane dall’Unità al Vaticano II, Padova 1988; C. Redaelli, Il concetto di diritto della Chiesa nella riflessione canonistica tra Concilio e Codice, Milano 1991; P. Grossi, Scienza giuridica italiana. Un profilo storico 1860-1950, Milano 2000, 266-273; C. Fantappiè, Diritto canonico codificato, in Dizionario del sapere storico-religioso del Novecento, a cura di A. Melloni, Bologna 2010, vol. I, 654-700; Lo studio e l’insegnamento del diritto canonico e del diritto ecclesiastico in Italia. Ristampa da«Archivio di diritto ecclesiastico», I-III (1939-1941), Padova 2012; Enciclopedia Italiana di Scienze, Lettere ed Arti, Il contributo italiano alla storia del pensiero, Ottava Appendice, Diritto, a cura di P. Cappellini, P. Costa, M. Fioravanti, B. Sordi, Roma 2012; Diccionario general de derecho canónico, obra dirigida y coordinada por J. Otaduy, A. Viana, J. Sedano, voll. I-VII, Cizur Menor (Navarra) 2012; Dizionario biografico dei giuristi italiani (XII-XX secolo), diretto da I. Birocchi, E. Cortese, A. Mattone, M.N. Miletti, voll. I-II, Bologna 2013; C. Fantappiè L’insegnamento del diritto canonico in Italia dal Concilio Vaticano I ai codici vigenti, in Gruppo Italiano Docenti di Diritto Canonico – Associazione Canonistica Italiana, L’insegnamento del diritto canonico, XL Incontro di Studio Centro Turistico Pio X – Borca di Cadore (BL) 1-5 luglio 2013, Milano 2014, 31-57; C. Fantappiè, Ecclesiologia e canonistica, Venezia 2015.


LEMMARIO




Dohna Schlobitten Yvonne





Donato Maria Pia


 





Donna - vol. II


Autore: Grazia Loparco

Grazie ai numerosi studi sulla storia delle donne in Italia, è possibile tracciare un quadro abbastanza preciso dal 1861 al presente, sebbene non si possa dire altrettanto della storia delle cattoliche, a lungo molto presenti e attive nelle istituzioni, ma riconosciute a stento nell’effettivo contributo alla vita ecclesiale. La cronologia della storia italiana inquadra i maggiori fenomeni che riguardarono le donne secondo i diversi stati di vita. Per cent’anni esse si identificano con le cattoliche, essendo la stragrande maggioranza.

1) Il quadro femminile al 1861

Al 1861 si contavano 13.399.000 maschi e 12.929.000 femmine. Di queste, oltre le sposate, 206.698 nubili, 42.664 religiose, con prevalenza di monache al sud. La maggioranza delle donne erano votate alla famiglia, dove non era previsto il divorzio. Esse non avevano diritti civili al pari degli uomini; in numero più alto erano analfabete. Molte scuole erano in quegli anni in mano a istituti religiosi femminili. Circa il lavoro, le donne si occupavano in campagna, nelle filande. Prive di istruzione professionale, nei primi stabilimenti erano molto sovente sfruttate. Per l’aspetto religioso, la soppressione degli Ordini non riguardò le Congregazioni femminili recenti, dedite a un apostolato visibilmente utile alla società: colmavano lacune statali ed erano escluse dalle polemiche culturali. Anche nelle carceri e negli ospedali cresceva l’assistenza femminile, con l’attenzione all’intera persona, manifestando un Dio vicino soprattutto con il linguaggio della cura, della carità operosa. Tra tante altre, la marchesa Giulia Falletti di Barolo (1785-1864) con il marito Carlo Tancredi (1782-1838) a Torino e le Figlie della carità sui campi di battaglia avevano inaugurato un nuovo approccio alle persone, spesso abbandonate nelle pieghe della povertà.

2) La prima evoluzione (dal 1861 al 1914 circa)

a) La nascita del femminismo. Il primo femminismo in Italia, promotore di riforme sociali e politiche, ebbe carattere laico: Anna Maria Mozzoni (1837-1920) ricordava che l’essere donna è fonte di diritti, mentre l’educazione comune sottolineava soprattutto i doveri. La nascita di riviste femminili restò un segnale per élites, impegnate a rivendicare uguaglianza e spazi di protagonismo.
Il movimento femminile cattolico, sostenuto inizialmente dalla lombarda Adelaide Coari (1881-1966), condivideva i fermenti legati alla richiesta di riconoscimenti civili, ai diritti in campo lavorativo e politico, sebbene le cattoliche non si vincolassero alle socialiste promotrici di un’emancipazione delle donne dalla chiesa che le teneva in soggezione. La veneta Elisa Salerno (1873-1957) pose alla riflessione il rapporto tra donna, lavoro e chiesa, incorrendo nell’accusa di modernismo, come accadde anche alla napoletana Antonietta Giacomelli (1857-1949). L’impegno sociale fu promosso dalla rivista L’Azione muliebre fondata da Elena Da Persico (1869-1948), che cercò di contemperare la docilità alla gerarchia e l’apertura di interessi e campi d’azione. Sulla Civiltà Cattolica del 1906 uscivano intanto diversi articoli su La donna nuova: essi, contrastando una rivendicazione sovversiva, con mentalità conservatrice promuovevano comunque l’impegno cristiano anche in ambienti nuovi per le donne, come gli impieghi pubblici.

b) Il miglioramento dell’istruzione. Nonostante la diffidenza anche ecclesiastica verso l’istruzione femminile, che tenne basso il numero delle laureate, come dimostrano le statistiche di fine ’800, con la fondazione dei due Magisteri a Roma e a Firenze nel 1878, si allargò l’accesso alle donne, specialmente in vista della formazione delle insegnanti nelle scuole Normali. In queste si preparavano le insegnanti elementari, rispondenti alla legge dell’istruzione obbligatoria. Nel giro di alcuni decenni le maestre superarono in numero i maestri, sempre meno interessati a un lavoro faticoso e poco remunerato. Il Magistero fu ben presto frequentato anche dalle religiose, interessate ai legali diplomi universitari necessari per preparare maestre. Soprattutto le Congregazioni religiose femminili diedero un apporto determinante nei primi decenni post unitari all’alfabetizzazione capillare delle fasce popolari, con la presenza anche in piccoli centri di provincia, privi di altre insegnanti. Il riconoscimento sociale della figura della maestra religiosa, legata a una comunità che ne tutelava la moralità, aprì la strada alle laiche. Superando le remore, le suore e le donne furono dunque protagoniste dell’unica, per certi versi, “rivoluzione” riuscita in Italia: una maggiore istruzione ed educazione delle donne e del popolo. In mancanza di scuole e di mezzi di comunicazione, i collegi, gli educandati, i convitti, consentirono a lungo l’elevazione culturale di molte ragazze, anche come maestre, a loro volta promotrici dei valori cristiani per generazioni di allievi. In tal senso la formazione degli italiani passò attraverso molte maestre cattoliche, con risparmi economici per i comuni e lo Stato. Un po’ più lento fu l’avvio degli asili e giardini d’infanzia, per i pregiudizi che gravarono su quest’istituzione. All’inizio del ’900, però, con la diffusione delle famiglie nucleari nelle zone più industrializzate, essi si moltiplicarono, restando a lungo appannaggio delle religiose, che in tal modo avevano diretto contatto con le famiglie.
Di fronte all’anticlericalismo di varia matrice, le donne mediarono un’immagine diversa di Chiesa, non impositiva o chiusa in difesa di diritti o privilegi violati, ma chinata sulle esigenze concrete delle persone per provvedervi con carità e rispetto. Sillabo e questione romana interessavano più gli uomini; le persone in necessità più le donne. Con la particolarità che le loro opere si basavano sul lavoro, non sulle rendite.

c) I nuovi lavori per le donne. Il rapporto donne e lavoro, sia negli stabilimenti industriali che negli impieghi pubblici, incrociò l’impegno di istituzioni ecclesiali, specie le Congregazioni, che assunsero la gestione di convitti e pensionati, per un’assistenza attenta alla promozione delle giovani in vista della famiglia, oltre che agli aspetti sanitari, sociali e morali. Era un modo femminile di partecipare alla questione sociale, stando nelle situazioni di tensioni e disagi, cercando la mediazione. I convitti per operaie erano già presenti prima del 1861, ma si moltiplicarono soprattutto dai primi del ’900. Con gli scioperi e la propaganda del socialismo, si formarono poi leghe cattoliche, come pure patronati di tutela e difesa delle lavoratrici.
Altri lavori consentiti alle donne in questo periodo furono l’insegnamento e come infermiere. Il primo manuale per la formazione di queste ultime fu fatto stampare da Mons. Giovanni A. Farina (1803-1888), fondatore delle suore Maestre di S. Dorotea di Vicenza. Per le infermiere restava l’obbligo del celibato, come conferma a Roma l’esperienza di Anna Celli (1878-1958). In pratica, c’era una sorta di divisione sessuale del lavoro anche in Italia, sostenuto dalla Chiesa. La managerialità che distinse molte fondatrici religiose, motivata dall’urgenza apostolica e alimentata dall’incremento delle comunità, non ebbe eguali tra le rivendicazioniste.

d) Questione religiosa e associazioni. Le prime donne emancipate sembrano essere proprio le religiose per l’impegno autonomo in tante attività, incluse le missioni estere in gran numero ecc. Però all’inizio del Novecento ci furono le prime critiche al loro mondo e l’avvio di quelli che sarebbero stati gli Istituti secolari (Elena da Persico ecc.), presenti come fermento invisibile nella società. D’altronde, con la separazione tra Stato e Chiesa fiorì l’associazionismo delle donne, non solo delle élites, a riprova di una soggettività più definita. Già dal 1867 si erano sviluppate nelle parrocchie le pie unioni delle Figlie di Maria. Con la moralità e la pietà, i sacerdoti talvolta promossero un apostolato nella catechesi parrocchiale e nelle famiglie, o sui posti di lavoro. Da alcuni gruppi sorsero anche forme di consacrazione privata, riavvicinata alla Compagnia di S. Orsola di Angela Merici.
Tenendo conto che le ragazze italiane non erano abituate a spazi di socializzazione organizzata o di tempo libero, nelle associazioni parrocchiali o nei popolatissimi oratori delle religiose sperimentarono una forma di responsabilizzazione e partecipazione inedita, specie per alcune regioni, come la Sicilia e nel sud. Una iniziativa ancora maggiore fu richiesta con l’adesione all’Azione cattolica nelle Unioni femminili, che spinsero a un protagonismo attivo e incisivo. Nel 1908 c’era stato un avvicinamento tra emancipazioniste e cattoliche nel primo convegno nazionale femminile a Roma, ma arrivarono alla rottura sul tema dell’insegnamento della religione nelle scuole pubbliche, tema che aveva provocato la nascita delle Scuole di Religione extra scolastiche organizzate in molte diocesi italiane. Poco dopo nacque l’Unione delle Donne Cattoliche italiane, a sostegno del modello femminile tradizionale, ma aprendo a battaglie che riguardavano il mondo del lavoro come pure l’insegnamento della religione e una certa preparazione e iniziativa nella società.
In pratica si conclude il periodo con il respingimento della proposta di divorzio, della richiesta di concedere il diritto di voto alle donne, della partecipazione alla politica o maggiori spazi nelle professioni. La spinta verso una evoluzione era piuttosto difficile, per molte remore anche ecclesiali (Pio X pensava che le donne dovessero stare in casa), tuttavia la corsa ad ostacoli non bloccò le donne e tra loro molte suore, che nella Chiesa si sentirono responsabili della salvezza degli altri e perciò allargarono in modo talora  impressionante i confini dei propri interessi e intrapresero lunghissimi viaggi per le missioni. Francesca Cabrini (1850-1917) è un paradigma.

3) La prima guerra mondiale

Durante la Grande guerra si registrò una grande partecipazione delle donne alla vita della nazione, con l’assunzione di attività prima svolte solo da uomini. Molte furono crocerossine; le suore, anche educatrici, si impegnarono negli ospedali militari e nell’assistenza degli orfani, rompendo gli schemi e le abituali attività; molte collaborarono in comitati di assistenza a favore dei soldati al fronte. Anche se vigevano ancora le leggi di soppressione, dopo questa esperienza, religiose e religiosi, clero, erano riconosciuti dalla gente come parte della nazione, avendo dato prova di “patriottismo”, pertanto bisognava arrivare a una soluzione del problema romano.

4) Il fascismo e la seconda guerra mondiale

Nella politica demografica del regime si enfatizzò la figura della madre; restava la questione del lavoro, per cui si assegnava alla donna uno stipendio inferiore a parità di mansioni, con la possibilità di licenziamento con il matrimonio ecc. In prevalenza ci fu l’adeguamento formale delle religiose al fascismo, pur cercando di tutelare i principi ed evitare ingerenze eccessive nelle opere. Le percentuali delle religiose cominciarono a diminuire, per maggiori spazi e migliori condizioni generali concessi alle donne. I mezzi di trasporto, le possibilità per le sposate di tornare al lavoro, le letture, cambiavano il modo di percepire anche se stesse e il proprio compito. La capacità organizzativa di Armida Barelli (1882-1952) in ordine all’Università Cattolica e alla Gioventù femminile di Azione Cattolica è indice di un impegno senza deleghe che seppe coinvolgere moltissime giovani.
Durante la seconda guerra mondiale si registrò poi una resistenza femminile, specie attraverso l’assistenza a chiunque fosse in pericolo, mostrando valore civile e impegno concreto a favore delle persone, senza guardare l’appartenenza religiosa. In particolare si segnalò l’aiuto di religiosi e religiose agli ebrei, ai dissidenti politici, ai renitenti alla leva, agli sfollati, ai bambini e alle bambine della strada e agli orfani. Per necessità si era sviluppata la fantasia della carità e la prontezza. Invece la mentalità degli “occhi bassi” resisteva nell’educazione alla modestia, alla sottomissione e al silenzio; nella conoscenza delle proprie potenzialità e della stessa corporeità. Molte letture spirituali e prediche vi insistevano con le mamme e le figlie, tuttavia la diffusione della radio, del cinema, della stampa, del ballo, di una moda più libera, inaugurava cambi difficilmente arginabili.

5) Dopo la seconda guerra mondiale

Dopo il 1945 la situazione mutò rapidamente anche per le donne. Si riconobbe il diritto di voto e la partecipazione alla politica (anche di diverse donne membri di istituti secolari). Durante il concilio Vaticano II, quando furono invitate, tra le 23 uditrici ci furono due laiche e una religiosa italiane; subito dopo ci fu l’apertura delle facoltà pontificie alle donne, anche come docenti, persino di teologia, e il riconoscimento della Pontificia Facoltà di Scienze dell’Educazione “Auxilium”, l’unica affidata dalla Santa Sede alla gestione di donne, nel 1970.
Ai primi degli anni ’60 Giovanni XXIII additò la nuova condizione delle donne come uno dei segni dei tempi. Per la verità esse avevano dovuto conquistare terreno palmo a palmo, non di rado insistendo e resistendo anche alle autorità ecclesiastiche, per far riconoscere la bontà di scelte inedite rispetto alla disciplina canonica. La mentalità ecclesiale corrispondeva a quella sociale, pur avendo consentito alle donne spazi di azione prima che nelle famiglie. Con la contestazione del ’68, la legge sull’aborto e il divorzio degli anni settanta, la liberalizzazione dei costumi sessuali con conseguente uso dei contraccettivi, si delinea la progressiva divaricazione tra Chiesa e mondo femminile, ormai entrato nella secolarizzazione, cent’anni dopo gli uomini. L’immagine istituzionale, le scelte concrete nelle comunità locali hanno influito sulla “fuga delle quarantenni” dalle parrocchie, come anche sulla diminuzione delle consacrate, mentre sono aumentate donne impegnate nel volontariato e in altri movimenti ecclesiali. Al contempo, con la maggiore preparazione culturale, si assiste a una critica del femminismo da parte delle stesse donne, nella ricerca di una visione antropologica più evangelica, fino alle conseguenze di un’auspicata reciprocità nella cooperazione e nelle relazioni anche intraecclesiali, troppo segnate dal tradizionale maschilismo. La riflessione teologica delle donne italiane è avviata, ma c’è ancora molto spazio per il dialogo e un ripensamento comune.

Conclusione

Cessato l’appoggio ufficiale dello Stato alla Chiesa e aumentato l’indifferentismo maschile, le donne hanno contribuito fortemente a rimodulare la vita delle comunità locali e delle parrocchie, grazie al crescente coinvolgimento nell’apostolato fuori delle mura domestiche. Senza oneri economici per i sacerdoti e i vescovi, come per lo Stato.
L’assunzione personale della fede, legata a lungo al dovere della sua trasmissione in famiglia, ha prodotto una valorizzazione della soggettività femminile, fondata sulla dignità battesimale, pur nell’asimmetria di genere e nel clericalismo della Chiesa italiana. Il sodalizio tra donne e Chiesa ha interessato tutte le fasce sociali in modi consoni alla mentalità vigente e al contempo ha spinto le donne delle fasce più popolari a un impegno allargato che, per almeno un secolo, si è rivelato portatore di uno sviluppo superiore a quello degli ambienti di appartenenza. Si pensi alle associazioni, ai circoli culturali, alle letture, ai viaggi, alle responsabilità di governo di opere e strutture di portata superiore a quella familiare, quali potevano essere le opere delle religiose o gli impegni dell’Azione Cattolica o in altre associazioni. Il progresso era frutto di un senso di responsabilità assunto con decisione, non di una rivendicazione.
Con l’acquisizione del diritto di voto, diverse donne si impegnarono per favorire il partito di ispirazione cristiana. Sempre poche, invece, entrarono direttamente in politica. Il modello femminile proposto dalla Chiesa era legato alla famiglia, alla consacrazione religiosa, non a un impegno politico attivo. Neppure l’elevazione della cultura di molte donne è bastata a modificare profondamente un atteggiamento diffuso di delega.
Per circa un secolo dall’Unità d’Italia, in presenza di un progressivo secolarismo, matura la “femminilizzazione del cristianesimo” nelle parrocchie, nelle opere caritative e sociali, nelle scuole e negli ospedali. Non manca chi ha affermato che le donne hanno salvato la fede e la Chiesa italiana troppo ancorata alla gerarchia. Finora, tuttavia, altri sono i fatti, altra l’immagine delle donne e della Chiesa in Italia.
Dopo il ’68, con la ripresa del femminismo radicale e la comparsa dell’ideologia del gender, anche il rapporto con la Chiesa si è lacerato per un numero crescente di donne, con conseguenze evidenti sul piano antropologico e culturale, nelle famiglie, nella pratica religiosa e negli impegni pubblici.
Considerando i papi, Leone XIII tra 1878 e 1891 elaborò il modello della donna in famiglia, angelo del focolare, che resistette a lungo. Pio X, conservatore a questo riguardo, accolse però l’iniziativa di Cristina Giustiniani Bandini (1866-1959)  per inaugurare un nuovo associazionismo, diverso dalle pie unioni, sviluppato con l’apostolato dell’Azione Cattolica. Passando per Giovanni XXIII e Paolo VI, che posero gesti discreti, ma significativi e innovatori, si arriva alla Mulieris dignitatem di Giovanni Paolo II, con la decisione di inserire qualche donna tra le officiali della Santa Sede. Scelta confermata da Benedetto XVI e da papa Francesco, che afferma la necessità di ripensare la teologia della donna, prendendo atto che i passi istituzionali richiesti dalla contemporaneità sono stati decisamente lenti.
Nell’arco di più di 150 anni è facile, infine, notare come molte cose siano cambiate nella mentalità, nelle prospettive e dunque anche nelle statistiche e nelle percentuali che riguardano le aree di impegno delle donne cattoliche italiane, tra cui si annoverano numerose sante. Circa lo stato di vita si assiste pure a una nuova proporzione tra donne sposate, single e religiose, per l’apertura progressiva di possibilità, nonostante le limitazioni sussistenti.

Bibliografia essenziale

Giancarlo Rocca, Donne religiose. Contributo a una storia della condizione femminile in Italia nei secoli XIX-XX, Roma, Ed. Paoline 1992; Paola Gaiotti de Biase, Le origini del movimento cattolico femminile, Brescia, Morcelliana 20002; Ead., Vissuto religioso e secolarizzazione. Le donne nella “rivoluzione più lunga”, Roma, Studium 2006; Adriana Valerio, Pazienza, vigilanza, ritiratezza. La questione femminile nei documenti ufficiali della Chiesa (1848-1914), in “Nuova DWF” (1981) 16, pp. 60-117; Lucetta Scaraffia, “Il Cristianesimo l’ha fatta libera, collocandola nella famiglia accanto all’uomo” (dal 1850 alla “Mulieris dignitatem”), in Ead. – Gabriella Zarri, Donne e fede. Santità e vita religiosa in Italia, Roma-Bari, Laterza 1994, pp. 441-493; Cecilia Dau Novelli, Società, Chiesa e associazionismo femminile. L’Unione fra le donne cattoliche d’Italia (1902-1919), Roma, A.V.E. 1988; Lucetta Scaraffia, Fondatrici e imprenditrici, in Emma Fattorini  (a cura di), Santi, culti, simboli nell’età della secolarizzazione (1815-1915), Torino, Rosenberg & Sellier 1997, pp. 479-493; Maria Teresa Falzone, Le Congregazioni religiose femminili nella Sicilia dell’Ottocento, Caltanissetta-Roma, Salvatore Sciascia 2002; diverse figure in Eugenia Roccella- Lucetta Scaraffia (a cura di), Italiane, Roma, Presidenza del Consiglio dei ministri 2003, 3 vol.; Stefania Bartoloni (a cura di), Per le strade del mondo. Laiche e religiose fra Otto e Novecento, Bologna, Il Mulino 2007; Luigi Mezzadri-Maurizio Tagliaferri (a cura di), Le donne nella Chiesa e in Italia, Cinisello B., San Paolo 2007; Maria Susanna Garroni (a cura di), Sorelle d’Oltreoceano. Religiose italiane ed emigrazione negli Stati Uniti: una storia da scoprire, Roma, Carocci 2008; Grazia Loparco, Gli istituti religiosi femminili e l’educazione delle donne in Italia tra Otto e Novecento, in “Seminarium” 44(2004)1-2, 209-258; Ead., Le Figlie di Maria Ausiliatrice e le reti di “ben intesa italianità” nel primo cinquantennio dello Stato unitario, in Lucetta Scaraffia (a cura di), I cattolici che hanno fatto l’Italia. Religiosi e cattolici piemontesi di fronte all’Unità d’Italia, Torino, Lindau 2011, pp.  153-204; Ead., Consacrate nella Chiesa per il mondo. Unione Internazionale delle Superiore Generali 1965-2015, Roma 2016; Giorgio Vecchio (a cura di), Le suore e la resistenza, Milano, Ambrosianeum 2010; Fondazione «Emanuela Zancan» (a cura di), Per carità e per giustizia. Il contributo degli istituti religiosi alla costruzione del welfare italiano, Padova, Fondazione E. Zancan Onlus-Centro Studi e Ricerca sociale 2011; Tonino Cabizzosu, Donna, Chiesa e società sarda nel Novecento, Caltanissetta-Roma, S. Sciascia 2011; Marinella Perroni, Alberto Melloni, Serena Noceti (a cura di), “Tantum aurora est”.  Donne e Concilio Vaticano II, Zürich, LIT 2012; Maria Chiaia, Donne d’Italia. Il Centro Italiano Femminile, la Chiesa, il Paese dal 1945 agli anni Novanta, Roma, Studium 2014; Liviana Gazzetta, Tina Anselmi e la costruzione di una politica femminile, in Maria Teresa Mori, Alessandra Pescarolo, Anna Scattigno, Simonetta Soldani (a cura di), Di generazione in generazione. Le italiane dall’Unità a oggi, Roma, Viella 2014; Giulia Galeotti-Lucetta Scaraffia, Papa Francesco e le donne, Milano, Il Sole 24 ORE 2014; alcuni studi in Saveria Chemotti – Maria Cristina La Rocca (a cura di), Il genere nella ricerca storica. Atti del VI Congresso della Società Italiana delle Storiche, Padova, Il Poligrafo 2015, 2 vol.; Adriana Valerio, Donne e Chiesa. Una storia di genere, Roma, Carocci 2016; AA. VV., Ruolo delle donne nella Chiesa. Atti del Simposio promosso dalla Congregazione per la Dottrina della Fede. Roma, 26-28 settembre 2016, Città del Vaticano, Libreria Editrice Vaticana 2017. E molte pubblicazioni documentate su figure singole di donne, Congregazioni religiose o Istituti secolari e associazioni.


LEMMARIO




Ebrei - vol. I


Autore: Anna Foa

Nel vasto mosaico di popoli e religioni che costituiva l’Impero romano alle soglie della sua cristianizzazione, gli ebrei – presenti in numerose comunità fin da prima del 70 d.C., la data della distruzione del Tempio di Gerusalemme da cui si fa iniziare la diaspora, e a Roma già dal II secolo a.C. – erano cittadini al pari degli altri, un diritto che Caracalla aveva concesso a tutti gli abitanti del territorio imperiale nel 212 d.C. Le restrizioni a questa piena cittadinanza iniziarono subito dopo la vittoria del Cristianesimo: già sotto Costantino furono proibite le conversioni al giudaismo e vennero introdotte limitazioni al possesso di schiavi cristiani. La prima norma di proibizione del matrimonio fra ebrei e cristiani è del 388. Tutta questa sparsa legislazione confluì nel codice teodosiano della metà del IV secolo e divenne ulteriormente restrittiva nel codice giustinianeo del VI secolo. Nonostante queste limitazioni, tuttavia, il codice teodosiano manteneva la religione ebraica come una religio licita, principio che servì a garantire dal punto di vista giuridico la presenza ebraica nell’Occidente dell’alto Medioevo, impedendo che l’ebraismo fosse considerato come un’eresia e che agli ebrei fosse tolto ogni stato giuridico. Nelle zone dove sopravvisse il diritto romano, essi restarono cittadini, sia pur dimidiati.

Queste formulazioni giuridiche si saldarono con le teorizzazioni fatte dalla Chiesa sulla base tanto della tradizione teologica paolina e agostiniana quanto di vere e proprie opzioni politiche. Sotto Gregorio Magno, alla fine del VI secolo, la scelta del mantenimento della presenza ebraica nella società cristiana, sia pur in uno statuto di inferiorità e subordinazione, è ormai netta, e va di pari passo con il rifiuto della Chiesa delle conversioni forzate. Nel 1121 il papa Callisto III sancirà nella Bolla Sicut Iudaeis, più volte ripubblicata e ripresa nel diritto canonico, questa sorta di contratto tra gli ebrei e la società circostante, mentre nel 1205 la Bolla di Innocenzo III Etsi Iudaeos definirà lo status giuridico dell’ebreo come quello di una “perpetua servitus”, una servitù però da intendersi in senso teologico e non giuridico. Queste formulazioni confluirono nel secolo XII nel corpo del diritto canonico, a teorizzare il ruolo degli ebrei nella società cristiana e i limiti della loro presenza.

Il senso ultimo di questa teorizzazione era evidentemente quello di mantenere un equilibrio tra l’inferiorità degli ebrei e la loro permanenza “necessaria” nel mondo cristiano come testimoni della verità della fede. Restavano tuttavia aperti molti spazi per una ridefinizione di questa politica in tutti i sensi, ad ogni oscillazione del pendolo che reggeva questo difficile equilibrio e ad ogni mutamento del contesto storico.

Il secondo millennio si apriva con pesanti sconvolgimenti nel rapporto degli ebrei con la società cristiana che, se pur non toccavano direttamente il rapporto con la Chiesa, non potevano non avere conseguenze su di esso. Gli attacchi alle comunità ebraiche renane ai margini della prima crociata, nel 1096, le conversioni forzate che si verificarono e che posero per la prima volta alla Chiesa il problema del ritorno all’ebraismo dei convertiti a forza, la diffidenza instauratasi fra i due mondi in seguito a questi massacri cominciarono a aprire crepe visibili nell’edificio costruito dalla Chiesa nei primi secoli del cristianesimo. Le accuse agli ebrei di omicidio rituale e di sacrilegio dell’ostia, con la loro scia di esecuzioni e morti, si susseguono a partire dal XII secolo, nonostante l’atteggiamento della Chiesa si mostri subito contrario a queste mitologie persecutorie. Nel 1247, Innocenzo IV le dichiara false in una Bolla, la Lachrymabilem Iudaeorum. Inutilmente, tanto forte è la pressione dei sovrani secolari, del basso clero e del popolo. A partire dal XIII secolo, il peggioramento delle condizioni degli ebrei è netto e costante, anche se sono soprattutto le monarchie nazionali a mettere in atto strategie di uniformizzazione religiosa: nel 1290 gli ebrei sono espulsi dall’Inghilterra, nel corso del Trecento dalla Francia. Nonostante nel 1215 il Concilio Laterano IV avesse varato norme peggiorative nei confronti degli ebrei, tra cui fondamentali quella, da loro fortemente avversata, del segno distintivo, e una regolamentazione del prestito ebraico attraverso la proibizione delle usure “gravi e immoderate”, la Chiesa continuava tuttavia a mantenere la presenza ebraica nel suo seno, anche se al suo interno si facevano avanti spinte fortemente antiebraiche. All’avanguardia, sono i nuovi ordini mendicanti, in particolare i francescani. Immediatamente partecipi dell’attività della nuova istituzione creata nel 1231 per combattere l’eresia, l’Inquisizione, i mendicanti cercano di allargare la giurisdizione inquisitoriale fino a comprendervi gli ebrei, che il diritto canonico definiva non eretici, ma appartenenti ad una religione consentita. Il risultato sarà quello della costruzione di una nuova eresia, quella dei giudaizzanti, in cui rientravano i convertiti che tentavano di rientrare in seno all’ebraismo. La sancisce una Bolla di Clemente IV del 1267 Turbato corde, gravida di conseguenze sul rapporto con il mondo ebraico. I predicatori francescani, spesso in contrasto con le direttive di Curia, sollevano il popolo contro la presenza dei prestatori ebrei nelle città dell’Italia centrale e settentrionale, collegando questa agitazione alla creazione dei Monti di Pietà, mentre si moltiplicano gli appelli alla conversione, su cui Roma si mantiene tuttavia abbastanza prudente. L’attacco al Talmud, partito dalla corona francese e non da Roma, lasciò i papi oscillanti, dal momento che la Chiesa, fino al XVI secolo, resta incline più alla sua correzione che alla sua soppressione, alla censura cioè delle parti del testo ebraico considerate blasfeme. Anche quando Roma farà sua la politica antitalmudica, con il rogo del Talmud del 1553, la sua proibizione, e infine la sua inclusione nell’Indice dei libri proibiti nel 1559, il mondo cattolico continuerà a dibattere sulle ambigue valenze della letteratura rabbinica.

Quanto alla formulazione del decreto del Concilio Laterano del 1215 sulle usure immoderate, esso non fu una decisa restrizione posta al prestito ebraico, ma piuttosto un compromesso fra i canonisti più rigidi, decisi a proibire radicalmente il prestito, e l’ala legata alla politica papale, assai più elastica e possibilista. Fu quest’ultima di fatto a prevalere, almeno fino al XVI-XVII secolo, anche se a partire dal Quattrocento la Chiesa ebbe sempre maggiori difficoltà nel contenere la predicazione francescana e le violenze da essa suscitate. A Roma, dove il controllo sul clero mendicante era più stretto, i banchi ebraici furono proibiti solo nel 1682. Un segnale inquietante di crisi fu nel 1475 la vicenda di Simonino da Trento, in cui l’intera comunità ebraica trentina fu sottoposta a processo sotto l’accusa di aver ucciso ritualmente un bambino cristiano, il piccolo Simonino, e in cui la Chiesa sembrò attenuare, sotto la spinta delle motivazioni politiche, il rigore del suo tradizionale rifiuto delle accuse di omicidio rituale.

La svolta che introduce nella linea della Chiesa elementi di radicale innovazione si verifica però solo nel XVI secolo, con l’introduzione dei ghetti e con l’assunzione in prima persona, da parte della Chiesa, di quella spinta conversionistica che fino a quel momento era stato fatto proprio solo dalle istanze ecclesiastiche inferiori e che ora diventava un obiettivo privilegiato del papato. Molti i fattori che portano a questa svolta: le tensioni riformatrici della Chiesa, che vedevano nella tolleranza degli ebrei un fattore di corruzione mondana della Chiesa; le spinte repressive dell’eresia, che spingevano alla chiusura verso ogni diversità; il fervore escatologico, che vedeva nella conversione totale degli ebrei il preludio necessario alla fine dei tempi storici; il modello dell’espulsione degli ebrei dalla Spagna del 1492, che si faceva sentire pesantemente in un’Italia in cui metà della penisola era sotto il diretto dominio della Spagna e il resto ne era comunque fortemente dipendente.

Nonostante la scelta dell’espulsione non manchi questa volta, e per la prima volta nei secoli, di essere sollevata anche a Roma l’opzione non è tuttavia quella spagnola dell’espulsione, ma un compromesso, che mantiene la presenza pur appesantendo fortemente e progressivamente l’inferiorità: il ghetto, cioè la chiusura degli ebrei in una o più strade separate da quelle dei cristiani e chiuse da mura e portoni, aperti al passaggio solo nelle ore del giorno. Una specie, cioè, di semiprigionia, volta a rendere sempre più pesanti le condizioni degli ebrei e a spingerli nelle braccia aperte della Chiesa. L’ istituzione dei ghetti fu varata da Paolo IV Carafa nel 1555, appena assurto al pontificato, con la Bolla Cum nimis absurdum. L’istituzione del ghetto era accompagnata da norme che limitavano fortemente i mestieri consentiti agli ebrei e da altre restrizioni. Il primo ghetto era in realtà stato già creato dalla Repubblica di Venezia nel 1516, ma era rivolto esclusivamente alla separazione, e mancava di quelle motivazioni teologiche, in primis la conversione, che caratterizzano invece l’attività di creazione dei ghetti dopo il 1555, patrocinata esclusivamente dalla Chiesa, spesso in conflitto con i sovrani e i principi secolari. L’Italia del Cinque Seicento costruisce progressivamente ghetti in tutte le località in cui esistono ebrei. Solo nello Stato della Chiesa la ghettizzazione si accompagna ad un’espulsione: all’interno del ghetto e non all’esterno, però. Due Bolle, una di Pio V nel 1569, la Hebraeorum gens, e l’altra di Clemente VIII nel 1598, la Caeca et obdurata, espellono gli ebrei dello Stato pontificio da tutte le località dove ancora erano presenti, per concentrarli nei ghetti di Roma, Ancona ed Avignone. Più tardi, ghetti furono creati a Ferrara, Cento e Lugo, passati nel 1598 sotto il dominio della Chiesa. Con la creazione del ghetto, la Chiesa riafferma ancora una volta la necessità della presenza ebraica nel suo seno, subordinandola in maniera ancora più netta all’esaltazione della verità cristiana. Il ghetto finisce così per divenire il maggiore strumento della politica conversionistica tentata dalla Chiesa della Controriforma e volta non a convertire un numero più alto di ebrei, ma a risolvere una volta per tutte, attraverso la conversione, il problema ebraico. Un obiettivo fallito in quanto tale, anche se il numero delle conversioni fu, nell’età dei ghetti, consistente e la suggestione del battesimo influenzò profondamente la vita degli ebrei tra le mura del ghetto, rendendola precaria ed insicura.

La predica forzata, istituzionalizzata dalla Chiesa nel 1584, rappresentò l’aspetto più teatrale, ed anche quello meno efficace, della politica conversionistica. Obbligati ad ascoltare una predica tutti i sabati, un terzo della comunità a turno, gli ebrei reagivano con ogni possibile resistenza, dai tappi nelle orecchie al sonno, mentre i cristiani dalle tribune guardavano lo spettacolo. Maggiori risultati si ottennero con la Casa dei Catecumeni. Fondata sotto l’impulso di Ignazio di Loyola nel 1542, essa era destinata ad accogliere, per istruirli nella dottrina cristiana, gli ebrei e gli altri infedeli. Nel 1562 fu fondata una Casa per donne, nel 1577 il Collegio dei neofiti, destinato a creare predicatori, ebraisti, studiosi. Nel corso del Seicento, e ancor più nel Settecento, la Casa dei Catecumeni si aprì ad accogliere forzatamente quanti avessero sia pur lontanamente manifestato un’intensione di conversione, mentre si faceva sempre più difficile il problema dei battesimi dei bambini, spesso “offerti”, cioè consegnati affinché si convertissero, alla Casa dei Catecumeni da parenti già convertiti, e non dai genitori che godevano della patria potestà. Si giunse così, soprattutto nel caso dei bambini, nonostante le proibizioni canoniche, ad usare la forza nella conversione o perlomeno ad andarvi assai vicino.

A parte la questione dei battesimi invitis parentibus, e a parte la chiusura dei Banchi del 1672, che ebbe l’effetto di impoverire fortemente la Comunità romana, i secoli del ghetto, tra il Cinque e l’Ottocento, non assistono a rotture significative nella linea della politica della Chiesa verso gli ebrei. Il clima tuttavia sembra mutare a metà del Settecento, con il crescere dei timori del papato per la secolarizzazione dilagante. La svolta può esser fatta risalire al papato di papa Lambertini, Benedetto XIV, un papa in fama di pontefice “liberale”, che però sulla questione ebraica irrigidisce ulteriormente le posizioni antiebraiche della Chiesa, e a quello del suo successore, Pio VI, papa Braschi, che emanò nel 1775 un editto che colpiva pesantemente gli ebrei del ghetto, moltiplicando i divieti e le imposizioni. Si moltiplicano, in questi anni, i casi di battesimi forzati di bambini, si riconsidera la questione dell’accusa di omicidio rituale, si inizia a vedere negli ebrei i fautori della modernità e della secolarizzazione e nella tolleranza della loro diversità, sia pur da secoli sancita dalla chiesa, un rischio di fronte all’affacciarsi della modernità. E’ il preludio alla dura polemica contro l’emancipazione che accompagnerà da parte della Chiesa gli anni della Rivoluzione francese, che concede, ricordiamolo, la piena emancipazione agli ebrei nel 1791, poi del dominio napoleonico, anch’esso accompagnato dall’abbattimento dei ghetti e dall’emancipazione degli ebrei. E’ quella che viene chiamata prima emancipazione, seguita durante la Restaurazione dalla rimessa in funzione dei ghetti e della ripresa delle disabilità imposte agli ebrei. A partire da quegli anni, mentre il dibattito sull’emancipazione ferve sia in campo ebraico che in quello non ebraico, in particolare nel Piemonte sabaudo, gli ebrei si identificano con il processo risorgimentale e con la costruzione dell’Unità italiana, partecipano ai moti del 1820-21 e del 1830-31, alla Repubblica romana, conquistando l’emancipazione con il progredire del processo unitario, fino al 1870 e alla caduta, insieme al potere temporale della Chiesa, dell’ultimo ghetto. Durissima la battaglia della Chiesa contro l’emancipazione, che era, per un lato, parte della battaglia contro la secolarizzazione e la modernità, ma era anche la presa di coscienza che l’emancipazione aveva rotto per sempre, facendo pendere la bilancia dalla parte degli ebrei, l’equilibrio secolare che condizionava, nel mondo cattolico, la presenza degli ebrei alla loro subordinazione ed inferiorità. In quanto tale, l’uguaglianza degli ebrei apparve alla Chiesa come un sovvertimento mostruoso dell’ordine religioso.

Non da tutta la Chiesa, però. Numerosi e convinti furono nel 1815 gli sforzi portati avanti dal segretario di Stato card. Consalvi contro il ristabilimento dei ghetto. Nel biennio cattolico-liberale, molte e illustri furono le voci che si pronunciarono a favore dell’Emancipazione, tanto che si può parlare di un’occasione mancata: quella della Chiesa di porsi alla guida del processo risorgimentale ma anche, insieme, quella di Pio IX di emancipare gli ebrei ed aprire il ghetto, come le sue prime misure, forse a torto, facevano pensare. Il rapporto tra emancipazione delle minoranze, e degli ebrei in particolare, e sviluppo del processo risorgimentale, è sottolineato fortemente da molti degli stessi cattolici liberali fautori dell’emancipazione ebraica. E non si trattava solo di personaggi noti come Gioberti e Lambruschini, ma di figure che talvolta escono dall’oscurità solo in questa occasione, come il canonico di Santa Maria in Trastevere a Roma, Ambrogio Ambrosoli, l’unico ad aver predicato pubblicamente a Roma nel 1848 l’emancipazione ebraica. Qualunque siano state le intenzioni di Pio IX, una prima volontà di cambiamento seguita dal timore e dalla reazione agli eventi della Repubblica Romana oppure una originaria ostilità all’emancipazione, offuscata da riforme marginali, resta il fatto che una presa di posizione favorevole all’emancipazione da parte della Chiesa di Pio IX nel 1848 avrebbe probabilmente reso diversa la storia dell’Italia e non solo quella degli ebrei d’Italia. Invece, il ghetto di Roma continuò a sopravvivere, privo ormai di mura e portoni ma non per questo meno oppressivo e degradato, fino al 1870 e alla breccia di Porta Pia. E il raggiungimento dell’emancipazione per tutti gli ebrei italiani coincise con la designazione di Roma a capitale del Regno d’Italia.

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LEMMARIO