Associazione Italiana dei Professori di Storia della Chiesa

Dizionario Storico Tematico La Chiesa in Italia
Dopo l'Unità Nazionale
Roma 2015
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Emigrazione, Immigrazione - vol. II


Autore: Matteo Sanfilippo

La situazione post-1870 vede la Chiesa continuare quanto impostato nei decenni precedenti. Da un lato, prosegue l’apertura ai fedeli, ma anche ai protestanti venutisi a insediare in Italia. Dall’altro, lotta per mantenere il controllo degli emigrati italiani e per usarli come testa di ponte nella conquista di paesi anticlericali come la Francia o protestanti come gli Stati Uniti. A tale scopo ricorre all’apporto dei nuovi istituti di vita consacrata che sopperiscono alle difficoltà del clero diocesano, pur se non nati per occuparsi dell’emigrazione, ma si trovano rapidamente nella necessità di farlo. È il caso dei salesiani di don Giovanni Bosco, che, su richiesta di Pio IX, intervengono fra gli italiani di Buenos Aires. Agli inizi del Novecento i salesiani assistono i compatrioti in quasi tutta l’America Latina, negli Stati Uniti, in Svizzera e in Germania, in Tunisia, a Costantinopoli e nel Medio Oriente.

Nel 1887 Propaganda Fide autorizza le parrocchie nazionali, chiamate anche personali o linguistiche, negli Stati Uniti. Queste devono integrarsi nel tessuto diocesano, ma hanno giurisdizione su una comunità immigrata e non su un quartiere. La raccolta di documenti, che precede tale decisione, mette i funzionari di Propaganda in contatto con la realtà nordamericana e con analoghe esperienze europee. Inoltre permette loro di stringere rapporti con le associazioni di altri paesi, in particolare la società di patronato degli emigranti tedeschi.

I funzionari di Propaganda realizzano che per gli italiani non esiste niente di simile e che questo si riflette nell’incapacità di avere edifici di culto e d’incontro. Inoltre scarseggiano i sacerdoti provenienti dalla Penisola o, se vi sono, hanno seguito percorsi non sempre approvati dalla Santa Sede. La soluzione, contemporanea alla deliberazione sulle parrocchie nazionali, prevede di confidare a Giovanni Battista Scalabrini, vescovo di Piacenza, l’istituzione di una congregazione di religiosi che assista gli italiani nelle Americhe e al contempo gestisca un collegio per formare i missionari addetti a tale compito. Leone XIII approva con breve del 25 novembre 1887 e quindi presenta il progetto ai vescovi d’oltreoceano (Quam aerumnosa, 1888). Inizialmente si prevede un esperimento quinquennale, mirato agli Stati Uniti e al Brasile, ma in quel lustro il pontefice e la curia si rendono conto dell’ineluttabile necessità di prestare maggiore attenzione alle migrazioni (Rerum Novarum, 1891).

L’ultimo decennio del pontificato di Leone XIII vede montare l’interesse per la mobilità umana e di ciò beneficia il progetto scalabriniano. Il vescovo di Piacenza ritiene in un primissimo tempo che il nuovo istituto debba essere un’appendice di Propaganda. Nel 1889 decide, però, di affiancargli una Società di patronato degli emigranti sulla falsariga della Raphaelsverein. Scalabrini ottiene buoni risultati nei luoghi d’arrivo, grazie all’impegno dei suoi missionari e al fondamentale aiuto delle congregazioni femminili, basti qui ricordare le Apostole del S. Cuore di Francesca Saverio Cabrini, ma il numero delle congregazioni femminili che seguono gli italiani nelle scuole e negli ospedali è infinito.

Alla morte nel 1905 Scalabrini lascia quaranta case in America, con annesse chiese e scuole, nonché un orfanotrofio a San Paolo. La riuscita non è stata, però, esente da polemiche con altre congregazioni e con la Curia. Da oltre dieci anni Propaganda non sostiene il vescovo piacentino, inoltre la Segreteria di Stato, sulla scia delle rimostranze di alcuni salesiani, sospetta che gli scalabriniani siano troppo acquiescenti nei riguardi del Regno d’Italia. Lo stesso Scalabrini diviene consapevole della difficoltà di bilanciare appartenenza nazionale e appartenenza religiosa; è inoltre spaventato dall’aumento delle contrapposizioni oltreoceano tra le comunità emigrate. Prima di morire, propone quindi alla Santa Sede di istituire un dicastero, o eventualmente solo una commissione, pro Emigratis Catholicis. Ritiene infatti che si è cominciato a fare qualcosa per ogni gruppo, ma che bisogna coordinare gli sforzi.

Nel nuovo secolo l’attenzione cattolica alle questioni migratorie non decresce, anzi si aprono nuovi fronti. L’istituto scalabriniano è sempre focalizzato sulle Americhe e soltanto più tardi tornerà verso il Vecchio Mondo. Di quest’ultimo si occupa invece Geremia Bonomelli, vescovo di Cremona, che nel 1900 fonda l’Opera di assistenza agli operai italiani emigrati in Europa e nel Levante. Le decine di sacerdoti impegnati sono quasi tutti secolari e nel volgere di qualche anno riescono a intervenire tra gli italiani in Svizzera, Francia e Germania, fondando scuole, parrocchie e ospizi. La loro azione è coadiuvata dai barnabiti a Parigi, i dehoniani a Marsiglia, i salesiani a Lione e Zurigo, i cappuccini nel sud della Francia.

Si ha bisogno di un maggiore coordinamento e nel 1909 è fondata l’Italica Gens (1909), che federa congregazioni religiose e associazioni laiche interessate agli italiani nelle Americhe, ma presto il Vaticano riprende il comando. Pio X istituisce nel 1912 il primo ufficio della curia romana per l’emigrazione, una sezione speciale della Concistoriale che ha competenza sull’orbe cattolico e risponde al suggerimento di Scalabrini di badare a tutti i migranti, smussando conflitti tra loro e con le diocesi di accoglienza. Nel 1914 è decisa la fondazione a Roma del Pontificio Collegio per l’emigrazione italiana, che dovrebbe formare il clero diocesano per seguire gli italiani in tutto il mondo: l’apertura effettiva avverrà, però, solo nel 1920. Nel frattempo i dicasteri romani affidano l’Opera Bonomelli a un vescovo, senza compiti territoriali, il cosiddetto Prelato per l’emigrazione italiana, cui è sottoposto il Pontificio Collegio.

Fra le due guerre cambia direzione l’emigrazione, a causa della chiusura degli sbocchi americani e della diaspora antifascista verso la Francia. Inoltre il regime entra in conflitto con le organizzazioni cattoliche obbligandole a mantenersi defilate. Durante il ventennio, il Prelato per l’emigrazione funziona a scartamento ridotto e nel frattempo nascono problemi con le missioni oltreoceano, cui non sono più inviati rinforzi. L’assistenza agli emigrati ricade quindi sulle chiese locali. Nel 1944 Pio XII istituisce la Pontificia Commissione Assistenza Profughi (in seguito solo Pontificia Commissione Assistenza e infine Pontificia Opera Assistenza) che negli anni tra il 1945 e il 1948 soccorre quasi mezzo milione di italiani e stranieri stabilitisi in vari centri della penisola e ne organizza la partenza verso l’Europa, le Americhe e l’Australia. È la riorganizzazione della rete di assistenza cattolica, ora sostenuta dalla statunitense National Catholic Welfare Conference.

Subito dopo la guerra la Pontificia Commissione e i principali dicasteri (la stessa Segreteria di Stato crea un ufficio apposito nel 1947) si occupano del movimento di migranti e rifugiati di tutto il mondo. Lentamente, però, i funzionari vaticani tornano a guardare soprattutto ai propri connazionali. Nel 1949 il Pontificio Collegio per l’emigrazione è riaperto e affidato agli scalabriniani. Nel 1951 è fondata a Roma la Giunta Cattolica per l’emigrazione e a Ginevra la Commissione Cattolica Internazionale per le Migrazioni. Nel 1952 la Costituzione apostolica Exsul Familia stabilisce le nuove norme relative all’assistenza spirituale degli emigranti e conferma che questa compete alla Concistoriale. Il documento pontificio ribadisce l’opportunità delle parrocchie nazionali e personali, con competenza sui fedeli di una determinata nazionalità e affidate ai sacerdoti dello stesso gruppo. Sottolinea quindi il diritto naturale ad emigrare, suggerisce lo scambio tra clero delle diverse parti del mondo per venire incontro ai migranti. Infine ricorda come l’emigrante non sia obbligato a integrarsi immediatamente nella società d’accoglienza, ma abbia diritto a una propria autonomia culturale.

A quest’ultimo tema Pio XII ha già accennato sul finire della guerra e si potrebbe pensare a una ripresa delle idee di Scalabrini per proteggere l’italianità dei suoi emigranti. Ora il discorso riguarda, però, tutti gli emigranti e risponde a preoccupazioni analoghe a quelle di fine Ottocento, quando la paura della propaganda socialista scalza il timore di quella protestante. Negli anni 1950 siamo in piena guerra fredda e l’impegno anticomunista tra i migranti è fondamentale; non è, però, l’unica molla della loro protezione. Il mondo cattolico sta riscoprendo l’impegno nel sociale e i missionari usciti dal Pontificio Collegio, divenuto di completa responsabilità scalabriniana, si muovono in sintonia con le nuove esperienze e non sempre accettano i dettami geopolitici più retrivi. Nel complesso il magistero di Pio XII e di Giovanni XXIII portano a un maggior rispetto dell’identità dei migranti e aprono la strada alle riflessioni di Paolo VI e Giovanni Paolo II. Il primo in particolare approfondisce le problematiche migratorie, pur se concernono sempre meno la popolazione italiana, tanto che nel 1973 è chiuso il Pontificio Collegio. Il motu proprio PastoralisMigratorum Cura (1969) analizza la nuova mobilità e i processi di integrazione, insistendo sui diritti della persona umana: è chiosato dagli interventi del pontefice successivo, che, però, si occupa ormai di flussi non più italiani. Nel frattempo le stesse strutture curiali si evolvono: la Concistoriale diviene nel 1967 la Congregazione dei Vescovi, mentre nel 1970 è creata al suo interno la Pontificia commissione per la cura spirituale dei migranti e degli itineranti, resa autonoma dal 1988 come Pontificio Consiglio  da allora sempre più attento anche all’assistenza, in genere tramite parrocchie nazionali, dell’immigrazione in Italia. Negli anni successivi l’attenzione si sposta ulteriormente e si concentra sul fenomeno dei rifugiati. Nella riorganizzazione della Curia voluta dall’attuale Pontefice, la cura di questi ultimi e di tutti i migranti è demandata a una speciale sezione del nuovo Dicastero per lo Sviluppo umano integrale, sezione nella quale è rifuso il Pontificio consiglio prima citato.

Fonti e Bibl. essenziale

S.M. Tomasi, L’assistenza religiosa agli italiani in USA e il Prelato per l’Emigrazione Italiana 1920-1949, “Studi Emigrazione”, 66 (1982), 167-189; P. Borruso, Missioni cattoliche ed emigrazione italiana in Europa (1922-1958), Roma, CSER, 1994; G. Rosoli, Insieme oltre le frontiere. Momenti e figure dell’azione della Chiesa tra gli emigrati italiani nei secoli XIX e XX, Caltanissetta-Roma 1996; L. Trincia, Emigrazione e diaspora. Chiesa e lavoratori italiani in Svizzera e in Germania fino alla prima guerra mondiale, Roma, Studium, 1997, e Per la fede, per la patria. I Salesiani e l’emigrazione italiana in Svizzera fino alla prima guerra mondiale, Roma, LAS, 2002; M. Sanfilippo, L’affermazione del cattolicesimo nel Nord America. Elite, emigranti e chiesa cattolica negli Stati Uniti e in Canada, 1750-1920, Viterbo, Sette Città, 2003; F. Baggio, La Chiesa argentina di fronte all’immigrazione italiana tra il 1870 e il 1915, Roma, CSER, 2000; P.R. D’Agostino, Rome in America. Transnational Catholic Ideology from the Risorgimento to Fascism, Chapel Hill-London, The University of North Carolina, Press, 2004; Diversità nella comunione. Spunti per la storia delle Missioni Cattoliche Italiane in Svizzera (1896-2004), a cura di G. Graziano Tasselo Roma – Basel, Fondazione Migrantes – CSERPE,2005; V. De Paolis, Chiesa e migrazioni, Città del Vaticano, Urbaniana University Press, 2005; The Pastoral Care of Italians in Australia: Memory and Prophecy, a cura di A. Paganoni, Ballan, Connor Court, 2007; Sorelle d’oltreoceano. Religiose italiane ed emigrazione negli Stati Uniti: una storia da scoprire, a cura di M.S. Garroni, Roma, Carocci, 2008; F. Motto, Vita e azione della parrocchia nazionale salesiana dei SS. Pietro e Paolo a S. Francisco (1897-1930). Da colonia di paesani a comunità di italiani, Roma, LAS, 2010; G. Parolin, Chiesa postconciliare e migrazioni. Quale teologia per la missione con i migranti, Città del Vaticano, Pontificia Università Gregoriana, 2010; Migrazioni. Dizionario socio-pastorale, a cura di Graziano Battistella, Roma – Cinisello Balsamo, SIMI-San Paolo, 2010; 150 anni della nostra storia: la pastorale agli emigrati nelle Americhe, in Europa e in Australia, a cura di V. Rosato, “Studi Emigrazione”, 184-185 (2011); Migrazione e nuova evangelizzazione, a cura di Aldo Skoda Pashkja, Città del Vaticano, Urbaniana University Press, 2013; Bonomelli e Scalabrini. Due vescovi al cui cuore non bastò una diocesi, a cura di F. Baggio, Roma, CSER-SIMI, 2015; G. Bentoglio, «Ero straniero e mi avete accolto…». Il linguaggio del Magistero, «Studi Emigrazione» 197, 2015, pp. 61-73, e Il magistero della Chiesa sulle migrazioni: il diritto a non emigrare, «Studi Emigrazione», 201, 2016, pp. 97-106; G. Perego, Per una pastorale della speranza: opere, gesti e scelte di vita in tempi migrazioni, «Studi Emigrazione», 205, 2017, pp. 81-88.


LEMMARIO




Episcopato - vol. I


Autore: Antonio Menniti Ippolito

Nel codice di diritto canonico vigente dei vescovi si dice che essi, “per divina istituzione sono successori degli Apostoli, mediante lo Spirito Santo che è stato loro donato, sono costituiti Pastori della Chiesa, perché siano anch’essi maestri di dottrina, sacerdoti del sacro culto e ministri del governo. […]. Con la stessa consacrazione episcopale i Vescovi ricevono, con l’ufficio di santificare, anche gli uffici di insegnare e governare, i quali tuttavia, per loro natura, non possono essere esercitati se non nella comunione gerarchica col Capo e con le membra del Collegio”. Nel codice del 1917, si detta invece che i vescovi, sempre quali “successori degli Apostoli”, sono preposti per istituzione divina al governo delle diocesi, ossia delle Chiese particolari, di cui sono amministratori sotto l’autorità del pontefice romano, ciò anche quando essi sono designati, presentati o eletti da altri soggetti, ecclesiastici o civili. Già questa evoluzione della definizione dimostra come il ruolo e la funzione dei vescovi si siano venuti a formare e a trasformare nella storia in una continua e mai scontata dinamica che non si è di fatto mai esaurita.

Le origini. Il termine vescovo (dal greco, in senso letterale: guardiano, controllore, protettore) corrisponde a sopraintendente, ispettore, ed in tal senso fu utilizzato in età antica per identificare funzioni anche non attinenti alla dimensione ecclesiastica (governatori, prefetti, magistrati, ecc.). Nel Nuovo Testamento la parola ricorre quattro volte quale sinonimo di presbiteri e in una evenienza viene accostata a Cristo. Dall’inizio del II sec. la letteratura patristica prende invece a denominare comunemente vescovi i capi delle comunità cristiane differenziandoli dai presbiteri e dai diaconi. Non senza ambiguità: ad esempio a Roma, dove il primo documento che attesti con sicurezza l’esistenza di una comunità cristiana è costituito dalla lettera con cui Paolo annunciò nel 57 il suo arrivo nell’Urbe, l’effettivo governo della comunità è sì definito col termine di episkopè, ma resta fino al termine del II sec. affidato non a un capo monarchico, ma al collegio dei presbiteri. Altrove, come ad Antiochia ma anche in molti altri luoghi (non però ad Alessandria), le comunità cristiane erano invece stabilmente rette da vescovi assistiti dal collegio dei presbiteri e dai diaconi. A Roma insomma un vescovo s’impose più tardi che in molti altri centri della cristianità. Ciò avvenne con ogni probabilità soprattutto per la natura cosmopolitica dell’Urbe: il Collegio dei presbiteri assicurava rappresentanza a ciascuna componente “nazionale” della comunità cristiana e conteneva con ciò tendenze centrifughe testimoniate peraltro in vario modo dalle fonti.

È verso la fine del II sec. che Ireneo compilò una prima lista dei vescovi di Roma: un elenco che solleva molti interrogativi. Stante la forma di governo fondata sull’organizzazione presbiterale si può ipotizzare che ad essere lì indicati quali vescovi siano stati personaggi di rilievo della comunità, probabilmente proprio appartenenti al Collegio dei presbiteri. Oltre a tutto ciò, va considerato come il primo dei nomi indicati da Ireneo ad avere effettivo spessore storico sia Pio, che venne eletto nel 142 e che morì nel 152. Gli studiosi concordano oggi sul fatto che primo effettivo vescovo monarchico della comunità romana, ovvero primo papa in senso proprio, sia stato Vittore, africano di lingua latina, eletto nel 189, e primo pastore di Roma non di origine orientale (ciò indica il venir meno della prevalenza degli orientali nella comunità cristiana di Roma, la cui lingua ufficiale era rimasta peraltro a lungo il greco).

Procedure elettive. I vescovi, si è detto, sono gli amministratori delle Chiese particolari e queste, dopo alcune esitazioni – ad esempio sia in Oriente che in Occidente (qui ancora nel XII sec.) vennero inizialmente definite parrocchie – presero il nome di diocesi, termine che presso i romani definiva il territorio amministrato da una città, ma anche le province governate da legati o grandi divisioni territoriali comprendenti più province. È con Gregorio IX (1227-1239) che il termine diocesi si affermò definitivamente nell’uso ecclesiastico. Le diocesi vennero in parte a formarsi sovrapponendosi alle divisioni amministrative e territoriali esistenti, ma in altri casi per la capacità d’attrazione di una località sede di una comunità cristiana e di un potere vescovile su territori più o meno allargati, per volontà politica o per i motivi più vari, diversi luogo per luogo. Come venivano nominati i vescovi? Le procedure erano svariate. Potevano essere i vescovi vicini alla diocesi resasi vacante a designarli, col concorso del clero e del popolo (che poteva esprimersi in forme diverse ed avere più o meno peso), e la nomina doveva poi essere confermata dal metropolita, ossia dal vescovo che era a capo della metropoli, ossia la città matrice o principale della diocesi e che godeva di prerogative di controllo sui vescovi comprovinciali, poi detti, dal sec. VIII, suffraganei (così come si dettò a Nicea, 325, e fu confermato da una decretale di Innocenzo I nel 404, che specificava però che nella Provincia romana serviva la conferma del papa). Con i carolingi e all’interno della rinnovata struttura imperiale le forme d’intervento del potere politico nella designazione dei vescovi si fecero via via più invasive e ciò portò alla nascita della “guerra delle investiture” che avrebbe animato i rapporti tra papato e impero per un lungo periodo a cavallo del I millennio. Il concordato di Worms pose fine nel 1122 alla questione riconoscendo il potere di eleggere i vescovi ai capitoli delle cattedrali: gli eletti avrebbero poi dovuto essere consacrati dagli arcivescovi, mentre agli imperatori rimaneva in tutto ciò il solo compito di conferire il possesso temporale della diocesi. Nella prima Italia comunale i vescovi potevano essere eletti dal clero col concorso delle autorità municipali, ma dagli inizi del Duecento anche qui i capitoli delle cattedrali presero a rivendicare un ruolo esclusivo in tali elezioni. Nel tardo Medioevo poi, in molti centri, ad esempio Firenze, ad evitare che il titolo vescovile divenisse appannaggio di potentati locali, si provvide a nominare alla guida delle diocesi solo forestieri. Una grande varietà di metodi elettivi, come si vede, che anche mutava di tempo in tempo e di luogo in luogo. È comunque dal XIV sec. che il diritto di confermare i vescovi eletti passò gradualmente ai papi che riuscirono altresì a riservarsi talvolta anche il diritto di nomina: ciò avvenne in linea di massima nel nuovo quadro dello stato regionale (questo ovviamente nell’Italia centro-settentrionale), che vide i papi impegnati a confrontarsi non più con una moltitudine di voci locali, ma con un solo principe espressione di una stabile famiglia regnante. Si pensi ad esempio all’indulto concesso da Niccolò V a Francesco Sforza nel 1450: il papa si impegnava con esso a conferire i benefici ecclesiastici nel Dominio di Milano alle personalità indicate dal duca purché avessero i requisiti canonici di base.

Nel corso del XV sec., con l’esaurirsi del Grande Scisma e a partire dal concilio di Costanza, il papato prese a stipulare concordati prima con le nationes presenti a Costanza e poi, dopo che il re di Francia nel 1438 con la Prammatica sanzione di Bourges si era unilateralmente arrogato funzioni di controllo totale sulla chiesa di Francia e si era espresso per di più in maniera esplicita in favore delle istanze conciliariste, anche con ciascuno dei singoli stati europei. Con la stipulazione di questi atti, la Santa Sede concedeva per privilegio, teoricamente revocabile, quello che poteri sempre più forti e aggressivi minacciavano di attribuirsi in proprio schierandosi peraltro, così come il monarca transalpino, per il concilio. I sovrani acquisirono così il controllo delle realtà ecclesiastiche dei loro Regni, e in cambio accettavano di prestare un’obbedienza sempre solo più formale al pontefice romano. La realtà di queste Chiese assoggettate a principi che si comportavano da “papi” all’interno dei loro territori e che designavano vescovi che erano di fatto loro funzionari, costituiva ancora nel sec. XIX per Antonio Rosmini una delle cinque piaghe che affliggevano la Chiesa. Nei fatti ancora agli inizi del sec. successivo solo undici paesi non interferivano con i poteri di nomina dei vescovi da parte del papa pur descritti nella normativa canonistica e infine riproposti con più efficacia nel codice di diritto canonico del 1917 (che fornì alla Chiesa di Roma quei presupposti di uniformità normativa che le avrebbero concesso di rivendicare gradualmente autorità su Chiese nazionali ciascuna rivendicante una tradizione normativa propria). Nel concilio Vaticano II si ribadì che la giurisdizione sui vescovi spettava al papa ma non si poté fare altro che raccomandare ai poteri civili che ancora rivendicavano autorità in materia di cedere tali loro prerogative. Nel codice di diritto canonico del 1983 fu infine specificato che tali prerogative non sarebbero state più concesse ad alcun potere civile.

Un caso eloquente. La nomina del vescovo di Roma. Ma sono le stesse norme di elezione dei papi nel corso del primo millennio a testimoniare, per quel che riguarda la nomina dei vescovi, una varietà infinita di procedure oltre ad una costante pressione del potere imperiale (ma non solo, perché in taluni momenti forte fu anche la pressione dei potentati dell’Urbe). In un quadro in cui la nomina del vescovo di Roma andava necessariamente confermata dall’imperatore d’Oriente, si affermò una procedura che voleva che il capo della comunità cristiana dell’Urbe venisse prescelto (fino al IX sec. tra i soli ecclesiastici della diocesi, senza eccezioni) grazie al concorso del clero e popolo romano. Papa Simmaco (498-514) provò a forzare la norma e convocò nel 499 un sinodo in San Pietro per decretare che per evitare patteggiamenti, scambi di voti, ecc, che solevano caratterizzare le elezioni, la designazione del nuovo papa sarebbe stata compito di quello in carica. Solo se questo fosse venuto a mancare senza aver provvisto all’incombenza, la scelta sarebbe spettata al clero romano. Tale mandato non fu rispettato, indice della volontà degli elettori tradizionali di non voler perdere tale prerogativa, ma tentativi nel senso dettato da Simmaco, o continue variazioni delle procedure, caratterizzarono ogni elezione, ciascuna delle quali, in pratica, ebbe caratteri peculiari. Una svolta significativa si presentò nel 757. Quando papa Stefano II parve giunto sul punto di morire, la popolazione si spaccò tra i sostenitori dell’arcidiacono Teofilatto e quelli del fratello del morente, Paolo. Fu questi a prevalere, all’insegna di una forzatura – mai si era verificata la trasmissione diretta in famiglia del titolo papale – che favorì alla morte di Paolo II una serie di torbidi e l’acclamazione a papa di un laico, Costantino, poi costretto a fuggire per la reazione alla designazione di potenti componenti della Chiesa romana. La crisi generatasi da questi eventi portò alla creazione di un nuovo antipapa, Filippo e, infine, il 31 luglio 768, nell’antica sede del Senato romano, tutte le componenti della cittadinanza si riunirono per eleggere regolarmente papa Stefano III. Questi, nell’aprile 769, convocò in Laterano un concilio che rivoluzionò la forma delle elezioni papali. Sarebbe stato solo il clero a provvedere ora alle nomine, potendo eleggere esclusivamente ecclesiastici mentre al popolo dei laici, nelle sue varie componenti, rimaneva il compito di riconoscere l’eletto una volta che questi avesse preso possesso del Laterano. L’aristocrazia laica di Roma vedeva così ridimensionate le proprie possibilità di determinare le elezioni dei papi. Vi furono poi eccezioni, anche significative, quale quella della nomina a papa del diciottenne Giovanni XII nel 955 voluta dal padre, Alberico II, uomo potente di Roma, per unire alla potestà politica sull’Urbe da parte dei conti di Tuscolo anche la giurisdizione sulla Chiesa, ma tutto poi si stabilizzò con la creazione a metà dell’XI secolo del collegio cardinalizio (e con le successive modifiche: creazione del conclave e le diverse riforme dello stesso, la più rilevante delle quali in età moderna fu quella voluta da Gregorio XV). Tutto ciò per significare che se le elezioni dei papi stessi furono soggette a tali mutazioni, anche quelle dei vescovi delle Chiese particolari dovettero assumere nel tempo forme diverse e del tutto particolari.

Il papa e i vescovi. Con un papato fortemente condizionato dal potere imperiale la costruzione della Chiesa italiana venne all’inizio caratterizzata dal processo di formazione della provincia ecclesiastica del vescovo di Roma che comprese tutta la penisola fino a quando, verso la metà del IV sec. venne a costituirsi attorno a Milano una nuova provincia. All’interno dell’area a lui direttamente soggetta, il papa confermava i vescovi eletti dal clero e popolo locali che qualche volta poteva direttamente nominare o deporre. Dalla provincia di Milano si sarebbe poi venuta creare quella di Aquileia, mentre dalla provincia romana si staccò poi quella di Ravenna, dove si stabilì la sede del potere bizantino fino al 750 quando la città fu presa dai Longobardi. Nel mentre, rimanendo al papato un ruolo nell’armonizzare e regolare le questioni concernenti la fede, venivano oltralpe a crearsi le Chiese nazionali che caratterizzarono, ciascuna a suo modo, la formazione dell’Occidente romano-barbarico.

Le vicende politiche avrebbero poi portato all’ampliamento del Patrimonium Sancti Petri (con la donazione imposta ai longobardi dai carolingi del 754), alla sua trasformazione in Stato della Chiesa e al recupero della giurisdizione sull’intera penisola – per quel che concerneva le cose di Chiesa – da parte del vescovo di Roma. La Chiesa italiana restò così, fino al XIX sec. la vera Chiesa del papa, la sola dove il vescovo di Roma godeva di autonomia sostanziale in materia di interventi sulle diocesi, sui vescovi, sul patrimonio delle Chiese locali e quindi sui benefici ecclesiastici e sulla tassazione. Naturalmente fino al 1861 (o, per dir meglio, fino al 1870), la penisola restò frammentata in una serie di diverse realtà statuali e tutto questo venne a creare in Italia una particolarissima situazione basata su una straordinaria proliferazione di sedi vescovili: se Lanzoni ipotizza l’esistenza di circa 250 diocesi agli inizi del VII sec., esse sono all’incirca nello stesso numero nel XV sec., ma la loro quantità crebbe, arrivando a circa 300 nel tempo successivo. Ciò a fronte, e basti solo questo esempio, delle poco più di 50 diocesi ch’ebbe la Spagna in età moderna. Questo venne a determinarsi per una serie complessa di ragioni: per venire incontro alle esigenze determinate da una storia antica che aveva visto proliferare in misura straordinaria significative realtà cittadine, ognuna delle quali in sostanza finì con l’ospitare un vescovo; in virtù di compromessi che il papato si trovò ad accettare per soddisfare le richieste di rendite e status provenienti dalle élites locali; per disporre di una schiera cospicua di vescovi “fedeli” capaci di fronteggiare anche e soprattutto sul mero piano dei numeri i vescovi d’altra nazionalità, ed obbedienza, in occasione di concili, ecc. A questa proliferazione corrispondeva una realtà di diocesi povere, che poco e male sopperivano al compito di sostenere il loro pastore; a tale ampiezza corrispondeva un’inquietudine, una serie di problematiche che la Santa Sede cercò con impegno, e non infrequentemente con scarsi esiti, di affrontare. La Congregazione dei vescovi e regolari che ebbe a partire dalla fine del ‘500 ampia giurisdizione sulla realtà ecclesiastica generale si occupò nella quasi totalità dei casi della sola Italia (con punte del 98% degli interventi sul totale). Diocesi irrequiete, dunque, e dei motivi e caratteristiche di ciò in parte si dirà poco sotto, e di norma, come detto, scarse di rendite: per fare un solo esempio, in Toscana, oltre ai tre arcivescovati, solo otto dei quindici vescovati potevano essere gravati di pensioni (prelievi sui redditi della mensa vescovile a beneficio di prelati di Curia) data la loro povertà.

I vescovi in Italia. Chi erano i vescovi? Impossibile generalizzare. Anzitutto c’è da dire che il Concilio di Trento, almeno in Italia, cambiò tutto. L’assemblea vietò il cumulo dei benefici, raccomandò il dovere di risiedere nella propria diocesi, impose dei requisiti per selezionare i titolari di diocesi: primo tra tutti quello di vantare già l’ordinazione in sacris, il che pose almeno un limite alla pratica di nominare a vescovati dei laici, magari anche solo adolescenti, di fatto solo dei percettori di rendite, in qualità, appunto, di vescovi “eletti”, che delegavano all’esercizio delle funzioni pastorali dei “titolari” che avevano le carte in regola, perché già consacrati vescovi in sedi in partibus infidelium o in sedi che rimandavano solo ad antiche, magari gloriose, ma superate memorie storiche (al concilio di Trento il papato chiamò a partecipare sia gli “eletti” che i “titolari” per meglio fronteggiare le insidie che potevano presentarsi). Una seconda distinzione generale che può essere proposta è quella che riguarda le diocesi più ricche e quelle dotate di minori risorse. A capo delle prime nella quasi totalità dei casi si trovarono o i maggiori esponenti della Curia romana, cardinali in primo luogo, o rappresentanti delle elites italiane – i patrizi veneziani furono ad esempio con rarissime eccezioni titolari delle diocesi più ricche del dominio di San Marco. Al contrario invece, non poche volte nelle diocesi povere si faticava a rinvenire gli ecclesiastici che potessero divenirne titolari: da qui spesso derivava la necessità di derogare ai requisiti dettati dal concilio. Altro elemento determinato, indirettamente, dal concilio tridentino, l’opera di taluni vescovi – quasi inutile ricordare san Carlo Borromeo e il suo magistero a Milano, ma anche quelli di Gabriele Paleotti a Bologna, di Agostino Valier a Verona… –, che col loro esempio dettarono il modello ideale di pastore.

Al di là di questi casi, però, la realtà era assai più mediocre e non solo perché quella dei vescovi nelle diocesi continuava ad essere piuttosto una assenza che una presenza (e ciò sia per il fatto che l’obbligo di residenza veniva frequentissimamente disatteso, ma anche perché non sempre i vescovi, rivelano le stesse carte della Congregazione dei vescovi e regolari, si mostravano zelanti nell’esercizio delle loro funzioni). La realtà era più mediocre soprattutto perché ai titolari di diocesi venivano richiesti compiti assai particolari. Si veda ad esempio come Giovan Battista de Luca, in un manoscritto vaticano, il Discorso sopra il modo da tenersi nell’esame de’ vescovi (Biblioteca Apostolica Vaticana, Ottob. Lat. 1945, «Manoscritti diversi», cc. 228 ss.), descrisse le funzioni del vescovo nello stato e nella chiesa d’antico regime in una riflessione imperniata appunto sul tema della verifica delle qualità dei candidati vescovi. Per de Luca l’esame, introdotto a fine 500 e che si svolgeva dinnanzi al papa, era singolare perché verteva su materie – teologia morale, teologia scolastica, diritto canonico – in gran parte inutili per le funzioni che i vescovi avrebbero poi dovuto soddisfare. Ma soprattutto tale esame si conduceva solo per i vescovati italiani, per alcune diocesi di Dalmazia e dell’Arcipelago Egeo (sottoposte al dominio veneto) e in altre poche di collazione papale. Solo in Italia, dunque, notava de Luca, i vescovi non erano considerati da subito idonei, mentre quelli proposti da re, principi, eletti da capitoli di cattedrali o per quelli indicati dalla Congregazione di Propaganda Fide non venivan sottoposti ad alcuna prova o esaminati da nessuno. Ciò poneva quei pastori in condizioni di inferiorità rispetto agli altri e in condizioni di inferiorità tale esame poneva anche il papa che paradossalmente, per procedere alle nomine per questi benefici, era costretto a procedure più complesse di quelle che riguardavano i poteri laici. De Luca spiegava ciò in vario modo, ma soprattutto col fatto che rispetto agli altri territori europei e non solo, in Italia non era più presente l’eresia e il rischio del dissenso religioso era assai contenuto. Da ciò conseguiva che i vescovi non avessero più di fatto alcun obbligo di cura d’anime, che non amministrassero più direttamente i sacramenti, in specie quello della confessione, e che delegassero questi compiti da un lato al clero minore, parroci in primo luogo, e dall’altra al Sant’Uffizio e al suo efficace ruolo di repressione e prevenzione delle eresie e di ogni forma di deviazione. La cura d’anime spettava dunque insomma ai parroci, ma chiunque, ormai, chierico o secolare o anche «idiota» grazie al Catechismo e altre opere analoghe, era in grado di educare alla dottrina cristiana. Insomma, i vescovi non predicavano, non catechizzavano e neppure confessavano più. Cosa facevano dunque allora i titolari di diocesi? Un vescovo in Italia, scriveva, amministrava il «governo politico e civile spirituale della diocesi» e la giustizia ed era chiamato insomma a governare i corpi più che le anime, a controllare semmai chi, parroci in primo luogo, era chiamato a vivere tra i fedeli (e gli studi sulla assai relativa alfabetizzazione del clero di base in età moderna mostrano come tale compito fosse delicatissimo). Cosa serviva perciò interrogarlo in teologia? L’esame avrebbe dovuto essere concepito in modo tale da accertare se i candidati ad un vescovato sarebbero stati in grado di provvedere alle vacanze dei parroci; distinguere i benefici liberi da quelli soggetti a patronato e d’individuare quelli sottoposti a riserve (di pensioni, ad esempio); impedire che le Chiese libere divenissero «serve»; accertare le esenzioni dei Regolari; controllare con prudenza la vita dei monasteri nonché quella che si svolgeva nei luoghi pii governati da secolari (spesso fonti di disordini e scandali); gestire le cause specialmente criminali «quando si possa ingerire con secolari»; sorvegliare i beni delle Chiese perché non venissero alienati.

Cosa emerge da ciò? Una realtà tipica dello Stato d’Antico Regime, che vedeva i vescovi soprattutto impegnati a districarsi, a lungo con scarsi esiti, in diocesi egemonizzate da potenti ceti dirigenti locali che conservavano voce in capitolo anche in materia di pertinenza dell’ordinario diocesano, animate da ordini regolari e/o da istituzioni laiche ed ecclesiastiche quali ospedali, monti di pietà, confraternite, capitoli di cattedrali, collegiate che condussero battaglie per tenersi il più possibile immuni dalla giurisdizione dei vescovi. Solo verso la fine del Seicento si verificò un cambiamento di tendenza e i vescovi presero almeno a cercare di imporsi sui particolarismi all’interno delle loro diocesi: ciò non solo acuì i contrasti all’interno delle stesse, ma contribuì pure ad esacerbare i contrasti tra autorità ecclesiastiche e civili in un tempo non solo segnato dal mutamento significativo degli equilibri italiani dove agli Asburgo di Spagna vennero a sostituirsi quelli di Vienna e soprattutto i Borbone, ma anche dal diffondersi del “contagio” illuminista, il quale peraltro non ispirò solo sentimenti anticristiani o la polemica anticattolica, ma anche un nuovo tipo di pietà, un’ondata missionaria, il riformismo muratoriano, che contribuirono allo sforzo su indicato di riconquista delle diocesi che vide impegnati molti vescovi.

Fino a questo tempo, però, i vescovi erano stati più amministratori che pastori e spesso applicatori assai timidi di molte innovazioni tridentine. Gli obblighi di residenza erano, come già affermato, largamente aggirati; quello delle visite periodiche ad limina apostolorum o dell’istituzione dei seminari atti ad formare il clero anche, così come quello della convocazione dei sinodi diocesani e provinciali raccomandata a Trento: di questi se ne celebrarono solo il 2% di quelli che avrebbero dovuto tenersi. Si è detto poco sopra di una trasformazione del ruolo dei vescovi entro le loro diocesi a partire dalla fine del XVII sec. Ad essa contribuì la spinta innovativa – celebrata dalla storiografia quale “svolta innocenziana” – che ispirò l’opera di un pontefice come Innocenzo XI, che non a caso istituì già nel 1676 una congregazione che avrebbe dovuto occuparsi di esaminare le qualità dei candidati ai vescovati (che poi sarebbero stati comunque sottoposti all’esame su descritto). Il ruolo centrale dei titolari delle diocesi venne ribadito con forza da altri pontefici, quali Benedetto XIII, che convocò il controverso “concilio” romano nel 1725 proprio per cercare, senza molto successo, di ribadire il proprio specifico ruolo di vescovo di una provincia ecclesiastica (quella romana) oltre a quello di papa, e, tra gli altri, Benedetto XIV (non a caso, per ribadire la propria vocazione pastorale, questi due pontefici mantennero il titolo delle Chiese, nell’ordine Benevento e Bologna, di cui erano titolari al momento della nomina a papa). Papa Lambertini dovette tuttavia frenare il proprio slancio non solo per l’emergere di tendenze episcopaliste, ma anche per il diffondersi del giansenismo, che rischiavano, in quel complesso clima generale caratterizzato dalla sempre più minacciosa invadenza dei poteri civili anche nelle cose di Chiesa, di innescare processi centrifughi e pericolose ricerche di autonomia da Roma. Non sempre infatti i vescovi si concentravano sulle attività che Benedetto XIV soprattutto raccomandava loro di curare: garantire la disciplina del clero e l’istruzione religiosa del gregge loro affidato. Gli eventi legati al dilagare in Italia delle truppe francesi e al diffondersi dei principi rivoluzionari colpirono duramente la Chiesa, che poté risorgere però, e consolidarsi, nell’età della Restaurazione. Si imposero allora nuovi modelli religiosi, assai più austeri, e si provvide ad una più accurata selezione del clero, che si ridusse sostanzialmente di numero, esigenza questa che era stata continuamente sollevata, senza mai trovare soluzione, nei secoli precedenti che avevano visto soprattutto nell’Italia meridionale una inflazione in primo luogo di chierici ordinati in minoribus (in alcune situazioni essi costituivano il 70% del corpo ecclesiastico), il più delle volte solo per far conseguire a chi riceveva l’ordinazione privilegi di foro o di natura fiscale. Se nel Settecento vi era un prete ogni 50/60 abitanti, verso la metà dell’Ottocento la media passò ad un ecclesiastico ogni 250 abitanti e i chierici provenivano adesso in modo assai più marcato dai ceti popolari e da aree rurali più che da quelle urbane. Per quel che riguardò i vescovi, la cura pastorale divenne ora la loro maggiore occupazione, potendo tralasciare la varietà dei compiti diversi che aveva caratterizzato il loro operato nella Chiesa d’Antico regime ospitata nelle strutture dello Stato d’Antico regime. Una trasformazione questa che si rivelò decisiva per l’episcopato italiano, e non solo per questo.

Fonti e Bibl. essenziale

P. Batiffol, La Chiesa nascente e il cattolicesimo, Firenze 1915; F. Lanzoni, Le diocesi d’Italia dalle origini al principio del secolo VII (an. 604), I-II, Faenza 1927; F. Claeys-Bouuaert, Diocèse, in Dictionnaire de Droit canonique, IV, Paris 1949, 1258-1267; Id., éveque, ibid., V, Paris 1953, 570-590; Enciclopedia cattolica, XII, Firenze 1954, sv Vescovo; A. Mercati-A. Pelzer, Dizionario ecclesiastico, III, Torino 1958, sv Vescovo; D. Hay, La Chiesa nell’Italia rinascimentale, Roma-Bari, Laterza, 1979; A. Prosperi, La figura del vescovo fra Quattro e Cinquecento: persistenze, disagi, novità, in Storia d’Italia, Annali 9, La Chiesa e il potere politico dal Medioevo all’età contemporanea, a cura di G. Chittolini – G. Miccoli, Einaudi, Torino 1986, 217-262; C. Donati, La Chiesa di Roma tra Antico Regime e riforme settecentesche (1675-1760), ibid., 721-766; C. Donati, Vescovi e diocesi d’Italia dall’età post-tridentina alla caduta dell’antico regime, in Clero e società nell’Italia moderna, a cura di Mario Rosa, Laterza, Roma-Bari 1992; M. Guasco, Storia del clero in Italia dall’Ottocento a oggi, Roma-Bari, Laterza, 1997; G. Greco, La Chiesa in Italia nell’età moderna, Laterza, Roma-Bari 1999; M. Simonetti, L’età antica, in Enciclopedia dei papi, I, Istituto della Enciclopedia Italiana, Roma 2000, 5-46; G. Arnaldi, L’età medievale, ibid., 47-90.


LEMMARIO




Episcopato - vol. II


Autore: Giuseppe Battelli

Foto 1 - Geremia BonomelliVescovi e nuovo Stato unitario: l’italianità come riferimento identitario o come questione aperta?

La nascita formale nel 1861 del Regno d’Italia e la sua successiva estensione nel 1870 a comprendere Roma e i residui territori dello Stato pontificio non produssero la conseguente e immediata nascita in ambito religioso di una Chiesa italiana, né tanto meno il rapido costituirsi di un episcopato italiano. Esistevano ovviamente vescovi nativi e che svolgevano la propria funzione sul territorio politicamente unificato del Regno d’Italia, ma essi – collettivamente intesi – non si sentivano e non venivano univocamente considerati negli stessi ambienti ecclesiastici come appartenenti ad un’unica neo-costituita entità: l’Italia, appunto. Chi per contro li inquadrò subito secondo questa visione che potremmo indicare, per quell’epoca, come “astrattamente” unitaria fu lo Stato italiano: per la necessità di applicare all’intero territorio nazionale normative omogenee, ma anche per favorire all’interno della numerosissima e variegata compagine ecclesiastica ereditata dagli Stati italiani pre-unitari la percezione della irreversibilità del processo storico testé compiutosi. Percezione non  scontata. Le alterne vicende che avevano riguardato la Roma pontificia a inizio Ottocento (quando nella tarda età napoleonica il papa Pio VII era stato prelevato e tenuto per anni lontano dal centro della Cattolicità) e nel pieno della tormenta rivoluzionaria del 1848 (con la fuga di Pio IX a Gaeta) potevano infatti alimentare la speranza di un ennesimo rovesciamento degli eventi; lo confermava il progetto, volto al ripristino del potere temporale, cui a lungo si lavorò durante il pontificato di Leone XIII.

Sul fronte ecclesiale, invece, per alcuni decenni dopo l’unificazione i vescovi italiani si considerarono e vennero considerati dalla S. Sede come tuttora organizzati secondo la geografia ecclesiastica sagomata sulla situazione pre-unitaria. Lo attestano vari elementi: come la nomina a ordinari di diocesi per lo più dello Stato pre-unitario di origine; le forme di aggregazione episcopale per sottoscrivere mozioni di solidarietà per il pontefice; l’incentivo romano a organizzare incontri episcopali sulla base delle antiche province ecclesiastiche, o dal 1889 delle regioni; la stessa suddivisione territoriale delle diocesi così come ancora alla vigilia della prima Guerra mondiale appariva su pubblicazioni ufficiali della S. Sede.

Il problema non aveva solo valenze organizzative, o genericamente istituzionali. Esso rifletteva piuttosto l’effettiva realtà delle cose. I vescovi, ad esempio, erano abituati a rapportarsi tra loro su base essenzialmente locale, e tutt’al più a rivolgersi a Roma per le questioni di maggiore rilievo; mentre tutt’altro che simili apparivano tra loro le concrete condizioni religiose delle diverse aree del nuovo Stato. A tale ultimo riguardo si poteva assistere nelle zone settentrionali all’intensa proliferazione dell’associazionismo cattolico con finalità socio-economiche o allo sviluppo dei prodromi del cosiddetto “modernismo”, mentre altrove e in particolare nel Mezzogiorno sussistevano situazioni tuttora legate ad antichi accordi concordatari con le monarchie pre-unitarie o a lontane tradizioni di forte legame territoriale tra istituzioni ecclesiastiche e notabilato locale. D’altronde la stessa distribuzione delle diocesi sul territorio nazionale vedeva gli arcivescovi di Milano governare un sistema costituito da circa settecento parrocchie, a fronte delle poche decine di unità parrocchiali (venti nel caso di Amelia) su cui operavano i confratelli di varie delle innumerevoli diocesi e relative province ecclesiastiche in cui risultava frantumata l’Italia centro-meridionale.

La risposta romana al problema

Almeno in un primo tempo la S. Sede non favorì la nascita di una entità identitariamente e organizzativamente unica dell’episcopato nazionale: forse anche alla luce delle sfaccettature dottrinali e ideologiche che, nella fase di unificazione del nuovo Stato e anche di evoluzione teologica intervenuta in quei decenni, avevano visto taluni vescovi non totalmente allineati sulle posizioni “infallibiliste” riguardo al dogma sulla inerranza papale approvato al concilio Vaticano I, e soprattutto dimostrare “transigenza” di fronte alle conseguenze che l’unificazione italiana aveva comportato per lo Stato pontificio (i casi più rilevanti furono quelli del vescovo di Cremona G. Bonomelli e di Piacenza G.B. Scalabrini). Ma il delinearsi progressivo durante i pontificati di Leone XIII e soprattutto Pio X di un’organica risposta al nuovo Stato, nel quadro della reazione complessiva alla società moderna, richiedeva la costruzione di un sistema compatto: il più possibile omogeneo e univoco nei princìpi da porre a base dell’azione promossa da Roma.

L’organicità di tale disegno (emblematicamente riassunto nel motto di Pio X “Instaurare omnia in Christo”) si esplicitò tra l’altro in una vasta e capillare istruttoria sulla situazione delle diocesi e dell’episcopato nazionale, condotta mediante l’invio a inizio Novecento di visitatori apostolici coordinati da dicasteri della Curia romana. Al di là degli aspetti di dettaglio che emersero e determinarono valutazioni e interventi della S. Sede, ciò che va richiamato è il consolidarsi in quel periodo dell’idea di “costruire” un episcopato nazionale secondo due criteri ritenuti a Roma funzionali all’intero disegno sopra descritto: ulteriore recupero del modello episcopale tridentino, che – nel richiamo alla fisionomia del pastore ma anche dell’efficace conduttore/ispettore della vita diocesana, secondo quella prospettiva di disciplinamento della vita diocesana già sperimentato tra fine Cinquecento e primo Seicento – sembrava peraltro collegabile a quello cinquecentesco soprattutto nella volontà di risposta alle rispettive congiunture storiche; disponibilità dei vescovi ad adottare gli strumenti e le indicazioni romane quanto al ruolo strategico dell’associazionismo laicale cattolico, alla ristrutturazione complessiva del sistema formativo dei seminari, alle riforme del culto promosse dallo stesso pontefice Pio X.

E’ secondo tale duplice prospettiva, cui s’intrecciò la forte preoccupazione dottrinale connessa alla lotta antimodernista, che venne modellandosi una parte cospicua dell’episcopato residenziale italiano che avrebbe guidato le diocesi nella prima metà del Novecento, dunque in fasi cruciali come la lunga convivenza con il regime fascista e il drammatico scenario delle due guerre mondiali. Un “modellarsi” non solo ex post (nel senso di modificare eventuali passati orientamenti), quanto ex ante (mirata politica nel reclutamento dei nuovi candidati all’episcopato). Quando infatti nel 1928 il card. De Lai lasciò dopo vent’anni la guida della Congregazione Concistoriale, il dicastero restituito alle antiche ampie funzioni di scelta e controllo episcopale dalla riforma della Curia romana promossa da Pio X nel 1908, risultò che oltre due terzi dell’intero episcopato residenziale italiano attivo alla vigilia della Conciliazione era stato consacrato e dotato di prima nomina durante il mandato De Lai. E rispetto al secondo dei criteri prima richiamati non è forse irrilevante che nel confronto tra la fine del pontificato di Leone XIII e la fine di quello di Pio X la percentuale dei vescovi inviati a svolgere il proprio mandato episcopale fuori dalla regione di origine s’innalzasse dal 37.50% al 60.44%, e la direttrice principale di tale movimento fosse da Nord verso Sud: cioè, dalle zone dove maggiore era la risposta ai criteri prima indicati a quelle che fino ad allora, per svariate ragioni, risultavano meno sensibili agli stessi (tale processo si confermò anche in seguito: si vedano tra l’altro l’invio a Palermo del milanese A. Lualdi, e a Bari e successivamente a Napoli del bolognese M. Mimmi).

Foto 2 - Ildefonso Schuster

Tra Conciliazione, fascismo e guerre mondiali.

E’ nel trentennio che va dall’inizio della prima guerra mondiale alla fine della seconda che iniziarono a modificarsi la fisionomia dell’episcopato nazionale come entità collettiva e il suo ruolo complessivo rispetto alla società italiana. Concorsero significativamente a quell’esito sia fattori interni che esterni alle dinamiche puramente ecclesiastiche. Tra i fattori interni va senz’altro collocata la linea di forte omogeneizzazione e coordinamento perseguita da Roma secondo il progetto ricordato. Linea cui concorse, come vera e propria bussola normativa per l’episcopato, la divulgazione nel 1917 del C.J.C: da allora, e fino alla promulgazione dei documenti del concilio Vaticano II, immancabile riferimento per la crescente convocazione (salvo nelle fasi belliche) di sinodi diocesani, concili provinciali e concili plenari regionali. Tra i fattori esterni si tenga conto dello svilupparsi progressivo, anche in Italia, di una società di massa che poneva alle classi dirigenti problemi di guida e di consenso diversi rispetto al passato, e soprattutto non più gestibili – come confermava nel primo dopoguerra la crisi della classe dirigente liberale italiana – secondo i metodi e le possibilità di incidenza sociale delle circoscritte élites postrisorgimentali.

In quel nuovo scenario l’episcopato svolse un ruolo decisivo di orientamento delle popolazioni, soprattutto tenendo conto che l’Italia rimaneva tuttora un Paese rurale e a relativamente modesta concentrazione urbana: caratteri riscontrabili non solo al Centro-Sud e nelle isole, ma anche in quella ampia parte del settentrione che risultava ai margini del triangolo industriale Milano-Torino-Genova e che non a caso aveva fortemente alimentato il fenomeno della emigrazione all’estero. In tale ruolo di orientamento si mescolarono elementi strettamente religiosi e pastorali – come il culto e la protezione delle popolazioni dalle conseguenze belliche – con elementi di carattere ideologico e attinenti al modello di società. Ne derivò da parte dei vescovi una condotta pubblica che s’imperniò, maggioritariamente e in una prospettiva di lungo periodo, sul mantenimento/rafforzamento del nesso tra fede cristiana e sostegno alle autorità costituite. Il fenomeno si accentuò dopo che la stipula dei Patti Lateranensi sembrò risolvere sia in senso stretto la Questione romana sia più latamente il profondo conflitto con lo Stato liberale italiano e i suoi princìpi fondativi di matrice cavouriana; ne ricavò forza quella instauratio di una società cristiana apertamente ostile nei confronti delle svariate forme di espressione della modernità che era l’obiettivo esplicito dei pontefici, dopo che il disegno di ripristino del potere temporale si era rivelato inattuabile.

In tal senso il ruolo svolto dall’episcopato sul lungo periodo nei confronti della società italiana fu decisivo. Mentre assunsero un peso relativo le congiunturali oscillazioni nel consenso prestato al regime fascista: tra gli “alti” dell’iniziativa coloniale etiope, della battaglia del grano, del sostegno del governo italiano alla componente franchista nella guerra civile spagnola (si ricordino tra gli altri Schuster a Milano, Nasalli Rocca a Bologna, Dalla Costa a Firenze),  dello stesso ingresso nella seconda guerra mondiale; e i “bassi” degli insistiti attacchi fascisti alla AC e dell’introduzione nel 1938 della legislazione razziale. Alla fine della seconda guerra mondiale, di fronte a uno scenario di distruzione materiale e morale senza precedenti per la storia italiana, l’episcopato si presentava come strumento fondamentale di raccordo tra le scelte della S. Sede in ordine al futuro assetto da dare al Paese e una società attraversata da divergenti spinte: in materia politica (monarchia-repubblica, ruolo dei partiti di massa a sinistra, scelta filoatlantica), economico-sociale (centralismo-federalismo, legislazione sul matrimonio, politiche scolastiche), morale (secolarizzazione dei costumi, equidistanza dai modelli di vita socialista e capitalista).

Verso un episcopato nazionale: dalle riunioni preparatorie della CEI alla partecipazione al Vaticano II.

Nell’affermare l’importanza di quel ruolo non si è inteso sottovalutare un problema sul quale la storiografia si è ripetutamente interrogata: se cioè si possa parlare per gli anni del secondo dopoguerra di una vera e propria Chiesa italiana, intesa come entità guidata organicamente dal proprio episcopato ed esprimente un’identità legata a eventuali specifiche caratteristiche, o se invece si debba considerare quello italiano dell’epoca come un sistema ecclesiale ancora guidato direttamente dalla S. Sede, con i vescovi – tra loro coordinati tutt’al più a livello regionale – a svolgere in genere la funzione di ponte organizzativo e istituzionale tra il vertice romano e la base; funzione tra l’altro non esclusiva, se si pensa al ruolo crescente assunto da istituzioni sempre più centralizzate e strutturate a piramide come l’AC. Due degli elementi sui quali si è frequentemente insistito per dare forza al suddetto interrogativo, e soprattutto risolverlo nel secondo senso, sono stati da un lato la presenza ininterrotta (dal 1523) di pontefici di origine italiana, e dall’altro il dato di fatto che fino agli anni Sessanta non venne prevista in Italia alcuna forma di aggregazione generale e su base nazionale dell’episcopato italiano. Né dal punto di vista concretamente operativo, né da quello formale.

Il primo elemento sopra richiamato non è certo stato ininfluente a giustificare l’idea che la presenza sul territorio italiano della S. Sede e di pontefici italiani ai vertici dell’intera cattolicità, cui si aggiungeva l’elemento fondamentale che il Papa pro-tempore era in ogni caso primate d’Italia, rendesse superflua (per taluni) o inopportuna (per altri) una strutturata organizzazione dell’episcopato nazionale italiano. Ma va sottolineato, a riguardo, come proprio gli ultimi papi di origine italiana (Giovanni XXIII e Paolo VI, tenuto conto della brevità del mandato di Giovanni Paolo I) abbiano contribuito in modo decisivo a porre fine alla situazione sopra descritta, favorendo l’istituzione di una vera e propria conferenza nazionale dei vescovi italiani. Ciò avverrà tuttavia a partire dalla fine anni Cinquanta e soprattutto dopo il Vaticano II, mentre per il ventennio che si estese dalla fine della seconda guerra mondiale alla metà degli anni Sessanta il ruolo svolto dai vescovi italiani all’interno della Nazione prolungò le caratteristiche che si erano venute delineando durante la fase storica precedente, con l’unica novità – significativa, ma che non rappresentava in sé la nascita di un effettivo organismo nazionale dei vescovi italiani analogo a quello operante negli altri Paesi – costituita dagli incontri più o meno annuali cui presenziarono dal 1952 i presidenti delle conferenze episcopali regionali.

Ben diverso naturalmente, rispetto al ventennio dominato dal regime fascista, era il contesto nel quale esplicare la propria funzione: sia in materia strettamente religiosa, che sociale, che latamente “politica”. Per quanto infatti gli accordi concordatari del 1929 conservassero il proprio effetto grazie all’art. 7 della Costituzione repubblicana, ci si trovava ora a operare in uno scenario formalmente democratico e politicamente pluralistico. In esso trovava di nuovo spazio (come già tra il 1919 e il 1926) un partito cattolico, mentre a livello degli equilibri internazionali, non ignorabili da un’Italia bisognosa di un forte sostegno economico esterno per la ricostruzione postbellica (quello che sarebbe poi venuto mediante lo statunitense Piano Marshall), occorreva assumere una chiara posizione nel quadro della “guerra fredda” che contrapponeva il blocco degli Stati occidentali a quello degli Stati comunisti raccolti attorno alla Unione Sovietica.

Foto 3 - I moderatori del Vaticano II

Soprattutto tra la fine degli anni Quaranta e per l’intero successivo decennio i vescovi italiani si trovarono dunque immersi in uno scenario dove lo schierarsi politico era pressoché inevitabile e le stesse linee e conseguenti azioni pastorali assumevano il carattere di orientamento ideologico della popolazione: in via diretta quando ci si trovava alla vigilia delle scadenze elettorali; in via indiretta, ma non per questo meno significativa, quando ci si impegnava nella elaborazione di iniziative volte al contenimento della contrapposta azione delle organizzazioni legate al PCI (il maggiore partito comunista attivo in uno Stato occidentale). Tanto che, nel clima esasperato di quegli anni, si pervenne in taluni specifici casi a dare la sensazione che rappresentanti dell’episcopato svolgessero una sorta di leadership politica supplente di quella, evidentemente ritenuta inadeguata, degli esponenti DC locali (tipico in tal senso il caso della Bologna del card. Giacomo Lercaro).

Con tali presupposti – riassumibili nella debole consuetudine a sentirsi parte di un unico grande organismo nazionale e con una forma mentis nutrita negli ultimi decenni prima dall’insidioso rapporto con il fascismo e poi dalla battaglia ideologica per il contenimento del comunismo – l’episcopato italiano si presentò al concilio senza poter esprimere in sede di elaborazione teologica un ruolo guida corrispondente al peso potenziale dato dall’essere sul piano numerico il maggior episcopato nazionale presente al Vaticano II. La leadership esercitata al suo interno dall’arcivescovo di Genova Giuseppe Siri, presidente dal 1959 dell’organismo che comprendeva i rappresentanti delle conferenze regionali, orientò poi gran parte dei vescovi italiani più verso le posizioni conservatrici vicine alla linea di taluni importanti dicasteri della Curia romana (emersero a riguardo le posizioni tra gli altri dell’arcivescovo di Palermo Ruffini, del vescovo di Segni Carli, dell’arcivescovo di Firenze Florit) che non a quella maggioranza conciliare che si coagulò – perlomeno nelle prime due sessioni conciliari – attorno agli episcopati del centro Europa. Ne fu un’emblematica conseguenza il fatto che una delle figure di presuli italiani destinata a svolgere in concilio un ruolo difficilmente sottovalutabile (quel cardinal Lercaro che condusse in porto la riforma liturgica e fece parte, come unico italiano, del collegio dei quattro moderatori conciliari istituito nel 1963 da Paolo VI) dovette quello stesso ruolo non tanto al riconoscimento dei propri colleghi italiani quanto a quello dei propri colleghi d’Oltralpe.

Dal postconcilio alla contemporaneità.

La condivisa esperienza conciliare, unita alla spinta in tal senso di Paolo VI, favorì in ogni caso l’approdo alla istituzione di una vera e propria conferenza nazionale dei vescovi italiani: sulla base di uno statuto dapprima provvisorio (1965) poi effettivo (1971). Si aprì con questo nuovo assetto istituzionale la stagione che poneva agli stessi presuli, quale inaggirabile priorità, la questione del come rapportarsi agli esiti del Vaticano II. Il problema si presentava sotto molteplici aspetti. Se da un lato infatti i documenti conciliari fornivano una serie piuttosto ampia di argomenti e auctoritates cui richiamarsi – ma ciò poteva avvenire, e di fatto avvenne, anche in termini più nominalistici che di sostanza -, dall’altro la vera discriminante era rappresentata dalla volontà, maggiore o minore, di recepire in modo profondo la spinta all’aggiornamento promossa dal Vaticano II. E ciò travalicava i confini della pura formulazione di richiami ai testi conciliari. Anche volendo infatti restringere la prospettiva al piano delle singole diocesi – e dunque non addentrandosi nel delicato tema ecclesiologico della collegialità episcopale – ciò abbracciava sul piano concreto l’attivazione dei nuovi organi diocesani previsti dall’assise conciliare (consiglio presbiterale e consiglio pastorale) e l’introduzione delle norme e fonti relative alla riforma liturgica, mentre su quello pastorale spingeva all’assunzione di linee coerenti con i princìpi riguardanti – tra l’altro – i rapporti con il mondo contemporaneo, il sacerdozio universale, le problematiche interconfessionali e interreligiose.

Di fronte a tale sfida l’episcopato italiano attraversò una prima fase postconciliare nella quale non mancarono forti sussulti, in parte prolungamento delle tensioni già emerse durante lo svolgimento del concilio e in parte frutto delle possibili vie alternative nell’applicazione dello stesso Vaticano II. Poi, verso la seconda metà degli anni Settanta e dunque all’avvicinarsi di quel 1978 che avrebbe anche rappresentato il concludersi della plurisecolare sequenza di pontefici italiani, si attestò su posizioni di recezione in chiave moderata del Vaticano II: realizzando infine, almeno in apparenza, quel processo di maggioritaria “montinizzazione” della Chiesa italiana al quale papa Paolo VI, secondo una data interpretazione storiografica, stava lavorando fin dagli anni trascorsi come sostituto nella Segreteria di Stato di Pio XII. Era una Chiesa italiana che, pur avendo acquisite una propria formale identità e organizzazione facente capo alla CEI, risultava tuttora vicinissima per sensibilità e ascolto alla S. Sede, teologicamente lontana dalle posizioni di frontiera (sia legate alla ricerca più spregiudicata, sia sensibili alle istanze anticonciliari del “lefebvrismo”), particolarmente incline a considerare la sfera politica nazionale come naturalmente soggetta all’orientamento da parte della gerarchia cattolica.

Foto 4 - Camillo Ruini

Rispetto a quest’ultimo punto, tradizionalmente centrale nella visione dei vescovi italiani operanti dal secondo dopoguerra in poi, si sarebbe registrato un imprevisto cambiamento di prospettiva a inizio anni Novanta: non per modifica della linea episcopale, costantemente legata al principio dell’unità politica dei cattolici, e nemmeno per le eventuali conseguenze della nuova stipulazione concordataria intervenuta nel 1984; bensì per il rapido sfaldamento della classe dirigente democristiana nel quadro delle indagini sul fenomeno chiamato “tangentopoli” e per la successiva frantumazione del partito cattolico in più entità (PPI, CCD, CDU). Tale inedita congiuntura, per di più inserita nel lungo pontificato di un papa come Giovanni Paolo II ben più lontano dalle problematiche italiane di quanto non fossero stati i suoi predecessori e da ultimo Paolo VI, ha inaugurato la stagione più recente. In essa l’episcopato nazionale, a lungo guidato dal card. Camillo Ruini, ha percorso un cammino nel quale vari fattori che in passato avevano guidato la coesione o anche il confronto si sono inesorabilmente allontanati: dalla centralità problematica ma indiscussa del concilio, all’univoca scelta in materia politica, alla perseguita guida di un sistema sociale che pur nelle sue tensioni interne appariva pur sempre rappresentativo di un quadro nazionale unitario. Nuovi e non sempre rassicuranti scenari si sono palesati negli ultimi anni: ponendo l’episcopato italiano ancora una volta di fronte al dilemma tra una più facile linea di vantaggioso adeguamento all’esistente e una meno facile scelta di libera espressione del proprio mandato pastorale.

Fonti e Bibl. essenziale

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Immagini:

1) Ritratto del vescovo Geremia Bonomelli (1831-1914), esponente di punta dell’episcopato “transigente” nazionale.

2) Consacrazione di edificio fascista da parte dell’arcivescovo Ildefonso Schuster (1880-1954).

3) Tre dei quattro cardinali “moderatori” del concilio Vaticano II: primo a sinistra l’italiano Giacomo Lercaro, con accanto il tedesco J. Döpfner e il belga L.J. Suenens.

4) Camillo Ruini, presidente della Conferenza episcopale italiana dal 1991 al 2007.


LEMMARIO




Eremitismo - vol. I


Autore: Mariano Dell’Omo

Le origini. La vita anacoretica nata e praticata in Oriente (Antonio, Ammonio, Macario, Evagrio) giunge in Occidente, in particolare in Italia, attraverso la mediazione di testimoni e scrittori d’eccezione come Girolamo, Rufino, Cassiano, la cui letteratura per l’intera vita religiosa conserverà per molti secoli una primaria funzione didattica e spirituale. Già conosciuta a Roma nel sec. IV, a partire da questo momento la straordinaria e quasi leggendaria esperienza dei deserti d’Egitto è rivissuta qua e là in Italia e nelle isole adiacenti. Del resto lo stesso s. Martino di Tours fra il 356 e il 360 soggiorna in un eremo sull’isola Gallinaria nei pressi della città di Albenga (Savona). Ma la più significativa testimonianza circa la pratica della vita eremitica sul territorio italico, in particolare sull’isola di Capraia nell’arcipelago toscano, deriva da uno degli ultimi esponenti della tradizione classica, il poeta Rutilio Namaziano, che nel De reditu suo (I, 439-446), descrivendo il ritorno da Roma nella sua Gallia devastata dai barbari, scrive: «L’isola è spoglia, piena di uomini che fuggono la luce. Da sé si chiamano, con parola greca, “monaci” perché desiderano vivere soli, senza che alcuno li veda. Nutrono timore per i doni della fortuna, mentre ne paventano i danni… Ma che specie di furiosa pazzia e di stoltezza – che può far presa solo in cervelli stravolti –, non essere capaci di accogliere le cose buone per paura di possibili mali!».

Prevale dunque in quegli anni l’ideale antico della fuga mundi che resterà vitale almeno fino a s. Benedetto (ca. 480-ca. 547), del resto egli pure giovane eremita nello speco sublacense prima di fondare il cenobio cassinese, già forte di qualche esperienza anacoretica nella sua Umbria, in quella Val Castoriana presso Norcia ove dimorarono i santi monaci Spes e Florenzo. Nella stessa regione a Monteluco, sull’altura che domina Spoleto, si insedia un movimento eremitico che durerà per oltre un millennio, e che deve la sua origine a Isacco Siro (†ca. 552), il quale insieme ad altri compagni provenienti dall’Oriente praticò un tipo di vita che dovette ispirarsi alle tradizioni anacoretiche di Siria (separazione dalla società, rigidezza, attività manuale, orazione, assenza di una regola formale), organizzandosi come una laura di eremiti indipendenti, riuniti intorno ad un maestro spirituale.

La svolta medievale. Se il monachesimo antico si era caratterizzato per la ricerca del deserto, quello medievale, profondamente segnato dalla netta prevalenza della Regola cenobitica di s. Benedetto – che pure non esclude il passaggio all’eremo –, tende ad armonizzarsi con la dimensione sociale e culturale, di cui è testimonianza la rinascita carolingia insieme alla grande stagione cluniacense. Nondimeno a partire dalla fine del X e specialmente tra XI e XII sec., in un contesto religioso percorso da fremiti di rinnovamento evangelico oltre che da intense attese escatologiche, alla crisi del cenobitismo tradizionale corrisponde una rinnovata stagione di vita eremitica sia in forme libere e individuali, sia mediante veri e propri Ordines destinati ad inquadrare e disciplinare tale fenomeno, senza che manchi altresì un approfondimento dottrinale di tale genere di vita grazie a quel cantore dell’eremitismo che fu s. Pier Damiani, non a caso biografo di s. Romualdo. La congregazione da quest’ultimo fondata e in seguito approvata da papa Pasquale II nel 1113, avente come superiore lo stesso priore del sacro eremo di Camaldoli in Toscana (Poppi, Arezzo), tra gli eremi più rilevanti oltre a quest’ultimo, contava anche quello di Fonte Avellana sul Monte Catria (Serra Sant’Abbondio, Pesaro) in diocesi di Gubbio.

Ugualmente la vicenda di Bruno di Colonia, canonico di Reims, poi solitario alla Chartreuse grazie ad Ugo vescovo di Grenoble, riflette questa nuova tendenza ad una vita di isolamento. Venuto a Roma nel 1090, Bruno si ritirò poi in Calabria a S. Maria della Torre (Serra San Bruno), ove concluse la sua vita (1101). Con i suoi compagni dando vita all’Ordine certosino egli testimoniava un tipo di monachesimo essenzialmente eremitico, seppure non privo di caratteri comunitari, come la preghiera liturgica del mattino e della sera ogni giorno, e la celebrazione della Messa e il pasto in comune la domenica e i giorni festivi. L’influsso della tendenza eremitica fu a tal punto determinante che Ordini religiosi destinati a giungere fino a noi, come Frati Minori, Carmelitani, Agostiniani, Minimi di s. Francesco di Paola, Cappuccini, almeno al loro esordio abbracciarono l’ideale dell’eremo per poi trasformarsi in Ordini comunitari. Fu in particolare la già menzionata esperienza eremitica originaria di Monteluco che ispirò altri simili progetti in Umbria, come quello del Subasio, il cui fascino si rifletté sullo stesso s. Francesco. Dal connubio fra tradizione eremitica di Monteluco e francescanesimo trasse vita un ampio movimento ascetico di genere femminile che esercitava la penitenza volontaria al pari delle beghine in ambito fiammingo. Lo stesso Monteluco e Montefalco furono i centri principali dove si insediarono comunità di “recluse”, pur prive di una struttura monastica vera e propria.

I secc. XII-XIX. Tra le fondazioni più rilevanti del sec. XII, la cui identità di Ordine eremitico rimase inalterata, è da annoverare quella dei Guglielmiti, sorti a Malavalle presso Castiglione della Pescaia in diocesi di Grosseto intorno al 1160 ad opera di Alberto da Siena, discepolo di s. Guglielmo, cavaliere franco vissuto come eremita in quello stesso luogo. Molte furono poi le fondazioni eremitiche in Italia fra XIII e XVI sec., tra le quali si segnalano specialmente quelle illustrate qui di seguito nei loro connotati essenziali, mentre diverse presunte congregazioni di eremiti confluiti nel 1256 per volontà di papa Alessandro IV nell’Ordine degli Agostiniani, in realtà non sono mai esistite se non come singoli romitaggi, come quelli di Torre di Palme (Fermo, Ascoli Piceno), S. Maria di Murceto (Pisa), S. Giacomo di Monilio (Moriglione, presso Lucca).

Tra le congregazioni eremitiche che prendono avvio nel sec. XIII si distinguono: gli eremiti di Vincareto, località in diocesi di Bertinoro (Forlì); gli eremiti di Monte Favale (Pesaro) che goderono della protezione di papa Onorio III (1225), ottenendo l’autorizzazione ad adottare la “regola di s. Guglielmo” e quindi il modello di vita dei Guglielmiti. In particolare gli eremiti di Giovanni Bono furono da quest’ultimo fondati forse nel 1217 a Botriolo presso Cesena, dopo che egli in un primo tempo si era dato a vita solitaria a Bertinoro; gli inizi furono eremitici e privi di una struttura formale, ma in ossequio alle disposizioni del Concilio Lateranense IV i frati riunitisi intorno al Bono ottennero di seguire la Regola di s. Agostino sicuramente dal 1231, sebbene fino alla morte del fondatore (1249) il loro ideale religioso più che dall’ispirazione agostiniana rimase improntato dalla pratica dell’austerità e della penitenza vissute nell’abbandono al Signore. Al sec. XIV risale l’origine degli eremiti del Monte Segestere (Genova, Costa di Sestri Ponente), cui diede inizio un certo Lorenzo spagnolo († forse 1351); agli stessi anni appartengono gli eremiti di Pietro Gambacorta da Pisa (1355-1435), la cui lunga storia ha termine con la soppressione decretata nel 1933. Nel sec. XV al nome di Girolamo sono dedicate diverse fondazioni eremitiche, come quelle degli eremiti di S. Girolamo, di Beltramo da Ferrara, poi unitisi agli eremiti di Pietro Gambacorta da Pisa (1439); e ancora si annoverano gli eremiti di S. Girolamo, di Nicola da Forca Palena, al quale si deve tra l’altro l’acquisto nel 1434 di S. Onofrio al Gianicolo in Roma; gli eremiti di S. Girolamo, di Pietro Malerba, sacerdote veneziano vicino all’ambiente canonicale di S. Giorgio in Alga, la cui presenza è documentata verso il 1430 nei romitori di S. Pancrazio di Bassano del Grappa e di S. Felicita di Romano d’Ezzelino (Vicenza); infine gli eremiti di San Girolamo, di Fiesole, fondati nel 1404 da Carlo Guidi da Montegranelli, la cui regola fu poi quella agostiniana, che li configurava come un Ordine eremitico-cenobitico. A testimoniare quanto resti vivo anche nel corso del sec. XVI l’ideale anacoretico, è il ristabilimento sul finire del ‘500 all’interno dell’Ordine dei Servi di Maria, della vita solitaria a Monte Senario, mentre altri gruppi eremitici fioriscono qua e là, come gli eremiti di S. Francesco, di Monte Pellegrino a Palermo, quelli di S. Maria, di Colloreto nel territorio di Morano Calabro, gli eremiti di Porta Angelica, fondati a Borgo Pio in Roma da Albenzio Rossi da Cetraro e approvati da Sisto V nel 1587.

Ma il fatto più significativo in questo secolo è la fondazione da parte del veneziano Paolo Giustiniani della Compagnia di eremiti di S. Romualdo, detti poi eremiti camaldolesi di Monte Corona, resisi infine completamente autonomi dall’Ordine nel 1525. Nel sec. XVII in particolare la congregazione camaldolese di Piemonte, il cui primo eremo fu quello di Superga (1602), modellatasi sin dall’inizio sulle consuetudini dei Coronesi più che degli eremiti di Toscana, fu unita a quella di Monte Corona nel 1634, condividendone il destino fino allo scioglimento dell’unione decretata da Clemente IX nel 1667. L’ideale romualdino, tradottosi nei secoli in una feconda dialettica tra solitudine e comunità, nel sec. XVIII è vissuto dai Camaldolesi tra la “rusticitas” degli eremiti e l’erudizione dei cenobiti, mentre nel secolo successivo, come in altri Ordini, tra i pericoli delle soppressioni e le speranze di nuove restaurazioni.

 Fonti e Bibl. essenziale

L’eremitismo in Occidente nei secoli XI e XII. Atti della seconda settimana internazionale di studio, Mendola, 30 agosto-6 settembre 1962, Vita e Pensiero, Milano 1965; H. Leyser, Hermits and the New Monasticism. A Study of Religious Communities in Western Europe 1000-1150, Macmillan, London 1984; G.M. Croce, I Camaldolesi nel Settecento: tra la “rusticitas” degli eremiti e l’erudizione dei cenobiti, in G. Farnedi – G. Spinelli (edd.), Settecento monastico italiano. Atti del I convegno di studi storici sull’Italia Benedettina, Cesena, 9-12 settembre 1986 (Italia Benedettina 9), Centro Storico Benedettino Italiano, Cesena 1990, 203-270; Id., Monaci ed eremiti camaldolesi in Italia dal Settecento all’Ottocento. Tra soppressioni e restaurazioni (1769-1830), in F.G.B. Trolese (ed.), Il monachesimo italiano dalle riforme illuministiche all’unità nazionale (1768-1870). Atti del II convegno di studi storici sull’Italia benedettina, Abbazia di Rodengo (Brescia), 6-9 settembre 1989 (Italia Benedettina 11), Centro Storico Benedettino Italiano, Cesena 1992, 199-306; A. Vauchez (ed.), Ermites de France et d’Italie (XIe-XVe siècles). Actes du colloque organisé par l’École française de Rome à la Certosa di Pontignano (5-7 mai 2000) avec le patronage de l’Université de Sienne (Collection de l’École française de Rome 313), École française de Rome, Rome 2003; F.A. Dal Pino, Eremitismo libero e organizzato nel secolo della grande crisi, in G. Picasso – M. Tagliabue (edd.), Il monachesimo italiano nel secolo della grande crisi. Atti del V Convegno di studi storici sull’Italia benedettina, Abbazia di Monte Oliveto Maggiore (Siena), 2-4 settembre 1998 (Italia Benedettina 21), Centro Storico Benedettino Italiano, Cesena 2004, 377-431; A. Vangelista, Il beato Paolo Giustiniani. Un eremita tra Umanesimo e Riforma, Rivista di ascetica e mistica, 75 (2006), 545-575.


LEMMARIO




Eremitismo - vol. II


Autore: Mariano Dell’Omo

La seconda metà del sec. XIX. Nella prima metà dell’800 la congregazione di Monte Corona continuava a rappresentare in Italia il gruppo più solido della tradizione eremitica camaldolese, con i suoi eremi di Monte Corona, Todi, Monte Cucco, Fano, Frascati, Grotte del Massaccio presso Cupramontana (Ancona), Monte Conero. La legislazione eversiva del nuovo Stato unitario avrebbe tuttavia sferrato un duro colpo agli eremiti coronesi che perdevano così Fano, Massaccio e Monte Conero; soppressi furono anche i romitori di Montecucco e Todi e puntualmente quello di Monte Corona. Solo a partire dall’ultimo quarto del sec. XIX i Coronesi poterono riorganizzarsi dimorando dopo il 1873 nell’eremo di Frascati, in quello delle Grotte del Massaccio, a Fano, Todi, Montecucco. Nel frattempo essi poterono recuperare anche l’eremo di Monte Rua tra i Colli Euganei e quello di S. Giorgio sul Lago di Garda, entrambi perduti in seguito alle soppressioni napoleoniche, come pure i due eremi di S. Maria degli Angeli di Nola e del SS. Salvatore del Prospetto di Napoli. Anche gli eremiti di Toscana avevano subito gli effetti delle soppressioni, potendo restarne solo una dozzina nell’archicenobio di Camaldoli. Il nono centenario della morte di s. Romualdo (1927) trovava ancora esistenti le due congregazioni eremitiche di Toscana e Monte Corona e quella cenobitica di Fonte Avellana: fu l’ultima occasione per le tre famiglie camaldolesi di realizzare alcune iniziative in comune, prima della soppressione dei cenobiti ed unione agli eremiti di Toscana, decretata con la bolla Inter religiosos coetus del 2 luglio 1935. Contemporaneamente con la stessa bolla veniva istituita la nuova Congregazione dei monaci eremiti camaldolesi dell’Ordine di S. Benedetto «con una lettura rigida, e sul piano storico, alquanto sommaria della tradizione camaldolese, che era appiattita in modo enfatico quanto unilaterale sulla sola dimensione anacoretica» (Croce, I camaldolesi, 110).

Alla tradizione strettamente eremitica dei Coronesi appartengono attualmente il Sacro Eremo Tuscolano (Frascati), l’Eremo di S. Girolamo (Pascelupo, Perugia), e quello di Monte Rua (Torreglia, Padova). Il sec. XIX fa registrare anche altre esperienze di eremitismo, com’è il caso dei romiti del s. Rosario sotto la protezione di s. Romualdo (Rosarianti), istituiti nel 1840 da Giuseppe Benedetto Cottolengo, ma già dopo la sua morte (1842) non più vitali. Quanto all’Ordine certosino, la cui marcata impronta eremitica pure è mitigata da elementi di vita cenobitica, l’evento più significativo per la sua storia nella penisola all’inizio del secolo XX è la riapertura della certosa di Farneta (Lucca) fondata nel 1338, che riprese nuova vita ospitando la comunità della Grande Chartreuse, espulsa dal monastero e dal territorio francese il 29 aprile 1903. Attualmente delle certose maschili italiane restano in vita quelle di Farneta e Serra San Bruno (Vibo Valentia). Alle monache certosine appartengono invece la Certosa della Trinità (Savona) e quella di Vedana (Belluno).

Il sec. XX. Se il Codice di diritto canonico del 1917 in nessun canone disponeva circa la vita eremitica, quello del 1983 vi dedica invece il can. 603, ove si legge: «Oltre agli istituti di vita consacrata, la Chiesa riconosce la vita eremitica o anacoretica con la quale i fedeli, in una più rigorosa separazione dal mondo, nel silenzio della solitudine e nella continua preghiera, dedicano la propria vita alla lode di Dio e alla salvezza del mondo. L’eremita è riconosciuto dal diritto come dedicato a Dio nella vita consacrata se con voto, o con altro vincolo sacro, professa pubblicamente i tre consigli evangelici nelle mani del Vescovo diocesano e sotto la sua guida osserva la norma di vita che gli è propria». In questo modo la Chiesa universale riconoscendo finalmente sul piano dell’ordinamento giuridico la legittimità dell’eremitismo individuale ne attesta l’ampia diffusione, come emerge anche dalle più recenti indagini (Turina, I nuovi eremiti). La vita solitaria fiorisce sotto le più diverse forme: da quella tipica dell’anacoreta che si ritira in un luogo remoto, all’”eremitismo urbano”, vissuto in fedeltà al lavoro e alla preghiera nell’anonimato del deserto cittadino; dalla riproposizione in forma moderna dei gruppi di eremiti raccolti in uno spazio circoscritto, alla rilettura della vita di tipo certosino, sperimentata nel connubio di solitudine e comunità. Nella vita eremitica si registra dunque una nuova efflorescenza di esperienze tutte indistintamente animate dallo stesso desiderio di solitudine, che non è fine a se stesso ma unicamente mezzo per ottenere i frutti della contemplazione e della preghiera incessante, rivelando così la sua dimensione profetica nella storia della salvezza, sull’esempio di Mosè, Elia, Gesù nel deserto dopo il battesimo.

Questa varietà di forme e di esperienze è ben riflessa da alcuni esempi personali, in primo luogo quello di Suor Nazarena (Julia Crotta, †1990). Nata nel Connecticut (USA), laureata in letteratura, dopo diverse esperienze di deserto in Palestina, in un Carmelo negli Stati Uniti, finalmente nel 1945 approda nuovamente nel monastero camaldolese di S. Antonio Abate a Roma dov’era stata nel 1938-39 e qui è accolta come “reclusa” privata, secondo un regolamento benedetto dallo stesso papa Pio XII; nel 1953 emette quindi la professione solenne come monaca camaldolese, terminando la sua edificante vita di totale segregazione dal mondo nel 1990. Un altra notevole figura è quella di Adriana Zarri (†2011), teologa, scrittrice e testimone di amore alla Chiesa, che nel libro Erba della mia erba, edito per la prima volta ad Assisi nel 1981 per le edizioni Cittadella, racconta la sua esperienza di solitudine evangelica da una vecchia cascina del Canavese, in diocesi di Ivrea. Infine da segnalare la personalità di Carlo Carretto (†1988). Presidente centrale della Gioventù Italiana di Azione Cattolica (Giac) nel 1946, si dimette per motivi politici nel 1952 dal suo incarico di presidente della Giac e decide di entrare a far parte della congregazione religiosa dei Piccoli Fratelli di Gesù fondata da Charles de Foucauld; nel 1954 parte per il noviziato in Algeria e per dieci anni conduce vita eremitica nel Sahara; tornato in Italia nel 1965, dà vita a Spello in Umbria ad una nuova Fraternità di preghiera e di accoglienza, cui si aggiungono via via altre case sul monte Subasio trasformate in romitori, in uno dei quali, quello di S. Girolamo a Spello, il Carretto muore la notte del 4 ottobre 1988. Tra i casi di nuovi gruppi eremitici sviluppatisi nel sec. XX possono qui citarsi: le eremite di Campello sul Clitumno in diocesi di Spoleto, istituite nel 1926; l’Eremo del Magnificat a Perugia, pio sodalizio di “solitarie” canonicamente eretto nella diocesi di Perugia da mons. Raffaele Baratta il 27 maggio 1965; la famiglia monastica dei monaci di Betlemme, dell’Assunzione della Vergine Maria e di S. Bruno, il cui eremo è sulla cima del Monte Corona nei pressi di Umbertide (Perugia), cui si affiancano le monache di Betlemme del monastero Madonna del Deserto Monte Camporeggiano a Mocaiana (Gubbio, Perugia).

Fonti e Bibl. essenziale

G.M. Croce, I Camaldolesi nell’età contemporanea. Declino, metamorfosi e rinascita di un movimento monastico (1830-1950), in F.G.B. Trolese (ed.), Il monachesimo in Italia tra Vaticano I e Vaticano II. Atti del III convegno di studi storici sull’Italia benedettina, Badia di Cava dei Tirreni (Salerno), 3-5 settembre 1992 (Italia Benedettina 15), Centro Storico Benedettino Italiano, Cesena 1995, 87-141; G. Leoncini, L’Ordine certosino in Italia tra XIX e XX secolo, ibid., 271-289; E. Bargellini (ed.), Camaldoli ieri e oggi. L’identità camaldolese nel nuovo millennio, Ed. Camaldoli, Camaldoli 2000; E.L. Romano, Una spiritualità del deserto. Il progetto di vita degli eremiti di Bethlehem, San Paolo, Cinisello Balsamo (MI) 2000; I. Gargano, Camaldolesi nella spiritualità italiana del novecento, I-III, Ed. Dehoniane, Bologna 2000-2002; A. Barban – J.H. Wong (edd.), Come acqua di sorgente. La spiritualità camaldolese tra memoria e profezia, Ed. Dehoniane, Bologna 2005; I. Turina, I nuovi eremiti. La “fuga mundi” nell’Italia di oggi, Medusa, Milano 2007; A. Zarri, Un eremo non è un guscio di lumaca : erba della mia erba e altri resoconti di vita, Einaudi, Torino 2011.


LEMMARIO




Ernesti Jörg


Nato 1966 a Paderborn (Germania); studi a Paderborn, Vienna, Roma; dottorato di ricerca: Roma (“Theodosius der Große”); libera docenza: Magonza (“Ferdinand von Fürstenberg”); dottorato di ricerca in teologia dogmatica (“Ökumene im Dritten Reich”); ordinazione sacerdotale nel 1993; attività scolastica e parrochiale; 2007-2013 professore di storia ecclesiastica e patrologia a Bressanone: 2013 professore di storia eccl. medioevale e moderna all’università di Augusta; docente a Bressanone.


 

 




Eterodossia, Eresia - vol. I


Autore: Stefano Cavallotto

Il concetto di eterodossia/eresia sotto il profilo storiografico si presenta problematico, poiché viene riferito ad una persona/movimento religioso e alle sue dottrine in quanto “devianti” rispetto ad un altro movimento/istituzione magisteriale della medesima tradizione religiosa. Ciò significa assumere come criterio di lettura di un fenomeno storico una categoria squisitamente teologica o valoriale (nel senso di un punto di vista relativo ad una struttura consolidata di valori, credenze, dogmi), qual è appunto quella dell’ortodossia rivendicata in definitiva dalla parte religiosa dominante o vincente rispetto a ciò che essa giudica eterodosso/eretico. Peraltro, nell’accezione negativa, il termine è usato in maniera interscambiabile: nel conflitto sulla fedeltà alla dottrina ogni parte in causa ritiene la propria interpretazione corretta/ortodossa, che altri all’opposto stigmatizzano come eretica, e viceversa eterodossa quella degli avversari (così i cattolici vedevano nel protestantesimo un’eresia, mentre i riformatori bollavano il cattolicesimo come tradimento della dottrina evangelica). Qui opteremo per una posizione storiografica per così dire “tradizionale”, astenendoci ovviamente da ogni giudizio di valore, ed indicheremo come eterodossi/ereticali quei movimenti cristiani che l’istituzione ecclesiastica “superiore” (concili, papi, gerarchia cattolica) ha additato come tali, condannato con sanzioni ecclesiastiche e combattuto perfino con l’impiego di mezzi coercitivi statali, inclusa la pena di morte. Ancora un limite di questa rassegna è dover operare una scelta in un arco di tempo fin troppo vasto (secc. II-XIX) tra pochi movimenti e figure maggiormente rappresentativi e con un’attenzione quasi esclusiva a quelli legati al territorio “italico”. Ovviamente saranno lasciati fuori anche quei fenomeni di natura puramente scismatica in quanto attinenti più alla disciplina ecclesiastica che non alla dottrina. C’è da rilevare infine come nella stessa comunità dei discepoli di Cristo il concetto di haìresis subisce lungo la storia modifiche non marginali in senso negativo e spregiativo in concomitanza con lo sviluppo del termine ekklesia, a cui viene abitualmente contrapposto (Schlier), dando vita ad un sistema di provvedimenti sempre più marginalizzanti e punitivi, dall’ oportet et haereses …esse di 1 Cor 11,19 fino al reato sociale di eresia, previsto dalla legislazione statale post-costantiniana e di “Ancien Régime”.

Nei primi secoli della storia cristiana è in particolare Roma il luogo dove si sviluppano movimenti eterodossi. Così nel II secolo si fa strada lo gnosticismo dell’egiziano Valentino (†154-160 ca.). Nei quasi vent’anni di permanenza nella capitale dell’impero questi, a servizio come diacono dei pontefici Igino, Pio e Aniceto e aspirante persino all’episcopato, vi fonda un’originale e importante scuola, in cui insegna a rileggere i dati della fede cristiana alla luce di una speculazione teosofica a sfondo mitico. C’è da dire che non è facile stabilire il pensiero di Valentino per i pochi frammenti rimastici dei suoi scritti, ma anche per l’evoluzione/modificazione a cui è stato sottoposto ad opera dei discepoli. Personalmente sembra interessato in prevalenza per il destino privilegiato degli «spirituali» e per la loro redenzione operata dal Logos. I suoi seguaci, divisi in “scuola italica” e “scuola orientale” e forniti di grande acribia teologica, sono fautori della continuità dell’economia della salvezza, dalla creazione all’escatologia, dell’inconoscibilità di Dio, del dualismo tra mondo spirituale e mondo materiale, risultato quest’ultimo della degradazione di un essere divino (Sofia), della triplice divisione (non scelta da loro) degli uomini in materiali, psichici, spirituali, e dell’attesa di uno o più redentori capaci di illuminare gli gnostici sulla loro identità divina. Una concezione, in cui teologia, cosmogonia e antropologia si fondono e che ben presto suscita le preoccupazioni della gerarchia: Valentino viene scomunicato più volte prima di lasciare Roma per Cipro. Contro i valentiniani si rivolgerà soprattutto l’attacco polemico di Ireneo di Lione (†202).

Negli stessi anni è attivo nella capitale un altro capo-scuola, l’orientale Marcione (†160 ca.). Già scomunicato dal padre, vescovo di Sinope, nel 144 entra in conflitto con la chiesa romana sull’interpretazione di Paolo e la dottrina dei due déi, uno vendicativo dell’AT (da rigettare assieme alla bibbia vetero-testamentaria) e l’altro buono e misericordioso del NT. A suo giudizio il canone neotestamentario va ristretto al solo vangelo di Luca e alle Lettere paoline, in cui scorge la novità liberatrice dalla Legge mosaica. In Cristo, poi, non c’è alcuna unione sostanziale tra persona divina e natura umana, essendo quest’ultima corruttibile e causa del male. La morale marcionita è basata su un’ascesi molto rigorosa e sul disprezzo del piacere carnale fino alla rinuncia del matrimonio e della procreazione, onde evitare la continuazione del mondo decaduto. Alla dottrina di Marcione si oppongono bene presto gli autori dei Prologhi ai Vangeli, l’apologista Giustino (†165), il dotto e pugnace presbitero romano Ippolito († II-III sec.), Rodone l’Asiano e nel III secolo Tertulliano († II-III sec.). Nonostante tali confutazioni, la corrente marcionita continua a sopravvivere per qualche tempo affiancata da una nuova tendenza carismatica e rigorista costituita dal Montanismo, condannato a sua volta da papa Zefirino (†217).

Tra II e III secolo sempre nell’«Urbe reale», divenuta crogiuolo di controversie dottrinali, si diffonde ad opera di Prassea (†II-III sec.) la dottrina del “monarchianismo”, il cui primo esponente conosciuto è Noeto di Smirne, vescovo di una città dell’Asia Minore, condannato da un sinodo locale. Alla sua base c’è l’unità («monarchia») del concetto di Dio che, di conseguenza, comporta la negazione della Trinità (per i «Patripassiani» e i «modalisti» è il Padre a soffrire sulla croce sotto il nome del Figlio, essendo questi nomi dei semplici epiteti o «modi» che servono a qualificare Dio a seconda delle circostanze) e della natura divina di Cristo. Gli stessi papi Zefirino e Callisto (†222) vi aderiscono, ma con prudenza. Proprio perciò il dibattito fra i «monarchiani» e i loro avversari, come Giustino (†162/168), definiti i «teologi del Logos» e accusati dai primi di «subordinazianismo» (il Figlio è subordinato al Padre, e lo Spirito santo ad ambedue), conosce nella capitale una grande effervescenza fino a coinvolgere l’intero orbe cristiano. Dibattito che provoca un contrasto tra Ippolito, futuro martire nel 235, e il presbitero Callisto, che nel 217 verrà eletto papa, dagli effetti rovinosi per la comunità romana. Ad ogni buon conto, non risulta che Prassea abbia subìto alcuna persecuzione o condanna da parte dei pontefici Vittore I (†199) o Zefirino. Occorre dire che contro di lui, anti-montanista convinto e ispiratore della scomunica papale contro il «profeta dello Spirito», si scaglia in maniera non sempre obiettiva Tertulliano (Adversus Praxean), accusandolo di anti-trinarismo. Per confutare le posizioni «monarchiane» si mobilita col trattato De Trinitate anche Novaziano (†258), un dotto presbitero romano che nel 251 dà origine ad uno scisma nella chiesa della capitale (contro l’elezione di papa Cornelio si fa consacrare vescovo di Roma) all’insegna di un rigorismo di origine stoica contrario alla riammissione nella chiesa degli apostati e dei lapsi pentiti. Lo scopo ultimo della “setta” novaziana è di costituire una chiesa rigidamente fatta di “santi” e di “puri” (katharoi).

Più ampio è lo scenario “italico” in cui tra il IV e V secolo si svolge la vicenda dell’arianesimo. Nel quadro del dibattito sui rapporti tra Padre e Verbo incarnato, Ario (†336) sostiene una cristologia ispirata al medioplatonismo e orientata verso una sorta di «adozionismo» e «subordinazionismo»: il Figlio ha un inizio, è la prima creatura di Dio, è mutevole ed alterabile, di conseguenza non ha un natura divina come il Padre né può godere degli attributi divini, quali l’eternità e l’essere ex-Deo. Ben presto simile concezione si diffonde soprattutto ad Alessandria e nella zona medio-orientale dell’impero, provocando tensioni e controversie tra le stesse gerarchie locali (alcuni vescovi si schierano a favore di Ario) al punto che Costantino (†337), fallita ogni possibile ricomposizione, nel 325 affida ad un concilio ecumenico la soluzione della controversia: a Nicea la dottrina di Ario viene condannata ed è approvato un “simbolo di fede” che definisce il Figlio homoousios (della stessa sostanza) col Padre. L’arianesimo però continua ad avere difensori influenti, come il vescovo di Nicomedia Eusebio (†341) e soprattutto l’imperatore Costanzo II (†361), ma anche a fare vittime illustri tra gli oppositori, basti ricordare Atanasio (†373), inflessibile sostenitore della fede nicena. Un secondo concilio ecumenico nel 381 sotto Teodosio I (†395), celebrato a Costantinopoli, conferma il simbolo e la condanna nicena, ma senza per questo riuscire a debellare l’arianesimo, che anzi sopravvive tra le tribù germaniche e per un certo periodo nella stessa capitale della corte imperiale occidentale. A Milano, infatti, già dal 355 col sostegno dell’imperatrice Giustina è vescovo il filo-ariano Aussenzio (†374), il cui potere non viene scalfito neppure dalla scomunica del 369, fulminatagli da papa Damaso (†384). Cinque anni prima contro la sua doppiezza si è scagliato pubblicamente Ilario di Poitiers (†367) nel Liber contra Auxentium. La presenza ariana a Milano non cessa neppure con la morte del vescovo, ma diventa al contrario più aggressiva sotto l’episcopato ambrosiano. Strenuo difensore della fede nicena, Ambrogio (†397) deve scontrarsi più volte con i seguaci di Aussenzio. Il successo definitivo verrà con le delibere dei sinodi anti-ariani di Aquileia (381) e Roma (382), convocati sotto la sua regia dall’imperatore Graziano (†383), e più tardi con l’intervento risolutivo di Valentiniano II (†392), passato dall’arianesimo alla fede ortodossa.

Di minore impatto è la presenza del manicheismo in Italia. Occorre dire che al tempo del lungo pontificato di papa Damaso (†367) nell’Urbe pullulano diversi movimenti settari: ci sono i seguaci dell’antipapa Ursino e poi quelli orientati alla gnosi e ancora i fautori di nuove controversie disciplinari, come il gruppo rigorista legato al vescovo Lucifero di Cagliari (detti «luciferiani», contro cui Girolamo scrive l’ Altercatio Luciferiani et Orthodoxi). Ci sono pure due comunità, guidate ciascuna da un proprio vescovo e ispirate all’intransigenza e alla severità, quella dei donatisti e l’altra dei manichei. Di quest’ultima è Episcopus alla fine del IV secolo Fausto di Milevi, autore di un’apologia del manicheismo duramente attaccata da Agostino (†430) nel ponderoso Contra Faustum Manicheum libri 33. Fondata dal persiano Mani (†277) tale corrente religiosa si era presentata nell’Occidente cristiano come una sorta di sincretismo di dottrine giudeocristiane e indoiraniche. Il suo fondamento teorico era un rigido dualismo, che non ammette nessun rapporto tra bene e male, tra il Dio della luce e il non-dio delle tenebre; nel mondo questi due princìpi si trovano insieme in una mescolanza nefasta dei contrari perennemente in lotta tra loro. L’organizzazione, caratterizzata da una forte gerarchizzazione dei membri (uditori, eletti, anziani, vescovi, ecc.), presentava uno schema di gradi da percorrere nel cammino della redenzione con esigenze crescenti. Condannato varie volte dalle autorità ecclesiastiche come setta “dualistica”, il manicheismo è bandito dall’impero nel 382 da Teodosio I su sollecitazione di papa Siricio (†399).

Nel novero delle “deviazioni” dottrinali occorre includere, seguendo la lettura polemica datane da Agostino, quella che fa capo a Pelagio (†420 ca.), un monaco, oriundo della Britannia ma a lungo residente nella capitale. Divenuto maestro di vita cristiana molto ascoltato negli ambienti colti ed aristocratici, insegna a riconoscere il bonum naturae (possibilità naturale di evitare il male e compiere il bene) e ad apprezzare come grandi doni di Dio la ragione e il libero arbitrio, fondamento necessario della vita morale. L’apporto della rivelazione (Legge mosaica ed esempio di Cristo) consiste a suo giudizio solamente nel facilitare la realizzazione del bene e il raggiungimento della perfezione. La discussione causata da queste posizioni si accende oltremisura anche per i numerosi interventi del vescovo di Ippona sulla questione della grazia, trascinando nello scontro personalità illustri. Pur non mancando di sostenitori tra l’episcopato italico, Pelagio è costretto dapprima ad emigrare e quindi a subire gli anatemi dei Sinodi di Cartagine e Milevi (416) e dei papi Innocenzo I (417) e Zosimo (418). Contro i pelagiani arriva nel 431 la condanna per eresia del Concilio ecumenico di Efeso e si scatena la persecuzione dell’imperatore Teodosio II (†450), che bene presto porterà alla loro scomparsa.

Tra VIII e IX secolo si accende soprattutto nell’Oriente bizantino un’offensiva contro le immagini sacre (iconoclastia), nata per motivi politico-culturali e ben presto sfociata nell’eresia. Nel 730 Leone III Isaurico (†741) ordina la distruzione delle icone e la impone con editto imperiale come dottrina ufficiale, provocando così una prima condanna del sinodo romano convocato da papa Gregorio III nel 731. Ma è con i decreti di Ieria (Calcedonia) del 754, sottoscritti da un gran numero di vescovi fedeli alla politica di Costantino V Copronimo (†775) e giustificati sulla base delle proibizione vetero-testamentarie e di rare invettive patristiche contro l’abuso delle immagini, che l’iconoclastia divampa, scatenando atti di vandalismo e cruente persecuzioni in particolare contro i monaci iconofili; decreti iconoclasti che l’imperatrice Irene (†802) riesce a fare annullare e condannare in quanto fautori di una “perniciosa eresia” dal II Concilio ecumenico di Nicea del 787: qui i vescovi dichiarano all’unanimità dottrinalmente legittimo il culto delle immagini, mettendo però in guardia dal rendere loro la latria dovuta soltanto a Dio. Papa Adriano I (†795) approva la dottrina di Nicea e la difende in Occidente contro gli attacchi dei teologi di Carlo Magno. Ancora un rigurgito dell’eresia iconoclasta si scatena con Leone V l’Armeno (†820) nell’815, quando un sinodo da questi riunito a Santa Sofia approva una serie di decisioni contro la venerazione delle immagini e contro gli iconofili (vescovi e monaci), costretti perciò ad andare in esilio. La rabbia iconoclasta giunge al suo parossismo sotto il patriarcato costantinopolitano di Giovanni il Grammatico, maestro dell’imperatore Teofilio (†842). Con Teodora Armena (†867), però, un sinodo locale torna a legittimare il culto delle immagini e ad anatemizzare i suoi avversari (a perenne ricordo di tale avvenimento viene istituita la «grande festa dell’ortodossia» tuttora celebrata nella I domenica di Quaresima). Il tema dell’iconoclastia ha il suo epilogo nel quadro della controversia foziana con ripetute condanne, in particolare al concilio romano (canone VI) dell’863 e al concilio ecumenico Costantinopolitano IV (869/70) (canone III). Il problema si riproporrà in Occidente nel XVI secolo a causa degli attacchi dei riformatori protestanti contro il culto delle immagini, specialmente in seno al Calvinismo, ai quali risponde il concilio di Trento, approvando nel 1563 il decreto De invocatione, veneratione et reliquiis sanctorum et de sacris imaginibus.

Sempre in epoca carolingia inizia in Occidente con Pascasio Radberto (†850) (Liber de corpore et sanguine Domini), Rabano Mauro (†856) e Ratramno (†868 ca) un’altra controversia dottrinale relativa all’eucarestia, che nel XI secolo porterà alla vicenda di Berengario di Tours (†1088 ca). Questi, in un momento di estrema confusione nel linguaggio teologico e facendo leva sulla dialettica, difende contro ogni forma di realismo una concezione simbolica del sacramento dell’altare (le due specie eucaristiche sono «non il vero corpo e il vero sangue, bensì figura ed immagine [similitudo]»), attirandosi per questo le condanne di vari sinodi locali (Parigi [1051], Tours [1055], Roma [1059], Poitiers [10575]) e contravvenendo così alla formula romana da lui firmata nel 1079. In tale data, infatti, un concilio riunito a Roma da Gregorio VII (†1085) definisce per la prima volta il concetto di transustanziazione come spiegazione dottrinale del mistero eucaristico («il pane e il vino sull’altare, grazie al mistero della preghiera santa e delle parole del nostro Salvatore, vengono sostanzialmente trasformati nel corpo e nel sangue del Signore Gesù Cristo»). Quasi a conferma di tale spiegazione le cronache locali registrano in Italia alcuni eventi prodigiosi intorno alla presenza reale di Cristo nelle specie consacrate, basti ricordare i miracoli eucaristici di Lanciano (750), di Ferrara (1171), di Alatri (1228), di Bolsena-Orvieto (1263). Una dottrina della transustanziazione, a cui l’incipiente teologia scolastica dà una formulazione definitiva e un fondamento decisivo, ma che nel XVI secolo troverà una radicale contestazione nella Riforma protestante. Così Lutero (†1546) la rigetta come non biblica e mera opinione delle scuole, pur continuando a credere nella presenza “reale” di Cristo nel pane e nel vino della S. Cena e prendendo su questo le distanze nel Colloquio di Marburg del 1529 dall’interpretazione simbolica di Zwingli (†1531); interpretazione simbolica che di fatto è sostenuta anche da Calvino (†1564) e dalle altre comunità evangeliche. Parimenti sulla messa intesa come sacrifico il rifiuto dei protestanti è netto ed univoco: per essi è un «abuso idolatrico» che trasforma il memoriale dell’unico sacrificio di Cristo in una «vergognosa nuova crocifissione». Contro tali posizioni giudicate eterodosse si pronuncia il concilio di Trento nel decreto De sanctissimo eucharestiae sacramento (sessione XIII, 1551) e in quello relativo al sacrifico della messa (sessione XXII, 1562) con i rispettivi canoni di anatema sit: si torna a ribadire la dottrina della transustanziazione per spiegare la presenza reale e quella sulla natura sacrificale propria della messa da considerare non come un nuovo sacrifico ma rinnovazione incruenta dell’unico sacrifico di Cristo sulla croce ad opera delle parole consacratorie pronunciate dal sacerdote in persona Christi.

Correnti eterodosse sorgono anche nell’Italia medievale, diverse tra loro ma con elementi comuni e nuovi rispetto all’evo antico, quali il carattere popolare e laicale (in opposizione alla chiesa clericale), la forte vocazione alla profezia e alla predicazione itinerante, l’impegno per un radicale ritorno della chiesa al modello apostolico e all’Evangelo del Cristo povero sulla base di idee religiose non sempre conformi al sistema dottrinale consolidato e sovversive rispetto all’assetto politico-religioso della societas christiana post-costantiniana. In quest’ottica nasce poco dopo la metà dell’XI secolo in seno alla diocesi di Milano un movimento detto spregiativamente la Pataria (patè=straccione?) con l’obiettivo di combattere la simonia e il concubinato del clero attraverso una riforma morale e disciplinare e di instaurare una chiesa più fedele alla forma evangelii in linea con la riforma già portata avanti dai cluniacensi (si ricordi il sinodo riformatore celebrato in Laterano nel 1059 dal cluniacense papa Nicolò II). Accanto ai fratelli Landolfo ed Erlembaldo Cotta, appartenenti a famiglia feudale e responsabili dell’assetto politico militare dei gruppi patarinici, promotore principale della Pataria è il diacono Arialdo (†1066): il suo attacco violento a preti e vescovi concubini e simoniaci (stigmatizza la simonia come la più perniciosa «eresia» della chiesa milanese) è all’origine di una prima insurrezione popolare nel 1057 contro la nomina imperiale – giudicata frutto di compra-vendita – a vescovo della sede ambrosiana di Guido di Velata, seguita dalla più vasta rivolta del 1066 estesa alle altre città dell’Itala settentrionale. Un forte impulso al movimento patarinico è dato nel 1061 dall’elezione a papa col nome di Alessandro II di un suo simpatizzante, Anselmo da Baggio. E tuttavia nel 1066 Erlembaldo e Arialdo sono trucidati dai sostenitori del clero ambrosiano filo-imperiale (e da quel momento venerati dai patarini come santi martiri), mentre dopo l’elezione di Gregorio VII (†1085) il conflitto, che in Lombardia si è trasformato in guerra civile, si ricompone confluendo nel più vasto orizzonte della lotta per le investiture. C’è da dire che solo più tardi il termine patarino diventerà sinonimo di eretico – ad attestare come l’assestamento della riforma porti con se l’eliminazione di ogni radicalismo religioso – forse anche per assonanza tra pataro e cataro («Cathari seu Paterini»). Un movimento, questo dei catari, presente tra XI-XIII secolo con gruppi e comunità nell’Europa centrale ed occidentale (Albigesi), strettamente legato ai Bogomili della Tracia e ancor prima al manicheismo tardo-antico con una forte connotazione pauperistica. Il loro sforzo di vivere rationabiliter la legge del Vangelo li porta a leggere le Scritture neotestamentarie secondo il principio dualistico di Mani (bene/male; luce/tenebre; Dio/Mammona), seppure con una visione morale fondata sul volontarismo e non sul determinismo manicheo. Organizzati in chiese composte da due ceti distinti, i perfecti (obbligati ai doveri morali e ascetici) e i credentes (sciolti da questo obbligo), e con una propria gerarchia, sono radicalmente nemici della «Babilonia romana». Comunità catare e albigesi operano nell’Italia settentrionale e centrale già a partire dagli inizi del secolo XI e fino al secolo XIII, quando su di loro si abbattono, oltre alle crociate del 1209 e del 1229, i decreti di condanna di papa Lucio III (1184) e del concilio Lateranense IV (1215) e la repressione dell’Inquisizione (1230-1255). Il medesimo anatema conciliare del 1215 è scagliato anche contro i Valdesi – un altro movimento pauperistico e anti-istituzionale con forte propensione alla predicazione itinerante, originato dal commerciante lionese Valdo, ben diverso però dal catarismo ancorché ad esso erroneamente assimilato dalla censura romana –, e nei confronti degli «errori» trinitari dell’abate calabrese Gioacchino da Fiore (†1202), profeta della «terza età dello Spirito» e di una «palingenesi» spirituale. Le attese escatologiche gioachimite e le interiorizzazioni spirituali di fronte alla mondanità e corruzione della chiesa gerarchica si fanno sempre più vive specialmente nel mondo dei «mendicanti», convinti come sono di essere il segno della «pienezza dei tempi». Ed è in particolare la fraternità francescana degli «spirituali» tra XIII e XIV secolo con Pietro di Giovanni Olivi (†1298), Ubertino da Casale (†1330) e Angelo Clareno (†1337), per ricordare solo alcuni nomi della folta schiera, ad alimentarle e veicolarle nei vari territori e comunità ecclesiali dalla Francia meridionale al Sud-Italia. Una fraternità dal cui interno si sviluppano anche posizioni ancor più estremiste, accusate e condannate con severità dalla gerarchia ecclesiastica per eresia, immoralità e sedizione, come il movimento dei Fraticelli e degli Apostolici/Dolciniani. I primi, diversamente dagli «spirituali» rimasti nella chiesa, sono gruppi separati di francescani presenti in alcune parti dell’Italia e in Provenza, che per le loro aspre critiche alla «carnalità» della chiesa clericale si attirano l’inesorabile persecuzione e scomunica (1323) di Giovanni XXII e pur di rimanere fedeli all’ideale della povertà radicale, da estendersi a loro giudizio alla stessa dirigenza ecclesiastica (papa, curia, vescovi), arrivano a ripudiare l’autorità dei superiori e della gerarchia. Sempre sulla questione della povertà e della vita comune si è consumato qualche decennio prima il destino degli Apostolici guidati inizialmente da fra Gerardo Sigarelli di Parma e dopo la sua morte da fra Dolcino. I fratres et sorores apostolicae vitae sono intenzionati a rinnovare la vita francescana riproducendo il genere di vita degli apostoli quanto a predicazione, abito e libertà spirituale, ma al di fuori di ogni schema e di ogni struttura. Gli abusi e le stranezze conseguenti a tale impostazione “libertaria” anche a riguardo della sessualità allarmano il vescovo locale che alla fine li condanna e mette al rogo il suo fondatore, Gerardo. La medesima sorte tocca a Dolcino, arso vivo a Vercelli nel 1307 come eretico in quanto predicatore appassionato, in linea con la profezia gioachimita, dell’avvento dell’età nuova dello Spirito, che avrebbe portato alla sconfitta di Bonifacio VIII e alla propria elezione a pontefice (il «papa spirituale»). All’ideale del “liberismo” evangelico si indirizza pure la corrente dei Fratelli del libero spirito, nata nelle Fiandre e nella Renania e diffusasi anche nel Settentrione d’Italia e soprattutto in Umbria ad opera del francescano Bentivenga da Gubbio (†1319/33). Molto vicina alla dottrina di Almarico di Béne (†1206/7) («almariciani») già condannata da Innocenzo III (†1216), la «comunità del libero spirito» rivendica l’indipendenza dall’autorità ecclesiastica e la possibilità di vivere secondo una vita apostolica (comunanza di beni, fraternità, ugualitarismo) in forza dell’effusione dello Spirito ricevuta. Concretamente proclama che il credente, una volta raggiunto lo stadio dello «spirito libero» attraverso rinunce e penitenze, venga affrancato da ogni legge morale e dalla stessa possibilità di peccare. A tale filone “dissidente” appartiene la mistica beghina Margherita Porete, bruciata a Parigi nel 1310 come eretica assieme al suo libro Le miroir des simples âmes. L’anno dopo la “setta” dei Fratelli è condannata da Clemente V e Rainerio, vescovo di Cremona, è nominato inquisitore nella valle di Spoleto al fine di estirpare l’eresia.

Nel Quattrocento e soprattutto nel Cinquecento l’eterodossia si collega in modo quasi esclusivo a correnti di pensiero e a movimenti ecclesiali paladini di una reformatio ecclesiae in capite et in membris secondo l’Evangelo “nuovamente riscoperto” e sfociati in parte nella contestazione radicale e persino nel rifiuto dell’assetto istituzionale della chiesa “papista”. Possiamo menzionare in proposito l’ecclesiologia “rovesciata” di Marsilio da Padova (†1342), le cui tesi del Defensor pacis antitetiche alla ierocrazia papale dell’Unam sanctam di Bonifacio VIII sono condannate da Giovanni XXII, e inoltre le cosiddette “eresie nazionali” di John Wycliff (†1383) e Jan Hus (†1415), apostoli di un’ecclesia spiritualis o congregatio praedestinatorum senza clero, senza papato e fondata unicamente sulla Scrittura e per questo anatemizzati dal Concilio di Costanza (Hus è bruciato nella città conciliare nel 1415) e ancora le invettive di Girolamo Savonarola (†1498) contro Alessandro VI che perciò lo scomunica nel 1497 e l’anno dopo lo lascia impiccare e bruciare sul rogo in piazza della Signoria a Firenze come «eretico, scismatico e per aver predicato cose nuove». Anche la [→] Riforma protestante di Lutero (†1546), Zwingli (1531), Calvino (†1564), Bucer (†1551), che pure parte dall’assunto della giustificazione per fede (sola fide, sola gratia, solus Christus) e dal sola Scriptura come principio di verità, finisce per contestare la pretesa inerranza del magistero ecclesiastico solenne (papa e concili) e negare sostanzialmente la natura gerarchica della chiesa e la sua dimensione di istituzione visibile e giuridica a favore di un’ecclesia spiritualis quale congregatio sanctorum (o praedestinatorum), in qua evangelium pure docetur et recte administrantur sacramenta e per la cui unità è sufficiente l’accordo sull’insegnamento del Vangelo e l’amministrazione dei sacramenti (Confessio Augustana VII); una chiesa, in ultima analisi, che non si identifica con il “regno visibile” del papa-Anticristo. A ben vedere, è per l’impossibilità di un accordo sulla dottrina ecclesiologica che di fatto falliscono tutti i tentativi di riunificazione messi in atto da Carlo V (Colloqui di Religione 1539-41), anche se il concilio di Trento (1545-1563) pronuncerà l’anatema sulle singole “eresie” dei “novatores”. Lo stesso evangelismo dei circoli valdesiani e del riformismo cattolico, attivo in Italia assieme alle varie esperienze collegate alla Riforma protestante d’Oltralpe a cominciare dai Valdesi, propone un’“interiorizzazione” cristocentrica della vita cristiana ed una implicita riforma istituzionale della chiesa, ugualmente condannate dall’Inquisizione romana. Il controllo sempre più ferreo in materia dottrinale da parte del Sant’Uffizio post-tridentino, oltre a ridurre i pochi spazi rimasti al libero pensiero e a rafforzare una massiccia opera di “disciplinamento”, dà vigore ad una prassi di sospetti generalizzati di eterodossia con lo scopo di tenere sotto scacco gli indiziati, assoggettandoli a volte persino con la violenza. Sotto la sua azione censoria cadono nel XVII secolo personaggi illustri dell’orizzonte culturale italiano, come Galileo Galilei (†1633), Giordano Bruno (†1600), Tommaso Campanella (†1639), assieme a movimenti che dal loro pensiero prendono origine. La nota vicenda del processo e della condanna dell’astronomo pisano, incolpato di mettere in dubbio la verità della Scrittura perché favorevole alla teoria eliocentrica, si conclude nel 1633 con un’abiura forzata. Più drammatica è la sorte del domenicano di Nola messo al rogo a Campo de’ Fiori nel 1600. Giordano Bruno, ammiratore di Copernico e della teoria sull’infinità dell’universo, è accusato da cattolici, calvinisti e anglicani di attentare alla concezione di un Dio creatore e personale (in sostanza di cadere nel panteismo), di considerare la conoscenza pura illuminazione e trasporto amoroso e non invece frutto della ragione e della scienza, di ridicolizzare il cristianesimo come religione rivelata, riducendolo a freno morale del popolo, e in ultima analisi di disprezzare l’«autorità dei Santi Padri».

Tra Sei-Settecento è il giansenismo ad essere colpito dalla censura romana con la bolla di Clemente XI Unigenitus del 1713; un movimento in verità molto complesso, perché dottrinale, politico ed ecclesiastico, diffuso in gran parte dell’Europa e con sostenitori di primo piano nel panorama cattolico del tempo (oltre al vescovo Cornelius Jansen, Saint-Cyran, il monastero cistercense di Port-Royal, gli Arnauld, Pascal, Quesnel), che, professando un agostinismo radicale, riafferma la totale soggezione dell’uomo alla concupiscenza dopo il peccato originale (solo la grazia divina gli permette di compiere opere buone) e predica una morale rigoristica ed elitaria (la grazia diventa vincente solo con una rinuncia totale di sé ed una perfetta conformità alla volontà di Dio). La sua influenza in Italia è abbastanza limitata. Per promuoverlo Pietro Tamburi (†1827) e Scipione de’ Ricci (†1810), vescovo di Prato-Pistoia, col sostegno del granduca Pietro Leopoldo nel 1786 riescono ad organizzare il Sinodo di Pistoia, condannato da Pio VI cinque anni dopo con la bolla Auctorem fidei.

Di pensatori e movimenti “non conformisti” è attraversata l’Europa particolarmente con l’avvento della stagione illuministica, basti richiamare il Deismo di Antony Collins (†1729), Herman Samuel Reimarus (†1768) e Gotthold Ephraim Lessing (†1781) e l’“anti-cristianesimo” di Bayle (†1706), Diderot (†1784) e Voltaire (†1788), aspramente attaccati da un’apologetica cattolica chiusa in difesa e in alcuni casi dagli interventi punitivi del Sant’Uffizio e dell’Indice. Ma il “dissenso” attraversa anche le fila dei cattolici intransigenti: Félicité de Lamennais (†1854), passato dall’ultramontanismo ad un vago socialismo cristiano, difende i principi del liberalismo religioso e politico, ivi compresa la libertà di coscienza, e sostiene la necessità di una riforma della chiesa, ma viene raggiunto dalla condanna della Mirari vos (1832) di Gregorio XVI, per cui decide di uscire definitivamente dalla chiesa e dare inizio ad un’opera di democratizzazione del cristianesimo a sfondo sociale basato sul carattere razionale-filosofico della religione. In Italia nel 1849 sono posti all’Indice per sospetto di errori dottrinali, ma in realtà per ragioni politiche (cinque anni dopo saranno «dimessi» alla lettura del pubblico), due scritti di Antonio Rosmini-Serbinati (†1855): Delle cinque piaghe della Chiesa e La costituzione secondo la giustizia sociale. L’impegno del teologo di Rovereto, in realtà molto apprezzato dai papi del tempo, è rivolto certo alla riforma della chiesa (liturgia, formazione sacerdotale, unità dei vescovi e loro nomina), ma soprattutto a contrastare l’illuminismo anticristiano attraverso il «risanamento della ragione» (progetta un’Enciclopedia cristiana da opporre a quella francese) e la rigenerazione della teologia riportata ad una maggiore visione unitaria. I sospetti sulla sua ortodossia, tuttavia, ritornano dopo la sua morte e Rosmini è nuovamente «condannato, riprovato e proscritto» dall’Inquisizione romana nel 1887 (il suo pensiero sarà rivalutato e lui sarà beatificato nel 2007). Nelle prime decadi del secolo XX toccherà al modernismo essere oggetto di censura e di persecuzione da parte del Sant’Uffizio.

In definitiva, la possibilità di errori dottrinali e la necessità di individuarli e debellarli sono in un certo senso connaturali al cristianesimo inserito nella storia. C’è da dire, però, che dopo il Vaticano II (1962-65) l’organismo preposto a questa funzione, la Sacra Congregazione per la dottrina della fede, non ha più il compito di “perseguire le eresie e … reprimere i delitti contro la fede” secondo lo statuto del 1542, ma più positivamente di “difendere la fede” promuovendo la dottrina “in modo che, mentre si correggono gli errori e soavemente si richiamano al bene gli erranti, gli araldi del vangelo riprendono nuove forze”.

Fonti e Bibl. essenziale

K. Rahner, Che cos’è l’eresia, Paideia, Brescia 1964; L. Cristiani, Breve storia delle eresie, Milano 1960; AA. VV., Eresia ed eresiologia nella Chiesa antica, Roma 1985; M. Simonetti, Ortodossia ed eresia tra I e II secolo, Soneria Mannelli (Cz) 1995; G. Filoramo, L’attesa della fine. Storia della gnosi, Laterza, Roma-Bari 1993; M. Simonetti, La crisi ariana del IV secolo, Roma 1975; U. Bianchi, Antropologia e dottrina della salvezza nella religione dei Manichei, Roma 1987; R.F. Evans, Pelagius: Inquiries and Reappraisals, New York-London 1968; G.G. Merlo, Eretici ed eresie medievali, Il Mulino, Bologna 1989; P. Golinelli (a cura di), La Pataria. Lotte religiose e sociali nella Milano dell’XI secolo, Milano 1984; G. Rottenwöhrer, Der Katharismus, 2 Bde., 4 T., Bad Honnef 1982; N.D. Power, Il mistero eucaristico: infondere nuova vita alla tradizione, Queriniana, Brescia 1997; R. Iaria, I miracoli eucaristici in Italia, Ed. Paoline, Milano 2005; A. Besançon,  The Forbidden Image: An Intellectual History of Iconoclasm, Chicago 2009; E. Iserloh, Compendio di storia e teologia della Riforma, Morcelliana, Brescia 1990; P. Zovatto, Introduzione al Giansenismo italiano (appunti dottrinali e critico bibliografici), Trieste 1970; A. Giordano, Rosmini e Lamennais. Fede e politica, Stresa 1989.


LEMMARIO




Etica economica - vol. II


Autore: Giovanni Gregorini

Sotto il profilo sia storico che disciplinare l’economia nasce nell’ambito dell’etica, per cui di per sé essa è del tutto immersa e scaturisce dal discorso etico. Al punto tale che proprio la relazione tra etica ed economia è per molti versi centrale sin dalle trattazioni pre-moderne, ad esempio già in Aristotele con la sua etica delle virtù. In questo stesso senso le prime riflessioni complesse sul rapporto tra morale cristiana ed economia si possono far risalire ad importanti teologi come Tommaso d’Aquino, Bonaventura da Bagnoreggio, Anselmo d’Aosta, fino a Bernardino da Siena e Bernardino da Feltre nel corso del XV secolo.

Oggi i rapporti tra etica ed economia rappresentano l’argomento su cui si concentra un cospicuo agglomerato di ricerche interdisciplinari che coinvolgono l’economia, la filosofia, la teologia, ma anche altre discipline quali la sociologia, la psicologia, l’antropologia, la giurisprudenza, le scienze politiche. L’attenzione per i citati rapporti si è rafforzata in età contemporanea sia sotto il profilo strettamente scientifico, sia in relazione alle dinamiche, anche distorte, generate dal diffondersi dello sviluppo economico moderno, soprattutto nella sua ultima declinazione rappresentata dalla globalizzazione. La sensibilità crescente per il tema in generale ha riguardato e riguarda pure la Chiesa italiana, naturalmente intesa sia come gerarchia ecclesiale sia come comunità dei cristiani (singoli e istituzioni) presenti sul territorio e membri attivi della società nazionale.

Storicamente, a partire dal secondo Ottocento si affermava il contributo dei cattolici italiani rispetto al dibattito sullo spirito e quindi sulle origini morali del capitalismo. In questo ambito spiccava senza dubbio il pensiero di Giuseppe Toniolo (1845-1918), all’interno del quale si poteva individuare un nucleo centrale dedicato alla questione della matrice originaria dell’economia capitalistica. A fronte di una eccessiva e quindi indebita funzione del capitale, Toniolo riconosceva negli sviluppi del capitalismo ottocentesco una deformazione dell’economia di mercato per come doveva essere correttamente intesa e praticata, ovvero quella economia occidentale democraticamente orientata al perseguimento del bene comune i cui germi potevano essere individuati già nel Medioevo e quindi prima della Riforma protestante. Diversamente da Weber e Sombart, come pure capovolgendo la prospettiva interpretativa generale di Marx, Toniolo riteneva quindi fondamentale la disciplina morale cattolica nei rapporti economici per la configurazione di un capitalismo efficace, nel senso della valorizzazione del solidarismo attivo e della cooperazione, del raccordo tra la difesa dei diritti e il richiamo ai doveri, della salvaguardia soprattutto del primato della persona e del lavoro umano nei processi produttivi.

In questa direzione, pur con opportuni distinguo e specificazioni ulteriori, si muovevano successivamente anche Amintore Fanfani (1908-1999) e Francesco Vito (1902-1968), rispettivamente storico economico ed economista dell’Università Cattolica del Sacro Cuore. Mentre il primo riprendeva e sviluppava le intuizioni generali di Toniolo, il secondo approfondiva i rapporti etico-economici lavorando soprattutto perché il pensiero economico superasse definitivamente il principio in base al quale veniva identificata la scientificità dell’economia con la neutralità nei confronti dei giudizi etici: proprio l’economia, quale scienza dei mezzi, doveva invece essere subordinata all’etica, scienza dei fini. Dal canto suo, nel secondo Novecento italiano, anche Luigi Sturzo sviluppava una pungente riflessione sul tema in questione, ad esempio nel corposo saggio dedicato all’Eticità delle leggi economiche (1958).

Nel corso del XX secolo in maniera ineludibile si è concretizzato anche il confronto ecclesiale italiano con il Magistero sociale della Chiesa universale, il quale con gradualità ha inquadrato e sviluppato la questione generale del rapporto tra etica ed economia. La dottrina sociale della Chiesa infatti ha costantemente insistito sulla connotazione morale dell’economia sin dalle sue origini con l’enciclica Rerum novarum di Leone XIII (1891), ma in maniera ancor più nitida a partire dalla Quadragesimo anno di Pio XI (1931), laddove si osserva che “sebbene l’economia e la disciplina morale, ciascuna nel suo ambito, si appoggiano su principi propri, sarebbe errore affermare che l’ordine economico e l’ordine morale siano così disparati ed estranei l’uno all’altro, che il primo in alcun modo dipenda dal secondo” (n.41).

Successivamente è stata rimarcata la circostanza per la quale il rapporto tra morale ed economia è in verità necessario ed intrinseco, per cui attività economica e comportamento morale si compenetrano in maniera intima nella direzione indicata dalla costituzione pastorale Gaudium et spes del Concilio ecumenico Vaticano II (1965) (® Concilio Vaticano II): “anche nella vita economico-sociale occorre onorare e promuovere la dignità della persona umana e la sua vocazione integrale e il bene di tutta la società. L’uomo infatti è l’autore, il centro e il fine di tutta la vita economico-sociale” (n.63). Dal canto suo l’enciclica Populorum progressio di Paolo VI (1967) ha ampliato geograficamente la dimensione etica dell’economia internazionale richiamandone la responsabilità in termini di impegno cooperativo delle nazioni ricche per la crescita ed il progresso dei Paesi in via di sviluppo. Con la Sollicitudo rei socialis di Giovanni Paolo II (1986) si è mostrato altresì come la connotazione morale dell’economia faccia riconoscere l’efficienza economica e la promozione di uno sviluppo solidale dell’umanità come finalità non opposte bensì, al contrario, inscindibili. In base a questi principi l’attività economica per assumere un profilo morale deve individuare come soggetti principali tutti gli uomini e tutti i popoli. Oggetto dell’economia è quindi la formazione della ricchezza e il suo incremento progressivo, in termini sia quantitativi che qualitativi, formazione ed incremento che assumono una valenza morale se finalizzati allo sviluppo globale e solidale dell’uomo e della società. In questa prospettiva generale, in sintonia con la Centesimus annus di Giovanni Paolo II (1991), la dottrina sociale della Chiesa ha elaborato un equilibrato apprezzamento per l’economia di mercato, o economia libera, se posta al servizio della libertà umana integrale. Impregnata di cenni al rapporto tra etica ed economia – in forte continuità con la Populorum progressio di papa Montini – si rivela infine l’enciclica Caritas in veritate di Benedetto XVI (2009).

Come accennato in esordio, la questione dei rapporti tra etica cattolica ed economia capitalistica di mercato è diventata ampiamente oggetto di discussione soprattutto negli ultimi vent’anni, dopo una precedente fase invece più cadenzata in relazione ad una serie di eventi che coinvolgevano anche l’Italia: il “miracoloso” sviluppo industriale del secondo dopoguerra, la prevalente sensibilità ecclesiale per altri temi etici e morali, l’orientamento verso sistemi democratici ad economia mista con marcate suggestioni pianificatrici o comunque di incisivo spazio per l’intervento redistributore dello Stato. Con i primi anni Novanta, tuttavia, il forte indebitamento pubblico delle economie occidentali e la conseguente crisi del welfare, ma soprattutto la globalizzazione dell’economia mondiale successiva all’affermazione delle nuove tecnologie informatiche come pure agli eventi politici del 1989, hanno portato ad un rinnovato confronto con l’efficacia storica del capitalismo, in relazione anche a talune aperture in questo senso garantite dalla citata enciclica Centesimus annus e dalle elaborazioni proposte da autori quali Michael Novak. Un confronto che è diventato però sempre più critico nel corso degli anni, in relazione anche all’affermarsi di interpretazioni e prospettive quali quelle di Amartya Sen, come pure in particolare dopo l’emergere di taluni scandali finanziari a livello mondiale ma anche nazionale, ed altresì in rapporto all’emergere della grande depressione finanziaria del 2008, con il conseguente riaffacciarsi dei temi etici di fronte agli squilibri e agli scompensi del cosiddetto turbo-capitalismo contemporaneo (® Emigrazione-immigrazione).

A fronte di tutto ciò, in una prospettiva più interna, la Chiesa italiana ha anch’essa animato un dibattito sul tema specifico del rapporto tra etica e finanza mediante alcuni strumenti istituzionali, quali le riflessioni promosse dai competenti Uffici della Conferenza episcopale oppure nell’ambito delle Settimane sociali dei cattolici italiani, sia in sede di celebrazioni delle relative giornate di studio che di atti preparatori.

In questo senso giova segnalare il documento dei vescovi italiani del 1994, titolato Democrazia economica, sviluppo e bene comune, dove viene ribadito il costante insegnamento della Chiesa sul rapporto tra etica ed economia: “la necessità di un ordine morale nell’economia e in tutta la vita dell’uomo è un insegnamento costante della dottrina sociale cristiana. L’assenza di criteri morali, come attesta l’esperienza, è invece causa di molti mali economici e sociali” (n.10). In seguito l’Ufficio nazionale per i problemi sociali e il lavoro della Cei ha sviluppato a partire dal 1999 un’approfondita riflessione sul tema della relazione tra etica e finanza, giungendo alla pubblicazione di tre sussidi al riguardo: Etica e finanza, Finanza internazionale ed agire morale, Etica sviluppo e finanza, quest’ultimo pubblicato per i 40 anni dell’enciclica Populorum progressio. In tutti i documenti citati viene posta sotto osservazione l’evoluzione dell’economia internazionale in un senso globalizzante, richiamando costantemente l’importanza di riferimenti etici per l’azione degli operatori economici rispetto a temi cruciali come quelli della remissione del debito per i Paesi in via di sviluppo, della incontrollata diffusione di strumenti tecnici prevalentemente speculativi nell’ambito dei mercati finanziari, degli squilibri esistenti nell’evolversi dei caratteri dello sviluppo economico moderno a livello mondiale.

Giova poi anche solo rammentare l’importanza delle riflessioni presentate nell’ambito delle Settimane sociali, pure con riferimento agli incontri preliminari che molto spesso hanno coinvolto i temi del rapporto tra etica ed economia, specie nella circostanza della 44^ Settimana di Bologna del 2004 (La democrazia: nuovi scenari, nuovi poteri), della 45^ di Pistoia-Pisa del 2007 (Il bene comune: un impegno che viene dal lontano), della 46^ di Reggio Calabria del 2010 (Cattolici nell’Italia di oggi: un’agenda di speranza per il futuro del Paese), e della più recente svoltasi a Torino nel 2013 (Famiglia, speranza e futuro per la società italiana).

Di più, si è avuto modo di constatare ultimamente l’ulteriore moltiplicarsi degli interessi in Italia per l’argomento generale della relazione etica-economia sia per quanto concerne la divulgazione che per quanto riguarda la ricerca scientifica, con singolare attinenza alla riproposizione aggiornata e recente dell’economia civile.

Nel primo caso è doveroso ricordare la fitta serie di iniziative culturali promosse non solo in sede centrale, ma soprattutto sul territorio nazionale, dalle Acli, dal Mcl, dal Servizio nazionale per il Progetto culturale, dall’Università Cattolica del sacro Cuore ma anche da diverse università pontificie, statali e libere, da gruppi culturali come quello denominato “Cultura, etica e finanza”, ed altri ancora. D’altro canto insegnamenti esplicitamente riferiti alle questioni etiche in economia si stanno moltiplicando negli atenei italiani, come pure sono sorte alcune riviste specialistiche sull’argomento. Spiccano in tale direzione il contributo offerto dal ciclo di Seminari “Per un nuovo modello di sviluppo”, promosso dall’Università cattolica a Palermo, Napoli, Verona e Ancona nel corso del 2010, come pure gli esiti dell’XI Forum del Progetto culturale titolato “Processi di mondializzazione, opportunità per i cattolici italiani” (Roma, 30 novembre – 1 dicembre 2013) nell’ambito del quale la globalizzazione economica e sociale viene nitidamente individuata come sfida di natura anzitutto etica.

Certo è che, indubbiamente, a crescere è stato anche l’eclettismo degli approcci al tema generale, in presenza di declinazioni che affrontano l’argomento sotto i profili indicati in esordio, ma altresì riferendosi a quelli eco-ambientalistico, sanitario, giuslavoristico, politologico, della responsabilità sociale d’impresa, biblico.

Nel secondo ambito una feconda letteratura, che ha visto impegnati studiosi tra i quali mette conto segnalare almeno Stefano Zamagni e Luigino Bruni, ha rimarcato l’importanza dell’approccio cosiddetto dell’economia civile, ovvero della prospettiva di comprensione dell’economia come compendio di efficienza, equità e fraternità, alla ricerca del consolidamento di un ordine economico efficace, efficiente e rispettoso della dignità umana. Radicata nel pensiero economico dell’umanesimo cristiano, la visione dell’economia civile ritiene che i principi diversi dal profitto (solidarismo, gratuità, dono, reciprocità, relazionalità) possono trovare posto proprio dentro l’attività economica e il mercato, riuscendosi in questo senso a valorizzare quell’insieme di attività che va sotto il nome di non profit e terzo settore. L’orientamento è dunque quello volto alla promozione di istituzioni di welfare civile e di nuove forme d’impresa.

In questa medesima direzione spinge con energia anche la sopra citata enciclica sociale di papa Benedetto Caritas in veritate, che ha fortemente richiamato l’attenzione dei cattolici anche italiani sui temi del rapporto tra economia ed etica, con peculiare riferimento alle questioni dello sviluppo umano integrale contemporaneo, affermando tra l’altro che “la sfera economica non è né eticamente neutrale né di sua natura disumana e antisociale. Essa appartiene all’attività dell’uomo e, proprio perché umana, deve essere strutturata e istituzionalizzata eticamente” (n.35). D’altro canto, come ha recentemente affermato papa Francesco, la stessa opera di evangelizzazione correttamente intesa deve fare i conti con una sua propria, complessa e poliedrica, “dimensione sociale” (Esortazione apostolica Evengelii gaudium, capitolo quarto). Per cui, adottando conclusivamente le espressioni del filosofo Hernst-Wolfgang Bockenforde, “al posto di un invadente individualismo proprietario, che assume come punto di partenza e principio strutturante l’interesse acquisitivo dei singoli potenzialmente illimitato, dichiarato diritto naturale non sottoposto ad alcun orientamento sostanziale, devono subentrare un ordinamento normativo e una strategia d’azione che prende le mosse dall’idea che i beni della terra – ovvero la natura e l’ambiente, i prodotti del suolo, l’acqua e le materie prime – non spettano ai primi che se ne impossessano e li sfruttano, ma sono riservati a tutti gli uomini, per soddisfare i loro bisogni vitali e ottenere il benessere”. È questa un’idea-guida fondamentalmente diversa da quella che orienta l’attuale modello di capitalismo, diversa perché centrata sul principio etico della solidarietà tra gli uomini nel loro vivere insieme.

Fonti e Bibl. essenziale

E.W. Bockenforde – G.Bazoli, Chiesa e capitalismo, Morcelliana, Brescia 2010; B. Clavero, Antidora. Antropologìa catòlica de la economia moderna, Giuffrè, Milano 1991; Compendio della dottrina sociale della Chiesa, Libreria editrice vaticana, Città del Vaticano 2004; Dizionario di dottrina sociale della Chiesa. Scienze sociali e magistero, Vita e pensiero, Milano 2004; M. Magatti, Libertà immaginaria. Le illusioni del capitalismo tecno-nichilista, Feltrinelli, Milano 2009; G. Manzone, Il mercato. Teorie economiche e dottrina sociale della Chiesa, Queriniana, Brescia 2001; M. Novak, L’etica cattolica e lo spirito del capitalismo, Edizioni di comunità, Milano 1999; P. Pecorari, Alle origini dell’anticapitalismo cattolico. Due saggi e un bilancio storiografico su Giuseppe Toniolo, Vita e pensiero, Milano 2010; A.M. Petroni (ed.), Etica cattolica e società di mercato, Marsilio, Venezia 1997; G. Scanagatta, Sviluppo e bene comune: per un’economia non separata dall’etica e per un’etica fondata sull’inviolabile dignità dell’uomo, Libreria editrice vaticana, Città del Vaticano 2012; A. Sen, Etica ed economia, Laterza, Roma-Bari 1988; Servizio nazionale per il progetto culturale della Cei – Ufficio nazionale per i problemi sociali e il lavoro della Cei, Custodire il creato. Teologia, etica e pastorale, EDB, Bologna 2013; Servizio nazionale per il progetto culturale della Cei, Processi di mondializzazione. Opportunità per i cattolici italiani, EDB, Bologna 2013; A. Spampinato, L’economia senza etica è diseconomia. L’etica dell’economia nel pensiero di don Luigi Sturzo, Il sole 24 ore, Milano 2005; F. Totaro – B. Giovanola (ed.), Etica ed economia: il rapporto possibile, Edizioni Messaggero, Padova 2008; S. Zamagni, Economia ed etica. La crisi e la sfida dell’economia civile, La Scuola, Brescia 2009; S. Zamagni, L. Bruni, Economia civile. efficienza, equità, felicità pubblica, Il Mulino, Bologna 2004.


LEMMARIO




Europa - vol. I


Autore: Elena Valeri

L’Europa è un territorio che comprende numerosi Stati, caratterizzati da regimi politici, assetti   economici e sociali, lingue, confessioni religiose, tradizioni e costumi diversi tra loro. Accanto a tale varietà, però, l’Europa presenta anche una pronunciata omogeneità culturale e civile che è maturata attraverso prove plurisecolari e che accomuna le differenti popolazioni stanziate in quelle regioni.

Se di una “coscienza europea” si può parlare a partire dall’età moderna, l’idea che l’Europa fosse una unità geografica e storica affonda le sue radici nel pensiero greco, e non solo perché la denominazione del continente discende da un personaggio della mitologia ellenica. Le opere di Erodoto, Isocrate, Aristotele rappresentano una fase di elaborazione fondamentale di alcuni dei concetti e dei valori destinati a rimanere più a lungo connessi con questa idea. Nella contrapposizione che segnò la storia dei rapporti tra le poleis greche e l’impero persiano, e successivamente nell’età di Alessandro Magno, si andò affermando il senso di uno scontro dai connotati politico-culturali, oltre che militari, nonostante la Grecia avesse un’estensione territoriale a cavallo tra l’Europa, che presso i geografi greci aveva limiti mutevoli e non chiaramente definiti, e l’Asia, paese del sol levante. Al modello greco delle città-stato si oppone quello dei regimi dispotici asiatici, i cui sudditi vengono rappresentati come moralmente deboli, destinati a soccombere dinanzi alla forza d’urto degli impetuosi eserciti ellenici. Il mondo romano eredita sostanzialmente questa visione di un’opposizione tra Occidente e Oriente, le leggi contro l’arbitrio, la civiltà contro il disordine, nonostante in età ellenistica le ragioni di tale antitesi si fossero attenuate e avesse finito per prevalere una concezione ecumenica. Quando Roma assume chiaramente il ruolo di centro politico, evidenziando una nuova distanza con l’Asia, l’idea d’Europa, che nella cultura latina ha per lo più un significato geografico o amministrativo (si pensi alla provincia d’Europa in Tracia), recupera appieno la pregnanza simbolica che aveva per i greci in età prellenistica arricchita di quella che l’Occidente aveva presso i Romani.

Tra il IV e il V secolo d.C. Agostino d’Ippona delinea una ripartizione occidentale e orientale del globo: «Si in duas partes orbem dividas, Orienti et Occidentis, Asia erit una, in altera vero Europa et Africa» (De civitate Dei, XVI, 17). Tuttavia, l’Occidente non appare solo come una regione del mondo, ma un luogo di civiltà in un’ottica di contrapposizione tra i barbari e quanti non lo sono, cioè i romani. Prima di cadere sotto i colpi delle invasioni dei popoli germanici, gli abitanti dell’impero romano erano stati in gran parte convertiti al cristianesimo. Dinanzi alla frammentazione politica dell’impero, la Chiesa si presenta come la sola istituzione unitaria per i popoli che vivono in Europa. Sebbene Carlo Magno, rex pater Europae, avesse tentato l’impresa di ricostituire l’impero romano difendendo l’unità religiosa dell’Europa anche contro l’espansionismo islamico a nord dei Pirenei, è il papato medievale a offrire alla cristianità l’unità religiosa e culturale venuta meno sul piano politico. Quando, nell’XI secolo, in seguito al Grande Scisma, si spezza l’unità religiosa tra Oriente e Occidente, i limiti geografici della christianitas assumono i contorni di un’area sostanzialmente europea – quella che per Dante Alighieri accoglie l’humanum genus – le cui strade sono rischiarate dalla luce di due soli, i poteri supremi, l’uno temporale, l’impero, e l’altro spirituale, il papato. Alcuni significativi riferimenti all’Europa nell’opera dantesca definiscono, in maniera non sempre coincidente, un ambito geografico – da Costantinopoli, «lo stremo d’Europa» (Paradiso, VI, 5) alle colonne d’Ercole, dalle plaghe nordiche al Mediterraneo – e uno storico-culturale, al cui centro è situata l’Italia.

Sulla scorta dell’identificazione tra Europa e christianitas che si afferma dal XIII secolo, è significativo che, alle origini della prima formulazione in senso moderno dell’idea d’Europa, si trovi un ecclesiastico, Enea Silvio Piccolomini, divenuto papa nel 1458 col nome di Pio II. La sua partecipazione al concilio di Basilea (1431-1449) e i numerosi viaggi come legato – in Boemia, Scozia, Borgogna – gli consentono di raccogliere una messe di notizie e di materiali che successivamente confluiscono in alcune opere storico-geografiche tra cui il De Europa stampato più volte nel corso del XVI secolo, a partire dal 1501. Nelle opere di Piccolomini, che fu anche un insigne umanista, l’appartenenza geografica all’Europa, lacerata nel 1453 dalla conquista turca di Costantinopoli, indica anche una relazione storico-culturale basata sulla contrapposizione con gli “altri” – i persiani, i barbari, gli infedeli – e rafforzata dall’idea della crociata di tutto l’Occidente contro la minaccia musulmana. Una coincidenza, quella tra Europa e Respublica christiana, avvalorata anche da molti umanisti del XVI secolo che, dinanzi al susseguirsi delle lotte intestine nel continente, invocano il principio cristiano della pace: da Erasmo da Rotterdam (Querela pacis, Institutio principis christiani, De bello Turcis inferendo) a Juan Luis Vives (De Europae statu ac tumultibus, sotto forma di lettera al papa Adriano VI nel 1522 e De Europae dissidiis et de bello turcico del 1526), ad Andrés Laguna (Europa heautontimorumene, 1543).

La riflessione di Niccolò Machiavelli (Principe, IV) individua nel tipo di reggimento politico un ulteriore discrimine dell’Europa che, «piena di repubbliche e di principati» (Arte della guerra, II) si distingue anche per questo dai regimi dispotici orientali. La caratterizzazione politica, introdotta da Machiavelli, è destinata a rimanere un punto fermo nella storia dell’idea d’Europa nei secoli successivi. Parallelamente a una maggiore messa a punto cartografica – basti pensare all’impresa di Gerardo Mercatore (1554) – e all’affermazione, in seguito alla scoperta dell’America, di una nuova contrapposizione culturale, si assiste alla stesura e in molti casi alla pubblicazione delle prime storie d’Europa: la Istoria d’Europa (1566) di Pier Francesco Giambullari; la Ex universa historia rerum Europae (1571) di Uberto Foglietta. Alla fine del XVI secolo, nelle Relazioni universali di Giovanni Botero (1596, prima edizione completa) l’Europa appare chiaramente come uno spazio geopolitico e non soltanto come una sommatoria di Stati: «Questo si può ben dire hoggi dell’Europa cioè ch’ella sia piena, e quasi pregna di Dominij, e di Regni […] ella si è divisa in molti principati con tal contrapeso di forza, che non vi è potenza, che se non ha signoria fuor di Europa avanzi immoderatamente l’altre parte» (Delle Relazioni Universali, Venezia 1618, parte seconda, libro I, p. 1).

Queste due idee d’Europa, l’una, già presente nei testi di Enea Silvio Piccolomini, che valorizza gli elementi religiosi e culturali comuni (anche in un confronto continuo con l’Asia), e l’altra di un’Europa come corpo politico, sono destinate a protrarsi sino al Settecento, allorquando, nelle opere dei pensatori illuministi, l’Europa si afferma sempre più come entità civile e morale, distaccandosi dalla concezione della Respublica christiana e dei suoi fondamenti religiosi. Al XVIII secolo risale la prima formulazione di una federazione europea, il Projet de traité pour rendre la paix perpetuelle en Europe dato alle stampe dall’abate Charles de Saint-Pierre tra il 1712 e il 1717, ripreso da Rousseau nel 1758 e successivamente da Kant (Per la pace perpetua, 1795). Tra il 1828 e il 1830 François Guizot (Histoire de la civilisation en Europe) ripercorre nel dettaglio la storia della civiltà europea, già messa a punto nel secolo precedente, individuando gli apporti dei diversi popoli, ma sottolineando il contributo della Francia che ne avrebbe rappresentato l’espressione più alta. Successivamente il Romanticismo recupera l’ideale della cristianità (Novalis), suffragando la tesi che la civiltà europea affondi le sue radici nell’età medievale. Nel XIX secolo una visione dell’Europa come corpo politico nel suo insieme, fondato sull’equilibrio tra gli Stati (Metternich), si confronta e si scontra con la crescente aspirazione a una connessione molto stretta tra patria, nazione ed Europa (Mazzini), nonostante il dilagare dei moti nazionalistici. Dopo una lunga fase di guerre e dopo due conflitti mondiali scatenati dalle politiche imperialiste nasce il Movimento federalista europeo presieduto, tra gli altri, dal politico italiano Alcide de Gasperi. Si torna a discutere dell’idea d’Europa (basti pensare al contributo di Ernesto Rossi e di Altiero Spinelli) che, insieme con nuovi tentativi di formare una federazione politica europea, sopravvive alla fine della guerra fredda e della divisione del mondo in due blocchi contrapposti, e torna, dopo il 1989, a essere oggetto di riflessione e di ripensamenti, «un’avventura millenaria e insieme inconclusa», come ebbe a scrivere proprio in quell’anno lo storico Fernand Braudel.

Fonti e Bibl. essenziale

Bloch, Problèmes d’Europe, in «Annales. Histoire economique et sociale», 7 (1935), 471-479; F. Braudel (a cura di), Europa: Bausteine seiner Geschichte, Frankfurt am Main, 1989, 12; F. Chabod, Storia dell’idea d’Europa, Bari, Laterza, 1961 (I ed.); C. Curcio, Europa. Storia di un’idea, Firenze, Vallecchi, 1958; J.-B. Duroselle, L’idée d’Europe dans l’Histoire, Paris. 1965; L’Europa delle carte: dal XV al XIX secolo, autoritratti di un Continente, a cura di M. Milanesi, Milano, Mazzotta, 1990; Europa sacra: raccolte agiografiche e identità politiche in Europa tra Medioevo ed Età moderna, a cura di S. Boesch Gajano e R. Michetti, Roma, Carocci, 2002; L. Febvre, L’Europa. Storia di una civiltà, Roma, Donzelli, 1999; G. Galasso, Alle origini delle “storie d’Europa”. L’Istoria del Giambullari, in Le radici storiche dell’Europa. L’età moderna, a cura di M.A. Visceglia, Roma, Viella, 2009, 161-186; J. Hale, La civiltà del Rinascimento in Europa (1450-1620), Milano, Mondadori, 1994; M. af Malmborg, B. Strath (ed.), The meaning of Europe. Variety and Contention within and among Nations, Berg, Oxford-New-York, 2002; H. Mikkeli, Europa. Storia di un’idea e di un’identità, Bologna, il Mulino, 2002; A. Momigliano, L’Europa come concetto politico presso Isocrate e gli Isocratei, in «Rivista di filologia e di istruzione classica», n.s. XI, 1933, 477-487; ristampato in Id., Terzo contributo alla storia degli studi classici, Roma, Edizioni di storia e letteratura, 1966, 489-497; C. Morandi, L’idea dell’unità politica d’Europa nel XIX e XX secolo, Milano, Marzorati, 1948; R. Morghen, L’idea di Europa, Torino, ERI, 1960; E. Morin, Pensare l’Europa, Milano, Feltrinelli, 1990 (Paris, 1987); A. Pagden, The Idea of Europe. From Antiquity to the European Union, Cambridge, Cambridge University Press, 2002; R. Romeo, Le scoperte americane nella coscienza italiana del Cinquecento, Roma-Bari, Laterza, 1989; M. Verga, Storie d’Europa. Secoli XVIII-XXI, Roma, Carocci, 2004; L. Wolff, Inventing Eastern Europe: The Map of Civilization on the Mind of the Enlightenment, Stanford University Press, 1994.


LEMMARIO




Europa - vol. II


Autore: Francesco Bonini

Ricevendo i partecipanti al secondo congresso dell’Unione Europea Federale a Castelgandolfo l’11 novembre 1948, Pio XII ha parole inequivocabili. Ricordando «gli sforzi che, da dieci anni in qua, Noi moltiplichiamo senza riposo in favore di una Unione europea», affermava: «Non c’è tempo da perdere. E se si vuole che questa Unione raggiunga il suo scopo, se si vuole che essa serva utilmente la causa della libertà e della concordia europea, la causa della pace economica e politica intercontinentale, è ormai tempo che si faccia. Anzi alcuni si domandano se non sia già troppo tardi». L’europeismo dei cattolici italiani si stava rapidamente sviluppando, in quell’arco di contiguità tra azione cattolica e democrazia cristiana che aveva caratterizzato tutto il passaggio costituente.

«Pur senza voler inserire la Chiesa nel groviglio d’interessi puramente terreni», come aveva detto in un altro pronunciamento, il 2 giugno, l’indicazione resterà univoca per i suoi successori nei decenni successivi, come per il vario mondo cattolico italiano.

In effetti solo nel secondo dopoguerra l’Europa diventa soggetto, da scenario ove si muovono gli Stati. In questo quadro si era collocato Benedetto XV, nella sua famosa allocuzione Dès le début del 1° agosto 1917, quando si era chiesto se «l’Europa, così gloriosa e fiorente, correrà, quasi travolta da una follia universale, all’abisso, incontro ad un vero e proprio suicidio». Non aveva mancato di ricordare la radice cristiana dell’Europa, che rappresenterà poi il filo rosso del magistero nella seconda metà del secolo: «Sappiamo dalla storia che, da quando la Chiesa pervase del suo spirito le antiche e barbariche genti d’Europa, cessarono un po’ alla volta le varie e profonde contese che le dividevano, e federandosi col tempo in una unica società omogenea, diedero origine all’Europa cristiana, la quale, sotto la guida e l’auspicio della Chiesa, mentre conservò a ciascuna nazione la propria caratteristica, culminò in una unità, fautrice di prosperità e di grandezza». Sarà questa la prospettiva su cui si muoverà il Partito Popolare e successivamente, con maggiore e lungimirante convinzione, Luigi Sturzo, che, negli anni dell’esilio, contribuirà a sviluppare le prime linee di una solidarietà internazionale democratico-cristiana, assecondando le prime idee federaliste, secondo uno schema che giocherà un ruolo di riferimento molto importante nel secondo dopoguerra.

Emergono qui due temi, quello della riunificazione dell’Europa e delle sue radici cristiane, che scandiscono gli anni del secondo dopoguerra, orientano il mondo associativo, cominciano a socializzare una classe dirigente e nello stesso tempo permettono di superare quelle posizioni neutraliste e terza forziste che si erano manifestate anche nel mondo cattolico a proposito dell’adesione all’Alleanza Atlantica.

Ricevendo il Collège d’Europe di Bruges il 15 marzo 1953 e poi nel radiomessaggio natalizio di quell’anno Pio XII sottolineava appunto l’esigenza di fondare l’unità europea, attraverso un ritorno alla vocazione civilizzatrice cristiana, su valori spirituali comuni, che soli avrebbero permesso all’Europa di mantenere la propria indipendenza materiale e l’integrità dei propri ideali. Non si tratta peraltro di posizioni espresse solo agli esponenti europei, ma più volte ripetute, anche negli incontri con il mondo cattolico italiano, a partire dall’Azione cattolica. La comune percezione è appunto quella di una forte iniziativa democratica e cristiana per le istituzioni europee, che si sostanzia nei tre protagonisti cattolici Schumann, Adenauer e De Gasperi. Contemporaneamente la dimensione europea è concretamente rappresentata dalla ripresa dell’emigrazione italiana, in particolare in Belgio e Germania, che comporta anche una significativa presenza della Chiesa e delle associazioni, in particolare per la tutela dei lavoratori. Nel 1965 le competenze sull’assistenza ai migranti, con le missioni italiane, viene trasferita dalla S. Sede all’appena costituita Conferenza episcopale italiana.

In stretta connessione con l’indirizzo pontificio, l’apertura europea insomma rappresenta un dato strutturale nella Chiesa italiana, puntualmente interpretato anche dalla Democrazia cristiana. I cattolici insomma condividono, forse con una maggiore consapevolezza culturale diffusa, quell’europeismo che, stemperatasi la guerra fredda e avviato il cosiddetto eurocomunismo, caratterizzerà in modo praticamente unanimistico, anche se piuttosto superficiale, l’opinione pubblica italiana.

D’altra parte la piena condivisione del processo di sviluppo delle istituzioni e dello spirito comunitario non preclude l’attenzione anche alla cosiddetta “chiesa del silenzio”, al di là della Cortina di ferro, che si sostanzia in molteplici rivoli di aiuti e di contatti, che continuano specialmente con la Polonia e coinvolgono moltissime parrocchie, associazioni e movimenti.

In realtà il riferimento all’Europa non è solo legato agli aspetti politico-istituzionali ed ideali della prospettiva comunitaria. Implica il rapporto dell’Italia – e dunque della chiesa italiana – con i Paesi che si trovano più “avanzati” nei processi di secolarizzazione e di modernizzazione, tra cui, nell’ambito comunitario, in particolare Francia ed Olanda. Questo tema emerge con particolare evidenza negli anni del Concilio e della sua attuazione. In questo senso spicca il ruolo della cultura francese, nella critica e la destrutturazione della cosiddetta “cristianità”. La cultura cattolica italiana sembra da questo punto di vista scontare una certa “minorità”. Anche la partecipazione italiana ai due strumenti di coordinamento episcopale, il Consiglio delle Conferenze Episcopali Europee (CCEE), istituito nel 1971sull’esempio della Conferenza Latino-americana e riorganizzato nel 1992 e la Commissione degli Episcopati delle Comunità Europee (Com.E.C.E), creata nel 1980, dopo la prima elezione a suffragio universale del parlamento europeo, per seguire le politiche comunitarie, da principio è stata piuttosto periferica, sviluppandosi in tutte le sue potenzialità soltanto a partire dagli anni Novanta.

Nel corso degli anni settanta peraltro i processi di secolarizzazione in diversi paesi dell’Europa occidentale giungono alle conseguenze più visibili ed emergono contemporaneamente gli elementi di una certa “diversità” del percorso italiano, caratterizzato da due elementi in particolare, il radicamento popolare della religiosità e il legame con il Papa.

Sono due elementi che, anche in prospettiva europea, paradossalmente prendono vigore, e di cui la stessa chiesa italiana assume più matura consapevolezza nel corso degli anni Ottanta, con l’elezione di Giovanni Paolo II, il cui avvento è salutato con grande partecipazione. Il Papa non italiano, ma europeo, anche se di una Europa allargata, ma chiusa, introduce due elementi di sviluppo dell’idea e degli orizzonti europei, da un lato l’idea dei “due polmoni” di un’Europa che intende oltre la cortina di ferro, dall’altro l’appello alla responsabilità della chiesa italiana nei confronti delle altre chiese europee, sia quelle di cristianità in crisi, sia quelle del’Europa centro-orientale ritornate in regime di libertà.

Sollecita insomma a ribaltare un atteggiamento culturale del cattolicesimo italiano nei confronti di quelli transalpini.

Ripristinate le Settimane sociali, sospese nel 1970, la CEI decide di dedicare la prima convocazione, che si tiene a Roma nell’aprile 1991, al tema I cattolici italiani e la nuova giovinezza dell’Europa. L’iniziativa peraltro precede di pochi mesi l’Assemblea speciale per l’Europa del Sinodo dei Vescovi. Alla luce della caduta della cortina di ferro in quell’occasione viene riaffermata una ottimistica lettura del processo di integrazione politica, alla luce delle ribadite radici cristiane, che sono al centro del dinamismo dei viaggi in Europa del Papa, in particolare quello a Santiago di Compostela del 9 novembre 1982, che rappresenta una solenne dichiarazione di nuova prospettiva europea, seguito dalle celebrazioni della Giornata mondiale della Gioventù, che comporteranno una concreta esperienza giovanile di percorsi europei. Il consenso sulle tematiche europee, che si accentua anche nella chiesa italiana dopo la caduta del comunismo, rilancia anche le prospettive ecumeniche, che l’orizzonte europeo ha sempre evocato e ormai si aprono concretamente anche all’ortodossia. Nella prospettiva della “riunificazione” dell’Europa costante è l’appoggio alle proposte di allargamento dell’Unione.

Nuove sollecitazioni vengono poste anche dall’avvio delle migrazioni verso l’Italia provenienti dall’ex – Europa comunista, dalla Polonia alla Romania all’Ucraina, che comportano l’intensificarsi di rapporti con la chiesa ortodossa, per l’assistenza degli immigrati.

Alla fine dell’ultimo decennio del XX secolo il ragionamento si fa più articolato. Anche il Progetto culturale, avviato dalla CEI nel 1997, mette immediatamente a tema l’Europa, cui dedica il secondo forum, il primo tematico. Come traspare dal titolo: L’Europa sfida e problema per i cattolici, si avverte la consapevolezza che la caduta della cortina di ferro implica il protagonismo e una ri-articolazione dell’Europa, che aveva trovato nell’indicazione della “nuova evangelizzazione”, la sua declinazione pastorale. Viene infatti notata una certa “bivalenza” dei processi di integrazione e la necessità di sviluppare un dialogo interculturale non eurocentrico, ma nemmeno agnostico o relativistico rispetto agli elementi di identità: in questo senso maggiore attenzione viene posta ai fenomeni di secolarizzazione, in particolare per quanto riguarda la famiglia.

L’ultima fase del pontificato di Giovanni Paolo II si intreccia con i lavori di una Convenzione per la redazione di quella che viene impropriamente ma suggestivamente indicata come una “costituzione europea”. Il sostanziale consenso che accompagna questo processo non impedisce alla Chiesa italiana, seguendo la precisa indicazione del Papa, di porre il problema dell’identità. In un duplice senso, quello dell’affermazione della radice cristiana dell’Europa, e del riconoscimento della soggettività istituzionale delle Chiese. Viene sottolineata anche la necessità della tutela delle identità (cristiane) dei differenti popoli, in particolare in relazione alle questioni legate alla vita ed alla famiglia.

L’Europa in ogni caso, rileva il successore di Giovanni Paolo II, anch’egli non italiano, diventa un terreno di ri-evangelizzazione, ma anche di sviluppo di un’idea di “laicità aperta”. In un discorso alla CoMeCe per il 50° dei trattati di Roma, il 24 marzo 2007 Benedetto XVI rileva che «l’Europa sembra incamminata su una via che potrebbe portarla al congedo dalla storia», ove il dato demografico diventa emblematico di un rischio generale, esortando allora ad una presenza attiva per una nuova Europa, «realistica ma non cinica, ricca d’ideali e libera da ingenue illusioni, ispirata alla perenne e vivificante verità del Vangelo».

Fonti e Bibl. essenziale

D. Preda, Alcide De Gasperi, federalista europeo, Il Mulino, Bologna 2004; P. Conte, I Papi e l’Europa, Elledici, Torino 1976; M. Spezzibottiani (ed.), Giovanni Paolo II profezia per l’Europa, Piemme, Casale Monferrato 1999; L. De Gregorio (ed.), Le confessioni religiose nel diritto dell’Unione Europea, Il Mulino, Bologna 2012.


LEMMARIO