Associazione Italiana dei Professori di Storia della Chiesa

Dizionario Storico Tematico La Chiesa in Italia
Autori
Roma 2015
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Fusar Imperatore Paolo


Nato nel 1981, ordinato prete nella diocesi di Cremona nel 2007, licenziato in Storia della Chiesa (Alberico e il governo di Roma nel Medioevo – 2010), ha discusso la tesi dottorale in Storia della Chiesa presso la Facoltà di Storia e Beni culturali della Chiesa della Pontificia Università Gregoriana di Roma (Il tavolo del Cardinal nipote a quarant’anni dal Concilio di Trento – 2014). Insegna presso gli Studi Teologici Riuniti delle diocesi di Crema, Cremona, Lodi e Vigevano e presso l’Istituto di Scienze Religiose Sedes Sapientiae a Crema.





Galleni Ludovico


 





Gallo Federico


 





Garbellotti Marina


 





Geografia ecclesiastica, Diocesi - vol. II


Autore: Emanuele Castelli

Dall’Unità ai Patti Lateranensi. Il problema della geografia ecclesiastica italiana e, nello specifico, la questione del numero delle diocesi sul territorio nazionale si posero con forza sin dai primi anni della raggiunta Unità per le seguenti ragioni. Delle 845 diocesi registrate intorno al 1861 in tutto il mondo cattolico, 538 diocesi appartenevano a Paesi latini (la cui popolazione cattolica assommava a 134 milioni di persone) e di queste 293 nella sola Italia, la cui popolazione era però di circa 26 milioni di abitanti (per questi dati cfr. C. Snider, L’episcopato del cardinale A.C. Ferrari, II, I tempi di Pio X, Vicenza 1982, p. 185). Inoltre, il numero delle diocesi sul territorio italiano era superiore di parecchie volte a quello delle province del nuovo Regno. L’alto numero di circoscrizioni diocesane sul territorio italiano sia in rapporto al restante mondo cattolico latino sia rispetto alla suddivisione territoriale statale poneva di conseguenza vari problemi. Da un lato, la molteplicità degli enti di culto non favoriva una razionale amministrazione del patrimonio ecclesiastico italiano. Dall’altro, la non corrispondenza tra circoscrizioni diocesane e province comportava che, per esempio, uno stesso prefetto fosse contemporaneamente obbligato a confrontarsi, per la gestione del territorio affidato, con cariche e uffici ecclesiastici di diverse circoscrizioni.

Il bisogno di eliminare questi e altri inconvenienti pose perciò la questione del riordino della geografia ecclesiastica italiana avendo come obiettivo una riduzione del numero delle diocesi. Per raggiungere tale risultato, si rendeva naturalmente necessaria la collaborazione tra Stato Italiano e S. Sede, ma nessun significativo provvedimento poté essere adottato fino alla stipula dei Patti Lateranensi nel 1929. Le difficoltà che ostacolarono così a lungo il raggiungimento di tale primo accordo furono molteplici. Da un lato, infatti, andavano superati gli attriti che si trascinavano sin dai primi decenni dell’Unità tra i due Stati. Dall’altro, la riduzione del numero delle circoscrizioni diocesane, voluta all’epoca soprattutto da parte del Governo Italiano, pur essendo auspicata anche dalla S. Sede, non poteva non incontrare una certa opposizione da parte degli enti ecclesiastici che dovevano essere soppressi e dei fedeli il cui vescovado sarebbe stato trasferito. Fu perciò solo nel 1929 che si giunse a un primo accordo per una ridefinizione del numero delle diocesi, affinché esso fosse maggiormente corrispondente al numero delle province civili.

Dai Patti Lateranensi al decreto della Congregazione dei vescovi del 1986. Gli articoli 16 e 17 dei Patti Lateranensi tra Stato e Chiesa italiana furono riservati al tema della riorganizzazione diocesana. Vi si stabilì tra l’altro che le “Alte Parti contraenti procederanno d’accordo, a mezzo di commissioni miste, ad una revisione della circoscrizione delle diocesi, allo scopo di renderla possibilmente rispondente a quella delle province dello Stato” (primo com., art. 16). Si stabilì, inoltre, che la “riduzione delle diocesi che risulterà dall’applicazione dell’articolo precedente, sarà attuata via via che le diocesi medesime si renderanno vacanti” (primo com. art. 17). Si sancì poi che le diocesi fossero raggruppate in modo tale che “i capoluoghi delle medesime corrispondano a quelli delle province” (sec. com., art. 17). Furono queste le prime norme in materia di revisione del numero e della distribuzione sul territorio nazionale delle diocesi. Si trattava, com’è evidente, di disposizioni direttive e programmatiche, le quali rimasero tuttavia in buona parte non attuate nei decenni successivi, sebbene non ci sia mai stata da parte statale e ecclesiastica alcuna iniziativa di rinuncia, abrogazione o modifica di quelle stesse disposizioni. Tra la seconda Guerra Mondiale e il Concilio Vaticano II non mancarono peraltro alcuni casi di riorganizzazione di circoscrizioni ecclesiastiche: in queste occasioni si tenne conto della necessità di fare corrispondere la nuova diocesi con la provincia civile (Faenza è provincia di Ravenna, ma resta diocesi a se stante). Fu così accorpata Cervia a Ravenna (in realtà già unite in persona episcopi fin dall’inizio del ’900 con la morte di mons. Foschi ultimo vescovo di Cervia) e, tra gli altri casi, tutta la provincia ecclesiastica di Santa Severina fu attribuita a Reggio Calabria. Furono inoltre riorganizzate le circoscrizioni del Trentino-Alto Adige.

Le disposizioni espresse dal Concilio Vaticano II col decreto Christus Dominus (nn. 22-24), le norme attuative contenute nel motu proprio Ecclesiae Sanctae” (a. 1966, I, n. 12) in merito alla revisione delle circoscrizione diocesane e ancora, in particolare per il territorio italiano, i numerosi interventi del pontefice Paolo VI hanno costituito un punto di partenza, a partire dalla metà degli anni ’60, per un progetto di riordinamento e conseguente riorganizzazione delle diocesi sul territorio nazionale. Rimanendo naturalmente vigenti le precedenti disposizioni concordatarie, è venuto così maturando in seno alla Chiesa Cattolica prima ancora che su sollecitazione dello Stato italiano un effettivo bisogno di riforma della geografia ecclesiastica del Paese. Paolo VI e il consiglio di Presidenza della CEI, a partire dal 1966, hanno tra l’altro indicato le linee direttive e i criteri affinché ogni diocesi potesse operare in “condizioni di efficiente funzionalità sia per estensione di territorio che per numero di abitanti”, tenendo ben in considerazione le mutate condizioni demografiche e le nuove esigenze pastorali italiane. I lavori della Commissione istituita a tal scopo dalla CEI prevedevano una consistente riduzione delle circoscrizioni diocesane sino a un numero di 119, ma questo progetto non si è realizzato, tra l’altro, perché il clima culturale che ha interessato l’Italia (e non solo) tra la fine degli anni ‘60 e gli inizi del decennio successivo sconsigliò di procedere a troppo incisive azioni di riforma. Con la costituzione della Regioni civili nella Repubblica Italiana si è peraltro introdotto in questa fase un nuovo aspetto di cui tenere conto anche per una contestuale riorganizzazione delle Regioni ecclesiastiche. Di tale aspetto la S. Sede ha tenuto conto in questo periodo senza tuttavia rigidi vincoli e senza operare troppo strette coincidenze, per esempio nel caso della Valle d’Aosta, che è stata assoggettata alla giurisdizione di un solo vescovo e che oggi fa parte della Regione ecclesiastica del Piemonte. Nel 1965, a fronte di una popolazione di circa 52 milioni di abitanti, v’erano comunque ancora 271 diocesi: la loro riduzione era avvenuta in minima parte (cfr. La revisione delle diocesi in Italia, in Aggiornamenti Sociali (18) 1967, p. 209).

Durante la revisione concordataria compiuta tra il 1976 e il 1984 e ratificata nel 1985, la Commissione ministeriale incaricata di studiare il problema ha, da un lato, riconosciuto il forte “squilibrio” tra popolazione e diocesi in Italia rispetto ad altri Paesi; dall’altro, pur rilevando le “difficoltà di ordine storico e ambientale” che avevano impedito l’attuazione delle precedenti norme concordatarie, ha affermato che la questione non è di pertinenza dello Stato italiano e ha posto solo alcuni limiti nell’erezione di nuove diocesi, per esempio a “non includere alcuna parte del territorio italiano in una diocesi la cui sede vescovile si trovi nel territorio di altro Stato”. Poco tempo dopo la S. Sede ha perciò provveduto alla non più differibile riforma che ha portato, con il decreto della Congregazione per i Vescovi del 30 settembre 1986, a ridurre le diocesi italiane, e con esse le comunità ecclesiali assimilate, da un totale di 325 a 228, di cui 39 sedi metropolitane, 21 arcivescovili, 156 vescovili, 2 prelature territoriali, 6 abbazie territoriali, 3 circoscrizioni di rito orientale, 1 ordinariato militare. Questo evento segna a tutt’oggi la più consistente ridefinizione della geografia ecclesiastica italiana in materia diocesana. Si osservi, d’altra parte, che dall’Unità d’Italia la popolazione cattolica è aumentata di circa il doppio, perciò una notevole riduzione del rapporto tra fedeli e diocesi è avvenuta nel corso del tempo ipso facto. In ogni caso, le esigenze pastorali impongono oggi come ieri di tenere conto, ai fini di un ulteriore riordinamento, di vari criteri e questioni, oltre quella naturalmente della corrispondenza con capoluoghi e province civili, e ciò può spiegare per quale ragione l’accorpamento o la riorganizzazione delle diocesi proceda tuttora con relativa lentezza.

Regioni e diocesi ecclesiastiche oggi. Secondo i dati riportati sul sito ufficiale della Conferenza episcopale italiana nel 2011 (http://www.chiesacattolica.it/) le diocesi italiane sono 224 e sono ripartite in 16 regioni ecclesiastiche (oltre l’Ordinariato militare), aventi ciascuna il seguente numero di diocesi: Abruzzo-Molise 11, Basilicata 6, Calabria  12, Campania 25, Emilia Romagna 15, Lazio 20, Liguria 7, Lombardia 10, Marche 13, Piemonte 17, Puglia 19, Sardegna 10, Sicilia 18, Toscana 18, Triveneto 15, Umbria 8.

Fonti e Bibl. essenziale

Fondamentale opera di consultazione è l’Atlante delle diocesi d’Italia, a cura della Conferenza Episcopale Italiana e Istituto Geografico De Agostini, Roma, 2000. Per la situazione delle diocesi prima e dopo i Patti Lateranensi cfr. D. Barillaro, In tema di revisione delle circoscrizioni diocesane, in Il diritto ecclesiastico 42 (1949), 113-155. Fondamentali sono poi i contributi di G. Brunetta e G. Feliciani, dove si offrono e interpretano dati statistici e problemi giuridici. In particolare si veda G. Brunetta, La revisione delle diocesi in Italia, in Aggiornamenti Sociali (18) 1967, 201-220; Id., Riordino delle diocesi italiane (38) 1987, 229-242; G. Feliciani, Diocesi e territorio nella prospettiva di revisione del Concordato lateranense, in “Il diritto ecclesiastico”, 70 (1977), parte I, 202-221; Id. Diocesi, in Enciclopedia Giuridica, vol. XI, Roma, Istituto della Enciclopedia Italiana, 1989, 1-3; Id., Il riordinamento delle diocesi italiane (1929-1985), in Vita e pensiero 5 (1992), 365-378; Id., Il riordinamento delle diocesi in Italia da Pio XI a Giovanni Paolo II, in AA.VV., Storia della Chiesa in Europa tra ordinamento politico-amministrativo e strutture ecclesiastiche, a cura di L. Vaccaio, Brescia, Morcelliana, 2005, 283-300. Sulla Commissione ministeriale e la revisione del Concordato cfr. G. Spadolini, La questione del Concordato con i documenti inediti della Commissione Gonnella, Firenze 1976, 273-277. Opera generale di riferimento è: L. Mezzadri, M. Tagliaferri, E. Guerriero, (a cura di), Le Diocesi d’Italia, voll. I-III, Cinisello Balzamo 2008. Cfr. inoltre S. Tanzarella (a cura di), Dizionario Storico delle Diocesi. Campania, Palermo 2010.


LEMMARIO




Giaccardi Chiara


 





Giansenismo - vol. I


Autore: Mario Rosa

La condanna dell’Augustinus di Giansenio con la bolla Cum occasione (1653) e gli interventi che seguirono da parte di Roma per imporne l’accettazione non suscitarono in Italia particolari reazioni, al di là degli ambienti curiali e di taluni settori ecclesiastici legati agli Ordini regolari, come quello agostiniano. Tuttavia, a partire dalla seconda metà del ‘600, presero a diffondersi anche in ambienti laici, tra gli scritti più significativi del giansenismo francese, in originale e in traduzione, le Lettres provinciales di Pascal e gli Essais de morale di Nicole, destinati a perpetuare l’eredità di Port-Royal tra le generazioni dei giansenisti della Penisola sino ai primi decenni dell’800.

Un salto di qualità compirà il giansenismo in Italia dopo la promulgazione della bolla Unigenitus (1713), che proibiva le Réflexions morales sul Nuovo Testamento dell’oratoriano Quesnel, espressione del giansenismo ecclesiale, interiorizzato e devoto francese di fine ‘600. Sebbene non accolta negli ordinamenti politici giusisdizionalisti da parte di alcuni Stati italiani, come il Piemonte, Venezia e la Toscana, essa provocherà interesse e discussioni, in una sempre più larga rete di relazioni e nella complicità sotterranea di carteggi e di contatti personali, tra quanti in senso anticuriale e antigesuitico, o per motivazioni religiose più profonde, simpatizzavano con il movimento, che prenderà ad orientarsi nei successivi decenni verso due direzioni sostanziali. La prima, inizialmente moderata e caratterizzata dalla preoccupazione di mediare il conflitto con Roma attraverso una “spiegazione” della Unigenitus, rappresentata in particolare dal gruppo giansenista romano, darà le sue prove più consistenti durante i pontificati di Benedetto XIV (1740-58) e di Clemente XIV (1769-74), sino a sfociare, una volta tramontate le speranze di una “pace nella Chiesa”, in un più radicale disegno di “riforma giansenista” della stessa Chiesa. La seconda, non disgiunta dalla precedente, ma sin da subito più avanzata nelle sue istanze riformatrici, ispirate dalla visione ecclesiale dell’opera di Quesnel, diversa da quella romana nei rapporti tra la gerarchia e i fedeli, e perciò non già verticistica e autoritaria, ma “orizzontale” e comunitaria, si aprirà presto più facilmente alle spinte episcopaliste e parrochiste che connoteranno lo scorcio del secolo.

Il pontificato di Benedetto XIV, segnato soprattutto nel primo decennio dal messaggio culturale e religioso della “regolata devozione” di Ludivico Antonio Muratori, e dalla tollerante disponibilità del pontefice nei confronti delle forze anche contrastanti all’interno del cattolicesimo, consentirà al giansenismo italiano di assumere quel carattere policentrico che lo caratterizzerà sino alla sua conclusione: a Roma come a Napoli, in Piemonte come nell’area veneta, più tardi in Toscana, in Lombardia e in Liguria. Ma, nella cerniera tra la prima e la seconda metà del secolo, l’età benedettina aprirà due nuovi fronti su cui prenderà a misurarsi il giansenismo italiano: la prospettiva di una pacificazione tra la Sede romana e la Chiesa giansenista “scismatica” di Utrecht, e il rapporto con la cultura illuministica.

Sul primo fronte, tentativi di composizione dello scisma utrettino, apertosi dai primi anni del ‘700 nell’ambito del giansenismo dei Paesi Bassi in opposizione alla prassi della missione gesuitica d’Olanda, furono avviati nel corso degli anni ’40, per essere definitivamente compromessi quando quella Chiesa metropolitana si espresse nel suo secondo sinodo provinciale del 1763: con la conseguenza però di presentare all’intero giansenismo europeo l’immagine idealizzata di una primitiva comunità cristiana e di raccogliere anche dall’Italia, da parte di numerosi esponenti del movimento, rinnovate simpatie e “lettere di comunione”, a riconoscimento di una realtà istituzionale e religiosa che poteva agire da paradigma di quella Chiesa dispersa e invisibile, vagheggiata dai giansenisti, alla ricerca della “vera” Chiesa dopo una lunga età di oscurità e di decadenza. Sul secondo fronte, parallelamente al tramonto del progetto di “pace nella Chiesa”, matura sempre più nel giansenismo italiano, negli anni ’60, la convinzione che comunque le fratture nella Chiesa cattolica rappresentassero un forte elemento di instabilità all’interno, e di fragilità verso l’esterno, nei confronti di quel che, nel linguaggio polemico coevo, veniva indicato come “l’attacco dell’empietà”. In questa direzione, secondo i giansenisti italiani, la risposta non poteva derivare solo da una serie di opere apologetiche, che pure non mancarono, o dallo sviluppo, che pure raggiunse livelli notevoli, mediante traduzioni bibliche, edizioni e commenti di opere patristiche e di scritti di pietà, di un orientamento dottrinale, ispirato da sant’Agostino, e di una pratica religiosa più severa, l’uno e l’altra contrapposti al molinismo e al facile devozionismo della Compagnia di Gesù. Essa doveva scaturire soprattutto da una solenne definizione da parte di Roma della dottrina cattolica sulla natura dell’uomo nei suoi rapporti col disegno divino, sui grandi temi, cioè, della grazia e del libero arbitrio, intesi naturalmente in senso giansenistico.

Nel quadro di questo ambizioso disegno apologetico, che segna l’ultima speranza dei giansenisti italiani nei confronti della Sede romana, e che, prima della definitiva frattura, ne costituisce un significativo carattere originale rispetto ai prevalenti aspetti ribelli del giansenismo francese e olandese, due tentativi vennero concretamente avviati, a distanza di un decennio l’uno dall’altro. Il primo, nel 1759, in concomitanza con la condanna dell’Encyclopédie, si fermò ad un abbozzo di bolla papale di condanna generale della cultura illuministica, elaborata dal giansenista napoletano Simioli, teologo del cardinale “zelante” Spinelli; il secondo, più consistente, perseguito tra il 1769-71 dal gruppo giansenista romano nel corso di una missione ufficiosa a Roma di un autorevole portavoce del giansenismo francese, Augustin-Jean-Charles Clément, si arenò anch’esso rapidamente nel calore delle polemiche che portarono alla soppressione della Compagnia di Gesù.

Questi tentativi apriranno però la strada non solo alla produzione biblica, patristica e devota, cui si è accennato, ma ad un impegno più “moderno” da parte del movimento, non legato unicamente alla nostalgia del ritorno alla primitiva Chiesa cristiana e alla tradizione dei Padri, ma sempre più sensibile, sul piano dell’attività pastorale, diocesana e parrocchiale, all’uso nuovo di strumenti di formazione e di propaganda, come i giornali e i catechismi, e, sia pure con dosaggi strumentali, alle sollecitazioni della stessa cultura contemporanea, della quale era espressione sin dai primi decenni del secolo, ad opera di alcuni gruppi di “cattolici illuminati”, un particolare orientamento culturale e religioso, destinato ad assumere tra gli anni ’70-’80 tratti più definibili e coerenti in un movimento di Aufklärung cattolica e/o cristiana, alla ricerca a livello europeo di un possibile dialogo col mondo dei Lumi.

È con gli anni ’60-’70 che le violente polemiche, che porteranno alla soppressione della Compagnia di Gesù (1773), e alle quali i giansenisti italiani parteciperanno attivamente, faranno maturare le condizioni di un decisivo sbocco politico da parte del movimento, dapprima attraverso l’opera di fiancheggiamento dei provvedimenti di espulsione della Compagnia dai regni iberici e dai regni di Napoli e di Sicilia, poi attraverso l’attenzione prestata alle prime riforme realizzate in Italia dai sovrani asburgici e borbonici. È in questo clima che si rafforzerà con gli anni ’80 la concezione già diffusa che le verità nella Chiesa fossero “oscurate” e che rimedio improcrastinabile fosse unicamente la spinta rischiaratrice delle riforme: della riforma della Chiesa, anzitutto, ma nel quadro ormai operativo del riformismo politico dei sovrani. È questo un punto che ben contrassegna un altro dei caratteri peculiari del giansenismo italiano rispetto a quello francese parlamentare e “appellante” al futuro Concilio, fortemente ostile lungo la sua storia al potere monarchico assoluto. Un carattere che verrà alimentato soprattutto dalle esperienze del giansenismo toscano e di quello lombardo: nel primo caso dalle riforme ricciano-leopoldine nelle diocesi di Pistoia e Prato, nel secondo caso dagli interventi giuseppini a Pavia; a Pistoia e Prato, dopo la nomina episcopale del Ricci nel 1781, con le riforme istituzionali e liturgiche avviate dal presule in accordo col granduca Pietro Leopoldo, sino al sinodo pistoiese del 1786; a Pavia, con l’organizzazione giuseppina dell’Università, e poi, dal 1786, con l’istituzione del seminario generale, nel quadro delle riforme ecclesiastiche imperiali, alle quali portarono un sostanziale contributo docenti come il Tamburini, lo Zola, il Natali e l’Alpruni.

Ma, con gli anni ’80, al di là di questi due nuclei essenziali, si è forse al momento più alto della diffusione del giansenismo nella penisola. Si consolidano i gruppi operanti in Piemonte con le loro preoccupazioni pastorali e morali, sotto l’ombra protettrice di vescovi simpatizzanti del movimento da Novara ad Asti, a Pinerolo; sono attivi nella Lombardia veneziana, tra Brescia e Bergamo, dotti monaci benedettini e preti dell’Oratorio, impegnati in traduzioni ed edizioni di testi, insieme con combattivi parroci rurali, come il Guadagnini e il Cornaro, che esaltano le prerogative del clero di secondo ordine, e con vivaci circoli laici, impregnati di antigesuitismo; si configura più nettamente il nucleo genovese, che annovera nelle sue file oratoriani e scolopi, come il Palmieri e il Molinelli, e tra i sacerdoti secolari il Degola; e mentre il gruppo romano continua a gestire una larga rete di rapporti, si arricchisce notevolmente il gruppo napoletano con i fratelli Cestari e l’abate Troisi, che collegano l’episcopalismo giansenista e febroniano dei vescovi di Reggio Calabria, di Taranto e di Potenza al giurisdizionalismo e all’anticurialismo della politica ecclesiastica borbonica.

S’insiste ora attraverso un periodico come gli «Annali ecclesiastici» di Firenze (dal 1780), o attraverso la Raccolta di opuscoli interessanti la religione (1783-90), patrocinata dal Ricci, o talune opere del Tamburini come la Vera idea della Santa Sede (1784), nel colpire le alterazioni intervenute, nel tempo, nelle strutture della Chiesa, con l’ampliamento dei poteri papali e curiali a danno delle Chiese locali, l’abnorme proliferazione degli Ordini regolari, il trionfalismo barocco delle confraternite, la pompa oratoria della predicazione, la dannosa esteriorità della pratica religiosa, incrementata dalle indulgenze e dalle devozioni popolari più diffuse, come quella antica della Via Crucis, che viene riproposta in forme più consone alla meditazione dei fedeli, o quella “nuova”, gesuitica, al Sacro Cuore, il cui carattere “farisaico” sarà denunciato dal Ricci in una famosa pastorale del 1781. Accanto a queste denunzie tuttavia, alla luce della dottrina agostiniana e di un rigorismo morale, che si cerca di consolidare nella formazione del clero, non tanto nei seminari tradizionali, ma in Accademie ecclesiastiche, che si istituiscono in diverse diocesi toscane per l’impulso congiunto dei vescovi e del granduca, e nel seminario generale di Pavia, va definendosi meglio una pastorale popolare giansenista, alternativa a pie opinioni correnti, come quella della sorte degli infanti morti senza battesimo, e una pratica sacramentale giansenista in riferimento alla penitenza e alla eucarestia, contrastando le tendenze, ritenute lassiste, delle facili assoluzioni da parte dei confessori e della consuetudine della comunione frequente da parte dei fedeli. Orientamenti, questi, difficili riguardo ad atti essenziali della vita cristiana, che ci fanno comprendere almeno in parte la reazione “benignista”, che già avviata nel ‘700 da Alfonso Maria de Liguori, finirà per trionfare, sulle sue orme, nel corso dell’800.

In questo contesto di tensioni, due momenti salienti connoteranno i rapporti tra il giansenismo e il potere politico, la tolleranza religiosa e la pietà illuminata. Il primo rinvigorito dalla patente giuseppina del 1781, il secondo espresso dai Cinquantasette punti ecclesiastici, sottoposti dal granduca Pietro Leopoldo ai vescovi toscani, come avvio di un più ampio progetto di riforma della Chiesa nazionale: due momenti nei quali possiamo cogliere emblematicamente la complessità di un dibattito interno al movimento e il divario tra gli orientamenti giansenisti e quelli politico-statalisti dei governi riformatori. Quanto al primo ne sono riprova due articoli degli «Annali ecclesiastici» di Firenze del 1782, che da una iniziale e piena accettazione della tolleranza ecclesiastica giuseppina passeranno ad una posizione non priva di talune riserve riguardo al riconoscimento e alla praticabilità di fatto della tolleranza cristiana. Un punto sostanziale questo, tuttavia, che verrà ripreso e sviluppato, nel clima più aperto delle riforme giuseppine in Lombardia, dal De tolerantia ecclesiastica et civili (1783) di Tamburini e Zola, per giungere al decreto di apertura del sinodo di Pistoia del 1786, che si esprimerà in una convinta professione di tolleranza religiosa intraecclesiale e nel rifiuto di ogni forma di violenza e di sopraffazione politico-religiosa, e più tardi alle posizioni di taluni giansenisti a favore della libertà religiosa nel corso dei dibattiti costituzionali della Repubblica Cisalpina.

Più marcato il divario nel caso della pietà illuminata, che si era sviluppata radicalizzando tra gli anni ’70-’80 anche elementi della “regolata devozione”, trovando la sua formulazione più ampia in una serie di disposizioni del governo giuseppino e nei già ricordati Cinquantasette punti leopoldini. Anche con durezza si interviene ora nei confronti di ogni manifestazione religiosa che fosse “irragionevole o sproporzionata”, dagli “eccessi” devozionali nel culto dei santi alla “superstiziosa” venerazione delle immagini velate – particolarmente diffuse, queste, in Toscana –, per accentrare nelle istituzioni parrocchiali e nell’opera utile del “buon parroco” i risultati di un nuovo modo di intedere e praticare nella società la vita religiosa individuale e comunitaria. Ma con questa differenza tra i motivi ispiratori, che guidavano l’opera dei governi, e quelli che garantivano l’adesione e l’appoggio da parte del movimento giansenista: che, mentre per il riformismo laico, una volta che si fossero diradate le tenebre della superstizione per effetto della Ragione, si sarebbe consolidata la collocazione di sudditi ossequienti nelle strutture dello Stato, per i giansenisti la cancellazione di ogni oscurità dal volto della Chiesa avrebbe favorito il ritorno dei fedeli alla Scrittura e alla tradizione dei Padri e il loro approdo ad una nuova interiorità.

Il sinodo di Pistoia del 1786, più volte menzionato, intese essere non solo la sanzione del riformismo ecclesiastico ricciano in armonia col riformismo di Pietro Leopoldo, ma il culmine di un processo più largo, che avrebbe dovuto investire dall’esempio pistoiese l’intera Chiesa toscana, chiamata ad un futuro concilio nazionale – una prospettiva dissoltasi con la vittoria dello schieramento moderato nell’assemblea preparatoria del 1787 – per sfociare poi, secondo un progetto che attraversava l’intero giansenismo europeo, in una Chiesa profondamente riformata. Ma il sinodo pistoiese, che rappresentò il punto massimo d una convergenza, accelerò al tempo stesso l’insanabile frattura che era all’interno del fronte riformatore, tra la logica autonoma dell’azione statale, ormai molto avanzata attraverso l’opera riformatrice, e la concezione giansenista della Chiesa come corpo privilegiato all’interno dello Stato, una concezione legata ad una visione del potere monarchico di diritto divino e ad una rilegittimazione dello stesso potere politico dei sovrani assoluti. Al di là della crisi più generale del riformismo illuminato sulla soglia degli anni ’90, la frattura era perciò nelle cose: da parte del potere politico, nella necessità di sviluppare in senso laico e secolarizzato le premesse insite nelle riforme; da parte del giansenismo, nell’impossibilità di superare di colpo i fondamenti ideali e religiosi della società di antico regime e di sviluppare sino in fondo quelle spinte liberatorie che pure agivano all’interno della sua visione ecclesiale.

Condannato il sinodo di Pistoia da Roma con la bolla Auctorem fidei del 1794, mentre si accentuava una violenta campagna antigiansenista soprattutto da parte di scrittori ex gesuiti e da parte del «Giornale ecclesiastico di Roma», dal 1785 organo delle posizioni curiali più intransigenti, gli anni della Rivoluzione segnano un altro spartiacque tra le file del movimento, presto colpito dalla facile accusa di “giacobinismo” da parte del fronte reazionario. Già tra il 1791-92 la crisi si era approfondita per l’adesione del Ricci e del Degola alla costituzione civile del clero varata nella prima fase rivoluzionaria francese, che aveva sancito da un lato la loro clamorosa rottura con chi, come il giansenista ligure Del Mare, aveva contestato la legittimità da parte di un’assemblea laica di «costituirsi despota della Chiesa», e dall’altro il silenzioso ripiegamento di chi, come il senese de Vecchi e il veneto Pujati, pure erano stati attivi compagni di fede giansenista. Sarà comunque il Tamburini delle Lettere teologico-politiche (1794), prima della discesa delle armate francesi in Italia, ad elaborare una nuova piattaforma concettuale per il movimento e a definire con cautela, accanto alla tradizionale accettazione dell’investitura divina dell’autorità, talune forme di garanzie costituzionali all’interno di essa, con il richiamo all’origine contrattualistica dei governi; e sarà il lento sviluppo, e poi il prevalere di questa componente contrattualistica, a permettere ai giansenisti italiani di misurarsi con le novità del Triennio rivoluzionario, soprattutto riguardo al tema della libertà religiosa.

In effetti, se il Degola e i giansenisti liguri si impegnarono a Genova in un’accurata opera di pedagogia rivoluzionaria e nel tentativo di dar vita ad una costituzione civile del clero sul modello di quella francese, e poi nell’elaborazione della costituzione della Repubblica Ligure, anche altri esponenti di spicco del movimento daranno un contributo fondamentale ai dibattiti politico-costituzionali in atto, in particolare nella Repubblica Cisalpina: il Tamburini e lo Zola a Pavia, ancora legati, pur nel riconoscimento di una nuova situazione di fatto, alla passata esperienza del riformismo giuseppino; il Giudici e l’Alpruni a Milano, più sensibili nei confronti delle repentine trasformazioni democratiche. Ma, se si escludono il Giudici, più tardi amico di Alessandro Manzoni, e forse l’Alpruni, ben pochi dei giansenisti italiani accetteranno pienamente, nel corso delle discussioni e dell’approvazione dei nuovi progetti costituzionali, il principio della libertà religiosa. Essi rimasero in larga maggioranza convinti assertori di una libertà di culto che mantenesse al cattolicesimo, ben inteso ancora una volta purificato in senso giansenista, il suo carattere di religione dominante, come verrà affermato esplicitamente nella costituzione della Repubblica Ligure, consentendo alle altre confessioni la libertà di «private opinioni», a conferma della difesa, pur nel travaglio rivoluzionario, di una Chiesa ancora tutelata dallo Stato.

Al momento del trapasso dai mutamenti democratici all’autoritarismo napoleonico, due erano le strade che il giansenismo, esauritasi la sua più diretta funzione riformatrice, era destinato a percorrere. Da un lato, quella che porterà alla sua dissoluzione, come avverrà con l’Alpruni, in una religiosità laica e razionale, che configurerà la fisionomia di quei “cristiani senza Chiesa” così numerosi nell’800; dall’altro, quella della sua proiezione in una futura “rigenerazione” religiosa, arricchita da tensioni apocalittiche e millenaristiche, come avverrà col Degola, che intravvederà, nel disegno provvidenziale di una nuova Chiesa, con l’innesto, sul cammino dei veri credenti, i giansenisti, del nuovo virgulto degli ebrei convertiti, di derivazione paolina (Rom. 11), l’orizzonte di una ecumene in cui si sarebbe riprodotta la perfezione delle origini. Tra questi due estremi, tuttavia, illimpidite dagli elementi politici più strettamente connessi al periodo rivoluzionario, del giansenismo dovevano mantenersi vive nel corso dell’800 alcune idee di fondo che esso aveva così a lungo proclamato: l’autonomia della coscienza religiosa individuale, il collegamento della politica alla vita morale e questa ad una mai intermessa aspirazione alla riforma religiosa, un retaggio che ha trovato più di altre correnti politiche, culturali e religiose non a caso uno spazio così largo e duraturo nella società e nella cultura italiana. Ne sono testimonianze storiche nel corso dell’800 l’esperienza del cattolicesimo liberale e taluni aspetti e momenti significativi del processo risorgimentale e post-unitario italiano, così come più tardi l’attenzione che la storiografia ha dedicato al movimento sino ai giorni nostri.

Fonti e Bibl. essenziale

Per una rassegna storiografica sul giansenismo italiano sino al 1986, cfr. C. Fantappiè, Riforme ecclesiastiche e resistenze sociali. La sperimentazione istituzionale nella diocesi di Prato alla fine dell’antico regime, Bologna 1986, 11-42, dove sono indicate le numerose ricerche con tagli interpretativi diversi e le edizioni di fonti apparse tra ‘800 e ‘900. Tra le ricerche cfr. in particolare: E. Passerin d’Entrèves, La riforma “giansenista” della Chiesa e la lotta anticuriale in Italia nela seconda metà del Settecento, in «Rivista storica italiana», LXXI (1959), 209-234; Id., Scipione de’ Ricci dalla formazione giovanile all’esperienza sinodale. Rileggendo le sue Memorie, in Il Sinodo di Pistoia del 1786, Atti del Convegno internazionale per il secondo centenario Pistoia-Prato 25-27 settembre 1986, a cura di C. Lamioni, Roma 1991, 65-149 (ma il volume è nel suo complesso un punto di riferimento essenziale sul giansenismo settecentesco). Si veda inoltre: M. Rosa, Riformatori e ribelli nel Settecento religioso italiano, Bari 1969; Id., Il Giansenismo, in Storia dell’Italia religiosa, 2, L’età moderna, a cura di G. De Rosa, T. Gregory, A. Vauchez, Roma-Bari 1994, 231-269; Id., Settecento religioso. Politica della Ragione e religione del cuore, Venezia 1999. A P. Stella, oltre alla pubblicazione di numerosi saggi e all’edizione commentata degli Atti e decreti del Concilio diocesano di Pistoia dell’anno 1786, voll. 2, Firenze 1986, si deve il fondamentale lavoro Il giansenismo in Italia, voll. 3, Roma 2006. Si veda anche M. Rosa, Il giansenismo nell’Italia del Settecento. Dalla riforma della Chiesa alla democrazia rivoluzionaria, Carocci, Roma 2014.


LEMMARIO




Giornali, Riviste cattoliche - vol. I


Autore: Sergio Apruzzese

Inteso come comunicazione sociale di attualità e prodotto tipografico, il giornale vede i cattolici fra i massimi fautori della sua diffusione come strumento di modernizzazione culturale a partire da un ambiente assai limitato di lettori fino a diventare (soprattutto nel Novecento) mezzo ineludibile di influenza sociale e politica.

La prima iniziativa degna di rilievo sul piano storico risale al 28 gennaio 1668 quando l’abate bergamasco Francesco Nazari (1634-1714) responsabile della cattedra di filosofia presso l’Università della Sapienza in Roma, fonda e dirige Il Giornale de’ Letterati (conclusosi nel 1683), mensile giudicato il capostipite dei periodici dotti ed enciclopedici italiani e modello per omonime iniziative sorte nei decenni successivi nella Penisola, come fu il caso del parmense Giornale dei Letterati (1686-1690) dell’abate cassinese Benedetto Bacchini (1651-1721) e del carmelitano e bibliotecario ducale Gaudenzio Berti.

Ad inizio Settecento (dal 1701 al 1704) è don Giovanni Pellegrino Dandi (1664-?) a dar vita a Forlì al Gran Giornale dei Letterati suddiviso sostanzialmente in due parti: la prima dedicata a recensioni e notizie su libri vari; la seconda reca le notizie proprie delle Gazzette. Promotori di fogli di cultura per dotti, i cattolici si rivelano anche modelli essi stessi di professionalità giornalistica. Così spicca la figura del monaco camaldolese Angelo Calogierà (1699-1768): nato nel 1699 a Padova da famiglia originaria di Corfù a soli ventisei anni diventa il redattore più attivo del periodico veneziano Gran Giornale d’Europa. Ma non appena tale rivista muore, il giovane monaco comincia una intensa attività di fondazione e di direzioni di periodici a partire dalla Storia letteraria d’Europa, del quale escono sette fascicoli e che termina nel 1727. Ancora nel 1762 fonda con il benedettino Jacopo Rebellini La Minerva o sia Nuovo Giornale de’ Letterati d’Italia, mensile colto di orientamento conservatore, terminato nel 1767.

Nel 1766 sarà la volta a Pesaro della Biblioteca antica e moderna di storia letteraria ossia Giornale critico, ed istruttivo de’ libri…, guidato dal gesuita Anton Benedetto Zaccaria. Sempre di orientamento letterario è il Giornale ecclesiastico edito a Palermo nel 1772 con il fine della formazione tradizionale del giovane clero. A Napoli fra il 1760 e il 1762 sorge il Giornale gesuitico presenza nata anche per contrastare le voci giansenistiche emerse nella penisola e in particolare a Pesaro e a Pavia, e tra le quali occorre qui ricordare quella del vescovo Scipione de’ Ricci, che terrà il noto sinodo del 1786, e quelle degli abati Pietro Tamburini, Giuseppe Zola e Giambattista Guadagnini. Altro giornale sorto nella seconda metà del Settecento fu la bimensile Gazzetta ragionata della nuova Abdera (1773-1775) a Padova che presenta le osservazioni degli illuministi soltanto per confutarle «in nome della più ortodossa apologia del Cristianesimo». Non in questa chiave si svolse l’esperienza giornalistica della settimanale Gazzetta Ecclesiastica di Firenze diretta da Reginaldo Tanzini e favorita dal vescovo de’ Ricci, la quale propugna la riforma della Chiesa «a vantaggio della sana Dottrina, della Cristiana Morale, e della Santa Cattolica Religione». Il periodico, però, verrà soppresso dopo ventiquattro numeri dal Granduca, che intende compiacere alle richieste della Curia romana. Riformismo religioso di matrice giansenistica si ritrova anche in un altro periodico fiorentino nato nel 1780 per iniziativa dell’abate Luigi Semplici: si tratta del settimanale Annali Ecclesiastici che durerà fino al dicembre 1793.

Se sotto il dominio napoleonico si assiste mediante una serie di decreti repressivi a una drastica riduzione di giornali e tipografie, nel periodo della Restaurazione si assiste a una rinascita di iniziative pubblicistiche a cominciare da Il Conciliatore (1818-1819) dei cattolici moderati e patrioti Silvio Pellico e Giovanni Berchet. Ma sicuramente tra i periodici più significativi in questa fase così intensa nella storia d’Italia figurava L’Amico d’Italia fondato a Torino nel 1822 da Cesare D’Azeglio (1763-1830), animatore dell’«Amicizia Cattolica», un movimento laicale di rinascita religiosa promosso da padre Pio Brunone Lanteri. Il D’Azeglio non era nuovo a iniziative del genere; aveva infatti fondato a Firenze una rivista mensile L’Ape (1802). Per far meglio conoscere l’Amicizia Cattolica e le sue iniziative il D’Azeglio promosse la fondazione de L’Amico d’Italia e chiamò a collaborarvi illustri personalità tra le quali Antonio Rosmini, Alessandro Manzoni e Niccolò Tommaseo.

Di orientamento ultramontano l’Amico d’Italia condivideva questa impostazione con altri fogli tra i quali il Giornale di Roma (1825), le Memorie di Religione, di Morale e di Letteratura di Modena (1822), il Giornale degli Apologisti della Religione Cattolica di Firenze (1825), la Propaganda cattolica di Lucca (1828). Veste e periodicità più giornalistica ebbe La Voce della Verità di Modena; usciva infatti inizialmente due volte alla settimana; assunse poi, a partire dal n. 31, periodicità tri-settimanale: ne era direttore Cesare Galvani; infine l’Encilopedia Ecclesiastica e Morale fondata a Napoli nel 1821 dal padre teatino Gioacchino Ventura, tenace sostenitore delle dottrine di Felicité de Lamennais e dell’ultramontanismo più intransigente.

A Milano nel frattempo nel 1841 nasceva L’Amico Cattolico (conclusosi nel 1856), organo ufficioso della curia ambrosiana guidata dall’arcivescovo Gaetano Gaysruck e diretto principalmente all’aggiornamento culturale del clero, in ciò distinguendosi dalla maggioranza delle coeve riviste cattoliche più strettamente legate a una dimensione controversistica e apologetica. Sull’onda della concessione delle riforme liberali della prima parte del pontificato di Pio IX nasceva cosi alla fine del 1846 Il Contemporaneo, foglio di grande formato che assunse periodicità settimanale ed ebbe larga diffusione.

Filone importante della stampa primo ottocentesca fu quello della pedagogia cattolico-liberale toscana-piemontese che si manifestò in particolare attraverso la Guida dell’Educatore, pubblicata a Firenze dal Gabinetto scientifico e letterario di Giovan Pietro Viesseux e compilata da Raffaele Lambruschini; L’Educatore primario che cominciò ad uscire nel 1845 per opera del sacerdote biellese Agostino Fecia e che si avvalse della collaborazione di Niccolò Tommaseo e Ferrante Aporti; e infine L’Istitutore nato nel 1852 e diretto da Domenico Berti e coadiuvato per la parte didattica dal sacerdote e pedagogista Giovanni Lanza.

Il decennio cruciale per le sorti del Risorgimento italiano 1848-1958 fu altresì segnato dalla nascita e affermazione di due giornali di cui fra poco si dirà, la torinese Armonia della Religione con la Civiltà e la napoletana poi fiorentina e infine romana Civiltà Cattolica che delinearono a chiare tinte il quadro duramente intransigente e antiliberale con cui la Chiesa nella sua solenne veste gerarchica si apprestava ad accogliere il nascente fragile Stato di Cavour e della Destra storica. Ma in mezzo alla contrapposizione frontale fra liberali, cattolici moderati, legittimisti e temporalisti si presentarono sulla scena i giornali legati al pensiero dell’abate roveretano Antonio Rosmini, fautore soprattutto di una visione aperta, moderna e riformatrice della Chiesa in relazione ai «segni dei tempi».

Tra i periodici che a tale corrente riformista facevano riferimento si ricordano Il Subalpino (1836-1840) diretta da Massimo Cordero di Montezemolo (1807-1879) con la collaborazione prestigiosa della penna di Cesare Balbo; Il Propagatore religioso diretto dall’assistente al Museo egizio di Torino don Giovanni Baracco e pubblicato a partire dal 1836; il periodico scientifico-letterario L’Eridano nato nel 1841 e condotto da Giorgio Briano; le riviste dell’area antigesuitica e legate alla filosofia risorgimentale rosminiana e giobertiana: il settimanale Fede e Patria uscito nel biennio 1848-1849 e poi tramutatosi nel Florilegio cattolico e Il Conciliatore torinese (1848-1849), trisettimanale pubblicato dal teologo Lorenzo Gastaldi e fermo sostenitore dell’abate Vincenzo Gioberti. Alla vigilia dell’Unità è da segnalare la rivista antitemporalista torinese Il Conciliatore nata nel 1860 e proseguita dal 1863 dal Carroccio, di Giovanni Avignone e cui presero parte tra gli altri Antonio Stoppani e Luigi Vitali.

Tuttavia il rosminianesimo, soprattutto dalla svolta antiliberale e antirisorgimentale inferta da Pio IX alla Chiesa nel biennio 1848-1849, risultò essere una ipotesi di lavoro intellettuale sempre più impraticabile per il clero cattolico. L’Armonia della Religione con la Civiltà e la Civiltà Cattolica costituiscono da questo punto di vista le espressioni pubblicistiche più significative in questo senso. L’Armonia, sorta nel ’48, si fece assertrice dell’astensionismo cattolico alle elezioni politiche in Piemonte nel 1857 attraverso il celebre motto «Né eletti né elettori» attraverso la penna di don Giacomo Margotti (1823-1887).

Il 6 aprile 1850 usciva il primo numero della La Civiltà Cattolica, la più nota rivista della Compagnia di Gesù e che ebbe come fondatori padre Luigi Taparelli D’Azeglio (1793-1862, fratello del politico liberale Massimo e sostenitore inizialmente di una conciliazione fra Stato e Chiesa), Carlo Maria Curci (1810-1891; ne divenne il primo direttore), padre Antonio Bresciani (1798-1862, scrittore di romanzi a tinte reazionarie) e padre Matteo Liberatore (1810-1892, studioso della filosofia tomista destinata a diventare per decreto pontificio di Leone XIII la filosofia ufficiale della Chiesa cattolica tra Otto e Novecento). Il programma della rivista diffusa in migliaia di copie (in pochi mesi si arrivò a una tiratura di 8.000 copie) su tutto il territorio nazionale mirava alla riconquista della società ai principio di ordine e di autorità cattolica al di là dei contingenti regimi politici e contro il liberalismo rivoluzionario e usurpatore.

Tracciando un bilancio generale si può affermare la varietà di temi politici e culturali presenti nelle testate (una costante della storia del cattolicesimo culturale italiano) e insieme la sostanziale ristrettezza di lettori e di presenze giornalistiche (nel 1863 si contavano soltanto 53 giornali, di cui una decina erano i quotidiani).

 Fonti e Bibl. essenziale

D. Bertoni Jovine, I periodici popolari del Risorgimento, Milano 1959; S. Fontana, La controrivoluzione cattolica in Italia, Brescia 1968; F. Traniello, Cattolicesimo conciliatorista. Religione e cultura nella tradizione rosminiana lombardo-piemontese (1825-1870), Milano 1970; U. Bellocchi, Storia del giornalismo italiano, I-VI, Bologna 1974-1977; V. Castronovo – G. Ricuperati – C. Capra (a cura di), La stampa italiana dal Cinquecento all’Ottocento, Introduzione di N. Tranfaglia, Roma-Bari 1976; A. Galante Garrone, F. Della Peruta (a cura di), La stampa italiana del Risorgimento, Roma-Bari 1979; A. Majo, Storia della stampa cattolica. Lineamenti storici e orientamenti bibliografici, Milano 1984; G. Mucci, Carlo Maria Curci. Il fondatore della “Civiltà Cattolica”, Roma 1988; F. Dante, Storia della “Civiltà Cattolica” (1850-1891). Il laboratorio del Papa, Roma 1990; G. Sale, La “Civiltà Cattolica” nella crisi modernista (1900-1907), prefazione di P. Scoppola, Milano 2001; N. Raponi, Cattolicesimo liberale e modernità. Figure e aspetti di storia della cultura dal Risorgimento all’età giolittiana, Brescia 2002, 93-113; C. De Maria, Le riviste cattoliche/1: l’Ottocento, in A. Melloni (diretto da), Cristiani d’Italia. Chiesa, società, Stato, 1861-2011, II, Roma 2011, 1281-1294.


LEMMARIO




Giornali, Riviste cattoliche - vol. II


Autore: Sergio Apruzzese

Gli anni post-unitari furono caratterizzati dalle ristrette dimensioni del mercato dei lettori, da una accentuata dispersione editoriale a carattere perlopiù regionale e provinciale, la pubblicistica cattolica si mostrò anzitutto nel suo volto intransigente, fieramente avversa alle modalità con le quali si era costituito lo Stato unitario e non priva di nostalgie temporalistiche e legittimistiche.

Tra i fogli più rappresentati di questa lunga stagione giornalistica per la Chiesa italiana ci fu anzitutto la gesuita Civiltà Cattolica che, nata nel 1850 mai tergiversò dalla sua ferma opposizione al liberalismo, al Risorgimento inteso come moto di usurpazione del primato papale sulla nazione a favore di un ceto laicista e anticlericale, al rosminianesimo, considerato come un pericoloso cedimento filosofico verso la “perversa” modernità dei non cristiani. Accanto alla Civiltà Cattolica si posero in prima linea nella lotta allo Stato liberale e per la riaffermazione dei diritti della Chiesa sulla società e sullo Stato laico e usurpatore, l’Osservatore Romano e L’Osservatore Cattolico. Il primo nacque il primo luglio 1961 divenendo da subito l’organo ufficiale della Santa Sede e prendendo così il posto che fu del Giornale di Roma.

Il 2 gennaio 1864 nasceva a Milano come erede dell’Osservatore Lombardo (bisettimanale uscito a Brescia tra il 1861 e il 1863), l’Osservatore Cattolico. Fondatori, proprietari e primi direttori della rivista intransigente furono mons. Giuseppe Marinoni, superiore dell’Istituto delle missioni estere di Milano, e don Felice Vittadini, professore di dogmatica nel seminario milanese. La penna più audace del foglio milanese fu don Davide Albertario (1846-1902), avversario irriducibile del liberalismo sul piano politico-sociale e del rosminianesimo sul piano filosofico-teologico. Sulla scia di questi tre periodici nacque a Milano nel gennaio 1873 La Scuola Cattolica, divenuta nel 1902 (dopo la fusione con La Scienza italiana di Giovanni Maria Cornoldi) La Scuola Cattolica e la Scienza italiana.

Altri periodici intransigenti furono: L’Eco delle Romagne di Bologna (1861-1863); lo Stendardo Cattolico di Genova (1862-1874); L’Unità Cattolica di Torino (1863) fondata da don Giacomo Margotti già protagonista dell’Armonia della Religione con la Civiltà e negli anni divenuta punto di riferimento di quest’area intellettuale cattolica; la veneziana Libertà Cattolica, che, nata a nel 1856, a partire dal 1866 si trasferì a Napoli sotto la guida dell’abate Girolamo Milone divenendo il più importante giornale del Meridione; Il Diritto Cattolico di Modena (1867-1911); La Voce della Verità di Roma (1871-1904) diretta da Francesco Naldi, coadiuvato dal fondatore della Civiltà Cattolica, Carlo Maria Curci; La Discussione (1873-1906) di Napoli e di orientamento legittimista e filo-borbonico.

Rispetto alla linea intransigente quella moderata fu minoritaria ma capace ugualmente di tracciare sentieri programmatici e ideali destinati a rivelarsi fecondi nel nuovo secolo. Tra i fogli più rappresentativi di tale corrente si ricordano: Gli Annali Cattolici (1863) e la Rivista Universale (1866) entrambe genovesi, La Rassegna Nazionale di Firenze (1878) la Rassegna Italiana di Roma e il quotidiano milanese La Lega lombarda (1886).

Sull’onda lunga della Rerum novarum (1891) di Leone XIII nasceva a Roma nel 1893 e diretta da Salvatore Talamo (1854-1932), coadiuvato da Giuseppe Toniolo (1845-1918) la Rivista di studi sociali e discipline ausiliarie.

Nel solco del cattolicesimo sociale tracciato da Toniolo e nel quadro più ampio del nazionalismo radicale promosso dalle nuove aristocrazie spirituali della nazione, con una sua precisa autonomia intellettuale e politica, si colloca il sacerdote marchigiano Romolo Murri (1870-1944), attivo organizzatore della cultura cattolica tra Otto e Novecento e di riviste giovanili finalizzate alla rigenerazione morale, politica e sociale degli italiani: Vita Nova (1895-1896) Cultura Sociale (1898-1906), il Domani d’Italia (1901-1903), la Rivista di Cultura (1906-1909), Il Commento (1910-1911), Studium (1906), sono soltanto alcuni dei riferimenti pubblicistici che videro Murri protagonista e promotore.

Il movimento femminista cristiano sorto e sviluppatosi in tale periodo ebbe tra i suoi periodici più rilevanti: Azione Muliebre (1901-1949) della nobile veronese Elena da Persico (1869-1948), In Cammino (1900-1904) di Antonietta Giacomelli (1857-1949) e Pensiero e Azione (1904-1908) di Adelaide Coari (1881-1966) e Pierina Corbetta.

Al moto di ringiovanimento e di rinnovamento culturale della nazione espressosi tra i due secoli diede un contributo assai significativo la cosiddetta «crisi modernista», che vide le riviste cattoliche principale veicolo di idee e di polemiche con l’ala più conservatrice del cattolicesimo italiano. I periodici che più si distinsero in questa fase sul versante modernista, furono: Studi Religiosi di Firenze, diretti dal sacerdote Salvatore Minocchi (1901-1907); la Rivista storico-critica delle Scienze Teologiche (1905-1910) e Nova et Vetera (1908), entrambe fondate e dirette dal prete romano Ernesto Buonaiuti; In Cammino (1900-1904) di Antonietta Giacomelli; la Rivista delle Riviste per il clero (1903-1908) di Macerata e diretta dal canonico Giovanni Sforzini; La Cultura Contemporanea di Roma (1909-1913); Il Rinnovamento di Milano (1907-1909) e diretta da Tommaso Gallarati Scotti (1878-1966), Antonio Aiace Alfieri (1880-1962) e Alessandro Casati (1881-1955); Battaglie d’oggi di Napoli (1905-1912, diretta dall’insegnante liceale ed ex tenente dell’esercito, Gennaro Avolio e nel 1913 divenuta La Nuova Riforma, durata fino al 1918). Sul versante opposto (con toni differenti) si schierarono oltre ai periodici sopracitati della intransigenza ottocentesca anche nuovi fogli: la Miscellanea di Storia Ecclesiastica e di Studi ausiliari (Roma, 1902-1907 e diretta da monsignor Umberto Benigni); la Rivista di Scienze e Lettere del seminario diocesano di Napoli di forte matrice tomistica (1900-1909); Religione e Civiltà di Siena (1910-1914), diretta dal canonico toscano Agostino Ruelli; la Sentinella Antimodernista di Firenze (1912-1913); e soprattutto le due riviste principali del movimento neoscolastico milanese, ruotanti attorno alla figura e l’opera del frate francescano e medico, Agostino Gemelli (1878-1959): la Rivista di Filosofia Neo-Scolastica (fondata nel 1909) e Vita e Pensiero (iniziata nel dicembre 1914).

All’inizio del Novecento per far fronte alla egemonia della stampa liberale anticlericale su iniziativa del conte Giovanni Grosoli (già al vertice dell’Opera dei Congressi sciolta d’autorità nel 1904 da Pio X) viene fondato nel 1907 e conclusosi tra varie vicissitudine finanziarie e politiche nel 1918, il trust della stampa cattolica costituito dalla «Società Editrice Romana» cui facevano capo diverse testate giornalistiche: Il Corriere d’Italia (1907) pubblicato a Roma, che assunse il ruolo di giornale pilota del trust, L’Avvenire d’Italia (1910) di Bologna, diretto da Filippo Crispolti (1857-1942), Il Corriere di Sicilia (1912) di Palermo, L’Italia (1912) di Milano, Il Momento (1912) di Torino, diretto da Angelo Mauri (1873-1936), Il Messaggero Toscano (1913) di Pisa, l’Esare (1916) di Lucca.

Negli anni del dopoguerra sorse la stampa vicina al partito popolare composta da almeno venti quotidiani e da numerosi altri periodici capillarmente diffusi nel Paese. Estremamente vario era l’orientamento politico: si andava dalla linea nei toni moderata della milanese Civitas (1919-1924, diretta da Filippo Meda, 1869-1939) e di Politica Nazionale (1916-1923) alle riviste del sindacalismo cattolico: L’Azione di Cremona di Guido Miglioli (1879-1954) e Conquista popolare (1921-1922) di Verona e diretta da Giuseppe Speranzini (1889-1976); infine al Pensiero popolare di Torino (1920-1923 e animata da Attilio Piccioni, 1892-1976). Il Popolo Nuovo fu l’organo dal 1919 al 1925 del partito popolare di Luigi Sturzo (1871-1959).

Fiancheggiatore del regime fascista e in contrapposizione alla egemonia dell’idealismo assoluto del filosofo siciliano Giovanni Gentile (1875-1944), fu la rivista fiorentina Il Frontespizio (1929-1940), in particolare attraverso l’intraprendete figura del sacerdote romano don Giuseppe De Luca (1898-1962).

Sorta a Firenze come supplemento di Vita cristiana nel 1939 e durata un anno, Principi, promossa da Giorgio La Pira (1904-1977), costituì per la cultura cattolica il ponte fra la fine di una illusione storica (quella di poter in qualche modo «guidare» il fascismo verso la restaurazione cristiana dello Stato e della società civile) e la volontà di organizzare un nuovo patto di civiltà fondato sul radicalismo dei principi evangelici del cattolicesimo.

Dopo la liberazione ripresero le pubblicazioni testate storiche del giornalismo cattolico, come L’Eco di Bergamo, diretto da don Andrea Spada, L’Avvenire d’Italia a Bologna, diretto da Raimondo Manzini, L’Ordine a Como, diretto da don Giuseppe Brusadelli, l’Italia a Milano e ll Cittadino di Genova. Nel 1946 esce Humanitas mensile di cultura e di attualità della Casa editrice Morcelliana e diretto da p. Giulio Bevilacqua (1881-1965), Michele Federico Sciacca (1908-1975) e Mario Bendiscioli (1903-1998).

Nel 1947 sorse la rivista Cronache Sociali, legata alle figure di Giuseppe Dossetti (1913-1996), Amintore Fanfani (1908-1999), La Pira e Giuseppe Lazzati (1909-1986). Terminò la sua esperienza nel 1951, in dissenso con la linea politica della Democrazia cristiana di Alcide De Gasperi, giudicata troppo moderata e conservatrice.

Nel 1949 nasce Adesso, rivista di impegno cristiano di don Primo Mazzolari (1890-1959), volta a promuovere l’immagine di una Chiesa al servizio degli ultimi. Tra i periodici vicini invece alla linea centrista degasperiana è da ricordare La Discussione fondata dal leader trentino nel 1952; diretta da Giulio Andreotti (1919-2013) fu invece la rivista Concretezza nata nel 1955.

La sinistra DC si espresse anche attraverso altre riviste quali Per l’azione (1948-1953); Iniziativa democratica (1951-1952) di Giovanni Galloni e Achille Ardigò a Bologna; La Base, che uscì a Milano nel febbraio 1954, seguita da Prospettive (1954-1955) sotto la direzione di Aristide Marchetti; Politica (1955) fondata a Firenze da Nicola Pistelli. Nell’area giovanile democristiana si collocano Stato democratico e Terza generazione (1955-1954) diretta da Bartolo Ciccardini e il Domani d’Italia (1975-1976) di Milano diretto da Giovanni Galloni. Su un piano più strettamente religioso-culturale va ricordato il periodico L’Uomo, pubblicato a Milano nel 1945 da un gruppo di letterati e sacerdoti tra i quali p. David Maria Turoldo (1916-1992) e p. Camillo De Piaz (1918-2010). All’inizio del 1946, ad opera di Nando Fabro, usciva a Genova il mensile Il Gallo che ebbe tra i suoi sostenitori il p. filippino Andrea Gaggero e il francescano Nazareno Fabretti.

Particolarmente importanti le riviste bolognesi Il Regno (fondata nel 1956 da un gruppo di religiosi dehoniani) e Il Mulino (1951); da ricordare la rivista di Wladimiro Dorigo, Questitalia (1958-1970), che rappresentò il punto di riferimento e di coordinamento dei diversi gruppi spontanei locali sviluppatisi in Italia, la cui connotazione politica si orientò verso un progressivo distacco dalla DC per convergere verso una scelta di sinistra. Questi fermenti saranno anche la base per la nascita del movimento dei cristiani per il socialismo, alle cui istanze si richiamano alcune riviste tra cui Testimonianze (1958) e Il Tetto (1963). Ostile, invece, al clima riformatore instauratosi con il Concilio Vaticano II dei primi anni Sessanta (di cui Concilium, nata nel 1965, sul piano europeo fu la più significativa manifestazione pubblicistica), e di forte orientamento teologico tradizionalista fu il periodico genovese Renovatio (1966-1993), diretto dal cardinale Giuseppe Siri (1906-1989). Organo, infine, del movimento ecclesiale «Comunione e liberazione», affermatosi negli anni Sessanta con a capo don Luigi Giussani (1922-2005), fu il mensile CL, fondato nel 1974.

Con la caduta dell’impero sovietico, l’associazione romana «Riformismo e solidarietà» dava vita al mensile cattolico-progressista Il Bianco e il rosso diretto da Pierre Carniti. Ispirazione completamente diversa e di orientamento conservatore fu quella che diede vita alla pubblicazione delle rivista Liberal, a Roma nel marzo del 1995, sotto la direzione dello storico Giorgio Rumi.

Per quel che concerne gli ultimi anni è da segnalare la vicenda dell’Avvenire. Il quotidiano della Cei nel 2008 tocca quota 105.000 nelle tirature con la direzione di Dino Boffo, uomo legato a Camillo Ruini e al centro di vivaci polemiche politiche prima con lo storico Pietro Scoppola (1926-2007) e poi con Il Giornale di Vittorio Feltri che lo costrinse nel 2009 alle dimissioni dopo un violento scontro sul caso della vita privata dell’allora presidente del Consiglio, Silvio Berlusconi. Due vicende che segnano le fragilità e le ambiguità di lungo periodo di una parte significativa della stampa cattolica, ancora non sufficientemente autonoma dal potere politico.

Fonti e Bibl. essenziale

P. Scoppola, Crisi modernista e rinnovamento cattolico in Italia, Bologna 1961; G. Licata, Giornalismo cattolico italiano, Roma 1964; F. Leoni, L’Osservatore Romano. Origini ed evoluzione, Napoli 1970; S. Ristuccia (a cura di), Intellettuali cattolici tra riforma e dissenso: polemiche sull’integrismo, obbedienza, rifiuto dell’istituzione nelle riviste degli anni sessanta, Milano 1975; F. Malgeri, La stampa quotidiana e periodica e l’editoria, in F. Traniello, G. Campanini (diretto da), Dizionario storico del movimento cattolico in Italia. 1860-1980, I/1, I fatti e le idee, Casale Monferrato 1981, 273-295; A. Majo, Storia della stampa cattolica. Lineamenti storici e orientamenti bibliografici, Milano 1984; A. Canavero, Albertario e l’”Osservatore Cattolico”, Roma 1988; F. Dante, Storia della “Civiltà Cattolica”. Il laboratorio del Papa, Roma 1990; G. Vecchio, Politica e democrazia nelle riviste popolari (1919-1926), Roma 1990; M. Tagliaferri, L’Unità cattolica. Studio di una mentalità, Roma 1993; G. Sale, “La Civiltà Cattolica” nella crisi modernista (1900-1907), prefazione di P. Scoppola, Milano 2001; D. Saresella, Dal Concilio alla contestazione. Riviste cattoliche negli anni del cambiamento (1958-1968), Brescia 2005; Cronache Sociali 1947-1951, edizione anastatica integrale e introduzione a cura di A. Melloni, Bologna 2007; M. Forno, I giornali: ombra e riflesso, in A. Melloni (a cura di), Cristiani d’Italia. Chiesa, società, Stato, 1861-2011, II, Catanzaro 2011, 1453-1464; D. Saresella, Le riviste del secondo dopoguerra, in A. Melloni (diretto da), Cristiani d’Italia. Chiesa, società, Stato, 1861-2011, II, Roma 2011, 1355-1366.


LEMMARIO




Giornalismo - vol. II


Autore: Giampaolo Malgeri

Il giornalismo cattolico italiano nacque e acquistò rilievo negli anni successivi all’unificazione nazionale quando l’emergere di correnti politiche e ideologie ostili alla Chiesa e lo scontro con lo Stato unitario liberale, determinarono nella Chiesa e in campo cattolico l’esigenza di una vivace e decisa reazione.

Si può dire, per molti aspetti, che il giornalismo cattolico ha maturato proprio negli anni del liberalismo una nuova e piena coscienza del suo ruolo, cercando di conquistare, nel rispetto delle indicazioni del magistero ecclesiastico, una dimensione sempre più efficace nel panorama della comunicazione di massa che andava assumendo un peso e un significato crescenti.

A ben vedere, tuttavia, si è trattato di un processo evolutivo non privo di difficoltà. Soprattutto nella sua prima fase, infatti, non sempre i vertici della Chiesa riconobbero pienamente il valore e la funzione civile e pedagogica della libertà di stampa. Gli interventi pontifici appaiono, negli anni aspri della contesa con lo Stato liberale, caratterizzati da una sorta di condanna o per meglio dire da una profonda diffidenza nei confronti della libertà di stampa. Il giornalismo viene interpretato da una parte largamente maggioritaria della Chiesa italiana soltanto come arma di lotta e di intransigente opposizione ai governi dell’Italia unita, senza riconoscerne la funzione di strumento di riflessione ed elaborazione rivolto alla società.

Tale orientamento conobbe, tuttavia, una lenta ma progressiva evoluzione, alla luce, soprattutto, dei profondi mutamenti politici, sociali e culturali del Paese e del costante sviluppo e trasformazione degli strumenti di comunicazione. Gli atteggiamenti critici, diffidenti nei confronti della stampa mutarono progressivamente in una attenzione nuova che si saldava con l’esigenza di un reinserimento della Chiesa nella vita pubblica e del superamento dei contrasti con lo Stato italiano. Già con il pontificato di Leone XIII si coglie l’esigenza di uscire dai limiti della polemica temporalistica e di immergere il giornalismo cattolico nel vivo dei problemi della società italiana, per orientare l’opinione pubblica e per difendere i valori e gli interessi cattolici. A determinare questo mutamento valse anche il manifestarsi ed il diffondersi nel mondo cattolico e all’interno della Chiesa delle preoccupazioni di carattere sociale, cui contribuì in maniera determinante – con una profonda influenza anche sul piano giornalistico – la pubblicazione nel 1891 della Rerum Novarum. Non a caso in questi anni si assiste alla diffusione crescente di giornali, riviste e periodici che superando le antiche chiusure intransigenti si aprivano all’esigenza di un impegno pieno dei cattolici nella vita sociale e amministrativa del Paese con non poche istanze che assunsero il carattere di vero e proprio impegno politico. Alla vigilia della prima guerra mondiale, quindi la stampa cattolica risulta vitale in tutti i settori: dalla informazione alla cultura, dalla politica al sindacalismo.

Gli anni del fascismo rappresentano un passaggio di notevole importanza nel rapporto tra Chiesa e giornalismo. Di fronte all’affermarsi della dittatura, la Chiesa assegna alla stampa un ruolo di primo piano, affidandole il compito di promuovere la difesa di una presenza e di un pensiero che veniva a scontrarsi con l’ideologia dominante. È in questo clima che acquista un rilievo senza precedenti – in un quadro segnato, peraltro, dalla quasi totale eliminazione di un giornalismo cattolico libero – il ruolo dell’Osservatore Romano ed il contributo delle personalità che lo animavano: Giuseppe Dalla Torre, Federico Alessandrini, Guido Gonella. Soprattutto negli anni Trenta e nel corso della guerra l’Osservatore divenne uno dei pochi punti di riferimento credibile nel quadro generale di una stampa italiana asservita al regime, tanto da rappresentare, anche per molti esponenti della tradizione laica e antifascista una fonte sicura, una voce autonoma ed entro certi limiti libera. L’organo vaticano riuscì a richiamare gli italiani, superando il frastuono dei miti imperialisti e bellicisti, ai valori essenziali della convivenza civile, respingendo la politica dell’odio e offrendo l’immagine di una Chiesa aperta e disponibile per tutti.

Alla conclusione della seconda guerra mondiale, nella nuova situazione sorta con la caduta del fascismo, la Chiesa ed il giornalismo cattolico hanno dovuto misurarsi con una realtà politica nuova e confrontarsi con altre proposte politiche e altre ideologie in una situazione molto diversa dal passato. I cattolici, non più all’opposizione dello Stato unitario, sono stati invece partecipi della costruzione e della gestione della nuova democrazia, ispirata nei suoi fondamenti costituzionali a molti valori cattolici. Nella prospettiva della Chiesa, quindi il giornalismo è stato chiamato al compito delicato di guidare le coscienze svolgendo un ruolo complesso di richiamo ai valori di fondo e alla denuncia dei pericoli che li minacciano, promuovendo un confronto aperto anche con le posizioni non cattoliche. Del resto, con l’adesione piena della Chiesa alla democrazia e al principio che la libertà di espressione, sia pur vincolata alla legge morale e divina, costituisce un elemento irrinunciabile di essa, il giornalismo viene interpretato non più come una semplice arma usata da contendenti politici, ma come strumento per formare ed indirizzare l’opinione pubblica. È proprio in questi anni, peraltro, che la Chiesa ha preso sempre più coscienza del ruolo e dell’importanza della comunicazione sociale. Tale svolta è maturata e si è concretizzata negli anni del pontificato giovanneo, nel fervore del Concilio e nel clima vivace del periodo post-conciliare e del pontificato di Paolo VI.

Il Concilio Vaticano II, nel documento Inter Mirifica (1963) ha definito i mezzi di comunicazione, tra i quali anche la stampa, “le meravigliose invenzioni tecniche (…) che l’ingegno umano con l’aiuto di Dio, ha tratto dal creato” e che “offrono al genere umano validi sostegni a consolidare il Regno di Dio”. Un altro documento, Communio et Progressio, pubblicato nel 1971, ha riconosciuto questi mezzi “necessari per le attività e i profondi e sempre più complessi rapporti della nostra società”.

Fonti e Bibl. essenziale

M. Bocci (a cura di), Giuseppe Dalla Torre. Dal movimento cattolico al servizio della Santa, Milano, Vita e Pensiero, 2010; Sede Documenti pontifici sulla stampa (1878-1963), Città del Vaticano, Edizioni della Radio Vaticana, Tipografia poliglotta vaticana, 1964; G. Licata, Giornalismo cattolico italiano, Roma, Studium, 1964; F. Malgeri, La stampa quotidiana e periodica e l’editoria, in Dizionario storico del movimento cattolico in Italia, vol. I, tomo I, I fatti e le idee, Torino, Marietti, 1981; A. Majo, Storia della stampa cattolica in Italia, Milano, NED, 1987; M. Marazziti, I papi di carta. Nascita e svolta dell’informazione religiosa da Pio XII a Giovanni XXIII, Genova, Marietti, 1990.


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