Associazione Italiana dei Professori di Storia della Chiesa

Dizionario Storico Tematico La Chiesa in Italia
Dalle origini all'Unità Nazionale
Roma 2015
Copyright © 2015

Filosofia - vol. I


Autore: Stefania Pietroforte

L’identità di un popolo è spesso incarnata da personaggi della storia politica o culturale che esprimono caratteri salienti della sua vicenda. Dante Alighieri è probabilmente la figura di intellettuale che meglio risponde al bisogno di rappresentare le origini e le radici della cultura italiana: l’altezza dell’ingegno poetico e la sventurata sorte politica sembrano riassumere il contrasto frequente nella nostra storia tra superba capacità creativa e miseria delle condizioni politiche e sociali. Difficile, quindi, non citare Dante anche a proposito della filosofia italiana, tanto più che il suo lavoro poetico e letterario si sostanzia di materia filosofica elaborata in maniera originale sia nella Divina Commedia, dove esplicita è la questione del ruolo della filosofia nella vita dell’uomo e nella missione della sua salvazione, sia nella Monarchia, con la teoria dei due soli, dove egli mette a tema il problema della autonomia della ragione rispetto alla Rivelazione e alla fede. Non a caso nella prima metà del Novecento storici della filosofia di prima grandezza come Bruno Nardi si sono impegnati a mettere in luce la ricchezza delle fonti filosofiche di Dante e ne hanno rimarcato l’originalità, scoprendo una figura non assorbita, come si era creduto a lungo, nell’orizzonte categoriale del tomismo, ma sensibile invece a correnti spirituali che avevano percorso gli ultimi secoli del Medioevo e facevano sentire la loro voce ancora nella Firenze del Trecento.

Tuttavia la concezione filosofica di Dante restava saldamente inquadrata in una visione teologica che fu di fatto scalzata dall’Umanesimo, il movimento di idee che fra Trecento e Quattrocento irruppe con forza nei principali paesi europei. Nell’Italia dei comuni e del particolarismo politico esso diede vita a un rinnovamento culturale e concettuale di vastissima portata che è stato, per certi versi, uno dei motivi peculiari dell’età moderna. Nota dominante dell’Umanesimo era appunto la centralità dell’uomo nel mondo e il conseguente convergere dell’attenzione filosofica su questo soggetto ora diversamente considerato. Questo fatto è sembrato spesso un rovesciamento del sentiment medievale, un capovolgimento da cielo a terra, da Dio all’uomo, dalla teologia alla letteratura. Ma i personaggi che lo hanno rappresentato in maniera eminente dimostrano che la questione era più complessa. Petrarca, Bruni, Salutati, Bracciolini,Valla guardavano all’antichità greco-romana come riferimento fondamentale. Il richiamo al mondo antico non era fuga dalla realtà, ma attingimento di una vita più vera, di una forma umana originaria che accomunava gli spiriti al di là del tempo. L’individuo si ritraeva dal mondo naturale che lo circondava, “moriva” al mondo per trovare, in un discorso interiore dell’anima, il legame con la comunità spirituale di tutti i tempi e fruire, grazie alle opere di uomini di elevato sentire, del pregio dell’essere umano, della sua più vera natura. Quel richiamo, che assumeva accenti anche assai diversi, non era allontanamento ascetico dal mondo, ma ricerca di una dimensione culturale più aderente all’uomo, più in contatto con la sua esperienza di vita, individuale e sociale, anche dolorosa, anche difficile, ma tanto più ricca di valore morale quanto più essenzialmente ed esclusivamente sua. L’anelito di Petrarca a fuggire il sentiero e le orme di altri era non solo desiderio di solitudine ma anche interiorizzazione, dialogo dell’anima con se stessa e, in questo discorrere, ritrovamento di un motivo comune fondamentale con tutti gli uomini. Era distacco necessario per rintracciare quell’identica natura umana che l’antichità aveva espresso quasi in una purezza ideale. E se Petrarca viveva ancora con tensione tormentosa l’affermazione di questo bisogno, perché avvertiva come irrisolto il contrasto tra l’ideale cristiano e quello pagano degli antichi, Bruni non lo sentì come un problema. Traduttore dal greco di Platone e soprattutto dell’Etica Nicomachea e della Politica di Aristotele, Bruni ne prendeva forza per sostenere che propriamente umana è solo la vita civile, la vita della polis e che l’individuo dispiega la sua natura solo nel concerto civile. Non c’era dissidio tra pensiero classico e Cristianesimo: se per i cristiani il fine era in un’altra vita mentre per gli antichi la virtù era il fine supremo della vita terrena, gli uni e gli altri sostenevano però le stesse cose sulla giustizia, la temperanza, la fortezza, la liberalità e le altre virtù e vizi ad esse contrari. Negli antichi e nei moderni, secondo Bruni, parlava la stessa verità, lo stesso Dio; per questo bisognava ascoltarli e andare a scuola da loro. Ecco allora che la traduzione degli autori latini e greci assumeva il significato di mettere in auge la verità e non di proiettarla nel passato, di portare la cultura fuori dalla panne della logica disancorata dalla sostanza della vita reale. La polemica con l’assetto scientifico medievale si faceva, per questo aspetto, molto sentita: è l’universo delle lettere, che indaga il mondo morale dell’uomo, l’ambito in cui la verità va ricercata; è per il tramite della parola poetica e letteraria che si scopre l’esperienza intima e spirituale dell’uomo; è grazie allo studio di queste opere che si risale alle scaturigini del pensiero che un animo incrudelito ha costretto nei termini sterili della logica aristotelica. La grammatica si sostituiva così alla logica come strumento con cui entrare in contatto con la vera essenza della vita umana. In questo modo l’Umanesimo si configurava come contestazione e rifiuto di una razionalità fuorviante e senza esito e come ricerca di nuovi modi e nuovi contenuti di sapere. Con decisione perciò Valla polemizzò con il metodo dei dialettici e lo spirito sistematico, per affermare invece che la valenza grammaticale del linguaggio era la chiave di volta per lo studio del pensiero.

Le critiche degli Umanisti, per quanto radicali fossero, anche quando accolsero motivi filosofici ritenuti irreligiosi come l’epicureismo non abbandonarono il convincimento della sostanziale spiritualità del reale e di una vita universale che circola nel tutto, dove Dio è presente e l’uomo trova il suo posto. Proprio il forte accento sulla spiritualità e l’idea di una umanità unita come in blocco metafisico che attraversa il tempo e lo spazio dovevano servire d’appoggio al più grande filosofo del Quattrocento, quel Ficino, stimato dai dotti di tutto il mondo, che fece di Firenze il polo di riferimento dell’universo umanistico.

Se una era l’umanità, uno doveva essere il suo spirito, unica e antichissima la sapienza, che Ficino rintracciava nei Libri ermetici e negli scritti di Platone, documenti di una pia philosophia appartenente ai saggi di tutti i tempi. Il rapporto con l’antico aveva, in questo caso, una valenza spiccatamente religiosa: quella sapienza era infatti frutto di una eterna rivelazione che la docta religio scopriva quando, rientrata l’anima dentro di sé allontanandosi dai sensi, si lasciava investire dalla luce divina. La mens riceveva così la verità che poteva essere comunicata ad altri. La conoscenza si configurava come esperienza religiosa di cui i grandi pensatori della storia erano stati protagonisti, primo fra tutti Platone che Ficino indicava come un profeta. Questo il significato dei testi platonici e neoplatonici che Ficino tradusse rendendoli accessibili come fonti della vera filosofia. Se ad un capo di essa si trovava Platone, al termine c’era il Cristianesimo, di cui il filosofo greco era precursore. Lui per primo aveva indicato la via del distacco dalle cose del mondo, scoprendo in quest’autonomia il carattere fondamentale della conoscenza umana. Aristotele era, per questo verso, lontano dal vero. Ma Ficino (e dopo di lui anche Pico della Mirandola con l’ideale della concordia dei filosofi) lo recuperava con la teoria dell’anima. Infatti, come l’intelletto agente aristotelico, l’anima era attività ma, diversamente che in Aristotele, era anche sostanza separata e moltiplicabile per ciascun individuo, immortale. Così, però, l’anima non era più forma del corpo: di Aristotele Ficino recuperava in realtà l’elemento platonico.

I motivi dell’aristotelismo erano invece tutt’altro che dimenticati a Padova, dove il più importante aristotelico del Cinquecento, Pietro Pomponazzi, indagando la natura umana la concepiva come punto mediano tra mortalità e immortalità. Egli però intendeva l’immortalità solo come un’ aspirazione, un’ansia. L’uomo in effetti era un grado della natura e questa a sua volta era un continuum. La conoscenza, quindi, non poteva prescindere dal fantasma. La filosofia di Pomponazzi era scaturita dalle dispute sull’anima; essa si presentava come la risoluzione della lacerazione tra intelletto trascendente e separato e intelletto mortale a favore di quest’ultimo. Senza alcun timore, il filosofo aristotelico sosteneva che l’anima era legata al corpo e moriva con esso, che la religione non aveva valore conoscitivo ma pratico, infine che la teologia inficiava i rapporti tra fede e scienza. Questa doveva conoscere la natura iuxta propria principia. Dall’identità di religione e filosofia di Ficino si passava qui alla loro netta separazione, negando ogni trascendenza. Era l’aristotelismo declinato seguendo la sua vena più antiplatonica. Un forte senso dell’autonomia della scienza esprimeva pure Bernardino Telesio che criticava la filosofia aristotelica come ricettacolo nascosto della trascendenza platonica: la sua polemica contro “forme” colpiva l’incapacità di questa filosofia di dar conto del mutamento. Il sapere doveva seguire il processo naturale senza sfigurarlo con la creazione di entità immaginarie. Indagare la natura iuxta propria principia era il motto anche del naturalismo telesiano.

Ma il Cinquecento fu ricco anche di altre esigenze, metafisiche, di riforma morale e politica. Una potenza infinita non può produrre un effetto finito; dunque il mondo creato da Dio è un universo infinito. Così per esempio Giordano Bruno si poneva in rotta di collisione sia con la fede cristiana che con la fisica aristotelica, e si incontrava invece con la teoria di Copernico che, infrante le barriere del mondo, consentiva di concepire infiniti spazi e quindi una visione di Dio e delle cose più elevata. Ma Bruno faceva poi fatica a distinguere Dio dal mondo e sconfinava in un panteismo non privo di contraddizioni e risucchiante ogni rilevanza dell’individuo. Fortissima fu la spinta riformatrice, sia religiosa che politica, di Campanella. Ma il pensiero che più sconvolse e lasciò un segno profondo fu quello di Machiavelli, per il quale l’uomo, che nella sua essenza è natura, era stretto nella morsa di fortuna e virtù. La virtù non era che la capacità di accettare la necessità che ci circonda, quella espressa appunto dalla fortuna. Nell’Italia delle signorie e dei conflitti sanguinosi, il primo bene era la pace. Per ottenerla occorreva conoscere senza pregiudizi la natura umana. L’analisi di Machiavelli la vide dibattersi nelle spire di una sorte già assegnata, come già segnato era pure l’andamento della storia civile. Naturalismo arricchito di cultura umanistica fu quello di Machiavelli, nel quale la trascendenza non aveva alcun ruolo. Giudicato immorale e condannato, costituì un riferimento imprescindibile per il pensiero politico dei secoli a venire.

La spinta dell’Umanesimo, la ripresa di Platone e lo sviluppo in senso naturalistico di una parte della filosofia peripatetica rappresentavano gli elementi del panorama filosofico italiano che non si era confrontato con la Riforma protestante. Essi ebbero effetti importanti sul Concilio di Trento che, chiamato a rispondere soprattutto al problema dell’antitesi tra grazia divina e libertà umana, mostrò di non essere insensibile al portato dell’Umanesimo. Infatti il compromesso che si trovò per la soluzione del problema riconosceva la collaborazione umana con l’opera di Dio: la grazia restava dono gratuito, ma l’uomo era libero di aderirvi o meno. Era l’ammissione dell’importanza dell’uomo, del suo protagonismo, forse impensabile senza l’esperienza umanistica che andava ad arricchire un aspetto della teologia cristiana. Ma il Concilio non fu solo questo. Fu anche deciso richiamo alla tradizione e all’autorità, spesso interpretato come autoritarismo. E’ ben noto che questo fatto portò la Chiesa a un conflitto con i risultati di quel sapere naturalistico-scientifico di cui Galilei era figura emblematica e la cui condanna (1616) assunse valore altamente simbolico.

Anche per Galilei la conoscenza cominciava con l’esperienza e la natura doveva essere indagata iuxta propria principia. Il mondo, però, era scritto in caratteri matematici, gli stessi con i quali Dio lo aveva creato, e che erano conosciuti propriamente dalla ragione. Dal mondo sensibile si passava quindi all’indagine razionale, per tornare solo dopo alla verifica sperimentale. Matematica e ragione erano perfettamente affini e della stessa natura era pure la mente divina. La verità era l’incontro della mente umana con quella divina sul piano della matematica esperita nel mondo. La differenza tra il sapere divino e quello umano era solo di grado. L’intero sistema dell’universo creato e increato era il luogo in cui si rispecchiava una assoluta razionalità. La fiducia nella divinità della mente umana, nella struttura matematica del reale, nella creazione di un simile mondo ad opera di Dio erano evidentemente presupposti filosofici di chiara ascendenza rinascimentale, e da quel ceppo discendeva il robusto platonismo che ora costituiva l’intelaiatura della scienza naturale. Le propaggini del platonismo messo in auge dal ritorno agli antichi dettato dall’Umanesimo toccavano qui una meta impensabile per Ficino, mentre il richiamo all’esperienza, che tanto doveva ad Aristotele, si svolgeva in funzione della distruzione definitiva della sua visione del mondo. L’impostazione filosofica di Galilei, condivisa da molti scienziati dell’epoca, era una concezione metafisica che non poteva essere derubricata a ipotesi senza perderne il valore. La condanna, malgrado l’abiura, non valse a scalfirla.

Il timore di un ritorno alla tradizione fu uno dei motivi che, nel Seicento, favorì l’ingresso in Italia della filosofia di Cartesio. Il filosofo francese fu visto come campione dell’antiautoritarismo. Il suo metodo sollecitava una indagine sgombra dai pregiudizi. La sua concezione scientifica poteva facilmente essere accostata a quella di Galilei, andando così a rafforzare la schiera di coloro che perseguivano l’ideale di una conoscenza scientifica del tutto indipendente da interferenze religiose. Cartesio venne associato anche a Gassendi e alla dottrina atomistica, con la quale sembrava che il meccanicismo potesse declinarsi, con il risultato di spingere alcuni pensatori (Borrelli, Valletta, Grimaldi) a posizioni ritenute del tutto in contrasto con la fede e quindi condannate. Questo uso di Cartesio era possibile, però, solo se si scindeva la sua fisica dalla metafisica. Vi fu chi invece, come Fardella, potenziò quel legame e non solo negò l’esito atomistico ma, tenendo fermo alla centralità della matematica, mise in questione la sostanza materiale, l’evidenza delle cose, la natura matematica del punto come struttura della realtà; dubbi che rafforzavano il bisogno della veracità divina, perché fosse scongiurato lo scetticismo. Insomma il cartesianesimo era tirato da due parti: per un verso per giustificare una scienza che tendeva al materialismo, per l’altro era utile per indagare più a fondo gli esiti di un platonismo cresciuto e trasformato nei secoli che, risolvendo importanti problemi, non di meno gravi ne mostrava. In entrambi i casi la filosofia di Cartesio era accolta come un baluardo contro tentazioni retrive. Era l’arma in più che consentiva di contrastare l’autoritarismo della Chiesa, spesso in difficoltà di fronte al nuovo. Lo disse senza più alcun timore Giannone che nella sua Istoria civile condannò il potere temporale della Chiesa, con argomenti e sentimento ormai illuministici.

I problemi irrisolti della filosofia cartesiana erano però molti e grandi: anzitutto quello che si annidava nel divario tra mente divina e mente umana, rimarcato proprio dal cogito, che era certezza, sì, ma non atto creativo. Come era possibile allora la conoscenza se, come dimostrava la matematica, vero è solo ciò che l’uomo fa, ciò che la mente umana costruisce da sé? Una risposta originale venne offerta da Vico. Tenendo fermo al principio che il vero e il fatto convertuntur e che questo è propriamente scire per causas, scoprì nella storia e nel linguaggio il regno nel quale davvero l’uomo era creatore. All’origine delle parole vi erano forme spirituali, non concetti. Esse si sono manifestate e determinate storicamente. Quei valori, immanenti alle loro stesse manifestazioni, costituivano la mappa dello spirito umano ricostruibile solo a partire dalla storia che le aveva viste svolgersi e attuarsi. La storia, dunque, rivelava la natura creativa dell’uomo e il ripetersi secondo modalità che ne facevano un ciclo eterno. L’essenza che la filosofia aveva cercato nella trascendenza doveva ora essere rintracciata nelle creazioni della fantasia, del linguaggio, del pensiero. La verità non era un’idea separata ma qualcosa che si era fatto e doveva ancora farsi. Gli uomini vivevano e progredivano fino al punto in cui questo perfezionamento tornava indietro per riprendere circolarmente il suo andamento. Nessuna età dell’oro, perché eternità e storia coincidevano. Questa ciclicità infinita era vista da Vico come il segnale che una Sapienza più alta governava l’ordine del mondo: la Provvidenza divina era l’anima del processo universale. Ma questa idea era difficilmente compatibile con quella di una religione rivelata. La risposta di Vico a Cartesio raccoglieva la potenza creativa del razionalismo trasformandola completamente, ma non andava d’accordo, però, con la fede cristiana.

L’influenza del pensiero francese in Italia non si limitò a Cartesio. Nel Settecento furono letti e apprezzati gli Enciclopedisti (Voltaire, d’Holbac, Maupertuis, Montesquieu) e Condillac insegnò a Piacenza lasciando un’impronta indelebile nel collegio Alberoni (Gioia, Romagnosi). Rafforzato ulteriormente dalla filosofia di Locke, l’Illuminismo promuoveva l’idea di una ragione universale, appartenente a tutti gli uomini, fondamento di diritto naturale; insisteva non solo sul valore dell’esperienza, ma sul fatto che scopo della filosofia dovesse essere ciò che è utile alla vita umana e alla felicità. Proprio per questo la filosofia illuministica era particolarmente interessante per un popolo che soffriva di arretratezza sociale, economica e culturale e che, soprattutto nel meridione, sentiva la mancanza di educazione alla vita civile. Così, malgrado la contraddittorietà di dottrine che si basavano su un concetto di ragione e natura eterne e professavano poi la necessità del progresso, filosofie come quella di Filangeri a Napoli poterono rappresentare un vessillo di emancipazione umana e sociale per genti dispoticamente assoggettate, mentre a Milano i fratelli Verri e Beccaria esaltarono la cultura e il progresso e proclamarono che anche il patto sociale trovava un limite nel diritto umano al rispetto della persona. Forte strumento di emancipazione sociale e politica, debole invece sul piano gnoseologico, l’Illuminismo trovò un critico di valore in Gerdil, che ne confutò con decisione la tendenza materialistica. La materia non attinge l’universale, diceva Gerdil. L’anima lo conosce direttamente nella sua assolutezza. Ma quella prima essenza che essa conosce, non è altro che l’azione diretta di Dio sull’uomo. Questa azione è il vero fondamento della conoscenza. In questo modo, in pieno Settecento, il Platonismo saliva ancora in cattedra e mostrava il suo valore: l’idea separata era ciò a cui bisognava ricorrere per spiegare il nostro stesso pensiero. Ma insieme al suo valore il Platonismo portava con sé una seria difficoltà: il contatto diretto con Dio, oggetto immediato dell’intelletto, era questione spinosissima per una filosofia che volesse osservare i dettami del Cristianesimo rivelato. Fu il problema che si sarebbe trovato ad affrontare anche Rosmini.

Le dispute sull’intelletto, la natura matematica dell’universo, le tendenze materialistiche, l’innatismo e il sensismo, tutto sembrò rifluire in quel pensiero di prima grandezza rappresentato dal criticismo di Kant, di cui ai primi dell’Ottocento si ebbe notizia in Italia. Il più importante filosofo italiano di quel secolo, definito da Spaventa “il Kant italiano”, ne accolse l’istanza principale. Prima di considerare qualunque altra domanda filosofica, era necessario anzitutto rispondere a quella che chiedeva come fosse possibile la conoscenza; questo riteneva Rosmini in perfetto accordo con Kant. Ma la sua soluzione si discostava a tal punto da quella del filosofo di Koenigsberg, che mentre questi rinunciava a ogni metafisica dichiarandola impossibile, Rosmini fece della sua dottrina gnoseologica la base d’appoggio di una nuova ontologia. Punto di gravitazione di tutto il sistema era l’idea dell’essere, oggetto ideale assoluto il cui intuito era la potenza stesso del pensiero umano che da quel contatto traeva ogni forza e garanzia. Questa idea, rivendicata dal filosofo di Rovereto come antitetica ai concetti apriori del trascendentalismo che Rosmini riteneva psicologici e soggettivi, era il modello stesso con cui Dio aveva creato il mondo. Proprio perciò essa rappresentava il punto di contatto tra Dio, uomo e mondo. Proprio in quanto l’idea dell’essere era il fulcro del suo pensiero, essa costituì il bersaglio di due grandi polemiche, con Gioberti e con i Neotomisti, i quali ultimi ebbero nel Roveretano un avversario anche sul piano politico. Mentre in campo filosofico i Neotomisti italiani puntavano sulla riproposizione del pensiero di S. Tommaso, quasi scudo ideologico per la Chiesa, rimarcando una posizione difensiva di reazione alle vicende connesse con la rivoluzione dell’89 e con le idee anticlericali che l’avevano accompagnata; sul piano politico si scontravano con un Rosmini che concepiva riforma della Chiesa e riforma politica come strettamente connesse e sosteneva vivacemente il progetto dell’unificazione nazionale. La diatriba portò infine alla condanna di Rosmini e alla sua messa all’Indice, ma il suo pensiero attraversò il secolo incontrandosi, tra l’altro, con quello di Gentile, autore insieme a Croce della più importante rinascita filosofica del Novecento. Intanto, a pochi anni dalla morte di Rosmini, si sarebbe realizzata l’unità d’Italia che avrebbe inferto un colpo definitivo al potere secolare della Chiesa, problema che unì coscienze tra di loro molto distanti e che era destinato a lasciare un segno duraturo nella storia del Paese e della sua cultura.

Fonti e Bibl. essenziale

E. Garin, Storia della filosofia italiana, voll. I-III, Torino 1966; E. Garin, Rinascite e rivoluzioni. Movimenti culturali dal XIV al XVIII secolo, Roma-Bari 1975; B. Nardi, Dante e la cultura medievale, Roma-Bari 1985 2° ed; B. Nardi, Saggi di filosofia dantesca, Firenze 1967 2° ed; J. Hankins, Plato in the Italian Renaissance, Leiden 1990; C. Vasoli, Quid sit Deus. Studi su Marsilio Ficino, Lecce 1999; C. Vasoli, Filosofia e religione nella cultura del Rinascimento, Napoli 1988; Canone E., Il dorso e il grembo dell’eterno. Percorsi della filosofia di Giordano Bruno, Pisa 2003; G. Ernst, Il carcere, il politico, il profeta. Saggi su Tommaso Campanella, Pisa 2003; Enciclopedia bruniana e campanelliana, a cura di E. Canone e G. Ernst, vol. I Pisa-Roma 2006; vol. II Pisa-Roma 2010; G. Sasso, Niccolò Machiavelli, Bologna 1993, voll. 2, nuova edizione; G. Sasso, Machiavelli e gli antichi e altri saggi, Milano-Napoli 1987-88; G. Belgioioso, Cultura a Napoli e cartesianesimo. Scritti su G. Gimma, P. M. Doria, C. Corminale, Galatina 1992; G. De Liguori, La reazione a Cartesio nella Napoli del Seicento. Giovambattista De Benedictis, “Giornale critico della filosofia italiana”, a LXXVIII, 1996; Badaloni N., Introduzione a Vico, 2° ed. aggiornata Roma-Bari 1988; W. Rother, La maggiore felicità possibile. Untersuchungen zur Philosophie der Aufklärung in Nord- und Mittelitalien, Basel 2005; L. Malusa, Neotomismo e intransigentismo cattolico, 2 voll, Milano 1986-1989; P. Prini, Introduzione a Rosmini, Roma-Bari, 1997; AA.VV., Sulla ragione. Rosmini e la filosofia tedesca, a cura di M. Krienke, Soveria Mannelli 2008; M. Mustè, La scienza ideale. Filosofia e politica in Vincenzo Gioberti, Soveria Mannelli 2000.


LEMMARIO




Filosofia - vol. II


Autore: Stefania Pietroforte

Nella seconda metà dell’Ottocento l’Italia era ormai uno Stato unitario e laico, in rapporti complessi e problematici con la Chiesa e il suo Stato. I fenomeni filosofici che caratterizzarono quest’epoca rispecchiavano, almeno in parte, questa problematicità. Forse non fu un caso che proprio due ex sacerdoti, Bertrando Spaventa e Roberto Ardigò, divenissero i rappresentanti rispettivamente dell’Idealismo e del Positivismo, le due correnti più importanti e più fortemente contrapposte al Neotomismo dell’agguerrita Compagnia di Gesù. Inoltre una schiera numericamente non scarna di pensatori diversi da questi era riprova del fatto che anche altre idee e interessi si muovevano nell’orizzonte, a volte combinandosi in percorsi personali di incerta coerenza, altre volte evolvendo sulla spinta di un tormento intellettuale che stentava a trovare adeguata risposta. Appartenevano a questo gruppo Ausonio Franchi e Giuseppe Ferrari; meglio ancora, per la qualità filosofica della ricerca, Giovanni Maria Bertini e Francesco Bonatelli, questi ultimi sostenuti da un profondo bisogno spirituale che in Bonatelli cercava espressione in una concezione fenomenologica che della coscienza faceva il centro propulsivo della vita spirituale, mentre in Bertini si atteggiava a ricerca del nesso possibile tra assoluto ed esistenza del mondo. C’era inoltre Carlo Cattaneo, la cui concezione filosofica -improntata a intendere il mondo come essere sociale indagabile dalle singole scienze e dalla filosofia solo come sapere ulteriore rispetto ad esse- portava con sé un senso di concretezza e vicinanza ai bisogni umani. A rendere il quadro più variegato c’era poi la dottrina di Francesco Fiorentino e del suo allievo Felice Tocco, pregevoli storici della filosofia, che con profondità e erudizione interpretarono Platone, Bruno, Kant e Hegel.

Ma in questo panorama multiforme e senza centro apparente una filosofia più di altre, sia pure sotterraneamente, ebbe forza d’irraggiamento e reazione, quella di Bertrando Spaventa. Infatti il filosofo di Bomba, muovendo dall’Idealismo hegeliano, sviluppò una critica della trascendenza, e dell’idea platonica di cui questa si sostanziava, capace di alimentare, con modalità non sempre evidenti, le spinte antimetafisiche che sul finire del secolo si facevano largo e che si coloravano socialmente facendosi portatrici del bisogno di risolvere i gravi problemi del Paese. Da Spaventa infatti prese le mosse Labriola, rappresentante di un Marxismo inteso come materialismo storico; il filosofo hegeliano seppe apprezzare le intenzioni del nascente Positivismo e instaurare con esso un dialogo; infine, con la tesi della circolazione del pensiero europeo reinterpretò in chiave immanentistica pensatori dal profondo respiro religioso come Bruno, Campanella e Rosmini, aprendo attorno a essi un alone di nuovo possibile interesse. Insomma il segno impresso da Spaventa nella cultura filosofica del secondo Ottocento italiano fu probabilmente più forte e pervasivo di quanto nell’immediato non si comprendesse.

Formatosi nell’ambito dell’Idealismo hegeliano molto vivace a Napoli, dove aveva conosciuto Ottavio Colecchi e Stefano Cusani, Spaventa era giunto a una filosofia del tutto diversa da quella di colui che, all’epoca, era il più famoso hegeliano italiano, Augusto Vera. Forse non alieno da simpatie nei confronti dei Tradizionalisti francesi, Vera intendeva Hegel come filosofo della trascendenza. Per Spaventa, invece, proprio la negazione della trascendenza era la cifra distintiva della filosofia di Hegel e più in generale della modernità. Nel concetto bruniano di Assoluto, essenzialmente correlato al finito, Spaventa rinveniva il nucleo da cui era scaturito il pensiero che, grazie a Kant, aveva poi trionfato con Hegel. Il frutto maturo di questa speculazione era, in particolare, l’idea che l’Assoluto fosse identità in sviluppo. Questo concetto, legato a doppio filo a quello di contraddizione, si traduceva sul piano storiografico nella tesi della circolazione del pensiero europeo. Era, questa, un’intuizione di vasta portata nella quale la tradizione italiana recuperava insieme nobili origini e un ruolo fondamentale. La tesi consisteva nella dimostrazione che la filosofia del Rinascimento fosse stata ripresa e inverata nella sua radice profonda dall’Idealismo tedesco. Cardine dell’interpretazione era il concetto di Assoluto che si imponeva come negazione radicale della trascendenza. La perizia e l’acume filosofico che sostenevano l’operazione era notevole, come quando di Rosmini si esaltava la sintesi conoscitiva riconoscendola simile a quella di Kant, e si tralasciava il motivo platonico dell’idea dell’essere. Era acqua portata al mulino dell’immanenza, idea centrale della modernità che Hegel sembrava aver messo definitivamente affermato.

Il pericolo che questa filosofia rappresentava per i principi del Cristianesimo non sfuggì ai Neotomisti, che lo fronteggiarono direttamente ingaggiando una battaglia senza requie contro l’Idealismo. I timori già suscitati dall’Illuminismo trovavano ora conferma in una filosofia che annunciava la modernità come liberazione dalla trascendenza. La reazione provocata da questa minaccia fu così estrema che padre Giovanni Cornoldi per anni si fece araldo di una crociata contro il pensiero come sviluppo, contro l’immanentismo, contro la modernità, che appariva ai suoi occhi come errore di una ragione traviata e vera e propria diavoleria. Era, quella di Cornoldi, l’esasperazione di una filosofia che con Serafino Sordi, Gaetano Sanseverino e Matteo Liberatore, aveva voluto riproporre il pensiero di S. Tommaso come fonte principale di ogni verità teoretica. Era l’inasprimento ideologico che spingeva verso l’identificazione di una dottrina filosofica con la dottrina stessa della fede. Era anche il punto estremo di allontanamento e contrapposizione tra quella che veniva propugnata come dottrina della Chiesa e ciò che nel resto del mondo e della storia degli uomini era comunque andato avanti. Ma la teoria dell’astrazione o quella dell’anima come forma del corpo, le categorie di potenza e atto di cui i Neotomisti si servivano, sembravano del tutto inadeguate e insufficienti a soddisfare la richiesta di un sapere che, se non riusciva a precorrere i tempi, doveva almeno stare al passo con essi. A questo bisogno rispondeva invece una nuova corrente di pensiero che della sintonia con il mondo delle scienze faceva il suo vanto: il Positivismo.

L’importanza del Positivismo fu grande. Il richiamo alla concretezza dell’esperienza, la considerazione del limite fisico imprescindibile in ogni atto spirituale, la necessità di costruire su queste basi un nuovo sapere filosofico, più aderente alla vita materiale e sociale dell’uomo, configurarono l’idea di una filosofia consona alle esigenze di una umanità avvertita del suo sviluppo storico accelerato. Se l’Idealismo di Spaventa rinvigoriva l’orgoglio filosofico nazionale, il Positivismo dal canto suo prometteva quell’innovazione culturale di cui il giovane Stato italiano aveva bisogno. Se si aggiunge poi che questa filosofia aveva tra i suoi tratti distintivi la negazione di ogni finalismo, tutto sembrava concorrere perché essa rappresentasse al meglio il carattere laico della nuova nazione. Pasquale Villari, non filosofo di professione ma studioso di fatti e leggi storiche che incarnavano lo spirito umano, ben evidenziava un tratto caratteristico del Positivismo italiano: la storicità del mondo umano, dello Spirito che era fatto di tempo e privo di un fine assoluto. L’Assoluto di cui Hegel aveva fatto il Soggetto della storia lasciava ora il campo a una storia senza Assoluto, alla storia tout court. Fu Ardigò, ex sacerdote convinto del valore morale della ricerca filosofica, a segnare con precisione i capisaldi della nuova concezione. Anzitutto l’intrascendibilità del “fatto”, ossia del dato d’esperienza, che la scienza sperimentale o sociale indaga e classifica. Questa intrascendibilità era intimamente connessa con la spinta al trascendimento. Ma nessun inconoscibile era ammesso, se non come limite della conoscenza umana, segnale della sua relatività. La coscienza non si offriva più come alveo di rivelazione della trascendenza; al contrario, costituiva l’ambito dove avveniva la presa d’atto della realtà primigenia del “fatto”, di ciò che l’esperienza fornisce e impone come inoppugnabile. Il correlato del “fatto” in campo gnoseologico era la sensazione, quel dato primario nel quale soggetto e oggetto si trovavano ancora indistinti. La lezione di Hume si rivelava preziosa per Ardigò: se la sensazione era indistinzione, non si potevano ammettere sostanze, ma spirito e corpo rappresentavano solo serie distinte formate dal lavorìo psicologico. Così il mondo prodotto dalle metafisiche d’ispirazione idealistica veniva cancellato e altrettanto ogni concezione finalistica del reale. Anche la prospettiva trascendentalistica di Kant risultava negata, perché la logica non dipendeva da forme apriori ma era costituita da schemi psichici empiricamente ricostruiti. Il Positivismo si posizionava così agli antipodi della filosofia fatta di astrazioni e reclamava l’importanza di fatti, limite e materialità per la vita dell’uomo, proponendosi come riscatto di ciò che in passato era stato troppo vile per rientrare nella vita del pensiero. Il riscatto ideale andava poi di pari passo con quello che il Socialismo e le dottrine di Marx rivendicavano in campo sociale, motivo per cui, soprattutto nella vulgata, Positivismo e Socialismo furono spesso accomunati.

Di sicuro non condivise questa opinione Antonio Labriola, esponente di spicco del movimento socialista che seppe interpretare il pensiero di Marx con sensibilità filosofica e profondità di pensiero. Egli riteneva che il materialismo storico, vera essenza del Marxismo, avesse fatto giustizia di ogni finalismo, sia che venisse da Hegel sia che persistesse in certo evoluzionismo distorto e male inteso. L’idea su cui Labriola si basava era che la storia fosse il risultato di un agire umano caratterizzato in maniera determinante, ma non esclusiva, dai rapporti economici e di classe. In questa concezione il rapporto tra la struttura economica e la sovrastruttura ad essa corrispondente non era un determinismo meccanico ma era un gioco aperto di reciprocità che, senza negare la preminenza della sfera economica, restituiva alla realtà non economica un ruolo importante. Come nocciolo e scorza, struttura e sovrastruttura costituivano una sola unità. E se Marx bene aveva fatto a denunciare che le idee non cadono dal cielo e non vivono di vita propria, tuttavia non per questo si doveva ritenerle la mera proiezione della sfera di produzione materiale della vita. Lo svincolamento della dialettica dal rigidismo economicistico produceva così un effetto davvero rilevante. Se da una parte la pretesa della metafisica veniva spenta nel ricondurla al fondamento dei rapporti reali di produzione, dall’altra Labriola sosteneva che la sfera ideale giocava comunque un ruolo specifico nella dialettica storica. Il reale era immanente ma non determinismo meccanico. La storia non aveva un Fine e anche il pensiero era segnato dalla finitezza. La valorizzazione della sfera ideale stavolta serviva a corrodere le tentazioni metafisiche oscuramente annidate nel meccanicismo della dialettica, estenuandone ogni assolutezza.

Se Marxismo e Positivismo si caratterizzarono per un atteggiamento fortemente antimetafisico e l’Idealismo di Spaventa curvò la metafisica dentro la prospettiva dell’immanenza; se il Neotomismo non trovò il modo di rinvigorirla e ne accentuò perciò il senso di caducità; tuttavia la metafisica non diede partita vinta. Dal di dentro di ciascuna di queste correnti di pensiero faceva ancora sentire la sua spinta. Malgrado il giudizio irrevocabile di Kant, il pensiero filosofico si sentiva costretto a contrastarne il continuo risorgere in forme nuove. Così, quando all’inizio del Novecento fiorì la filosofia di Benedetto Croce, volle essere anch’essa una alternativa reale alla metafisica. Sia per la ricchezza culturale di cui si sostanziava, sia per la profondità e l’equilibrio delle risposte fornite ai bisogni spirituali, la riflessione di Croce divenne un punto di riferimento imprescindibile per tutti, anche per chi se ne distanziava fortemente. Il tema della storia, che Labriola aveva affrontato a partire da Marx, ma senza trascurare Hegel e Herbart, fu ripreso da Croce per affermare però un senso diverso della creatività umana. Croce intese la storia come arte, l’arte come intuizione-espressione. Malgrado il richiamo alla concretezza, Positivismo e Marxismo non erano immuni dal pericolo di una deriva metafisica. Non bastava muovere dal “fatto” o dai rapporti di produzione per sgombrare il campo dalla coercizione di un Assoluto. L’insofferenza verso questa prospettiva aveva trovato espressione, all’inizio del secolo, nei Pragmatisti. Ma fu la Filosofia dello Spirito di Croce a spazzar via il rischio che essa rappresentava per l’individuo, riconoscendo a questi il suo valore spirituale e la responsabilità morale che ne conseguiva. A partire dall’Estetica come scienza dell’espressione e linguistica generale il filosofo napoletano sviluppò un discorso sulle forme dello Spirito coniugando la libera creatività umana con le circostanze dell’esperienza storica e concepì un ritmo dialettico del reale scevro da finalismi e meccanicità, un sistema aperto -come la vita e la storia che non hanno fine e conservano un loro mistero- nel quale confluivano istanze positivistiche ed idealistiche, parole d’ordine dello Storicismo tedesco e del Neokantismo, il tutto però in una formula nuova, dove preminente era la spontaneità spirituale e assicurato il divenire. Quello di Croce intendeva essere uno Storicismo assoluto in lotta contro ogni assolutizzazione.

Ma quale era il significato della filosofia in questo sistema? Essa sembrava avere due diversi profili. Da una parte era teoria delle forme teoretiche e pratiche del fare umano, l’Unità dei Distinti nella quale la storia si articolava; dall’altra quella stessa teoria si diluiva in un sistema di indagini particolari, estetiche, storiche, linguistiche, politiche, letterarie. La tensione tra queste due spinte rappresentò, in certo senso, la logica interna della Filosofia dello Spirito, che sembrò rompersi quando, nella tarda riflessione del filosofo, un Distinto, l’Utile, acquistò maggior rilievo giungendo quasi a venare di accenti esistenzialistici il suo pensiero. Quella sorta di “religione laica” che la filosofia di Croce aveva rappresentato evolveva infine, con il prevalere dell’Utile sugli altri Distinti, in una visione pessimistica delle sorti umane.

Sul piano degli studi particolari l’opera di Croce s’incontrò felicemente con quella di Giovanni Gentile e i due costruirono, in lunghi anni di collaborazione, una storia della cultura italiana che rappresentò un importante elemento nella formazione dell’identità nazionale. Tale convergenza, però, non superò mai la forte differenza che caratterizzava i due filosofi e che nel 1913, sulle colonne de “La Voce”, si manifestò in una celebre polemica nella quale Croce fu accusato di rasentare l’Empirismo e Gentile di praticare una filosofia teologizzante. Per entrambi era il ritorno dei fantasmi della metafisica. Pochi anni dopo, la divergenza si sarebbe trasferita dal piano della riflessione teorica a quello delle scelte politiche, dove diventò vera contrapposizione, quando Gentile aderì al fascismo e Croce scelse la strada dell’antifascismo del quale sarebbe stato una bandiera.

Nel ventennio sciagurato della dittatura di Mussolini Gentile svolse un ruolo di primo piano nell’organizzazione e promozione culturale del regime. L’Attualismo, maturato e messo a punto nei primi due decenni del Novecento, era per certi versi una filosofia essenziale, radicale, che esasperava le conseguenze della dialettica hegeliana. Gentile aveva studiato a fondo gli scritti di Spaventa e aveva fatto suo il problema del rapporto tra fenomenologia e logica; ma l’approfondimento che ne faceva non era immune da influenze rosminiane e di certo Modernismo, da lui studiato negli anni di incubazione della sua dottrina. La forte polarizzazione di pensiero concreto e pensiero astratto cui l’Attualismo era approdato sembrò ai più accorti tra i discepoli di Gentile, come Ugo Spirito e Guido Calogero, il punto di arresto definitivo della metafisica. Ben lungi dall’essere teologia, l’Attualismo poteva apparire a quei giovani filosofi come liberazione, la liberazione filosofica, da ogni dogmatismo. Anche per i Neoscolastici, che dal 1909 avevano dato vita a una importante scuola, Gentile costituì, in certo senso, un punto di riferimento. Essi realizzarono infatti un singolare incontro sia con l’Attualismo che con la filosofia di Croce. Il forte bisogno di ammodernamento, che era rimasto insoddisfatto e che era avvertito con vivezza in larghi strati del mondo cattolico, aveva subìto una vera e propria frustrazione in seguito alla repressione dei Modernisti che, soprattutto in Francia ma anche in Italia, si erano espressi con grande vivacità di idee. Quello stesso bisogno spinse il francescano Emilio Chiocchetti, nei primi anni del Novecento, ad accostarsi a Croce per dimostrare che una filosofia in sintonia con la fede cristiana non solo non era in contrasto con la Filosofia dello Spirito ma poteva addirittura trovare in quella la sua base d’appoggio. A Gentile si avvicinò, più tardi, Gustavo Bontadini, allievo di Chiocchetti, che, con intento analogo, utilizzò come piattaforma uno snodo cruciale del pensiero idealistico per erigervi un nuovo filosofema in difesa della trascendenza, confutando così la tesi che l’Attualismo fosse il peggior nemico della religione. Dopo la debacle del Modernismo e l’affievolirsi di voci importanti come quella del barnabita Giovanni Semeria, la Neoscolastica italiana, con alterne vicende e momenti ora bui ora luminosi, fu la novità filosofica più appariscente e più significativa in campo cattolico, almeno fino al Concordato.

L’avvento del Fascismo non fu fatale solo per i rapporti tra i due filosofi più importanti del Novecento. Esso aggravò la situazione del sacerdote Ernesto Buonaiuti, che era stato l’esponente di maggior spicco del Modernismo italiano e che pagò personalmente l’ostracismo della Chiesa e quello del regime al quale si era rifiutato di prestare giuramento di fedeltà. Favorì l’emergere nel mondo accademico di personaggi di dubbia levatura, mentre il vecchio Piero Martinetti o il giovane Calogero così come molti altri vennero emarginati o perseguitati. Il restringimento delle libertà civili e di pensiero non favorì certo il lavoro intellettuale e, in alcuni casi, distolse dai libri per volgersi all’impegno civile e alla lotta contro la dittatura ingegni promettenti o già maturi. Prima dello scoppio della Seconda Guerra mondiale il fenomeno filosoficamente rilevante fu la pubblicazione de La struttura dell’esistenza, opera con la quale Abbagnano segnava la data di nascita dell’Esistenzialismo italiano. Era un testo di rottura, aria nuova che rimescolava le carte e delle categorie metafisiche salvava solo il Possibile il quale, rivisitato profondamente, assorbiva quasi completamente l’Essere. Un Esistenzialismo, quello di Abbagnano, che schivava gli esiti aporetici di Heidegger e Jaspers. Nessuno scacco o angoscia, ma la consapevolezza della possibilità di una vita autentica se aderente alla struttura profonda dell’esistenza, dunque possibilità di scelta, grazie alla quale l’uomo, immerso nell’empirico e nel tempo, poteva sopravanzarlo e trascenderlo. Era così che, secondo l’esistenzialista italiano, la ragione umana limitata ma incondizionata si mostrava capace di costruire il proprio mondo. La convergenza con l’Esistenzialismo tedesco e francese si limitava al punto da cui la riflessione prendeva le mosse, mentre Abbagnano trovava una sintonia ben più forte con esponenti della filosofia americana e con il senso del concreto che questa portava con sé. Di qui anche lo sviluppo del Neoilluminismo, che scaturì direttamente dall’interno della filosofia di Abbagnano riaffermando l’importanza delle scienze, in polemica aperta con Croce e i suoi pseudoconcetti. Sociologia, psicologia, antropologia, storiografia filosofica trovarono forte valorizzazione e personaggi della levatura di Norberto Bobbio o Ludovico Geymonat vi si impegnarono seriamente. Però il posto che restava appannaggio della riflessione filosofica apparve poi quasi residuale, esautorato a vantaggio di altre necessità umane. Ancora una volta sembrava che l’emancipazione dalla metafisica non riuscisse a trovare un approdo teoreticamente vigoroso e convincente.

D’altra parte non fu l’Esistenzialismo, che ebbe accenti importanti e profondi anche con Luigi Pareyson, a dare il crollo ai sistemi idealistici di Croce e Gentile. Fu piuttosto un evento esterno, potente quant’altri mai, che ne segnò la crisi e il rigetto. La fine della Seconda Guerra mondiale segnò infatti un discrimine netto. Gli eventi tragici della dittatura e della guerra richiedevano di aprire un nuovo corso storico. Il dolore, l’orrore, la distruzione materiale e morale esigevano e reclamavano una ricostruzione anche culturale. Mentre pensatori isolati come Luigi Scaravelli o Enrico De Negri cominciavano a mostrare le falle dei filosofemi idealistici e della dialettica in particolare, prevaleva in campo filosofico un bisogno prepotente e complesso di allontanare definitivamente quello che era sembrato dominante nella prima metà del secolo. Così cadde drasticamente la censura su Gentile, troppo compromesso col Fascismo, e si abbandonò anche la filosofia di Croce perchè inadeguata al compito di cambiare il mondo, incapace di soddisfare le richieste dell’umanità nuova. A questa esigenza rigenerativa dava invece risposta il Marxismo, che emergeva proponendosi come vendicatore dei veri bisogni umani. Al Marxismo di Gramsci o Rodolfo Mondolfo -che avevano studiato Marx tenendo conto della lezione di Labriola, di Croce e di Gentile- si affiancava ora quello di pensatori distanti da questa tradizione che considerava Marx in stretta continuità con Hegel. In particolar modo Galvano Della Volpe volle svincolare Marx dal contesto idealistico, rimarcando che ciò che veniva in primo piano per il filosofo comunista era la questione del rapporto tra pensiero e realtà e che la filosofia non poteva più essere una faccenda del pensiero con se stesso. Questo “furore antiplatonico”, come ebbe a definirlo Eugenio Garin, puntava a mostrare come Marx, nonché essere epigono di Hegel, fosse stato il distruttore dell’Idealismo, lo smascheratore, una volta per tutte, dell’ideologia. Una luce negativa veniva gettata così sulla dialettica e su tutta la filosofia che da Hegel era passata per Spaventa e Gentile, aveva lambito Croce e toccato in profondità anche il marxismo italiano. Questa indicazione, sviluppata negli anni Settanta da Lucio Colletti, avrebbe portato il più famoso allievo di Della Volpe fuori del Marxismo e vicino a posizioni “realistiche” ispirate al Neopositivismo di Popper.

Nella ricerca di una razionalità diversa da quella idealistica s’impegnò anche Giulio Preti, che testimoniò il senso di crisi emerso con la vicenda europea e mondiale delle dittature e della guerra e che dall’Empirismo logico e dal Pragmatismo attinse elementi per una migliore definizione del rapporto tra pensiero e realtà, attento comunque a dotare le sue dottrine di impegno etico e sociale. Analogamente Enzo Paci prese le mosse dall’Esistenzialismo positivamente inteso, come Abbagnano aveva fatto capire che potesse essere, per spingersi a concepire l’esistenza come evento, anzi, come relazione di eventi senza sostanzialità, esperienza pura non assolutizzabile. Le nuove esigenze non lasciarono indenne neanche il campo cattolico, dove fu soprattutto il tema dell’esistenza come storia a sollecitare la riflessione di personaggi come Luigi Stefanini e Michele Federico Sciacca. Ma fu Pietro Prini che, successivamente, giunse a sostenere che la storicità costituiva il quid proprio della filosofia cattolica. La storia, diceva Prini, deve essere vissuta e non giudicata. Essa non è il campo di un fare malefico dell’uomo che si tratterebbe di ridurre alla ragione, ma la base della vita spirituale. Contingenza, finitezza, possibilità di essere e non essere, solo da qui muove la ricerca di un senso assoluto da riconoscere alla vita. Movenze esistenzialistiche, legato del Modernismo e tradizione rosminiana si combinavano in Prini in evidente contrapposizione con quanto la Neoscolastica di Francesco Olgiati aveva costruito dagli anni Trenta in poi. Infatti Monsignor Olgiati, lasciatasi alle spalle la lezione di Chiocchetti, era giunto a concepire la storia del pensiero come rigido rapporto di Verità ed Errore negando in sostanza un vero sviluppo storico, riecheggiando quasi certe modalità del Neotomismo ottocentesco, sia pure con dottrina e concetti più avveduti dei tempi. Erano, queste, concezioni inconciliabili tra loro, non esaustive del panorama cattolico dal quale emersero pure, con decisa originalità, personaggi come Gustavo Bontadini e Augusto Del Noce, che in un serrato confronto con il pensiero moderno e con l’Idealismo in particolare, giungevano ad esiti di possibile sintesi o, invece, di radicale divaricazione. La questione della storia e del suo rapporto con l’Assoluto fu quindi il problema che toccò corde profonde nel cuore dei cattolici e che le fece vibrare con modalità molto divergenti.

Storicità dell’esistenza e piena coincidenza di essa con l’Essere tout court fu il pensiero pervasivo di tutta l’opera storiografica di Eugenio Garin, nella quale si avvertivano pulsare insieme motivi positivistici, crociani e marxisti. Il dissolvimento della Categoria sembrava qui, più che altrove, il compito del filosofo in vista del recupero di una realtà tutta umana del pensiero e delle idee. Era, insomma, ancora una volta il tentativo di abbattere definitivamente ogni pretesa di Assoluto e di reductio ad unum. Tale posizione presentava similitudini con quella di un altro filosofo storiografo, Bruno Nardi, grande maestro del pensiero medievale che, mettendo tra parentesi la radice religiosa della sua ricerca, con grande rigore filologico abbatteva i confini della filosofia e ne dilatava l’identità andandone a ricostruire il profilo in ambiti diversi, come per esempio nella teologia. Ma nell’opera di Nardi restava acceso il senso del trascendentale, incarnato dai tanti studi dedicati all’intelletto aristotelico. Il compito teoretico implicito nell’esercizio storiografico dello studioso toscano è stato proseguito poi da Tullio Gregory, che ha ampliato il concetto del maestro estendendo lo studio al campo della scienza naturale e del linguaggio e ha dato vita con il Lessico Intellettuale Europeo a un grande istituto di ricerca storica.

Insomma, tra sviluppi originali e influenze fortemente sentite la filosofia italiana è andata ben oltre la metà del secolo. Il dialogo con la Fenomenologia e l’Esistenzialismo tedeschi e francesi, gli studi di filosofia del linguaggio e la ricezione della filosofia analitica hanno avuto un posto di rilievo nella seconda metà del Novecento. Non solo Banfi, anche Sofia Vanni Rovighi ha apprezzato Husserl e ne ha aperta la conoscenza in ambito neoscolastico. Quanto a Heidegger, moltissimi e da sponde diverse hanno attinto all’opera del filosofo di Marburgo. In modo originale, Gianni Vattimo ne ha esaltato il tratto antimetafisico indicandolo come la fonte più immediata del suo “pensiero debole”. La filosofia del linguaggio con Tullio De Mauro e Umberto Eco ha creato vere e proprie scuole di pensiero. La filosofia analitica ha trovato e trova interesse crescente, in un panorama nel quale la spinta preponderante sembra ancora quella del contrasto alla metafisica che, bandita ormai da secoli, dal numero dei nemici che raccoglie farebbe credere di non essere morta mai. Assoluto, Verità, sono categorie abbandonate dalla maggior parte dei filosofi italiani a favore di un più sobrio impegno con concetti meno altisonanti e più vicini –si dice- ai bisogni reali degli uomini. A questa linea di tendenza fanno eccezione Emanuele Severino e Gennaro Sasso che, diversi per formazione e atteggiamento, convergono nella critica alla tradizione metafisica che non è però critica alla metafisica tout court, e anzi la rivisitano in una nuova comprensione delle sue radici e della sua intima essenza. Così, al bisogno di uscire dai confini nazionali fortemente sentito da larga parte degli autori più giovani, fa riscontro l’insistenza di una riflessione, minoritaria ma incisiva, che trova linfa nel riesame di segmenti strutturali del pensiero metafisico indagati in punti cruciali della storia della filosofia, non da ultimo di quella italiana.


LEMMARIO




Finanze ecclesiastiche - vol. II


Autore: Giovanni Gregorini

Il tema della gestione economico-finanziaria dei beni della Chiesa nell’Italia postunitaria appare storicamente caratterizzato da alcune tappe normative ben definite, le quali si incontrano e quindi interagiscono con percorsi differenziati in termini di prassi strategiche praticate a livello centrale vaticano come in sede locale diocesana, compresi i rapporti tra le diocesi stesse ed i diversi tipi di enti ecclesiastici esistenti sul territorio. In tale ambito generale alla non marginale questione del mantenimento del clero secolare distribuito sul territorio si unisce dunque quella dell’amministrazione finanziaria dei beni posseduti dalla Chiesa ai diversi livelli, come pure quella delle interconnessioni che si sono verificate con le economie di altre entità istituzionali di natura religiosa, dovendosi in tutto ciò compendiare normative canonistiche, civilistiche e concordatarie comprese le relative giurisprudenze.

In età contemporanea una prima svolta legislativa si verificava presso la monarchia Sabauda alla metà del XIX secolo, allorquando al tentativo di ridimensionare la rilevanza economica e finanziaria della Chiesa giungevano anche gli Stati liberali, dopo le precedenti esperienze dei sovrani riformatori e degli interventi napoleonici. In tale prospettiva si ponevano le cosiddette leggi Siccardi (n.1013 del 9 aprile e n.1037 del 5 giugno 1850), le quali nell’ambito di una ratio separatista abolivano alcuni privilegi goduti sino ad allora dal clero cattolico (foro ecclesiastico, diritto di asilo, manomorta), ma ancor più la legge Rattazzi n.878 del 29 maggio 1855, mediante la quale il Regno di Sardegna disponeva la soppressione delle Corporazioni religiose non dedite a predicazione, assistenza degli infermi ed istruzione, prevedendo altresì la devoluzione delle loro proprietà all’ente governativo denominato dapprima Cassa ecclesiastica, in seguito Fondo per il culto. Tramite la vendita dei beni degli enti ecclesiastici così soppressi, come pure riscuotendo un contributo dagli altri enti mantenuti e più dotati finanziariamente, la citata cassa doveva assicurare ai parroci meno tutelati economicamente la garanzia di un reddito minimo. In questo modo lo Stato contribuiva al sostentamento del clero non più gravando sul proprio bilancio, ma attingendo al nuovo fondo in tal modo costituito dal quale veniva estratto il cosiddetto supplemento di congrua.

Quest’ultimo, dal canto suo, si andava ad aggiungere al beneficio ecclesiastico, ovvero alla figura giuridica che veniva affiancata al singolo ufficio parrocchiale – come poteva essere in maniera diffusa e prevalente la stessa parrocchia –, rappresentandone la dotazione patrimoniale (mobiliare ed immobiliare) con la cui redditività veniva storicamente retribuito il funzionario ecclesiasticamente corrispondente. Concretamente la retribuzione versata dallo Stato a titolo di congrua consisteva in una prestazione la cui natura era quella di un assegno alimentare a carattere personale, era indicizzata alla rendita garantita dal beneficio, ed era quantificata sul reddito dominicale in base al quale venivano altresì calcolate le imposte. La congrua veniva corrisposta agli ufficiali ecclesiastici il cui beneficio garantiva redditi in misura inferiore ad una determinata somma minima stabilita dalla legge, prevedendosi progressivi aggiornamenti legati alla svalutazione monetaria corrente. Nel 1922 il sistema così delineato veniva esteso ai vescovi, ai vicari, ai cappellani curati ed ai canonici semplici.

Per quanto concerneva più in particolare i vescovi diocesani, nel corso della prima metà del XIX secolo persisteva la funzionalità della cosiddetta mensa vescovile (o episcopale), ovvero della istituzione più che millenaria rappresentata dal patrimonio di beni mobili e di immobili a disposizione dell’Ordinario per il mantenimento della propria persona e di coloro che svolgevano funzioni al suo servizio. Costituita soprattutto da proprietà fondiarie, essa era storicamente gravata da consistenti oneri sia da parte della curia papale che dagli Stati regionali e nazionali, mentre nel complesso veniva consistentemente intaccata mediante incameramento statale stabilito dalle leggi eversive postunitarie di cui si dirà in seguito. Di tutta rilevanza finanziaria erano poi le Fabbriche delle cattedrali, economicamente correlate ai relativi Capitoli quanto meno nelle più grandi diocesi italiane, i cui sviluppi funzionali si sono evoluti sino alla contemporaneità più recente.

Gli antichi Ordini religiosi sopravvissuti continuavano a mantenersi in virtù delle rispettive storiche dotazioni patrimoniali opportunamente amministrate, con un ruolo solo gradualmente crescente attribuito alla redditività ottenuta mediante remunerazione del lavoro produttivo svolto all’interno dei monasteri. Erano invece soprattutto le nuove Congregazioni religiose ottocentesche – sia maschili ma soprattutto femminili – che venivano gravemente colpite da altri specifici interventi normativi nella fase immediatamente postunitaria, le cosiddette leggi eversive del 1866 e 1867, coinvolgenti anche le mense vescovili. Sinteticamente, la legge n.3036 del 7 luglio 1866 negava il riconoscimento giuridico (e quindi la capacità patrimoniale) a tutti gli Ordini, le Corporazioni, e le Congregazioni religiose regolari, ai conservatori ed i ritiri che comportavano vita in comune con carattere ecclesiastico. I beni di proprietà di tali enti soppressi venivano incamerati dal demanio statale, mentre parallelamente veniva stabilito l’obbligo di iscrizione nel Gran libro del debito pubblico di una rendita del 5% a favore del fondo per il culto. Era quindi sancita l’incapacità per ogni ente morale ecclesiastico di possedere immobili, ad eccezione delle parrocchie; in tal senso venivano incamerati anche i beni delle citate mense vescovili. La legge n.3848 del 15 agosto 1867, invece, prevedeva la soppressione di tutti gli enti secolari ritenuti dallo Stato superflui per la stessa vita religiosa della nazione: rimanevano esclusi dal provvedimento i seminari, le cattedrali, le parrocchie, i canonicati, le fabbricerie e gli ordinariati.

La storiografia più recente ha mostrato come l’applicazione della legislazione citata trovava talvolta in sede locale elementi elusivi di resistenza, come pure si avviava una serie di prassi economiche e legali capaci di conservare l’esistenza e soprattutto la funzionalità delle Congregazioni religiose alle quali era stata negata la capacità giuridica. In questa prospettiva si verificavano casi di riacquisto dei beni delle mense vescovili intestati successivamente a laici, ma garantiti in possesso ai relativi vescovi, come avveniva ad esempio a Bergamo. Per quanto concerneva invece le Congregazioni, che continuavano a vivere e prosperare grazie prevalentemente ai risparmi derivanti dal lavoro dei religiosi e delle religiose, si diffondevano pratiche ancora più varie e complesse: l’acquisto di beni poi intestati a singole suore in qualità di libere cittadine; la compravendita per interposta persona; la costituzione di società civili o di enti morali (quali le società tontinarie, le trasformazioni degli istituti in enti morali, la costituzione di società per azioni o immobiliari o ancora cooperative, l’adesione a società diocesane, la creazione di casse rurali e piccoli crediti). Nel caso delle società diocesane, come la Juventus di Bergamo (1919) o la Domus di Vicenza (1920), si venivano intrecciando le forze economico-finanziarie delle diocesi con le esigenze di tutela e protezione delle Congregazioni religiose in una non breve fase di continui timori e minacce ulteriormente soppressive.

Con riferimento precipuo alla Sede apostolica, la questione della gestione dei beni appartenenti alle finanze vaticane subiva una prima forte sollecitazione con la nascita del regno d’Italia, ed il conseguente ridimensionamento del territorio ricompreso nei confini dello Stato pontificio. In relazione a tutto ciò riprendeva grande vigore il ruolo svolto in entrata nel bilancio vaticano dall’Obolo di S. Pietro, la più importante forma di contribuzione dei fedeli cattolici di tutto il mondo per il sostegno della Santa Sede. Tuttavia un’ulteriore evoluzione ancora più consistente, anche perché definitivamente traumatica, avveniva con gli eventi del 20 settembre 1870 e quindi con l’annessione all’Italia del Lazio e di Roma stessa. Si apriva in questo modo un lungo dissidio avviato a soluzione solo con il Concordato del 1929, dato che la stessa legge 13 maggio 1871 delle Guarentigie prevedeva una cospicua dotazione annua per il papato a compensazione parziale delle perdite subite, rifiutata però da Pio IX (Questione romana).

A seguito di tali eventi, tra scelte consapevoli e risposte contraddittorie a situazioni congiunturali, iniziava a configurarsi una poliedrica strategia del papato moderno volta a potenziare il proprio raggio di operatività – e la conseguente capacità di incidere sulle società contemporanee mondiali – facendo leva sugli strumenti economico-finanziari, alla luce della ormai definitiva perdita di ogni formula di potere temporale. In questo senso il 5 agosto 1871 veniva consolidata istituzionalmente l’Opera dell’obolo di San Pietro, mentre dal 1878 papa Leone XIII nominava un Prefetto dei sacri palazzi nonché Amministratore del patrimonio rimasto alla Santa Sede, nella persona del suo segretario di Stato. Successivamente, con motu proprio dell’11 dicembre 1880 e 23 maggio 1883, veniva incaricata una Commissione cardinalizia di sovrintendere all’Amministrazione dell’obolo e del patrimonio della Santa Sede con voto consultivo. Più stabilmente, nel 1891 veniva affidata a detta Commissione la diretta amministrazione del patrimonio della Santa Sede, con incarico di estendere le proprie cure a tutti gli altri rami e affari economici ad essa correlati. Pio XI a sua volta, con motu proprio 16 dicembre 1926, disponeva invece la riunione delle suddette funzioni con gli uffici amministrativi della Prefettura apostolica e della Sezione dicasteri ecclesiastici, costituendo così la generale Amministrazione dei beni della santa sede.

In tale contesto otto-novecentesco prendeva forma il graduale quanto inarrestabile passaggio dal prevalente interesse delle finanze vaticane (ed in generale ecclesiastiche) per il settore immobiliare, specie della proprietà terriera, a quello più efficacemente rivolto al comparto tipicamente finanziario, di per sé più elusivo e dinamico anche in un senso transnazionale. Così si ampliavano le fonti di finanziamento della Sede apostolica, unendosi alla raccolta delle offerte che giungevano da tutto il mondo la redditività derivante dalle forme sempre più diversificate di investimento, per cui si veniva formando un modello di finanza globale capace anche di offrire sostegno alle Chiese locali bisognose, pure tramite la gestione separata della Congregazione De propaganda fide. E mentre le forme di sostentamento del papato si articolavano in un senso planetario, si verificava una corrispondente internazionalizzazione (specie americanizzazione) della curia romana e del collegio cardinalizio.

Nel peculiare caso italiano, si aprivano ampi spazi per esperienze diversificate di interconnessione tra ambiti strettamente ecclesiali ed ambienti finanziari guidati da personalità del cattolicesimo sociale, come avveniva ad esempio nel caso della Banca cattolica del Veneto o del sistema creditizio attivato in Lombardia da Giuseppe Tovini, fondatore di Banca di Vallecamonica, Banca San Paolo di Brescia e Banco ambrosiano a Milano (seguendo quindi una evidente progressione territoriale), come pure nel caso degli intrecci articolati sull’intero territorio nazionale resi possibili dal movimento del credito cooperativo e popolare, ancora oggi orientato alla ricerca della solidarietà efficiente e storicamente ispirato dall’iniziale realtà delle casse rurali ed artigiane, diffuse nelle diocesi italiane a partire dagli anni Ottanta del XIX secolo. Le complesse vicende legate agli sviluppi dei rapporti tra Vaticano e particolari istituti di credito come il Banco di Roma guidato da Ernesto Pacelli, il Banco di Santo Spirito, la Cassa di risparmio di Roma ed il citato Banco ambrosiano rappresentano ulteriori ambiti – anche estremamente critici – di evoluzione della storia delle finanze ecclesiastiche nel corso del Novecento sino ad oggi.

Esito di una graduale intesa tra Stato e Chiesa avviatasi nel primo dopoguerra italiano, i Patti Lateranensi sottoscritti l’11 febbraio 1929 rappresentavano una svolta novecentesca fondamentale, comprendendo una apposita convenzione finanziaria allegata al trattato, con cui si stabiliva che il patrimonio immobiliare della Santa Sede (di cui veniva fornito un elenco dettagliato) godeva di numerose esenzioni specie dal punto di vista tributario, ma soprattutto venivano chiuse le pendenze economiche fra le parti in causa mediante un cospicuo versamento da parte del governo italiano (750 milioni di lire) unito alla cessione di una consistente quantità di consolidato italiano 5% al portatore (1 miliardo di lire), quale indennizzo dei danni subiti dal papato con l’annessione degli ex Stati pontifici all’Italia e la conseguente liquidazione di buona parte dell’asse patrimoniale ecclesiastico. In relazione a questi eventi papa Pio XI, mediante motu proprio del 7 giugno 1929, costituiva l’Amministrazione speciale della Santa Sede, allo scopo prevalente di gestire i citati fondi versati dal governo italiano al Vaticano.

In seguito all’accordo generale rappresentato dal Concordato, inoltre, con gradualità le Congregazioni religiose potevano acquisire – richiedendola – la personalità giuridica e quindi la possibilità di tornare nella piena titolarità dei loro beni, cosa che avveniva in maniera cadenzata sia per radicati sospetti rispetto alle prospettive evolutive di rapporto tra Chiesa e regime, sia per questioni fiscali tutt’altro che marginali.

Dal canto suo, a partire dal 1942, la Chiesa cattolica a livello centrale continuava a perseguire le proprie strategie di investimento nell’ambito del capitalismo finanziario contemporaneo per mezzo dell’Istituto per le opere di religione (Ior) – pensato sin dal 1887 nella forma della Commissione ad pias causas – provvedendo alla custodia ed all’amministrazione dei beni mobili ed immobili trasferiti o affidati allo stesso da parte di persone fisiche o giuridiche, beni comunque destinati ad attività religiose o di carità. Lo Ior, nonostante sia tutt’oggi un’entità economico-finanziaria che utilizza strumenti bancari impegnandosi in operazioni di intermediazione creditizia, si considera un’organizzazione senza scopo di lucro, che continua a svolgere la propria funzione istituzionale prima delineata. Il network finanziario generato dalla operatività di questo ente nel corso del XX secolo ha avuto stagioni di particolare efficacia come quella della direzione affidata a Bernardino Nogara (negli anni 1929-1954, quindi sia nell’ambito dell’Amministrazione speciale che dello Ior), nonostante le gravi difficoltà generate dalla grande depressione mondiale seguita al crollo di Wall Street nel 1929 e quelle correlate agli eventi della seconda guerra mondiale, valorizzando appieno il suo ruolo personale ricoperto all’interno della Banca commerciale italiana. Tuttavia seguivano anche periodi di più discussa funzionalità, come quello della guida di Paul Marcinkus, specie in relazione al coinvolgimento nel crack del Banco ambrosiano datato 1982. Successivamente – con gradualità, successi e sconfitte – una serie di circostanze sia interne (le alternanze alla guida dell’ente) che esterne (e quindi ambientali, come l’instabilità dell’economia globale oppure la revisione degli accordi monetari intercorsi con l’Unione Europea per quanto concerne le norme sul riciclaggio dei proventi di attività criminose e di finanziamento del terrorismo) hanno indotto a privilegiare obiettivi di sempre maggiore linearità e trasparenza proprio nella amministrazione dello Ior, ispirandosi anzitutto ai principi stabiliti nel Motu Proprio di Benedetto XVI datato 30 dicembre 2010 (istitutivo tra l’altro dell’Autorità di Informazione Finanziaria).

Con il 1967 invece – nell’ambito della riforma della Curia vaticana fortemente voluta da Paolo VI – nasceva l’Apsa (Amministrazione del patrimonio della sede apostolica), istituzione che concentrava due precedenti uffici (l’Amministrazione dei beni della Santa Sede e l’Amministrazione speciale della Santa Sede) ed acquisiva le competenze di gestione dei beni complessivamente posseduti dal Vaticano destinati a fornire fondi necessari all’adempimento delle funzioni della curia romana, secondo uno schema in due sezioni: la sezione ordinaria si occupava dell’amministrazione del patrimonio della curia suddetta, la sezione straordinaria gestiva invece il patrimonio mobiliare di tutti gli enti vaticani. Vedeva la luce contemporaneamente la Prefettura per gli affari economici, quale istituto di vigilanza e di controllo formale dei bilanci economici redatti dai diversi organismi vaticani.

Sempre a partire dalla metà del XX secolo, in sede locale diocesana e quindi con pratiche differenziate a seconda dei contesti e delle consuetudini, si radicavano talune procedure di gestione dei beni appartenenti alla Chiesa mediante l’istituzione ad esempio di Consorzi economici diocesani, mentre non raramente l’Ordinario o suo delegato partecipava alla nascita ed all’amministrazione di appositi enti (spesso fondazioni) creati per perseguire finalità assistenziali ed in generale caritative, dotati in certi casi di patrimoni finanziari anche ingenti. Il legame tra gerarchie ecclesiastiche e personalità del mondo economico (specie bancario), che spesso guidavano le citate istituzioni, costituisce ancora oggi uno dei tratti distintivi della presenza sociale cattolica nel tempo della globalizzazione.

Il Concilio Vaticano II portava dal canto suo ad una ulteriore svolta maturata internamente alla Chiesa, che avrebbe condotto a definitive conseguenze nel medio periodo. Dando concretezza alle indicazioni avanzate nel decreto Presbyterorum ordinis (soprattutto al n.20), l’applicazione del canone 1274 del Codice di diritto canonico prevedeva il passaggio cadenzato dal precedente sistema beneficiale di retribuzione del clero ad un nuovo più moderno e più equo modello, caratterizzato dalla nascita degli Istituti diocesani (o interdiocesani) per il sostentamento del clero. A questi si giungeva concretamente all’indomani dell’accordo 15 novembre 1984 di revisione del Concordato tra Stato italiano e Chiesa cattolica, grazie anche alla legge n.222 del 20 maggio 1985 (in particolare il capo I) con la quale il governo nazionale si impegnava a continuare a corrispondere i supplementi di congrua fino all’entrata in vigore del nuovo sistema. I vecchi benefici ecclesiastici dunque si estinguevano e i loro patrimoni venivano devoluti ai suddetti Istituti, che succedevano ai primi in tutti i rapporti economici attivi e passivi. Da questa modalità di trasferimento rimanevano esclusi gli edifici di culto e tutti i beni estranei alla dote del beneficio che invece venivano trasferiti alle diocesi o alle parrocchie, appositamente individuate entro il 30 settembre 1986.

A completamento del nuovo schema la Conferenza episcopale italiana ha attivato un Istituto centrale per il sostentamento del clero, nato con un fondo di dotazione conferito dalla CEI stessa. Le ulteriori entrate principali sono costituite, in base a quanto previsto dalla citata legge 222 (art.40), dalle oblazioni ricevute dai fedeli (detraibili dal reddito imponibile), come pure dalle somme derivanti dalla quota di imposizione nazionale (8 per mille dell’irpef) devolute a scopi di carattere religioso a diretta gestione della Chiesa. Per sua natura l’Istituto centrale opera in via sussidiaria rispetto agli Istituti diocesani, i quali possono far fronte alle loro necessità attingendo ai rispettivi patrimoni ma altresì ricevendo il contributo dell’Istituto centrale in caso di bisogno.

Fonti e Bibl. essenziale

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LEMMARIO




Foa Anna


 





Folclore - vol. I


Autore: Stefano Brancatelli

Premessa. Parlare di folclore è impresa difficile per lo storico. Avendo per dominio l’insieme delle “persistenze”, ossia le tradizioni antiche e persino arcaiche tramandate mediante scrittura, oralità e ritualità, esso è divenuto oggetto di studio dell’antropologia e dell’etnologia e solo raramente (a partire dall’école des Annales) della scienza storica che diffida del comparativismo, metodo pseudoinduttivo non poggiante sulle basi stabili delle fonti, ma solo sull’apparente similitudine di epifenomeni, sincronicamente o diacronicamente attestati. Riguardo ad alcune forme di f. la mancanza di fonti non consente di individuare eventuali continuità col passato, anche se le similitudini sono evidenti: si pensi, ad esempio, alle processioni siciliane con rami di alloro in onore dei santi, evocanti le dafneforie pagane. Anche se ciò fosse, il diverso linguaggio religioso ha comunque determinato nel corso dei secoli non solo variazioni esterne, ma soprattutto una transignificazione interiore, per cui riti apparentemente simili in contesti religiosi diversi esprimono significati polivalenti.

Principali forme di folclore. Individuiamo, senza pretesa di esaustività, tre cicli festivi: settimana santa, mezz’estate, tempo natalizio.

Settimana Santa. All’origine della molteplicità di questi riti vi è il teatro sacro, che a sua volta trae genesi nello spirito devoto medievale atto in tutt’Europa a compensare la sempre meno compresa ritualità liturgica. La drammatizzazione della Settimana Santa generò così due gemelli: il rito liturgico e il dramma sacro extraliturgico che nel XII secolo ebbe rapida diffusione e laicizzazione uscendo dalle mura monastiche. La visitatio Sepulchri nacque in ambito monastico inglese dapprima come tropo intraliturgico e nel X secolo come scena dialogata extraliturgica posta fra la depositio e l’elevatio crucis (et hostiae). In Italia, dentro i possedimenti spagnoli, nel XVII secolo si accentuò questa teatralità, generando abusi e provocando la reazione di alcuni sinodi post-tridentini: l’uso di mettere all’asta la chiave del “Sepolcro” il Giovedì Santo (Sinodo di Messina, 1621) o il denarium crucis (la prima moneta offerta dal Capitolo alla Croce) il Venerdì Santo o i tizzoni del fuoco nuovo la veglia pasquale (Melfi, 1635), rischiava di avallare credenze scaramantiche. Il teatro religioso ebbe il suo apogeo nelle Sacre Rappresentazioni del XVI secolo coi Gesuiti che, fra i tanti, privilegiarono soprattutto il tema della Passione. Nel 1750 si diffuse in tutta la Sicilia l’opera teatrale di Filippo Orioles “Riscatto di Adamo nella morte di Gesù Cristo” o “Mortorio di Cristo”: la ricchezza di riti folcloristici per la Settimana Santa è data dalla frantumazione e dispersione di questo dramma sacro rappresentato lungo i sette giorni o solo parzialmente. È il caso delle deposizioni dalla croce della statua del Cristo morto nel sepolcro, o delle cene parlanti, come quella ancor oggi posta in essere il giovedì Santo nella Chiesa di S. Fratello (ME) in Sicilia, col sacerdote nei panni di Cristo. In diversi luoghi il Venerdì Santo è inscenato il funerale di Cristo, al pari dell’Entierro spagnolo, mediante processioni “penitenziali” (alla presenza di penitenti incappucciati detti babbaluti o di flagellanti detti vattienti) e/o “drammatiche” con gruppi statuari (Misteri) o viventi. Diffusissime sono la notte di Pasqua la “calata del telone” dinanzi alla statua del Risorto, che ben rende l’evento epifanico della Risurrezione, e il giorno dopo la rappresentazione della cerca e dell’incontro della Madonna, avvolta nel velo nero del lutto, col Figlio sinché, al cadere del manto, lo riconosce Risorto: il dramma sacro ha così il suo epilogo. A Prizzi (PA), sempre in Sicilia, tale rappresentazione è accompagnata dall’abballu di li diavuli: alcuni uomini in rosso (i demoni) ed uno in giallo (la morte) tentano di frapporsi per tre volte all’incontro della Madonna col Risorto sino a che, alla fine, vengono uccisi dalle spade degli angeli. E’ evidente l’allusione allegorica al peccato ed alla morte sconfitti dal Risorto, retaggio della sacra rappresentazione detta Diavolata ed Angelicata scritta nel 1752 da Anselmo Laudani. Ancor più originale a San Fratello (ME) è la festa dei Giudei: centinaia di uomini incappucciati e vestiti con una giubba giallo-rossa disturbano i riti devoti dei fedeli col suono di trombe. Lo stesso folclorista G. Pitré, nel descrivere questa manifestazione, la giudicava con disprezzo: in realtà, lungi da essere carnascialesca, essa è una sorta di “canone inverso”, di adynaton tra due forme, quella orante e quella di disturbo, ad evocare il binomio rifiuto-accoglienza del mistero di Cristo da entrambe rappresentato.

Mezz’estate. Il 24 giugno, solstizio di estate, presenta tradizioni arcaiche, alcune delle quali inculturate cristianamente con la festa del Battista, altre combattute come superstiziose in epoca post-tridentina. I rituali, diffusi in tutta Europa, erano di svariato tipo e legati al comparatico, ai fuochi notturni, ai bagni rituali, alla raccolta della rugiada (Sinodo di Ferrara, 1612 etc.) da utilizzare per l’impasto del pane ricavato dalle spighe mietute quel giorno (Crema, 1590) o per impregnare i panni contro le tarme (Urbino, 1678) e, ancora, alla ricerca di erbe (Napoli, 1576; Gerace, 1651 etc.), al suono ininterrotto notturno delle campane (Treviso 1581; Vicenza, 1647; Pinerolo, 1714 etc.), agli auspici di matrimonio (Montalcino, 1675; Otranto, 1641 etc.). In Piemonte, diversi sinodi condannarono l’usanza di cospargersi di rugiada, di praticarsi il salasso (Vercelli, 1576) e di preparare infusi di noci. In Sicilia ad Alcara li Fusi (ME) caratteristica è la festa del “Muzzuni”: la notte di S. Giovanni, dopo la processione della testa del Battista, ogni quartiere prepara un “altarino” con una brocca mozzata (muzzuni) riempita di spighe ed adorna di gioielli. Davanti ad essa si canta per tutta la notte e ci si lega col comparatico (ossia lo scambio di promesse, di fiori e di confetti), alla cui pratica, a mio avviso, ancor più che a presunti culti di fertilità precristiana, tale rito è legato. Pitré (Spettacoli e feste, 297) descrive l’uso allora presente a Caccamo (PA) ma oramai scomparso, per cui da due brocche rotte, dette muzzuni, una per gli uomini ed una per le donne, si estraevano i nomi delle coppie di compari e comari. Qualcosa di simile avveniva in Sardegna, come attesta il gesuita A. Bresciani (Dei costumi dell’isola di Sardegna comparati con gli antichissimi popoli orientali, Uffizio della Civiltà Cattolica, Napoli 1850, 270-271): le giovani a cui gli uomini avevano chiesto di diventare comari per tutto l’anno, alla fine di maggio piantavano grano o orzo in vasi di sughero, detti Erme o Nenneri, riempiti di terra, fatti fermentare nel buio e rotti il 24 giugno contro la porta della chiesa a suggellare la promessa di comparanza. Ad Ozieri (SS) l’erma, ornata di nastri, veniva posta sul davanzale rivestito di drappi colorati. Il Bresciani stesso collega questi vasi di germogli di frumento eziolato – in molti paesi del meridione collocati il giovedì santo presso gli altari della Reposizione e che ad Alcara corredono il Muzzuni – al rito precristiano dei cosiddetti “giardini di Adone”.

Tempo natalizio. Oltre l’antica usanza di accendere fuochi, diffusa è la preparazione alla solennità del Natale mediante nove giorni di celebrazioni in chiesa, spesso accompagnate da manifestazioni esterne. A questa dimensione extraliturgica si prestarono novene cantate, aventi diverse tipologie (Pastorali, Ninnenanne etc.): sono i cosiddetti “canti degli orbi”, canzoni popolari a sfondo religioso attestate nel 1661 a Palermo allorché i cantastorie ciechi si riunirono nella congregazione dell’Immacolata Concezione sotto la guida dei Gesuiti. Un originalissimo tipo di novena che si diffuse in tutta la Sicilia a partire dal XVIII secolo, ed ancora presente in numerosi centri, è il “Viaggio doloroso di Maria Santissima e del patriarca S. Giuseppe” di Biniditto Annolero, pseudonimo anagrammatico di Antonino Diliberto di Monreale: Pitré (Notizie sulle rappresentazioni in Sicilia, in “Archivio storico siciliano” (1876) 176-177) riporta che per nove giorni per strada questi cantastorie cantavano alternamente la leggenda poetica delle vicende del viaggio dei genitori di Gesù da Nazaret a Betlemme, prestando voce uno a San Giuseppe, l’altro a Maria o al narratore. Non è mai stata effettuata una ricerca storica sulla fonte da cui avrebbe attinto Annolero: se ne è ipotizzata l’origine nelle laudi medievali, nelle “omelie dialogate” bizantine, nei “misteri medievali” (F. Conigliaro – A. Lipari – C. Scordato, Narrazione, teologia, spiritualità del Natale, San Martino delle Scale 2004, 35). In realtà, il testo è collegato all’ambito francescano del Seicento, con evidenti assonanze tematiche e lessicali con “La mistica città di Dio” di Suor Maria di Gesù di Agreda, testo diffuso nel regno di Napoli e nei possedimenti aragonesi latino-americani. Annolero quindi trasformò in canto questo scritto: si noti come in Messico una simile ritualità per le strade sia ancor oggi legata alle festività natalizie mediante la rinomata Posada, mentre in Colombia il testo della suora venne trasformato anch’esso in novena, ma stavolta recitata in chiesa. Concludiamo questa elencazione di usanze con una pratica oggi scomparsa ma un tempo diffusissima in tutta Europa e soprattutto in Germania ed in Francia il 28 dicembre per la festa dei Santi Innocenti: consisteva nel vestire con paramenti episcopali (mitria, croce pettorale, pastorale etc.) un ragazzo detto nel Canavese Abate degli Innocenti ed altrove Episcopello o Vescovello. Deplorata sin dal Concilio di Cognac (o copriniacense) del 1260 e da quello di Basilea del 1431 al canone 21, l’usanza è ancora in Italia condannata (De episcopello tollendo) da alcuni sinodi siciliani (Patti, 1537; Catania, 1668), piemontesi (Torino, 1547 etc.), pugliesi (Trani e Salpi, 1589). Pitré (Spettacoli e feste, 137) dice che già dai vespri del 27 sino al 28 dicembre di ogni anno, l’episcopello, assistito da altri coetanei, parodiava in chiesa il ministero episcopale, proclamando il Vangelo e predicando, sino a percorrere poi le principali strade cittadine benedicendo la folla. Fortemente osteggiata, tale consuetudine perdurò a Palermo sino alla seconda metà del XVI secolo e a Catania sino al 1736. Ultimamente è stata ripristinata in centri della Spagna ed in particolare della Catalogna.

Conclusioni. Se è soprattutto a partire dal periodo controriformistico che si è iniziato a guardare con sospetto a forme di f. sino ad allora tollerate se non apprezzate, per radicare la fede in contesti popolari, oggi in ambito ecclesiale si è ricompreso come esse, quando non cadono nell’esperienza del magismo o della superstizione, non è detto che indulgano al folclore (in senso dispregiativo) o che contaminano la fede che esprimono, bensì al contrario raccontano il modo stesso con cui la fede si è incarnata in un determinato territorio e, come tali, oltre che come facenti parte del patrimonio culturale di un popolo, debbano essere tutelate e valorizzate.

Fonti e Bibl. essenziale

G. Di Marzo (ed.), Drammatiche rappresentazioni in Sicilia e poesie di autori siciliani dal secolo XVI al XVII, in Biblioteca storica e letteraria di Sicilia, I, Palermo 1876; G. Pitré, Spettacoli e feste popolari siciliane, in Biblioteca delle tradizioni popolari siciliane, XII, L. Pedone Lauriel, Palermo 1881 (ristampato da Forni, Bologna 1980); I. Carini, L’episcopello nel Medio Evo, Tip. Sociale, Roma 1887; B. Rubino, Folklore di San Fratello, A. Reber, Palermo 1914; Id., La lavanda dei piedi à San Fratello: ultime sacre rappresentazioni in Sicilia, in “Il folklore italiano” 1 (1925); C. Corrain – P. Zampini, Documenti etnografici e folkloristici nei Sinodi Diocesani italiani, Forni editore, Bologna 1970 (ristampa anastatica di interventi in “La palestra del clero” dal 1964 al 1967); E. Guggino, I canti degli orbi. I cantastorie ciechi a Palermo in I quaderni di Zu Rusalinu, I-II-III, Palermo 1980-1981-1988; S. Mangione (ed.), La coena Domini a S. Fratello. Dalla tradizione orale un testo poetico e misterioso, Coop. Regina Adelaide, Troina 1984; A. Plumari, Le espressioni di religiosità popolare della Settimana Santa in Sicilia, Città aperta, Troina 2009; Discografia: E. Guggino – G. Garofalo (edd.), I cantastorie ciechi a Palermo, disco Albatros VPA 8491, Milano 1987; M. Sarica – N. Lo Castro (edd.), A cantata di li pasturi, CD Ethnica TA008, Firenze 1993, 20002.


LEMMARIO




Folclore - vol. II


Autore: Stefano Brancatelli

Terminologia. Sin dalla sua coniazione nel 1846, il lemma f. (dal sassone folk = popolo e lore = sapere) è sistematicamente avversato in Italia sia in ambito civile accademico che in quello ecclesiale. Lo studio del f. nel nostro Paese ha in effetti sofferto a lungo una sorta di sudditanza psicologica verso l’estero a causa del mito romantico di una penisola “povera di leggende”, cosicché l’endemico ritardo che ne seguì comportò per lungo tempo la mera applicazione di metodi già sperimentati altrove: fu la “demopsicologia” di Pitré, alla fine dell’800, a riuscire a superare questo complesso d’inferiorità, facendo vantare il primato di una specifica Bibliografia delle tradizioni popolari d’Italia e di una scuola da contrapporre all’allora prevalente indirizzo della cultura inglese e finnica che limitava l’oggetto materiale del f. alle sole “tradizioni letterarie”. A causa di tale tentativo di emanciparsi dalla cultura d’oltralpe, oltre che per repulsione verso i vocaboli stranieri, al termine fu preferito il più comprensivo “tradizioni popolari” che rivela la sensibilità tutta italiana di non precludersi al mondo dell’oralità, delle credenze, dei costumi e dei riti del patrimonio popolare materiale ed immateriale. In ambito ecclesiale, invece, si optò per termini quali religione, religiosità o pietà popolare, indicanti quel sott’insieme del f. purificato da credenze superstiziose spurie rispetto all’ortodossia.

Excursus storico. L’inizio degli studi sul f. è un fenomeno tutto ottocentesco: se per alcuni autori è possibile rintracciarne i precursori sin dal XVI secolo, in Italia la vera svolta si ebbe col palermitano G. Pitrè (1841-1916). Il suo metodo, desunto dalla scuola antropologica inglese, estese il concetto di tradizione anche alle “reliquie” o “avanzi di riti scomparsi” che gli antropologi scartavano perché non soddisfacenti il criterio di antichità e che i folcloristi relegavano ad una sezione dell’etnologia. Sua, tra l’altro, la monumentale Biblioteca delle tradizioni popolari siciliane (1870-1913) in cui si occupò di canti, proverbi, racconti, cartelli e pasquinate, medicina popolare, giochi, spettacoli, usi, credenze, feste patronali. Sulla sua scia, furono in particolare R. Corso (Amuleti contemporanei calabresi, 1909; Carri sacri in Italia, 1922; etc.) e R. Pettazzoni (La religione primitiva in Sardegna, 1912; I misteri, 1924; etc.), a tentare di valicare gli argini del f. ancora relegato nell’alveo del naturalismo e a sopperire alla carenza di studi appositi sul f. religioso. Il comparativismo e lo storicismo continuarono però a leggere il f. religioso come persistenza arcaica di sincretismi pagano-cristiani, accentuando in ambito culturale intraecclesiale una deriva antifolclorica a tutto campo: è del 1923, ma edito postumo, il testo Meditazioni vagabonde. Psicologia popolare della vita religiosa in Sicilia di A. Ficarra (già distintosi come esperto di San Girolamo e che nel 1937 diverrà vescovo di Patti), permeato del rifiuto verso qualsiasi forma di devozione popolare ed emblematico di quella dialettica già presente nella Chiesa del primo ‘900 tra elitarismo culturale e religione popolare. Nel secondo dopoguerra, G. De Luca, dall’ambito volutamente sconfinato di interesse del suo “Archivio italiano per la storia della Pietà” (1951-), escludeva a priori gli studi sul f., conducenti per lui effettivamente più “a storia eccentrica del costume, a storia aneddotica delle religioni” (Introduzione, 1951) che ad altro. Si impossessò del tema invece la storiografia marxista: la rilettura che E. De Martino fece dei Quaderni del Carcere di A. Gramsci, indusse la nuova demologia ad accentuare la cesura netta colla tradizionale demopsicologia, accusata di neutralità ideologica ed interesse erudito o estetico, per tentare una definizione di f. scevra dell’idea romantica di identificazione nazionale ed incentrata sul tentativo dei popoli di contrapporsi alla cultura dominante. Nel 1971 A.M. Cirese in Cultura egemonica e culture subalterne contribuì a collocare tali studi all’interno del paradigma della lotta di classe. L’insegnamento conciliare del Vaticano II privilegiò invece una prudente posizione di favore ed integrazione verso “le consuetudini dei popoli, nella misura in cui sono buone, e accogliendole le purifica, le consolida, le eleva” (LG 13). Su questa linea si pose il Magistero che, pur chiedendo di purificare le feste da incrostazioni superstiziose indulgenti al f., disapprovava forme iconoclaste di disprezzo della pietà popolare. La sistematizzazione di tale pensiero, con la valorizzazione della “religione popolare” ed il superamento del pregiudizio di una sua contrapposizione a quella “prescritta” dalla gerarchia, giunse con Gabriele De Rosa (Chiesa e Religione popolare nel Mezzogiorno, 1970; etc.) e con diversi contributi del gesuita Giuseppe de Rosa.

Conclusioni. Se il tema, inaspettatamente, è divenuto motivo di scontro tra letteratura scientifica laica e cattolica, a ben rifletterci analogo itinerario ha avuto anche la discussione sulla provenienza delle forme liturgiche da miti precristiani. Il dialogo tra patrologia, liturgia e storia delle religioni ha consentito il superamento della tendenza comparativista ad invenire approssimative analogie con gesti fondamentali comuni a più religioni. L’apporto della Storia della Chiesa, sulle orme della “storia della mentalità” di De Rosa e della “storia della pietà” di De Luca, tolto il pregiudizio, oramai superato, dell’equazione folklore=meridione=arretratezza potrebbe operare similari risultati anche in campo folclorico.

Fonti e Bibl. essenziale

G. De Rosa, La religione popolare: storia, teologia, pastorale, Edizioni Paoline, Roma 1981; G. Cocchiara, Storia del folklore in Italia, Sellerio, Palermo 19893; A. Ficarra, Le devozioni materiali: psicologia popolare e vita religiosa in Italia, a cura di R. Cipriani, La Zisa, Palermo 1990; C. Prandi, La religione popolare fra tradizione e modernità, Queriniana, Brescia 2002; G. Pitré, Bibliografia delle tradizioni popolari d’Italia, a cura di A. Rigoli, Documenta, Palermo 2003. Riguardo al Magistero: Episcopato italiano, Vivere la fede oggi, 1971; Episcopato siciliano, Le feste cristiane, 1972; Vescovi dell’Abruzzo e Molise, Le feste religiose popolari, 1994; Congregazione per il culto divino, Direttorio su pietà popolare e liturgia, 2002.


LEMMARIO




Formigoni Guido


 





Fosi Irene


Professore ordinario di Storia Moderna nel Dipartimento di Lettere, Arti e Scienze Sociali dell’ Università “G. D’Annunzio”, Chieti-Pescara. Ha precedentemente insegnato nelle università di Roma, Sapienza, Università della Calabria. Ha trascorso periodi di ricerca come Fellow della Alexander von Humboldt-Stiftung presso università tedesche fra cui Marburgo, Tubinga, Friburgo e Berlino. Si è occupata di giustizia e società in Italia in età moderna, dei rapporti diplomatici e culturali fra la corte romana e il Sacro Romano Impero in età barocca e della conversione religiosa nel periodo della confessionalizzazione. Ha redatto ‘voci’ per il Dizionario Biografico degli Italiani, per il Dizionario dei Giuristi Italiani, ha curato edizioni di fonti, è autrice di numerosi articoli in riviste italiane e straniere e di monografie. Fra le sue pubblicazioni: La società violenta. Il banditismo nello Stato Pontificio nella seconda metà del Cinquecento, Roma 1985; All’ombra dei Barberini. Fedeltà e servizio nella Roma barocca, Roma 1997; La giustizia del papa. Sudditi e tribunali nello Stato Pontificio in età moderna, Roma-Bari 2007 (trad. ingl. Papal Justice. Subjects and Court in the Papal State, 1500-1750), Washington D.C. 2011); Convertire lo straniero. Stranieri e Inquisizione a Roma in età moderna, Roma 2011; Esercizi di memoria: i testamenti dei condannati a morte a Roma nel Cinquecento, in Vincenzo Lavenia, Giovanna Paolin (a c.), Riti di passaggio, storie di giustizia. Per Adriano Prosperi. Edizioni della Normale, Pisa 2011, pp. 293 – 301; La justice et ses rites à Rome à l’époque moderne, in Lucien Faggion-Laure Verdon, Rites Justice et pouvoirs. France-Italie XIV-XIX siècle, Presses Universitaires de Provence, Aix-en-Provence, 2012, p. 131 – 146; Frontiere inquisitoriali nel Sacro Romano Impero, in Maria Antonietta Visceglia (a c.) Papato e politica internazionale nella prima età moderna, Viella, Roma, 2013, pp. 257 – 274; Il governo della giustizia nello stato Pontificio in età moderna, in Marco Cavina (a c.), La giustizia criminale nell’Italia Moderna (XVI-XVIII sec.), Pàtron, Bologna, 2012, pp. 261 – 277; Istituzioni cittadine, feudalità, Papato e giustizia, in Le Marche al tempo di Alberico Gentili: religione, politica, cultura, Atti del Convegno, San Ginesio, 13-14 giugno 2009, Giuffré, Milano, 2012, pp. 219 – 230; La giustizia e i suoi riti a Roma in età moderna, in La giustizia dello Stato Pontificio in età moderna, Viella, Roma, 2011, pp. 39 – 50; “Storia moderna e contemporanea”, in La Biblioteca Apostolica Vaticana luogo di ricerca al servizio degli studi, atti del convegno, Roma, 11-13 novembre 2010, a c. di M. Buonocore e A. Piazzoni, Città del Vaticano, 2011, pp. 177-193; Conversion and Autobiography: Telling Tales before the Roman Inquisition, in “Journal of Early Modern History”, 17, 2013, pp. 437-456; The Hospital as a Space of Conversion: Roman Examples from the Seventeenth Century, in Space of Conversion in Global Perspective, ed. by G. Marcocci, W. de Boer, A. Maldavsky, I. Pavan, Intersections 35, Brill, Leiden-Boston, 2014, pp. 154-174.

Office Address: Dipartimento di Lettere, arti e scienze sociali – Università “G. D’Annunzio” Chieti-Pescara – Campus Universitario, Via dei Vestini – I-66013 Chieti Scalo – Phone: ++39 0871 3556471 (from USA: 011 39 ff.) – Fax: : ++ 39 0871 3556 (from USA: 011 39 ff.) – Home: Via Antistene, 5, I-00124 Rome (Italy) – Email: ifosi@unich.it ; irenefosi@hotmail.com

Education and Degrees: 1974 – PhD in Modern History at University of Siena – 1976 – Diploma of Archivist-Librarian at Vatican School of Paleography and Diplomatics (Vatican Archive) – 1998 – Prize: Premio della Presidenza del Consiglio dei Ministri for the book ”All’ombra dei Barberini”

Academic Positions: 1982 – Researcher in Modern History at the Faculty of Letters and Philosophy of the University of Rome “La Sapienza” – 1985-1988; 1990; 2000; 2002; 2008 – Fellow of the Alexander von Humboldt-Stiftung at German Universities of Marburg, Tübingen, Freiburg, Berlin – 1989 – Auditor at Shelby Cullom Davis Center at Princeton N.J. (U.S.A.); – 1998 – Associate Professor of Modern History at the Faculty of Letters and Philosophy of the University of Calabria – 2001 – Full Professor of Modern History at the Faculty of Letters and Philosophy of University “G. d’Annunzio”, Chieti-Pescara – 2002-2004 – Coordinator of the Master’s program in archival science: “Catalogazione dei beni archivistici e librari” at the University “G. d’Annunzio”, Chieti-Pescara – 2006 – 2010 – Member of the Direction of the Italian Society of Modern History (SISEM) – 2007 – Historical consultant for the project “The Domes of Rome” presented by Jeffrey Gilson (NYC, USA)





Fragnito Gigliola


Laureata all’Università La Sapienza di Roma, ha insegnato all’Istituto Universitario Europeo di Firenze, alla Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Firenze e alla Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Parma. I suoi interessi sono prevalentemente indirizzati alla storia religiosa, culturale e sociale della prima età moderna.





Fumetto - vol. II


Autore: Stefano Gorla

80 - Fumetto 2

L’argomento fumetto richiede alcune accortezze prendendo coscienza che la lingua italiana riguardo il fumetto, porta con sé pluralità semantiche e qualche ambiguità. Elemento essenziale nel fumetto è l’interdipendenza tra due codici – l’iconico e il verbale – che crea un linguaggio. Al linguaggio va accostata come, altrettanto essenziale, la dimensione narrativa: il fumetto racconta storie attraverso una sequenza di elementi – vignette – strettamente relazionate tra loro. La vignetta è generalmente un’area bidimensionale e planare che descrive uno spazio tridimensionale, un certo periodo di tempo e ha un particolare collegamento con la vignetta che la precede e con quella che la segue creando così la trama del racconto, racchiudendo in sé tutto un universo simbolico che stimola il lettore all’interazione e gli offre il piacere derivante dalla sua comprensione.

Da un punto di vista della teoria dei media, il fumetto è un medium. Diffuso e penetrante, ha un suo linguaggio originale, riproducibilità tecnica ed è in grado di rappresentare la realtà, di comunicare, di fornire conoscenza ed esperienza del reale.

Il fumetto come medium è il frutto di un processo che lo inserisce nel contesto culturale ottocentesco con uno sguardo alle immagini in sequenza, patrimonio dell’illustrazione europea, da cui emergono i lavori di Rodolphe Töpffer (1799-1846) e i fogli illustrati con “stampe popolari” come sono chiamate in Italia. L’Ottocento è anche il secolo in cui si verifica l’esplosione della stampa di massa con la nascita del giornale, vera rivoluzione mediale; il fumetto si intreccia con il giornalismo e con i giornali per ragazzi.

L’avventura del fumetto italiano nasce il 27 dicembre 1908 con il “Corriere dei Piccoli” – supplemento illustrato del “Corriere della Sera” – che ha esplicitamente e strategicamente dato spazio al fumetto, pur depotenziandolo con la rinuncia all’uso dei balloons, adottando al loro posto versi in rima. Una testata che assunse consapevolmente le trasformazioni sociali e culturali ponendosi come spazio di identità e tradizione senza temere di contaminarsi con quanto giungeva da oltre oceano. Si raccolgono così le esperienze come quella del “Giornale per i Bambini” di Ferdinando Martini (Firenze, 1881) dove apparve, a puntate, la prima edizione del “Pinocchio” di Collodi, ma anche del “Novellino” (Roma, 1898) dove avevano già fatto sporadica apparizione la riproduzione di due tavole a fumetti di Yellow Kid (1904), il personaggio nordamericano che il mito fondativo dei comics celebra come primo personaggio a fumetti. Altra esperienza preziosa fu quella del “Giornalino della Domenica” (Firenze, 1906) di Vamba, alias Luigi Bertelli, dove trovarono spazio molti dei cosiddetti proto-fumetti.80 - Fumetto 1

Nel fumetto, elemento centrale sono i personaggi. Da subito in Italia si dedicano a quest’arte raffinati artisti-illustratori e narratori di grande caratura per lo più giunti dal mondo dell’illustrazione per ragazzi, come Attilio Mussino che crea il primo personaggio seriale italiano: Bilbolbul; e poi il mago del liberty Antonio Rubino, Sergio Tofano e Guido Moroni Celsi. L’immaginario di italiani grandi e piccini si popola di personaggi e storie a fumetti. Si presta attenzione anche alle formule e ai formati editoriali, mentre si sperimentano nuove grammatiche narrative approfondendo l’uso dell’onomatopea e delle metafore grafizzate e lavorando sugli intrecci narrativi, cercando così di conquistarsi la fedeltà dei lettori. Tra gli anni ’20 e ’30 nascono e crescono una gran varietà di personaggi (su tutti il soldato mite Marmittone di Angoletta e il borghese Sor Pampurio di Carlo Bisi) con storie tutte improntante al filone pseudo-educativo, dove gli adulti puniscono e aggiustano i danni dei piccoli, facendo trionfare la morale dell’obbedienza. Al Corrierino si affiancarono da subito molte riviste dalle formule diversissime come “Lo Scolaro” (1912), “L’Illustrazione dei Piccoli” (1914) e riviste legate al mondo ecclesiale come “Italia Missionaria” (1919) e “il Giornalino” (1924): due testate fondate dai beati Paolo Manna e Giacomo Alberione che coniugano “l’educare divertendo” con i temi della fede. Con la formula apparsa nel 1925 in America “to be continued…” e subito importata, si mettono le basi per il fumetto d’avventura. La narrazione si dilata e alla gag umoristica finale si sostituisce la suspance che lega il lettore alla storia. I fumetti di avventura si svilupparono per tutti gli anni trenta toccando apici formali e contenutistici di notevole levatura. Nel 1937, in seno all’Azione Cattolica nasce “Il Vittorioso”, palestra di autori italiani e di fumetti di altissima qualità.

È soprattutto con il western che si sviluppa l’avventura italiana ma restano forti anche i fumetti che guardano all’avventura della fede, con vite di santi e di personaggi biblici, e ben praticata è anche la fantascienza.

La stagione degli anni Sessanta è particolarmente ricca per il fumetto italiano, non solo per la copiosa nascita di personaggi ma anche per la risonanza che i fumetti hanno nell’ambito più vasto delle culture. Avventura, umorismo, nascita di riviste e personaggi che hanno galvanizzato milioni di lettori. L’eclissi delle riviste a fumetti arriva negli anni novanta e il fumetto italiano sopravvive nel fumetto popolare della Sergio Bonelli Editore e in alcune testate per ragazzi. Negli anni 2000 con la formula dei romanzi disegnati, il fumetto arriva nelle librerie e nelle biblioteche degli italiani. Nessun genere gli è alieno dalla biografia al romanzo di formazione, dall’avventura al giornalismo grafico.

Fonti e Bibl. essenziale

F. Giromini, M. Martelli, E. Pavesi, L. Vitalone, Gulp! Cento anni a fumetti, Electa, 1996; S. Gorla – F. Luini, Nuvole di carta, Paoline, 1998; C. Gallo – G. Bonomi, Tutto cominciò con Bilbolbul, Perosini, 2006; (a cura di) S. Brancato, Il secolo del fumetto, Tunué, 2008; (a cura di M. Allegri e C. Gallo), Scrittori e scritture nella letteratura disegnata, Fondazione Arnoldo e Alberto Mondadori, 2008; G. Vecchio, L’Italia del Vittorioso, Ave, 2011.


LEMMARIO