Associazione Italiana dei Professori di Storia della Chiesa

Dizionario Storico Tematico La Chiesa in Italia
Dalle origini all'Unità Nazionale
Roma 2015
Copyright © 2015

Giurisdizionalismo - vol. I


Autore: Carlo Fantappiè

Il termine giurisdizionalismo è di conio relativamente recente ed è tipicamente italiano come denominazione omnicomprensiva di quelle prerogative anteriormente chiamate «regia giurisdizione». Nel classificare i differenti sistemi di idee esposte alla Camera dei deputati per trovare una soluzione ai rapporti tra Stato e Chiesa in Italia, Francesco Scaduto distinse il sistema clericale, cattolico-liberale, giurisdizionalista e radicale (Santa Sede, in Il digesto italiano, XXXI, Torino 1891, 547 ss.). Altri studiosi di diritto ecclesiastico come Ruffini, Galante e Schiappoli recepirono il termine e lo inserirono nella manualistica italiana del primo Novecento.

Rispetto alla classificazione teorica dei rapporti tra Stato e Chiesa elaborata in Germania nel secondo Ottocento (P. Hinschius) e adattata dalla dottrina italiana, il giurisdizionalismo è qualificato come un sistema intermedio tra la “teocrazia” e il “cesaropapismo” e opposto al “separatismo”, in quanto presuppone la distinzione ma anche il coordinamento dei due poteri. Nel regime di tipo confessionale, esso si esplica nella reciproca concessione di particolari facoltà, in deroga al diritto comune dello Stato, a organi della Chiesa e della Chiesa a organi dello Stato. Nel regime laico si attua secondo il diritto comune dello Stato ma comporta un diritto unilaterale di vigilanza sulla Chiesa (Jemolo).

Come sistema politico-religioso funzionale all’affermazione dello Stato moderno in campi fino allora riservati alla competenza della Chiesa, il giurisdizionalismo si situa al punto di confluenza delle dottrine medievali e moderne sulla sovranità. Dall’universo medievale, trae il fondamento sacrale dello Stato e del sovrano come autorità indipendenti da ogni autorità umana, la concezione del sovrano tutore dello Stato e della Chiesa in quanto rappresentante il popolo e i fedeli, la prerogativa di esercitare il potere coattivo di cui dispone non solo a vantaggio dello Stato e della Chiesa ma anche per regolare, moderare e coordinare le attività di entrambi. Dall’universo moderno, il giurisdizionalismo deriva, invece, il principio della sovranità territoriale propria dello Stato in via di consolidamento. Distinguendo la Chiesa istituzione universale dalla Chiesa particolare, vede quest’ultima quale istituzione dello Stato e come tale non la considera né estranea né superiore ad esso.

Questa concezione, maturata in Francia già nel basso medioevo, sarà accentuata e codificata negli Stati protestanti mediante le teorie territorialiste. Quale signore del territorio, il sovrano si vedrà assegnare dalla scienza cameralistica tedesca (C. Thomasius) un complesso di diritti intorno alle cose sacre (iura maiestatica circa sacra) diretti a proteggere la Chiesa oppure a difendere lo Stato dalle pretese della Chiesa.

I primi consistono nel ius advocatiae o protectionis, che fa del principe il «custode e difensore dei canoni» e nel ius reformandi, ossia nella facoltà di intervenire nella vita della Chiesa particolare per migliorare il funzionamento dei suoi organi. Invece gli istituti creati per preservare la sovranità statuale contemplano: 1) ius inspectionis o diritto di vigilanza sulle attività e manifestazioni ecclesiastiche; 2) ius cavendi o diritto di controllo preventivo sulle leggi e decreti ecclesiastici mediante l’introduzione del regio placet e dell’exequatur per dare loro vigenza e dell’appello per abuso come facoltà dei fedeli-sudditi di ricorrere agli organi dello Stato per far valere i loro diritti contro ogni eccesso di potere; 3) ius exclusivae o riserva degli uffici ecclesiastici ai sudditi e a persone gradite; 4) ius dominii eminentis o superiore diritto degli Stati sul patrimonio ecclesiastico.

Mediante una così ampia e differenziata gamma di poteri d’intervento i sovrani potevano sovrapporre la giurisdizione dello Stato su quella della Chiesa e attuare un penetrante controllo non solo sulla legislazione e sull’organizzazione ecclesiastica «nazionale» (proprietà e benefici, clero secolare e regolare, ecc.), ma anche sulle dottrine teologiche, sull’amministrazione dei sacramenti nonché sull’emanazione delle censure canoniche.

Storicamente questo “sistema politico-giuridico” è il frutto di una costruzione dottrinale e sottintende una realtà assai variegata: non si afferma pienamente in un determinato momento o paese, bensì assume differenti modalità attuative, oltre che per gradi, per modelli nazionali, per epoche storiche, per contesti territoriali. Nella frammentata realtà politica degli Stati italiani, il giurisdizionalismo ha un deciso carattere confessionale e risente, a seconda del dominio di turno, del modello francese (gallicanesimo), spagnolo (regalismo), germanico (febronianesimo), austriaco (giuseppinismo) ma esperimenta anche forme proprie nel Regno di Sicilia, di Napoli, nella Repubblica di Venezia, nel Granducato di Toscana.

Anche con queste avvertenze resta comunque difficile isolare tali modelli nello sviluppo della concreta realtà storica. Il rischio è sempre quello di entificare due realtà (lo ‘Stato’ e la ‘Chiesa’) che non sono mai state del tutto separate specie nell’antico regime, e di presentarle come virtualmente antagoniste, quando invece l’indagine ci rende edotti del fatto che esse si sono costruite mediante un complesso intreccio di apparati, istituti, procedure che sottendono strategie e interessi il più delle volte convergenti. Sotto questo profilo la sintetica ricostruzione che segue andrebbe vista come il dispiegamento di tecniche di neutralizzazione, di negoziazione e di condizionamento reciproci. A ben vedere i processi di ‘confessionalizzazione’ e di ‘secolarizzazione’ dello Stato moderno sono uno la faccia rovesciata dell’altro. La tematica del giurisdizionalismo, legata alle polemiche risorgimentali, dovrebbe venire reimpostata alla luce di categorie più adeguate. Le controversie che vi sono solitamente ricomprese sono, infatti, parte essenziale del processo di costruzione, consolidamento e affermazione dello Stato moderno. Sotto questo riguardo si comprende quanto possano essere fuorvianti gli schematismi teorici dei giuristi del passato.

Un asse comune tra le vecchie e le nuove problematiche può comunque essere trovato attorno al nodo della «giurisdizione» come terreno comune alla costruzione dei due poteri. È essenziale cogliere il passaggio dalle controversie medievali per la delimitazione dei confini tra le due giurisdizioni, che avevano dato luogo nei singoli comuni alla creazione di apposite norme statutarie e all’istituzione di speciali magistrature onde evitare gli sconfinamenti dell’autorità ecclesiastica, al conflitto delle giurisdizioni che sorge in seguito alla strutturazione dello Stato moderno e della Chiesa tridentina come poteri centralizzati e tendenzialmente assoluti.

Il problema della ricezione nella legislazione degli Stati dei decreti tridentini e della bolla In Coena Domini (una summa delle prerogative pontificie ed ecclesiastiche seguìta dalle più gravi sanzioni canoniche) costituiscono la base preliminare delle future dispute.

Convenzionalmente si fa risalire al 1606-1607 la prima occasione di scontro tra le due giurisdizioni contendenti, allorché la Santa Sede lancia l’interdetto contro Venezia in seguito al diniego della Repubblica di abolire leggi che prevedevano soppressioni di beni ecclesiastici, imponevano la sottoposizione del clero all’autorità giudiziaria dello Stato e condizionavano l’erezione di nuove chiese e luoghi pii all’autorizzazione del governo.

Dopo questo episodio emblematico, l’ascesa del giurisdizionalismo confessionalista in Italia può essere ricostruita in scansioni successive, dalla metà del Cinquecento alla fine del Settecento. Un primo momento si attua nel Ducato di Savoia con la ricezione dei princìpi gallicani e l’introduzione, da parte di Emanuele Filiberto, nel 1560, dell’appello al futuro concilio per abuso come istituto irrinunciabile e imprescrittibile. Esso sarà difeso fino al re Vittorio Amedeo II, che lo estenderà alla Sardegna secondo il modello francese. Da allora la politica giurisdizionalista dei Savoia subirà una forte attenuazione fino all’improvvisa ripresa di tono, a metà Ottocento, con le leggi Siccardi.

Contribuisce a rinvigorire le aspirazioni gallicane e regaliste nell’intera penisola la controversia sulla diocesi di Lipari che si disputa nel Regno di Sicilia tra il 1712 e il 1728. Il suo svolgimento evidenzia la trasformazione dell’istituto privilegiario della legazia apostolica – in forza del quale i re di Sicilia si ritenevano fin dal 1098 «legati nati» del pontefice e quindi titolari della suprema istanza nelle cause ecclesiastiche –, in una lunga lotta della Santa Sede diretta a sopprimere le competenze del «Giudice della monarchia sicula» istituito da Filippo II nel 1579. La politica regalista dei Borboni mira a consolidare la legazia apostolica anche nel periodo seguente alla transazione con Benedetto XIII avvenuta del 1728. Solo quando tale istituto diventerà ininfluente e obsoleto, alle soglie della rivoluzione francese, essi cominceranno ad attaccare direttamente le immunità e i privilegi ecclesiastici.

Con la fine della fase concordataria (v. Concordati), negli Stati italiani si assiste, ai primi anni Sessanta, a una progressiva radicalizzazione delle politiche ecclesiastiche. Episodi premonitori si possono considerare la controversia sulla soppressione del patriarcato di Aquileia nella Repubblica Veneta, e la legge di ammortizzazione, ideata dal ministro della «regia giurisdizione» Giulio Rucellai, nel Granducato di Toscana. Il nuovo clima è attestato dalla estensione degli interventi statuali sulle materie ecclesiastiche anche nei due piccoli Ducati di Parma e di Modena (dove nel 1757 e nel 1765 sono istituiti il Magistrato di giurisdizione sovrana e la Real Giunta di giurisdizione) e dalla diffusione di opere di carattere riformista (nel 1768 escono le Riflessioni di un italiano sopra la Chiesa… di Carlantonio Pilati e La Chiesa e la repubblica dentro i loro limiti di Cosimo Amidei).

Nella penisola si vanno delineando due modelli fondamentali di riformismo ecclesiastico: quello borbonico-tanucciano rivolto «a rivendicare le prerogative politiche statali di fronte alla Chiesa, ma estraneo ai progetti di riforma e di intervento circa sacra» e quello del «riformismo ecclesiastico e religioso asburgico, nelle sue due versioni giuseppina e leopoldina» (M. Rosa). Entrambi sono accomunati dall’atteggiamento polemico contro la Curia romana e gli ordini religiosi; entrambi intendono affermare la giurisdizione statale in campi sinora riservati alla Chiesa: ma lo fanno in guise, con metodi e scopi differenti.

Nel Meridione, eredi della tradizione giannoniana, si è più aderenti alla concretezza giuridico-politica, si fa perno esclusivo sugli organi di governo, ci si muove in modo gradualistico e si mira ad attuare un’azione di contenimento delle forze e istituzioni della Chiesa. Nella Lombardia austriaca e nel Granducato di Toscana si elaborano veri e propri progetti di ristrutturazione degli assetti istituzionali e religiosi, si cerca l’adesione e la collaborazione dei vescovi (sollecitati anche dalle correnti episcopaliste dei gallicani, dei febroniani e dei giansenisti), si nutre l’ambizione di modificare la religiosità popolare e di dare vita a chiese nazionali.

Nel Regno di Napoli l’indirizzo giurisdizionalista guidato dal ministro Bernardo Tanucci ha un’accelerazione tra il 1761 e il 1777. Si introduce il regio placet per le bolle papali e i decreti sinodali; si fa valere il principio del dominio eminente del re sui benefici ecclesiastici, ivi comprese le mense vescovili, togliendo efficacia alle regole della cancelleria pontificia; si rivendica allo Stato la competenza sui matrimoni in base alla separazione tra contratto naturale e sacramento per accessione; si elimina il fòro ecclesiastico per le cause civili e penali del clero; si sopprime il tribunale dell’Inquisizione e si limita l’azione di quelli vescovili; si proibisce ai vescovi di comminare scomuniche e di negare i sacramenti a motivo di delitti non accertati dalla legge civile.

Gli anni Settanta e Ottanta sono caratterizzati nella Lombardia austriaca, nella Repubblica di Venezia, nei Ducati e in Toscana da una vera e propria offensiva contro la curia romana, gli ordini religiosi, la proprietà ecclesiastica, i privilegi del clero, gli organi pontifici di controllo e di rappresentanza (Inquisizione e Nunziatura). I primi provvedimenti soppressivi di conventi e monasteri rivestono un carattere sparso e datano tra la fine del 1768 e i primi mesi del 1772; ad essi fanno seguito, nei territori asburgici, fino al 1780 «piani di consistenza» dei conventi e monasteri che ammettono la possibilità di accordo con i superiori degli ordini, e nel decennio seguente «piani di soppressione» indiscriminata, secondo il modello statualistico di Giuseppe II (v. Soppressioni). Nel Granducato di Toscana si sperimenta una collaborazione tra il disegno politico di Pietro Leopoldo e il gruppo di vescovi riformatori capeggiato da Scipione de’ Ricci. Qui la soppressione degli ordini religiosi avviene secondo modalità più ponderate e in funzione del potenziamento della rete parrocchiale. Per eliminare le sperequazioni economiche nel clero e per elevare il ministero pastorale nelle diocesi di Pistoia e Prato viene decretata la confluenza dei benefici ecclesiastici in istituti di sostentamento del clero detti Patrimoni ecclesiastici diocesani.

La fine degli anni Ottanta segna nei vari Stati italiani, diversamente dalla Francia, la parabola discendente del giurisdizionalismo. La reazione popolare, il timore della rivoluzione, il mutamento politico e culturale (che sarà ancora più evidente nel periodo della Restaurazione), inducono i governi a revocare le misure più radicali e a cercare un compromesso con la Santa Sede.

Come anticipato all’inizio, nella storia italiana dell’Ottocento il giurisdizionalismo avrà una nuova esplosione dopo la legge delle guarentigie del 13 maggio 1871. Ma si tratterà di un nuovo giurisdizionalismo, laico o liberale e niente affatto confessionalista, il quale non considererà più la Chiesa un proprio organo peculiare, da tutelare e/o da riformare, ma un’associazione o un’istituzione da inquadrare nell’ambito del diritto pubblico generale. Del vecchio sistema di antico regime, il nuovo giurisdizionalismo mantiene nondimeno i controlli sulla Chiesa allo scopo di preservare la sovranità dello Stato.

Fonti e Bibl. essenziale

A.C. Jemolo, Stato e Chiesa negli scrittori politici del Seicento e del Settecento, Torino 1914 (Napoli 19722; P. Gismondi, Il nuovo giurisdizionalismo italiano, Milano 1946; M. Rosa, Riformatori e ribelli nel Settecento religioso italiano, Bari 1969; P.G. Caron, L’appello per abuso, Milano 1954; G. Tabacco, Andrea Tron (1712-1785) e la crisi dell’aristocrazia senatoria a Venezia, Trieste 1957; M. Condorelli, Momenti del riformismo ecclesiastico nella Sicilia borbonica, 1767-1850. Il problema della manomorta, Reggio Calabria 1971; G. Catalano, Studi sulla legazia apostolica di Sicilia, Reggio Calabria 1973; M. Rosa, Politica e religione nel ’700 europeo, Firenze 1974; F. Venturi, Settecento riformatore, voll. I-II, Torino 1969 e 1976; F. Trentafonte, Giurisdizionalismo, illuminismo e massoneria nel tramonto della Repubblica veneta, Venezia 1984; C. Fantappiè, Riforme ecclesiastiche e resistenze sociali. La sperimentazione istituzionale nella diocesi di Prato alla fine dell’antico regime, Bologna 1986; M.T. Silvestrini, La politica della religione. Il governo ecclesiastico nello stato sabaudo del XVIII secolo, Firenze 1997; M. Stolleis, Stato e ragion di Stato nella prima età moderna, Bologna 1998; La Legazia Apostolica. Chiesa, potere società in Sicilia in età medievale e moderna, a cura di S. Vacca, Caltanissetta-Roma 2000; A. Lupano, Verso il giurisdizionalismo subalpino: il De regimine ecclesiae  di Francesco Antonio Chionio nella cultura canonistica torinese del Settecento, Torino 2001; C. Latini, Il privilegio dell’immunità. Diritto d’asilo e giurisdizione nell’ordine giuridico dell’età moderna, Milano 2002; G. De Giudici, Il governo ecclesiastico nella Sardegna Sabauda (1720-1761), Napoli 2007; D. Edigati, L’abolizione della giurisdizione temporale della Chiesa in Toscana. Linee ricostruttive di una lunga e complessa riforma leopoldina (1776-1784), «Studi senesi», CCXI (2009), 281-336 e 455-517; P. Lo Iacono, Chiesa, Stato e popolo nel Mezzogiorno dei lumi. La legislazione ecclesiastica dei Borboni di Napoli e di Sicilia tra istanze regaliste e tutela dell’ordo spiritualis (1734-1789), Cosenza 2012; M.T. Napoli, La Regia Monarchia di Sicilia. «Ponere falcem in alienam messem», Napoli 2012; La prassi del giurisdizionalismo negli Stati italiani. Premesse, ricerche, discussioni, a cura di D. Edigati e L. Tanzini, Roma 2014; D. Edigati, Un altro giurisdizionalismo: libertà repubblicana e immunità ecclesiastica a Lucca fra Antico Regime e Restaurazione, Roma 2016; Giurisdizionalismi e politiche ecclesiastiche negli Stati minori della Penisola in età moderna, a cura di Daniele Edigati e Elio Tavilla, Roma 2018.


LEMMARIO




Giuspatronato - vol. I


Autore: Gaetano Greco

Il giuspatronato è il diritto di “patronato” sul beneficio ecclesiastico, riconosciuto giuridicamente dalla Chiesa e spettante a chi ha costituito la dote patrimoniale del beneficio al momento della sua fondazione o l’ha incrementata successivamente, nonché ai suoi successori legittimi. Questo diritto poteva essere ecclesiastico, se goduto da enti, corpi o persone ecclesiastiche (come un monastero maschile o femminile, un capitolo canonicale, un pievano etc.), oppure laicale. In quest’ultimo caso la tipologia dei possessori era assai vasta: sovrani, feudatari, città o comunità rurali, parrocchiani (gli abitanti stabili della parrocchia, oppure i proprietari dei beni posti nel suo distretto, o ancora gli usufruttuari di questi beni, secondo le tradizioni giuridiche locali), luoghi pii, associazioni (corporazioni di arti e mestieri, confraternite e compagnie devozionali), vicinie o vicinati (aggregati di residenti in prossimità del luogo sacro), famiglie (intese come corpi unitari, i cui patrimoni ed i cui diritti non erano trasmessi o ceduti a persone estranee al lignaggio), singoli privati (a carattere ereditario, sia per intero indiviso, sia per quote parti). Col passare dei secoli, poi, a seguito di successioni ereditarie, di donazioni e persino di vendite (giuridicamente vietate) divennero assai frequenti i patronati misti fra le famiglie, gli enti, i parrocchiani ecc. La stretta relazione, esistente fra la costituzione della dote beneficiale e il riconoscimento del giuspatronato, produceva un legame altrettanto stretto fra la proprietà della dote e il possesso del giuspatronato: spesso il giuspatronato seguiva il destino del patrimonio beneficiale come un diritto accessorio, goduto da chi deteneva i beni dotali del beneficio.

Il giuspatronato garantiva sostanzialmente ai suoi detentori tre diversi privilegi: l’onore, la pensione e la presentazione del rettore. L’onore consisteva nell’obbligo per i rettori di questi benefici di recitare preghiere particolari per la salute spirituale e per il benessere dei patroni e dei loro familiari, che fruivano di uno stallo chiuso, una panca o degli sgabelli propri dentro la chiesa. La pensione alimentare a favore dei patroni laici, ma solo se questi erano dei privati, gravava sulle rendite del beneficio in caso di loro miseria, valutata in relazione al tenore di vita ritenuto consono alla propria condizione sociale. Infine, la presentazione dei nuovi rettori doveva avvenire entro un tempo determinato (tre o quattro mesi per i laici, sei mesi per gli ecclesiastici) pena la decadenza dal godimento di questo diritto per quella volta. Di fatto, secondo il diritto civile consuetudinario il giuspatronato era una “cosa”: frazionabile in quote, era posseduto, ereditato, donato, venduto (anche se non formalmente, altrimenti si sarebbe trattato di simonia) e persino affittato (nei casi estremi, ma non rari, di nomina con riserva di pensione). Infine a questa forma di “patronato attivo” è da aggiungere l’esistenza di norme o pratiche di “patronato passivo”, cioè del diritto degli appartenenti ad una “nazione”, ad una comunità, ad una corporazione oppure ad una stirpe familiare ad essere eletti a preferenza di estranei. Con il passare dei secoli questo patronato passivo divenne sempre più determinante soprattutto in caso di contrasto fra più eletti, inducendo a preferire l’eletto ex sanguine patronorum anche a danno di candidati più e meglio qualificati.

Poiché le tradizioni giuridiche locali sulle modalità delle elezioni variavano da paese a paese, erano frequenti le contese per il possesso e l’esercizio di questi giuspatronati: quando non si ricorreva alla violenza fisica, le liti approdavano ai tribunali e sia le curie vescovili in prima istanza, sia la Sacra Rota di Roma in appello erano inondati da queste cause. Anzi, per i giuspatronati esclusivamente e sicuramente laicali non mancavano stati, anche in Italia, nei quali per tradizione i tribunali civili accampavano la propria competenza, in conflittuale concorrenza con il foro ecclesiastico. Un contenzioso così diffuso e acceso prova che anche in Italia una quota degli uffici ecclesiastici, compresi quelli residenziali, era di “pertinenza” dei laici, i quali controllavano e determinavano la scelta dei loro rettori. Fra questi laici una posizione importante era occupata dalle famiglie e dai singoli privati, che disponevano di un accesso facilitato agli uffici ecclesiastici in favore dei propri figli e parenti: costoro entravano nella Chiesa locale con le condizioni migliori (il “giusto titolo” beneficiale per l’ordinazione sacra) e potevano procedere nella carriera ecclesiastica, oppure erano liberi di godersi le rendite ed i privilegi della condizione ecclesiastica. Questa situazione vantaggiosa aveva incentivato le fondazioni dei benefici semplici, almeno in quei paesi, come il principato sabaudo o il granducato di Toscana, il ducato di Milano o la repubblica di Venezia, dove i diritti di patronato erano gelosamente protetti dalle autorità politiche: qui le famiglie benestanti potevano scorporare porzioni dei propri patrimoni domestici e impiegarle per fondare benefici ecclesiastici, poiché le loro rendite sarebbero servite nei secoli successivi per assicurare il mantenimento di propri familiari.

Nella prima età moderna, il godimento dei giuspatronati fu sconvolto dalla patologia delle “resignazioni” (→ beneficio) e i patroni laici corsero il rischio di essere espropriati d’ogni loro diritto nelle battute finali del Concilio di Trento. Qui fu presentato un progetto di Riforma dei Principi, che prevedeva di consolidare solo i diritti di patronato giustificati da quei documenti di fondazione e dotazione, che raramente erano ancora in possesso delle famiglie e delle comunità fondatrici. L’opposizione rigorosa del duca di Toscana Cosimo I impedì che il progetto andasse in porto: per i laici fu possibile sostituire la documentazione originale con «le molteplici presentazioni, ripetute per un periodo di tempo superiore alla memoria d’uomo», cioè per oltre trent’anni (Concilio di Trento, Sess. XXV, Decretum de reformatione, c. IX). Quanto, invece, alle ingerenze della Curia Romana (resignazioni, collazioni pontificie, imposizioni di pensioni ecc.), la situazione variava fra le diverse regioni italiane in relazione alla maggiore o minore difesa esercitata dai governi politici in favore delle pertinenze dei propri sudditi. Se questa difesa era considerata quasi inesistente nell’Italia Meridionale, al punto da scoraggiare la fondazione di benefici semplici di giuspatronato, l’opposto si verificò negli stati che si dotarono di appositi uffici per l’«Economato dei benefici vacanti». Esemplare, per la sua durata e per la sua efficienza, l’Economato del Granducato di Toscana, che garantì per tutta l’età moderna il pacifico godimento dei giuspatronati laicali non solo contro le pretese della Corte di Roma, ma persino contro le istanze riformatrici avanzate da alcuni vescovi toscani (come il “giansenista” Scipione Ricci), che in occasione dell’Assemblea dei vescovi del 1787 proposero la devoluzione di tutti i benefici diocesani alla collazione vescovile: proposta respinta nel nome della difesa dei sacri diritti della proprietà privata sulla “roba”. Tuttavia, nella temperie del riformismo regalista del Settecento non si salvarono i giuspatronati popolari: accusati di simonia dai funzionari civili e dalla gerarchia ecclesiastica per la rissosità delle loro riunioni elettorali, furono sottoposti a più rigorosi controlli governativi o persino espropriati dai sovrani illuminati come Pietro Leopoldo d’Asburgo Lorena, che avocò a sé tutti i giuspatronati pubblici, demandandone la gestione effettiva proprio ai vescovi locali.

La fine dei benefici di giuspatronato laicale privato parve arrivare durante l’occupazione francese, perché Napoleone concesse ai patroni la facoltà di rientrare in pieno possesso dei patrimoni beneficiali in occasione della prima vacanza, a condizione di versare alle casse statali una somma equivalente a un quarto del loro valore. A Napoli, Gioacchino Murat decise più sbrigativamente di trasferire le doti patrimoniali dei benefici non curati nelle mani dei loro patroni, facendo salvo il diritto dei rettori attuali a godere le rendite beneficiali per tutta la durata della loro vita. La breve durata dell’Impero napoleonico impedì il radicamento di simili provvedimenti, e nell’età della Restaurazione anche i diritti di patronato privato tornarono all’antico regime, ma solo per una quarantina d’anni. Prima con la legge 29 maggio 1855, n. 878 del Regno di Sardegna e, in seguito, con la legge 15 agosto 1867, n. 3848 del Regno d’Italia, ai patroni laici fu data la possibilità di redimere i beni concessi in dote ai benefici ecclesiastici, pagando allo Stato una tassa equivalente a un terzo del loro valore. In una società ormai in via di accelerata secolarizzazione, il provvedimento ottenne un gran successo, perché proprio i ceti sociali più elevati non destinavano più i propri figli alla carriera ecclesiastica, bensì alle professioni liberali, al servizio dello Stato liberale, all’imprenditoria. Né migliore sorte arrise ai patronati passivi: i capitoli e le collegiate furono soppressi e i loro patrimoni confluirono nel demanio pubblico. Soltanto in aree periferiche continuarono a sopravvivere antichi diritti di patronato popolare: regolamentati con maggior rigore dal Codex Iuris Canonici del 1917 (canoni 1448-1452), sparirono senza lasciare tracce dal nuovo Codice di diritto canonico, coinvolti tacitamente nella soppressione del concetto stesso di beneficio ecclesiastico.

Fonti e Bibl. essenziale

P. Bertolla, Il giuspatronato popolare nell’arcidiocesi di Udine, in «Atti dell’Accademia di Scienze, lettere e Arti di Udine», s. VII vol. I (1957-1960), 197-311; R. Cona, Il giuspatronato parrocchiale dei capifamiglia nel Veronese: andamento e sviluppi dal XVI al XX secolo, in ed. L. Billanovich, Studi in onore di Angelo Gambasin, Vicenza, Neri Pozza, 1982, 9-42; A. Ciuffreda, I benefici di giuspatronato nella diocesi di Oria tra XVI e XVII secolo, in «Quaderni Storici», XXIII (1988), n. 67, 37-71; G.B. De Luca, Summa sive Compendium Theatri Veritatis, et Iustitiae, sive decisivi discursus …. 13.1. De Iure Patronatus, Roma, Typis Bartholomaei Lupardi, 1679; A. Galante, Giuspatronato, voce in Enciclopedia giuridica italiana, Milano, Società Editrice Libraria, vol. VII, 1914, 1011-1037; A. Gambasin, Il giuspatronato del popolo a Pellestrina tra il 600 e il 700, in A. Cestaro ed., Studi di storia sociale e religiosa. Scritti in onore di Gabriele De Rosa, Napoli, Ferraro, 1980, 985-1073; G. Greco, I giuspatronati laicali nell’età moderna, in G. Chittolini – G. Miccoli edd., Storia d’Italia. Annali 9. La Chiesa e il potere politico dal Medioevo all’età contemporanea, Torino, Einaudi, 1986, 531-572; M. Lupi, Cosimo de’ Medici, Domenico Bonsi e la riforma della Chiesa a Trento, in «Rivista di Storia della Chiesa in Italia», XXXVI, 1982, 1-34; V. Naymo, Benefici laicali e giuspatronati nel circondario di Gerace: strategie economiche, sociali e familiari, in V. Naymo ed., Confraternite, ospedali e benefici nell’età moderna. II Colloquio di studi storici sulla Calabria Ultra. Atti, Roma, Polaris, 2010, 43-55; M. Rosa, «Nedum ad pietatem, sed etiam (et forte magis) ad ambitionem ac honorificentiam». Per la storia dei patronati privati nell’età moderna, in «Rivista di Storia e Letteratura Religiosa», XXI, 1995, 101-117; G. Viviani, Praxis iurispatronatus acquirendi conservandique illud, ac amittendi modo breviter continens (1620), Venezia, Bertani, 16704.


LEMMARIO




Giustizia ecclesiastica - vol. II


Autore: Davide Cito

Il sistema della giustizia ecclesiastica si pone storicamente come una peculiare funzione collegata all’esercizio della potestà pastorale o di governo che rappresenta una forma di partecipazione allo stesso potere di Cristo per attuare nel tempo e nello spazio la sua missione di salvezza nei riguardi del popolo di Dio. Essa pertanto si va modulando entro due coordinate fondamentali, vale a dire, la materia su cui essa si esercita e i soggetti titolari di tale potestà

Quanto al primo punto, si è andata nei secoli fissando una terminologia, frutto anche di vicende conflittuali nei confronti dell’analoga potestà civile, e ripresa dall’attuale Codice di Diritto Canonico del 1983 e che afferma l’originarietà e l’esclusività della competenza della Chiesa nel giudicare: 1° le cause che riguardano cose spirituali e annesse alle spirituali; 2° la violazione delle leggi ecclesiastiche e tutto ciò in cui vi è ragione di peccato, per quanto concerne lo stabilirne la colpa ed infliggere le pene ecclesiastiche (can. 1401 CIC).

Per quanto attiene ai soggetti titolari, essi sono i medesimi soggetti investiti della potestà di governo e pertanto i primi ed originari amministratori della giustizia sono il Romano Pontefice e il Collegio episcopale per la Chiesa universale, ed i Vescovi per le Chiese particolari. Questa titolarità, che affonda le sue radici nel diritto divino, conferisce loro la possibilità di esercitare personalmente tale funzione, qualora lo ritengano opportuno, sebbene per motivi di organizzazione pratica e di efficacia pastorale si sono andati configurando organi stabilmente deputati ad esercitare in modo vicario, ossia in nome e per conto di essi, l’amministrazione della giustizia nella Chiesa.

E pertanto lungo la storia si vanno delineando gli organi cui è istituzionalmente affidato il concreto esercizio della funzione giudiziaria coadiuvando da un lato il Sommo Pontefice come supremo giudice di tutto l’Orbe cattolico, e dall’altro le istanze che svolgono la funzione di amministrare la giustizia in ambito diocesano o sovradiocesano secondo le prescrizioni del diritto.

Questo complesso di organismi si articola quindi fondamentalmente su due livelli. Il primo, per tutta la Chiesa, è costituito dai tribunali apostolici; il secondo, dai cosiddetti tribunali locali di ambito diocesano o più ampio. In Italia, ad esempio, accanto ai tribunali diocesani esistono, come si vedrà meglio in seguito, diciotto tribunali ecclesiastici regionali, competenti esclusivamente nelle cause matrimoniali.

I principali riferimenti normativi che hanno disciplinato nell’ultimo secolo l’organizzazione e l’esercizio dell’amministrazione della giustizia nella Chiesa sono stati i Codici di diritto canonico del 1917 e il vigente del 1983 ed inoltre, per quanto riguarda i tribunali apostolici, le tre riforme della Curia Romana disposte da Pio X nel 1908 con la cost. Sapienti consilio, da Paolo VI nel 1967 con la cost. Regimini Ecclesiae Universae, successiva alla celebrazione del concilio Vaticano II, ed infine da Giovanni Paolo II nel 1988 con la cost. Pastor bonus, promulgata in occasione del quarto centenario della cost. di Sisto V Immensa aeterni Dei del 1588 che diede una nuova organizzazione alla Curia papale. Peraltro i tribunali apostolici sono pure retti da leggi proprie promulgate ad integrazione della normativa generale.

L’attuale assetto dei tribunali apostolici, che peraltro ha le sue radici tra il XII e il XIV sec., prevede tre organismi non subordinati uno all’altro ma con competenze differenti: la Penitenzieria Apostolica; il Supremo Tribunale della Segnatura Apostolica e il Tribunale della Rota Romana. Ad essi va anche aggiunto, soprattutto a seguito del m.p. Sacramentorum sanctitatis tutela del 2001 aggiornato nel 2010, il Tribunale Apostolico della Congregazione per la Dottrina della Fede che ha acquistato negli ultimi anni una grande importanza e visibilità dal momento che è il tribunale penale competente per giudicare i delitti contro la fede e i delicta graviora contro i la morale e nella celebrazione dei sacramenti, come indicato dall’art. 52 della cost. ap. Pastor bonus, tra i quali spicca il delitto di abuso di minori da parte di un chierico.

Anche la Congregazione per le Cause dei Santi ha profili di tipo giudiziario, ma la peculiarità del suo oggetto, i processi di beatificazione e di canonizzazione, la fa esulare dal concetto di giustizia ecclesiale esercitato dai tribunali in senso stretto. I tribunali apostolici non vanno nemmeno confusi con il sistema giudiziario, giudice unico, tribunale di appello e di cassazione, in vigore nello Stato Città del Vaticano preposto ad una finalità più affine a quella di una comunità politica seppure con le singolarità proprie di questo Stato.

La Penitenzieria Apostolica, il più antico tra i dicasteri che collaborano con il Sommo Pontefice, e la cui legge propria è del 1935 con la cost. Quae divinitus di Pio XI, rappresenta una realtà del tutto particolare e tipica solo dell’ordinamento canonico. Sebbene sia annoverato come il primo dei tribunali, esso non si presenta come un tribunale in senso tecnico, in cui si rivendicano diritti o pretese, ma si configura come il tribunale universale di foro interno, ossia non di pubblico dominio e in vista del bene spirituale di colui che ad essa fa ricorso, e mediante il quale si concedono le assoluzioni, le dispense le commutazioni, , le sanazioni i condoni ed altre grazie (PB art. 118), attraverso una procedura non contenziosa ma in cui si implora una grazia che attiene alla coscienza del richiedente in vista di quel bene particolare costituito dalla salus animarum, suprema legge della Chiesa. Proprio questa sua apertura al bene di tutte le anime fa sì che ogni fedele, senza dover ricorrere prima a nessun altra istanza, possa far ricorso alla Penitenzieria per questioni di coscienza.

Il Supremo Tribunale della Segnatura Apostolica, la cui legge propria è stata promulgata da Benedetto XVI nel 2008 con il m.p. Antiqua ordinatione, si presenta al contempo come tribunale giudiziario, tribunale amministrativo e dicastero preposto all’organizzazione e vigilanza dell’amministrazione della giustizia realizzata dai tribunali locali sparsi nel mondo. La sua competenza in materia giudiziaria riguarda soprattutto l’esame di ricorsi di carattere straordinario contro decisioni emesse dalla Rota Romana e contro gli stessi Uditori rotali ed anche i conflitti di competenza sorti tra tribunali e fra gli stessi dicasteri della Curia Romana. Le competenze in materia di giustizia amministrativa gli furono attribuite da Paolo VI che nella cost. Regimini Ecclesiae Universae, istituì appositamente una sezione della Segnatura come tribunale amministrativo con potestà di giudicare i ricorsi avverso decreti emanati da autorità amministrative ecclesiastiche sia locali che dicasteri della Curia Romana. Quanto, infine alla sua attività di organizzazione e di vigilanza, essa si configura come fosse una Congregazione della giustizia, ossia con il compito di vegliare sulla retta amministrazione della giustizia, con poteri ispettivi e di indagine, ma anche di promozione ed approvazione dei tribunali interdiocesani costituiti al fine di provvedere ad una migliore organizzazione degli uffici giudiziari.

Il Tribunale della Rota Romana, si presenta come il tribunale ordinario costituito dal Romano Pontefice per ricevere gli appelli (can. 1443 CIC). è quello che presenta la fisionomia più simile ad un tribunale vero e proprio rispetto alla Penitenzieria e alla Segnatura. È costituita da un certo numero di Giudici o Uditori, di nomina pontificia; essa giudica, di norma, in collegi o turni di tre Uditori con precise regole di rotazione. Sebbene le sue funzioni, verso la metà dell’Ottocento, si fossero ridotte alquanto in favore delle Congregazioni della Curia Romana, fu la riforma di Pio X a riorganizzare le funzioni dei Dicasteri riportando le Congregazioni alla loro specifica natura di organismi amministrativi e a restituire alla Rota Romana le sue competenze giudiziarie. Le norme proprie ora vigenti sono state approvate e promulgate da Giovanni Paolo II il 7 febbraio 1994, ed in vigore dal 1° ottobre 1994. Attualmente la Rota Romana giudica in prima istanza, nelle cause non penali, i Vescovi e in generale le persone ecclesiastiche sia fisiche che giuridiche che non hanno Superiore al di sotto del Romano Pontefice (can. 1405 §3 CIC); in seconda istanza le cause giudicate dai tribunali ordinari di prima istanza e deferite alla Santa Sede con appello (can. 1444 §1, 1° CIC); in terza od ulteriore istanza tutte le cause già giudicate dalla Rota stessa o da qualunque altro tribunale purché non siano passate in giudicato e quindi non più esaminabili. In questo senso le cause matrimoniali, poiché vertono sullo stato delle persone, non passano mai in giudicato (can. 1643 CIC).

La Congregazione per la Dottrina della Fede, così denominata a partire dal m.p. Integrae servandae di Paolo VI del 1965 in luogo di Sacra Congregazione del Sant’Uffizio come la cost. Sapienti consilio di Pio X aveva modificato quello di Sacra Congregazione della Romana e Universale Inquisizione, ha mantenuto lungo i secoli la fisionomia di Tribunale penale in particolare nelle cause riguardanti la fede o ad essa connesse. Queste competenze penali sono state ampliate dalla cost. Pastor bonus del 1988 che ha ricompreso non solo i delitti contro la fede ma anche contro la morale e i sacramenti, facendo sì che la Congregazione per la Dottrina della Fede sia ora il dicastero che giudica in modo esclusivo tutti i delitti stabiliti nel m.p. Sacramentorum sanctitatis tutela, nei confronti dei fedeli sia di rito latino che orientale.

Passando all’organizzazione giudiziaria a livello locale, essa si articola, come da tradizione risalente al diritto romano, secondo diversi gradi o istanze che, attraverso l’esame delle cause da parte di soggetti differenti, possa garantire un migliore accertamento della verità e della giustizia. Sebbene il giudice di prima istanza sia il Vescovo diocesano, egli è tenuto a costituire un Vicario con potestà giudiziale ordinaria e che forma un unico tribunale con il Vescovo ma che non cessa dall’incarico quando la sede si rende vacante. Contro le sentenze emesse dal tribunale di prima istanza è consentito appello al tribunale di grado superiore. Fatta salva sempre la possibilità di appellarsi alla Rota Romana (can. 1444 §1, 1° CIC) il Codice stabilisce le regole che indicano il tribunale competente a ricevere l’appello e che va dal tribunale del Metropolita a quello costituito dalla Conferenza Episcopale con l’approvazione della Sede Apostolica (cann. 1438-1439 CIC).

Come ricordato in precedenza, in Italia si è avuta la prima esperienza di ordinamento giudiziario a base interdiocesana sebbene limitata alle sole cause matrimoniali. Con il m.p. Qua cura furono istituiti nel 1938 diciotto tribunali regionali, diciannove se si considerano separatamente il tribunale di prima e di seconda istanza del Vicariato di Roma, uno per ogni regione conciliare ecclesiastica in cui venne suddivisa l’Italia nel 1889 sotto il pontificato di Leone XIII. Per ciascun tribunale regionale è designato un altro tribunale regionale competente a decidere le cause d’appello. La normativa sui tribunali regionali è stata poi integrata dalla Conferenza Episcopale Italiana nel 1997 e nel 2001 che ne ha riordinato la disciplina e il funzionamento. Tali norme sono state di recente sostituite (2018) per adeguarle alla riforma del processo di nullità matrimoniale realizzata dal motu proprio di papa Francesco Mitis Iudex Dominus Iesus del 15 agosto 2015.

Fonti e Bibl. essenziale

Aa.Vv., La giustizia nella Chiesa: fondamento divino e cultura processualistica moderna, Atti del XXVIII Congresso Nazionale di Diritto Canonico, Cagliari, 9-12 settembre 1995, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 1997; M.J. Arroba Conde, Diritto processuale canonico, Ediurcla, Roma 20126; P.A. Bonnet – C. Gullo (cur.), Le “normae”del Tribunale della Rota Romana, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 1997; P.A. Bonnet – C. Gullo – J. Canosa – J. Llobell Tuset – E. Baura de la Peña (cur.), La lex propria del Supremo Tribunale della Segnatura Apostolica, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 2010; E. Baura de la Peña, El desarrollo normativo posterior a la Constitución Apostólica “Pastor Bonus” de los tribunales de la Curia Romana, in Ius Canonicum, 58 (2018); Codice di Diritto Canonico Commentato e Leggi complementari, a cura di J.I. Arrieta, Coletti a San Pietro, Roma 20103; Conferenza Episcopale Italiana, Documentazione e norme circa i tribunali ecclesiastici regionali, in Notiziario dell’Ufficio per i problemi giuridici n. 9, Roma 1999; N. Del Re, La Curia Romana, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 1998, 199-242; L. De Magistris – U. Ubaldo M. todeschini o.s.m., La Penitenzieria Apostolica, in in P.A. Bonnet – C. Gullo (cur.), La curia Romana nella cost.ap. «Pastor Bonus», Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 1990, 419-429; Z. Grocholewski, I tribunali, in P.A. Bonnet – C. Gullo (cur.), La curia Romana nella cost.ap. «Pastor Bonus», Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 1990, 395-418; P. Moneta, La giustizia nella Chiesa, Il Mulino, Bologna 2002; F. Roberti, De Processibus, Pontificii Instituti Utriusque Iuris, in Civitate Vaticana 1956; L. Spinelli, Tribunali ecclesiastici, in Enciclopedia del Diritto, XLV, Giuffrè, Milano 1992, 69-80.


LEMMARIO




Gorla Stefano


 





Grande Scisma - vol. I


Autore: Tommaso di Carpegna

Nel periodo compreso tra il 1378 e il 1417 si verificò il «Grande Scisma » o «Scisma d’Occidente», durante il quale due (in una fase anche tre) pontefici rivendicarono contemporaneamente la propria rispettiva legittimità, trovando ciascuno largo seguito nei paesi della Cristianità occidentale. Gregorio XI, che nel 1377 aveva riportato la Sede apostolica da Avignone a Roma, morì il 23 marzo 1378. Poiché la gran parte del Sacro Collegio era composta da cardinali francesi intenzionati a riportare il papato in Francia – e poiché ad Avignone ancora permanevano molti uffici di Curia – i romani, per assicurarsi la residenza del papa a Roma, chiesero a gran voce che il nuovo pontefice fosse romano, o “almanco” (almeno) italiano. Dietro le forti pressioni dei banderesi (i capi della Felice Società dei Balestrieri e dei Pavesati, cioè del partito popolare che governava Roma), l’8 aprile 1378 i sedici partecipanti al conclave (undici francesi, uno spagnolo e quattro italiani) elessero Bartolomeo Prignano – Urbano VI, che non era un cardinale ma l’arcivescovo di Bari. Avendo investito il Collegio cardinalizio di aspre critiche e avendo dichiarato di non voler più spostare la sede papale, nei mesi successivi Urbano VI si alienò il favore di quasi tutti (dodici su sedici) i cardinali che lo avevano eletto. Questi si riunirono a Fondi e, dichiarata l’elezione nulla in quanto avvenuta in un clima intimidatorio, il 20 settembre 1378 elessero papa il cardinale Roberto di Ginevra, che prese il nome di Clemente VII e che l’anno successivo si stabilì nuovamente ad Avignone con la propria Curia. Da allora si ebbero due “obbedienze” e due serie continuative di pontefici, uno residente a Roma (Urbano VI, Bonifacio IX, Innocenzo VII, Gregorio XII), l’altro ad Avignone (Clemente VII, Benedetto XIII). Una prima composizione dello scisma fu tentata nel Concilio di Pisa (1409), durante il quale i padri conciliari deposero i due pontefici contrapposti e i cardinali presenti, dissidenti di entrambi gli schieramenti e chiamati “unionisti”, ne elessero un terzo, Alessandro V. Di fatto, anziché risolversi la situazione divenne ancora più complessa e le obbedienze da due divennero tre. Il successore di Alessandro V, Giovanni XXIII, ottenne l’obbedienza della Scandinavia, dell’Ungheria e dell’Impero, tenne un concilio a Roma (1412-1413) e poi uno a Costanza (1414-1415). Poiché gli altri due papi non si erano presentati, a Costanza Giovanni XXIII si riteneva in condizione di vincere la contesa. Essendosi però disfatta la sua alleanza con Sigismondo re di Boemia, che era il vero promotore del Concilio e che considerava i tre papi su un piano di parità, Giovanni XXIII finì con l’essere deposto (29 maggio 1415). Il papa romano Gregorio XII inviò allora la sua dichiarazione di rinuncia al papato (4 luglio 1415), conferendo al Concilio l’autorità per porre termine allo scisma. Il papa avignonese Benedetto XIII, invece, non si piegò e venne formalmente deposto il 26 luglio 1417. Seguì, l’11 novembre, l’elezione di un nuovo papa, decisa da ventitre cardinali delle tre obbedienze: Martino V (Oddone Colonna, 1417-1431), che fu accettato da tutti tranne che da una minoranza ancora fedele a Benedetto XIII (eletto nel 1394, morto nel 1422).

L’obbedienza all’uno o all’altro pontefice rappresentò una componente essenziale del gioco politico tra i regni, largamente condizionato anche dalla contemporanea guerra dei Cento Anni. L’Inghilterra, i paesi scandinavi, l’Ungheria e la Polonia tennero per il papa di Roma, mentre la Francia, la Scozia, i regni spagnoli, il ducato di Savoia e la Sicilia furono di obbedienza avignonese; la Francia ritirò peraltro la propria obbedienza a Benedetto XIII nel periodo 1398-1404. L’Impero, invece, fu grossomodo diviso in due: romana la parte orientale, avignonese quella occidentale.

Il Viagra generico, come dice la nomenclatura assegnatagli, è un farmaco generico, ossia un prototipo più economico del Viagra di marca, il quale fu brevettato dalla ditta farmaceutica Pfizer nel ’98. La sua vendita diretta è stata liberalizzata nel giugno del 2013 e oltre che nelle farmacie tradizionali e in parafarmacia, è possibile acquistare il Viagra generico online in modo sicuro. Ideale per chi desidera approfittare dei suoi benefici per aumentare la virilità e godere una serata appassionata.

Come in altre aree europee (Brabante, Paesi Bassi, Portogallo), estremamente composito e mobile fu il quadro delle obbedienze in Italia, dove «il pontefice era pure capo di uno stato italiano, sovrano tra sovrani» (Brezzi 1944, p. 397, saggio al quale si rimanda per la presentazione dell’articolata situazione politica). Nella penisola italiana, lo scisma provocò o peggiorò uno stato di guerra continua e la sua storia è compendiabile in numerose e distinte fasi.

Nella prima fase (1379-1384) i due contendenti si affrontano soprattutto in Italia centrale. Il 27 aprile 1379, per intercessione di Caterina da Siena, capitola Castel Sant’Angelo, fino ad allora in mano ai “clementini”, e il 30 aprile Alberico da Barbiano, al comando degli “urbanisti”, sbaraglia a Marino i mercenari bretoni. Nel frattempo, i cardinali rimasti neutrali, che sono tutti italiani, cercano di mediare e iniziano a proporre l’ipotesi di un concilio. Clemente VII, che molto deve alla casa di Francia, prospetta la creazione di un “regno di Adria” da conferire a Luigi d’Angiò, riservando al papato solamente Roma e il Lazio (Sabina, Patrimonio, Campagna e Marittima) e destando preoccupazione soprattutto a Firenze. Anni dopo, avendo rafforzato le proprie posizioni, il pontefice cambierà idea. Firenze, accarezzata da entrambe le parti, si risolve a favore di Urbano e viene attaccata da Enguerrand de Coucy. La campagna militare si volge a favore della repubblica, consentendole la definitiva conquista di Arezzo. Ma l’ago della bilancia e il luogo di maggior tensione è rappresentato, da allora, dal regno di Napoli, dove lo scisma assume rapidamente la forma di una contesa dinastica tra due rami della casa d’Angiò. La regina Giovanna alterna il proprio sostegno ai due contendenti e alla fine dichiara proprio erede Luigi d’Angiò, alleato di Clemente, mentre Urbano gli contrappone Carlo di Durazzo. Luigi, però, muore nel 1384.

La seconda fase (1385-1389) è quella di massima incertezza. Carlo di Durazzo entra in conflitto con Urbano VI e il partito di coloro che sostengono quest’ultimo si lacera. Firenze è nel dubbio se passare dalla parte di Clemente, ma poi desiste. Roma insorge sotto la guida di Francesco dei Prefetti di Vico, senza però abbracciare il partito clementino. Urbano VI giunge a chiedere aiuto a Carlo VI di Francia e ad allearsi con i baroni napoletani pur di allontanarli da Clemente VII. Carlo di Durazzo muore nel 1386 e lascia erede il piccolo Ladislao, di cui papa Urbano esige la tutela. I Visconti di Milano si mantengono in una posizione ambigua, come fanno anche altri signori italiani, i quali sfruttano l’una o l’altra obbedienza per il loro immediato tornaconto: per esempio Antonio di Montefeltro passa brevemente all’obbedienza di Clemente VII per forzare la mano a Urbano VI nella scelta del vescovo di Urbino. Di converso, i suoi avversari Malatesta sono fedeli del papa avignonese.

Terza fase (1389-1392): morto Urbano VI (15 ott. 1389), viene eletto il napoletano Bonifacio IX (Pietro Tomacelli), che porta avanti una strategia di ricompattamento della sua obbedienza. Egli riporta alla normalità i rapporti con Napoli facendo incoronare il giovanissimo Ladislao. Il papa romano riesce a garantirsi la fedeltà di tutti gli stati italiani, benché questi rimangano antagonisti l’uno contro l’altro, ed evita di inserirsi in posizione netta nella contesa tra Firenze e Milano.

Quarta fase (1392-1394): dopo avere a lungo assunto una politica ambigua, Gian Galeazzo Visconti, che è parente della casa reale di Francia e ha bisogno del sostegno di quel regno per portare avanti la sua politica espansiva, passa dalla parte di Clemente VII, che però risponde tiepidamente.

Quinta fase (1394-1398): Clemente muore il 16 settembre 1394 e gli succede Benedetto XIII, Pedro de Luna. Si verifica un rivolgimento delle alleanze: i Visconti, che ricevono il titolo di duca di Milano, passano dalla parte imperiale mentre Firenze si allea con la Francia, con l’impegno di cooperare per riportare l’unità della Chiesa, ma senza per questo disconoscere il papa romano. In generale, però, i politici fiorentini tendono a volere il papa a Roma, mentre i milanesi sono tendenzialmente alleati dei francesi.

Al principio del secolo XV – sesta fase – si ha un periodo di breve stabilità e di equilibrio tra i contendenti, dovuto anche al rafforzamento di Bonifacio IX, che nel 1398 ottiene la definitiva sottomissione del comune di Roma, e di Benedetto XIII, che rinsalda il proprio partito, cui nel 1406 aderisce anche la repubblica di Genova. Tuttavia, il papa romano è visto sempre più come un fantoccio del re di Napoli: anche Innocenzo VII, succeduto a Bonifacio IX nel 1404 e morto nel 1406, è originariamente un suddito napoletano. Di converso, il papa avignonese è ritenuto sempre più un emissario del re di Francia.

Per questo si fa sempre più strada (settima fase) l’idea – promossa in Italia soprattutto da Firenze – di accordarsi su un terzo candidato che permetta di governare autonomamente lo Stato della Chiesa consentendo il ristabilirsi dell’equilibrio nella penisola. I romani fanno sapere di non volere né un napoletano né un fiorentino. Viene eletto un veneziano, Angelo Correr – Gregorio XII (30 novembre 1406), proveniente da uno Stato che, benché in attrito per alcune questioni locali, ha sempre parteggiato per il papa romano. Le interrotte trattative tra i due pontefici riprendono, ma sono ostacolate da Ladislao re di Napoli.

Nel 1408-1409 – ottava fase – si apre la via conciliare, con un appello a entrambi i pontefici di rinunziare alla tiara promosso soprattutto dalla Francia. Firenze desidera ancora un terzo papa che sia distante dalla politica napoletana (poiché tale non si è rivelato Gregorio XII) e offre Pisa come luogo d’incontro tra i cardinali delle due obbedienze. Il 23 marzo 1409 ha inizio il Concilio di Pisa, dove il 26 giugno viene eletto Pietro Filargio – Alessandro V, proposto come figura di compromesso in quanto si tratta di un francescano che ha insegnato a Parigi ed è stato arcivescovo di Milano. Luigi II d’Angiò accetta il nuovo pontefice e così fanno Venezia e Firenze, mentre Ladislao di Durazzo, che in quel momento occupa Roma, ne contesta la legittimità. Dopo una guerra e un tentativo di intesa generale favorito da Venezia (1411), il nuovo papa Giovanni XXXIII, succeduto nel 1410 ad Alessandro V, alterna l’alleanza con i due contendenti al trono di Napoli Luigi d’Angiò e Ladislao di Durazzo. Convoca un concilio a Roma (1413), ma senza ottenere risultati.

Entra allora prepotentemente in scena (ultima fase) Sigismondo re di Boemia, che è avversario di Ladislao e intenzionato a chiudere definitivamente la disputa, ormai giunta a un grado di estenuazione. Viene dunque convocato un concilio a Costanza, in terra dell’Impero, fuori dall’Italia e dalla Francia. Sigismondo è visto con ostilità da Firenze, Napoli e Venezia, mentre nello Stato pontificio si ha un periodo di anarchia del quale si avvantaggia Braccio da Montone, che riesce a ritagliarsi un vasto dominio personale. Il Concilio di Costanza è, per gli stati italiani, un tempo di attesa, durante il quale il loro intervento diretto è limitato. Nella penisola tutti salutano con favore l’elezione di Martino V (1417), papa di antica famiglia romana che mette fine allo scisma.

La presenza durevole dello scisma è ritenuta una delle concause del turbamento spirituale dell’epoca, caratterizzata da forti attese escatologiche e apocalittiche, molto evidenti per esempio nelle predicazioni in volgare. L’incertezza su chi sia il vero pontefice investe tutti gli ambienti sociali. La morte improvvisa del giovane Gregorio XI a Roma viene da molti considerata una punizione divina per aver desiderato di riportare – sacrilegamente – il papato lontano dalla città apostolica. Nel 1389, papa Urbano VI decide di indire un giubileo per l’anno successivo (1390), ma Benedetto XIII lancia la scomunica sui pellegrini. Nel 1399-1400 si diffonde in tutta Italia il movimento dei Bianchi, pervaso di forti attese millenariste, e nel 1400 si celebra un giubileo spontaneo che segna la presenza a Roma di moltissimi pellegrini francesi. I papi delle diverse obbedienze sono identificati, dagli avversari, come l’Anticristo (cfr. il commento ai Vaticinia de summis pontificibus in Rusconi, 53-57), e le profezie escatologiche sono profondamente collegate con la propaganda politica. In realtà, i contendenti hanno larghe risorse per operare: il papa romano in quanto Roma è capitale dello Stato pontificio e luogo del pellegrinaggio ad limina; il papa francese in quanto Avignone e il contado Venassino permangono il centro di tutta l’immensa rete che amministra la fiscalità e i benefici ecclesiastici. Lo scisma si chiude con il consolidamento del pontefice in quanto sovrano di uno Stato regionale italiano, ma altresì con l’indebolimento ormai definitivo del papato inteso come istituzione universale. La stessa figura del pontefice perde il carattere “gregoriano” di detentore della plenitudo potestatis: il 6 aprile 1415 il Concilio di Costanza decreta la superiorità del concilio sul papa.

Benché gli storici abbiano dibattuto e dibattano ancora (soprattutto nella storiografia francese) sulla legittimità delle rispettive posizioni, in realtà la Chiesa cattolica riconosce oggi come legittima la sola successione romana cha va da Urbano VI a Martino V: tanto che nel secolo scorso Angelo Roncalli assunse nuovamente il nome di Giovanni XXIII. Senza pretendere di valutare la dimensione teologica, l’interpretazione storica non potrà mai uscire dall’impasse se, invece di continuare a parlare di volta in volta di papi e di antipapi, non si persuaderà a considerare l’intera vicenda come una storia di papi contrapposti.

Fonti e Bibl. essenziale

P. Brezzi, Lo scisma d’Occidente come problema italiano, «Archivio della R. Deputazione romana di storia patria», 67 (1944), 391-450; J. Favier, Les finances pontificales à l’époque du Grand Schisme d’Occident 1378-1409, de Boccard, Paris 1966; W. Ullmann, Origins of the Great Schism: a Study in Fourteenth-century Ecclesiastical History, Archon Books, Cambridge (Mass.) 1967; R. Rusconi, L’attesa della fine: crisi della società, profezia ed Apocalisse in Italia al tempo del grande scisma d’Occidente (1378-1417), Istituto storico italiano per il medio evo, Roma 1979; F. Delaruelle, P. Ourliac e E.-R. Labande, La Chiesa al tempo del grande scisma e della crisi conciliare: 1378-1449, SAIE, Torino 1981; H.-G. Beck, K.-A. Fink, J. Grazik, E. Iserloh, Tra Medioevo e Rinascimento. Avignone – Conciliarismo – Tentativi di riforma (XIV-XVI secolo), Jaka-Book, Milano 2002 (Storia della Chiesa diretta da H. Jedin, vol. V/2); S. Fodale, Alunni della perdizione. Chiesa e potere in Sicilia durante il Grande Scisma (1372-1416), Istituto storico italiano per il medio evo, Roma 2008; D. Williman, Schism within the Curia: the Twin Papal Elections of 1378, «Journal of Ecclesiastical History» 59 (2008), 29-47; H. Millet, L’Eglise du Grand Schisme: 1378-1417, Picard, Paris 2009; A. Rehberg, Le inchieste dei re d’Aragona e di Castiglia sulla validità dell’elezione di Urbano VI nei primi anni del Grande Scisma – alcune piste di ricerca, in A. Rigon – F. Veronese (edd.), L’età dei processi. Inchieste e condanne tra politica e ideologia nel ’300. Atti del convegno di studio svoltosi in occasione della XIX edizione del Premio internazionale Ascoli Piceno, Ascoli Piceno, Palazzo dei Capitani, 30 novembre-1 dicembre 2007, Istituto storico italiano per il medio evo, Roma 2009, 247-304; J. Rollo-Koster, Th. M. Izbickii (edd.), A Companion to the Great Western Schism (1378–1417), Brill, Leiden-Boston 2009; A. Jamme, J. Chiffoleau (edd.), La Papauté et le Grand Schisme (Avignon / Rome). Langages politiques, impacts institutionnels, ripostes sociales et culturelles, Actes du colloque internationa, Avignon, 13-15 nov. 2008, Collection de l’École française de Rome, Rome in corso di stampa [2013].


LEMMARIO




Greco Gaetano


 





Gregorini Giovanni


Ricercatore confermato di Storia economica, ha conseguito l’Abilitazione scientifica nazionale al ruolo di Professore di seconda fascia. Svolge la propria attività di ricerca scientifica presso il Dipartimento di Scienze storiche e filologiche dell’Università Cattolica del Sacro Cuore. Insegna inoltre Storia economica e Business history nella Facoltà di Scienze linguistiche e letterature straniere della stessa Università. Ha effettuato indagini nei campi della storia finanziaria e bancaria, come pure della storia dello sviluppo economico, dell’industria e dei corpi intermedi a livello sia internazionale sia nazionale, con particolare riferimento ai territori di Brescia e Bergamo.

giovanni.gregorini@unicatt.it Università Cattolica del Sacro Cuore, Milano, Largo Gemelli 1 – 20123; Brescia, Via Trieste 17 – 25121.





Grignani Mario L.


 





Grossi Roberta


2009 Dottorato in Storia dell’Europa: Scienze Politiche, Università La Sapienza Roma, tema di ricerca: Morire per Dio. La polemica sui Martirologi nell’Europa del XVI secolo, relatore prof. Paolo Simoncelli; 2009 Diploma in Archivistica: Scuola Vaticana di Paleografia, Diplomatica e Archivistica; 2009-2011: Stage presso l’Archivio Segreto Vaticano relativo al riordino, descrizione, foliazione e condizionatura finale del fondo archivistico Archivio della Nunziatura Apostolica in Cuba 1935-1950 e fondo della Segreteria di Stato 1814-1833; Dal 2011 archivista presso l’Archivio della Società delle Missioni Africane di Roma, ove collabora alla pubblicazione delle fonti sull’evangelizzazione in Africa occidentale a partire dal 1850; 2013 Licenza in Storia Ecclesiastica: Pontificia Università Gregoriana; iscritta al secondo anno del Dottorato in Storia Ecclesiastica: Pontificia Università Gregoriana.





Guasco Alberto