Associazione Italiana dei Professori di Storia della Chiesa

Dizionario Storico Tematico La Chiesa in Italia
Dopo l'Unità Nazionale
Roma 2015
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Ebrei - vol. II


Autore: Anna Foa

I rapporti tra la Chiesa e gli ebrei, già peggiorati a partire dall’avanzare della secolarizzazione, nella seconda metà del Settecento, e poi dall’emancipazione concessa agli ebrei italiani da Napoleone, toccarono il loro momento peggiore con la Repubblica Romana del 1848 e poi con la fine del potere temporale dei papi e il compimento dell’Unità italiana. Un contesto in cui la Chiesa, sulla difensiva e segregata in Vaticano, vede negli ebrei i simboli della modernità, gli eredi della Rivoluzione francese e della scristianizzazione, i fautori dell’odiato progresso, della tolleranza e dell’indifferentismo religioso. Di qui, il taglio netto da parte della Chiesa di quella sorta di cordone ombelicale che aveva legato, nei secoli, Chiesa ed ebrei. “Non più figli, ma cani latranti nelle strade”, definisce gli ebrei Pio IX dopo il 1870. La polemica contro l’uguaglianza civile e politica ottenuta dagli ebrei con l’unità italiana era destinata ad inasprirsi ulteriormente sotto il pontificato di Leone XIII e a trascinarsi anche nel nuovo secolo. L’uguaglianza degli ebrei violava per la Chiesa il principio base su cui si era regolata nei secoli la loro presenza, cioè quello della subordinazione, una subordinazione che andava intesa prevalentemente in senso teologico, come subordinazione dell’errore alla verità.

Questa ostilità all’emancipazione, interpretata come l’inizio della presa del potere degli ebrei nella società, rappresenta il trait d’union tra il vecchio antigiudaismo a carattere religioso, privo di connotazioni razziali, e il nuovo antisemitismo legato all’idea del sangue e della razza. Perché il problema dominante del rapporto tra Chiesa ed ebrei era ormai quello dell’antisemitismo dilagante in gran parte d’Europa. Sarebbe riuscita la Chiesa, senza rinunciare al suo tradizionale antigiudaismo, a restarne del tutto immune? L’idea di una diversità naturale, razziale, dell’ebreo andava contro quella della conversione, che era ancora al cuore della dottrina sugli ebrei della Chiesa di Roma, e poneva una barriera al diffondersi di tesi troppo radicalmente razziste. In Italia le suggestioni del nuovo razzismo sul cattolicesimo, che pur ci furono, furono accompagnate non dalla mistica ariana, come in Germania, ma dalla ripresa e dalla riacutizzazione di antichi stereotipi della tradizione antigiudaica. Si trattava, comunque, di una rielaborazione degli antichi schemi, che rendeva l’immagine degli ebrei proposta dal mondo cattolico negli ultimi decenni dell’ Ottocento diversa da quella tradizionale e definibile più con il termine di “antisemitismo” che con quello di antigiudaismo.

Gli stereotipi antigiudaici si rinnovano, come nell’attacco al Talmud, già messo all’indice dalla Chiesa nel Cinquecento, ed ora sottoposto a rinnovate accuse. Esse partirono da un sacerdote cattolico, professore a Praga, August Rohling, che pubblicò nel 1871 un libro, L’ebreo talmudico, dove si proponeva l’idea molto “moderna” di un complotto ebraico per dominare il mondo e soprattutto dove si sosteneva che il Talmud prescriveva l’uccisione rituale di bambini cristiani. Il libro di Rohling gettò non senza ragione nel panico le comunità ebraiche dell’Est Europa, dove numerose erano le accuse di omicidio rituale. In Francia l’Ebreo talmudico veniva tradotto con una prefazione di Drumont, il leader dell’antisemitismo cattolico razzista. Quanto alla Chiesa, non solo non lo condannò, ma ne prese le distanze con ritardo, e solo dopo che un processo aveva sollevato seri dubbi sulle conoscenze talmudiche di Rohling. In Italia, nella campagna antiebraica e nella ripresa dell’antica accusa di omicidio rituale si distinsero, insieme con molta stampa cattolica locale, l’organo dei gesuiti La Civiltà Cattolica, il milanese L’Osservatore Cattolico, diretto da don Davide Albertario, e L’Osservatore Romano. La Civiltà cattolica sostenne, in una violenta campagna di articoli firmati da Padre Giuseppe Oreglia la realtà di queste accuse, facendone la storia nei secoli. E quando, nel dicembre del 1899, un gruppo di anglicani e cattolici inglesi, tra cui l’arcivescovo di Westminster, scrisse al Papa Leone XIII chiedendogli di ribadire ripubblicandola la Bolla con cui Innocenzo IV, nel 1247, aveva sostenuto l’assurdità di simile accusa, Leone XIII passò il caso al Santo Uffizio, che nei primi giorni del nuovo secolo diede una risposta negativa alla richiesta. La Chiesa non sosteneva ufficialmente la realtà dell’accusa, ma rifiutava di confutarla. Sul finire del secolo, dopo il trauma provocato dall’affaire Dreyfus, in cui la Chiesa aveva sostenuto a lungo il partito degli antidreyfusards, e mentre un sindaco cattolico e dichiaratamente antisemita, Karl Lueger, governava su Vienna, i rapporti tra Chiesa e ebrei in Italia come nel resto dell’Europa cattolica toccavano uno dei punti più bassi della loro storia.

La polemica antiebraica della Chiesa sembra attenuarsi intorno al 1903, dopo l’avvento al soglio pontificio di Pio X: la Civiltà Cattolica cessa la sua campagna antisemita, e nel 1905 lo stesso pontefice condanna i pogroms in Russia. Ma negli anni della Grande Guerra, dopo la Rivoluzione russa e la dichiarazione Balfour, l’antiebraismo divampa nuovamente nella Chiesa in forma assai radicale, volta a identificare ebraismo, bolscevismo, sionismo, massoneria. Era il cosiddetto “partito integrista”, ostile ad ogni forma di modernismo, legato alla destra radicale dell’Action française e ai cristiano-sociali austriaci, i cui più noti esponenti erano Umberto Benigni e Ernest Jouin, fra i maggiori diffusori in Europa dei “Protocolli dei savi di Sion”. Esso non rappresentava tuttavia, ormai che una parte della Chiesa, come dimostra la condanna dell’ antisemita Action française, nel 1926, da parte di Pio XI e i mutamenti di rotta di vari organi di stampa cattolici, tra cui la rivista dei gesuiti francesi Etudes. Questo cambiamento trovò il suo culmine nella Società degli Amici di Israele, nata a Roma nel 1926 su iniziativa del cardinale olandese Wilhelm von Rossum, che sosteneva una linea di netta ed aperta condanna dell’antisemitismo, pur non senza suggestioni conversionistiche. Ma la situazione in seno alla Chiesa era complessa, tanto che nel 1928, pur condannando contemporaneamente, e per la volta, l’antisemitismo, il Sant’Uffizio sciolse la Società degli Amici di Israele.

L’inizio degli anni Trenta, con l’avvento al potere del nazismo e con la nascita di uno Stato razziale, mise la Chiesa di fronte ad un’ideologia del sangue, della razza e del primato ariano lontanissima dai suoi principi. L’enciclica Mit Brennender Sorge, del 1937, pur non nominando la persecuzione antisemita, rappresentò una ferma condanna del razzismo. Ma l’idea che potesse esistere un antisemitismo moderato, spirituale ed etico, lontano dagli eccessi nazisti, era diffusa in una parte almeno del mondo cattolico come della Chiesa, e fu, secondo una parte rilevante della storiografia, responsabile della debolezza complessiva dell’atteggiamento della Chiesa di fronte al nazismo che pur percepiva non solo come antisemita ma anche come anticristiano. D’altronde, non mancarono nella Chiesa e nel mondo cattolico tentativi di conciliare cattolicesimo e razzismo antisemita. In Italia, l’esponente più importante di questa linea fu il rettore dell’Università Cattolica di Milano, Padre Agostino Gemelli, al centro, tra il 1938 e il 1939, di un tentativo fallito da parte dell’ala del fascismo più oltranzista rappresentata da Roberto Farinacci, di sottolineare le convergenze tra razzismo e cattolicesimo, o se preferiamo tra antigiudaismo e antisemitismo.

Nello stesso momento, le leggi razziste del 1938 introducevano anche in Italia l’antisemitismo di Stato e ricacciavano gli ebrei italiani in uno statuto giuridico simile a quello del periodo che aveva preceduto l’emancipazione. Di basso profilo fu la reazione della Chiesa, che si limitò a protestare pubblicamente sulle norme che violavano il concordato, cioè quelle sui matrimoni misti. Sul terreno diplomatico, ed anche sul giornale della Santa Sede, L’Osservatore Romano, la reazione fu più decisa ma ugualmente inefficace di fronte alla rigidità con cui il regime difese la svolta razzista. Nel febbraio del 1939, Pio XI moriva, e il suo segretario di Stato, Eugenio Pacelli, diveniva papa con il nome di Pio XII: Pio XI lasciava un’enciclica non ancora resa pubblica di netta condanna del razzismo, la Humani Generis unitas, che il nuovo pontefice preferì non pubblicare. Il mondo si avviava alla guerra, e la Santa Sede era preoccupata di salvaguardare al massimo la sua neutralità, di non esporre i cattolici dei territori sotto il nazismo alla persecuzione, di manovrare, come nella sua tradizione, attraverso discrete trattative diplomatiche e non di farsi espressione pubblica ed aperta di una funzione profetica, quella di denunciare il nazismo, che le avrebbe precluso ogni libertà di movimento. Furono queste le posizioni che Pio XII avrebbe continuato a mantenere nel corso della guerra: da una parte, questo permise alla Chiesa di salvare molti ebrei in pericolo, di nasconderli a Roma e altrove in Italia e in Europa in chiese e parrocchie, di impedire che la città di Roma fosse teatro diretto della guerra. Dall’altra, sono i suoi “silenzi”, termine usato per primo dallo stesso papa durante la guerra, su cui ancora la discussione resta accesissima tra quanti accusano Pio XII di non aver fatto quanto in suo potere per fermare lo sterminio degli ebrei europei e quanti invece lo difendono da queste accuse. E’ questo il contesto storiografico che fa da sfondo alla proposta di beatificazione del pontefice.

Il 16 ottobre 1943, oltre mille ebrei furono prelevati dai nazisti a Roma, “sotto le finestre” del pontefice. Ancora una volta, prevalse la linea del compromesso e della diplomazia. Dopo il 16 ottobre, si moltiplicarono le iniziative vaticane di solidarietà concreta, in cui furono direttamente coinvolte le massime personalità di Curia e di cui il pontefice non poteva non avere piena conoscenza. I conventi e le chiese si riempirono di ebrei, di partigiani, di soldati disertori, tutti nascosti. Era un momento in cui “mezza Roma nascondeva l’altra metà”. Migliaia di ebrei dovettero la salvezza a questa politica. Ma essa ebbe un prezzo alto, il silenzio politico sullo sterminio.

Sul lungo periodo, la Shoah ebbe come conseguenza una profonda trasformazione delle relazioni tra il mondo cristiano e gli ebrei. Ma anche questo cambiamento, come tanti altri in quel difficile dopoguerra, non fu immediato. Sui tempi brevi, prevalsero le vecchie concezioni, riemerse il tradizionale antigiudaismo della Chiesa, sommerso ma non cancellato dall’antisemitismo razziale. Non si trattava di residui del passato, ma di una linea politica e teologica precisa, che veniva autorevolmente riaffermata. Erano posizioni che il mondo cattolico non avrebbe certo abbandonato subito, nemmeno quando le dimensioni immani di quello che era avvenuto sarebbero divenute chiare. Sono anni, questi, in cui tra i cattolici sono poche le voci che si alzano ad ammonire sui pericoli della tradizione dell’odio e a mostrare l’urgenza di sostituirla con una nuova visione dei rapporti con gli ebrei. La necessità per la Chiesa, di sbarazzarsi della vecchia teologia antigiudaica, e di iniziare un’opera di insegnamento del rispetto che sostituisse quell’insegnamento del disprezzo di cui si erano viste le terribili conseguenze, fu affermata già nel 1947 a Seelisberg, in Svizzera, in una conferenza internazionale sull’antisemitismo organizzata da personalità ebree e cristiane di varie confessioni. La conferenza, prendendo atto dell’esplosione di antisemitismo che aveva condotto alla persecuzione e allo sterminio milioni di ebrei, pubblicò un appello rivolto alle Chiese cristiane perché evitassero di formulare nell’insegnamento e nella predicazione qualsiasi ostilità nei confronti degli ebrei. Il principale ispiratore delle tesi di Seelisberg fu lo storico ebreo francese Jules Isaac, che nel 1949 presentò a Pio XII, in un’udienza pubblica durata pochi minuti, l’appello finale della conferenza, noto come “I dieci punti di Seelisberg”, senza che ne seguisse alcun effetto. Nel 1950, Isaac partecipò alla fondazione dell’Amicizia ebraico-cristiana in Italia: iniziava così il dialogo fra cristianesimo ed ebraismo, un dialogo che preparò e precedette il Concilio e che ne venne poi fortemente stimolato e incoraggiato. Nel 1960, Isaac incontrò Giovanni XXIII, che lo mise in contatto con il cardinal Bea. Da questo incontro, sarebbe nata l’idea di portare nella discussione conciliare il rapporto tra Chiesa ed ebrei.

Il documento fondamentale con cui venivano inaugurate le linee di una nuova teologia cattolica dell’ebraismo fu la dichiarazione sulle relazioni della Chiesa con le religioni non cristiane Nostra Aetate, emanata dal Concilio Vaticano II il 28 ottobre 1965, a Concilio quasi ultimato. Due sono sostanzialmente le linee di trasformazione del rapporto con l’ebraismo su cui si muove nel suo importante paragrafo 4, che è quello dedicato agli ebrei: il primo, il più noto, e anche quello che ha suscitato la maggiore opposizione durante i lavori del Concilio, è la cancellazione della colpa collettiva del deicidio, che va nella direzione di togliere fondamento alle argomentazioni su cui era cresciuta la tradizione antigiudaica. Ma le formulazioni della dichiarazione sono assai più ampie dal punto di vista teologico, come rivela l’incipit del testo: “Scrutando il mistero della Chiesa, il sacro concilio ricorda il vincolo con cui il popolo del Nuovo testamento è spiritualmente legato alla stirpe di Abramo”. L’adozione di un punto di vista di questo genere rappresentava una forte rottura nella immagine tradizionale della Chiesa degli ebrei e del loro ruolo nell’economia della salvezza e apriva molte possibilità di cambiamento nella teologia cristiana dell’ebraismo, anche se non sgombrava completamente il campo, a favore dell’idea di un’irrevocabilità dell’elezione degli ebrei, dell’antica teologia della sostituzione, secondo cui la Chiesa aveva sostituito Israele nell’elezione. Ma il ruolo particolare riconosciuto all’ebraismo lasciava aperta la possibilità di parlare di una sola alleanza, di cui il cristianesimo avrebbe rappresentato non una rottura ma un approfondimento,

La questione su cui il dibattito iniziato con il Concilio ha portato a radicali cambiamenti è quella dell’antigiudaismo. La sua condanna è stata netta, ed altrettanto nettamente è stato riconosciuto il suo contributo a creare il clima di ostilità antiebraica che avrebbe consentito la Shoah. Una linea di autocritica e di richiesta di perdono che avrebbe trovato il suo compimento prima nella visita di Giovanni Paolo II nella Sinagoga romana nel 1986, che sarà seguita nel 2010 da quella del suo successore Benedetto XVI, e nel documento del 1998 Noi ricordiamo: una riflessione sulla Shoah, emanato dalla Commissione per i rapporti religiosi con l’ebraismo: “Il fatto che la Shoah abbia avuto luogo in Europa, cioè in paesi di lunga civilizzazione cristiana, pone la questione della relazione tra la persecuzione nazista e gli atteggiamenti dei cristiani, lungo i secoli, nei confronti degli ebrei”. Su questa profonda revisione attuata dal Concilio si sarebbe innestata una vasta e continuativa opera di catechesi, di propaganda e di dialogo. Un dialogo sentito, non privo di momenti difficili e di tensioni, ma vivo e tuttora in atto.

Fonti e Bibl. essenziale

G. Miccoli, Santa Sede, questione ebraica e antisemitismo, in C. Vivanti (ed.), Storia d’Italia, Annali 11,Gli ebrei in Italia, vol. II: Dall’emancipazione a oggi, Einaudi, Torino 1997; G. Miccoli, I dilemmi e i silenzi di Pio XII. Vaticano, Seconda guerra mondiale e Shoah, Rizzoli, Milano 2000; R. Taradel – B. Raggi, La segregazione amichevole. «La Civiltà Cattolica» e la questione ebraica 1850-1945, Roma 2000; A. Tornielli, Pio XII. Il Papa degli ebrei, Piemme, Milano, 2001; R. Moro, La Chiesa e lo sterminio degli ebrei, Il Mulino, Bologna.2002; N.J. Hofmann, J. Sievers, M. Mottolese (edd.), Chiesa ed ebraismo oggi. Percorsi fatti, questioni aperte, Università Gregoriana, Roma 2005; V. De Cesaris, Pro judaeis. Il filogiudaismo cattolico in Italia (1789-1938), Guerini e associati, Roma 2006; N. Lamdan – A. Melloni (edd.), Nostra Aetate: Origins, Promulgation, Impact on Jewish-Catholic Relations, Lit Verlag, Berlin 2007; A. Riccardi, L’inverno più lungo. 1943-1944:Pio XII, gli ebrei e i nazisti a Roma, Laterza, Bari-Roma 2008; A. Foa, Diaspora. Storia degli ebrei nel Novecento, Laterza, Bari-Roma 2009; A. Foa, Gemelli e l’antisemitismo, in M. Bocci (ed.), Agostino Gemelli e il suo tempo, Vita e Pensiero ed., Milano 2009; G.M. Vian (ed.), In difesa di Pio XII. Le ragioni della storia, Marsilio, Venezia, 2009; V. De Cesaris, Vaticano, fascismo e questione razziale, Guerini e associati, Roma 2010.


LEMMARIO




Ecclesiologia - vol. I


Autore: Dario Vitali

Questioni preliminari. Due questioni preliminari: a) se si possa parlare, nello specifico, di un’ecclesiologia italiana prima dell’unità d’Italia; b) dove fissare, in termini più generali, il terminus a quo per parlare di tale ecclesiologia.

Per quanto riguarda il punto a), è del tutto evidente che l’Italia prima dello Stato unitario, lungi dall’essere una mera “espressione geografica”, ha costituito un ambiente con tratti di grande omogeneità fin dalle origini cristiane. Pur nel mutare delle situazioni storiche e politiche, è sempre stato chiaro cosa fosse l’Italia e quali i suoi confini naturali, trattandosi di una penisola definita al nord dalla catena montuosa delle Alpi. Vale qui la distinzione tra stato e nazione: se l’Italia non avesse avuto la coscienza di essere nazione, per comunanza di lingua, cultura e storia, non sarebbe stata possibile la formazione dello stato nazionale.

Naturalmente, non vanno esagerati gli elementi comuni. La frammentazione della penisola in diversi stati ha radicalizzato le differenze nella popolazione, costituita da almeno tre ceppi: greco al sud, latino al centro, celtico al nord. Si tratta di tre mondi che hanno caratteristiche proprie, anche in ragione di configurazioni territoriali e vicissitudini storiche divaricanti, che hanno indebolito l’originaria unità. Roma, prima con il patrimonio di San Pietro e poi con lo stato pontificio, occupa quasi tutta l’Italia centrale, ad eccezione della Toscana, che, dopo l’età dei comuni e delle signorie, si configurò in granducato. Il sud, segnato da una lunga dominazione bizantina, e poi da una forte presenza araba, soprattutto in Sicilia, divenne un regno unitario con i Normanni e, pur nel variare delle corone, conservò stabilmente tale assetto, che finì per conferire un’unità territoriale e politica ben definita da Ruggero II di Sicilia a Francesco II di Borbone, ultimo re di Napoli. Il nord, più facilmente esposto alle invasioni d’Oltralpe, conobbe alterne vicende, legate alle trasformazioni in atto ai confini dell’impero romano. Così si passò da un’Italia longobarda a un’Italia franca, a un’Italia dei Comuni, a un’Italia delle signorie. Le continue lotte, alimentate dalla Francia e dall’impero che avevano mire egemoniche sull’Italia, portarono alla creazione di tre poli maggiori, con alcuni territori satelliti: il ducato dei Savoia che assorbì anche la repubblica di Genova, con la creazione del regno di Sardegna; il ducato di Milano; la repubblica di Venezia. Dopo la conquista napoleonica e il congresso di Vienna (1815), l’Italia del Nord fu divisa in due grandi territori: il Regno di Sardegna, sotto i Savoia, e il Regno lombardo-veneto, sotto il diretto controllo dell’Austria.

Tali differenze, però, non bastarono a spezzare un sentimento di unità nazionale, che portò alla formazione dello stato unitario, né riuscirono a disperdere un patrimonio comune, legato soprattutto all’identità cattolica. Si tratta di elementi non marginali nella determinazione di un’identità, e quindi di una visione particolare di Chiesa.

Per quanto riguarda il punto b), convenzionalmente si fissa l’inizio della riflessione ecclesiologica con il De regimine christiano di Jacopo da Viterbo (1302), trattandosi del primo testo dedicato interamente al tema della Chiesa. A partire da quel momento diventa usuale in teologia il Tractatus de Ecclesia. I contenuti e il metodo del trattato dipendono dal particolare sviluppo della storia della Chiesa, che dalla Riforma gregoriana in poi ha conosciuto una polarizzazione intorno alla figura e alle funzioni del papa: affermate nel Dictatus papae di Gregorio VII (1075-1085), dispiegate in tutta la loro forza nel pontificato di Innocenzo III (1198-1216), trovano una strenua difesa nella bolla Unam sanctam di Bonifacio VIII (1294-1303). Più che un trattato teologico, il de Ecclesia è una sequenza di temi apologetici, argomentati più con il diritto canonico che con la sacra Scrittura, che si arricchiscono con le vicende drammatiche che affliggeranno la Chiesa: il conciliarismo come risposta alla decadenza del papato; la questione della vera Chiesa, in risposta alle contestazioni della Riforma; l’idea della Chiesa come societas perfecta, contro le pretese degli stati moderni di interferire sull’organizzazione esterna della Chiesa; l’affermazione del Magistero infallibile del papa contro il relativismo razionalista. Il punto di arrivo fu il tractatus de Ecclesia dell’apologetica pre-conciliare, funzionale alla dimostrazione del modello piramidale della Chiesa.

Tuttavia, della Chiesa si è obiettivamente parlato anche prima di questa letteratura a carattere prevalentemente giuridico. Tanto i Padri quanto i teologi medioevali hanno pagine illuminanti sulla Chiesa, che ne fondano la comprensione teologica: il concilio Vaticano II riprenderà con abbondanza dalle loro pagine per sviluppare la visione misterica della Chiesa proposta in particolare dalla Lumen Gentium. Anche per questa ragione, è il caso di ripercorrere tutta la storia della Chiesa, riascoltando le voci sulla Chiesa dalla prima evangelizzazione della penisola alla proclamazione del Regno d’Italia, il 17 marzo 1961.

I padri della Chiesa. L’Italia imperiale ha conosciuto protagonisti di primo piano del pensiero cristiano, che hanno contribuito alla formulazione della dottrina sulla Chiesa. Non si tratta, naturalmente, di trattazioni ecclesiologiche; si può parlare di pagine, in un certo senso di frammenti, che tuttavia hanno una grande importanza sia sul piano teologico, inquadrando la Chiesa nel piano divino della salvezza, sia sul piano pratico, con testimonianza dello sviluppo delle sue istituzioni.

Il centro che più ha espresso figure di rilievo è naturalmente Roma, per essere, come diceva Ignazio di Antiochia, la «Chiesa che presiede nell’amore». Alcuni dei suoi vescovi, successori sulla cattedra di Pietro e Paolo, hanno segnato un progresso sensibile nella dottrina sulla Chiesa. In termini comprensivi si possono ricordare i due nomi che aprono e chiudono il periodo patristico: Clemente romano (†97?) e Gregorio Magno (540-604).

Il primo è autore di una famosa lettera alla comunità di Corinto, nella quale, riecheggiando le lettere di Paolo a quella Chiesa, ammonisce a superare le divisioni e a sottomettersi ai presbiteri che la guidano. Da rimarcare soprattutto l’esordio, in cui Clemente scrive a nome della «Chiesa di Dio che è in Roma alla Chiesa di Dio che è in Corinto». La lettera mostra quindi la sollecitudine di Roma per le altre Chiese, anche se pare eccessivo leggere in questo un’attestazione dell’esercizio del primato. La Chiesa è vista come porzione che Dio ha eletto per sé, un popolo scelto tra le genti, applicando alla Chiesa quanto si dice di Israele come popolo di Dio (cfr 29,1); la Chiesa è ancora vista come il corpo di Cristo, nel quale le membra hanno funzioni diverse (cfr 37). La gerarchia è composta da presbiteri (che sono vigilanti/vescovi) e da diaconi e di istituzione divina (44,1-2). Gregorio Magno fu grande sia nell’azione pastorale che nella riflessione teologica. Lo studio della prima attraverso l’imponente carteggio mostrerebbe non solo uno sviluppo nell’esercizio del primato, con una sollecitudine per tutte le Chiese, ma anche una spinta verso una organizzazione meno frammentata della Chiesa; dal punto di vista della dottrina, si deve ricordare almeno la Regula pastoralis, che ha per oggetto i doveri dei pastori, tra i quali è particolarmente sottolineata la predicazione. In mezzo la lunga lista dei vescovi che si sono succeduti sulla cattedra di Pietro, contribuendo allo sviluppo del primato petrino: su tutti Leone Magno (440-461), da ricordare non solo per la Epistula ad Flavianum sulla dottrina cristologica, ma per la strenua affermazione dei diritti del papa: «Per mezzo di Pietro, beato principe degli Apostoli, la Chiesa romana possiede il principatus sopra tutte le altre Chiese della terra» (Ep 65,2).

Ma la Chiesa di Roma ha espresso anche altri autori significativi, che hanno avuto un ruolo rilevante nelle vicende di quella Chiesa; pur nella difficoltà di attribuzione, va ricordata almeno La Tradizione apostolica, scritto di inizio III secolo che sarebbe espressione della Chiesa di Roma, in cui l’autore espone «l’essenza della tradizione su cui la Chiesa deve basarsi» (§1). Dalle istruzioni a volte minuziose, emerge il quadro di una Chiesa ancora ricca di funzioni (vescovo, presbiteri, diaconi, ma anche lettori, confessori, vedove, vergini, membri della comunità che esercitavano il dono delle guarigioni) attenta al cammino di iniziazione dei catecumeni.

Nella penisola durante il periodo dei Padri hanno agito altre figure di grande rilievo, come Eusebio di Vercelli, Rufino di Concordia, Gaudenzio di Brescia, Zeno di Verona, Massimo di Torino; per quanto non nativi della penisola, si potrebbero rammentare anche Paolino di Nola e Girolamo. Su tutti spicca la figura di Ambrogio, vescovo di Milano (334-397). Della produzione vastissima di questo Padre della Chiesa si possono ricordare, per valore ecclesiologico, la Explanatio in Symboli, ma anche i tre libri del De officiis ministrorum, il De mysteriis e il più ampio De sacramentis in sei libri, da cui emerge il profilo della Chiesa di Milano, con le sue istituzioni e la sua prassi, soprattutto liturgica.

Sul finire dell’epoca patristica vanno ricordati almeno tre autori che costituiscono, a diverso titolo, un vero e proprio ponte verso l’epoca successiva. Anzitutto Benedetto da Norcia (480-547?), padre del monachesimo occidentale: la Regula sancti Benedicti ha avuto un tale influsso sulla vita ecclesiale da doverla indicare tra i testi che più hanno segnato la vita della Chiesa. Gli altri due, Severino Boezio (480-524) e Cassiodoro (490ca.- 583ca.), sono testimoni e protagonisti di quel trapasso dal mondo classico, dopo la rovina dell’Impero romano d’Occidente, a un nuovo ordine che faticosamente stava imponendosi. Il primo è famoso soprattutto per la Philosophiae consolatio,il secondo per la Historia gothica, ma anche per le Institutiones divinarum et saecularium litterarum, manuale per i monaci di Vivarium, monastero da lui fondato nei pressi di Squillace, che divenne modello dei monasteri come centri non solo di fede, ma anche di cultura.

Il Medioevo. Difficile ricostruire un panorama relativo alla penisola durante il Medioevo: il Sacro Romano impero non ha più il suo centro di gravità a Roma, a Ravenna o a Milano, ma ad Aquisgrana. Si possono ricordare in questo periodo Paolino di Aquileia (730-802), Attone di Vercelli (885-961), Raterio di Verona (890-974), nelle cui opere si delinea il tema della decadenza ecclesiastica a causa delle ingerenze del potere laico, ma anche la dura condanna del clero, accusato di simonia. Né si poteva andare oltre questi rudimenti, se si pensa al basso livello di conoscenze di questo periodo.

Una stagione più feconda per l’ecclesiologia è invece la Riforma gregoriana: un movimento che, a partire soprattutto dai monasteri, si diffonde come esigenza di moralizzazione di tutto il corpo ecclesiale. Si possono distinguere due periodi di questa azione riformatrice: prima e dopo l’elezione al soglio pontificio di Ildebrando di Soana con il nome di Gregorio VII (1073-1085). All’interno dell’ampio materiale documentario di questo papa spicca il cosiddetto Dictatus papae, un insieme di 27 sentenze che affermano il primato del vescovo di Roma sulla Chiesa, condannando chi si opponga, sia esso imperatore o vescovo. La durezza di queste affermazioni, che gli avversari di Gregorio bollavano come contrarie alla Tradizione, ha condizionato il giudizio sull’ecclesiologia del periodo, ritenuta di scarso interesse perché declinata sui registri giuridici del diritto.

In realtà, è possibile cogliere all’interno del vasto movimento della riforma gregoriana una linea di pensiero che afferisce proprio all’ecclesiologia, pensata in termini mistici più che giuridici. Due nomi su tutti: Pier Damiani (1007-1072) e Bruno di Segni (1049-1123). Naturalmente, esistono anche altri grandi autori, nativi della penisola, che non hanno trattato però i temi ecclesiologici in termini rilevanti: il caso di Lanfranco di Pavia (1010ca.-1089) e quello ancora più famoso di Anselmo di Aosta (1033/34-1109) dimostrano come non basti il criterio geografico per specificare una teologia: l’unità culturale e religiosa dell’Europa rendeva secondario il luogo di nascita, essendo possibile che un uomo, da Pavia o da Aosta, potesse diventare abate del monastero del Bec, in Normandia, e poi arcivescovo di Canterbury.

Nel primo periodo della riforma, che va dal pontificato di Leone IX (Brunone di Toul: 1049-1054) alla elezione di Gregorio VII al soglio pontificio (1073), la figura di spicco è quella di Pier Damiani. Egli si scaglia contro il clero simoniaco, domandando soprattutto a Enrico III, il christianissumus rex, un intervento di riforma che allontani d’autorità i lupi dalla Chiesa. La sua ecclesiologia è fondata soprattutto sulle immagini bibliche del corpo e della sposa di Cristo. Tale è la sua idea dell’unità, che nel famoso opuscolo Dominus vobiscum, Pier Damiani forza l’immagine paolina del corpo, affermando che la Chiesa è «et in pluribus una et in singulis per mysterium tota» (Lettera 28,1); «la santa Chiesa è al tempo stesso una in tutti e tutta in ognuno [in omnibus una et in singulis tota]; semplice nella pluralità per l’unità della fede, molteplice nei singoli mediante il vincolo della carità e la varietà dei carismi: quia enim ex uno omnes, omnes unum» (Lettera 28,11).

Medesima insistenza alla Chiesa sposa di Cristo si trova in Bruno di Asti, vescovo di Segni, abate di Montecassino, protagonista della Riforma che entra in scena nella disputa con Berengario, nel 1079: uomo di Gregorio VII e poi di Urbano II, egli commenta in chiave ecclesiologica il Cantico dei Cantici identificando la sposa con la Chiesa (cfr PL 164, 1233-1288). Nel suo trattato teologico maggiore, le Sententiae, dei sei libri dedica i primi due alla Chiesa, vista nelle sue figure (Libro I: De figuris Ecclesiae: il paradiso, l’arca di Noè, il tabernacolo dell’Alleanza, il tempio di Salomone, la donna forte, la città santa di Gerusalemme, le basiliche, i vangeli) e nei suoi ornamenti, i gioielli della Sposa (Libro II: De ornamentis Ecclesiae: la fede, la speranza, la carità, le virtù cardinali, l’umiltà, la misericordia, la pace, la pazienza, la castità, l’obbedienza, l’astinenza); anche il libro può essere inteso in una prospettiva ecclesiologica, perché tratta – si direbbe oggi – del Regno di Dio a cui la Chiesa è destinata: il mondo nuovo, i cieli nuovi, le nubi, i monti, i fiumi nuovi (cfr PL 165, 875-974).

Questo trattato dimostra come la Chiesa fosse argomento ben presente agli autori medioevali anche prima della data convenzionale del 1302, quando Jacopo da Viterbo scrive il suo De regimine christiano; e che, peraltro, la trattazione fosse più teologica che giuridica. L’approccio teologico fu mantenuto dai grandi Scolastici, benché il Decretum Gratiani (la famosa Concordantia discordantium canonum) che il grande canonista compose intorno al 1140, fosse uno dei testi più letti e applicati del tempo. Il tema della Chiesa, pur non conoscendo una trattazione specifica, riveste in Tommaso d’Aquino e Bonaventura di Bagnoregio un’importanza decisiva. Del primo basta ricordare la collocazione strategica del tema nella struttura della Summa Theologiae: prima di dedicarsi alla trattazione dei sacramenti, nella tertia pars l’Aquinate conclude la sezione cristologica con la quaestio 8 sulla gratia Christi secundum quod est caput Ecclesiae. Trova qui il suo punto di appoggio l’idea della gratia capitis, che costituisce il criterio fondamentale per spiegare teologicamente la vita della Chiesa e delle sue membra. Né ha particolare valore dire che si tratta di una sola questio: la sua collocazione è di tale importanza che, senza questo passaggio, tutta la tertia pars perderebbe la sua giustificazione teologica. Anche le pagine di Bonaventura sulla Chiesa, per quanto ispirate a cautela per il problema della presenza degli Spirituali nell’ordine francescano, parla della Chiesa come il corpo di Cristo, la convocatio fidelium che lo Spirito santifica, la sancta mater Ecclesia per Spiritum sanctificata (Collationes de septem donis Spiritus Sancti,3,10).

Il basso Medioevo. I riferimenti piuttosto laconici di Tommaso d’Aquino e Bonaventura alla Chiesa potrebbero dipendere in parte anche dall’assenza del tema dai IV libri Sententiarum di Pietro Lombardo (1100 ca.-1160, originario della Lomellina, Magister per antonomasia a Parigi), articolati sulla sequenza: Dio (I), creazione-peccato (II), Incarnazione-redenzione (III). sacramenti e compimento escatologico (IV). Ma la cautela era imposta anche dal diffondersi nella Chiesa delle teorie di Gioacchino da Fiore (1125 ca.-1202). L’abate florense, nelle sue opere – su tutte l’Expositio in Apocalypsim e il Liber figurarum – aveva immaginato la storia divisa in tre età: quella del Padre, corrispondente all’Antico Testamento, alla Legge mosaica e alla sinagoga; quella del Figlio, corrispondente al Nuovo Testamento, al Vangelo e alla Ecclesia affidata a Pietro; quella dello Spirito, attesa come imminente, guidata da Giovanni, che supera e compie le altre due nella Ecclesia spiritualis, ricolma dello Spirito e dei suoi doni.

Quanto questa teologia della storia diventerà corrosiva, lo si vedrà da subito, quando i movimenti spirituali radicalizzeranno la contrapposizione tra Ecclesia spiritualis e Ecclesia carnalis, che alla fine del XIII sec. era identificata tout court con il papato, soprattutto per le vicende che accompagneranno Celestino V (1294) e Bonifacio VIII (1294-1303). La cattività avignonese parve una conferma di questa corruzione della Chiesa gerarchica, in particolare del papato, con Roma paragonata a Babilonia. Il corpo ecclesiale fu attraversato da una frattura insanabile. In Italia la contrapposizione tra Chiesa carnale e spirituale fu alimentata soprattutto dagli Spirituali, i quali, nel nome dell’originario ideale francescano di povertà, portarono al centro della discussione teologica la questione della povertà di Cristo, che doveva tradursi nella necessaria povertà della Chiesa. La loro contestazione riprendeva le teorie gioachimite rilette da Pietro Giovanni Olivi (1248 ca.-1298), sull’imminente venuta dell’Anticristo, identificato con il papa stesso. Da ricordare soprattutto Ubertino da Casale (1259-1328) e Angelo Clareno (? -1337).

Fino a quale profondità della coscienza ecclesiale fosse arrivata la frattura lo si può cogliere nella Divina Commedia di Dante, non solo per i giudizi su Celestino V (1294) e Bonifacio VIII (1294-1303), ma per la sua visione della Chiesa che emerge soprattutto nei tratti femminili di Piccarda, Beatrice, soprattutto di Maria. Peraltro, in quel contesto la realtà ha davvero superato l’immaginazione del poeta, perché nei secoli XIII-XIV trova feconda espressione una «Chiesa al femminile» che, soprattutto nell’Italia centrale, vedrà protagoniste donne di statura eccezionale, illetterate eppure capaci di un pensiero profondo su Dio, sull’uomo, sulla Chiesa a partire dalle loro esperienze mistiche: Margherita da Cortona (1247-1297), Chiara da Montefalco (1268-1308), Angela da Foligno (1248-1309), Caterina da Siena (1347-1380), per ricordare solo le più grandi.

Una situazione del genere ha favorito lo sviluppo dell’ecclesiologia in chiave apologetica, che difende l’istituzione ecclesiastica sia ad intra, contro gli attacchi dei movimenti pauperistici, sia ad extra, contro le insofferenze sempre più evidenti di re e principi contro la teocrazia papale. Il manifesto di questi nuovi orientamenti è il Defensor pacis di Marsilio da Padova (1280-1342) che teorizza una rigida distinzione tra potere civile e spirituale, attribuendo alla Chiesa il solo compito di annunciare il Regno celeste, e attribuendo allo stato il potere di esercitare ogni potere per il bene della società. È in tale contesto che vede la luce tutta una serie di testi ecclesiologici a difesa delle prerogative del papa, prodotti soprattutto in ambiente agostiniano. L’iniziatore è Egidio Romano (1234-1316), il quale nel De ecclesiastica potestate sviluppa l’idea della plenitudo potestatis del papa, tradotta nella logica del regnum Christi, di cui il papa è vicario universale. A lui si possono associare, in una vera e propria scuola, Jacopo da Viterbo (1255-1307 ca.), famoso per il suo De regimine christiano, indicato convenzionalmente come il primo trattato di ecclesiologia, e Agostino Trionfo (1243-1328), autore di una Summa de potestate ecclesiastica, che sviluppa ulteriormente la plenitudo potestatis del papa in chiave di giurisdizione universale, nella linea della bolla Unam sanctam di Bonifacio VIII.

La logica della contrapposizione spiega anche la stagione del conciliarismo, conseguente allo scisma d’Occidente (1378-1417), che aveva gettato la Chiesa in una divisione istituzionale, con il corpo ecclesiale legato a due e poi a tre obbedienze prima della ricomposizione al concilio di Costanza (1413-1418). La rivendicazione dell’autorità suprema attribuita al concilio e non al papa nasce dall’affermazione che la Chiesa è la universitas fidelium, rappresentata nel concilio, che ha anche il potere di condannare e deporre un papa indegno o a fide devius. Tra i tanti che sostennero questa posizione soprattutto in Francia (Pierre d’Ailly e Jean Gerson in particolare) e Germania (su tutti, Nicola di Cusa), si possono ricordare anche autori italiani che contribuirono allo sviluppo delle idee, in particolare Francesco Zabarella (1360-1417) che difese il primato del papa sulla Chiesa e sul concilio.

Dalla Riforma al concilio Vaticano I. La ricomposizione dello scisma d’Occidente non diede soluzione alla drammatica frattura tra Chiesa istituzionale e Chiese spirituale. Le condanne di Hus e Wyclif a Costanza inasprirono il risentimento contro la Chiesa gerarchica ed ebbero come esito di alimentare la disaffezione verso Roma, accusata di essere il centro e la causa della decadenza della Chiesa, soprattutto per tre piaghe del tempo: il nepotismo papale, la vessazione fiscale, la vendita delle indulgenze. La Riforma protestante può essere considerata il punto di non ritorno di questo scontro, che radicalizza l’alternativa tra Chiesa visibile e invisibile, tra Chiesa istituzionale e Chiesa spirituale.

Anche in Italia non mancarono casi di contestazione: il più famoso è senz’altro quello di Savonarola (1462-1498), fustigatore di costumi nella Firenze dei Medici, messo al rogo per ragioni più politiche che dottrinali. Ma l’idea di riforma assunse nella penisola forme più composte, che videro protagonisti movimenti di rinnovamento della vita cristiana – su tutti, quello del Divino Amore – ma anche gli ordini religiosi: sia i grandi ordini – camaldolesi, domenicani, francescani, agostiniani, carmelitani – con le riforme proposte dalle congregazioni dell’Osservanza, sia i nuovi ordini – gesuiti, cappuccini, teatini, barnabiti, somaschi, oratoriani, chierici della Madre di Dio – che svolgeranno un’azione di profondo rinnovamento del corpo ecclesiale. Non si può parlare, però, in questo periodo, di uno sviluppo dell’ecclesiologia, e di autori che offrano contributi significativi. D’altronde, lo stesso concilio di Trento (1545-1563), che affronta molte questioni dogmatiche e disciplinari, preferì non entrare sul terreno della disputa ecclesiologica.

Solo dopo il concilio diventa centrale nella riflessione teologica la questione della «vera Chiesa»: accanto ai grandi studi di storia della Chiesa, condotti soprattutto da Cesare Baronio (1538-1607) e Paolo Sarpi (1552-1623), si sviluppa una linea ecclesiologica che ha in Roberto Bellarmino (1542-1621) il principale teorico. Contro la tesi della Chiesa invisibile della Riforma, secondo cui solo lo Spirito conosce i suoi, il magister controversiarum, difende la natura visibile, istituzionale e gerarchica della “vera” Chiesa di Cristo, identificata con «un ceto di uomini unito dalla professione della medesima fede, dalla comunione degli stessi sacramenti, sotto la guida dei legittimi pastori, in particolare del Romano Pontefice, vicario di Cristo» (De Controversiis III,3).

Nei secoli successivi la teologia non farà altro che ripetere, nel mutare dei contesti socio-culturali, le affermazioni bellarminiane. D’altronde, la controversistica post-tridentina tenderà a strutturarsi secondo schemi consolidati, che insistono sulle medesime argomentazioni, dovunque vengano formulate, se in Francia, in Spagna, in Germania o in Italia. Lo si vede, ad esempio, nel periodo dell’Ancien régime, quando lo stato tende a limitare la giurisdizione della Santa Sede sulla Chiesa francese. La diffusione del gallicanesimo in tutta Europa, con le varianti del febronianesimo, del giuseppinismo, del Kulturkampf, porta alla polarizzazione dell’ecclesiologia sulle prerogative del Sommo Pontefice. Anche in Italia si registrano posizioni a favore del gallicanesimo, come quella di Pietro Tamburini (1737-1827) che contesta l’infallibilità del papa; ma in genere le posizioni sono piuttosto orientate al montanismo, sia nel campo dell’apologetica, ad esempio con Pio Brunone Lanteri (1759-1830), sia nel campo del diritto, ad esempio con Mauro Alberto Cappellari (1765-1846) e il suo Trionfo della Santa Sede e della Chiesa contro gli assalti dei novatori, combattuti e respinti con le loro stesse armi (Venezia 1799).

L’ecclesiologia in genere si attesterà sullo schema della societas perfecta: rispetto alle società civili, la Chiesa è superiore per la sua legge (la Rivelazione), per i beni che comunica ai suoi sudditi (i sacramenti), per la sua forma di governo (la gerarchia, in particolare il papato, istituito da Cristo stesso). Questo schema si può ritrovare nel fondatore della Scuola Romana, Giovanni Perrone (1794-1876), teologo di fiducia di Pio IX, il quale propone nelle sue Praelectione Theologicae, 1835-1842, un’apologetica centrata sulla dimensione istituzionale della Chiesa. Da questa impostazione si distacca profondamente un altro rappresentante della Scuola Romana, Carlo Passaglia (1812-1887), il quale sviluppò in modo originale nel suo De Ecclesia, 1853-1856, le tesi della Scuola di Tubinga, con una proposta ecclesiologica legata all’immagine della Chiesa-corpo di Cristo, con una forte caratterizzazione pneumatologica.

Non sarebbe completo il quadro di una storia dell’ecclesiologia in Italia prima dell’unità se non si menzionasse Antonio Rosmini Serbati (1797-1855), uno dei più grandi ingegni che il pensiero cristiano abbia avuto. Nell’opera Delle cinque piaghe della Chiesa, 1847, che suscitò scalpore e fu messa all’Indice, stigmatizza lo stato in cui versa la Chiesa a causa della divisione del popolo dal clero nel culto pubblico, della insufficiente preparazione del clero, della disunione dei vescovi, della nomina dei vescovi abbandonata al potere laico, della servitù dei beni ecclesiastici. Ma, più in positivo, nelle sue opere di antropologia soprannaturale, egli sviluppa una teologia della grazia fondata sull’azione dello Spirito, principio di unità e santificazione della Chiesa.

Conclusioni. Il lungo excursus che copre quasi due millenni di storia dell’Italia non ha permesso di approfondire le dottrine ecclesiologiche dei tanti autori menzionati. Gli accenni al loro pensiero bastano però a disegnare uno sviluppo interessante delle idee ecclesiologiche, che offrono un criterio interessante anche per l’interpretazione delle vicende storiche che hanno riguardato l’Italia nei due millenni di cristianesimo.

Non si può parlare naturalmente di ecclesiologia italiana: troppo frammentata è stata la storia della penisola per immaginare uno sviluppo unitario delle idee. L’elemento di unità e di continuità sembra dato unicamente dalla presenza sul territorio italiano di Roma, e quindi del papa, con tutto il carico di questioni che ha accompagnato lo sviluppo della sua funzione universale. A ben vedere, questa presenza funziona da freno e stimolo insieme per un’ecclesiologia che ha dovuto misurarsi via via con gli sviluppi di una funzione che giunge alla più solenne affermazione di sé in coincidenza con la formazione dello stato unitario e la proclamazione di Roma come capitale del Regno d’Italia.

La galleria degli autori che hanno impresso una spinta significativa alla riflessione ecclesiologica è di tutto rispetto: l’antichità soprattutto con Ambrogio e Gregorio Magno; il Medioevo con Per Damiani e Bruno di Segni, con Tommaso e Bonaventura, e poi l’inizio dei trattati di ecclesiologia, con la scuola agostiniana, ma anche le visioni di Gioacchino da Fiore e le provocazioni degli Spirituali; dopo il concilio di Trento, l’ecclesiologia di Roberto Bellarmino e poi quella della Scuola romana, ma anche la visione ecclesiologica di Rosmini. Si tratta di autori che hanno affondato le loro radici nel vissuto di una Chiesa viva, per quanto attraversata da situazioni drammatiche, spesso causate o aggravate da chi in verità doveva risolverle. Soprattutto fino al Medioevo, quando l’ecclesiologia era espressione di un vissuto e non giustificazione teorica dell’istituzione e delle sue strutture gerarchiche, si coglie una circolarità profonda tra esperienza e interpretazione, in cui le vicende storiche certamente orientano a una determinata comprensione della Chiesa, ma questa, a sua volta, orienta le scelte concrete della Chiesa nella storia. In tale ottica, il quadro dell’ecclesiologia in Italia dalle origini del cristianesimo fino alla formazione dello stato unitario costituisce un contributo non marginale alla comprensione della storia della Chiesa in Italia ma anche dell’Italia stessa.

Fonti e Bibl. essenziale

Non è possibile presentare un repertorio bibliografico per ogni autore. Per una ricostruzione degli sviluppi dell’ecclesiologia in Italia, è il caso di consultare dizionari oppure opere di storia della teologia. Accanto al Dizionario biografico degli Italiani, o alla Enciclopedia biografica universale, si possono consultare utilmente strumenti come Lexicon. Dizionario dei teologi, Casale M. (Al) 1998, o opere di storia della teologia come A. Di Berardino-B. Studer (dirr.), Storia della teologia, I, Casale M. (Al) 1993; G. D’Onofrio (dir.), Storia della teologia nel Medievo, I-III, Casale M. (Al) 1996; G. D’Onofrio (dir.), Storia della teologia, III, Casale M. (Al) 1995. La miglior opera sull’evoluzione storica delle idee ecclesiologiche rimane A. Antón, El misterio de la Iglesia. Evolución historica de las ideas eclesiológicas, I-II, 1986-1987.


LEMMARIO




Ecclesiologia - vol. II


Autore: Pasquale Bua

Le sorti dell’ecclesiologia italiana dall’unità nazionale ai nostri giorni sono strettamente legate ai due principali eventi ecclesiali di questo lungo periodo: il concilio Vaticano I (1869-70) e il concilio Vaticano II (1962-65), certamente i due concili più “ecclesiologici” della storia della Chiesa. Sebbene oggetto di apposita trattazione in altri luoghi di questo Dizionario, essi rappresentano lo sfondo dottrinale imprescindibile per comprendere lo sviluppo della teologia della Chiesa nei 150 anni dell’Italia unita.

Come è noto, le sorti del Vaticano I e quelle del Belpaese sono intimamente intrecciate, giacché il concilio presieduto da Pio IX, dominato fin dall’inizio da un’aperta ostilità verso le mire risorgimentali sulla scorta del Syllabus emanato nel 1864, venne interrotto e posticipato sine die in seguito alla presa di Roma il 20 settembre 1870, allorché il Regno d’Italia veniva completato manu militari a spese del potere temporale del papa. A questo si aggiunga che nel 1873 il parlamento nazionale decretava la soppressione delle facoltà di teologia nelle università di stato, ufficializzando così l’esclusione del pensiero teologico dalla cultura italiana. Non senza ragione, nel 1897, Achille Ratti, futuro Pio XI, doveva riconoscere con amarezza: «Veri studiosi ed anche veri scienziati e di alto valore ce ne sono tra i cattolici italiani, ma una scienza cattolica italiana, ma un largo movimento cattolico, schiettamente e rigorosamente scientifico, fra noi non c’è». Da quel momento in poi, la teologia italiana dipese in larga misura dagli orientamenti delle università pontificie, visto che da queste proveniva la maggior parte dei docenti dei seminari, contentandosi al più di seguire al rimorchio le intuizioni migliori delle correnti di pensiero transalpine.

La chiusura anzitempo del Vaticano I determinò pesantemente il destino dell’ecclesiologia postconciliare, e questo per due ragioni diverse, l’una di tipo dottrinale e l’altra di tipo contingente, che tuttavia si rivelavano in ultima analisi convergenti. Anzitutto, al momento della presa di Porta Pia lo schema De Ecclesia non era stato ancora approvato, ad eccezione del solo capitolo De Romano Pontifice che, isolato dal suo contesto originario ed ampliato con il dogma dell’infallibilità, era stato promulgato il 18 luglio 1870. D’ora in poi la costituzione dogmatica Pastor Aeternus sarebbe venuta a rappresentare, per forza di cose, la magna charta dell’ecclesiologia cattolica. In secondo luogo, la “questione romana” imponeva anche ai teologi nostrani di prendere posizione per difendere l’indipendenza, la libertà e la sovranità del papa, autoproclamatosi “prigioniero” tra le mura vaticane.

Non stupisce, con tali premesse, che l’ecclesiologia postconciliare finì per occuparsi quasi esclusivamente dell’autorità della Chiesa nella sua forma monarchica di governo sotto il successore di Pietro, sposando non di rado quella concezione ultramontanista dell’infallibilità pontificia che pure il concilio si era guardato bene dall’avallare. L’accentuazione papalista divenne tale che l’ecclesiologia non appariva in fondo che una «gerarcologia» (Y. Congar), dominata da una visione verticista e piramidale. Indicativo di questo clima è il Tractatus de Romano Pontifice cum prolegomeno de Ecclesia di Domenico Palmieri (1829-1909): già il titolo mostra che la dottrina della Chiesa è ridotta di fatto a una mera introduzione della trattazione apologetica del primato petrino. Inoltre, l’impostazione controversistica posttridentrina, esacerbata dal contrasto della Chiesa con il “mondo moderno”, impegnava i teologi a dimostrare che la “vera Chiesa”, quella fondata da Cristo, è esclusivamente la Chiesa cattolica romana, e questo attraverso le notae utilizzate in chiave apologetica: una, santa, cattolica, apostolica.

Nondimeno, nel periodo dopo l’unità nazionale, mentre l’ecclesiologia procedeva a consolidare gli elementi acquisiti dal Vaticano I, si aprivano lentamente nuove piste. Il merito è soprattutto della Scuola Romana, denominazione con cui si intende un gruppo di teologi gesuiti docenti al Collegio Romano (l’attuale Pontificia Università Gregoriana). Ne è considerato fondatore Giovanni Perrone (1794-1876), mentre tra i suoi esponenti si segnalano Carlo Passaglia (1812-1887), che nel 1859 abbandonò però l’abito schierandosi a favore del Risorgimento e divenendo deputato del parlamento italiano, Clemens Schrader (1820-1875), attivo al Vaticano I, e Johann Baptist Franzelin (1816-1886), creato cardinale nel 1876 da Pio IX. Recependo le idee innovatrici della Scuola di Tubinga (in particolare J.A. Möhler e J.S. Drey), ma pure le intuizioni di J.H. Newman, la Scuola Romana rappresentava un indirizzo teologico per certi versi alternativo a quello tomista, che nella Compagnia di Gesù era sostenuto soprattutto da Luigi Taparelli D’Azeglio (1793-1862) e dagli scrittori de La Civiltà Cattolica. Diversamente dai colleghi più rigidamente ancorati ad un impianto scolastico di impostazione apologetica, come il già citato Palmieri e Camillo Mazzella (1833-1900), i rappresentanti più illuminati di tale corrente elaborarono la nozione di Chiesa “corpo mistico di Cristo”, nel tentativo di temperare un’ecclesiologia spiccatamente societaria, giuridica ed apologetica con un linguaggio più vicino alle fonti bibliche (in primis Paolo) e patristiche (soprattutto greche). Questa dottrina voleva sottolineare la continuità tra la Chiesa e Cristo: questi è il fondatore e il capo della Chiesa e si comunica incessantemente ad essa mediante lo Spirito Santo, che agisce nei sacramenti e nel ministero gerarchico (in specie in quello petrino), facendo della Chiesa il prolungamento stesso dell’incarnazione, appunto il “corpo di Cristo”. L’idea fu respinta in concilio, perché ritenuta troppo astratta ed ambigua, ma in seguito riuscì a farsi strada nel magistero di Leone XIII (Satis Cognitum, Post diem, Arcanum divinae Sapientiae, Provida Mater) e di San Pio X (Ad diem illud laetissimum, Il fermo proposito, Vehementer nos).

Dal 1880 l’indirizzo della Scuola Romana subì tuttavia una battuta di arresto. Una prima ragione fu la pubblicazione nel 1879 dell’enciclica Aeterni Patris da parte di Leone XIII, che, mirando a restaurare l’unità del pensiero cristiano intorno alla philosophia perennis di Tommaso d’Aquino, diede nuova linfa all’ecclesiologia neotomista di impostazione apologetica, astorica e filosofica. Se Passaglia criticò aspramente il documento, gli altri teologi preferirono sottomettersi alla volontà papale, venendo non di rado sostituiti a Roma con altri di impostazione più conservatrice. Una seconda ragione del rigurgito tradizionalista fu la crisi modernista, denunciata già da Leone XIII sul finire del secolo e in seguito strenuamente combattuta da Pio X, come dimostrano il decreto Lamentabili e l’enciclica Pascendi, entrambi del 1907. Il modernismo italiano, sebbene influenzato dal più vivace ambiente culturale franco-tedesco e condizionato come in nessun altro Paese dall’ingerenza di Roma, si rivelò a suo modo originale: lo dimostrano soprattutto la “democrazia cristiana” di Romolo Murri (1870-1944) e il “socialismo cristiano” di Ernesto Buonaiuti (1881-1946). Se il primo auspica l’autonomia del laicato cattolico in ambito politico e la ricomposizione dei rapporti tra Stato e Chiesa, il secondo si occupa della Chiesa da un punto di vista storico e dogmatico. Sulla scia di A. von Harnack e di A. Loisy, ma anche di Gioacchino da Fiore, Buonaiuti ritiene che l’“essenza” del cristianesimo, così come l’hanno pensato e vissuto Cristo e la Chiesa primitiva, non coincida affatto con la concezione cattolica dell’istituzione ecclesiastica: il cristianesimo altro non sarebbe che un messaggio etico innervato da una tensione escatologica, giacché il mondo – e la Chiesa al suo interno – sono provvisori e destinati a trascendersi nel Regno di Dio.

All’inizio del Novecento l’ecclesiologo più influente a Roma è Louis Billot (1846-1931): senza negare la realtà interiore della Chiesa, il suo De Ecclesia, edito nel 1903, predilige ancora gli aspetti societario e istituzionale. Malgrado la tradizione della Scuola Romana non sia cessata del tutto, trasferendosi nell’area della ricerca storica anche grazie all’apertura degli Archivi Vaticani, ha ragione Giuseppe Monti, che nel 1922 addita proprio nel trattato di ecclesiologia la parte più confusa dell’apologetica cattolica, e questo perché non si distingue adeguatamente tra ecclesiologia apologetica e dogmatica: se ambedue hanno la Chiesa come oggetto di riflessione, diversi sono però la finalità che perseguono e il metodo che adottano. Mentre la prima intende fornire la prova storica dell’istituzione della Chiesa da parte di Cristo, la seconda – quale coerente prosecuzione della prima – vuole approfondire la natura e la costituzione della Chiesa. Monti auspica per questo la nascita di un secondo distinto trattato De Ecclesia, da collocarsi nella dogmatica tra il De Verbo incarnato e il De Sacramentis.

È soprattutto dal 1920 che assistiamo ad un inaspettato «risveglio della Chiesa nelle anime» (R. Guardini). I fattori di rinnovamento provengono d’Oltralpe, ma sono presto “importati” anche in Italia: tra di essi il protagonismo del laicato (decisivo, durante il pontificato di Pio XI, l’impulso dato all’Azione Cattolica); il rinnovamento degli studi biblici e patristici; il movimento liturgico, che ha nelle abbazie mitteleuropee il suo centro propulsore, sviluppandosi poi anche in Italia (E. Caronti, S. Marsili, L. Andrianopoli, C. Vagaggini); senza tralasciare una certa “distensione degli animi” in seguito alla pacificazione tra Chiesa e Stato italiano sancita dai Patti Lateranensi.

Attorno agli anni Trenta, nell’ambiente della FUCI e dei Laureati Cattolici, sotto la guida di G.B. Montini (futuro Paolo VI), A. Bernareggi, E. Guano e G. Siri (quest’ultimo comunque ancora legato all’impianto scolastico), matura la scelta di approfondire l’intelligenza della Chiesa da un punto di vista strettamente teologico. L’intento di ancorare l’ecclesiologia alla cristologia, giacché la Chiesa è il corpo, il prolungamento e la “pienezza” di Cristo, è il segnale evidente dell’influsso della Scuola Romana. In questa direzione si muovono pure i contributi di G. Ceriani, A. Vitti e G. Bozzetti, anch’essi indirizzati al laicato “colto”. Destinati ai seminari e alle facoltà teologiche sono invece i trattati di F. Chiesa, che offre qualche apertura interessante verso una comprensione teologica della Chiesa, e di A.M. Vellico, ancora del tutto dipendente dallo schema apologetico.

Tra i fautori del risveglio ecclesiologico italiano spiccano comunque, ancora una volta, i teologi romani, tra i quali soprattutto Sebastian Tromp (1889-1975). Proprio costui avrà un ruolo di primo piano nella stesura della Mystici Corporis, promulgata nel 1943, l’enciclica che rappresenta il coronamento del rinnovamento ecclesiologico promosso dalla Scuola Romana e l’anello di congiunzione tra le visioni ecclesiologiche del Vaticano I e del Vaticano II. Con l’immagine del corpo mistico, Pio XII intende elaborare un’ecclesiologia cristocentrica (Cristo è il capo del corpo) e pneumatica (lo Spirito ne è invece l’anima), affermando la natura “teandrica” della Chiesa nell’unità indissolubile delle componenti visibile (umana e societaria) e invisibile (divina e misterica). Resta chiaro, in ogni caso, che il corpo mistico si identifica sic et simpliciter con la Chiesa cattolica romana, ad esclusione delle altre confessioni cristiane.

La Mystici Corporis suscita un nuovo fervore nella ricerca ecclesiologica italiana. Oltre ad una rivisitazione di argomenti “classici” alla luce della dottrina del corpo mistico, come la tradizione, la successione apostolica, l’infallibilità, l’appartenenza alla Chiesa, emergono temi fino a quel momento trascurati, come il rapporto Chiesa-sacramenti e quello Chiesa-Trinità, le immagini bibliche della Chiesa (tra cui il “popolo di Dio”), il laicato e il sacerdozio comune dei fedeli, l’ecclesiologia delle altre confessioni cristiane, la relazione tra Chiesa e storia e tra Chiesa e Maria. In questo periodo «si avverte sempre più diffusamente e urgentemente la necessità di parlare della Chiesa lasciando cadere il “complesso della difensiva”, su cui l’ecclesiologia si è troppo attardata, e presentando, invece, una visione della Chiesa completa e armonica, capace cioè di mettere nel giusto rilievo i suoi aspetti teologici, specie la dimensione misterica e soprannaturale» (L. Danese, L’ecclesiologia italiana, 67). Tra gli autori più significativi si segnalano A. Piolanti, L. Scipioni, S. Cipriani, F.S. Calcagno, C. Baisi, A. Beni, U. Lattanzi, P. Parente, F. Bruno. Costoro ripensano l’ecclesiologia come disciplina bipartita tra parte apologetica e parte dogmatica, raggiungendo però risultati diversi: Calcagno, Baisi e Beni faticano ancora a trovare il giusto equilibrio, limitandosi a recepire i nuovi apporti sotto forma di appendice ad un trattato rimasto fedele all’impianto tradizionale; Lattanzi e soprattutto Parente (ma pure Siri) raccordano in modo più convincente l’ambito dogmatico con quello apologetico; Bruno (e già Guano) superano ormai lo schema societario in favore di un approccio più teologico.

L’altro tornante cruciale per lo sviluppo dell’ecclesiologia italiana è il Vaticano II, «un concilio della Chiesa sulla Chiesa» (K. Rahner). Scopertasi meno “attrezzata” teologicamente rispetto alle vicine nazioni del Centro-Europa, l’Italia che esce dal concilio prova ad acquisire una specifica identità teologica, sganciandosi da una dipendenza servile nei riguardi delle università pontificie e promuovendo occasioni di confronto tra specialisti. Si può ben dire che «il Vaticano II rappresenta un vero “spartiacque” sia per la teologia come per l’ecclesiologia italiana»: infatti, «senza una tradizione di scuola, che non fosse quella manualistica, e povera di strumenti positivi e speculativi per poter avviare una riflessione ecclesiologica veramente nuova, la teologia italiana, soprattutto negli anni immediatamente seguenti il concilio, rimane come “incantata” dalla ricchezza della proposta conciliare, trovando facile “rifugio” nel linguaggio e negli schemi della Lumen gentium e impegnandosi in un suo processo di assimilazione» (ibid., 171).

Tra gli interpreti del Vaticano II spiccano gli studiosi legati all’Istituto per le scienze religiose di Bologna fondato da G. Dossetti (G. Alberigo, G. Ruggieri, A. Melloni). Per costoro occorrerebbe distinguere tra “evento” e “pronunciamenti” conciliari, giacché lo “spirito” del concilio andrebbe cercato ben oltre la “lettera” dei documenti, in quei fermenti di rinnovamento non accolti nei testi ufficiali per ottenere il consenso della minoranza conservatrice, ma tali da determinare una vera e propria “rottura” rispetto alla precedente autocoscienza ecclesiale. Anche Antonio Acerbi (1935-2004) rintraccia in Lumen gentium due teologie confliggenti, una innovativa centrata sul concetto di comunione e una tradizionale di impostazione giuridica: il documento non sarebbe che il frutto del delicato compromesso, non sempre perfettamente riuscito, tra orientamenti discordanti. A tali ricostruzioni storiografiche sono state mosse varie critiche, soprattutto in ambienti vicini alla Curia Romana (in particolare A. Marchetto), che difendono la sostanziale coincidenza dello “spirito” e della “lettera” del concilio e si impegnano in una “ermeneutica della continuità”, volta a dimostrare la sostanziale coerenza del Vaticano II con l’ecclesiologia precedente.

È comunque a partire dagli anni Settanta che l’ecclesiologia italiana, dapprima interessata ad esplorare la prospettiva conciliare, imbocca piste di più ampio respiro. L’ecclesiologia del postconcilio appare del tutto differente rispetto al periodo che l’ha preceduta: sfaldatasi l’unità del sapere teologico, prima costruita attorno all’apologetica manualistica, emergono molteplici indirizzi ecclesiologici, tra loro eterogenei, sebbene tutti accomunati dallo sforzo di “tradurre in italiano” il concilio. L’ecclesiologia finisce a tal punto per catalizzare gli sforzi degli studiosi, da giustificare anche in Italia il giudizio di un certo «panecclesiologismo postconciliare» (A. Antón).

Le successive revisioni dei trattati di Beni e Parente, come pure la proposta sistematica di B. Gherardini, recepiscono certamente l’ecclesiologia misterico-sacramentale di Lumen gentium, ma continuano a dare della Chiesa una visione piuttosto statica e ad accentuarne l’aspetto istituzionale. I saggi veramente “nuovi” nascono a partire dagli anni Ottanta, periodo nel quale si opera anche una riflessione sul metodo dell’ecclesiologia (G. Colombo, L. Sartori, T. Citrini, S. Dianich, V. Mondello, B. Forte). Prima con il tema della comunione e poi con quello della missione, i teologi nostrani dimostrano di recepire creativamente la distinzione conciliare fra Ecclesia ad intra ed Ecclesia ad extra. Inoltre, se negli anni Settanta suscitano un certo interesse la categoria di popolo di Dio e il tema della Chiesa locale, negli anni Ottanta, sotto lo stimolo degli orientamenti pastorali della CEI, si fa strada un tema “inconsueto”: quello della Chiesa-carità.

Nell’impossibilità di rendere conto della varietà delle proposte ecclesiologiche affiorate nell’ultimo quarantennio, segnaliamo tre contributi che, senza pretesa di esaustività, appaiono nondimeno esemplificativi del rinnovamento postconciliare dell’ecclesiologia italiana. La scelta tiene conto anche della distribuzione geografica e della progressione cronologica: il padovano Luigi Sartori (1924-2007) per l’Italia Settentrionale, il pisano Severino Dianich (1934) per il Centro, il napoletano Bruno Forte (1949) per il Sud.

Sartori, facendosi interprete della vocazione ecumenica delle Venezie, delinea un modello ecclesiologico interessato alla ricomposizione dell’unità tra la Chiese, mettendosi in dialogo con le teologie dei “fratelli separati” ed affrontando il tema dell’appartenenza alla Chiesa. Perito al concilio per conto della CEI e presidente dell’Associazione Teologica Italiana, egli approfondisce in seno ad un’ecclesiologia trinitaria e cristocentrica l’istanza dialogica, l’ortoprassi come corollario pastorale della riflessione dogmatica, la comunione fondata sulla molteplicità dei ministeri e dei carismi.

Dianich, anch’egli eletto alla presidenza dell’ATI, è forse il più noto ecclesiologo italiano. La sua prospettiva, interessata ad elaborare un modello di “ecclesiogenesi”, è eminentemente kerygmatica: come dimostra il discorso di Pietro il giorno di pentecoste, a generare la Chiesa quale comunità dei credenti è l’evento dell’annuncio della Parola, nel quale si fondono la memoria dell’evento pasquale, il coinvolgimento gioioso del messaggero, l’invito ad una esperienza di comunione, l’attesa del Regno escatologico. È evidente, in questo quadro, la profonda accentuazione missionaria dell’ecclesiologia. La comunione intraecclesiale generata dall’Annuncio è immagine della comunione trinitaria, a cui i credenti si assimilano mediante l’ascolto, la prassi sacramentale, la fraternità e la testimonianza.

Forte, divenuto nel 2004 arcivescovo di Chieti-Vasto, è uno dei teologi nostrani più conosciuti ed apprezzati all’estero. Egli tratteggia un’ecclesiologia insieme eucaristica, comunionale e trinitaria: è l’Eucaristia a “fare la Chiesa”, stringendo i battezzati in comunione ad immagine della “famiglia trinitaria”. Si può così affermare che nella Chiesa la storia degli uomini “incrocia” il mistero stesso di Dio, per esserne redenta e venire condotta verso il compimento escatologico, la “patria trinitaria”.

«La Chiesa italiana, sia nella sua pastorale che nella sua teologia, è tutta tesa ad assumere il Vaticano II nelle proposte di metodo e di contenuto, in quanto, soprattutto, è lo stesso concilio che ha inteso porre al centro dei suoi interessi il tema della Chiesa e la prospettiva di aggiornamento pastorale. La domanda che ora ci nasce spontanea è la seguente: si può parlare di “via italiana” nella ricezione del concilio?» (L. Sartori, «Ecclesiologia…», 185). Nel tentativo di rispondere a questa domanda, si potrebbe in conclusione asserire che, nei principali contributi offerti dai teologi italiani al dibattito ecclesiologico dall’ultimo concilio ad oggi, emerge una “figura” di Chiesa costruita attorno a tre nuclei tematici: l’origine trinitaria (la Chiesa “sgorga” dalla Trinità), l’identità comunionale (che rende la Chiesa “icona” della Trinità), la tensione missionaria (che reclama una Chiesa “estroversa”, protesa ad accogliere il dinamismo della storia e le sfide del mondo contemporaneo). In tal modo, malgrado l’ecclesiologia italiana non si sia forse ancora pienamente affrancata da una certa subalternità nei riguardi delle ponderose elaborazioni teologiche d’Oltralpe, può dirsi realizzata anche per il nostro Paese la “profezia” del vescovo luterano Otto Dibelius, che nel 1926 additò il Novecento come il «secolo della Chiesa».

Fonti e Bibl. essenziale

A. Antón, «Lo sviluppo della dottrina sulla Chiesa nella teologia dal Vaticano I al Vaticano II», in Facoltà Teologica dell’Italia Settentrionale, L’ecclesiologia dal Vaticano I al Vaticano II, La Scuola, Brescia 1973, 27-86; T. Citrini, «Questioni di metodo dell’ecclesiologia postconciliare», in Associazione Teologica Italiana, L’ecclesiologia contemporanea, EMP, Padova 1994, 15-41; L. Danese, L’ecclesiologia italiana. Dalla Costituzione Apostolica “Deus Scientiarum Dominus” (1931) alla Costituzione Apostolica “Sapientia Christiana” (1979), Gregoriana, Padova 1995; R. Fisichella (ed.), Storia della teologia, III, EDB, Bologna 1996; A. Marranzini, «La teologia italiana dal Vaticano I al Vaticano II», in R. Vander Gucht – H. Vorgrimler (eds.), Bilancio della teologia del XX secolo, II, Città Nuova, Roma 1972, 95-112; B. Mondin, Le nuove ecclesiologie, Paoline, Roma 1980; Id., Storia della teologia, IV, ESD, Bologna 1997; S. Panizzolo, Coscienza di Chiesa nella teologia e nella prassi. Indirizzi ecclesiologici nei documenti della CEI dal 1965 al 1980, EDB, Bologna 1989; L. Sartori, «La riflessione ecclesiologica», in Per una pastorale che si rinnova, Elledici, Leumann 1981, 41-63; Id., «Ecclesiologia ed esigenze pastorali in Italia», in ATI, L’ecclesiologia contemporanea, cit., 179-212; S. Segoloni Ruta, Tradurre il concilio in italiano. L’Associazione Teologica Italiana soggetto di recezione del Vaticano II, Glossa, Milano 2013; G. Ziviani – V. Maraldi, «Ecclesiologia», in G. Canobbio – P. Coda (eds.), La teologia del XX secolo. Un bilancio, II, Città Nuova, Roma 2003, 287-410; P. Bua, «Il rinnovamento dell’ecclesiologia dal Vaticano I al Vaticano II», Path 13 (2014) 1, 83-106.


LEMMARIO




Ecumenismo - vol. I


Autore: Stefano Cavallotto

L’ecumenismo si è precisato soprattutto a partire del XX secolo come movimento plurale di riavvicinamento tra le chiese cristiane, divise lungo la storia bimillenaria, per ristabilire quell’unità che il Signore ha voluto per i suoi discepoli e per la quale ha pregato. La preistoria del movimento ecumenico ha radici profonde. Per limitarci al secondo millennio basti ricordare i concili di Lione (1274) e di Basilea-Ferrara-Firenze-Roma (1431- 1445) impegnati, ma invano, a sanare la frattura dell’XI secolo fra Chiesa ortodossa e Chiesa romana e i tentativi della prima metà del XVI secolo, andati a vuoto, per ricucire lo strappo provocato nell’Europa occidentale dal radicarsi della Riforma protestante. Nonostante l’acuirsi dei conflitti confessionali e delle guerre di religione nei secoli XVII-XVIII l’esigenza ecumenica ha trovato sempre nelle varie chiese fautori e pionieri convinti, ancorché inascoltati e minoritari, capaci di tracciare percorsi di un possibile dialogo e mantenere vivo nella compagine cristiana, nonostante tutto, un forte anelito verso l’unità. Ma è con il XIX secolo che consistenti movimenti di riavvicinamento muovono i primi passi innanzitutto in area protestante. A metà dell’800 si costituiscono l’Alleanza Evangelica (Londra 1846) e l’Associazione Cristiana dei Giovani e delle Giovani (Inghilterra 1844 e 1854): la prima, benché circoscritta alle comunità protestanti ed espressione di individui più che di chiese, è una palestra di confronto e preghiera a partire da una confessione di fede comune; anche la seconda pone l’accento su una basilare e condivisa fede in Cristo, invitando i membri delle varie confessioni (episcopaliani, metodisti, battisti, congregazionalisti, ecc.) ad unirsi nello sforzo dell’evangelizzazione del mondo.

Fonti e Bibl. essenziale

R. Rouse – S. C. Neill (edd.), A History of the Ecumenical Movement, London 1967 [ed. it.: Storia del movimento ecumenico dal 1517 al 1948, vol. I: Dalla Riforma agli inizi dell’Ottocento, Bologna 1973; vol. II: Dagli inizi dell’Ottocento alla conferenza di Edimburgo, Bologna 1973; vol. III: Dalla Conferenza di Edimburgo (1910) all’Assemblea Ecumenica di Amsterdam (1948), Bologna 1982; vol. IV (ed. H. E. Fey): L’avanzata ecumenica (1948-1968), Bologna 1982]; G. Cereti, L’ecumenismo cristiano, in G. Filoramo – D. Menozzi (a cura di), Storia del Cristianesimo, vol. IV: L’età contemporanea, Laterza, Roma 1997, 353-396 (con bibl.); P. Ricca, Il movimento ecumenico, in G. Filoramo (a cura di), Cristianesimo, Laterza, Roma 1995, 563-561 (con bibl.); W. A. Visser’t Hooft, The Genesis and formation of the World Council of Churches, Geneva 1982. R. Burigana, Una straordinaria avventura – Storia del movimento ecumenico in Italia (1910-2010), Bologna 2013; L’ortodossia in Italia: le sfide di un incontro, a cura di Gino Battaglia, Bologna 2011; F.T. Rossi, Manuale di ecumenismo, Brescia 2012.


LEMMARIO




Ecumenismo - vol. II


Autore: Stefano Cavallotto

Nel 1895 sorge in Svezia la Federazione Mondiale degli Studenti Cristiani, con una visione ecumenica originale e capace di attrarre l’adesione di molte chiese evangeliche; essa tende a valorizzare le singole confessioni, offrendo a tutte l’occasione di partecipare agli altri i propri doni. Occorre ricordare ancora i movimenti americani e inglesi del cristianesimo sociale (Social Gospel), impegnati a rispondere in nome della fedeltà a Cristo alle problematiche della società (miseria e guerra), acuite dall’industrializzazione capitalistica, e le varie federazioni o alleanze tra chiese della medesima tradizione (luterani, riformati, metodisti, battisti, ecc.) volte a rafforzare la propria identità. In questa prospettiva si muove fin dal 1867 l’iniziativa delle «conferenze di Lambeth», a cui ogni dieci anni partecipano vescovi anglicani di tutto il mondo con a capo l’arcivescovo di Canterbury. Ma sono soprattutto le società missionarie protestanti a dare l’impulso determinante al movimento ecumenico organizzato. Alla Conferenza missionaria mondiale di Edimburgo del 1910 diventa consapevolezza comune tra gli evangelici che l’annuncio di Cristo “alle genti” per essere credibile non può prescindere dal superamento delle divisioni tra cristiani e che quindi occorre istituzionalizzare la «promozione dell’unità» sia attraverso confronti chiarificatori sulle controversie dottrinali sia elaborando risposte comuni in ordine alla prassi ai problemi dell’umanità. Due esigenze che si concretizzano nei movimenti «Vita e Azione» (Life and Work) (Ginevra 1920) e «Fede e Costituzione» (Faith and Order) (Losanna 1927), entrati a far parte nel 1948 nel Consiglio Ecumenico delle Chiese. E’ questo un organismo nuovo nella storia cristiana, che nella sua prima assemblea ad Amsterdam (1948) si definisce un’associazione fraterna di chiese, tutte con pari dignità e ciascuna con la propria identità, unite sull’unico comune fondamento, che è il Signore, col compito spirituale di favorire il dialogo e la conoscenza reciproca; un organismo, protagonista fondamentale dell’attuale cammino ecumenico, a cui le chiese evangeliche italiane (in particolare valdesi e metodiste) aderiscono ben presto, mentre la chiesa cattolica partecipa a tutt’oggi solo come “osservatrice”, anche se è membro a pieno titolo della commissione «Fede e Costituzione».

L’ecumenismo del cattolicesimo romano, infatti, parte da presupposti diversi ed ha una storia propria, nella quale è possibile individuare nel concilio Vaticano II (1962-1965), voluto e aperto da Giovanni XXIII (†1963) e guidato da Paolo VI (†1978), uno spartiacque: se prima di tale evento prevale la visione espressa nell’“unionismo” o nell’ecumenismo del «ritorno» con giudizi fortemente negativi sui «dissidenti» e le loro iniziative ecumeniche, con il decreto Unitatis Redintegratio (giunto all’approvazione conciliare nel 1964 per l’opera del Card. Agostino Bea [†1968], Presidente dell’allora Segretariato per la promozione dell’Unità dei cristiani) la chiesa cattolica dichiara di entrare a fianco delle altre comunità cristiane nell’unico cammino ecumenico, riconosciuto come frutto dello Spirito; una posizione, questa, di fatto confermata, seppure con alti e bassi, nel magistero papale post-conciliare e riproposta con vigore nell’enciclica Ut unum sint del 1995 di Giovanni Paolo II (†2005). Nell’Italia post-unitaria a maggioranza cattolica una visione diversa rispetto al pre-conciliare ecumenismo del «ritorno e della sottomissione a Roma» era stata anticipata non soltanto da alcuni protagonisti del modernismo, come lo scrittore Antonio Fogazzaro (†1911), ma anche in molti ambienti del rinnovamento biblico, liturgico, patristico e teologico. Il vescovo di Cremona, Geremia Bonomelli (†1914) e don Mazzolari (†1959) sono figure pionieristiche di quell’atteggiamento di apertura verso i non cattolici che caratterizzerà il cattolicesimo post-conciliare, così come la trappista Maria Gabriella Sagheddu (†1939) e sorella Maria a Campello sul Clitumno (†1961) con la sua comunità danno vita al non meno necessario «ecumenismo spirituale» che sosterrà i successivi passi intrapresi dalle chiese verso l’unità. In effetti la svolta ecumenica del Vaticano II anche in Italia a partire dagli anni Sessanta del ‘900 mette in moto soprattutto a livello di base, ma anche sul piano istituzionale, tutta una serie di organismi e di iniziative che sorreggono l’attuale dialogo fra i cristiani. Un dialogo certo che vive stagioni diverse, ma che comunque nella coscienza delle chiese diventa sempre più elemento irrinunciabile della propria fedeltà al Signore.

La Conferenza Episcopale Italiana istituisce nei primi anni del dopo-concilio una Commissione episcopale per l’ecumenismo e il dialogo con un Ufficio nazionale specifico col compito di incoraggiare la preghiera (come quella di gennaio: Settimana di preghiera per l’unità del cristiani) e di guidare l’impegno delle comunità locali e la loro maturazione in ordine all’unità dei cristiani e tal fine organizza incontri di formazione ecumenica (ricordiamo quelli del 1979: Problemi e prospettive dell’ecumenismo nelle Chiese locali e nelle comunioni regionali di Chiese d’Italia, del 2001:La ripresa del dialogo ecumenico in Italia dopo il giubileo del 2000, alla luce della Novo Millennio ineunte e della Charta Oecumenica, del 2008: In unitate Spiritus e convegni interconfessionali nazionali (ad esempio sul Padre Nostro [1999], sulle Beatitudini [2003], sulla Charta ecumenica [2006]). Sempre all’istituzione cattolica si possono collegare alcuni organismi di grande rilievo come l’«Istituto di Studi Ecumenici S. Bernardino» di Venezia, nato dall’esperienza dei vari corsi di ecumenismo avviati a partire dal 1975 presso lo Studio teologico dei Frati minori “S. Bernardino” in Verona e divenuto una sezione della Facoltà teologica del Pontificio Ateneo “Antonianum” di Roma; e ancora, il «Centro per l’Ecumenismo in Italia» con sede a Venezia, fondato nel 2008 allo scopo di promuovere la raccolta, la conservazione e lo studio della memoria storica dell’ecumenismo in Italia, sostenendo progetti di ricerca storico-teologica così da favorire la ricostruzione di figure, eventi e momenti di tale cammino. Occorre ricordare pure il «Centro di Documentazione del Movimento Ecumenico in Italia», sorto a Livorno nel 2000 per iniziativa di mons. Alberto Abbondi (†2010) e dall’idea di altri convinti sostenitori dell’ecumenismo come i vescovi Pietro Giachetti (†2006), Clemente Riva (†1999), Vincenzo Savio (†2004), con la finalità di mantenere viva la dimensione ecumenica della chiesa livornese e promuovere su scala nazionale il dialogo interconfessionale.

Ma è soprattutto a livello di base che il Vaticano II libera le forze ecumeniche più vivaci e produce i frutti più promettenti nel cammino verso l’unità. Ne è testimonianza rimarchevole il «Segretariato Attività Ecumeniche»: un’ «Associazione interconfessionale di laici impegnati per l’ecumenismo e il dialogo a partire dal dialogo ebraico-cristiano», articolata per gruppi locali, che ogni anno programma una Sessione di formazione ecumenica aperta a tutti e i cui atti sono regolarmente pubblicati. Sorge a Venezia nel 1947 per iniziativa di Maria Vingiani, che ne diventerà bene presto la presidente e l’animatrice instancabile, e nel 1959 all’annuncio del Concilio si trasferisce a Roma sotto l’alto patrocinio ed incoraggiamento di papa Giovanni. Laici cattolici, evangelici, ortodossi ed ebrei costituiscono i membri effettivi dell’associazione, mentre preti, pastori e religiosi vi aderiscono come amici; c’è poi un comitato permanente di esperti biblisti e teologi di varie confessioni cristiane che l’affianca nell’attività di formazione e nella ricerca teologica. Tra le tante figure rappresentative e benemerite dell’impegno ecumenico del Segretariato ci limitiamo a ricordare tra gli evangelici: i pastori valdesi Renzo Bertalot, Giorgio Giradet (†2011) e Paolo Ricca e tra i cattolici: don Carlo Molari, don Germano Pattaro (†1999), mons. Luigi Sartori (†2007) e don Giovanni Cereti.

Fonti e Bibl. essenziale

R. Rouse – S.C. Neill (edd.), A History of the Ecumenical Movement, London 1967 [ed. it.: Storia del movimento ecumenico dal 1517 al 1948, vol. I: Dalla Riforma agli inizi dell’Ottocento, Bologna 1973; vol. II: Dagli inizi dell’Ottocento alla conferenza di Edimburgo, Bologna 1973; vol. III: Dalla Conferenza di Edimburgo (1910) all’Assemblea Ecumenica di Amsterdam (1948), Bologna 1982; vol. IV (ed. H. E. Fey): L’avanzata ecumenica (1948-1968), Bologna 1982]; G. Cereti, L’ecumenismo cristiano, in G. Filoramo – D. Menozzi (a cura di), Storia del Cristianesimo, vol. IV: L’età contemporanea, Laterza, Roma 1997, 353-396 (con bibl.); P. Ricca, Il movimento ecumenico, in G. Filoramo (a cura di), Cristianesimo, Laterza, Roma 1995, 563-561 (con bibl.); W.A. Visser’t Hooft, The Genesis and formation of the World Council of Churches, Geneva 1982; W.  Kasper, L’ecumenismo spirituale. Linee-guida per la sua attuazione, Città Nuova, Roma 2006; J. Ernesti, Breve storia dell’Ecumenismo. Dal Cristianesimo diviso alle chiese in dialogo, EDB, Bologna 2010; R. Burigana, Una straordinaria avventura – Storia del movimento ecumenico in Italia (1910-2010), Bologna 2013; L’ortodossia in Italia: le sfide di un incontro, a cura di G. Battaglia, Bologna 2011; F.T. Rossi, Manuale di ecumenismo, Brescia 2012.


LEMMARIO




Editoria - vol. I


Autore: Fulvio De Giorgi

Dopo l’apostolato per la buona stampa, di impronta controrivoluzionaria, dovuto al movimento delle Amicizie nell’Italia settentrionale di primo Ottocento, tra la fine degli anni ’30 e la prima metà degli anni ’40 del secolo nasceva l’editoria cattolica in senso contemporaneo, in relazione al rinnovamento della cultura teologica e civile di orientamento cattolico. Tipico era il caso di Milano, in cui significative imprese tipografiche furono quelle di Giuditta Pogliani, Francesco Pirotta, Chiusi e Valentini, in cui sempre più si manifestava l’influenza di Rosmini. Notevole era pure l’attenzione di tipo ‘educativo’: nel 1835 la “Società fiorentina dell’istruzione elementare” premiava il Giannetto di Luigi Alessandro Parravicini, libro di lettura per l’infanzia destinato a una grande fortuna, per tutto il corso del XIX secolo (e oltre); nel 1836 Cesare Cantù avviava le sue pubblicazioni di carattere popolare e di grande diffusione, tra le quali, nel 1838, il romanzo Margherita Pusterla.

Il 1848 ebbe un rilievo decisivo nell’evoluzione della stampa cattolica. Nel Regno di Sardegna vi fu il Regio Editto di Carlo Alberto sulla stampa del 26 marzo 1848, n. 695 (poi integrato dalle leggi 26 febbraio 1852 e 30 giugno 1858) che sanciva la libertà di “manifestazione del pensiero per mezzo della stampa” (art. 1), abolendo la censura preventiva: ciò diede spazio ad un protagonismo nuovo dei protestanti italiani, che a sua volta, come si vedrà, fu un potente stimolo ad una maggiore e rinnovata presenza dei cattolici.

Negli anni successivi al 1849, ancora fedeli ad un certo cattolicesimo liberale e conciliatorista e, insieme, molto attenti alle necessità di una scrittura per il popolo furono Niccolò Tommaseo, Cesare Cantù, Pietro Thouar. Peraltro, dal lato del cattolicesimo più intransigente, si ebbe nel 1850 la nascita della rivista gesuitica “La Civiltà Cattolica” e dell’omonima editrice.

Tuttavia, sul piano più generale, l’editoria cattolica era ancora localmente molto dispersa. Essa inoltre dipendeva o dall’azione di qualche ecclesiastico o religioso che, con il suo zelo, il suo impegno e naturalmente le sue vedute, promuoveva pubblicazioni o dall’attività di lavoro di stampatori e tipografi vicini al mondo cattolico. Ciò portava, anche, alla nascita di Collezioni, cioè di pubblicazioni in serie (o, almeno, avviate come tali): questo dava l’idea di uno sviluppo che cercava, se non di superare, di affiancare alle tante pubblicazioni episodiche, un qualche embrione di progetto editoriale. A Napoli, dal 1850 al 1856, si pubblicava la serie “Tesoro cattolico”. Nel 1854 lo Stabilimento Ligustico pubblicava “Associazione cattolica di Genova”. A Milano si aveva, tra il 1856 e il 1860, la “Biblioteca cattolica popolare”, dello stampatore Carlo Turati.

Vi erano poi, abbastanza spesso, casi in cui la stessa Collezione passava da uno stampatore ad un altro (segno o di una mente progettuale che cercava le tipografie più consone o di un ‘marchio’ che poteva essere commercialmente utile rilevare e mantenere). È appena il caso di osservare che l’iniziativa più importante e fortunata (e che costituì a lungo un modello di ispirazione e di imitazione per altri) fu quella delle “Letture cattoliche”, avviate a Torino da Don Giovanni Bosco. Nelle sue Memorie dell’Oratorio, il prete piemontese avrebbe collegato l’avvio dell’iniziativa alla libertà di stampa, frutto del 1848, all’emancipazione degli ebrei e al fervore propagandistico dei protestanti in Piemonte (i quali avviarono la pubblicazione di alcuni periodici), nuove realtà che richiedevano una rinnovata presenza cattolica nell’ambito della stampa popolare. Progressivamente si sarebbero distinti tre generi prevalenti di pubblicazioni: le letture amene, le istruzioni morali, le storie a sfondo religioso cattolico. Inizialmente le tirature delle “Letture cattoliche” furono di tremila copie, ma l’immediato successo portò presto ad aumentare la tiratura a diecimila: nei primi otto anni si stamparono circa due milioni di fascicoli. Naturalmente l’attività di Don Bosco prima e della Congregazione Salesiana, da lui fondata, poi fu molto ampia e articolata, nell’ambito dell’editoria cattolica e della diffusione della “buona stampa”.

Fonti e Bibl. essenziale

F. De Giorgi, L’attività editoriale cattolica e l’opera degli Artigianelli Pavoniani tra Otto e Novecento, in E. Bandolini (a cura di), L’eredità del beato Ludovico Pavoni. Storia e sviluppo della sua fondazione nel periodo 1849-1949, Milano, Pavoniani, 2009, 227-277; A. Gigli Marchetti – L. Finocchi, Editori e piccoli lettori tra Otto e Novecento, Milano, Angeli, 2004; F. Traniello, L’editoria cattolica tra libri e riviste, in G. Turi (a cura di), Storia dell’editoria nell’Italia contemporanea, Firenze, Giunti, 1997, 299-319; A. Zambarbieri (a cura di), Storia dell’editoria cattolica in Italia, Brescia, Morcelliana, 20122.


LEMMARIO




Editoria - vol. II


Autore: Fulvio De Giorgi

L’unificazione nazionale, coronamento del Risorgimento nazionale, segnò pure l’avvio di quello che qualcuno definì un “risorgimento tipografico e librario”. Il libro popolare, ad alte tirature, in brossura, di piccolo formato e a basso costo, diffuso anche attraverso canali diversi dalle tradizionali librerie, divenne il fine imprenditoriale di editori come Sonzogno o Trevisini a Milano (o come Perino a Roma e Chiurazzo a Napoli), che tra l’altro ripresero dagli editori d’inizio secolo l’idea della Collezione, così che il lettore popolare fosse in qualche modo ‘fidelizzato’ e portato perciò ad acquistare gli altri volumetti messi sul mercato dallo stesso editore. È vero però pure che, talvolta, i libri “a un soldo” nascevano da piccole e precarie tipografie, incapaci di lanciarsi su produzioni di qualità più elevata: erano dunque una necessità più che una scelta strategica editoriale.

Lo scontro ideologico dell’Italia laica con l’Italia clericale portava ad impegnarsi maggiormente, da una parte e dall’altra, per contendersi l’egemonia sulla cultura popolare italiana. Per i cattolici l’impegno nel campo di tale editoria per il popolo era spesso sentito come una necessità “di difesa”, rispetto al laicismo massonico prima e al socialismo anticlericale poi.

Dopo l’Unità e in particolare dopo la presa di Roma nel 1870, un centro importante per l’editoria cattolica fu la Bologna di Acquaderni e della Società della Gioventù Cattolica italiana, con le sue iniziative. Interessante era pure la realtà di Napoli, dove nel 1868 lo stampatore Ferrante pubblicava una “Collana di buoni libri su varii argomenti di pietà e dottrine cattoliche” e, trent’anni dopo, nel 1897 Andrea e Salvatore Festa stampavano “Letture cattoliche popolari gratuite”. Ma il caso editoriale partenopeo più significativo era la collana “Letture cattoliche di Napoli”, che – tra il 1862 e il 1865 – pubblicò numerosi volumetti dalle trenta alle cinquanta pagine.

La caduta dello Stato pontificio portò ad un più forte e diffuso impegno dei cattolici sul piano della propaganda popolare e del giornalismo e dunque alla vera e propria nascita di una stampa cattolica più modernamente organizzata e più largamente diffusa. Se dal 1860 al 1874 la stampa periodica cattolica era passata da 7 a 18 testate, nel 1884 vi erano già 159 giornali cattolici, divenuti 271 nel 1893. Occorre poi ricordare il gran numero di bollettini, numeri unici e opuscoli, collegati alle nuove associazioni devozionali, che strutturarono in modo nuovo la sociabilità cattolica negli ultimi decenni dell’Ottocento: dall’Apostolato della Preghiera alle Figlie di Maria alle tante altre forme associative.

In quegli stessi anni, procedevano e si acceleravano le trasformazioni della cultura e delle letture della borghesia italiana, in sintonia con le borghesie europee. Il romanzo di consumo, alla moda (spesso in traduzione dal francese), era fenomeno della media e piccola borghesia. A partire dagli anni ’70, la letteratura popolare dunque – in particolare le “letture amene” – ebbe un notevole progresso. Anche gli stampatori cattolici cercarono di seguire queste trasformazioni, sollecitati probabilmente dagli stessi ambienti sociali a cui facevano riferimento e seguendo, talvolta, il modello inaugurato con successo, come si è visto, da Don Bosco. Con l’esperienza salesiana si entrava anche sia nel mercato del libro scolastico (con posizioni che si direbbero monopolistiche: cioè nelle scuole salesiane e, più in generale, nelle scuole cattoliche) sia nell’esperienza del teatro educativo e della stampa di testi teatrali per le tante filodrammatiche popolari o giovanili cattoliche. È qui il caso di rimarcare l’ambito dell’editoria scolastica, anche perché il libro per la scuola ebbe pure, in qualche modo, la funzione di un libro per il popolo.

La cultura popolare era promossa dai salesiani ma anche da altre Congregazioni religiose otto-novecentesche, come i Giuseppini di Murialdo, gli Artigianelli di Piamarta e, in qualche misura, gli Artigianelli Pavoniani. Un rilievo tutto particolare ebbero poi le edizioni della “Civiltà Cattolica”, oltre naturalmente alla stessa rivista dei gesuiti italiani. Tra il 1861 e il 1870, tali edizioni crebbero molto in attività e impegno.

Tra Otto e Novecento. Con Leone XIII si abbandonò definitivamente quel sentimento ambivalente, se non ambiguo, verso la stampa che era stato presente fino a Pio IX: una preminente visione negativa per il giornalismo come veicolo di idee anticristiane, per la libertà di stampa che concedeva gli stessi diritti alla verità e all’errore, per la stampa stessa come fenomeno moderno potenzialmente corruttore del popolo. Ci si indirizzava ormai verso una considerazione attenta della grande influenza educatrice (o diseducatrice) che la stampa poteva svolgere, ma la si intendeva come uno strumento in sé neutro che poteva essere messo al servizio del bene o del male: dunque la competizione era aperta, l’impegno nel campo era un dovere, la latitanza o il disinteresse peccati gravi di omissione.

Negli ultimi decenni del secolo, dopo la presa di Roma e in conseguenza delle traversie subite dalla Compagnia di Gesù in Italia, le edizioni della “Civiltà Cattolica” subirono un vero e proprio tracollo. Furono stampati pochissimi titoli. Nel 1886, a Brescia, dalla fusione della piccola tipografia Bersi, che stampava “Il Cittadino di Brescia”, con la Libreria Queriniana, nasceva la Tipografia editrice Queriniana, assunta dal Pio Istituto dei poveri Artigianelli, fondato da Giovanni Piamarta. Nel 1897 la Queriniana diventava di esclusiva proprietà dell’Istituto.

Dal censimento effettuato, sotto l’egida dell’Opera dei Congressi, da Luigi Bottaro nel 1887, su istituzioni e stabilimenti relativi alla stampa cattolica in Italia, risultano oltre duecento giornali stampati e più di cento, tra editori, tipografi e librai. La distribuzione geografica mostrava una decisa prevalenza del Nord, con 65 realtà censite (nell’Italia centrale si censivano 25 presenze; nel Sud solo 18 e concentrate nel capoluogo partenopeo). Il censimento rivelava, indirettamente, alcuni aspetti che dovettero in effetti caratterizzare l’attività editoriale cattolica – a parte il caso dei Salesiani, ormai avviati verso una vera industria editoriale di massa – negli anni del passaggio dalle forme artigianali della stampa e dai circuiti locali del mercato allo sviluppo di realtà aziendali più solide, capaci anche di competere su un mercato nazionale. Una prima caratteristica stava nella preminenza delle città sulla campagna: l’ambiente urbano favoriva l’attività editoriale non tanto perché presentasse maggiori tassi di alfabetizzazione, quanto perché in esso si concentravano disponibilità economiche (problema di fondo e di lunga durata) e si realizzavano quelle nuove forme della sociabilità devota, alle quali già si è fatto cenno, tipiche del XIX secolo soprattutto tra quei ‘ceti di frontiera’ tra piccola e piccolissima borghesia e strati popolari più elevati.

Un’altra caratteristica era nel carattere disgregato e frammentato, cioè – più precisamente – locale, del variegato mondo di stamperie e tipografie, necessariamente dipendenti dalla committenza delle parrocchie e delle altre realtà istituzionali e aggregative delle Chiese locali, peraltro proprio per questo ben radicate nelle situazioni popolari e sensibili ai loro bisogni religiosi: un inizio di superamento di questa caratteristica (che era un punto di forza, ma che poteva pure costituire un limite) stava da una parte nell’apostolato di Congregazioni religiose, sempre più diffuse sul territorio nazionale e perciò in grado di organizzare una rete sia di stampa che di distribuzione e, dall’altra, nei tentativi di coordinamento – per quanto deboli e tra molte difficoltà – messi in atto dall’Opera dei Congressi.

Tuttavia un’altra caratteristica, molto importante, stava in realtà proprio nel sistema di relazioni che, localmente, veniva comunque a crearsi tra stamperie e tipografie, librerie, associazioni per la buona stampa: venivano così a stabilirsi interessanti canali di sociabilità culturale e devota, limitrofi e variamente collegati alle comunità ecclesiali e alle case religiose e comunque confluenti nell’interesse verso il ‘libro’. Si può cioè affermare che il catalogo di uno stampatore-editore cattolico, almeno fino ai primi anni del Novecento, non sia ancora espressione di un progetto editoriale autonomo, elaborato in proprio, e non sia però neppure il risultato meccanico di una generica e casuale committenza per una mera prestazione tipografica: esso invece appare come l’espressione di quel sistema di relazioni, nel quale l’editore rappresentava il ‘nodo’ centrale di convergenza, in vista appunto della confezione del ‘libro religioso’ (o di altro servizio di stampa).

Peraltro, sul piano storico, non è immediatamente ovvio cosa fosse il ‘libro religioso’ e che valore avesse la stampa nel mondo cattolico. Peraltro dopo la Rerum Novarum di Leone XIII e fino ai primi anni del Novecento, lo sviluppo del movimento democratico cristiano, con la sua sensibilità sociale, portò ad un certo pugnace svecchiamento della pubblicistica cattolica. Ciò fu merito principalmente di Don Romolo Murri e della rivista “Cultura Sociale”, da lui promossa. Ma si ebbero varie iniziative: a Torino, per esempio, Giulio Speirani pubblicava una “Biblioteca popolare di propaganda sociale cattolica”. Il 2 agosto 1898 poi Murri diede vita alla “Unione editrice cattolica”. Successivamente, il 1 novembre 1901, le varie iniziative editoriali murriane trovarono un’organizzazione unitaria nazionale nella Società Italiana Cattolica di Cultura Editrice, promossa a Roma.

Un caso a sé era poi quello della “ La Civiltà Cattolica”, le cui vicende erano ovviamente condizionate, come già si è visto, dalla situazione della Compagnia di Gesù in Italia, ma anche all’estero (per esempio in Spagna). Dopo che nel 1894 furono pubblicati alcuni testi, le pubblicazioni gesuitiche ripartirono con una certa intensità solo nella seconda metà degli anni ’90. La vera ripresa, anche sul piano qualitativo, si ebbe ai primi del Novecento.

Del resto, in quegli anni, tra la fine dell’Ottocento e l’avvio del nuovo secolo, si modificavano, allargandosi significativamente e consolidandosi (ma con alterni livelli di vendite), la domanda e l’offerta nel mercato della carta stampata. I primi anni del Novecento segnarono, dunque, una soluzione di continuità. Ci fu, certamente, un cambiamento del clima intellettuale, spirituale e pastorale: di cui ben si avvide Bonomelli scrivendo a Piamarta. Il modernismo, prima, e la reazione antimodernista, poi, furono effettivamente una ‘svolta periodizzante’. Ma ci fu pure un nuovo e diverso articolarsi della nascente industria culturale, la necessità – via via sempre più evidente – di passare con decisione dalla dispersione di strutture delocalizzate, quasi frammentate, a più solide intraprese editoriali: sia per far fronte alle esigenze di un pubblico di alfabetizzati ormai vasto, sia per interne esigenze ecclesiali (che spingevano comunque verso forme di centralizzazione), sia anche per avere più forza in un mercato editoriale che vedeva ormai competitori nazionali di sempre maggiore capacità imprenditoriale.

Morfologia e caratteri degli editori cattolici del Novecento. Dai primi decenni del Novecento ad oggi si è dunque progressivamente sviluppato un complesso e articolato ‘sistema’ di editoria cattolica, che ha avuto un particolare impulso dopo il Concilio Vaticano II. Nel 2012 nell’UELCI (Unione Editori e Librai Cattolici Italiani) si riuniscono 48 editori e 105 librerie. Tale sistema ha una configurazione di ‘costellazione pentagonale’. Si possono cioè distinguere cinque gruppi di editori dalle caratteristiche diverse (e naturalmente con differente forza sul piano della produzione e della distribuzione): il gruppo congregazionale; il gruppo scolastico e culturale laico; il gruppo universitario; il gruppo associativo; il gruppo dei piccoli editori ‘carismatici’.

Il gruppo congregazionale è sia il più importante (sul piano quantitativo, per pubblicazioni e vendite) sia il più antico, nel senso che più si ricollega alla precedente storia dell’editoria cattolica. 13 dei 48 editori infatti si possono riportare a Congregazioni religiose. Rientrano in quest’ambito i Salesiani (SEI, LDC), con la loro forte tradizione, che, come si è visto, risale all’Ottocento. Vi rientra anche il mondo dei ‘Paolini’, cioè delle congregazioni religiose fondate da don Alberione con lo specifico carisma di impegno nel mondo delle comunicazioni sociali (Edizioni Paoline e San Paolo). Ma molto importanti sono anche: Ancora (Pavoniani); Queriniana (Piamartini); Dehoniane (Dehoniani); Messaggero (Francescani di Padova); Editrice Missionaria Italiana (sostenuta dalle Congregazioni missionarie: PIME, Comboniani, Saveriani, Consolata); Monti (Concezionisti). Questo gruppo è anche molto importante per la distribuzione, contando su diverse catene di librerie: la catena alberioniana (58 librerie Paoline e 15 San Paolo), la catena salesiana (13 librerie LDC), la catena pavoniana (6 librerie Ancora). La diffusione della cultura teologica in Italia, come traduzioni e come opere di teologi italiani, deve molto a questo gruppo di editori.

Meno forte sul piano quantitativo ma allo stesso livello di importanza storica nell’ambito delle vicende della cultura italiana contemporanea è il gruppo che si potrebbe definire ‘scolastico e culturale laico’. Si tratta di tre importanti editrici che nascono come iniziativa laicale e puntando all’autosufficienza economico-aziendale (senza appoggiarsi cioè su congregazioni religiose, associazioni, università): La Scuola (Brescia); Morcelliana (Brescia); Studium (Roma). Se la prima, sorta nel 1904 per opera di un gruppo di laici (vicini all’Opera dei Congressi, cioè all’organizzazione del laicato cattolico), si è impegnata prevalentemente in campo scolastico, nel quale costituisce ancor oggi (insieme alla SEI) la presenza cattolica più importante, la seconda – anch’essa bresciana – è stata fondata e guidata da Fausto e poi da Stefano Minelli, con l’importante contributo di p. Bevilacqua, Giovanni Battista Montini, Giuseppe De Luca, Mario Bendiscioli. Autonoma, ma vicina ai Laureati cattolici e, ancora, a Montini è la terza, giunta per ultima, negli anni del fascismo e per contenderne l’egemonia culturale. Vi è una notevole affinità – di sensibilità culturale, se non proprio di linea editoriale – tra queste tre editrici: una sintonia che, per quel che si è detto, potrebbe definirsi montiniana. Il contributo che questo gruppo ha portato alla presenza dei cattolici nella più generale cultura nazionale è stato decisivo: attraverso i libri scolastici, le traduzioni, i libri di alta cultura, le numerose riviste (di diverso tipo). Da gruppo di editori vicini esso è infine diventato un unico gruppo editoriale.

Con una particolare (ma non unica ed esaustiva) caratterizzazione di tipo scientifico-accademico è il terzo gruppo, che è venuto sviluppandosi nelle forme della ‘university press’. Esso cioè comprende gli editori interni alle università cattoliche italiane e ai pontifici atenei. Spicca per importanza storica l’editrice Vita e Pensiero, dell’Università Cattolica del S. Cuore. Ma si possono ricordare anche la Gregorian & Biblical Press, la Libreria Ateneo Salesiano, la Urbaniana University Press, l’editrice della Pontificia Università Antonianum e le altre case stampatrici delle pubblicazioni delle università pontificie: alcune di queste, peraltro, si ricollegano anch’esse a ordini o congregazioni religiose (e dunque hanno rapporti con il primo gruppo).

Vi sono poi editrici che o per particolari assetti societari e proprietari o per altre forme di collegamento storico si riferiscono ad associazioni ecclesiali: così l’A.V.E. per l’Azione Cattolica Italiana, Città Nuova per il Movimento dei Focolari, Jaca Book per Comunione e Liberazione, Cittadella per la Pro Civitate Christiana. Si può ancora aggiungere la vicinanza di Borla agli Scout. Ancorché non si tratti di un ambito di sociabilità ecclesiale può non essere inopportuno ricordare le Edizioni Lavoro per la CISL. In questo gruppo di editori, in ogni caso, siamo spesso davanti a progetti editoriali fortemente caratterizzati e che, tuttavia, non hanno il loro baricentro in se stessi, nel campo editoriale in quanto tale, ma al di fuori e cioè nella visione spirituale, culturale e pastorale delle Associazioni di riferimento: così che non se ne può tracciare la storia prescindendo dalla stessa storia associativa (come pure, in senso contrario, la ricostruzione storica del progetto culturale di tali Associazioni non può avvenire ignorandone la proiezione editoriale).

Il quinto ed ultimo gruppo di questa ‘costellazione pentagonale’ comprende una pleiade di piccole editrici di nicchia, in genere legate ad una personalità carismatica. Si potrebbero ricordare vari casi, ma ci si può limitare a La Locusta di Renzo Colla, alle Edizioni di Storia e Letteratura di don Giuseppe De Luca, a Qiqajon di Enzo Bianchi e della Comunità di Bose. Quasi sempre si tratta di edizioni esteticamente sobrie ma molto curate: siano piccoli libri o poderosi tomi eruditi. Si rivolgono a un pubblico molto particolare e selezionato, che ha già, in genere, un personale rapporto spirituale o culturale con la figura che promuove l’editrice. Naturalmente, questa natura personalistica porta di necessità a cambiamenti dopo la scomparsa del fondatore-animatore.

Un caso a sé è costituito dalle pubblicazioni edite nella Città del Vaticano e che pure possono avere un vasto mercato in Italia: si pensi, in particolare, alla Libreria Editrice Vaticana.

Secondo il sintetico rapporto del Primo Osservatorio sull’editoria libraria religiosa in Italia, promosso dall’UELCI, nel decennio dal 2000 al 2010 i lettori di un libro religioso sono cresciuti di 900.000 unità, con un incremento del 2% annuo fino al 2007 e, addirittura, del 6% dal 2007 al 2010. La crescita maggiore si è avuta nella fascia compresa fra i 18 e i 54 anni. Nel 2010 si sono pubblicati 5.612 libri religiosi da parte di 796 editori: 579 editori laici (72,7% del totale) hanno pubblicato il 18% dei titoli, mentre 196 editori cattolici (24,6%) ne hanno pubblicato il 79,2%. In ogni caso, si segnala la grande attenzione degli editori laici per il settore religioso.

Dal 2009 al 2010 c’è stato un aumento dei titoli, con una crescita delle aree di riflessione, divulgativa e di formazione/famiglia e, invece, con un decremento nei settori della varia e degli scolastici. L’ambito devozionale è ancora molto forte.

Fonti e Bibl. essenziale

Cultura, religione e editoria nell’Italia del primo Novecento, sezione monografica in “Annali di storia dell’educazione e delle istituzioni scolastiche”, (2009), 16; A. Gigli Marchetti – L. Finocchi, Stampa e piccola editoria tra le due guerre, Milano, Angeli, 1997; A. Melloni, L’editoria religiosa del secondo Novecento: progetti, libri, sogni, mode, in A. Melloni (a cura di), Cristiani d’Italia. Chiese, Stato e società 1861-2011, Roma, Istituto dell’Enciclopedia Italiana, 2011, 1439-1452; S. Pivato, Strumenti dell’egemonia cattolica, in S. Soldani-G. Turi (a cura di), Fare gli italiani. Scuola e cultura contemporanea, II. Una società di massa, Bologna, Il Mulino, 1993, 361-383; F. Targhetta, Serenant et Illuminant. I cento anni della sei, Torino, Sei, 2008; A. Vittoria, L’editoria cattolica dall’Unità alla fine del fascismo, in A. Melloni (a cura di), Cristiani d’Italia. Chiese, Stato e società 1861-2011, Roma, Istituto dell’Enciclopedia Italiana, 2011, 1265-1279.


LEMMARIO




Educazione - vol. I


Autore: Rachele Lanfranchi

Educazione come fatto umano e categoria della vita. L’educazione è un fatto tipicamente umano perché con essa l’adulto aiuta il fanciullo ad apprendere gradualmente il mestiere d’uomo, a divenire ciò che è: persona umana, che si possiede per mezzo dell’intelligenza e della volontà. Inoltre la società propone alla nuova generazione i valori e le tecniche che caratterizzano la sua cultura. Si può allora dire che «l’educazione è categoria della vita; ma altrettanto fondatamente si può dire che la vita è categoria dell’educazione» (G. Flores D’Arcais, Orizzonti della pedagogia, Pisa, Giardini 1989, 91).

La maggior parte delle persone considera l’educazione cosa facile, mentre è un’arte difficile, un’attività complessae articolata perché rivolta alla totalità dell’essere umano, che è sempre persona concreta, situata in un luogo, un tempo, un contesto, in una storia familiare, sociale, culturale, politica, entro istituzioni più o meno stabili, entro il fluire di eventi, capace d’interrogarsi, di pensare, di decidersi per ciò che la struttura come persona umana.

L’educazione nei primi secoli del cristianesimo. La nascita di Gesù è un evento importante della storia. Egli, con la vita e le parole, annuncia la piena verità sull’uomo e sul cosmo, rivela il vero volto di Dio. Ciò fa supporre che i primi cristiani aprano scuole per assicurare alle nuove generazioni una cultura impregnata dei valoriportati da Cristo. Nulla di tutto ciò.

Fino al iv sec. d. C. i figli dei cristiani frequentano regolarmente la scuola classica come l’istituzione più idonea per apprendere a leggere, scrivere, far di conto, commentare gli autori classici. Si accetta la scuola classica perché fornisce gli strumenti per la formazione culturale, ma non se ne accettano i contenuti.

L’educazione è assicurata dalla famiglia e dalla comunità ecclesiale, luoghi privilegiati per trasmettere non solo il messaggio evangelico, ma una mentalità, un modo d’essere e di agire così da testimoniare con la vita il Cristo. Perciò l’esempio dei genitori e la partecipazione alle assemblee liturgiche costituiscono per i fanciulli cristiani il metodo più appropriato per far esperienza dei contenuti e dei valori del cristianesimo. Il catecumenato, che prende forma definitiva a Roma verso il 180, èl’istituzione espressamente educativa per preparare quanti aspirano a far parte della Chiesa.

L’impegno educativo è costante nell’azione della Chiesa, perché si tratta di far maturare nel cristiano la piena consapevolezza del dono ricevuto con il battesimo e degli impegni che esso comporta. Tutti i Padri della Chiesas’interessano di educazione anche se non in maniera esplicita e diretta. Girolamo ed Agostino con la loro attività di scrittori, educatori e pastori d’anime, mostrano la validità di una formazione culturale fondata sull’istruzione classica come strumento idoneo per la comprensione e spiegazione dei testi sacri e per l’impostazione di un sapere cristiano.

San Girolamo (347-419) è noto per la traduzione della Bibbia, la Vulgata, per la “scuola di alti studi biblici” inaugurata a Roma presso le comunità delle matrone Marcella e Paola. Si ignora, per lo più, la sua sensibilità nei confronti della donna e alcune significative lettere per l’educazione cristiana delle fanciulle: Lettera a Leta e Lettera a Pacatula. In esse Girolamo, oltre ad indicare come educare una fanciulla cristiana, coglie le esigenze psicologiche dell’infanzia e della fanciullezza ed esorta a lasciar giocare la bambina, a non tediarla con uno studio prolungato, a darle qualche dolce, lodarla e mostrarle affetto quando impara le prime parole, a creare intorno alla bambina un ambiente sereno e sano.

Sant’Agostino (354-430) le cui vicende sono mirabilmente scritte ne Le confessioni, svolge un’intensa attività di pastore e scrittore. Le sue opere pedagogiche più note sono il De Magistro (Il Maestro) e De catechizandis rudibus (La catechesi dei principianti). Nel De Magistro pone uno dei problemi centrali della pedagogia: il rapporto del discepolo conil maestrodal quale nasce la domanda se debba considerarsi maestro colui che ammaestra attraverso il linguaggio o colui che ammaestra interiormente attraverso la verità. La soluzione del problema è data dalla priorità del Maestro interiore. Il ruolo del maestro umano consiste nel purificare l’intelligenza del discepolo da tutto ciò che gl’impedisce di camminare verso il possesso del vero e della beatitudine, nell’insegnargli il metodo per cercare la verità. Nel De catechizandis rudibus Agostino risponde alle domande postegli dal diacono Deograzia incaricato d’insegnare ai catecumeni. L’operetta ha valore pedagogico perché con essa s’inizia la riflessione metodologica sull’atto dell’insegnare e sul processo di apprendimento in generale. Nell’educazione alla fede protagonista non è il maestro bensì il catechizzando visto nella totalità del suo essere, con le sue istanze psicologiche, gli influssi ambientali, sociali, culturali. L’amore diviene legge fondamentale di ogni rapporto educativo. San Girolamo e Sant’Agostino con la loro vita e i loro scritti esercitano un grande influsso sugli uomini del loro tempo e nella formazione dell’Europa cristiana.

Gli ideali educativi del Medioevo. Il Medioevo non elabora significative dottrine pedagogiche, mapropone vari ideali educativi, che rispecchiano la tensione di singoli e comunità per incarnare i valori cristiani nei vari stati di vita.

– L’ideale monastico nasce e si sviluppa nel periodo delle invasioni barbariche e dell’assorbimento dei nuovi popoli nell’ambito della cultura e civiltà romano-cristiana. L’ideale del monaco è l’imitazione di Cristo attraverso la preghiera, lettura della Bibbia, costante controllo di sé. In ogni monastero c’è una scuola per la formazione dei futuri monaci il cui scopo principale è la formazione morale e del carattere. L’apprendimento della lettura e scrittura è obbligatorio per tutti perché i monaci devono pregare con i Salmi, leggere la Bibbia, trascrivere manoscritti e codici. Quest’obbligo vale anche per i monasteri femminili. La disciplina monastica è sensibile alle esigenze dei fanciulli e nella Regola di san Benedetto si trovano molti richiami, che esortano il monaco adulto ad avere un atteggiamento benevolo e comprensivo nei confronti dei giovani.

– L’ideale religioso nasce agli inizi del xiii sec. come risposta alle istanze dei nuovi tempi, alle mutate esigenze religiose ed è realizzato da Francescani e Domenicani. L’ideale educativo religioso è l’imitazione di Cristo come per l’ideale monastico, ma cambiano le modalità di attuarlo. Francescani e Domenicani aspirano a vivere il Vangelo e a predicarlo: con l’esempio, l’umiltà, la letizia i primi; con la parola, lo studio, l’insegnamento i secondi.

– L’ideale scolastico, che pervade tutto il Medioevo per l’esistenza di scuole monastiche, episcopali, abbaziali, parrocchiali, ha il suo apogeo nel xiii sec. quando sorgono e si affermano le Università. Il sapere è visto come perfezione dell’uomo, per cui la cultura costituisce un ideale di vita, un mezzo per avvicinarsi a Dio. Si può quindi fare del sapere una professione divenendo Magister.

– L’ideale cavalleresco nasce nell’xi secolo e culmina al tempo delle Crociate. L’educazione del futuro cavaliere richiede parecchi anni non solo per l’addestramento nella pratica del combattere a cavallo, ma più ancora per acquisire quell’insieme di virtù che lo devono contraddistinguere: moderazione e dominio di sé; senso dell’onore e del dovere; fedeltà alla parola data e veracità; amore verso Dio; difesa della Chiesa e dei più deboli; amore rispettoso della dama; coraggio e misericordia; cortesia in tutto ciò che fa e dice.

– L’ideale mercantile si afferma nei secoli xiii-xv, quando la borghesia va acquisendo potere non solo nel campo economico e sociale, ma anche politico. Il mercante è descritto come persona amante del lavoro, operoso, tenace.Le scuole, nelle quali i figli dei mercanti imparano dapprima a leggere, scrivere e far di conto, danno importanza alle scienze applicate. Il mercante ha una sua cultura, diversa da quella dell’ecclesiastico e dell’uomo di lettere, ma non c’è contrapposizione tra cultura umanistica e scientifica: esse convivono e preannunciano il clima culturale dell’Umanesimo e del Rinascimento.

L’educazione nell’Umanesimo-Rinascimento. L’Umanesimo e il Rinascimento sono due aspetti di un complesso fenomeno culturale iniziato in Italia nella seconda metà del Trecento e durato fino a tutto il Cinquecento. I suoi tratti più rilevanti – centralità dell’uomo, scoperta dei classici, rinascita delle lettere, interesse per la natura – influenzano le esperienze educative, specie la scuola. Tra l’istruzione elementare e le università si fa strada un tipo di istituzione scolastica il cui programma di studi umanistici è all’origine del moderno insegnamento secondario classico. Rinomate sono la scuola di Guarino Guarini e la “Ca’ giocosa” di Vittorino da Feltre. La fondazione di scuole e l’elaborazione di precisi piani di studio si coniugano con puntuali riflessioni sopra diversi temi e questioni pedagogiche: educazione del principe (Vergerio, Filelfo, Piccolomini), della donna (Bruni, Alberti), dei figli (Vegio), del cortigiano (Castiglione).

L’educazione è caratterizzata dalla centralità dell’educando, considerato nella sua unicità e in tutti i suoi aspetti; dal rifiuto dei castighi corporali; dalla gradualità. L’ideale cui si mira è la persona matura dal punto di vista umano e cristiano.

Il Concilio di Trento e la pedagogia della Riforma cattolica. Le nuove Congregazioni religiose e la loro azione educativa.

Il discorso antropologico sviluppato dal Concilio per giustificare e difendere la libertà della persona umana, offre i fondamenti per il discorso pedagogico, che promuove la formazione dell’uomo cristiano in tutte le età, dall’infanzia all’età adulta, e in qualsiasi stato di vita. Si hanno così trattati pedagogici per la formazione umano-cristiana del figlio, dello studente, dell’universitario, del principe, del cittadino, del soldato, del lavoratore, del coniuge. Tutta la pedagogia della Riforma cattolica è pervasa dal concetto di prevenzione e di protezione nei confronti dell’educando. In essa assume importanza la formazione di buone abitudini e il rispetto per l’autorità. Il trattato pedagogico più completo e significativo di questo periodo è Dell’educazione cristiana de’ figlioli (1584), scritto da Silvio Antoniano su richiesta di san Carlo Borromeo.

Sant’Angela Merici (1474-1540) a Brescia fonda la Congregazione delle Orsoline, con lo scopo di educare e aiutare le ragazze attraverso un rapporto basato sulla fiducia, l’amicizia, con visite alle loro case e l’apertura di scuole-collegi. È convinta che la riforma della Chiesa inizia con la riforma della famiglia la cui moralità è allora alquanto precaria. È quindi urgenteche la giovane donna venga preparata al matrimonio e venga elevato il suo grado di cultura. Ben presto le Orsoline si orientano verso la scuola-collegio, come l’istituzione educativa che offre maggior continuità e sicurezza nell’educazione. Le scuole sono gratuite per le ragazze povere, a pagamento per quelle benestanti.

Santa Rosa Venerini (1656-1728) concepisce e realizza per prima il progetto di aprire scuole pubbliche per ragazze del popolo in Italia; si impegna con coraggio a favore dell’elevazione spirituale e dell’autentica emancipazione delle giovani donne del suo tempo.

Più numerose sono le Congregazioni religiose maschili, che si dedicano all’educazione dei ragazzi. Tra esse quella dei Somaschi, fondata nel 1534 da san Girolamo Emiliani (1486-1537), si occupa dei ragazzi orfani, poveri e abbandonati allora numerosi per le continue lotte a cui era sottoposta l’Italia. Aprono i primi orfanatrofi con lo scopo di dare una un’educazione integrale ai giovani che accolgono attraversola formazione intellettuale, professionale, religiosa. In seguito i Somaschi accettano la direzione di scuole per ceti superiori.

La Congregazione dei Barnabiti, fondata a Milano nel 1530 dal cremonese sant’Antonio Maria Zaccaria (1502-1539), ha lo scopo principale di riformare il clero e il popolo attraverso la predicazione, la direzione spirituale, l’assistenza ai malati. Solo più tardi essi accettano di aprire scuole per ragazzi: un’attività che diventerà per loro primaria nel xviii sec. in seguito alla soppressione dei Gesuiti.

Sempre a Milano è intensa l’attività del cardinal Carlo Borromeo (1538-1584), che crea e diffonde le Scuole domenicali della Dottrina cristiana. Fonda scuole gratuite, apre convitti per studenti universitari e per ragazze in pericolo.Decisivo è il suo influsso per la conclusione e l’applicazione del Concilio di Trento. Dà un notevole contributo nella redazione del Catechismo romano.

A Roma, in favore dell’educazione popolare e in particolare deigiovani, opera san Filippo Neri (1515-1595), che fonda la Congregazione dei Preti dell’Oratorio. Sua caratteristica è il tatto pedagogico con cui accosta i ragazzi e accetta il loro modo d’essere per portarli a un’autentica maturità umana e cristiana. Più tardi, sempre a Roma, san Giuseppe Calasanzio (1556-1648) fonda gli Scolopi (i religiosi delle Scuole Pie). Egli, prete spagnolo venuto a Roma, rimane colpito dalle condizioni in cui vivono i ragazzi di Trastevere. Per essi istituisce una scuola elementare, popolare, graduale, gratuita. Ricorda ai maestri la loro responsabilità nella formazione degli alunni; l’efficacia dell’esempio; l’importanza di trattare tutti con benevolenza e senza parzialità.

La congregazione religiosa che più di altre esercita un ruolo importante nel campo educativo e culturale è la Compagnia di Gesù, che sant’Ignazio di Loyola (1491-1556) fonda nel 1540. Per la formazione dei giovani apre collegi, che hanno un’espansione rapida in tutta Europa. Il primo di essi, che fa da modello a tutti gli altri, è quello di Messina (1548), seguito da quello romano (1550). La diffusione rapida e su vasta scala dei collegi fa sorgere l’esigenza di organizzarli adeguatamente, di avere un orientamento unitario, perché sia mantenuto l’obiettivo dell’educazione più volte ripetuto da sant’Ignazio: «virtù e lettere» e perché sia rispettato il principio di flessibilità e di realismo che tien conto della «diversità dei paesi e dei tempi», delle «circostanze di luoghi e di persone». Inizia così l’elaborazione della Ratio studiorum, nella quale confluiscono i raffronti con i regolamenti delle maggiori università d’Europa, specie quella di Parigi, l’esperienza dei più noti collegi, la conoscenza dei trattati pedagogici dell’Umanesimo, degli scritti del Vives, di Erasmo da Rotterdam, nonché i suggerimenti didattici di Quintiliano. Le linee direttrici della Ratios’incentrano sull’ordine e sul metodo, che diventeranno le note caratterizzanti la pedagogia del Seicento.La Ratio studiorum rimane per molto tempo un punto di riferimento per istituzioni educative religiose e laiche.

Le Congregazioni religiose – sia quelle nate in Italia come altre nate all’estero e ivi chiamate da uomini di Chiesa e non – costituiranno l’asse portante dell’educazione per tutto il Seicento e il Settecento contrastando, in particolare, la mentalità illuminista, che riduceva l’educazione a puro problema politico, sociale ed economico, facendo dello Stato il detentore assoluto di essa ignorando la capacità educativa della famiglia e della Chiesa.

L’educazione nel periodo risorgimentale. Il Risorgimento è un periodo storico complesso, dove s’intrecciano molteplici fattori che portano l’Italia, divisa e sottoposta a potenze straniere, all’unità e indipendenza nazionale.

Tra i molti problemi presenti nella prima metà dell’Ottocento quello dell’istruzione ed educazione popolare acquista sempre maggiore importanza, quasi chiave di volta per approdare all’unità e indipendenza. L’educazione del popolo diventa, perciò, il punto di convergenza delle istituzioni educative, delle riflessioni di pedagogisti e dell’attività di educatori.

Vincenzo Cuoco (1770-1823)è il pedagogista politico del primo destarsi della coscienza nazionale; Giuseppe Mazzini (1805-1872) l’araldo dell’educazione nazionale per un’Italia unita, indipendente, repubblicana; Aporti (1791-1858),svolge un’azione in favore dell’educazione popolare, particolarmente dell’infanzia, con uno spiccata sensibilità preventiva; Gino Capponi (1792-1876) è l’uomo colto, sostenitore di ogni iniziativa pedagogica a favore del popolo, strenuo difensore della forza degli affetti nel processo educativo contro la sterile “arte” di educatori pedanti; Raffaello Lambruschini (1788-1873) è il pedagogista e educatore che più di ogni altro intesse rapporti epistolari e personali con quanti hanno a cuore il problema dell’educazione popolare e studia come armonizzare autorità e libertà nell’azione educativa. Antonio Rosmini-Serbati (1797-1855) affronta il problema dell’unità dell’educazione e del metodo didattico su basi filosofiche perché la sua indagine sul sapere implica sia l’aspetto filosofico che pedagogico. Anzi, si può dire che in Rosmini la filosofia ha valenza pedagogica e la pedagogia si iscrive nella filosofia. Giovanni A. Rayneri (1810-1867) accoglie le istanze più valide della pedagogia del Risorgimento e contribuisce attivamente alla loro diffusione. Don Giovanni Bosco (1815-1888), uomo d’azione, creatore di numerose opere per i giovani dei ceti popolari, è convinto assertore del sistema preventivo e dei metodi educativi ispirati all’“amorevolezza” e al clima di famiglia.

Il xix secolo, dal suo inizio fino alla proclamazione dell’unità nazionale, manifesta un intenso interesse per il problema educativo. Tale interesse, anche da parte del potere politico, si radica nel clima romantico e, in particolare, nella conoscenza dei maggiori rappresentanti della pedagogia d’oltralpe, specie francese e svizzera: Rousseau, Pestalozzi, Girard, Necker de Saussure, Fröbel e di realizzazioni scolastiche (scuola di mutuo insegnamento, infant school).

Le esperienze scolastiche ed educativemesse in atto da personeo associazioni private sono accompagnate, nella prima metà del xix secolo, dagli interventi statali e particolarmente dalle iniziative ecclesiastiche.

Gli ordinamenti legali mirano a mettere ordine nell’ambito delle istituzioni scolastiche. Nel Regno Sardo le due prime leggi organiche dell’istruzione sono quella del 1848 (legge Boncompagni) e quella del 1859 (legge Casati); quest’ultima, estesa alle altre regioni italiane dopo l’unità nazionale, resta sostanzialmente in vigore fino alla Riforma Gentile del 1923.

Dopo i tumultuosi anni della Rivoluzione francese e l’avventura napoleonica, la Chiesa si fa più attivamente presente nell’ambito dell’educazione e della scuola. I principali protagonisti di questo impegno sono gli istituti religiosi dediti all’insegnamento e all’educazione. Nei primi decenni del xix secolo sono ripristinati quelli soppressi dalla Rivoluzione e sorgono nuove congregazioni insegnanti. «Complessivamente, sono oltre 140 gli istituti maschili e femminili sorti tra il 1800 e il 1860. La maggior parte (oltre 120) erano femminili e circa 2/3 di essi erano legati con il problema dell’educazione» (G. Rocca, Aspetti istituzionali e linee operative nell’attività dei nuovi istituti religiosi, in L. Pazzaglia (a cura di), Chiesa e prospettive educative 1994,173). Basti ricordare, fra i molti, i fratelli Cavanis: Antonio Angelo (1772-1858), Marcantonio (1774-1853) e la Congregazione delle scuole di Carità, Lodovico Pavoni (1784-1849)e i Figli dell’Immacolata, Nicola Mazza (1790-1865) con due Congregazioni (maschile e femminile), Rosmini con l’Istituto della Carità e le Suore della Provvidenza, don Bosco e la Società di S. Francesco di Sales, Maddalena di Canossa (1774-1835) e l’Istituto delle Figlie della Carità, Teresa Verzeri (1801-1852) e le Figlie del Sacro Cuore di Gesù, Caterina Gerosa (1784-1847), Bartolomea Capitanio (1807-1833) e le Suore di Maria Bambina. Inoltre: le Figlie di Gesù di Verona (1812), le Orsoline di Maria Immacolata (Orsoline di Gandino, 1818), Suore di S. Anna (1834), Marcelline (1838), Maestre Pie dell’Addolorata (1839), Maestre di S. Dorotea (1840), Dorotee di Cemmo (1842).

Pur con lentezze e ambiguità lo Stato comincia a occuparsi anche delle scuole di arti e mestieri e della formazione tecnica e professionale. Ma, ancora una volta, bisogna mettere in risalto l’opera dei privati (il marchese Ridolfi) e dei fondatori di istituti religiosi (don Bosco, il teol. Murialdo).

Gli Istituti Religiosi, come si è detto, hanno dato un apporto fondamentale all’educazione, specie quella popolare. Anche se la loro opera è ispirata essenzialmente da motivazioni di carità e non da esigenze di giustizia sociale, con de Giorgi si può dire che essi «si posero in modo dialetticamente creativo di fronte ai processi di modernizzazione, almeno da quattro punti di vista: svilupparono un’acuta sensibilità spirituale, pastorale e caritativa verso le nuove povertà, i nuovi bisogni, le nuove piaghe sociali prodotte dalla rivoluzione industriale, dall’urbanesimo, dalle trasformazioni sociali ed economiche; pur con una cultura talvolta diffidente se – non ostile verso la “modernità” –, istituirono opere, specialmente nei campi educativo e socio-sanitario, che si ponevano in maniera nuova e più adeguata rispetto al contesto sociale, innovando metodi, strumenti, modalità operative; furono comunque costretti, a causa della vita di tali loro opere nel quadro legislativo e normativo moderno, ad acquisire una conoscenza specifica e puntuale – non fosse altro per motivi di contenzioso giudiziario o, al contrario, per evitarlo in via preventiva – dei meccanismi istituzionali statali e degli ingranaggi amministrativi e burocratici; diedero un contributo reale, specialmente in alcuni settori o in alcune particolari aree geografiche, alla modernizzazione della società italiana» (De Giorgi, L’immagine dei religiosi nella storiografia italiana contemporanea, in Annali di Scienze Religiose 7 [2002] 339).

Fonti e Bibl. essenziale

H.I. Marrou, Storia dell’educazione nell’antichità, tr. it. U. Massi, Studium, Roma 2008. Capitolo IX: Il cristianesimo e l’educazione classica e X: L’apparizione delle scuole cristiane di tipo medievale; V. Milazzo, Educare una vergine. Precetti e modelli in Ambrogio e Girolamo, Tip. Universitaria, Catania 2002; J.A. Galindo Rodrigo, Pedagogía de San Augustín, Augustinus, Madrid 2002; L’Enfance, l’École, l’Église en Occident Ve-XVe siècles, in Histoire de l’Éducation (1991) n. 50, 5-117; C. Xodo Cegolon, Cultura e pedagogia nel monachesimo alto medioevale. «Divinae vacare lectioni», La Scuola, Brescia 1980; C. Xodo Cegolon, Educazione cavalleresca, in Enciclopedia pedagogica diretta da M. Laeng, vol. ii Brescia, La Scuola 1989; L. Pellegrini, L’incontro tra due «invenzioni» medievali: università e ordini mendicanti, Liguori, Napoli 2003; A. Galino, La educación de artesanos, in B. Delgado (ed.), Historia de la educación, vol. i, 1992, 516-525; G. Belloni-R. Drusi (Edd.), Il Rinascimento italiano e l’Europa. 2. Umanesimo ed educazione, Colla, Vicenza 2007; G. Zago, Vittorino da Feltre e la rinascita dell’educazione, Pensa Multimedia, Lecce 2008. Per le Congregazioni insegnanti femminili e maschili vedere Dizionario degli Istituti di Perfezione, (a cura di G. Pelliccia- G. Rocca), 10 voll., San Paolo, Roma 1974-2004; L. Pazzaglia (a cura di), Chiesa e prospettive educative in Italia tra Restaurazione e Unificazione. La Scuola, Brescia 1994.


LEMMARIO




Educazione - vol. II


Autore: Rachele Lanfranchi

Le Scuole nuove come movimento di riforma pedagogica. Nell’ultimo decennio dell’Ottocento e nella prima metà del Novecento si avverte una crescente attenzione all’educazione e alla scuola: c’è una vera fioritura di proposte e di esperienze. Si è potuto parlare, al riguardo, di un «movimento di riforma pedagogica». Pedagogisti ed educatori, grazie alla conoscenza di autori come Comenio, Locke, Rousseau, Pestalozzi, Herbart, muovono una critica severa, spesso polemica e un po’ ingenua, alla cosiddetta “scuola tradizionale”, vista come scuola dello sforzo, del castigo, come scuola passiva, adultistica, centrata sul programma, lontana dalla vita reale. Una critica, che non rimane sterile perché è accompagnata da una proposta: porre in atto una “Scuola nuova” per cui si hanno esperienze di “Scuole nuove” in Europa e in tutto il mondo.

In Italia le sorelle Agazzi – Rosa (1866-1951) e Carolina (1870-1945) – criticano gli asili aportiani e fröbeliani basandosi sull’esperienza compiuta nell’asilo di Mompiano (BS). Per loro è fondamentale l’attenzione ai bisogni e alla situazione concreta del bambino. Finalità della scuola materna è l’educazione armonica di tutto il bambino nelle sue varie componenti: fisica, intellettiva, morale, sociale, religiosa. Il bambino è inteso come essere attivo, come «germe vitale che aspira al suo completo sviluppo». Il germe, per svilupparsi, necessita di un ambiente adatto e l’ambiente adatto al bambino è quello della casa, dove ci si muove, si lavora, si prendono i pasti, ci si aiuta e ci si vuole bene. La scuola del bambino, quindi, deve essere «scuola materna» dove il bambino è aiutato a osservare la vita e la realtà partendo dagli esercizi di vita pratica: soffiarsi il naso, lavarsi i denti, salire e scendere le scale, rimboccarsi le maniche, apparecchiare la tavola, sfogliare un libro, vestirsi, attenzione al bambino piccolo da parte del più grande. In tal modo gli esercizi di vita pratica diventano lavoro, in cui si sa quello che si fa e si ha il passaggio dalla spontaneità alla consapevolezza, dal gioco al lavoro, dalla vita libera all’ordine. Le intuizioni e le istanze più valide delle Agazzi – il senso del bambino e della sua spontaneità e capacità inventiva, la cura dell’ambiente, la semplicità dei mezzi e dei materiali didattici – sono accolte nelle Istruzioni e programmi per gli asili e i giardini d’infanzia, promulgati nel 1914 da Credaro, ministro della Pubblica Istruzione, come pure negli Orientamenti per l’attività educativa della Scuola materna del 1958 e quelli del 1969. Molti asili e scuole materne diretti da Istituti religiosi e parrocchie si aprono alle istanze pedagogiche e didattiche delle “Scuole nuove” facendo proprie le indicazioni ministeriali.

Contemporanea alle Sorelle Agazzi è Maria Montessori (1870-1952)laureata in medicina. Agli inizi del ’900 è incaricata di organizzare gli asili all’interno delle case popolari del quartiere S. Lorenzo di Roma e nel 1907 si inaugura la prima “Casa dei bambini”: una scuola per bambini dai 3 ai 7 anni. Ben presto questa esperienza si moltiplica e il nome della Montessori acquista fama nazionale e internazionale, grazie alla pubblicazione dei suoi scritti, dei suoi molti viaggi e conferenze all’estero, al sorgere di Enti per la diffusione del suo metodo. Ciò che caratterizza il pensiero e anche il metodo della Montessori è la concezione del bambino come essere attivo, protagonista della sua educazione nel libero svolgersi delle sue forze. La scuola dev’essere in funzione dell’auto sviluppo e dell’autoeducazione del bambino. Ciò richiede un ambiente adatto, o adattato, un materiale appositamente costruito, un maestro che sappia riconoscere l’apparire delle nuove esigenze del bambino. Il materiale di sviluppo, che si presenta rigoroso nella sua costruzione e nell’uso, tende a curare la perfezione delle sensazioni. Anche la lettura, la scrittura e l’aritmetica vengono apprese con materiale speciale. La fortuna del metodo Montessori è molto vasta: ovunque si moltiplicano le “Case dei bambini” e le “Scuole Montessori”. Non mancano critiche e riserve al metodo, accusato di isolare il bambino dall’ambiente reale, di ricorrere a mezzi artefatti quando la vita ne presenta di più semplici e veri, di ignorare il mondo sociale e, in particolare, di non possedere una fondata consapevolezza dei fini dell’educazione. Tuttavia alla Montessori va riconosciuto il merito di aver segnalato la necessità di ancorare la pedagogia a studi scientifici e di aver promosso una scuola rispettosa del bambino.

Sono esperienze tra le più note, le cui istanze pedagogiche e didattiche sono entrate a pieno titolo nell’allora Scuola materna, Case dei bambini, Scuola Elementare e, oggi, nella Scuola dell’infanzia e Primaria.

Altra esperienza è lo Scautismo che, fondato in Inghilterra da Baden Powell nel 1908, si diffonde ben presto ovunque grazie alla sua proposta educativa che ben individua alcuni interessi fondamentali del ragazzo. In Italia le prime esperienze di scautismo vengono realizzate nel 1910 dall’educatore genovese Mario Mazza (1882-1959). Attualmente, all’interno della Federazione Italiana dello Scautismo (FIS), sono federate due organizzazioni: il Corpo Nazionale Giovani Esploratori Italiani (CNGEI), di orientamento non confessionale, e l’Associazione Guide e Scout Cattolici Italiani (AGESCI). Quest’ultima continua a crescere in modo considerevole.

L’educazione tra orientamenti collettivistici e personalistici. Teorie pedagogiche ed esperienze educative si sono sempre richiamate a una precisa concezione filosofica dell’uomo, della storia, della società. Lo stesso si dica per quelle del XX secolo. L’orientamento collettivista dell’educazione si pone nell’orizzonte marxista-leninista e in Italia è rappresentato da Antonio Gramsci (1891-1937). Egli interpreta il marxismo come storicismo: l’uomo è una serie di rapporti attivi e coscienti che egli instaura con la natura e con gli altri uomini in un determinato momento storico. Si ha il primato dell’esistenza sull’essenza, del collettivo sull’individuale: l’uomo è storicità, società, coscienza; l’uomo «si fa», si costruisce nei rapporti sociali. Gramsci è convinto che nel mondo contemporaneo la realtà può essere trasformata partendo dall’ideologia, dalla cultura, prima e meglio che dall’economia. In quest’opera di trasformazione il problema pedagogico acquista una rilevanza primaria perché l’egemonia culturale – che porterà a quella politica – si costruisce con il concorso di molte forze che insieme interagiscono per organizzare la cultura in modo da formare il «blocco storico». Si tratta di creare, attraverso la scuola, la stampa, l’editoria, il teatro, l’azione degli «intellettuali organici» e del partito, una cultura storica, scientifica e critica attraverso la quale il proletariato prende coscienza del suo valore e della sua funzione non solo in campo economico, ma anche in quello sociale e politico, mettendo in crisi la cultura di chi è al potere. Gramsci è per una scuola formativa, unitaria e per tutti, che richiede impegno e sforzo, perché solo con una scuola esigente si assicura alla classe lavoratrice «un nuovo strato di intellettuali». Gli intellettuali sono gli organizzatori, i persuasori permanenti, i funzionari di una nuova visione del mondo. Il “nuovo” intellettuale non appartiene al gruppo sociale superiore: sorge direttamente dalla massa e rimane a contatto con essa. Si crea così quasi un’osmosi tra «sentire» del popolo e «sapere» dell’intellettuale attraverso cui si perviene a un tipo di sapere scientificamente fondato e condiviso, il cosiddetto «blocco storico», che è l’egemonia intellettuale-morale del gruppo che va al potere. Il partito elabora, per mezzo di una élite, le nuove concezioni del mondo, dirige organicamente «tutta la massa economica attiva» eliminando i vecchi schemi. Si giunge in tal modo all’egemonia culturale, premessa di quella politica. Gramsci, come uno dei fondatori del Partito Comunista Italiano; come pensatore politico ed interprete della coscienza culturale espressa dal movimento operaio; come esegeta originale del marxismo occidentale esercita sulla cultura italiana ed europea un notevole e duraturo influsso che ha il suo apice negli anni Settanta.

Il Personalismo pedagogico rimanda a quello filosofico, nato in Francia a seguito alla crisi del 1929: si presenta come analisi del mondo moderno contrapponendosi sia all’individualismo che al marxismo. Suo scopo è la difesa dell’uomo come persona, come soggetto libero, responsabile delle proprie azioni, non riducibile a determinismi di natura biologica, meccanicistica o dialettica. Ciò che costituisce l’uomo è la sua spiritualità, che implica la nozione di totalità e indipendenza. Ne consegue che l’uomo non è un “risultato”, un “evento”, “un momento” dell’evoluzione cosmica e del divenire storico.

In Italia Luigi Stefanini (1891-1956) è il primo a proporre una pedagogia personalista a metà degli anni ’50, proposta seguita da molti altri tra cui Aldo Agazzi (1906-2000), Giuseppe Flores D’Arcais (1908-2004), Marcello Peretti (1920-1998). Nell’immediato dopoguerra si adopera per la rinascita culturale dell’Italia. Insieme ad altri colleghi dà inizio al Centro Studi di Filosofia di Gallarate, che dal 1945 indice annuali convegni allo scopo di favorire un confronto tra pensatori cattolici. In questi incontri di studio matura la sua ricerca teoretica in direzione personalista. Nel 1954 favorisce il sorgere di Scholé, Centro di Studi Pedagogici fra docenti universitari cristiani. Il Personalismo pedagogico di Stefanini si fonda su quello filosofico, che egli si premura di distinguere da altre filosofie anch’esse denominate “personaliste” e che fanno la loro comparsa attorno agli anni ’50. Stefanini parte dalla definizione di persona come «sostanza spirituale, razionale, singolare, libera, responsabile, incarnata e mondanizzata». Il primato metafisico, sociale e morale della persona comporta il primato della persona in campo educativo. L’educazione è intesa come il processo attraverso il quale la persona viene alla luce e prende possesso di sé. Le note caratterizzanti la persona indicano in quale direzione deve muoversi l’educazione scolastica. Per Stefanini occorre “personalizzare” la scuola e ciò implica la difesa del primato del singolo alunno rispetto al gruppo scolastico riconoscendo ad ogni allievo il diritto a un’educazione che rispetti i suoi ritmi evolutivi; l’attenzione al soggetto da educare visto nel suo concreto contesto socio-culturale; la possibilità di vedere nel maestro una persona riuscita; l’instaurazione di un rapporto dialogico e reciprocamente attivo tra maestro e allievo, in cui l’autorità sia suscitatrice della libertà dell’educando; la considerazione del sapere non fine a se stesso, ma in prospettiva sapienziale; l’organizzazione della scuola in modo che assicuri l’istruzione di base a tutti e l’accesso agli studi superiori ai capaci e meritevoli. Nell’ultimo anno di vita, nella relazione tenuta a Trento per la XXVIII Settimana Sociale dei cattolici italiani (1955), Stefanini mette in guardia contro i rischi insiti nelle moderne teorie pedagogiche (attivismo, strumentalismo, paidocentrismo, sperimentalismo, globalismo): tendono a «volatilizzare l’intimità» spirituale del singolo, la quale fonda la ragione della sua dignità. È un richiamo a non perdere “la parte migliore” nell’affannosa ricerca di rendere la scuola e l’allievo attivi a qualsiasi costo, senza neppure interrogarsi in che consista l’attività autentica del soggetto. Il pensiero e l’attività di Stefanini si segnalano nel panorama filosofico-pedagogico del secondo dopoguerra. L’originalità della sua riflessione personalista è colta non solo in Italia, ma anche all’estero, soprattutto in Francia.

L’educazione alle soglie del terzo millennio. L’educazione delle nuove generazioni costituisce, per le società di ogni tempo, la sfida più grande per l’avvenire dell’umanità. Infatti, attraverso l’educazione l’adulto intende condurre il fanciullo ad apprendere gradualmente il mestiere di uomo e la società inizia la giovane generazione ai valori e alle tecniche che caratterizzano la sua cultura. Oggi questa capacità di accompagnare i giovani a divenire ciò che sono chiamati ad essere, a raggiungere una libertà matura capace di decisioni responsabili; di proporre e consegnare loro valori e tradizioni che segnano la crescita dell’umanità sembra venir meno. Si avverte più che mai la difficoltà, da parte dell’adulto, di accompagnare il fanciullo nel suo processo di crescita umana. Una difficoltà che ha mosso un gruppo di intellettuali a lanciare un Appello: «Sta accadendo una cosa che non era mai accaduta prima: è in crisi la capacità di una generazione di adulti di educare i propri figli. Per anni dai nuovi pulpiti – scuole e università, giornali e televisioni – si è predicato che la libertà è l’assenza di legami e di storia, che si può diventare grandi senza appartenere a niente e a nessuno, seguendo semplicemente il proprio gusto o piacere. È diventato normale pensare che tutto è uguale, che nulla in fondo ha valore se non i soldi, il potere e la posizione sociale. Si vive come se la verità non esistesse, come se il desiderio di felicità di cui è fatto il cuore dell’uomo fosse destinato a rimanere senza risposta» (Appello: Se ci fosse una educazione del popolo tutti starebbero meglio, in Atlantide [2005] 4,119). Si tratta di una grande sfida che, insieme ad altre, quali la complessità, la globalizzazione, la pervasività delle nuove tecnologie della comunicazione, la velocità dei cambiamenti, il tempo “compresso”, la presenza di profughi, rifugiati, migranti, la multiculturalità, multireligiosità, la violenza, ecc. ci chiede insistentemente e senza dilazioni di ripensare più a fondo il significato e le condizioni dell’impegno educativo: l’educazione esige di essere studiata seriamente. L’educazione, è bene ricordarlo, è chiamata – oggi come ieri – a scelte: educare ad essere o ad avere? Educare alla libertà o al consenso? Educare al giudizio critico, alla coerenza o al conformismo? Educare all’agire morale o alla manipolazione della coscienza? Educare ad elaborare un pensiero personale o a ripetere quanto si legge, si sente e si vede? Educare a liberare l’intelligenza o appesantirla di nozioni? E si potrebbe continuare. «È qui il bivio del nostro tempo: decidersi per le idee, per le cose, la scienza che fanno l’uomo, oppure per l’uomo che fa le idee, le cose, la scienza» (G. Massaro, Soggettività e critica in pedagogia, La Scuola,Brescia, 1984, 39). Si tratta di individuare nell’educazione un tesoro, come sostiene J. Delors nel rapporto all’Unesco della Commissione Internazionale sull’Educazione per il XXI secolo: «Di fronte alle molte sfide che ci riserva il futuro, l’educazione ci appare come un mezzo prezioso e indispensabile che potrà consentirci di raggiungere i nostri ideali di pace, libertà e giustizia sociale» (J. Delors (a cura di), Introduzione, in Nell’educazione un tesoro, Armando,Roma, 1997, 11). Un compito, quello di educare, che ogni adulto è chiamato a svolgere non in modo isolato, bensì in collaborazione con le istituzioni, facendo rete con quanti hanno a cuore l’educazione, ben sapendo che educare non è facile, perché «l’educazione è un’arte, un’arte particolarmente difficile» (Maritain 2001, 61) e che «l’éducation est et sera toujours à la fois nécessaire et difficile». (G.M. Garrone, Réflexion sur l’éducation dans le monde d’aujourd’hui, in Rivista di Pedagogia e Scienze Religiose [1973] 3, 293).

Fonti e Bibl. essenziale

R. Lanfranchi – J.M. Prellezo, Educazione scuola e pedagogia nei solchi della storia. Vol. 2: Dall’Illuminismo all’era della globalizzazione, LAS, Roma, 2011; M. Grazzini, Sulle fonti del Metodo Pasquali-Agazzi e altre questioni. Interpretazioni, testi e nuovi materiali. Contributi per una Storia dell’Educazione e della Scuola infantile in Italia, Istituto di Mompiano Centro Studi pedagogici “Pasquali-Agazzi”, Brescia, 2006; R. Regni, Infanzia e società in Maria Montessori. Il bambino padre dell’uomo, Armando, Roma, 2007; F. Cambi, Libertà da… L’eredità del marxismo pedagogico. La Nuova Italia, Milano, 1999; L. Corrieri, Luigi Stefanini: un pensiero attuale, Prometheus, Milano, 2002; J. Maritain, Per una filosofia dell’educazione, a cura di G. Galeazzi, La Scuola, Brescia, 2001; Globalizzazione e nuove responsabilità educative, Atti del XLI Convegno di Scholé, La Scuola, Brescia, 2003; Educazione cristiana e trasformazioni religiose, Atti del XLII Convegno di Scholé, La Scuola, Brescia, 2004; Educare tra scuola e formazioni sociali, Atti del XLIX Convegno di Scholé, La Scuola, Brescia, 2011; L’educazione tra reale e virtuale, Atti del L Convegno di Scholé, La Scuola, Brescia, 2012; R. Lanfranchi, Don Lorenzo Milani: un maestro che educa al pensiero critico, in Rivista di Scienze dell’Educazione 51(2013)1, pp. 48-70; R. Lanfranchi, La scuola cattolica in Italia e la FIDAE. Dal Concilio ad oggi, in CENTRO STUDI per la SCUOLA CATTOLICA, Una pluralità di gestori. Scuola Cattolica in Italia. Quindicesimo Rapporto, Brescia, La Scuola 2013, pp. 37-59; R. Lanfranchi, Aporti e don Bosco. Per un’educazione popolare e preventiva, in M. Ferrari – M.L. Betri – C. Sideri (a cura di), Ferrante Aporti tra Chiesa, Stato e società civile. Questioni e influenze di lungo periodo, Milano, Franco Angeli 2014, pp. 171-191; R. Lanfranchi, La città dei ragazzi di Roma. Una scuola di responsabilità educativa, in G. Zago (a cura di), Sguardi storici sull’educazione dell’infanzia, Fano (PU) Aras Edizioni 2015, pp. 381-406; R. Lanfranchi, Pietro Braido e la sua teoria dell’educazione, in Orientamenti pedagogici (2017) vol.64, n.2, pp. 235-246; M. Gecchele – S. Polenghi – P. Dal Toso (a cura di), Il Novecento: il secolo del bambino?, Milano, Edizioni Junior, 2017; C.M. Fedeli, Guardini educatore, Lecce-Brescia, Pensa 2018; E. Diaco (a cura di), L’educazione secondo Papa Francesco, Bologna, Dehoniane 2018.


LEMMARIO




Emigrazione, Immigrazione - vol. I


Autore: Matteo Sanfilippo

L’emigrazione italiana ha dimensioni di tutto rispetto già nel Basso medioevo. Sin dal Tre-Quattrocento sono infatti usuali: 1) le migrazioni agricole, stagionali e a medio-lungo periodo: da Toscana e Liguria alla Provenza oppure dal Triveneto alle terre imperiali; 2) l’ambulantato commerciale e artigianale: dal Piemonte in Francia e Svizzera; 3) l’esodo ciclico e per varia durata di lavoratori specializzati – in particolari edili – da Lombardia e dal Piemonte ai paesi oltre le Alpi. A questa mobilità tradizionale si aggiunge quella indotta dallo sviluppo commerciale: Milano, Venezia, Genova, Firenze e Lucca acquistano un peso sempre maggiore negli scambi continentali e inviano stabilmente propri rappresentanti nelle capitali europee o nei luoghi dove si tengono fiere internazionali e tali inviati divengono il nucleo di comunità emigrate.

Contemporaneamente la Penisola attrae popolazioni dal di fuori. Per tutto il medioevo, questo era avvenuto grazie alle “invasioni”, dai barbari agli arabi, ai normanni e agli svevi, trasformatesi in vettori immigratori. Contemporaneamente arrivano popolazioni balcaniche in fuga davanti alle ondate prima barbariche e poi islamiche, culminate nella conquista turca del Quattro-Cinquecenteo. Nel Due-Trecento entrano in gioco nuovi fattori, quale, per esempio, il grande sviluppo dell’università bolognese che attira docenti e discenti di ogni contrada europea. Tali arrivi richiamano artigiani stranieri, pronti a lavorare per una clientela trasferitasi dai loro stessi luoghi di partenza, ma anche per una città in piena fioritura. Non bisogna inoltre sottovalutare le migrazioni a breve raggio, che hanno un forte rilievo numerico e aprono la strada a successivi spostamenti: così il trasferimento di lombardi nell’entroterra di Venezia li porta in un secondo tempo in Friuli e qui offre loro la possibilità di proseguire oltre le Alpi, mentre quello dalla Calabria alla Sicilia ispira successivi salti nell’ambito dei domini aragonesi e in genere la presenza nei domini spagnoli in Italia facilita successivamente il passaggio ai domini spagnoli in Europa o in America.

Di fronte alla crescente mobilità migratoria, la Chiesa di Roma sfrutta inizialmente la presenza di religiosi corregionali o connazionali dei migranti. In particolare ricorre all’opera di regolari provenienti dall’Italia per gli italiani fuori dei confini peninsulari o di regolari provenienti da fuori Italia per chi si trasferisce nella Penisola. Tali interventi, spesso “volanti” come tante missioni fra gli immigrati di fine Ottocento, cessano quando gli emigrati italiani fuori della Penisola e quelli europei in Italia chiedono o costruiscono proprie chiese. Nasce allora il fenomeno delle chiese o delle cappelle nazionali presenti in diversi luoghi del Vecchio Mondo tra Quattro e Cinquecento, spesso affiancata da altre istituzioni e sempre servito da un clero, regolare o secolare della stessa provenienza dei migranti. Nel Quattrocento esistono chiese italiane a Parigi e Ginevra, mentre nel secolo successivo troviamo una cappella e un ospedale “de los Italianos” a Madrid, una chiesa e un ospedale a Praga, istituzioni analoghe a Lisbona e a Londra. Allo stesso tempo Roma attrae una crescente popolazione europea (i censimenti di inizio Cinquecento indicano percentuali non lontane da quelle di inizi Duemila) e vede nascere un reticolo di chiese nazionali. Nella città queste sono d’altronde una tradizione antichissima: tra il 724 e il 726 Ina, re del Wessex, nelle vicinanze della basilica di S. Pietro fonda la Scuola sassone, cioè un complesso di edifici, che comprende una chiesa, un ospizio, un albergo e talvolta persino un ospedale e un cimitero, presto imitato da frisoni, franchi, longobardi, alamanni, burgundi, bavari e ungari. Dal Trecento l’afflusso di immigrati, che restano per lungo tempo o addirittura per sempre e che servono da appoggio ai pellegrini e ai diplomatici del loro paese, porta alla fondazione di confraternite e ospizi, secondo un meccanismo non lontano da quello delle scholae, e stimola la fondazione di chiese nazionali. Proprio in quel secolo S. Antonio dei Portoghesi diviene il centro della comunità lusitana e accanto alla chiesa sorge un ospedale. S. Ivo dei Brettoni nasce dalla ristrutturazione di una chiesa più antica donata da Nicolò V ai bretoni: la concessione è ratificata da Callisto III e accanto alla chiesa sorgono l’ospizio e l’ospedale. S. Maria dell’Anima è ricostruita nel 1500-1523 sul luogo della cappella e dell’ospizio per pellegrini di area germanica (cioè tedeschi, austriaci, fiamminghi e olandesi) fondati secondo la tradizione da Giovanni di Pietro da Dordrecht alla metà del Trecento e riorganizzati nel 1410. S. Girolamo degli Illirici (oggi dei Croati) è eretta sotto Sisto IV, al posto di una chiesetta concessa da Nicolò V: a essa sono annessi un ospizio e un ospedale. S. Giacomo degli Spagnoli (ora Nostra Signora del S. Cuore a piazza Navona) è ristrutturata in occasione del giubileo del 1450, ma forse era già sosta per i pellegrini ispanici. La costruzione di S. Pietro in Montorio è voluta da un gruppo di francescani spagnoli e finanziata da Ferdinando e Isabella di Spagna; sarà in seguito aiutata da Carlo V, Filippo III e Filippo IV. S. Luigi dei Francesi è iniziata nel 1518, ma la fondazione è preceduta da quella della confraternita omonima eretta nel 1478, che acquista alcune chiese del rione Regola e un ospedale in rovina, presto ricostruito. S. Maria in Monserrato è iniziata sempre nel 1518 per gli aragonesi, i catalani e i valenziani: nello stesso luogo esisteva un ospizio dei catalani e Alessandro VI, le cui spoglie vi sono deposte assieme a quelle di Callisto III, vi fonda una confraternita per i suoi conterranei. S. Stanislao dei Polacchi in via delle Botteghe Oscure è concessa nel 1578 al cardinale Stanislao Hozjusz, che costruisce anche l’ospizio e l’ospedale. S. Andrea degli Scozzesi a via delle Quattro Fontane è costruita per i cattolici di quella nazione nel 1592, mentre nel secolo precedente essi utilizzavano la chiesa di S. Andrea delle Fratte. S. Isidoro a via degli Artisti è pensata per i francescani spagnoli nel 1622, ma tre anni dopo è dei francescani irlandesi. S. Nicola dei Lorenesi è ricostruita nel 1635-1636 per volontà della confraternita lorenese, mentre SS. Andrea e Claudio dei Borgognoni è edificata nella seconda metà Seicento.

In tutti questi edifici sacri, come in quelli per gli italiani fuori della Penisola, un clero migrante, che segue i propri connazionali, garantisce l’assistenza nella lingua di partenza. Mentre aumentano le chiese nazionali a Roma e nelle altre grandi città europee, l’unità della cristianità s’infrange e al problema dell’assistenza degli immigrati si abbina quello di controllare chi non appartiene alla Chiesa del luogo di insediamento. La progressiva estensione dei territori protestanti e la paura della penetrazione della Riforma nella Penisola porta a un irrigidimento dei controlli religiosi, dei quali fanno le spese anche le comunità di rito orientale di lontano (i greci) o di vicino insediamento (gli albanesi). Per quanto riguarda gli emigrati di origine italiana, sappiamo che le loro chiese di Ginevra e di Londra passano rispettivamente sotto i calvinisti e gli anglicani. Grazie alla documentazione del Sant’Uffizio scopriamo inoltre che gli stranieri in Italia sono sottoposti a un continuo “screening” religioso e che al contempo le autorità romane non vorrebbero italiani nelle terre degli “eretici”. Tuttavia i mercanti della Penisola non accettano tali esortazioni e continuano a operare in piazze come Norimberga. Proprio in quest’ultimala comunità emigrata non disdegna le cerimonie luterane, ma allo stesso tempo mantiene un missionario cattolico per assicurare il proseguimento della tradizionale adesione religiosa. Altre forme di adattamento, in genere deprecate da Roma, si trovano in Inghilterra, in Polonia e in Olanda.

D’altra parte lo stesso potere pontificio non si oppone a forme striscianti di adattamento per quanto riguarda i protestanti in Italia. Questi sono in genere controllati e talvolta spinti alla conversione, ma in genere quest’ultima è limitata a persone chi si è mosso verso la Penisola proprio a tal scopo. La pressione sui protestanti stranieri in Italia diviene una questione di opportunità politico-economica: non si perseguono le comunità che appartengono a Stati con saldi legami commerciali con la Penisola, né chi appartiene al clan degli Stuart approdato nella città dei papi. Anzi a questi ultimi sono offerti privilegi straordinari, per esempio un apposito cimitero presto aperto a tutti i non cattolici. Di conseguenza la Città Eterna attira ancora di più i protestanti, soprattutto inglesi, e questi, divenendo più numerosi, ottengono nel corso del Sette-Ottocento ulteriori riconoscimenti, ivi compresa la possibilità di far venire membri del proprio clero, purché celebrino le funzioni religiose soltanto nelle abitazioni private. Nel 1816 è addirittura inaugurata una cappellania informale a via del Babuino, dove sarà più tardi eretta la chiesa anglicana di Ognissanti.

Nel corso dell’Ottocento l’emigrazione italiana assume dimensioni sempre maggiori. Inoltre gli italiani non si recano prevalentemente in Francia, Spagna, Austria-Ungheria e l’America Latina, ma optano per Gran Bretagna e Germania, Stati Uniti e Canada. La Santa Sede comprende che potrebbe perdere quelle anime, come d’altronde può ormai accadere anche nell’ecumene cattolico: anticlericalismo e movimenti nazionali rendono infatti la Francia o l’America Latina altrettanto pericolose di un paese protestante. Allo stesso tempo l’arrivo nelle Americhe e in Francia di cattolici di varie nazionalità e soprattutto di diversi idiomi obbliga la chiesa a ristrutturare la propria organizzazione. Non è infatti semplice accogliere i nuovi arrivati nelle parrocchie territoriali, dove si parla soltanto la lingua del luogo.

Negli anni 1840 la nunziatura apostolica in Brasile affronta contemporaneamente i due problemi. Da un lato, cerca di controllare la propaganda antipontificia degli esuli italiani. Dall’altro, l’internunzio Gaetano Bedini si occupa degli emigrati per ragioni economiche e richiede sacerdoti per seguire i nuovi arrivati. Nel 1853-1854, nuovamente diretto in Brasile, si ferma negli Stati Uniti e nel Canada e redige numerose lettere sugli europei che varcano l’Atlantico, la loro integrazione e la necessità di assisterli. In tale occasione rileva come il pericolo non sia più la propaganda protestante, quanto quella dei movimenti anti-emigrati e degli esuli del 1848, tanto più che i due fronti si saldano proprio per contestare il suo viaggio. A questo punto la difesa della presenza cattolica nelle Americhe e della fede degli emigrati si lega, per Bedini, a quella dei diritti del pontefice. Secondo lui, il futuro di Roma si gioca su tanti fronti e uno di questi è quello americano, dove un aspetto importante della lotta è la disputa per il controllo degli immigrati. Gli spunti del nunzio sono meditati dalla burocrazia romana per decenni, tanto più che Bedini ascende ai vertici della gerarchia cattolica come influentissimo segretario di Propaganda Fide e cardinale arcivescovo di Viterbo.

Durante l’attività di Bedini, gli ordini missionari iniziano a occuparsi sul campo degli emigranti, italiani e non. Barnabiti, cappuccini, domenicani, francescani, gesuiti, redentoristi e serviti annoverano religiosi in grado di badare a fedeli di più nazionalità e quindi si fanno carico dell’assistenza dei migranti. Il loro intervento non è, però, sufficiente ed essi non vogliono dedicarsi alla cura degli immigrati. Intervengono allora istituti di nuova fondazione: nel 1844, per esempio, Vincenzo Pallotti affida gli italiani di Londra a Raffaele Melia e questi fonda la parrocchia di S. Pietro, perché ritiene che i connazionali abbiano bisogno di un proprio tempio. Nei decenni seguenti i pallottini estendono il loro sforzo e sbarcano infine oltre Atlantico (nel 1884 a Brooklyn e New York, nel 1886 nel Rio Grande do Sul).

Fonti e Bibl. essenziale

The Protestant Cemetery in Rome. The “Parte Antica”, a cura di A. Menniti Ippolito e Paolo Vian, Roma, Unione Internazionale degli Istituti di Archeologia Storia e Storia dell’Arte in Roma, 1989; Roma, la città del papa, a cura di L. Fiorani – A. Prosperi, Storia d’Italia, Annali, 16, Torino, Einaudi, 2000; G. Pizzorusso – M. Sanfilippo, Dagli indiani agli emigranti. L’attenzione della Chiesa romana al Nuovo Mondo, 1492-1908, Viterbo, Sette Città, 2005; I. Fosi, Stranieri in Italia: mobilità, controllo, tolleranza, in Studi storici dedicati a Orazio Cancila, a cura di A. Giuffrida, F. D’Avenia – D. Palermo, Palermo, Mediterranea 2011, 531-556, e Convertire lo straniero. Forestieri e Inquisizione a Roma in età moderna, Roma, Viella, 2011; M. Sanfilippo, Faccia da italiano, Roma, Salerno Editrice, 2011; P. Corti – M. Sanfilippo, L’Italia e le migrazioni, Roma-Bari, Laterza, 2012; Ad ultimos usque terrarum terminos in fide proganda. Roma fra promozione e difesa della fede in età moderna, a cura di M. Ghilardi, G. Sabatini, M. Sanfilippo e D. Strangio, Viterbo, Sette Città, 2014; A. Menniti Ippolito, Il Cimitero acattolico di Roma. La presenza protestante nella città del papa, Roma, Viella, 2014; Chiese e nationes a Roma: dalla Scandinavia ai Balcani, a cura di A. Molnár, G. Pizzorusso e M. Sanfilippo, Roma, Viella, 2017.


LEMMARIO