Associazione Italiana dei Professori di Storia della Chiesa

Dizionario Storico Tematico La Chiesa in Italia
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Evangelizzazione - vol. I


Autore: Gianni Colzani

La storia dell’evangelizzazione dell’Italia è la storia della trasmissione della fede cristiana, cioè del suo arrivo in questo paese e della sua trasmissione secondo forme adatte a interpretare la vita ed a dialogare con i problemi ed i cammini storici di questo paese. La prima cosa da dire è che il cristianesimo non è nato in Italia ma in Palestina: i primi cristiani erano ebrei e appartenevano ad un popolo che conosceva bene le scritture, seguiva le norme della legge mosaica ed attendeva un Messia che avrebbe ricostituito il regno di Israele. Questa loro origine porta in primo piano una prospettiva culturale e delle priorità che modellavano inevitabilmente le loro domande, anche a proposito della religione e della salvezza.

Il superamento del cristianesimo giudaico è il primo passo dell’evangelizzazione. Anche se Mt 28,18-20 e Mc 16,15 presentano teologicamente il fatto legandolo ad un comando del Risorto, storicamente non avvenne così: avvenne sulla base della persecuzione del gruppo di Stefano: At 11,19-21. Nonostante il dibattito e l’approvazione che At 15 fa risalire alla Chiesa di Gerusalemme, si trattò di una scelta non priva di contrasti e rappresenta un passaggio decisivo. La decisione che non è necessario diventare giudei per essere cristiani rappresenta quello che A. Walls indicherà come indigenizing principle: si tratta di fare di ogni chiesa un luogo dove le persone si sentano a casa loro. Lo stesso Walls integra questo criterio con un pilgrim principle. Per quanto vissuta in una cultura particolare, il vangelo associa i credenti ad una prospettiva universale che va oltre ogni tipo di barriera: come Dio si è chinato su di loro scegliendoli gratuitamente, così essi devono aprire mente e cuore a tutte le persone. Come dirà Paolo in 2Cor 5,17, il cristianesimo delinea una nuova figura di persona: la comunione con Cristo rende “creature nuove”. Su questo sfondo possiamo affrontare l’arrivo del cristianesimo in Italia.

Ingresso e diffusione del cristianesimo in Italia. Non sappiamo bene come e quando il cristianesimo sia entrato in Italia. Probabilmente è avvenuto sulla base dei rapporti che il mondo giudaico manteneva con Roma: erano rapporti mercantili e culturali ma anche religiosi. Basta pensare ai pellegrini ed al rientro di ebrei della diaspora; in effetti, a Gerusalemme esistevano sinagoghe per loro. Un ruolo particolare devono poi aver avuto le persecuzioni che avevano sparpagliato prima il gruppo di Stefano (At 8,1-4) e colpito poi quello giudeo-cristiano (At 12,1-2); quelle persecuzioni possono aver convinto dei credenti a riprendere la strada di casa, diventando così principio di nuove comunità.

Di fatto le scritture ricordano la presenza al discorso tenuto da Pietro a Pentecoste (At 2,10) di stranieri provenienti da Roma e fanno presente che in quella città, prima ancora che Paolo potesse arrivarvi, vivevano un gruppo di persone a lui ben note per il loro impegno apostolico (Rm 16, 1-15). È presumibile che questi primi credenti fossero nella loro maggioranza di origine ebraica; almeno per il primo secolo d. Ch. È difficile pensare il contrario. Il testo di At 28,12-16, che narra il viaggio di Paolo da Malta verso Roma dopo il naufragio, ricorda una sosta a Siracusa e a Reggio, dove la presenza di comunità cristiane è sostenuta da tradizioni locali e da dati archeologici; ricorda anche due comunità non paoline che, a Pozzuoli ed a Roma, vanno incontro a Paolo.

Nonostante queste indicazioni, nel primo secolo non abbiamo notizie confermate su una presenza di comunità cristiane al di fuori di Roma per quanto sia probabile che ve ne fossero vicino a Roma, in Campania e in Sicilia; le uniche conferme – soggette però a diversità di interpretazioni – riguardano l’archeologia che sembra indicare la presenza di simboli cristiani a Pompei ed Ercolano, le due città distrutte dal Vesuvio.

Per il primo secolo, le notizie non abbondano nemmeno su Roma. Autori che avrebbero dovuto esserne bene informati – come Clemente Romano, Ignazio di Antiochia e Papia – non hanno notizie precise sull’origine di quella comunità. Solo sommando la notizia di Svetonio (De Vita Caesarum 25), secondo il quale Claudio nel 49 d. Ch. cacciò da Roma i giudei che tumultuavano impulsore Chresto, con quella dell’Ambrosiastro (Commentaria in Epistolam ad Romanos, Prol 2-3) secondo il quale Paolo loda la fede dei romani perché credono senza aver visto «né segni, né miracoli né alcuno degli apostoli», si può ritenere che l’origine della Chiesa di Roma sia dovuta a viaggiatori o mercanti giunti a Roma da Gerusalemme e appartenenti al mondo giudeo-cristiano. Tacito e Svetonio concordano poi nel riportare il martirio dei cristiani quando, nel 64, furono falsamente accusati dell’incendio di Roma.

Notizie più precise risalgono al secondo secolo e riguardano Roma, Ravenna e l’Italia meridionale; sul finire del secolo anche la Lombardia e il Veneto conobbero il vangelo e videro il costituirsi delle prime comunità. In pratica, l’evangelizzazione dell’Italia si svolse nei primi due secoli e, con il terzo, doveva aver già raggiunto una buona diffusione se, nel 313, Costantino pubblicava a Milano quell’editto di tolleranza che mirava ad evitare che l’impero fosse disgregato dalle tensioni tra i culti tradizionali e la nuova fede cristiana.

È di certo utile interrogarsi sulle modalità di questa prima cristianizzazione. Molti temi sono noti: tra questi vi sono le persecuzioni e i martiri, le eresie e il primo organizzarsi del papato, la struttura del catecumenato e le prime articolazioni delle comunità; meno conosciuta è la problematica dell’incontro culturale tra il mondo romano-ellenistico e la fede cristiana. A. D. Nock ha riportato il successo della fede cristiana alla corrispondenza tra la sensibilità culturale del tempo e le caratteristiche della nuova religione. Secondo Nock, quel mondo era un mundus senescens, un mondo in attesa di qualcosa e in cerca di risposte all’altezza dei tempi che né le divinità dell’Olimpo né la religione civile dell’impero erano in grado di offrire. Il discorso di Paolo all’Areopago di Atene (At 17,22-31), con la sua valorizzazione della ricerca umana e la presentazione di un “Dio ignoto”, rappresentava già un programma di evangelizzazione che la Chiesa svilupperà con sapienza pedagogica cristiana come passaggio dal “Dio ignoto” al “Dio di Gesù”. La fede pasquale e il sacramentalismo – inteso come via e come pedagogia – saranno i cardini di una fede che è in grado di offrire risposte ai bisogni identitari e religiosi delle persone.

L’unificazione romana del Mediterraneo rappresentava una possibilità di cammino verso il cuore dell’impero sia per il cristianesimo sia per le altre religioni orientali ma queste, una volta tolte dal loro contesto originario, avrebbero mostrato molti limiti e perso la loro incisività. Di fatto, mentre la curiosità intellettuale e l’impostazione metafisica avevano guidato il mondo greco ad una ricerca sul significato dell’universo, l’imporsi di un potere imperiale porta i circoli intellettuali a rinchiudersi al proprio interno in una personale ricerca di verità e in una esperienza di rettitudine. Come splendidamente ha scritto Agostino in Soliloquia I,2,7, il cristianesimo offrirà a questa ricerca la conoscenza e la comunione con Dio e individuerà l’anima come l’ambito di quel cammino che introduce alla veritas e alla beatitudo divina.

R.L. Wilken ha integrato questo quadro indicando nell’incontro e nella polemica tra cristiani e tradizionalisti il punto critico dell’incontro di due modelli di religione: quella essenzialmente civica dei romani e quella personale dei cristiani. Indagare il confronto tra questi due modelli di religione – quello romano di tipo sociale-civico e quello cristiano legato alla libertà ed alla dignità personale – permette di approfondire meglio il ruolo sociale giocato dalle due tipologie religiose; la semplice contrapposizione tra apologisti cristiani e intellettuali pagani come Celso o Porfirio non è sufficiente. La religione civica doveva legittimare religiosamente tutti gli aspetti della vita personale e sociale tanto da rappresentare il fondamento dei doveri civici delle persone e la legittimazione della loro convivenza: in questa direzione comprendeva una coscienza della provvidenza divina ed una pietas che sapeva sviluppare una sincera adesione ed una sua forza emotiva; per contro la fede cristiana metteva al centro la dignità personale scaturente dalla comunione con Dio ed il cammino di libertà che la portava a pienezza.

Il confronto tra le due tipologie religiose ha permesso di intrecciare a fondo la componente personale e quella civica evitando così una riduzione privatista della fede. Kwame Bediako coglie in questo nesso tra il modo di porre e sviluppare le questioni teologiche e la autocomprensione che il cristianesimo ne ricava un dato di fondo valido per ogni tempo; nel dibattito tra fede e cultura degli apologisti del II secolo – sia nella forma di continuità propria di Giustino e Clemente Alessandrino, sia in quella di discontinuità più nitida in Taziano e Tertulliano – si esprime in modo diverso una stessa volontà, quella cioè di voler essere ad un tempo fedeli alla propria identità cristiana e partecipi della cultura del proprio tempo. Una simile coscienza è il fondamento dell’incontro tra il cristianesimo e le forze spirituali e religiose dell’epoca.

Le migrazioni dei popoli germanici e la risposta monastica. La fine del periodo romano-ellenistico è marcata da una progressiva separazione linguistica, culturale, politica e religiosa tra Roma e Costantinopoli ma è caratterizzata soprattutto dalle migrazioni dei popoli germanici che determinano una nuova geografia politica e religiosa; prima i Goti di Teodorico poi i Longobardi di Alboino occupano l’Italia riaprendo così il tema dell’evangelizzazione: pur cristiani, erano però ariani. Più tardi, sul finire dell’ottavo secolo e soprattutto nel nono, si avrà una impressionante espansione del mondo arabo-islamico che sottomette tutto il sud del Mediterraneo ed occupa parzialmente la Spagna e la Sicilia; si impone così un nuovo contesto culturale e religioso che chiederà alla Chiesa di rideterminare la sua posizione in ordine a questi cambiamenti. Si tratta di una prospettiva che non riguarda solo l’Italia ma tutta l’Europa occidentale: il rapporto con i popoli germanici sarà il nuovo campo di evangelizzazione.

La conversione di questi popoli al cattolicesimo non era scontata. Erano popoli guerrieri, dediti all’allevamento e con una singolare capacità di lavorazione del ferro; l’arianesimo marcava la loro identità impedendo l’integrazione con un popolo sottomesso che, al contrario, era per lo più agricoltore e senza uguali nell’arte della costruzione. Inoltre la situazione sociale era marcata da migrazioni, latifondismo, corruzione sociale e da una diffusa pratica di violenza che avevano generato un regresso di vita cristiana ed una rinascita di culti pagani. Il soggetto dell’evangelizzazione di questi popoli il monachesimo itinerante, di origine iro-scozzese; ad esso si deve l’evangelizzazione di questi popoli. La loro spiritualità aveva le sue radici in un ascetismo penitenziale che aveva trovato sbocco in una vita austera che era, insieme, coltivazione della terra e coltivazione delle anime. La fama dei monasteri, luoghi di preghiera e di austerità, attirerà molti giovani mentre la pietà liturgica, l’ideale di santità e la concezione ascetico-penitenziale della vita, tipica di quei luoghi, plasmeranno la coscienza di molti credenti.

A caratterizzare questo monachesimo in senso missionario sarà la peregrinatio pro Christo. Mentre i primi eremiti si rifugiavano nel deserto e la regola di Benedetto chiedeva la stabilitas loci, questi monaci praticano la peregrinatio: il senso di questo farsi pellegrini per il regno si fonda sulla volontà di rivivere l’esperienza del distacco e della fede del patriarca Abramo: l’itineranza diventa la ragione di una vita che si pensa come segnata da un anelito e da una tensione alla patria celeste e vive la vita terrena da pellegrini e ospiti in cerca della vera meta della propria esistenza. Tra questi monaci si possono ricordare Agostino di Canterbury (534-604), Colombano (540?-615), Bonifacio (672?-754) e i due santi fratelli Cirillo (826-869) e Metodio (815-885); tra i monasteri spicca indubbiamente Bobbio, fondato nel 614 da Colombano che vi morirà.

Questi monasteri sono centri di evangelizzazione: mirano alla conversione dei capi e del popolo ed opereranno l’integrazione dei due popoli, quello germanico e quello romano conferendo così unità sociale, culturale e religiosa ai nuovi regni. Non mancavano dei limiti: la rinuncia alla stabilitas loci e la mancanza di una regola comune – i monasteri erano allora retti da una trentina di regole diverse – favoriva l’autonomia di ogni monastero ma facilitava pure l’introdursi di diversi abusi nella regolarità della vita monastica. Localismo e individualismo erano i limiti di un monachesimo che non aveva collegamenti precisi né tra i leaders monastici né tra i monasteri; questo spiega la diversità del monachesimo anglosassone – proprio del secolo VIII – ed i cambiamenti che introdurrà: la romanitas e la regola benedettina diverranno strumento di unificazione di questo monachesimo e di questa evangelizzazione. Winfrid di York, più noto con il nome di Bonifacio (+754), sarà così alla base di una riforma monastica in senso anti-irlandese. Il Capitulare Monasticum di Aquisgrana dell’817, ispirato da Benedetto di Aniane, imporrà la regola benedettina a tutti i monasteri franco-germanici.

Il risultato di questa missione monastica, per quanto non organizzata né centralizzata, sarà notevole; mossi dall’amore di Cristo e dalla passione per la diffusione del vangelo, questi monaci perseguiranno la conversione dei capi e la loro opera rappresenterà la base del successivo progetto carolingio di una unificazione culturale e religiosa dell’Europa occidentale. L’interpretazione che, da Agostino in poi, veniva fatta del compelle intrare di Lc 14,2 finirà per legittimare l’uso della forza per ottenere la conversione: la Capitulatio de partibus Saxoniae (772) comminava la pena capitale a chi offendeva la fede cristiana e i suoi sacerdoti. Legata alla politica di repressione della rivolta sassone guidata da Viduchindo, la Capitulatio legittimerà il massacro di Verden (784); per quanto abrogata nel 797 e sostituita dal Capitulare Saxonicum elaborato con la partecipazione dei Sassoni e meno impositivo, resta una pagina triste. L’unificazione carolingia perseguita dall’impero e dal papato porterà ad un problematico nesso tra politica e religione; i popoli germanici erano affidati ai predicatori ed il battesimo diventava, insieme, un segno di fede e di sudditanza e di obbedienza al vincitore.

La sfida del mondo mercantile: testimoniare il vangelo in una vita di povertà. Il periodo che qui interessa è quello che comincia dopo il mille, a partire dal secolo XII. La fine dell’impero carolingio ed, in genere, la scomparsa del feudalesimo e la nascita della civiltà comunale creeranno una nuova condizione sociale: vi è un rifiorire delle città, una forte rinascita dei commerci e l’imporsi di una nuova cultura legata alla coscienza del valore delle persone e della loro partecipazione dopo secoli di sudditanza feudale. Come ha magistralmente indicato M.D. Chenu, vi è una rinascita evangelica ed un diverso equilibrio tra natura e grazia. Ne viene una nuova temperie sociale, spirituale e apostolica che, investendo monaci, canonici e laici, accentua la ricerca di una spiritualità caratterizzata da un ritorno alla Chiesa delle origini ed al suo modello di comunità e di povertà. Questa rinascita si traduce in una esigenza di vita ed in un movimento apostolico che, per i suoi orizzonti di comunione e di povertà, non poteva trovare accoglienza in una vita monastica, austera forse sotto il profilo personale ma vissuta ormai in un quadro di ricchezza e di potenza. Nemmeno il desiderio di fraternità e di comunione era pienamente realizzabile in monasteri caratterizzati dall’obbedienza e dalla disciplina.

Sorgeranno così gruppi con visioni nuove in ricerca di una crescita ed una maturazione umana e cristiana: la Francia del sud e l’Italia del centro-nord saranno il loro ambito di maggiore sviluppo. Lontani dalla gerarchia ma vicini alla gente, questi gruppi avevano il loro riferimento nei vangeli e nella vita della prima comunità cristiana: la predicazione del vangelo, la rinuncia alla proprietà fino a vivere di questua, la continua peregrinazione e la ricerca di comunione e fraternità caratterizzavano questi gruppi che apparivano ed erano portatori di un nuovo progetto di vita cristiana e di riforma ecclesiale. Raramente sostenuti da una adeguata base teologica, la loro vita e i loro comportamenti conobbero momenti di esaltazione spirituale e di esagerazione accompagnati anche da deviazioni dottrinali.

Sotto il profilo dogmatico-concettuale della fede si possono ricordare in proposito diverse condanne: il concilio di Verona (1184), la lettera di Innocenzo III al vescovo di Tarragona (1208) sulla predicazione, la bolla di Bonifacio VIII Saepe sanctam Ecclesiam (1303) che condanna i Fratelli del libero Spirito, la bolla Cum inter nonnullos (1323) di Giovanni XXII che condanna gli spirituali francescani. Se guardiamo invece queste realtà come espressione di esigenze sociali e denuncia della distanza tra il vangelo e la vita della Chiesa, allora i pauperes Christi lasciano intravvedere una profonda esigenza di rinnovamento morale e spirituale. Di fatto patarini, valdesi, arnaldisti, umiliati, circoncisi, adamiti, fratelli apostolici, leonisti, speronisti e altri ancora trovavano una certa diffusione; la loro contestazione della ricchezza della chiesa e dei costumi di vita degli ecclesiastici esigevano una testimonianza di vita evangelica prima che una condanna dottrinale.

La Chiesa riuscirà ad esprimere questa svolta tra il concilio Lateranense III (1179) e l’approvazione degli Statuti comunali di Brescia (1230), ben presto presi a modello di quelli di Padova, Verona, Bologna, Ferrara; lo farà mettendo in campo una vita religiosa esemplare ed un insieme di strumenti giuridici, politici e organizzativi che arrivarono ad isolare i movimenti eretici togliendo loro ogni spazio sociale. L’esempio di Brescia e i moti dell’Alleluia (1233) furono tra le ragioni principali di questa svolta; un peso non piccolo lo ebbe anche l’inquisizione e la condanna giuridica dell’eresia, considerata come un attentato alla “pace di Dio” ed alla convivenza tra gli uomini. Il contributo più grande verrà però dagli ordini mendicanti; con una vita evangelica lontana dal lusso e dalla ricchezza e segnata da fraternità e povertà, saranno la militia Christi che porrà le basi di un nuovo consenso sociale tra la Chiesa e il popolo italiano.

Francesco d’Assisi (1181-1226) e Domenico di Guzman (1170-1221), con i loro frati, saranno i cardini di questa risposta ecclesiale. Entrambi i movimenti iniziano con la volontà di vivere una piena rinuncia ad ogni forma di possesso praticando la questua; tuttavia il loro modo di intendere la povertà resta diverso: mentre per i francescani è il centro di ogni impegno apostolico, per i domenicani è condizione necessaria per una predicazione apostolica. In effetti, all’inizio, il movimento francescano si presenta come itineranza penitenziale ed evangelica ma, ben presto, i “penitenti di Assisi” assumeranno il nome di “frati minori” iniziando quel percorso che porterà questo movimento ad assumere forme ascetiche, liturgiche ma anche giuridiche e pedagogiche più precise. Domenico, invece, pensava ad una società religiosa che, pur abbracciando pienamente la vita apostolica, non si ponesse sotto l’autorità di un vescovo o di un abate, ma sotto la giurisdizione diretta del romano Pontefice; i suoi frati dovevano essere disposti alla predicazione del vangelo e alla difesa della fede dovunque i papa ritenesse di inviarli.

In questa sede interessa notare che l’evangelizzazione dell’Italia è un continuum, un impegno continuamente riproposto sotto l’incalzare di problemi diversi. Ne è prova la differenza nella continuità tra l’evangelizzazione monastica e quella degli Ordini mendicanti: la prima mira alla conversione dei capi e di un popolo trascinato dal loro esempio mentre la seconda riporta in primo piano l’ideale evangelico ed opera per portare a tutti la buona novella. Superando il ripiegamento della cristianità su se stessa, gli ordini mendicanti mostreranno come l’apertura a chi non crede sia basilare per la stessa fede. Nel 1209, Francesco d’Assisi coglie nel testo di Mt 10, 7-12 la sintesi della sua vocazione: predicare il vangelo e la penitenza secondo uno stile evangelico di povertà.

Al centro del suo pensiero, non vi è la penitenza ma il desiderio che Cristo sia conosciuto e amato. Di conseguenza, per tre volte, Francesco cercherà di partire per la missione; come lui anche i suoi frati, dopo l’esperienza negativa del 1217, daranno inizio alla missione già nel 1219. Documenti significativi di questa svolta sarà la regola francescana: il capitolo XVI della Regola non bollata (1221), sostanzialmente ripetuto nel capitolo XI della Regola Bollata (1223), ne sarà la prima testimonianza. Esigendo totale fedeltà alla chiesa e piena sottomissione al papa e alla gerarchia, la Regola scrive: vadano con il permesso del loro ministro… se vedrà che sono idonei. A sua volta, questi sarà garante dell’essere sempre sudditi e soggetti ai piedi della medesima santa chiesa, stabili nella fede cattolica. L’evangelizzazione non sopraggiunge alla vita conventuale come un di più ma ne rappresenta piuttosto la ragion d’essere; vita evangelica e annuncio apostolico appaiono i cardini di un progetto di vita che arriva fino al martirio.

Il risultato di queste prospettive sarà la nascita di un doppio impegno: una missione ad intra ed una ad extra, due forme che dicono la sensibilità per una difesa della fede all’interno e alla proclamazione del vangelo all’esterno. In questo contesto è la prima ad interessarci; appoggiandosi all’agostinismo politico, la prima pensa l’evangelizzazione nel quadro di una società cristiana secondo uno stretto intreccio tra esigenze religiose e motivi politici, avendo di mira la difesa della fede. Due gruppi in particolare venivano al centro di questa attenzione: gli ebrei e gli eretici. La Distinctio 45 caput 3 del Decretum Gratiani annota che «non asperis sed blandis verbis ad fidem sunt aliqui provocandi», una indicazione che si può riassumere in una “non-costrizione” più che in una tolleranza. Per rinforzare questa prospettiva, il Decretum ricorda il can. 56 del IV concilio di Toledo, presieduto nel 633 da Isidoro di Siviglia. Non sempre però queste indicazioni basteranno a garantire il rispetto di questi gruppi.

La posizione degli ebrei è teoreticamente chiara: hanno il diritto di seguire le loro usanze perché la loro eventuale conversione dev’essere libera e non violenta. Le Decretales di Gregorio IX dedicano il libro III, titolo XXXIII alla condizione della minoranza giudea e alle situazioni nuove create dalle crociate, attenendosi alle idee richiamate sopra. Con la sua abituale chiarezza, Tommaso (IIa IIae, q. 10, art. 11) dirà che i riti dei giudei sono tollerabili perché, come figure della fede cristiana, offrono – in una certa misura – una testimonianza a suo favore e perché evitano scandali e mali peggiori che si avrebbero se fossero impediti. L’articolo 9 della medesima quaestio affronterà tanto i loro riti quanto le comunicazioni con loro risolvendo entrambe le questioni allo stesso modo: vanno tollerati per lo scandalo che si avrebbe con la loro soppressione e nella speranza di una loro futura conversione. Occorrerà però evitare ogni familiarità non necessaria. Il tema del matrimonio è qui lo sfondo di regolamentazioni che, in ogni caso, mirano più alla difesa della fede che alla sua espansione. In pratica abbiamo una regolamentazione di una minoranza religiosa che troverà soluzione solo in seguito.

Diversa da quella degli ebrei è la condizione degli eretici. L’intreccio tra difesa della fede e coesione dello stato porterà a sentire l’attacco alla fede come un attacco alla vita dello stato ed a mettere la sua forza al servizio della difesa della chiesa. Ci imbattiamo qui nel nodo dell’Inquisizione e nella giustificazione dell’uso della forza. Va detto che l’Inquisizione medioevale era profondamente diversa da quella rinascimentale e spagnola; grossomodo si può dire che il processo inquisitorio per motivi religiosi non era diverso dalla prassi giuridica dell’epoca e dalle modalità che l’accompagnavano, quando non era meglio. La giustificazione dell’uso della forza si rifà ad Agostino ed al suo commento al compelle intrare di Lc 14,23: la necessità di sfuggire alla dannazione permetteva un qualche uso della forza. Ma, mentre Agostino pensava a delle multe, alla confisca dei beni od all’esilio, la realtà si spinse fino alla mutilazione ed alla pena di morte. La gestione di una società cristiana si rivela qui inadeguata ad affrontare la questione delle minoranze e dei non-cristiani.

La Riforma cattolica e l’impegno per una pastorale apostolica. Le scoperte geografiche – dalla seconda metà del XV secolo in poi – spalancano all’Europa un mondo nuovo ma segnano anche una obiettiva emarginazione del Mediterraneo, e dell’Italia in particolare, dal tessuto vivo della storia. Dopo il periodo iberico, le potenze dominanti saranno ben presto l’Inghilterra, la Francia e l’Olanda. Tagliata fuori dalle dinamiche europee, l’Italia si suddivide in ducati, signorie, repubbliche, regni e stato pontificio; la stessa missione si rivolge ad gentes dando per scontata la vita cristiana del popolo italiano.

Per ritrovare il filo dell’evangelizzazione si può partire dal concilio di Trento che, di fronte alle sfide dell’umanesimo e della riforma, pone al centro della sua strategia la proclamazione del vangelo. Già nella quarta sessione del 08.04.1546, dedicata al Decreto de libris sacris et de traditionibus recipiendis, il concilio ritiene suo dovere il «conservare la purezza del vangelo nella Chiesa» e di intenderlo «quale fonte di ogni verità salvifica e di ogni norma morale». Il 17 giugno 1546, poi, la quinta sessione approverà il decreto super lectione et praedicatione; il n. 10 poi indicherà il ministero della predicazione del vangelo come compito da esercitare per la salvezza. Questo compito, infatti, obbliga ad «insegnare ciò che tutti devono sapere per essere salvi» ed a «denunciare […]i vizi da fuggire e le virtù da praticare per evitare la pena eterna e conseguire la gloria celeste». Questa esaltazione della predicazione del vangelo ha certo il fine di consolidare la vita cristiana dei fedeli e di aiutare chi l’ha persa a recuperarla ma tratteggia anche un clima spirituale ed un orizzonte pastorale che è alla base di una nuova strategia apostolica: il vangelo come fons omnis et salutaris veritatis et morum disciplinae e la sua comprensione ecclesiale, Evangelium in Ecclesia, diventano criteri decisivi della vita cristiana e di quella apostolica.

L’enfasi tridentina sul ministero della Parola è il frutto di un rinnovato clima ecclesiale; la riforma cattolica vi riconoscerà il cammino per un ritorno ad una autentica vita cristiana ed apostolica. Una singolare espressione di questa strategia apostolica saranno i catechismi. Il più importante è il Catechismus Romanus seu Catechismus ex decreto concilii Tridentini ad parochos Pii Quinti Pont. Max. iussu editus che offre una guida autorevole a presbiteri chiamati ad essere il perno del rinnovamento pastorale tramite il ministerium verbi et sacramentorum. Di rilievo è anche l’organizzazione di questo Catechismo che, rifacendosi ad una tradizione patristica, organizza il suo materiale attorno al simbolo della fede o Credo, ai sacramenti, al decalogo ed al Padre nostro.

Il “catechismo” si imporrà come un genere letterario decisivo per la comunicazione della fede; per quanto ne esistessero già in precedenza come il Libretto della dottrina cristiana (1473) attribuito a Sant’Antonino di Firenze, sarà il periodo post-tridentino a dare ampia diffusione a questo genere di comunicazione della fede. Per quanto riguarda l’Italia, i testi di R. Bellarmino – Dottrina cristiana breve (1597) e Dichiarazione più copiosa della dottrina cristiana (1598), composti su richiesta di papa Clemente VIII – saranno tra i più usati. Ricordo anche il Compendio della dottrina cristiana (1765) di Mons. M. Casati, vescovo di Mondovì. I catechismi hanno svolto un grande compito di evangelizzazione sia per l’istruzione cristiana che per la formazione morale; non diffondono solo un contenuto ma impongono anche una metodologia dell’azione catechistica che D. Guzman, Modo per insegnar con frutto la dottrina cristiana del P. Diego Gosman (1585) fa risalire alla missione della Chiesa e D. de Ledesma, Modo per insegnar la dottrina cristiana (1573) riconduce addirittura a Gesù Cristo e agli apostoli. Nasceranno così le scuole della dottrina cristiana, le confraternite della dottrina cristiana che contribuiranno al cammino formativo delle comunità.

Questi testi e questa prassi è alla base di un vivace rinnovamento pastorale, di una vera e propria rievangelizzazione del popolo italiano. In effetti non sono tanto sistemi dottrinali ma compendi delle dinamiche e degli atteggiamenti indispensabili per la vita cristiana; ne viene una prassi che porta in primo piano la fede, la traduce in vita con i sacramenti ed i comandamenti e fa del “Padre nostro” il fondamento della preghiera e della speranza escatologica. Questo schema, voluto dal Catechismo Romano fa della fede e della vita sacramentaria il fondamento di una ecclesiologia che sospinge i credenti ad una vita guidata dalla preghiera e dall’impegno morale e animata dalla speranza escatologica.

Assieme ai catechismi, vanno ricordate le missioni popolari, momenti fondamentali di quella pastorale parrocchiale che doveva affiancarle e prolungarle. Queste missioni ad intra erano forme organizzate e metodiche di predicazione straordinaria tenute da “missionari” con il consenso dell’Ordinario; il loro scopo era il rinnovamento della vita cristiana perseguito attraverso l’esposizione delle principali verità della fede ed il ricorso a celebrazioni liturgiche e devozionali. In questo modo chiamano ad una sincera conversione del cuore, ad un rinnovato impegno morale, ad una seria ricezione dei sacramenti della Riconciliazione e della Eucaristia e ad un migliore esercizio delle opere di carità. Il costituirsi di “confraternite” e “asso­ciazioni” ne sarà il frutto e dovrà favorire la perseveranza di questo cammino.

Sorte nella seconda metà del ’500, hanno una origine non del tutto chiara. Alcuni ne vedono l’inizio negli Esercizi di Ignazio di Loyola e indicano P. Silvestro Landini (†1554) come il primo ad averli utilizzati come metodo per le missioni popolari; altri ne indicano l’origine nelle Quarantore che i cappuccini diffondevano in Europa negli ultimi decenni del cinquecento; altri ancora ne indicano l’autore in Vincenzo de’ Paoli (†1660). Due cose sono sicure. La prima è la loro diversità dalla missione itinerante degli ordini mendicanti che si rifacevano alla missio data loro dai papi; la seconda riguarda la loro collocazione sullo sfondo del rinnovamento e della cura pastorale nata nel solco della Riforma cattolica dopo Trento. Mentre la predicazione francescana era una predicazione evangelica, spesso a sfondo etico, le “missioni popolari” affrontano in modo altrettanto semplice i temi del peccato e della grazia, del senso della vita e dei novissimi, dei sacramenti e delle opere caritative.

Comunemente note come “missioni ad intra” o “missioni popolari”, saranno sostenute da gesuiti, cappuccini, lazzaristi e dagli Oblati di Sant’Ambrogio, fondati a Milano (1578) da S. Carlo Borromeo proprio per questo. Erano predicazioni accompagnate da processioni penitenziali e gesti di riconciliazione, da roghi di libri riprovevoli e di simboli magici chiusi dal bacio riparatore al crocifisso, da confessioni e comunioni generali che davano alla predicazione un tono emotivo e drammatico che mirava a rendere le persone partecipi del loro cammino di conversione. Tra i più noti predicatori di queste missioni, si possono ricordare Pietro Antonio Spinelli (+1615), Francesco Pavone (+1637), Pietro Gravita (+1658), Paolo Segneri senior (+1694), Giovanni Pietro Pinamonti (+1703), Francesco de Geronimo (+1716). Le figure più note sono però tre santi: san Leonardo da Porto Maurizio (+1751), san Paolo della Croce (+1775), e sant’Alfonso M. de’ Liguori (+1787). Alcuni testi, come Il zelo apostolico nelle sante missioni (1720) di Amedeo di Castrovillari o Il cristiano instruito nella sua legge. Ragionamenti morali (1687) di P. Segneri ci permettono di comprenderle a fondo.

Se la diffusione delle idee della rivoluzione francese rappresentò un periodo di stasi, le missioni popolari ripresero con rinnovato vigore dopo il Congresso di Vienna (1816). Ne è indice la letteratura che riprende copiosa. Basta richiamare al riguardo il Metodo delle Sante Missioni (1819) di Gaspare del Bufalo, il Direttorio sacro per uso delle Sante Missioni (1835) a cura dei Padri Passionisti, il Metodo pratico degli esercizi di missione per uso della Congregazione del SS. Redentore (1856) di C.M. Berruti e La Missione o temi facili e popolari dettati negli esercizi e nelle missioni (1885) di F. Giordano.

Il primo Ottocento: la risposta religiosa della carità. La riforma tridentina mantiene un ruolo anche nell’Ottocento, prima dell’unità d’Italia e non cessa nemmeno la sua influenza con il Vaticano I. Resta il fatto che l’ottocento conosce un complesso movimento sociale e culturale di reazione agli eccessi giacobini della rivoluzione francese che mira a restaurare l’ordine precedente sulla base dei principi tradizionali. È appunto la Restaurazione. Lo sforzo per superare lo choc della rivoluzione ed i suoi disastrosi effetti sull’impianto tradizionale dei governi e della società si esprime nel ritorno ai modelli passati, nella ripresa di ciò che si era mantenuto saldo fino ad allora: è un atteggiamento difensivo, la cui posta in gioco è l’accoglienza o il rifiuto della Weltanschauung moderna. Oggi siamo in grado di formulare una critica più puntuale delle tesi illuministiche; allora non era così. L’illuminismo appariva una concezione globale della vita contrapposta alla fede; là dove la coscienza era l’unica origine del sapere e della scienza, non vi era spazio per la fede: andava relegata nel mito.

Possiamo parlare di una triplice sfida: culturale, sociale e teologica. La sfida culturale è legata alla contrapposizione tra le forme indiscusse della vita ecclesiale e sociale del passato e le nuove linee dinamiche che spingono verso una vita orientata in base alla razionalità e alla libertà. In pratica è qui sottesa una nuova antropologia, generatrice di una nuova società. Una risposta di pura riaffermazione di principi era destinata ad essere inutile; solo una nuova, diversa identità religiosa poteva pensare di riproporsi come esperienza viva e ricca di significati. La sfida sociale non chiede solo scuole, ospedali, ricoveri ed iniziative simili ma esige di sapere se queste permangono all’interno di un quadro autoritario e paternalistico o se riescono a rendere ragione al clima di emancipazione mostrando nella responsabilità delle persone il criterio ultimo di ogni obbligatorietà sociale. La sfida teologica poi vedeva come fosse la stessa Chiesa ad essere in gioco. La lotta al gallicanesimo ed all’ultramontanismo aveva rafforzato l’unità della chiesa ma l’avevano fatto in termini giuridici e istituzionali, ponendo la questione dei limiti propri del centralismo ecclesiastico e delle legittime autonomie delle chiese; la lotta al giansenismo aveva riproposto la tematica della vera interiorità cristiana e del senso dei sacramenti.

Nel 1848 usciva il lavoro di Rosmini Delle cinque piaghe della Santa Chiesa: a fondamento del suo riformismo, l’autore non poneva una astratta religione interiore ma la realtà del popolo cristiano che Rosmini radicava profondamente nei sacramenti e nella comunione di culto e di vita con i suoi pastori. Nella stessa direzione andrà il pensiero della scuola romana, il cui frutto più autorevole sarà la Costitutio De Ecclesia Christi secunda: Tametsi Deus presentata come base di discussione ai padri del concilio Vaticano I; attraverso l’immagine del Corpo mistico, questa insisteva sulla connessione organica tra i membri della chiesa ed indicava la logica ultima della vita ecclesiale in una prospettiva di vicendevole servizio. Questa saldezza interna, spirituale e disciplinare, permette di impostare su basi nuove sia la problematica dell’unità sia quella del rapporto tra Chiesa e stato, stretto tra le forme tradizionali del giurisdizionalismo che sopravvivevano nel giuseppinismo austriaco e facevano perno su uno stato confessionale e quel liberalismo che, al contrario, separava radicalmente chiesa e stato.

La risposta più pertinente verrà dalla vita religiosa. Dopo il Congresso di Vienna, gli stati cercavano una certa collaborazione con la chiesa subordinandone però l’intera struttura alle preminenti esigenze statali: il placet statale alle nomine ecclesiastiche, il compito assegnato alle parrocchie in vista di una formazione etica di base, la riduzione degli ordini religiosi sulla base della utilità sociale, l’inquadratura statale delle iniziative caritative ed assistenziali; questa logica tendeva a far coincidere doveri religiosi e doveri civili così da portare in primo piano il valore civile e sociale della religione e non il suo significato soprannaturale. Questa dimenticanza del carattere integrale e profondo della persona valorizzava sì l’aspetto sociale e pubblico della fede ma, al di là di alcuni immediati vantaggi, non sapeva rendere ragione né della autonomia spirituale della chiesa e della sua vitalità interiore né del valore della coscienza e della sua libera scelta di credere.

In questo contesto si deve valorizzare la risposta della vita religiosa. La nascita di istituti maschili e femminili è in questo periodo sorprendente ma quello che interessa è il suo volto nuovo: pur mantenendosi nel solco del passato, persegue una migliore corrispondenza ai bisogni sociali, una maggiore apertura alle classi povere. Quello che emerge è la capacità di servire Dio nel bisognoso, è una diversa concezione della santità che si pensa come contributo creativo per una società che non si vuole abbandonare a forze non-cristiane. Abbiamo così una singolare immersione nel sociale; al di là delle tranquille relazioni conventuali, è nel ritmo della scuola e nel complesso dell’assistenza che va arrischiato l’esercizio dell’amore di Dio e del prossimo. La santità assume il volto del rifiuto di una religiosità puramente interiore; rinasce una spinta evangelizzatrice che rifugge dal farsi pigrizia ripetitiva per arrischiarsi con tutta la propria profetica novità dentro le questioni quotidiane e domestiche della vita della gente. La vicinanza al popolo è, insieme, proclamazione dei valori di sempre e rifiuto di abbandonare la fede ad una rassegnata subalternità a modelli esistenziali altrui. Non si tratta di filantropia ma di un modo diverso, cristiano e apostolico, di collocarsi nel sociale; in questa prospettiva prenderà singolare rilevanza la figura cristiana e religiosa della donna: è una donna che esce di casa, che esce dalle mura domestiche o da quelle sicure della clausura e dei conventi per rivendicare il diritto e l’onere di vivere e di servire il vangelo.

Conclusioni. Alcune conclusioni si impongono. Per un verso risulta evidente che l’evangelizzazione dell’Italia è un continuum mai esaurito: appartiene alla responsabilità di ogni generazione cristiana; appartiene alla responsabilità di ogni generazione trovare i metodi per comunicare il vangelo e renderlo significativo nelle diverse problematiche. In questo impegno il nesso rivelazione-fede non si esaurisce nei termini intellettuali di una comprensione di verità soprannaturali e dogmatiche ma chiede di essere ripensato in rapporto alla realtà storica del vivere umano; l’evento della rivelazione si dà in una storia ed è effettivo solo là dove illumina e determina l’interlocutore a cui si rivolge. La storia dell’evangelizzazione dell’Italia rende ancora più evidente la nostra responsabilità di cristiani di questa terra.

Fonti e Bibl. essenziale

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LEMMARIO




Evangelizzazione - vol. II


Autore: Gianni Colzani

Il 17 marzo 1861, sulla base della legge n. 4671 del Regno di Sardegna approvata dalla Camera dei Deputati, il re Vittorio Emanuele II proclama ufficialmente la nascita del regno d’Italia assumendo il titolo di re per se stesso e per i suoi successori. Questo atto era la conclusione di un cammino di alcuni decenni nel quale si erano confrontate opinioni che pensavano l’unità tra stati profondamente diversi in termini di federalismo ed altre che puntavano sul Regno di Sardegna in termini obiettivamente espansionistici.

Di fatto la società italiana arrivava all’unità segnata profondamente sia dall’esperienza di governi rivoluzionari sia dalla problematica della restaurazione. Da una parte l’ideologia liberale aveva riconosciuto la libertà e l’uguaglianza dei cittadini quali criteri ispirativi dell’organizzazione di uno stato laico ma, dall’altra, la restaurazione aveva riaffermato una forte centralizzazione del potere esecutivo cercando di porre anche limiti all’autonomia dell’ordine giudiziario. Il Codice napoleonico e, più in genere, la legislazione francese avevano largamente influenzato la legislazione di molti stati preunitari ed, in particolare, quella del Regno di Sardegna. Il primo Codice civile del Regno d’Italia, quello del 1865, ne resterà largamente segnato.

Su questo sfondo, sono di particolare interesse i rapporti tra lo Stato unitario e la Chiesa. L’unificazione dell’Italia conoscerà pure la progressiva estensione a tutte le regioni italiane delle Leggi Siccardi; approvate il 9 aprile 1850 per il regno sabaudo, queste leggi si ispiravano alla convinzione che la pienezza del potere statale e l’esercizio della giurisdizione civile e penale sulle persone e sulle cose appartengono alla sovranità dello Stato; di conseguenza regolavano unilateralmente i rapporti tra Chiesa e Stato delimitandone in modo autonomo diritti e funzioni nell’ambito sociale.

Una simile scelta aveva profonde ricadute su diversi aspetti che andavano dai privilegi del foro ecclesiastico all’ambito matrimoniale, dal riconoscimento giuridico delle congregazioni religiose alla liquidazione del loro patrimonio. I rapporti tra la Chiesa e lo Stato furono autonomamente decisi dallo Stato italiano con il Codice di diritto civile del 2 aprile 1865 e con la legge Ferraris sulla “soppressione di enti ecclesiastici e la liquidazione dell’asse ecclesiastico” del 15 agosto 1867. Dopo la breccia di Porta Pia del 1870 e l’insediamento del Governo italiano a Roma, vennero completati con la legge delle Guarentigie del 1871, respinta da Pio IX. I rapporti tra la Santa Sede e lo Stato italiano peggiorarono ulteriormente con l’enciclica Ubi nos (1871) nella quale il Pontefice ribadiva l’inseparabilità del potere spirituale del papa da quello temporale e, soprattutto, con il non expedit (1874-1919) che impediva la partecipazione dei cattolici alla vita politica.

La valutazione di questi dati non è semplice. Lo sfondo è rappresentato dal progressivo superamento dell’ancien régime, fondato su una alleanza tra il trono e l’altare; era una rivoluzione sociale e politica non innocua che puntava su una separazione tra Stato e Chiesa e che aveva avuto in Piemonte una realizzazione segnata da punte anticlericali. Il mondo cattolico, in larga parte non ostile all’unificazione del paese, guardava con preoccupazione le modalità con cui veniva di fatto realizzata cogliendovi sia un progetto globale ispirato da tesi giacobine e anticlericali sia una pretesa volta a condizionare la missione spirituale del papato rendendolo suddito di una nazione. Di per sé riguardanti l’intera cristianità, queste preoccupazioni pesarono in modo particolare sul mondo italiano. La prima, di stampo culturale e generale, troverà espressione nell’enciclica Quanta Cura e nel Syllabus seu Collectio errorum, entrambi editi l’8 dicembre 1864. La seconda, più nota come “questione romana”, riguardava la problematica delle condizioni specifiche circa la realizzazione della missione spirituale della Chiesa e del papato; per quanto importante per l’intera cristianità, sarà lasciata in carico al mondo italiano e troverà soluzione solo con il Concordato del 1929.

Collocare l’evangelizzazione dell’Italia in questo contesto significa collocarla nel quadro di una tensione tra conciliatoristi e intransigenti, di una “distanza” tra paese legale e paese reale dato il numero scarso di elettori, di un rapporto problematico tra Nord e Sud e di una diffidenza tra cittadini e istituzioni. Si può parlare di evangelizzazione dell’Italia perché, nonostante tutto, i cattolici continuarono a sentirsi italiani a tutti gli effetti e perché la presenza cattolica nel paese rimase profonda e attiva.

L’evangelizzazione come valorizzazione del mondo laicale e del clero parrocchiale. La soppressione di molti ordini religiosi, il decadimento delle confraternite, il bisogno di un nuovo rapporto con una società in profondo cambiamento generarono un raccogliersi del mondo cristiano sulla sua identità profonda, sul suo rapporto con la propria base; nasce così un movimento religioso e sociale che riscopre nei fatti una partecipazione reale alla storia di un popolo, nonostante una emarginazione ufficiale dall’impegno politico. Nasce così un movimento nazionale, popolare e socialmente attivo, espressivo di larga parte del paese anche se presente ovunque con la stessa incidenza. Nel 1874 nasce a Venezia l’Opera dei Congressi. L’insieme di questo periodo, pur nei limiti di un certo isolamento, va considerato un periodo globalmente positivo; chi voleva ridurre la Chiesa al puro ambito religioso si trova a dover fare i conti con il fatto che la fede – sale della vita cristiana – è inseparabile dalla vita familiare e sociale; esclusa da ruoli di potere, la Chiesa riscopre insospettate capacità missionarie.

Si inserisce qui una relativa valorizzazione del laicato; l’attenzione alla società civile come ambito dell’attività apostolica del laico rappresenta un dato di esperienza che contribuisca a formare un clima culturale impegnato a superare il tradizionale atteggiamento di spiegazione e difesa della struttura societaria e gerarchica della Chiesa, tipica dell’ancien régime; i teologi del collegio romano – G. Perrone, C. Passaglia e J.B. Franzelin – offrono una prima presentazione della Chiesa come societas fidelium o Corpo di Cristo che sarà però rifiutata al Vaticano I. Riferendosi a dibattiti teologici dei primi Congressi mondiali per l’apostolato dei laici – Roma ottobre 1951; Roma ottobre 1957 – con ragione A. Acerbi osserverà che «ciò che preme non è tanto di comprendere la posizione dei laici in rapporto alla chiesa e al mondo, ma di definire la loro situazione rispetto alla gerarchia, per salvaguardare la funzione di questa». A maggior ragione sono osservazioni pertinenti a questo punto della storia. Il nodo teoretico è dato dal ripensamento della storia della salvezza e del ruolo delle persone divine entro il quadro metafisico dell’incarnazione: la Chiesa viene vista come la realtà umana che sta di fronte a Cristo ed ai suoi poteri gerarchicamente partecipati.

In questo compito, la pastorale parrocchiale assume un ruolo centrale. Se già la riforma napoleonica aveva fatto della parrocchia il luogo centrale della cura pastorale e della vita religiosa, la soppressione di molti ordini religiosi, la chiusura di conventi e luoghi di culto completeranno questa spinta: la parrocchia diventa l’esclusivo luogo di culto e di formazione cristiana della popolazione. Anche là dove questo non avverrà che parzialmente, l’influenza del clero regolare rispetto a quello secolare verrà drasticamente diminuita. Questo disegno era favorito dalla diffusione capillare, urbana e contadina, di queste strutture: all’indomani dell’unità d’Italia, il numero delle parrocchie superava di poco le 20.500 unità, con marginali differenze tra i diversi autori. Non mancavano problemi a proposito della loro personalità giuridica, dei beni ad esse assegnati e della loro rappresentanza legale; soprattutto restava difficile ogni generalizzazione perché deve in ogni caso fare i conti con il ruolo centrale che i parroci rivestono nelle scelte pastorali e socio-assistenziali di questi istituti. Grossomodo si può comunque dire che i parroci, in quanto titolari di un supplemento di congrua in base ad una legge del 1866, assumevano la duplice veste di pastori d’anime e di funzionari pubblici; trova così conferma quel ruolo educativo di formazione morale, in parte affine alla problematica dell’evangelizzazione.

Strumenti fondamentali di questa evangelizzazione parrocchiale furono la predicazione e il catechismo. La predicazione è stata lo strumento principale per la comunicazione della fede; rivolta a tutti, ha rappresentato la prima elementare forma di conoscenza religiosa e di concreto orientamento morale. La religiosità popolare rappresentava una occasione per intensificare questa genere di comunicazione: tridui, novene, quaresime, quarantore alimentavano la pietà popolare arricchendola con apposite predicazioni. Di fatto non mancano nemmeno testi sulla predicazione ma, più che approfondirne il senso ed il valore, sono ricchi di consigli per invitare alla semplicità di linguaggio, alla concretezza delle attualizzazioni, alla personalizzazione del discorso tramite esempi o fatti, evitando un linguaggio sacralizzato e formulistico. Non mancano tuttavia risultati di grande rilievo comunicativo: basta pensare alle Istruzioni e ai Discorsi del Cafasso, alla predicazione di don Bosco ai suoi ragazzi o, più semplicemente, alle prediche di L. Marchelli recuperate nell’Archivio storico diocesano di Pavia.

Una attenzione particolare va poi riservata alle Missioni, una sorta di intensificazione della predicazione a cui si dedicano diversi ordini religiosi. Abbandonata un’oratoria ampollosa, si torna ad insistere sul fine della vita e la salvezza dell’anima, sui comandamenti e sul peccato, sui sacramenti e sulla rinnovazione dei voti battesimali, sulla morte e sui novissimi, sulla passione di Cristo e sulla Chiesa che ne continua l’opera. Alla predicazione classica si aggiungono conversazioni dialogate per studenti, operai, professionisti, si dà rilievo alle Associazioni e alle Confraternite del SS. Sacramento e alle Conferenze di S. Vincenzo de’ Paoli; si cerca cioè di adeguarsi alle condizioni reali tramite un impegno volto non solo a raggiungere i fedeli ma a recuperare un rapporto con i lontani ed a contrastare uno spirito laicista.

La seconda forma di evangelizzazione parrocchiale, oltre alla predicazione, è rappresentata dal catechismo. Va inteso sia come l’insieme delle verità di fede da trasmettere ai fedeli, sia come il momento di incontro tra il parroco ed i suoi fedeli sia ancora come il testo preparato per facilitare questa comunicazione. Il catechismo rappresenta un momento fondamentale della pastorale di evangelizzazione in quanto essenziale per la ricostituzione di quel quadro religioso-sociale, di ampio significato umano, che era stato travolto dai moti rivoluzionari. In un momento in cui la fede è sfidata da più parti nel nome della ragione, la catechesi accentua sia la dimensione apologetica sia la presentazione sistematica della fede insistendo sulla razionalità come criterio interno alla stessa fede. In pratica il catechismo è una sintesi di teologia.

Questo spiega la concreta comunicazione della fede di questo periodo: più che di evangelizzazione si deve parlare di catechismo; l’incontro del catechista con le persone, soprattutto ragazzi, è marcato dallo sforzo di far imparare a memoria le risposte del formulario, limitando la spiegazione al loro significato. In poche parole, per non essere inutile o pericolosa, la spiegazione deve essere chiara e, a questo scopo, utilizza un linguaggio tecnico calato in formule da imparare a memoria che salvaguardino la precisione dottrinale. Basta pensare al Catechismo di Pio X: sia al Catechismo maggiore (1905) sia al più noto Catechismo della dottrina cristiana (1912) che ne sono un chiaro esempio. Ne viene una catechesi che G. Bedouelle vedrà segnata da una “deriva razionalizzante” a cui si può anche aggiungere una “deriva moralizzante” per indicare lo spazio eccessivo dato ai comandamenti ed ai precetti della Chiesa. Poche persone sfuggono a questa logica; per lo sforzo di attenzione ai destinatari, si possono ricordare le figure di san Giovanni Bosco, di G.B. Sacalabrini e G. Bonomelli. Scalabrini in particolare è all’origine di un inizio di “movimento catechistico”: a lui dobbiamo la rivista Il catechista cattolico (1876), il manuale Il catechismo cattolico (1877) ed il primo Congresso catechistico nazionale. Tenuto a Piacenza (1889), vedrà una sorprendente serie di indicazioni che vanno dalla proposta di una catechismo storico, biblico e cristocentrico, alla trattazione della catechesi degli adulti, alla presa d’atto del cambio religioso e culturale allora in atto e alla richiesta di una migliore preparazione catechistica nei seminari.

Tra le due guerre: la centralità della pedagogia e dell’associazionismo. Il periodo tra le due guerre è un periodo segnato da notevoli cambiamenti: il modernismo con il suo ricorso alla ragione e alla storia per la ricerca della verità e per il suo successivo approfondimento; il dramma della prima guerra mondiale con il conseguente imporsi di una svolta: l’esistenzialismo in filosofia e la teologia dialettica come recupero della fede al di là della cultura; l’affermarsi del fascismo ed il confronto tra la Chiesa italiana ed un regime totalitario; la seconda guerra mondiale e l’imporsi di una visione mondiale non più eurocentrica.

Nonostante questo contesto, l’evangelizzazione sembra dominata dalla gestione della vita cristiana, in particolare dal come introdurre le giovani generazioni nella vita cristiana. Questo avveniva attraverso i riti della iniziazione cristiana che legavano sacramentalmente il dinamismo della Pasqua, della morte e risurrezione di Gesù, alla fede personale di chi lo accoglieva. Purtroppo l’organicità di questo processo si era ormai sciolta con l’introduzione del battesimo dei bambini, la separazione tra battesimo e cresima e la collocazione dell’Eucaristia all’età della ragione. Si era creato così un distacco tra le ragioni della prassi ecclesiale ed il cammino reale delle persone; l’iniziazione alla fede e alla preghiera, alla vita morale e alla pratica cristiana era affidata alle famiglie; in un secondo momento interveniva la parrocchia con un ruolo di verifica e di approfondimento. In genere lo faceva in occasione dei sacramenti che diventavano un momento di controllo del cammino cristiano dei ragazzi.

È facile pensare che i cambiamenti intervenuti nel quadro culturale e sociale dell’Italia post-unitaria abbiano inciso non poco sul modo di pensare, sui comportamenti e sugli stili di vita degli italiani. Si fa così strada il bisogno di una evangelizzazione sapiente in grado cioè di rendere ragione del valore cristiano, umano e sociale della fede. L’evangelizzazione assume al proprio interno la pedagogia, la sida educativa, condividendola con le famiglie. Ne viene un riassestamento della religiosità collettiva che, pur mantenendo i cardini della pastorale sacramentale tradizionale – battesimo, matrimonio, funerali – valorizza l’associazionismo come particolarmente adatto a completare la formazione ed a sostenere la vita cristiana In una linea catechistica e devozionale, particolare attenzione sarà riservata alle confraternita del SS. Sacramento, alle Conferenze di S. Vincenzo de’ Paoli ed all’associazionismo mariano.

Una menzione particolare va riconosciuta all’Associazione scout cattolici italiani (Asci) e all’Associazione guide italiane (Agi) che sorgono entrambe nel 1916, a pochi mesi di distanza l’uno dall’altra per opera del conte Mario Gabrielli di Carpegna; sciolti tra il 1927-1928 per lasciar spazio alle sole organizzazioni fasciste, rinasceranno nel 1946 dopo la liberazione. Tuttavia sarà soprattutto l’Azione Cattolica il movimento che, incarnando la pedagogia ecclesiale, svilupperà l’impegno apostolico dei laici. L’Azione Cattolica sorge dalle ceneri dell’Opera dei Congressi, sciolta da Pio X nel 1904 a causa di contrasti interni; nell’ambito dell’apostolato laicale si apriva così un vuoto che esigeva di essere colmato.Nel 1905 lo stesso Pio X indirizzava ai vescovi italiani l’enciclica Il fermo proposito con la quale istituiva l’Azione cattolica che, «poiché si propone di ristorare ogni cosa in Cristo, costituisce un vero apostolato ad onore e gloria di Cristo stesso».

I compiti che il Papa assegnava alla nuova istituzione erano soprattutto di difesa della fede: si trattava di «combattere con ogni mezzo giusto e legale la civiltà anticristiana; riparare per ogni modo i disordini gravissimi che da quella derivano; ricondurre Gesù Cristo nella famiglia, nella scuola, nella società; ristabilire il principio dell’autorità umana come rappresentante di quella di Dio» ma si trattava anche di «prendere sommamente a cuore gli interessi del popolo e particolarmente del ceto operaio ed agricolo, non solo istillando nel cuore di tutti il principio religioso, unico vero fonte di consolazione nelle angustie della vita, ma studiandosi di rasciugarne le lacrime, di raddolcirne le pene, di migliorare la condizione economica con ben condotti provvedimenti».

La metodologia indicata era quella che esprimeva la migliore pedagogia cattolica; per compiere il bene, «ci vuole la grazia divina, e questa non si dà all’apostolo che non sia unito a Cristo. Solo quando avremo formato Gesù Cristo in noi, potremo più facilmente ridonarlo alle famiglie, alla società». Altre associazioni si aggiungono ben presto: nel 1908 sorge l’«Unione fra le Donne Cattoliche Italiane» e poco dopo, nel 1909, ha origine l’«Unione Elettorale Cattolica Italiana»; nel 1918 infine, all’interno dell’Unione Donne, A. Barelli darà vita alla «Gioventù Femminile di Azione Cattolica». Nel 1923, gli statuti dell’Associazione, approvati da Pio XI, organizzeranno l’Azione Cattolica in quattro rami: la Federazione italiana uomini cattolici, la Unione femminile cattolica italiana, la Federazione universitaria cattolica italiana e la Società gioventù cattolica italiana.

Lo scontro tra l’Azione cattolica e la sua logica di formazione e di vita e le organizzazioni fasciste non poteva mancare. Nel 1928 il regime decreta lo scioglimento di tutte le associazioni per affermare il monopolio di quella fasciste; la reazione del Vaticano obbligherà il governo a tornare sui suoi passi; l’articolo 43 del Concordato del 1929 riconoscerà la legittimità delle organizzazioni di Azione Cattolica e precisava che devono svolgere «la loro attività al di fuori di ogni partito politico e sotto l’immediata dipendenza della gerarchia della Chiesa per la diffusione e l’attuazione dei principî cattolici».

In realtà lo scontro era solo rimandato: non poteva tardare. L’Azione Cattolica, con 5000 sedi sparse in tutta Italia, aveva una influenza formativa e svolgeva una serie di iniziative sociali, culturali e sportive oltre che religiose che il regime non poteva tollerare. Lo scontro avverrà nel 1931 quando, dopo una serie di provocazioni e di violenze, il 29 maggio uscirà il decreto di scioglimento dell’Azione Cattolica: tutti i circoli dell’Associazione saranno sequestrati dalla polizia. La risposta della Chiesa sarà l’enciclica Non abbiamo bisogno, datata 29 giugno; con questo documento Pio XI richiama la vera libertà di coscienza, non traducibile in una indipendenza della coscienza da Dio e in un rifiuto del diritto/dovere della Chiesa di attenersi agli insegnamenti di Cristo. Il pontefice bolla con chiarezza la pretesa «di monopolizzare interamente la gioventù, dalla primissima fanciullezza fino all’età adulta, a tutto ed esclusivo vantaggio di un partito, di un regime, sulla base di una ideologia che dichiaratamente si risolve in una vera e propria statolatria pagana non meno in pieno contrasto coi diritti naturali della famiglia che coi diritti soprannaturali della Chiesa». Da qui la conclusione che una concezione dello Stato «che gli fa appartenere le giovani generazioni interamente e senza eccezione dalla prima età fino all’età adulta, non è conciliabile per un cattolico colla dottrina cattolica»; non è accettabile «pretendere che la Chiesa, il Papa, devono limitarsi alle pratiche esterne di religione (Messa e Sacramenti), e che il resto della educazione appartiene totalmente allo Stato». Da qui la conclusione che il giuramento di fedeltà al duce non è lecito ai cattolici.

Negli ultimi anni del regime, la vita dell’Associazionismo cattolico sarà di conseguenza molto difficile; riuscirà comunque a mantenere una capacità formativa dei capi così che potrà rinascere nel dopoguerra. Le sue caratteristiche sono il legame con la Chiesa locale e il territorio: questo legame assume il valore teologico di una chiamata per testimoniare e diffondere la fede, una chiamata a portarne la responsabilità. L’essere movimento di laici, in un simile contesto teologico, rimanda ad una responsabilità per il bene della vita di tutti, in un crescendo di umanità, declinando in concreto la dimensione religiosa di quanto è profondamente umano; l’essere poi un movimento ecclesiale implica saper offrire la proposta della Chiesa stessa come proposta in grado di maturare il cammino di ciascuno valorizzandone doti e capacità. In questo modo, la dimensione educativa della Associazione si sviluppa verso una pienezza, umana e cristiana, religiosa e culturale, evangelicamente testimoniante e socialmente significativa.

Il dopo-concilio: la riscoperta del vangelo e della dimensione missionaria. Nel dopoguerra, fino al Vaticano II, dominò a lungo la convinzione che l’Italia fosse obiettivamente cattolico: la sua storia, la presenza del papato ed il legame della Chiesa con la società civile confermavano questa convinzione. Un simile giudizio non teneva conto delle trasformazioni che andavano modificando la società: le comunicazioni di massa, la facilitazione della mobilità interna ed estera, il boom economico con il diffondersi del consumismo, le modificazioni degli stili di vita comportavano nuove sfide per le stesse istituzioni tradizionali. Una certa insoddisfazione verso il modello di ecclesiologia e di pastorale e verso la compromissione politica della Chiesa si ritrova in alcune figure sacerdotali come G. Facibeni, P. Mazzolari, G. Calabria, L. Milani, D. Turoldo ed in alcune riviste come Il Gallo di Genova, Testimonianze di Firenze e Questitalia di Venezia. Un ruolo particolare andrebbe riconosciuto alla missione cittadina di Milano (1957) voluta dal Card. Montini: in un mondo sempre meno sensibile al religioso, si proponeva di raggiungere credenti impigriti e laici pensosi ma dovette riconoscere la distanza del mondo moderno dai tradizionali mezzi di pastorale.

Queste esperienze restano il segno che il bisogno di un rinnovamento, pur tacitato, era in qualche modo presente e attivo ma non trovava sbocco. Mancava in ogni caso una risposta unitaria, ad opera dell’intera chiesa italiana. Mancava perché, nonostante l’unità d’Italia fosse una realtà da ormai ottant’anni, le Chiese italianenon avevano un progetto comune ma si muovevano in modo indipendente. È vero che la Conferenza Episcopale Italiana era sorta nel 1952 con la riunione dei Presidenti delle Conferenze episcopali regionali tenuta a Firenze dall’8 al 10 gennaio ma, in realtà, l’affermazione della CEI come soggetto pastorale a carattere nazionale si realizzerà solo molto lentamente. Inizialmente limitata all’aspetto organizzativo e di coordinamento pratico, la CEI apparirà il luogo di elaborazione e di promozione di una diversa pastoralità solo con gli anni ’70; la sua fisionomia assumerà forma compiuta con l’introduzione della lingua italiana nella liturgia (07.03.1965), con la pubblicazione del documento-baseIl rinnovamento della catechesi (02.02.1970) e con l’istituzione della Caritas (02.07.1971). L’insieme di questi provvedimenti ed il loro completamento con la pubblicazione dei libri liturgici e dei diversi catechismi per le rispettive fasce di età imposterà su nuove basi il cammino di evangelizzazione che la Chiesa è chiamata a svolgere in Italia.

Se questi sono gli strumenti, i contenuti dati dai diversi piani pastorali elaborati dalla CEI: Evangelizzazione e Sacramenti (1973), Comunione e Comunità (1981), Evangelizzazione e testimonianza della carità (1990), Comunicare il vangelo in un mondo che cambia (2001) edEducare alla vita buona del vangelo (2010).A questi vanno aggiunti i grandi Convegni ecclesiali tenuti nel 1976 a Roma su Evangelizzazione e promozione umana, nel 1986 a Loreto su Riconciliazione cristiana e comunità degli uomini, nel 1995 a Palermo su Il vangelo della carità per una nuova società in Italia e nel 2006 a Verona su Testimoni di Gesù Risorto, speranza del mondo. L’insieme di questi dati è prezioso. In termini storici, si deve riconoscere che sarà il Concilio a riversare nella Chiesa italiana le tensioni maturate nella società; in termini pastorali si può dire che la Chiesa italiana, giunta impreparata al Concilio, si darà un volto più preciso – ecclesialmente e pastoralmente – proprio con queste riforme. Con esse identificherà il senso del suo impegno in questo tempo ed a fronte alle sue sfide.

L’insieme di questi cambiamenti portò ad una riscoperta della dimensione comunitaria e misterica della vita cristiana e creò un approccio meno dottrinale e più esperienziale alla vita di fede favorendo notevoli cambiamenti nella vita spirituale e nelle abitudini religiose dei credenti. L’istituzione dei Consigli presbiteriali e pastorali ed il rinnovamento liturgico e catechistico provocarono un coinvolgimento diretto nella vita della Chiesa ed una sua comprensione come popolo di Dio. Si arriva così ad una riscoperta del vangelo e dell’evangelizzazione.Insieme ai molti valori positivi, questi sviluppi porteranno ad un ripensamento del tessuto associativo e dei percorsi di introduzione alla vita cristiana: nascono nuovi stili incompatibili con le vecchie formule.Verso la fine degli anni ’60, nascono “gruppi spontanei” e “comunità di base” in cerca di formule diverse di vita cristiana e di nuove esperienze comunitarie inserite o alternative alla vita parrocchiale: ripensando il tradizionale modello di sacerdote, provavano a ridefinire il rapporto tra sacralità e laicità e, di conseguenza, il senso ultimo della missione della Chiesa.

Simili cammini si traducono anche in vere e proprie forme di dissenso e contestazione, in «comunità di base» distinte dalla Chiesa: basta pensare all’Isolotto di Firenze con don E. Mazzi, alla comunità della Risurrezione di Rovezzano con don L. Rosadoni, sempre a Firenze, alla comunità di Oregina di Genova raccolta attorno a fra’ A. Zerbinati, alla comunità del Vandalino di Torino con don V. Merinas ed a quella di S. Paolo a Roma con dom G. Franzoni.Non manca nemmeno una componente contestativa parallela a quella della società civile, particolarmente evidente nell’occupazione dell’Università Cattolica (1967) e della Statale (1968) sempre a Milano, in quella del duomo di Parma (1968) e nel “controquaresimale” del duomo di Trento (1968).Il senso di questo nesso tra dissenso ecclesiale e contestazione sociale sta nell’obiettivo: entrambi contestano la dimensione istituzionale, la struttura giuridica e l’organizzazione gerarchica della Chiesa o della società; il potere dell’istituzione era pensato come antitetico alla libertà personale e alla spontaneità della vita individuale.

Nemmeno l’associazionismo cattolico sarà immune da questo travaglio. Nel congresso di Verona del 1969, la FUCI si schiera contro ogni “integralismo”, chiede la fine del regime concordatario ed il riconoscimento del pluralismo in politica; sempre nel 1969, al Congresso di Torino, le ACLI rivendicano la legittimità di una scelta cristiana di sinistra e fanno la “scelta socialista”; la stessa Azione cattolica, sotto la presidenza di V. Bachelet, maturerà un profondo rinnovamento e lo realizzerà attorno alla “scelta religiosa” da intendere come primato del vangelo e come fine di forma di supplenza non radicata nel vangelo. Gli Statuti, approvati nel 1969, confermeranno questa conclusione ma non fermeranno una pesante diminuzione numerica dell’associazione. Resta da annotare, verso la fine degli anni ’70, una progressiva marginalizzazione del dissenso che non impedirà l’imporsi di nuove, diversificate forme di ripensamento della fede e delle sue strategie nei confronti di un mondo secolarizzato. È l’imporsi di quel movimentismo che troverà espressione in Comunione e Liberazione, nel Movimento dei Focolari o Opera di Maria, nel Rinnovamento nello Spirito, nel Cammino neocatecumenale, nella Comunità di Sant’Egidio e in altre ancora. Il senso di questo movimentismo sarà espresso in modo emblematico nel confronto tra Azione Cattolica e Comunione e Liberazione, tra “cultura della mediazione” e “cultura della presenza”: si tratta di due modi di intendere la missione della Chiesa, di due modi di intendere il senso della vita cristiana, di due modi che separano forme consolidate di vita cristiana e nuovi movimenti.

Assieme a questi gruppi bene organizzati, ve ne sono altri molto più piccoli; si può dire che la fine della stagione della contestazione segna l’inizio di una riscoperta del vangelo e del primato dell’evangelizzazione. Presente in tutta la Chiesa, questa sensibilità affiora in una miriade di esperienze che fanno del vangelo il fondamento di una comunione fraterna e la base del loro impegno missionario. Solo a titolo di esempio, ricordo la Fraternità di S. Maria delle Grazie di Rossano Calabro, la Fraternità di S. Carlo nella Maremma toscana, la Fraternità missionaria di Piombino, la Comunità di Villapizzone presso Milano, la Comunità dell’Emmanuele, i Piccoli Fratelli del vangelo di Spelloe tante altre ancora. L’incontro con Cristo e con la Parola è per questi gruppi il fondamento di una svolta decisiva nel comprendere e nel vivere la vita. Il vangelo va vissuto fino in fondo direttamente. Penso si possano richiamare qui le parole di Evangelii Nuntiandi 46: «accanto alla proclamazione fatta in forma generale del vangelo, l’altra forma della sua trasmissione, da persona a persona, resta valida e importante. […]Non dovrebbe accadere che l’urgenza di annunziare la buona novella a masse di uomini facesse dimenticare questa forma di annuncio mediante la quale la coscienza personale di un uomo è raggiunta, toccata da una parola del tutto straordinaria che egli riceve da un altro».

In questo contesto nasce la nuova evangelizzazione, “nuova nel suo ardore, nuova nei suoi metodi, nuova nelle sue espressioni”. I gruppi che vi si ispirano sviluppano in genere l’annuncio e il suo valore di speranza per i poveri e per gli emarginati più che il suo contenuto; l’innegabile importanza di queste esperienze è ben espressa da una battuta di don Mazzolari che, in tempi diversi, metteva in guardia dal rischio «di morire di prudenza in un mondo che non può attendere». Tuttavia questa riscoperta della forza dell’annuncio kerygmatico, proprio perché non di rado intercetta in modo vivace la dimensione emozionale della persona, ha bisogno di essere integrata in un quadro di insieme capace di promuovere un’attenzione globale per la confessione della fede, la sua celebrazione e la sua testimonianza. Solo questo insieme introdurrà il cammino della Chiesa italiana ad una comprensione evangelica ed evangelizzante della sua fede.

Fonti e Bibl. essenziale

Il tema dei rapporti tra Chiesa e società/stato è al centro di molti studi ma non sono molti quelli che riguardano l’evangelizzazione. Qui ricordo: Cristiani d’Italia: Chiese, società, stato. 1861-2011, 3 voll., direzione scientifica di A. Melloni, Istituto dell’Enciclopedia italiana, Roma 2011; G. De Rosa – T. Gregory – A. Vauchez (eds.), Storia dell’Italia religiosa. III: L’età contemporanea, Laterza, Roma – Bari 1995; F. Traniello – G. Campanini (eds.), Dizionario storico del movimento cattolico in Italia. 1860-1980. I: I fatti e le idee. II: I protagonisti. III/1: Le figure rappresentative A-L; III/2: Le figure rappresentative M-Z; IV: Aggiornamento 1980-1995, Marietti, Torino 1981-1997; E. Guerriero (ed.), La Chiesa in Italia. Dall’Unità ai nostri giorni, San Paolo, Cinisello Balsamo 1996; G. Verucci, La Chiesa cattolica in Italia dall’Unità ad oggi. 1861-1998, Laterza, Roma – Bari 1999; N. Raponi, Cattolicesimo liberale e modernità. Figure e aspetti di storia della cultura dal Risorgimento all’età giolittiana, Morcelliana, Brescia 2002; L. Pazzaglia (a cura di), Chiesa e prospettive educative in Italia tra Restaurazione e Unificazione, Editrice La Scuola, Brescia 1994. M. Guasco, Storia del clero in Italia dall’Ottocento a oggi, Laterza, Bari 1997. Per un ulteriore approfondimento rimando ai seguenti lavori: M. Lupi, Clero italiano e cura pastorale in età contemporanea. Fonti e dibattito storiografico, «Rivista di storia della Chiesa in Italia»,60 (2006/1), 69-89; G. De Rosa – A. Cestaro (eds.), La parrocchia in Italia nell’età contemporanea, Atti del II Incontro seminariale (Maratea 24-25settembre 1979), Dehoniane, Napoli 1982; G. Biancardi, Per una storia del catechismo in epoca moderna. Temi e indicazioni bibliografiche, «Cheiron. Materiali e strumenti di aggiornamento storiografico»14 (1997), 163-233; L. Caimi, Cattolici per l’educazione. Studi su oratori e associazioni giovanili nell’Italia unita, La Scuola, Brescia 2006; L. Pazzaglia (ed.), Chiesa, cultura e educazione in Italia tra le due guerre, La Scuola, Brescia 2003; E. Franchini, Il rinnovamento della pastorale. Guida alla lettura della pastorale CEI (1970-1990), Dehoniane, Bologna 1986; G. Martina, La Chiesa italiana negli ultimi trent’anni, Studium, Roma 1977; M. Guasco, Chiesa e cattolicesimo in Italia. 1945-2000, Dehoniane, Bologna 2001; M. Rosa (ed.), Clero e società nell’Italia contemporanea, Laterza, Roma-Bari 1992.


LEMMARIO




Falzone Maria Teresa †


 





Famiglia - vol. I


Autore: Daniela Lombardi

«Tutti sanno – o credono di sapere – cos’è la famiglia. Questa è inscritta in modo talmente forte nella nostra pratica quotidiana da apparire a ciascuno di noi come un fatto naturale e, per estensione, universale». Così scrive l’antropologa Françoise Héritier alla voce Famiglia dell’Enciclopedia Einaudi. Effettivamente il bisogno di vivere sotto lo stesso tetto e formare un’unione socialmente approvata, per condividere affetti, interessi, cura ed educazione dei figli, sembra essere un fenomeno universale. Trasmettere la vita e i beni per vivere: ovunque appare come la funzione prevalente del gruppo familiare. Ma le ricerche di antropologi, storici e demografi hanno dimostrato che la famiglia ha assunto forme e funzioni variabili nel tempo e nello spazio. La sua straordinaria diversità rende dunque difficile considerarla come un fatto di natura.

La stessa definizione di famiglia cambia nel tempo e nello spazio. Nell’Europa occidentale la famiglia come gruppo di persone legate da stretti vincoli di sangue è relativamente recente: appare, sporadicamente, in qualche dizionario francese di fine Seicento, e tende ad affermarsi solo nel corso dell’Ottocento. Anche la Sacra Famiglia è stata a lungo rappresentata come famiglia allargata comprendente san Giovanni e sua madre e talvolta altri personaggi. Con significative eccezioni nell’ambito della rappresentazione figurativa: il Tondo Doni di Michelangelo è assurto a simbolo del ristretto nucleo familiare composto da genitori e figli. Ma è interessante notare che per designare questo nucleo nel Cinquecento si dovette far ricorso al termine “trinità”: una trinità in terra, parallela alla trinità in cielo (I. Noye, Famille, coll. 85-86). Le prime invocazioni e devozioni a Gesù, Maria e Giuseppe nacquero in quel periodo, ma non sotto il nome di “famiglia”. La “famiglia” di Gesù era quella composta dalle persone che vivevano attorno a lui: aveva dunque un significato di comunità, più che di nucleo familiare. Non è un caso che la diffusione degli istituti religiosi intitolati alla Sacra Famiglia risalga all’Ottocento, quando, appunto, si afferma l’accezione di famiglia come nucleo di genitori e figli.

Fino a quel secolo per famiglia si intendeva comunemente tutti coloro che vivevano sotto lo stesso tetto, compresi servitori, schiavi, garzoni: era la coresidenza, più che il legame di sangue, a definire la famiglia. Questa definizione aveva origine nel diritto romano. Il pater familias, in quanto capo della casa, esercitava la patria potestas su tutte le persone che in quella casa abitavano. Si trattava di un potere squisitamente maschile, che si tramandava di padre in figlio. La filiazione è un elemento chiave della famiglia romana (ma anche delle famiglie della maggior parte dei popoli): dato che la paternità, a differenza della maternità, non è mai certa, è necessario che, attraverso un’unione legale distinta dalle unioni occasionali, i figli siano collocati in un rapporto di paternità. Il matrimonio è l’istituzione che sancisce un rapporto di filiazione legittima e assicura il controllo sulla riproduzione dei gruppi. Il diritto romano ha puntualmente codificato l’asimmetria tra filiazione dal padre e filiazione dalla madre, definendo la prima come un “legame di diritto”, capace di assicurare la continuità della patria potestas in una linea maschile ininterrotta, superiore al “legame di natura” creato dalla maternità, che non consentiva alle donne di esercitare nessuna forma di dominio sui propri figli. Le figlie non erano escluse dall’eredità del padre, ma non potevano possedere né trasmettere la patria potestas. In età tardo-medievale le figlie hanno cominciato a perdere anche il diritto all’eredità. Gli statuti delle città comunali centro-settentrionali hanno via via inserito norme tese a rafforzare la dimensione patrilineare della parentela, a tutto svantaggio delle donne. L’esclusione dalla successione venne compensata con la dote, che i padri avevano l’obbligo di assegnare alle figlie al momento del loro matrimonio o della loro monacazione.

Questa costruzione giuridica ha avuto ripercussioni di lunghissima durata sulla cultura dell’Europa occidentale, perché ha garantito per tutta l’età medievale e moderna la trasmissione del nome e del patrimonio per linea esclusivamente maschile. Diritti e doveri patrimoniali hanno modellato e influenzato pesantemente le relazioni all’interno delle famiglie, non solo delle élites ma anche dei ceti medio-bassi.

Ciò non significa che i legami di parentela acquisiti attraverso i matrimoni delle donne (parentela cognatica) non avessero importanza rispetto alla centralità della parentela agnatica che univa i maschi di una famiglia in una linea ininterrotta. Tutt’altro. I matrimoni erano uno strumento essenziale per costruire alleanze con altre famiglie, portare la pace laddove c’era la guerra, conciliare le fazioni in lotta. La Chiesa costruì la dottrina degli impedimenti al matrimonio sulla base di questa concezione, che nel V secolo sant’Agostino aveva efficacemente sintetizzato nell’espressione matrimonium seminarium est caritatis. La legge della carità imponeva ai cristiani di stringere alleanze matrimoniali con chi non era legato loro da vincoli di parentela, per poter entrare in comunicazione con vicini che non appartenessero allo stesso sangue ed estendere il più possibile i legami di affetto e di amicizia.

Intorno al matrimonio fu quindi costruita una fitta rete di impedimenti, che non si limitava ai consanguinei, ma si allargava agli affini (imparentati dal vincolo matrimoniale) e ai parenti spirituali (legati dal vincolo di padrinaggio). A partire dal XII secolo il modello cristiano di matrimonio – monogamo, indissolubile, esogamico, fondato sul consenso degli sposi – si affermò rapidamente nell’Europa occidentale. L’inserimento tra i sette sacramenti, oltre a giustificarne l’indissolubilità, lo sottopose alla giurisdizione della Chiesa.

Proprio perché il matrimonio era un’alleanza tra famiglie e costituiva la base del vivere sociale che, attraverso il controllo della sessualità femminile, assicurava la legittimità dei figli e la trasmissione del patrimonio, non poteva essere considerato una questione privata. Sia i gruppi sociali che le autorità istituzionali avevano interesse a sottoporlo a regole.

Per lunghi secoli, nell’Europa occidentale fu la Chiesa di Roma a dettare le regole e a giudicare le controversie matrimoniali nelle aule dei suoi tribunali. Molte di queste norme rappresentarono una rottura significativa con la tradizione precedente. A cominciare dall’indissolubilità: tutte le legislazioni antiche avevano difatti ammesso il divorzio. Anche il principio consensualistico – secondo il quale bastava il consenso dei partner per rendere valido il matrimonio – che pur aveva le sue radici nel diritto romano, presentava rilevanti novità. A differenza del consenso romano, che doveva essere rinnovato continuamente per far sussistere il matrimonio, nella dottrina cristiana il consenso, una volta dato, sfugge alla volontà dei coniugi, che non possono farlo cessare. Inoltre, il loro consenso è libero da qualsiasi imposizione familiare.

Il principio consensualistico poneva tuttavia dei problemi. Dal momento che non richiedeva alcuna forma specifica di celebrazione del matrimonio, che ne garantisse la pubblicità e la conoscenza al di là della coppia, era difficile stabilire l’esistenza o meno del vincolo coniugale. In caso di contestazioni da parte di uno dei coniugi (che poteva sostenere di non aver dato il suo consenso al matrimonio, per ottenerne l’annullamento), come potevano i giudici ecclesiastici accertare la validità o nullità di un legame, se non c’erano stati testimoni al momento dello scambio del consenso? Come potevano distinguere il consenso per verba de praesenti – io ti prendo per moglie/marito – da quello per verba de futuro – io ti prenderò per moglie/marito? Secondo la dottrina elaborata dal teologo Pietro Lombardo alla metà del XII secolo, solo il consenso al presente costituiva il vincolo coniugale, sacramentale e indissolubile. La Chiesa cercò di introdurre delle misure a favore della pubblicizzazione delle nozze, ma fino al Concilio di Trento non le considerò condizioni di validità del vincolo. Quindi i matrimoni senza pubblicità – allora definiti clandestini – erano validi a tutti gli effetti.

Per cautelarsi dalle incertezze provocate dai matrimoni clandestini – che incidevano ovviamente sulle questioni di successione e legittimità dei figli – il mondo laico aveva elaborato un insieme più o meno complesso di rituali, diversi a seconda del luogo e del ceto sociale, che scandivano le varie fasi del lungo processo di formazione della coppia e ne rendevano pubblici i momenti più importanti. “Cominciare” e “finire” il matrimonio erano espressioni consuete tra i fedeli. Un momento importante del percorso matrimoniale era lo scambio della promessa, in cui i due partner – ma più frequentemente lo sposo e il padre della sposa – si promettevano di prendersi per marito e moglie e si toccavano la mano o facevano un gesto analogo in segno di conferma dell’accordo raggiunto. La promessa non era però un semplice progetto per il futuro (come sarà il fidanzamento a partire dal XIX secolo), ma molto di più: era il momento in cui si mettevano per iscritto gli scambi patrimoniali tra le due famiglie; in altre parole, in cui si stabiliva una nuova alleanza, la cui rottura avrebbe scatenato inimicizie e odi. La promessa, dunque, dava avvio a un nuovo rapporto di coppia. Il diritto canonico riconosceva esplicitamente il carattere vincolante della promessa (o sponsali): se non c’erano impedimenti al matrimonio e se era stata contratta liberamente, la promessa andava mantenuta. Poteva essere sciolta solo su autorizzazione dell’autorità ecclesiastica. Inoltre prevedeva l’istituto del matrimonium praesumptum: una promessa seguita dal rapporto sessuale faceva presumere l’esistenza di uno scambio del consenso al tempo presente e quindi si trasformava automaticamente in matrimonio. Di fatto, la distinzione tra promessa e matrimonio non era così netta come nella dottrina elaborata da Pietro Lombardo, rendendo sovente arduo il riconoscimento del vincolo coniugale indissolubile.

Nel XVI secolo, dopo la rottura dell’unità religiosa, sia i protestanti che i cattolici diedero avvio a una riforma del matrimonio per trasformarlo in un evento pubblico e sacro, celebrato in forma solenne, registrato con esattezza in modo da conservarne la memoria scritta. I padri riuniti al Concilio di Trento (1545-1563) imposero come condizione di validità del matrimonio la presenza del parroco e di due o tre testimoni. Il consenso non bastava più. Non introdussero, tuttavia, l’obbligo del consenso paterno – come fecero i protestanti – ma riaffermarono la centralità del consenso degli sposi. Di fronte alla chiesa (al suo interno solo dopo il Rituale romano del 1614), il parroco, dopo aver annunciato il matrimonio in gestazione per tre giorni festivi, durante la messa, doveva interrogare gli sposi per accertarsi del loro vicendevole consenso e pronunciare le parole Ego vos in matrimonium coniungo…, o altre simili, secondo la consuetudine del luogo. Era inoltre tenuto a registrare l’avvenuto matrimonio nel libro parrocchiale.

La celebrazione del matrimonio fu così per la prima volta interamente sottoposta alle autorità ecclesiastiche e sottratta alla gestione familiare e comunitaria. La scelta del parroco come figura di primo piano nello svolgimento della cerimonia era in linea con il suo ruolo di curatore d’anime che i decreti conciliariUomini e donne acquisirono presto la consapevolezza che, per sposarsi, era a lui che bisognava rivolgersi. Evidentemente, la nuova cerimonia rispondeva a una esigenza di certezza e stabilità che le consuetudini non riuscivano a soddisfare, soprattutto nel caso dei ceti medio-bassi, i quali non sempre disponevano di tempo e denaro sufficiente per sobbarcarsi il costo dei festeggiamenti nuziali. Per questi ceti, il fatto che il parroco, specie se di campagna, già svolgesse molteplici funzioni all’interno della comunità, grazie al suo livello di istruzione, facilitò il passaggio dai vecchi ai nuovi rituali

La dottrina che considerava ministri del matrimonio gli sposi stessi però restò in vigore. Ciò implicava che la presenza del parroco era sì necessaria, ma non erano necessarie le parole che avrebbe dovuto pronunciare. Perciò le coppie che si presentavano all’improvviso in chiesa o in sacrestia di fronte a un parroco ignaro, portandosi dietro un paio di persone come testimoni, e lì si scambiavano le parole del loro reciproco consenso, contraevano dei matrimoni a tutti gli effetti validi. Erano i cosiddetti matrimoni di sorpresa. Essi consentivano ai figli ribelli di sottrarsi alle strategie familiari e sposare la persona scelta anche se i padri si opponevano. Erano però considerati un peccato grave e potevano essere puniti per aver trasgredito gli ordini della Chiesa.

La libertà di scelta dei figli, sulla quale il decreto di riforma – noto come Tametsi dall’avverbio latino con cui iniziava – aveva posto l’accento, comportava il ridimensionamento dei poteri dei padri di famiglia, particolarmente pesanti nei confronti delle figlie, che, se di ceto elevato, erano spesso destinate a diventare spose appena adolescenti. Alcuni giudici ecclesiastici, più attenti e sensibili alle novità introdotte dal Concilio, si impegnarono a convincere giovani promesse spose ad aprire il loro animo ed esprimere liberamente la propria volontà. Una norma del diritto canonico prevedeva che il giudice dovesse interrogare in un luogo sicuro, al riparo dalle coercizioni familiari, le giovani di cui si temesse che non avessero dato il libero consenso al matrimonio. A Venezia fu applicata fin dal XV secolo (C. Cristellon, La carità e l’eros, 135-142, 168-174 ); a Firenze, gli interrogatori di queste giovani si infittiscono proprio negli anni successivi al Concilio di Trento. Per alcune di loro, che venivano temporaneamente trasferite in monastero per riflettere in solitudine, lontane dalle pressioni familiari, gli interrogatori rappresentarono uno stimolo all’introspezione e alla consapevolezza della scelta che stavano compiendo. Quelle domande incalzanti consentirono talvolta di superare paure e minacce e di scegliere autonomamente (D. Lombardi, Matrimoni di antico regime, 249-259).

Imporre una forma pubblica di celebrazione al matrimonio significava distinguerlo più chiaramente dal momento della promessa. Su questo istituto il decreto Tametsi non si pronunciò. Ciononostante la promessa continuò a rappresentare un momento cruciale della costruzione di un rapporto di coppia. Ne abbiamo una conferma dal fatto che nei tribunali diocesani la conflittualità si spostò dal matrimonio alla promessa. Prima del Concilio di Trento prevalevano le cause finalizzate a ottenere la conferma o la nullità di un matrimonio che era stato celebrato senza alcuna forma di pubblicità. Esse cominciano a diminuire dagli ultimi decenni del XVI secolo: i margini di incertezza sulla validità o nullità del vincolo si erano ridotti drasticamente, rendendo inutile il ricorso al tribunale, che ormai poteva servirsi di prove certe per stabilire se una coppia era legittimamente sposata. Aumentano, invece, le cause per ottenere l’adempimento o, più raramente, lo scioglimento della promessa di matrimonio. Uomini e donne che precedentemente avevano rivendicato lo stato di marito o di moglie, pretendendo di aver stipulato un matrimonio clandestino oppure un matrimonio presunto, nelle nuove circostanze non potevano che appellarsi a una promessa e rivendicarne il carattere vincolante nei confronti di un partner che non voleva più convolare a nozze. L’esito era però più incerto, perché non si poteva “forzarlo”, ma solo convincerlo, a mantenere la promessa data. Le donne persero così un importante strumento di tutela giuridica. Erano state soprattutto loro a utilizzare l’istituto del matrimonio presunto per regolarizzare relazioni ambigue, ottenendo di essere riconosciute come legittime spose. In alternativa, ora dovevano accontentarsi di una somma di denaro che avrebbe comunque consentito loro di sposare un altro partner. I giudici ecclesiastici preferivano difatti condannare il presunto promesso sposo a dotare la donna, se costui si ostinava a rifiutare il matrimonio. Quindi per molte donne continuò a essere vantaggioso rivolgersi al foro ecclesiastico, pur in un contesto di minore protezione giuridica.

Nei conflitti matrimoniali i tribunali diocesani dell’età moderna svolsero un ruolo importante di sostegno del genere femminile. Non è un caso che a domandare la separazione dal coniuge fossero prevalentemente le mogli. Il motivo più frequente era la violenza che erano costrette a subire dai loro mariti. Costoro si difendevano appellandosi al diritto-dovere alla correzione, che l’istituto della patria potestas riconosceva loro. Fino a che punto potesse spingersi la correzione era materia di discussione e contrattazione continua. Così come in merito al concetto di violenza (saevitiae) le interpretazioni di giudici e giuristi potevano essere più o meno restrittive. Perciò poteva essere comunque utile rivolgersi al tribunale. Nei casi meno gravi l’obiettivo non era necessariamente di giungere alla separazione, quanto di migliorare il rapporto coniugale. Ai mariti violenti i giudici chiedevano di impegnarsi a trattare bene le proprie mogli oppure imponevano un periodo di separazione che placasse rancori e dissensi. Il diritto canonico considerava la separazione come una misura temporanea finalizzata alla riunificazione della coppia. In effetti le carte processuali rivelano che nella vita di una coppia di ceto medio-basso separazioni e riconciliazioni sovente si susseguivano. In questi conflitti erano coinvolti parenti, amici, vicini, che consideravano un loro dovere quello di intervenire per mettere pace. La casa non era considerata uno spazio privato: le liti di una coppia interessavano l’intera comunità, dalle rispettive famiglie d’origine fino al vicinato, che a vario titolo intervenivano per ristabilire l’ordine. Va anche detto che, ai fini processuali, era essenziale che i conflitti coniugali fossero di pubblico dominio, perché solo le deposizioni dei vicini e dei parenti potevano corroborare le istanze di separazione.

I rapporti di parentela sono stati a lungo trascurati da storici e demografi, più interessati ad analizzare le forme della coresidenza che le reti di relazione esterne al ménage familiare. Le ricerche più recenti hanno invece documentato l’importanza che hanno avuto i legami di parentela nel determinare i modi stessi dell’abitare, che si dilatavano o si restringevano a seconda delle esigenze del ciclo di vita familiare, delle migrazioni, delle necessità lavorative, accogliendo o respingendo parenti giovani in cerca di lavoro, anziani e inabili non più in grado di lavorare, donne e bambini rimasti soli. La solidarietà nei confronti dei parenti in difficoltà non sempre però era un gesto spontaneo che scaturiva dai legami di affetto. In alcuni casi poteva essere necessario imporla. Il diritto agli alimenti previsto dal codice di Giustiniano del 529, che continuò a rappresentare un punto di riferimento in materia, obbligava i membri della parentela a provvedere ai bisogni di vedove e orfani, oltre che dei figli e dei genitori anziani. Gli obblighi dei padri nei confronti dei figli erano circoscritti ai solo legittimi. Il diritto canonico, invece, fin dal XII secolo attribuì ai padri il dovere di provvedere a tutti i figli, senza distinzioni tra legittimi e illegittimi (G. Arrivo, Legami di sangue, legami di diritto). Dal Cinquecento questo principio fu accolto anche dal diritto civile e restò in vigore fino al XIX secolo, quando i codici ottocenteschi, sul modello del codice civile di Napoleone del 1804, stabilirono una rigida demarcazione tra famiglia legittima e illegittima.

I rapporti tra Chiesa e Stati italiani furono a lungo sotto il segno della concorrenzialità. Il Concilio di Trento aveva riaffermato la giurisdizione ecclesiastica sul matrimonio, che i poteri secolari non misero in discussione, pur continuando a legiferare e giudicare sui comportamenti sessuali trasgressivi. Le cose cambiarono nel corso del XVIII secolo. Alcuni sovrani “illuminati” intervennero nel Regno di Napoli, nel Ducato di Modena, nel Regno sabaudo, nel Ducato di Milano e nel Granducato di Toscana per imporre il consenso paterno agli sponsali e ai matrimoni e, soprattutto nella Lombardia austriaca di Giuseppe II, avocare a sé alcune competenze della Chiesa in materia. La rottura, come è noto, si ebbe con la Rivoluzione francese, che introdusse il matrimonio civile, celebrato di fronte a un pubblico ufficiale, scioglibile col divorzio e sottoposto all’esclusiva competenza dello Stato. Fu il codice civile di Napoleone a esportarlo in molti paesi europei. Nonostante vi fossero stati recepiti alcuni importanti principi di uguaglianza, come quello del diritto delle figlie di succedere all’eredità paterna al pari dei fratelli, dal codice scaturiva un modello di famiglia fortemente gerarchico, in cui il capofamiglia esercitava un potere considerevole non solo sui figli, ma anche sulla moglie. Dopo la Restaurazione, a quel codice si ispirarono le legislazioni ottocentesche di numerosi Stati.

In Italia il codice Pisanelli del 1865, pur riconoscendo il carattere laico del matrimonio, riaffermò l’indissolubilità del vincolo: il divorzio venne perciò respinto. Un ampio dibattito sul divorzio precedette e seguì la promulgazione del codice. La questione del matrimonio religioso, che per il nuovo Stato unitario non aveva più alcun effetto civile, rappresentò un altro forte motivo di scontro ed ebbe ricadute significative sulla vita dei fedeli. Molti di loro continuarono a sposarsi davanti al parroco, senza preoccuparsi di contrarre il vincolo anche civilmente. Ma questi matrimoni creavano situazioni di grave incertezza giuridica, dal momento che equivalevano a delle unioni di fatto senza effetti civili ed erano facilmente scioglibili. Perciò nel mondo cattolico finirono con il prevalere le preoccupazioni per assicurare un ordinato vivere civile: fu così proibito ai parroci di celebrare un matrimonio se non c’era la prova del già avvenuto rito civile o l’assicurazione che sarebbe immediatamente seguito. Sul divorzio, invece, lo scontro perdurò a lungo.

Fonti e Bibl. essenziale

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LEMMARIO




Famiglia - vol. II


Autore: Giorgio Vecchio

Nel 1861 le famiglie italiane vivevano secondo una pluralità di strutture e di modelli, dipendenti dalle differenze tra le classi sociali, dalle condizioni di vita e dalla varietà dei contratti agrari. Esistevano famiglie nucleari urbane, borghesi o operaie, famiglie nucleari nelle campagne (i braccianti), ma anche famiglie multiple o estese (con più nuclei familiari abitanti sotto lo stesso tetto o con l’aggregazione di anziani o parenti attorno a una famiglia composta da genitori e figli), tipiche dei mezzadri e di altre categorie di salariati stabili. Parlare di un unico modello di famiglia ‘patriarcale’ è pertanto una forzatura. Mentre rimanevano diffuse condizioni coniugali e familiari dettate dalle necessità economiche, avanzava una forma nuova di vita coniugale, fondata sui valori borghesi e sulla prevalenza dell’affetto reciproco; statica era la condizione di inferiorità sociale della donna; diffuse le situazioni di prostituzione forzata o di stupri, a smentire un’idilliaca immagine della vita rurale. Gli alti tassi di natalità – con quozienti inizialmente prossimi al 40 per mille e poi sempre sopra il 30 per mille fino alla I guerra mondiale – erano compensati da un elevatissimo tasso di mortalità, superiore a quello degli altri paesi dell’Europa centro-occidentale, determinato soprattutto da una fortissima mortalità infantile (224 bambini morti nel primo anno di vita ogni mille nati vivi nel decennio 1861-1870, 214 nel successivo). Sul piano giuridico, il Co­dice Civile Pisanelli (1865) tentò un compromesso tra le tendenze più tradizionaliste e l’ere­dità lasciata dalla Rivoluzione francese, così che man­tenne per le donne l’istituto dell’autorizzazione maritale (necessaria per donare o alienare immobili, svolgere attività finanziaria o promuovere azioni giu­diziarie), mentre la patria potestà era affidata all’esercizio del marito. Discriminatorie erano anche le norme in caso di adulterio o concubinaggio. Il divorzio non era previsto e i successivi (e vani) tentativi di introdurlo suscitarono la protesta e la mobilitazione dei cattolici (progetto Villa, 1881; progetto Zanardelli-Cocco Ortu, 1902). Il Codice del 1865 fu altresì occasione di nuovi e aspri contrasti a causa della netta separazione introdotta tra matrimonio civile e religioso, ciò che imponeva ai nubendi una doppia celebrazione. In molti casi, per scelta ideale o per motivi economici, se ne scelse una sola, con il risultato che i matrimoni celebrati soltanto in Chiesa non godevano di alcun riconoscimento civile e gli eventuali figli venivano considerati dallo Stato come illegittimi. Altre conseguenze furono ca­si di bigamia contratta dagli emigranti op­pure di matrimoni soltanto reli­giosi seguiti da un matrimonio civile con un coniuge diverso. Pio IX nel 1868 condannò la «nefanda legge» e i cattolici con­seguenti giudicarono il matrimonio civile alla stregua di un mero «contratto di ac­cop­piamento». La pastorale della Chiesa dovette perciò cominciare a confrontarsi con problemi nuovi, spesso irrisolvibili stante la rottura con lo Stato italiano. Il 18 febbraio 1880 Leone XIII pubblicò l’enciclica Arcanum sul matrimonio cri­stiano, che confermò che lo scopo del matrimonio era quello di «propagare il genere uma­no» e di «generare figli alla Chiesa» e che i rapporti tra i coniugi dovevano es­sere governati dalla logica espressa da S. Paolo, con la preminenza del­l’au­torità maritale, pur sorretta e corretta dalla carità. Era ribadita la tesi del potere prioritario della Chie­sa nella regolazione del matri­monio, a causa della sua origine divina e dei suoi connotati sacramentali, con l’ovvia condanna sia del ma­trimonio civile sia del divorzio. Lo sviluppo del movimento cattolico nell’ultimo ventennio del XIX secolo e agli inizi del XX contemplava intanto anche iniziative in favore della famiglia, per lo più con finalità religiose (diffusione del culto di Maria, di S. Giuseppe e della Sacra Famiglia) e sociali (cooperazione, assistenza agli emigranti, leghe di Padri di famiglia, ecc.).

Il regime fascista viene spesso ricordato per le sue misure di politica familiare, dipendenti dalla volontà imperiale di Mussolini. Dopo aver introdotto nel 1925 l’Opera Na­zionale Mater­­nità e Infanzia (ONMI), il 26 maggio 1927 il Duce pronunciò il noto discorso «del­l’Ascensione», con il quale lanciò la campagna demografica e introdusse concrete misure economiche e assistenziali, il cui possibile effetto fu tuttavia vanificato dalla grande crisi del 1929 e degli anni seguenti. Nel 1934 furono introdotti gli assegni familiari per le famiglie con almeno due figli; l’anno successivo furono attribuiti anche ai lavoratori con un solo figlio; nel 1939 furono raddoppiati come entità moneta­ria e dati anche a fa­vore della moglie e dei genitori a carico. Tra le altre misure si ebbero la tassa per i celibi (dal 1927), le ri­duzioni ferroviarie per i viaggi di nozze, i premi per la nuzialità e la natalità, i privile­gi per i coniugati con prole e i vari sussidi alle famiglie nu­me­rose. Il decreto 21 agosto 1937 n. 1542 stabilì la concessione di pre­stiti per favorire le nozze; esenzioni e de­trazioni fiscali per le fa­mi­glie nu­merose; agevolazioni nella carriera e varie priorità per l’ottenimento di pre­stiti e abitazione per i dipendenti pubblici più pro­lifici e infine norme per tutelare le don­ne lavoratri­ci in caso di gravi­danza e parto. Gli effetti complessivi di tutte queste misure furono alquanto modesti, considerato che tra il 1926 ed il 1940 il tasso di nuzialità rimase attorno al 7-7,5 per mille, mentre il quo­ziente di natalità decrebbe regolarmente, passando dal 27,7 per mille del 1926 al 24,9 del 1931, al 23 per mille circa degli anni succes­sivi. Il numero me­dio di com­ponenti per famiglia diminuì: esso era nel 1901 di 4,5, nel 1921 di 4,4, nel 1931 di 4,2 ed infine nel 1951 esso scese ancora al 4,0. La politica demografica fu accompagnata dall’introduzione di nuove regole sul matrimonio, perché l’art. 34 del Concordato del 1929 riconobbe gli effetti civili del matrimonio religioso, stabilì la competenza esclusiva dei tribunali ecclesiastici per i casi di nullità e lasciò allo Stato soltanto il giudizio sulle cause di separazione dei co­niugi. Il Codice Penale del 1930 catalogò la violenza carnale e gli atti di libidine tra i reati contro la moralità pubblica e il buon costume (e non contro la persona); l’aborto fu giudi­cato reato «contro la integrità e la sani­tà della stirpe», capi­tolo che colpiva anche la propa­ganda a favore delle pra­tiche contro la pro­creazione. Nel complesso il fascismo agì seguendo una concezione alquanto restrittiva e tradizionalista del ruolo pubblico della donna, dando spazio a visioni misogene e repressive, anche se non mancarono spinte di segno opposto come la sollecitazione allo sport femminile, che in più di un caso fu avversato dalla Chiesa. In definitiva tra le due guerre l’unico progresso per la donna fu la cancellazione della norma sull’autorizzazione maritale (1919), aprendole l’accesso alle libere professioni ed alla maggior parte dei pub­blici impieghi (strada poi in molti casi richiusa dal fascismo). Tra Chiesa e Stato fascista, nel complesso, fu ampio il consenso in materia di politica familiare, proprio perché analoghe risultavano le preoccupazioni in materia di tutela del compito materno della donna e della natalità. Comune era anche la diffidenza verso il lavoro extracasalingo della donna.

La complessiva visione della Chiesa cattolica su questi temi fu ripresa e aggiornata da Pio XI con la sua enciclica Casti Connubii (31 dicembre 1930). Essa riconfermò che il fine primario del matrimonio era la procreazione e l’educazione cristiana dei figli, mentre soltanto bene secondario era la «vi­cen­devole fedeltà dei coniugi nell’a­dem­pimento del contratto matrimoniale». Ulteriori beni «secondari» erano ritenuti «il mu­tuo aiuto e l’affetto vicen­de­vole e la quiete del­la con­cu­pi­scenza». La preoc­­cu­pa­zione per l’«ordine» della famiglia spinse a ufficia­lizzare la superiorità del marito sulla moglie e sui figli. Complessivamente la pastorale non produsse però in quegli anni particolari innovazioni nel campo della famiglia, anche perché restava assente ogni considerazione della coppia in quanto tale. Si era di fronte a un’e­ducazione in­dividualistica, nella quale il matrimonio era conside­rato come fatto religioso e so­ciale, più che esperienza affettiva e coniugale.

La tumultuosa e inattesa ripresa economica dell’Italia dopo il disastro della II guerra mondiale, culminata nel ‘boom’ del periodo 1958-1963, ebbe importanti conseguenze sulla vita delle famiglie. Alcune tendenze si rivelarono sempre più chiare, soprattutto nel proseguimento della caduta del tasso di natalità (malgrado una significativa ripresa proprio negli anni del ‘boom’). Soprattutto, però, il decennio ’50 sancì il passaggio definitivo dall’Italia contadina a quella industriale, cosa che comportò un esodo massiccio dalle campagne e dalle regioni povere verso le città, un rapido mutamento di costumi, nonché l’avvio della riconsiderazione del ruolo della donna. Il sogno di avere una famiglia numerosa, se mai era esistito, finì nel dimenticatoio. La televisione, dal 1954, mutò in modo radicale le aspettative delle persone: più che il comunismo, sarebbe stato il consumismo il vero nemico della pastorale tradizionale della Chiesa. Negli anni ‘50 apparvero infatti i primi segnali di difficoltà, malgrado l’apparente successo della Chiesa appoggiata dal predominio della DC. La pastorale familiare cominciò ad apparire inadeguata in quanto legata a una predominante preoccupazione giuridica, morale o moralistica e a un’insuf­fi­cien­te valutazione delle attese profonde di uomini e donne. La secolarizzazione incipiente provocava soltanto reazioni di condanna, come nel clamoroso caso del processo al vescovo di Prato, mons. Fiordelli, che aveva tacciato di concubinaggio due giovani sposatisi solo civilmente (1958). Sollecitazioni per un cambiamento di prospettiva vennero in quegli anni dai primi gruppi di spiritualità coniugale, spesso di matrice francese (Équipes Notre Dame). In Italia si mostrarono sensibili al tema mons. Carlo Colombo e mons Antonio Corti a Milano, don Giovanni Rossi ad Assisi, nonché il Movimento Laureati di Azione Cattolica. Da non dimenticare il testo di Carlo Carretto, Famiglia piccola Chiesa (1949), peraltro fatto allora riprovato dalla Chiesa. Nel 1958 iniziarono le pubblicazioni del «Notiziario per i gruppi di spiritualità familiare». Desiderio di tutti era quello di riscoprire il significato sacramentale del matrimonio e di conseguenza di valorizzare la presenza dei coniugi nella Chiesa e nella società. Il Concilio Vaticano II riconobbe queste esigenze, specialmente con la definizione della famiglia come «Chiesa domestica». Il graduale rinnovamento della pastorale familiare, frutto del lavoro dei pionieri e dell’insegnamento del Concilio, produsse nel corso degli anni ’60 e ’70 significativi effetti, che riguardarono un po’ tutti i settori, secondo lo slogan della trasformazione della famiglia da ‘oggetto’ a ‘soggetto’ della pastorale. Ne guadagnarono la riflessione teologica (fino alla discussione sul cd. ‘ministero coniugale’), la catechesi e lo sforzo per aggiornare la morale sessuale: nei vari ambiti si distinsero T. Goffi, G. Pattaro, G. Piana, P. Scabini, D. Tettamanzi, e poi ancora G. Fregni, oltre a laici come i coniugi Gianna Agostinucci e Giorgio Campanini. Si introdussero o potenziarono i corsi di preparazione al matrimonio, i sostegni ai gruppi familiari, e si insistette sulla spiritualità coniugale e così via. Al matrimonio e alla famiglia si dedicarono associazioni come l’Azione Cattolica e movimenti come quello dei Focolari (specie con I. Giordani). Altri contributi, su terreni diversi, vennero dai Centri di Pre­parazione al Matrimonio, dall’Istituto La Casa di Milano (don P. Liggeri), dall’Unione Consultori Italiani Prematrimoniali e Ma­trimoniali (Ucipem), poi dalla Confederazione Italiana dei Consultori familiari di ispirazione cristiana, 1978) e dal Cisf (Centro internazionale studi famiglia, 1973), quest’ultimo voluto da don G. Zilli e animato da p. Ch. Vella. Dal 1975, inoltre, agì il Movimento per la Vita, fondato da C. Casini con lo scopo di tutelare la vita umana fin dal concepimento, in diretta polemica con la mentalità e poi la legislazione abortista.

Questo proliferare di iniziative rispondeva a una duplice sollecitazione dei tempi e non soltanto allo stimolo conciliare. Anzitutto va ricordato il rapido mutamento normativo in atto in Italia: dapprima l’introduzione della nuova disciplina divorzista sui casi di scioglimento del matrimonio (legge del 1° dicem­bre 1970 n. 898, poi modificata con la legge 6 marzo 1987 n. 74); poi la sentenza della Corte Costituzionale del 16 marzo 1971 con la quale venne dichiarato inco­sti­tuzionale l’art. 553 del codice pe­nale che puniva «chiunque pubbli­ca­men­te incita a pratiche contro la pro­crea­zione o fa propaganda a favore di esse»; di seguito il varo del nuo­vo di­ritto di famiglia (legge 19 maggio 1975, n. 151), l’istituzione dei consultori pubblici (legge 29 lu­glio 1975, n. 405), e infine la legislazione favo­revole all’aborto (leg­ge 22 maggio 1978, n. 194, «Norme per la tutela sociale della ma­ternità e sul­­l’in­­terruzione volontaria della gravidanza»), nonché le nuove nor­me regolanti gli istituti del­l’af­fi­do e dell’a­dozione (legge 4 maggio 1983 n. 184). Le due principali leggi qui citate, ovvero quella sul divorzio e quella sull’aborto, furono entrambe sottoposte a referendum popolare, chiesto a gran voce dalla Chiesa cattolica. Nel primo caso, dopo un iter particolarmente tortuoso e dopo un serrato confronto interno allo stesso mondo cattolico (con il dubbio posto, da una parte, sulla liceità di imporre i convincimenti religiosi sull’indissolubilità anche tramite la legislazione civile, e, dall’altra, con la sottolineatura degli effetti socio-culturali negativi della diffusione del divorzio), si giunse al voto del 12-13 maggio 1974, con un’inequivocabile vittoria del ‘no’ all’abrogazione della legge (59,3%). Anche nel secondo caso, quello della normativa abortista, i ‘no’ prevalsero largamente nel referendum del 17-18 maggio 1981 (68%). Il voto del 1974 fu particolarmente traumatico per la Chiesa, nella quale la gerarchia era ancora convinta del radicamento dei valori cristiani nella società italiana.

Una seconda sollecitazione arrivò dallo stesso magistero pontificio ed episcopale: basti qui citare, in successione temporale, l’enciclica di Paolo VI, Humanae Vitae sulla regolazione della natalità (25 lu­glio 1968), i documenti della CEI, Ma­trimonio e famiglia oggi in Italia (15 novembre 1969), ed Evangelizzazione e sacra­mento del matrimonio (20 giugno 1975), oltre al documento preparatorio del Sinodo del 1980, su I compiti della famiglia cristiana nel mondo contemporaneo, cui fece seguito l’esortazione apostolica di Giovanni Paolo II, Familiaris Consortio (22 novembre 1981). Sempre per quanto riguarda la Chiesa italiana, va ricordata la pubblicazione del Direttorio liturgico-pastorale per l’uso del Rituale dei Sacramenti e dei Sacramentali (27 giugno 1967) e del Sacramento del matrimonio (30 marzo 1975).

Il difficile sforzo di adeguamento e rinnovamento della pastorale familiare cominciò a portare frutti negli anni ’70 e ’80, ma dovette essere presto rilanciato in seguito ai grandi mutamenti intervenuti nell’ultimo decennio del sec. XX e nel primo del sec. XXI. Questi furono resi evidenti anzitutto dalle statistiche: a) la nuzialità che negli anni ’80 si era attestata su quozienti del 5,2-5,3 per mille, crollò sotto il 5 mille nel 1995 e scese fino al 3,8 del 2009; b) la parallela crescita di separazioni e divorzi (oltre 84.000 separazioni e quasi 54.000 divorzi nel 2008); i divorzi, in particolare, salirono dal 1995 al 2008 dalla cifra di 79,7 a 178,8 ogni 1000 matrimoni; c) la crescita impetuosa dei matrimoni civili – ormai oltre il 50% del totale nelle grandi città –, determinati da fattori quali la secolarizzazione, il matrimonio dei divorziati e l’apporto della popolazione immigrata di altra religione; d) l’aumento delle convivenze, sia di tipo pre-matrimoniale sia con carattere permanente (confermato dall’andamento delle nascite ’naturali’: il 13,7% sul totale dei nati nel 2003; il 22,2% nel 2008); e) il perdurare della stagnazione delle natalità, con quozienti arrivati al minimo storico nel 1995 (9,1 nascite per mille abitanti) e risaliti leggermente in seguito solo grazie alla maggiore fecondità delle donne immigrate. Oltre ai dati statistici, tuttavia, la famiglia italiana venne investita da quesiti ben più radicali, riguardanti la sua stessa fisionomia e, in definitiva, la concezione della famiglia e della coppia.

Le linee complessive scelte dal presidente della CEI card. Camillo Ruini, che si erano già indirizzate, soprattutto dopo la scomparsa della DC, verso una maggiore presenza pubblica della Chiesa, privilegiarono le iniziative volte a fare pressione sul governo e sul Parlamento in modo da incidere sulle scelte legislative. Minor attenzione fu riservata alla vera e propria pastorale familiare, pur se si arrivò a una sorta di riordino e di canonizzazione con il Direttorio di pastorale familiare per la Chiesa in Italia (1993). Molto sostegno fu dato al Forum delle associazioni familiari, costituito nel 1992, con l’obiettivo di portare all’attenzione del dibattito culturale e politico italiano la famiglia come soggetto sociale. Esso si rivelò incisivo sui fronti della bioetica, della normativa sull’aborto e l’eutanasia e sulla questione delle ‘coppie di fatto’. In questo caso, infatti, per ovviare alla vasta casistica sorta con la diffusione delle convivenze, fossero esse eterosessuali o omosessuali, il governo Prodi presentò nel 2007 un progetto di legge, ribattezzato ‘DICO’ (da ‘DIritti e doveri delle persone stabilmente COnviventi’). Contro questo progetto si ebbero vivaci attacchi polemici da parte della Chiesa – ostile a ogni pur parziale parificazione tra matrimonio e convivenze -, culminati il 12 maggio 2007 con la manifestazione del ‘Family Day’. In precedenza si era avuto un altro durissimo scontro avvenuto in occasione del referendum del 13-14 giugno 2005 sulla legge che regolamentava la procreazione assistita, allorché il card. Ruini aveva invitato con successo all’astensionismo allo scopo di favorire il mantenimento della legge approvata dalla maggioranza di centro-destra. Forte, ma molto meno ascoltata, fu invece l’invocazione del Forum per introdurre una diversa politica per la famiglia, soprattutto tramite la considerazione dei carichi familiari da parte della normativa fiscale.

Fonti e Bibl. essenziale

M. Barbagli, Sotto lo stesso tetto. Mutamenti della famiglia in Italia, Il Mulino, Bologna 1988; Id., Provando e riprovando. Matrimonio, famiglia e divorzio in Italia, Il Mulino, Bologna 1990; CISF, Le stagioni della famiglia, a cura di G. Campanini, San Paolo, Cinisello Balsamo, 1994; C. Dau Novelli, Famiglia e modernizzazione in Italia tra le due guerre, Studium, Roma 1994; Chiesa e famiglia in Europa, a cura di A. Caprioli e L. Vaccaro, Morcelliana, Brescia 1995; G. Vecchio, Profilo storico della famiglia. La famiglia italiana tra Ottocento e Novecento, Edizioni S. Paolo, Cinisello Balsamo, 1999; D. De Vigili, La battaglia sul divorzio. Dalla Costituente al Referendum, Franco Angeli, Milano 1999; La pastorale familiare in Italia. Una ricerca nazionale a dieci anni dal direttorio di pastorale familiare, a cura di P. Boffi, Edizioni San Paolo, Cinisello Balsamo 2005; G. Scirè, Il divorzio in Italia. Partiti, Chiesa, società civile dalla legge al referendum (1965-1974), Bruno Mondadori, Milano 2007; G. Campanini, Famiglia, storia, società. Studi e ricerche, Studium, Roma 2008; Istat, Famiglia in cifre, Dossier presentato alla Conferenza Nazionale delle Famiglie, Milano, 8-10 novembre 2010, a cura di L.L. Sabbadini, M.C. Romano, R. Crialesi (in https://www.istat.it/it/archivio/40640); G. Vecchio, Matrimonio, famiglia e pastorale familiare in Italia. Trasformazioni sociali e attuazione del Concilio, in Da Montini a Martini: il Vaticano II a Milano. II. Le pratiche, a cura di G. Routhier, L. Bressan, L. Vaccaro, Morcelliana, Brescia, 2016, pp. 341-376.


LEMMARIO




Fantappiè Carlo


È professore ordinario di Diritto canonico presso il Dipartimento di Giurisprudenza dell’Università Roma Tre e professore invitato di Storia del diritto canonico presso la Pontificia Università Gregoriana. Ha compiuto indagini sulla storia delle istituzioni ecclesiastiche secolari e regolari, sulla storia del diritto canonico ed ecclesiastico, sul rapporto tra chiesa cattolica e modernizzazione giuridica.





Fascismo (1919-1931) - vol. II


Autore: Alberto Guasco

La prima fase dei rapporti tra chiesa cattolica e fascismo coincise con il secondo quadriennio del pontificato di Benedetto XV (1919-1922), segnato da un lato dal progressivo miglioramento delle relazioni tra chiesa cattolica e stato liberale e dall’altro dall’inversione di marcia in materia di politica ecclesiastica consumata da Mussolini tra il 1919 e il 1921.

Negli anni compresi tra la fondazione dei Fasci di combattimento e l’ascesa del nuovo movimento fino alla conquista del potere, il bagaglio ideologico del Mussolini socialista anticlericale lasciò spazio al progressivo abbandono d’ogni pregiudiziale antireligiosa, fino al completo rovesciamento di posizioni in materia. Mussolini lo esplicitò il 21 giugno 1921, durante il suo primo discorso alla Camera: “La tradizione latina e imperiale di Roma è oggi rappresentata dal cattolicismo. Se… non si resta a Roma senza una idea universale, io penso e affermo che l’unica idea universale che oggi esista a Roma, è quella che s’irradia dal Vaticano”. “Rancoroso e ostile al cattolicesimo” – come notava Jemolo – Mussolini aveva compreso la necessità di renderlo “alleato e … instrumentum regni”, abbinando a tale convinzione l’attacco diretto al Partito popolare di Sturzo, condotto nel tentativo di spaccarlo e di sostituirsi ad esso come interlocutore politico privilegiato della Santa Sede. Il leader fascista intercettava in tal modo gli umori di quei settori del mondo cattolico che – in Vaticano, nell’Azione Cattolica e nel PPI stesso – non condividevano i cardini programmatici del progetto sturziano, dalla forma aconfessionale alla natura dei rapporti con le altre forze politiche e con la Santa Sede stessa, e ritenevano che nei suoi pochi anni di vita il PPI si fosse trasformato da forza d’argine contro la modernità a una forza imbevuta di “pericoloso modernismo morale”.

Otto mesi dopo l’ascesa al soglio pontificio di Pio XI, all’indomani della marcia su Roma, in San Pietro si nutrivano riguardo al fascismo considerazioni differenti. Da un lato, alla pari del liberalismo e del socialismo, lo si riteneva figlio della modernità e della catena di errori prodotti dalla rivoluzione francese, apostasia frutto della secolarizzazione del mondo moderno. Dall’altro, lo si reputava nemico dei nemici – socialisti, liberali o massoni – e si riteneva che la sua non programmatica professione d’irreligiosità potesse rivelarsi alleata nel progetto di ricristianizzazione della società posto alla base del programma pontificale di papa Ratti. La Santa Sede tanto accolse il primo governo Mussolini con « benevolo riserbo » quanto con prudenza il fascismo, un movimento dedito alla violenza di mestiere, ideologicamente neutro ma con componenti interne in odore di anticlericalismo e massoneria, privo di scrupoli a mescolare simbologie politiche e religiose, teologicamente a rischio per il suo “nazionalismo immoderato”. Alle prudenze di papa Ratti e del segretario di stato Gasparri fecero però da contraltare gli atteggiamenti ben più espliciti di diversi porporati (i cardinali Pompilj e Vannutelli) o del sostituto alla segreteria di stato Pizzardo. Stante l’ufficiale agnosticismo ecclesiastico in materia politica, Pio XI e Gasparri decisero di mettere il governo alla prova, per verificarne la stabilità e il tipo di politica religiosa adottata, vincolando a quest’ultima un giudizio definitivo sul fascismo intero.

Con Mussolini a capo d’un governo nato da un colpo di stato legittimato dal re, d’una coalizione di forze comprensiva di alleati per lui scomodi come i popolari, costretto a bilanciare le diverse spinte interne al PNF – da un lato i favorevoli a un suo approdo costituzionale, dall’altro i sostenitori della seconda ondata e della fascistizzazione integrale del paese – quelle linee vennero discusse nel corso d’un incontro segreto tra Mussolini e Gasparri nel gennaio 1923. Non ne sortirono trattative concordatarie, ma un nuovo canale ufficioso di contatti (padre Tacchi Venturi) e la prosecuzione della “politica d’attenzioni” già adottata da Mussolini in materia ecclesiastica: si trattò di provvedimenti disorganici, in cui rientrarono gesti simbolici (il crocifisso reintrodotto nelle aule scolastiche), cortesie (il dono della biblioteca Chigiana a quella Vaticana) e disposizioni legislative di varia natura, nel campo dell’istruzione (la riforma Gentile) e dell’edilizia sacra, in materia militare (la reintroduzione dei cappellani militari all’interno delle forze armate) e civile (il riconoscimento in calendario di diverse feste religiose), in campo politico (la lotta contro la massoneria) ed economico (l’aumento della congrua al clero).

Tuttavia, i provvedimenti di favore varati dal governo viaggiarono di pari passo – come era stato fin dal 1921 – alla violenza con cui, in periferia, i fascisti investirono le parrocchie, le sedi dell’AC, i circoli popolari e le leghe bianche: fu un doppio binario sul quale Mussolini agì spregiudicatamente, ora presentandosi come l’uomo in grado di moderare quelle violenze, ora come l’uomo che non avrebbe fatto nulla per impedirle. Le relazioni giunte a Roma da numerose diocesi di provincia danno un quadro chiaro della morsa che si strinse intorno alle organizzazioni ecclesiali, arma potentissima di ricatto in mano a Mussolini, in particolare durante la vicenda del dimissionamento di Sturzo dalla segreteria del PPI del giugno-luglio 1923, durante il dibattito sul progetto di legge Acerbo.

Dopo l’approvazione della legge, in vista delle elezioni dell’aprile 1924 la Santa Sede seguì la campagna elettorale ribadendo la sua assoluta professione di apoliticità, da un lato nella certezza d’una vittoria fascista – pena la guerra civile in Italia – dall’altro nella speranza d’una leadership di minoranza da parte dei popolari, a controbilanciare il fascismo vittorioso. Fu un atteggiamento timoroso quanto improduttivo, che non servì a porre al riparo il clero e l’associazionismo cattolico dalla campagna di violenze che caratterizzò il periodo pre e post elettorale. Altrettanto cauta fu la posizione della Santa Sede durante la crisi Matteotti, essenzialmente motivata dal timore che il rovesciamento del governo a seguito del delitto del deputato socialista unitario avrebbe comportato una riaffermazione del fascismo in forma ancor più violenta e radicale. Ugualmente il Vaticano si oppose a un esito potenzialmente rivoluzionario della crisi, sconfessando – tra agosto e settembre del 1924 – per bocca de “La Civiltà Cattolica” e di Pio XI stesso, il progetto di alleanza tra socialisti e popolari proposto da De Gasperi e Turati. Inoltre, di fronte alla possibilità di nuove elezioni, la Santa Sede strinse ancor più i ranghi del clero, ribadendo ai sacerdoti l’ordine d’astenersi da ogni competizione politica, richiedendo al clero e al laicato un impegno esclusivamente religioso e – anche considerando le minacce alla sua vita – facendo allontanare don Sturzo dall’Italia.

I cardini del progetto ecclesiale di Pio XI – l’abbandono del campo politico a favore di un “arroccamento confessionale”, l’intenzione di permeare la società attraverso l’Azione Cattolica, “pupilla degli occhi” del pontefice, apolitica, confessionale e dipendente dalla gerarchia, la Santa Sede e non i partiti quale protagonista diretta del rapporto con gli stati – come la definitiva liquidazione delle opposizioni e dello stato liberale operata da Mussolini nel 1925-1926 aprirono una nuova fase anche nei rapporti tra chiesa cattolica e governo fascista, sufficientemente forte e stabile per mettere sul tappeto la soluzione della questione romana.

Una soluzione che il pontefice reputava necessaria per chiudere la ferita aperta dal 1870, ma che avrebbe accettato solo su un piano di parità, non come concessione unilaterale da parte dello stato. Per tali ragioni – come spiegò nella lettera indirizzata a Gasparri il 18 febbraio 1926 – rifiutò le conclusioni della riforma della legislazione ecclesiastica cui era giunta alla fine del 1925, dopo un iter iniziato fin dal 1923, la commissione presieduta da Rocco: “Nessuna conveniente trattativa, nessun legittimo accordo ha avuto luogo né poteva, o potrà luogo avere finché duri la iniqua condizione fatta alla Santa Sede ed al Romano Pontefice”. Mussolini comprese perfettamente la presa di posizione del pontefice, e illustrando a Rocco la necessità di “meditare alquanto sul programma di politica ecclesiastica” lasciò cadere il progetto di riforma per procedere a trattative bilaterali.

Dall’estate del 1926, quando furono avviate, a quella del 1931, quando si consumò la crisi di Azione Cattolica, il cammino della conciliazione si prolungò tra progressi e interruzioni di trattative che evidenziarono chiaramente come il nodo in questione avesse in realtà riflessi e ricadute molto più ampie rispetto ai soli aspetti diplomatici. I primi contatti passarono dunque attraverso alla frenata imposta dall’attentato a Mussolini del 31 ottobre 1926 e alle susseguenti rappresaglie fasciste, anche contro i cattolici – a loro volta da inquadrarsi nel più vasto mare delle leggi liberticide approntate da Rocco – prima di approdare a un accordo sullo schema del Trattato e passare a discutere di Concordato. Proseguirono a singhiozzo tra il 1927 e il 1928, aggrovigliandosi sul nodo della formazione dei giovani, cioè sul decreto che modificava le norme istitutive dell’Opera Nazionale Balilla e vietava o minacciava l’esistenza degli esploratori cattolici legati all’AC, a cui Pio XI reagì con la sospensione delle trattative, che faticosamente arrivarono a elaborare lo schema di Trattato e Concordato. Fino a che, nel novembre del 1928 il re e il papa incaricano Mussolini e Gasparri di aprire e chiudere le trattative ufficiali, culminate – l’11 febbraio 1929 – nella firma dei Patti Lateranensi.

Accolta con grande clamore propagandistico, la firma dei Patti non costituì l’inizio di relazioni idilliache, ma di una nuova fase di rapporti che la storiografia ha voluto chiamare “una pace armata”. L’allacciamento di rapporti ufficiali fu dunque segnato da un crescendo di polemiche culminate, il 13 maggio del 1929, nell’aggressivo discorso di Mussolini, pronunciato a conclusione della discussione alla Camera sugli Accordi del Laterano (“nello Stato la Chiesa non è sovrana e non è nemmeno libera”) e della replica del pontefice, consegnata al chirografo indirizzato a Gasparri, fermo sulla linea dell’accordo siglato, stante il rispetto congiunto del Trattato e del Concordato (“simul stabunt oppure simul cadent”), stanti cioè i diritti inalienabili della Santa Sede.

Le contese – in un quadro generale di buone relazioni – riguardarono soprattutto e ancora una volta la questione dell’educazione della gioventù e il ruolo dell’Azione Cattolica. La crisi del 1931 e la sua ricomposizione mediata da Tacchi Venturi – la “riconciliazione della conciliazione” la chiamò Mussolini – fece cadere le ultime illusioni di Pio XI riguardo alla possibilità d’avere il fascismo al proprio fianco del progetto ierocratico portato avanti dal suo magistero. E proprio nel momento in cui le relazioni con il regime sembravano normalizzarsi, la chiesa imboccava il tornante degli anni Trenta, quello del confronto con il fascismo totalitario e con l’Europa dei totalitarismi trionfanti.

Fonti e Bibl. essenziale

R. De Felice, Mussolini, Torino, Einaudi, 1966-1997; L. Ceci, L’interesse superiore. Il Vaticano e l’Italia di Mussolini, Laterza, Roma-Bari 2013; G. De Rosa, Storia del Partito popolare, Laterza, Bari 1958; E. Fattorini, Pio XI, Hitler e Mussolini. La solitudine di un papa, Einaudi, Torino 2007; E. Gentile, Il culto del littorio, Roma-Bari, Laterza 1993; A. Guasco, Cattolici e fascisti. La Santa Sede e la politica italiana all’alba del regime, Il Mulino, Bologna 2013; A.C. Jemolo, Chiesa e stato in Italia negli ultimi cento anni, Einaudi, Torino 1948; F. Margiotta Broglio, Italia e Santa Sede dalla Grande guerra alla Conciliazione. Aspetti politici e giuridici, Laterza, Bari 1966; P. Pecorari, a cura di, Chiesa, Azione Cattolica e fascismo nell’Italia settentrionale durante il pontificato di Pio XI (1922-1939) Atti del V Convegno di storia della Chiesa, (Torreggia 25-27 marzo 1977), Vita e Pensiero, Milano 1979; P. Pennacchini, La Santa Sede e il fascismo in conflitto per l’Azione cattolica, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 2012; S. Rogari, Santa Sede e fascismo dall’Aventino ai Patti Lateranensi. Con documenti inediti, Forni, Bologna 1977; G. Sale, Popolari, chierici e camerati, 1. Popolari e destra cattolica al tempo di Benedetto XV, Jaca Book, Milano 2006; G. Sale, Popolari, chierici e camerati, 2. Fascismo e Vaticano prima della Conciliazione, Jaca Book, Milano 2007; P. Scoppola, La Chiesa e il fascismo. Documenti e interpretazioni, Laterza, Roma-Bari 1971.


LEMMARIO




Feliciani Giorgio


 





Ferri Giacomo


Dottorando della Facoltà di Storia e Beni Culturali della Chiesa della Pontificia Università Gregoriana




Feudalità ecclesiastica - vol. I


Autore: Tommaso di Carpegna

A questo concetto è possibile attribuire un duplice significato. Da una parte, la feudalità ecclesiastica comprende il novero di quei più o meno grandi signori territoriali (vescovati, monasteri, canoniche) che derivavano parte del loro potere e delle loro giurisdizioni pubbliche dalla fedeltà vassallatica giurata al sovrano in quanto loro signore feudale (in tempi e luoghi differenti l’imperatore e re del regno italico, il pontefice romano, il re di Sicilia). Dall’altra parte, il medesimo concetto comprende anche il vastissimo ambito di coloro che – laici o ecclesiastici – si qualificavano a loro volta come vassalli di signori ecclesiastici: come per esempio i detentori di diritti sulle pievi o su altri enti, le clientele armate ovvero i milites dei monasteri e dei vescovati. Il sistema vassallatico-beneficiale, clientelare e del dominio fondiario e signorile viene spesso interpretato in senso omnicomprensivo come “feudale”, ma in realtà esso va riferito a quadri molto più articolati, non organici e non omogenei, mancando, fino all’inoltrato XII secolo, una nozione chiara e finanche l’esistenza di un vero e proprio “sistema feudale” (ovvero, come si sarebbe detto nell’Ottocento, di una “piramide feudale”). Il vassallo ecclesiastico di un sovrano, così come il vassallo di un signore ecclesiastico, non erano sostanzialmente differenti rispetto alla controparte puramente “laica” e svilupparono forme analoghe di dominio e controllo del territorio e degli uomini che lo abitavano. Tuttavia, la realtà italiana pone soprattutto il caso dei vescovi in una prospettiva peculiare. Ciò accade innanzitutto per una ragione di ordine istituzionale, in quanto i vescovi erano già stati investiti, in età basso-imperiale, di una pubblica autorità che poteva affiancarsi e che poi andò sostituendosi a quella dei magistrati imperiali. In secondo luogo, i vescovi italiani esercitavano forme di dominio su sistemi abitativi di tipo urbano, i quali, mantenendosi in Italia, mancano invece in gran parte del resto dell’Europa altomedievale. Dunque il vescovo italiano, pur essendo anche un funzionario regio o imperiale e pur derivando parte della propria autorità dalla relazione con il sovrano, ebbe sempre la città come centro direzionale e i cittadini – che lo eleggevano e i cui ottimati costituivano la sua clientela – come suoi referenti obbligati. Di converso e di conseguenza, i vassalli vescovili potevano essere non solo i signori del territorio circostante, ma anche i cittadini: specchio di una realtà socio-politica che in Italia rimase sempre complessa e non inquadrabile in modo semplicistico, anche riguardo al vincolo feudale, nel rapporto città-campagna ipostatizzato come carattere fondamentale del medioevo europeo.

È quasi impossibile proporre un elenco anche solo approssimativo degli enti ecclesiastici che, nel corso del medioevo, esercitarono il potere pubblico in Italia e intrattennero vincoli vassallatici ascendenti – con i sovrani – e discendenti, con i loro fideles. Infatti, praticamente ogni ente ecclesiastico medievale provvisto di beni fondiari ebbe giurisdizione temporale – spesso ma non sempre delegata dal potere sovrano – e si servì a sua volta del sistema della concessione di benefici per amministrare e governare i propri domini. È tuttavia certo che il grado di incidenza di questi enti nel quadro della gestione del potere in Italia fu analogo a quanto accade di riscontrare nella rimanente Europa, sebbene l’estensione molto ridotta delle diocesi dell’Italia meridionale rendesse il potere di quei vescovi in genere meno forte rispetto a quanto accadeva nel nord della penisola. Grandissimi signori territoriali furono l’arcivescovo di Milano, forse il principale di tutta l’Italia settentrionale; l’arcivescovo di Ravenna, il quale fondava la propria autorità nella successione dall’esarca bizantino; il vescovo di Roma, che costruì un vero e proprio stato sovrano durato fino al 1870 e che in una fase matura fu signore feudale (almeno nominalmente) di una lunga serie di regni europei tra cui, in Italia, il Regno di Sicilia (1130). Tra le abbazie, occorre ricordare almeno Nonantola, Farfa, Montecassino e Cava dei Tirreni, tutte investite di domini transregionali.

La conquista del regno longobardo da parte dei franchi (774) portò in Italia centro-settentrionale a una rapida diffusione del vassallaggio, già in piena espansione Oltralpe. Durante il periodo carolingio, vescovi, abati e badesse di quelle regioni, già insigniti di incarichi pubblici legati alla loro funzione, rinsaldarono il proprio vincolo di fedeli del re ricevendo in beneficio ingenti quantità di terre. Al declinare delle fortune dell’Impero carolingio e nei primi decenni dopo la sua scomparsa (anni terminali del IX secolo, prima metà del X secolo), il loro peso come vassalli e il peso delle loro rispettive clientele andò vieppiù aumentando. Strumenti giuridici principali di questa evoluzione furono l’immunità, cioè il diritto di poter esercitare la giurisdizione sulle proprie terre in modo autonomo, in quanto era fatto divieto agli ufficiali pubblici di entrarvi, e il districtus, cioè il potere di comandare gli abitanti della città e della terra intorno alla cinta fortificata, che in qualche caso fu esteso all’intera diocesi. Elemento fattuale fu invece l’indebolimento dell’autorità regia a fronte della capacità di esercizio del dominio da parte di coloro che lo detenevano concretamente.

Una seconda fase di sviluppo e consolidamento della feudalità ecclesiastica si inaugura sotto il dominio degli Ottoni (962-1002) e perdura fino al regno di Enrico IV (1056-1105). Durante questo periodo, la Chiesa imperiale (Reichskirche) andò a costituire il principale strumento di amministrazione in Italia e in Germania. Tuttavia, le modalità di questo sistema di governo, nuovo soltanto in parte, vanno chiarite. Una interpretazione storiografica inaugurata da Ludovico Antonio Muratori e ancora presente come vulgata in alcuni manuali scolastici, sostiene infatti che gli Ottoni avrebbero adottato il sistema dei cosiddetti “vescovi-conti” preferendo questi ultimi ai conti laici. Questo sarebbe accaduto sia per ragioni ideologiche, sia soprattutto in quanto il dominio vescovile, non essendo ereditario perché i vescovi non potevano avere discendenza legittima, sarebbe ritornato alla corona con la morte del prelato, assicurando dunque all’imperatore la disponibilità del bene. Lo stereotipo dei “vescovi-conti”, pensato come un sistema escogitato per arginare la dinastizzazione delle cariche, è stato completamente rivisitato dalle ricerche degli ultimi decenni, le quali hanno mostrato come in realtà l’azione degli Ottoni non fosse propositiva ma responsiva. Gli Ottoni si trovarono a riconoscere formalmente l’enorme potere che i vescovi avevano accumulato di fatto nelle fasi finali dell’Impero carolingio e durante la prima metà del X secolo. Come accadde spesso nel medioevo, il sovrano non era sufficientemente saldo e non disponeva di apparati di controllo tali da poter imporre azioni di governo altro che saltuarie. Al contrario, egli esercitava funzioni di coordinamento e supervisione e affermava la propria autorità attraverso la mediazione, il compromesso e il riconoscimento di situazioni di fatto. Questa interpretazione, che pone l’esercizio concreto del potere al primo posto nella scala dei valori, supera il preconcetto tipico dell’interpretazione modernistica del feudalesimo, secondo la quale, in ogni caso, il rapporto tra i vari detentori di potere dovesse essere di tipo giuridico e dunque regolato sul piano del diritto. Si tratta di una rivoluzione concettuale che vede la prassi come il fattore determinante dei processi storici e che dunque supera la visione del medioevo come un periodo semplicemente “feudale” e formalizzato nella cosiddetta “piramide”, sostituendo ad essa la visione di un medioevo “signorile”, nel quale il sistema vassallatico-beneficiale è solo una parte di forme di governo e gestione dei patrimoni molto articolate e non sempre definite in modo ufficiale. Insomma, il processo di trasmissione del potere non avveniva solo dall’alto in basso, e neppure esclusivamente dal basso in alto, ma era legato a singoli luoghi e vicende, a territori governati, a signori e signorie, alla disponibilità di clientele armate, di contadini, di boschi e campi coltivati. In questo discorso, anche la “feudalità ecclesiastica” trova una collocazione perfetta, sia quando si ha a che fare con signori territoriali che detengono parte del loro dominio per delega pubblica (ma che hanno altresì forti basi di potere nelle proprietà allodiali, nelle clientele armate, nel vincolo familiare con i parenti), sia con signori territoriali i quali concedono in beneficio – è il caso per esempio del papato – quote del loro “stato” in senso lato, ma che debbono giocoforza esercitare forme compromissorie di gestione del dominio.

Il periodo della Lotta per le investiture (1076-1122) rappresentò una fase di snodo fondamentale. Mentre l’imperatore intendeva continuare nella linea tradizionale (riservandosi dunque anche il diritto di investire i vescovi del loro ruolo pubblico e, ovviamente, di renderli suoi fedeli con un vincolo di tipo feudale), il papato riformatore, in nome dell’esigenza di una completa alterità fra Regnum e Sacerdotium, intese scardinare questo stato di cose e di fatto, almeno per l’Italia, vi riuscì in buona misura. La conseguenza di questo lungo e complesso periodo di turbolenza non fu, peraltro, il passaggio da un controllo imperiale a un controllo pontificio, bensì la rottura del sistema, proprio in relazione alla feudalità, in quanto produsse una crisi generale degli assetti tradizionali di governo. La già ricordata, forte incidenza delle città nella conformazione dell’abitato, unita anche a una crisi di valori in parte legata anche alle istanze di riforma (è il caso della Pataria milanese) e a una sempre più forte crescita economica e demografica, videro in tutta l’Italia una sostanziale riduzione del peso politico dei vescovi e delle loro clientele feudali e l’instaurarsi di nuovi sistemi di governo – i comuni – che prescindevano dal potere vescovile, rivendicavano anch’essi un’autorità di tipo pubblicistico e facevano ampio uso dei legami vassallatici, soprattutto in relazione con il contado. Fra XII e XIII secolo, le nuove e sempre più salde forme di potere secolare (costruzione delle monarchie feudali, instaurarsi di solide identità familiari aristocratiche, trasmissione dei patrimoni per via agnatizia), unite a una generalizzata crisi della rendita agraria e del monachesimo tradizionale, avrebbero portato anche alla notevolissima riduzione, in termini di ampiezza territoriale e di peso politico, delle antiche signorie monastiche.

Fonti e Bibl. essenziale

V. Fumagalli, Il Regno italico, UTET, Torino 1978 (Storia d’Italia diretta da G. Galasso, vol. 2); C.G. Mor, H. Schmidinger (edd.), I poteri territoriali dei vescovi in Italia e in Germania nel Medioevo, il Mulino, Bologna 1979; G. Tabacco, Egemonie sociali e strutture del potere nel medioevo italiano, Einaudi, Torino 1982; Chiesa e mondo feudale nei secoli X-XII. Atti della dodicesima settimana internazionale di studio, Mendola, 24-28 agosto 1992, Vita e Pensiero, Milano 1992; C. Violante (ed.), Nobiltà, chiese e altri saggi. Studi in onore di Gerd G. Tellenbach, Jouvence, Roma 1993; G. Tabacco, Sperimentazioni del potere nell’alto medioevo, Einaudi, Torino 1993; F. Prinz, Clero e guerra nell’alto medioevo, Einaudi, Torino 1994; G. Sergi, Intraprendenza religiosa delle aristocrazie nell’Italia medievale, in Id., L’aristocrazia della preghiera. Politica e scelte religiose nel medioevo italiano, Donzelli, Roma 1994, 3-29; H. Keller, Signori e vassalli nell’Italia delle città: secoli IX-XII, UTET, Torino 1995; C. Violante, “Chiesa feudale” e riforme in Occidente (secc. X-XII). Introduzione a un tema storiografico, CISAM, Spoleto 1999; G. Albertoni, L. Provero, Il feudalesimo in Italia, Carocci, Roma 2003; S. Reynolds, Feudi e Vassalli, Jouvence, Roma 2004.


LEMMARIO