Associazione Italiana dei Professori di Storia della Chiesa
Dizionario Storico Tematico La Chiesa in Italia
Autori
Roma 2015
Copyright © 2015
Guelfismo e ghibellinismo sono gli appellativi antitetici di un fenomeno che ha interessato la vita politica e religiosa dell’Italia soprattutto durante i secoli XIII-XIV. All’origine delle denominazioni di “guelfi” e di “ghibellini” vi fu la lotta per l’ascesa al potere, dopo la morte dell’imperatore Enrico V (1125), delle due dinastie tedesche dei Welfen, duchi di Sassonia e di Baviera, e degli Hohenstaufen, duchi di Svevia. I rispettivi sostenitori erano detti guelfi (dal nome della famiglia) oppure ghibellini (da Waiblingen, un castello degli Svevi), ma dopo l’ascesa al trono di Federico I di Svevia (1153) le denominazioni delle opposte fazioni vennero usate per evocare le posizioni filopapali e filoimperiali nell’ambito della politica tedesca.
In Italia i due termini furono introdotti nella prima metà del Duecento, durante la lotta fra i comuni e Federico II di Svevia: erano ghibellini i seguaci dell’imperatore, mentre venivano detti guelfi coloro che gli si opponevano. Tuttavia l’adesione all’uno o all’altro schieramento era determinato più che da condivisioni ideologiche, da motivi politici contingenti e, alla fine, rifletteva le posizioni contrapposte preesistenti all’interno dei ceti dirigenti, laici ed ecclesiastici, che coinvolgevano anche le classi popolari. Atavici antagonismi famigliari e personali, interessi e odii di parte, lealismo e fedeltà alle tradizioni ereditate, nonché vendette, faide e alleanze marcarono sempre più le fazioni rivali, in lotta per la conquista o la conservazione del dominio.
In un primo tempo il papato rimase estraneo a queste controversie endemiche e viscerali, mentre sul piano religioso guelfi e ghibellini, l’uno rispetto all’altro, non mostrarono maggiore o minore senso di pietà. Ciò nonostante gli avversari del papato spesso simpatizzavano per i ghibellini e talvolta vennero assimilati agli eretici. Nello stesso tempo, però, l’evoluzione politica dei rapporti fra i comuni, insieme agli antichi campanilismi, e l’alternanza delle parti nell’ascesa al dominio comunale, provocarono la frequente oscillazione delle comunità civiche nell’adesione agli opposti schieramenti. Neppure la politica ecclesiastica restò immune dalla mancanza di coerenza per il contraddittorio atteggiamento dei governi municipali nei confronti della Chiesa. Parma, per esempio, sebbene ghibellina e poi guelfa (1247) perseverò nella severa politica contro i privilegi del clero.
Il declino del potere svevo in Italia e l’ascesa degli Angioini di Napoli contribuirono a definire il contenuto ideologico del ghibellinismo e del guelfismo italiani. Fu quest’ultimo a proporsi per primo come espressione del sostegno e dell’adesione alla politica egemonica della casa d’Angiò, finanziata dai banchieri fiorenti in alleanza col papato. Entrambi i termini diventarono etichette di parte, emancipandosi nel loro significato dall’antico motivo di contrasto fra sacerdotium e imperium, la lotta per le investiture laicali.
Dopo l’esilio dei Fiorentini nemici degli Svevi, sconfitti dalle truppe di Manfredi di Sicilia nella battaglia di Montaperti (4 settembre 1260) e la discesa di Carlo I d’Angiò, vicario papale, le città della Toscana si collocarono negli opposti schieramenti e, di riflesso, le medesime posizioni furono assunte dalle numerose città dell’Italia centro-settentrionale a seconda delle differenti alleanze e in forza delle tradizioni che alimentavano le conflittualità locali. Firenze, città guelfa, venne governata dai ghibellini dal 1248 al 1250. Così accadde per Genova fra il 1256-1270 e il 1317-1319, e per Lucca dal 1314 al 1328. Milano restò guelfa fino all’arrivo dei Visconti e Napoli fu ghibellina fino al 1266. Dal 1259 Lodi diventò guelfa sotto la signoria dei Torriani e dei Fissiraga, mentre la ghibellina Siena si fece guelfa dopo la sconfitta inflitta dai Fiorentini a Colle Val d’Elsa (1269). Dirsi guelfo significava essere sostenitore della casa d’Angiò, mentre il ghibellinismo – dopo la sconfitta di Manfredi a Benevento (1266) e la fine di Corradino (1268) – recise il legame con gli Svevi e diventò sinonimo di opposizione agli Angioini e alle loro mire espansionistiche. Perciò, accanto alla storia di Firenze, dei comuni toscani, umbri e lombardi, resta emblematica la vicenda dei vespri siciliani (1282), che dette origine alla ribellione antiangioina e alla secessione della Sicilia dal Regno, il maggiore organismo italiano politico e militare, vassallo del papato. L’ascesa degli Aragonesi sul trono di Palermo e la permanenza degli Angioini a Napoli radicalizzarono il persistente e ostile antagonismo del guelfismo e ghibellinismo italiani, diventandone il simbolo.
Il papato evitò per lungo tempo di usare questa duplice denominazione, invalsa nell’uso comune, e sebbene spesso non avesse esitato a schierarsi, intervenne ripetutamente in favore della pace e affinché la Parte guelfa e la Parte ghibellina raggiungessero un rapporto di coesistenza specialmente all’interno delle comunità civiche. Tuttavia lo scontro fra le parti lasciò tracce profonde nella storia delle Chiesa italiane. Del beato Jacopo da Varagine (1228-1298), arcivescovo di Genova, l’autore della Legenda aurea, sono noti i ripetuti interventi in favore della pacificazione fra le fazioni della città. Il medesimo spirito di riconciliazione fu diffuso da s. Margherita da Cortona (1247-1297), spesso chiamata a riappacificare gli animi del cittadini. Lodi, diventata ghibellina, nel 1243 venne colpita dall’interdetto, la sede vescovile fu soppressa e ristabilita nel 1252. In seguito, dopo il decesso del vescovo Egidio dell’Acqua (1307-1312), le fazioni guelfa e ghibellina si affrontarono in seno al Capitolo della cattedrale senza raggiungere un accordo ed elessero due candidati. Perciò la sede restò vacante fino al 1318. La diocesi di Cortona (smembrata da Arezzo) fu eretta nel 1325 da Giovanni XXII per premiare la fedeltà dei Cortonesi, mentre Guido Tarlati, vescovo della ghibellina Arezzo, fu scomunicato e deposto. Gli scontri e le violenze fra guelfi e ghibellini furono all’origine dell’interdetto scagliato dal vescovo Federico Cibo sulla città di Savona. Esso venne rimosso da Benedetto XII nel 1336, ma i contrasti non si sopirono affatto. Intensa fu l’opera dei predicatori, specialmente religiosi, per riportare la pace e l’ordine in seno alle comunità cittadine: un’attività che continuò ad intensificarsi anche durante l’età moderna. Il papato, in particolare, si preoccupò di riportare serenità e tranquillità fra le popolazioni di Bologna e della Romagna, frequentemente pervase dai contrasti fra guelfi e ghibellini. Folta è la lista dei legati papali incaricati di governare questi territori e di riportarli sotto il dominio papale. Non mancarono gli interventi diretti compiuti dai papi. Per esempio, Giulio II, passato da Forlì, riuscì ad imporre la pace fra la parte guelfa e quella ghibellina, anche se l’accordo raggiunto si rivelò alquanto effimero.
D’altro canto, dal Duecento in poi, gli assetti amministrativi e gli equilibri politici interni alle città si erano stabilizzati intorno a un sistema bipolare che raccoglieva e cristallizzava in una composizione interclassista le forze esistenti. La dialettica municipale era giunta ad istituzionalizzarsi con la duplice ripartizione dei ruoli, che si identificavano e si contrapponevano sulla base delle proprie tradizioni. Anche nelle relazioni intercomunali, fino ai primi secoli dell’età moderna, perdurarono le distinzioni ereditate dal passato, esse, però, non pregiudicavano i rapporti fra le comunità, gli scambi e le alleanze. Sebbene le parti, a riconoscimento di se stesse, continuassero ad evocare le tendenze filopapali o filoimperiali per nobilitare le proprie origini e giustificare le posizioni assunte, guelfismo e ghibellinismo diventarono espressioni di conformismo politico e servirono da copertura ai dissidi interni dei comuni e alla competizione fra le fazioni.
L’irriducibilità e l’inconciliabilità delle contrapposizioni politiche fra guelfismo e ghibellinismo tornarono in auge durante l’Ottocento e caratterizzarono il dibattito ideologico innervatosi in seno al Risorgimento, ma con contenuti del tutto differenti rispetto alle epoche precedenti. Il neoguelfismo fu un’espressione italiana del cattolicesimo liberale, di cui Vincenzo Gioberti (1801-1852) era il maggiore teorico, mentre oppositore delle tesi giobertiane fu Giovanni Battista Niccolini (1782-18612), esponente fortemente anticlericale del neoghibellinismo.
Fonti e Bibl. essenziale
R. Davidson, Storia di Firenze, II, Firenze 1972-1973; Storia d’Italia. Dalla caduta dell’Impero romano al secolo XVIII, I, a cura di R. Romano – C. Vivanti, Torino 1974; Storia d’Italia, IV, a cura di G. Galasso, Torino 1981; P. Herde, Guelfen und Neoguelfen: zur Geschichte einer nationalen Ideologie vom Mittelalter zum Risorgimento, Wiesbaden 1986; Guelfi e ghibellini nell’Italia del Rinascimento, a cura di M. Gentile, Roma 2005; G. Galasso, Storia del Regno di Napoli, I, Torino 2006; Le diocesi d’Italia, 3 vol., Cinisello Balsamo 2007-2008; S. Raveggi, L’Italia dei guelfi e dei ghibellini, Milano 2009.
Polisemantica tematica e cronologica del tema generale, alla luce delle interpretazioni filosofiche, di storia della Chiesa. Il moltiplicarsi degli studi negli ultimi decenni e nuove linee di indagine hanno ampliato il quadro delle interpretazioni, contenuti e figure; nella ricchezza dei dati acquisiti, d’accordo sugli anni Quaranta-Ottanta del XVIII sec., per autori e tematiche si sale ad inizio secolo (pre-illuminismo, a fine XVII; tardo-illuminismo, anni Venti del XIX). Kant, partecipe di quei principi, ma volto a superare le scuole del proprio tempo, sensibile, negli ultimi anni, al cambiamento in atto, è a metà strada fra l’Illuminismo e il poi. Nella relazione con altre nazioni, in primis la Francia, l’Italia è valutata in modi diversi, secondo la specificità e ampiezza delle caratteristiche indicate. La storiografia successiva, per la Rivoluzione, il Romanticismo, l’avvento di nuove scuole filosofiche; in Italia, per il Risorgimento (cfr. poi le proposte di lettura del XX secolo, da Hazard a Horkheimer e Adorno), ha talora assolutizzato certi aspetti, o notato solo quanto (sociale, politico, altro) “anticipava” eventi successivi, o visto solo la rottura, non la continuità; o solo un Paese al seguito di Gran Bretagna o Francia, con influssi tedeschi e asburgici. Oggi si assegna all’Italia un ruolo diverso; gli elementi indicati a livello europeo hanno pesato anche nella valutazione italiana, in particolare la presenza cattolica in ambito illuministico. Nello schema, specie filosofico, tradizionale, si guardava, per l’Italia, soprattutto alla volontà di riforma politica, su suggestioni francesi; anche, come presenza, in parte mossa da analoghe finalità, ma particolare, del Giansenismo, specie per S. de’ Ricci e il Sinodo di Pistoia; un’azione in ogni caso eterodossa; in tale prospettiva, non avrebbe avuto senso parlare di illuminismo cattolico. Quanto ai tentativi di riforma politica, data la frammentazione statuale, apparivano velleitari. In ambito ecclesiale ed ecclesiastico, la complessità di aspetti che la Chiesa europea affrontava (rinnovamento pastorale, difesa dalle nuove tendenze di libero pensiero, governi volti a emarginare la Chiesa, azione missionaria interna ed extra–europea e problemi connessi, dai riti alla schiavitù alle Riduzioni), non favoriva l’attenzione all’eventuale, minoritaria, linea intermedia. Di qui i dubbi davanti all’ipotesi di un terzo partito, categoria riferita ad una zona chiaroscurale propria della Aufklärung cattolica, in Europa e in Italia. L’ipotesi tuttavia, partendo dalla Storia della Chiesa, si è consolidata.
Marginalità e originalità della cultura e Chiesa italiana, tra variazioni del secolo, repubblica delle lettere europea e nuove proposte di spiritualità e devozione. Nazione da secoli, l’Italia del XVIII sec. è realtà statuale plurale; nei cfr. di altre (unita a metà sec. XIX), è stata considerata spesso solo nei limiti, in ogni campo (dalle lettere alla economia). Altri Stati (Francia, Austria) prevalgono per organizzazione e centralismo; in Italia, la stessa geografia, accanto a problemi oggettivi, moltiplica però la ricchezza di riferimenti: influenza francese, repubbliche, presenza austriaca, ducati, Stato Pontificio, Meridionale; aspetti, e loro esponenti, originali e di portata europea. Affiancano sollecitazioni culturali estere i tratti distintivi di lingua, cultura, generale appartenenza alla cattolicità, sostanziale identità spirituale e devozionale, riferimenti ad Ordini. Le proposte nei vari campi, dal diritto alle lettere, con specificità regionali, presentano figure elevate, da Cassini a L. Galvani a Volta. G.B. Vico, al di là del successo in vita e tardiva valorizzazione, è l’exemplar di ricerca fondata sulla ragione in termini altri da quelli francesi e inglesi (Descartes, Newton): attingendo alla cultura italiana, privilegiando la storia. La Chiesa presenta caratteri peculiari, legati a vicende storiche, civili e religiose, presenza pontificia, attuazione dei decreti tridentini, figure rilevanti: Borromeo, Paleotti e i loro imitatori; proposte di vita e santità anteriori, ma vive (Francesco, Domenico, Filippo, Camillo, i Teatini, i Gesuiti), e nuove: Passionisti, Lazzaristi, Redentoristi; nel sentire del tempo, popolari, via di diffusione, con grande seguito, di forme di spiritualità e devozione, vita sacramentale, liturgia (adorazione eucaristica, via Crucis…). Una nota a sé richiede il giansenismo: singoli, gruppi, specie ecclesiastici, un’ élite; da S. de’ Ricci, più noto, perché vescovo e per zelo di riforma, ai lombardi (Tamburini, Zola…; riforma del seminario) all’ Archetto, a Degola; legato ad olandesi e francesi, chiede l’ intervento statale, il cambiamento ecclesiale, diffonde periodici e libri; a fine secolo, appoggia in genere le nuove leggi, affini a proprie richieste.
Illuminismo / Aufklärung cattolico fra spinte diverse ecclesiali e statuali. I concetti di luce e illuminazione, di tradizione platonico–agostiniana, attraversano tutta la storia della filosofia e teologia; è tesi recente che anche l’ Illuminismo del XVIII secolo, pur con taglio inusuale, nell’ appello alla ragione, via di illuminazione, sia su questa linea; il contrasto Lumi – Cattolicesimo non verrebbe da tale richiamo, ma dall’auto–referenzialità; in tal senso, si parla oggi di altro Illuminismo. Se si accoglie l’esigenza illuministica di aggiornamento, semplificazione, si vede uno spazio possibile, reso meglio dal termine attivo (illuminazione; or.: Aufklärung); esso, specie da metà del secolo, è tramite fra esperienza ecclesiale ed esigenze valide dei Lumi, per un cristianesimo più cosciente e felice, fra spinte estreme e opposizione alle novità. Centrale è la volontà dello Stato: l’ esigenza di efficienza e produttività, fattori di felicità comune, di “philosophes” e sovrani, contrari alle autonomie, implica abolizione, o forte riduzione, della mano morta, improduttiva; soppressione, riconfigurazione, di diocesi; limitazione di numero e tipo di religiosi; nuova formazione del clero. I giansenisti vogliono l’ autonomia dei vescovi (anche, dei parroci), i prìncipi una Chiesa organica allo Stato; la soppressione della Compagnia rientra in questa politica. Uomini di studio, discussione, senso religioso, respiro europeo, gli aufklärer vogliono evitare scelte controproducenti, aprire se possibile (cfr. P. Lambertini); sempre: aufklaren; distinti da illuministi inclini al deismo, materialismo, avversi ad “oscurantismo” e “dispotismo” ecclesiastici. Studiano criticamente la storia ecclesiastica, la santità; ricusano sfarzosità barocche, devozioni ingiustificate, rischi di superstizione, estremismi, nuovi dogmi (per principio: Immacolata Concezione), devozioni frutto di rivelazioni private (S. Cuore); sono per una forte riforma (anche: riduzione) dei religiosi, diverse formazione del clero e scolastica; reinterpretano fede e vita religiosa; non puntano sulla sola propria ragione, né a staccarsi dalla Chiesa; la realtà storica, culturale, spirituale italiana, priva dei contrasti fra confessioni di altre nazioni (sostituiti dalla secolarizzazione?), li porta a una via media; posizioni variabili allora, nella valutazione oggi. Riconoscono il rinnovamento religioso in atto, le ragioni di chi combatte agnosticismo e libertinismo, l’autonomia della Chiesa. Gli zelanti difendono i beni ecclesiastici per origine e destinazione; rivendicano al magistero la decisione sulle forme di santificazione, pietà, associative, dei fedeli, le nomine di parroci e vescovi, l’estensione delle diocesi, la formazione del clero. Degli autori del tempo vedono gli aspetti a– e anti– cristiani; cfr. i filoni di pensiero (non solo empiristi: Toland, Mandeville…) che pensano la Rivelazione irrilevante o negativa per lo sviluppo umano e sociale (anche la scienza, in certe premesse, pare andare in tale direzione); talora (es., Roberti) concordano su limiti e difetti interni.
Figure significative e loro specificità. Definita la ricerca, e nella nuova valutazione positiva in ambito ecclesiale, molte nuove figure sono state assegnate all’area intermedia; diverse tra loro, accolte con vari motivi: da L. A. Muratori, figura centrale, studioso della regolata devozione e pubblica felicità, degli Italici Scriptores; ad A. Genovesi, vichiano, pedagogista, economista; da C. Goldoni, exemplar dell’epoca, per le commedie e le Memorie, a M. G. Agnesi, sensibile a spiritualità, scienze, illuminismo; cfr. R. G. Boscovich, filosofo, astronomo, matematico, fisico, e i gesuiti milanesi. Incerti, C. Beccaria (indubbi importanza ed effetto dell’opera) o A. Verri; più certi S. Maffei, o M. Gioia, dell’ “Alberoni”, di interessi umanistici e scientifici. Forse vicino all’Aufklärung cattolica, con simpatie gianseniste, il “Circolo dell’ Archetto». Per l’insegnamento, si v. F. Soave, autore di testi scolastici e di metodo usati ancora a metà XIX. Cfr. il card. A.M. Querini, OSB, F.A. Marcucci, di Ascoli P.I. Capizzi, di Palermo (si è detto, l’intero indirizzo del R. Collegio; fra i discepoli, N. Spedalieri); o D. De Rossi, di Foligno, l’erudito fiorentino D. M. Manni, l’ab. G.C. Amaduzzi, O. Diodati; si cfr. l’apertura culturale di P. Facchinei o il “pre-illuminismo” di P. M. Ricci. Un posto a sé spetta a Benedetto XIV: esperto di diritto (Cause dei Santi), universalmente stimato, mediatore di grande rilievo, suscitò speranze di aggiornamento ecclesiale; contrario al giansenismo, revocò il divieto all’ipotesi copernicana, evitò certe condanne di scritti, rinviò la decisione sulla devozione al S. Cuore; prudenza e mediazione diedero luogo a delusioni, oggi a valutazioni diverse. Elementi di “illuminismo” potevano trovarsi ovunque. Lascio autori, tra fine XVIII e metà XIX, come Manzoni, nei quali sono presenti elementi illuministici e cattolici.
Dispersione ed estremizzazione nel quadro degli avvenimenti di fine secolo. Comunque si valutino periodicità e ampiezza, l’impegno illuminista italiano, specie cattolico, termina sostanzialmente alla venuta in Italia degli eserciti rivoluzionari. Se il coinvolgimento dell’Italia porta al realizzarsi in parte di ipotesi formulate nei decenni precedenti, estremizzando le posizioni pone difficili, anche inaccettabili, scelte di campo. Le applicazioni delle nuove leggi, d’origine illuministica, appaiono ispirate alla parte anti–cristiana: libero pensiero, deismo, volterrianesimo …; confermano la negatività delle idee illuministiche e l’azione degli “zelanti”. L’estensione di leggi limitative e soppressive, l’azione anti-papale, tolgono spazio a una via intermedia. Se questi eventi risultano “chiarificatori”; se ora, più che mai, è evidente la necessità di aggiornamento, imposto, in Italia e altrove, in ben altri modi e uniformità rispetto al passato; se non vengono meno le ragioni della “illuminazione”, in senso filosofico e teologico, si impongono altre preoccupazioni e scelte. Anche in termini generazionali, tuttavia (e nel patrimonio di studi e ricerche), la “lezione” illuminista cattolica italiana non va perduta; dal lato storiografico, dovrà sottostare alle vicende del secolo seguente, e oltre, prima che la dimensione filosofica generale, la proposta particolare, le figure nel loro insieme, tornino alla generale attenzione e di attualità.
Fonti e Bibl. essenziale
E. Préclin – E. Jarry, Le lotte politiche e dottrinali nei secoli XVII e XVIII (1648-1789), SAIE, Torino, 1975 (vol. XIX/2 della “Storia della Chiesa” iniziata da A. Fliche e V. Martin), 3^ ed.; AAVV, La Chiesa nell’età dell’ assolutismo confessionale. Dal Concilio di Trento alla pace di Westfalia (1563-1648), a cura di L. Mezzadri, San Paolo, Cinisello Balsamo, 1995; H. Jedin (dir. da –), Storia della Chiesa, Jaca Book Milano, 1972 ss.; n. ed. it. di L. Mezzadri, 1994; in part., Vol. VII, La Chiesa all’epoca dell’Assolutismo e dell’Illuminismo (ed. it. a cura di E. Guerriero); H. Smolinsky, Storia della Chiesa, vol. 3, Epoca moderna I (ed. it. a cura di L. Mezzadri), Queriniana, Brescia, 1995; Storia del Cristianesimo / Religione – Politica – Cultura, direzione di J.M. Mayeur, Charles e Luce Pietri, A. Vauchez, M. Venard; vol. 9, L’età della ragione (1620/30-1750), a cura di M. Venard (ed. it. a cura di P. Vismara), Borla – Città Nuova, Roma, 2003; vol. 10, Le sfide della modernità (1750-1840), a cura di B. Plongeron (ed. it. a cura di B. Bocchini Camaiani), Idem, 2004; M. Rosa (a cura di), Cattolicesimo e lumi nel Settecento italiano, Roma, Herder, 1981 (Contributi italiani nell’ambito della 3. sessione del Congresso internazionale di storia ecclesiastica comparata tenuto a Varsavia nel 1978); P. Vismara, Cattolicesimi. Itinerari sei-settecenteschi, Milano, Edizioni Biblioteca Francescana, 2002; V. Ferrone – D. Roche (a cura di -), L’Illuminismo. Dizionario storico, Roma-Bari, Laterza, 1997; ed. anche in spagnolo, francese, russo [da cui: V. Ferrone – D. Roche, L’Illuminismo nella cultura contemporanea. Storia e storiografia, Roma-Bari, Laterza, 2002); cfr. anche, promosso da V. Ferrone, il programma inter–universitario di ricerca sul tema “diritti dell’uomo e di libertà dell’Illuminismo italiano ed europeo”; M. Rosa, Settecento religioso: politica della ragione e del cuore, Venezia, Marsilio, 1999; A. Prandi, Religiosità e cultura nel ‘700 italiano, Il Mulino, Bologna, 1966; L. Mezzadri, P. Vismara Chiappa, La Chiesa tra Rinascimento e Illuminismo, Città Nuova, Roma, 2006; Grande Antologia Filosofica, dir. da M.F. Sciacca, coord. da M. Schiavone, voll. XV e XVI, Marzorati, Milano, 1973 (aggiornamenti bibliografici, vol. XXXIV, 1985); G. Natali, Il Settecento, in Storia letteraria d’Italia, Vallardi, Milano, 1950, 3^ ed.; G. Capone Braga, La filosofia francese e italiana del Settecento, Parti I e II, Cedam, Padova, 1941, 1942.
Processo di trasformazione delle attività economiche secondo criteri industriali. Il lemma richiama la locuzione storiografica “rivoluzione industriale” che rinvia all’irreversibile trasformazione del sistema di produzione agricolo e manifatturiero tradizionale mediante l’uso generalizzato di strumenti meccanici e di nuove fonti energetiche.
La stagione della “prima rivoluzione industriale”, estesa dal 1760-1780 al 1830 circa e che ebbe protagonista l’Inghilterra, coinvolse prevalentemente i settori tessile e metallurgico e segnalò l’introduzione della spoletta volante e della macchina a vapore. La seconda “rivoluzione industriale”, l’avvio della quale è convenzionalmente ricondotto agli anni Settanta-Ottanta del XIX secolo, registrò l’avvento dell’elettricità, dei prodotti chimici e del petrolio e vide l’Inghilterra raggiungere uno sviluppo industriale paradigmatico sul piano continentale e mondiale.
Fattore decisivo del processo di industrializzazione è l’accumulazione, mediante floride attività commerciali e abbondante disponibilità di materie prime (carbone e acciaio), dei capitali necessari alle iniziative imprenditoriali. Non meno rilevante concorso all’avvio della trasformazione in senso industriale della produzione è l’espansione demografica, latrice dell’accrescimento dell’offerta di manodopera. All’incremento della disponibilità di forza-lavoro contribuisce in misura rilevante il fenomeno migratorio dalle campagne alle città, esito di una compiuta “rivoluzione agraria” coniugata alla privatizzazione e alla messa a coltura dei terreni già demaniali e alla trasformazione in senso capitalistico del sistema di conduzione dei fondi agricoli anzitempo destinati a uno sfruttamento di mero consumo.
Tra gli effetti della rivoluzione industriale spicca a sua volta lo sviluppo demografico (effetto dell’accrescimento delle rese agricole e, quindi, della maggiore disponibilità complessiva di risorse alimentari) e così pure un netto miglioramento delle condizioni igienico-sanitarie generali, ragione, quest’ultima, del calo dei tassi di mortalità e dell’innalzamento dell’aspettativa di vita media della popolazione.
La rivoluzione industriale, mutò i rapporti fra gli attori economici e favorì la nascita della figura del capitalista titolare dei mezzi di produzione e di quella del dipendente di fabbrica compensato per il suo lavoro mediante un salario, l’equità del quale diverrà bandiera delle lotte del movimento operaio e sindacale.
L’industrializzazione e il progresso tecnologico determinarono profondi effetti di ordine sociale. Modificarono secolari abitudini di vita; contribuirono al cambiamento di radicate mentalità. Favorirono altresì l’espansione del processo di alfabetizzazione e quello di emancipazione femminile attraverso l’ingresso su vasta scala delle donne nel mondo del lavoro. La rivoluzione industriale trasformò inoltre il sistema dei trasporti; dette impulso allo sviluppo delle reti stradali, fognarie e dei servizi pubblici. Gli stessi connotati urbani conobbero vistosi cambiamenti: si demolirono le antiche mura di cinta; sorsero nuovi quartieri residenziali; si conferì maggior decoro ai centri cittadini. Al tempo stesso, si assistette alla dilatazione delle periferie, sede dei quartieri popolari, degli stabilimenti industriali e, da presso a questi ultimi, di vasti sobborghi sovraffollati destinati al proletariato di fabbrica ben presto al centro di una vasta produzione scrittoria intenta nell’analisi delle declinazioni del tema dell’ingiustizia sociale, delle condizioni di sfruttamento delle masse operaie e delle nuove forme di povertà indotte dal progresso industriale e tecnologico.
Mediante la Rerum Novarum (1891), enciclica decisiva nella definizione del pensiero sociale cattolico, Leone XIII intervenne sul tema del conflitto tra capitale e lavoro e sulla scottante questione sociale connessa all’industrializzazione. Il pontefice, che degli effetti di quest’ultima aveva fatto esperienza diretta durante la sua nunziatura in Belgio, condannò il socialismo; invitò gli operai a rispettare i loro doveri nei confronti degli imprenditori e a rifiutare la violenza come strumento di difesa dei loro diritti. Al tempo stesso, stigmatizzando gli eccessi del capitalismo, si soffermò sulla condizione dei lavoratori e sull’attacco alla loro dignità morale portato dai nuovi schemi organizzativi e dall’introduzione delle nuove tecnologie.
L’enciclica, mentre esclude lo sciopero come strumento di lotta, propone la riconciliazione fra le classi sociali, l’armonizzazione dei loro reciproci diritti e doveri e – a tutela della comunità, delle sue parti e del bene comune – caldeggia l’assunzione da parte dello Stato di una responsabilità arbitrale e l’istituzione di organizzazioni professionali miste di imprenditori e di operai.
Nel corso dei decenni seguenti all’apparizione dell’enciclica leoniana, in ragione dall’azione di autodifesa dei gruppi, dalla legislazione sociale e dagli interventi di politica economica anche sollecitati dagli elementi di denuncia insiti nella stessa Rerum novarum, cominciarono ad emergere i molteplici aspetti di segno positivo coniugati al processo di industrializzazione che, in Italia, nel corso del decennio giolittiano – mentre il peso dell’agricoltura nell’economa nazionale subiva una flessione – determinò l’impennata del valore della produzione manifatturiera, di quella metallurgica e di quella meccanica.
Sulla scia della Rerum novarum e dietro la spinta delle agitazioni e degli scioperi promossi dai socialisti, negli ultimi anni del secolo, ebbe maturazione il movimento della Democrazia cristiana alla testa del quale fu il prete marchigiano Romolo Murri. Si trattava di un movimento animato da giovani cattolici, che non avevano vissuto il travaglio della Questione romana e che sentivano l’esigenza di operare nella società civile apportandole il loro contributo di idee ispirate a un profondo rinnovamento socioeconomico e organico delle strutture dello Stato liberale. Nel loro programma (1899) si chiedeva: libertà sindacale; l’introduzione della proporzionale nelle elezioni; il referendum e il diritto di iniziativa popolare; un largo decentramento amministrativo; una efficace legislazione sociale; una riforma tributaria basata sulla giustizia; la lotta contro le speculazioni capitalistiche; la tutela della libertà di stampa; di associazione; di riunione; l’allargamento del suffragio universale; il disarmo generale.
I democratici-cristiani trovarono appoggi anche presso la Santa Sede. Leone XIII, mediante l’enciclica Graves de communi (1901), sanzionò che il nome di Democrazia cristiana poteva essere adottato solo sul terreno sociale, nel significato di lotta e di aspirazione alla giustizia. Escluso era il suo significato politico.
Il movimento incontro l’opposizione dell’ala più conservatrice dell’Opera dei Congressi, legata alla memoria della battaglia dell’intransigentismo post-unitario. La crisi si acuì con l’ascesa di Pio X. Se Leone XIII aveva invitato i cattolici ad uscire dalle sacrestie e a portare in seno alla società civile il loro contributo di idee e di opere aprendo strada al loro impegno sociale, Pio X pretese, invece, un laicato rigorosamente sottoposto all’autorità diocesana. Allorché le forze democratico-cristiane presero il sopravvento sugli intransigenti in seno all’opera dei Congressi, il pontefice deliberò lo scioglimento di quell’assemblea che per trent’anni era stato l’organismo-guida dei cattolici militanti. Murri, a valle della condanna del modernismo sancita dall’enciclica Pascendi (1907), sospeso a divinis, fu costretto ad uscire dalla Chiesa, ove sarà riammesso poco prima della morte (1944).
Laddove Leone XIII aveva tematizzato il conflitto capitale-lavoro nella questione operaia, Pio XI, nella Quadragesimo anno (1931), apparsa nel quarantennale della Rerum novarum, assunse una prospettiva di osservazione che, ben oltre lo specifico della condizione degli operai, abbraccia l’intero ordine sociale ed economico vigente. Papa Ratti focalizzò i temi della giustizia sociale violata, della vistosa concentrazione della ricchezza nelle mani di pochi e del giusto salario, in un quadro socio-economico che, anche in Italia, era ormai caratterizzato dall’industrializzazione, dall’urbanizzazione e dai fenomeni di massa.
Le ricadute potenzialmente positive della ricerca scientifica e tecnologica sull’economia e sullo sviluppo industriale, saldamente recepite dal magistero pontificio, alimentarono i pronunciamenti di Pio XII (il radiomessaggio del 1° giugno 1941, nel cinquantesimo della Rerum novarum; quello del Natale del 1942; il discorso alle ACLI sul sindacalismo cristiano dell’11 marzo 1945).
Giovanni XXIII, nella Mater et magistra (1961), non esitò a considerare con favore il processo di industrializzazione. Al tempo stesso, non mancò di rilevare i gravi squilibri determinati dall’innovazione tecnologica e dal progresso industriale, tanto all’interno dei singoli Stati, come su scala mondiale. Di qui, trasse spunto l’appello del pontefice all’intensificazione della cooperazione internazionale in vista dell’innalzamento dei bassissimi livelli di reddito pro capite conosciuti dai Paesi del Terzo mondo a motivo dell’attardato o dell’ancora mancato avvio del loro sviluppo infrastrutturale e della loro modernizzazione socioeconomica.
In rapporto di continuità e di sintonia con la rivendicazione del valore del lavoro formulato dalla costituzione pastorale Gaudium et spes (1965), la riflessione di Paolo VI, nella Populorum progressio (1967), affrontò il tema delle profonde disuguaglianze vigenti nel mondo contemporaneo. Il papa richiamò gli effetti traumatici dell’avvicendamento della civiltà industriale a quella tradizionale e sottolineò come, ai primordi di quel processo, la concezione del profitto come motore essenziale del progresso economico, l’idea della concorrenza come legge suprema dell’economia e quella della proprietà privata dei mezzi di produzione come un diritto assoluto era stata ragione di profonde sofferenze e ingiustizie dagli effetti ancora perduranti. Il pontefice, pur riconoscendo nell’avvento dell’industrializzazione un segno e un fattore di sviluppo, sollecitò la moderna cultura economica a imporsi quei limiti morali e quegli obblighi sociali che, da tempo, avrebbe dovuto impartirsi a salvaguardia dell’uomo, della sua dignità e del suo sviluppo integrale. L’enciclica sottolinea il crescente squilibro vigente tra Paesi sviluppati e Paesi ai margini delle aree privilegiate dal benessere. E pone l’accento sulle dimensioni mondiali acquisite dalla questione sociale congiuntamente alla diffusa consapevolezza dei meccanismi alla base del fenomeno: in primo luogo il mercato internazionale e una logica degli scambi subordinata agli interessi dei Paesi ricchi, sempre più ricchi rispetto a quelli sempre più poveri.
Paolo VI tornò a richiamare l’elemento di ambiguità insito nella civiltà industriale nella lettera apostolica Octogesima adveniens (1971), nell’ottantesimo anniversario della Rerum novarum: il conflitto tra capitale e lavoro, tema dominante dell’enciclica leoniana, era diventato il conflitto tra la moderna realtà economica, sociale e civile e la capacità culturale e morale dell’uomo di dominarla, evitando di cercare rifugio nell’utopia e di confidare nelle potenzialità illimitate della scienza e della tecnica.
Giovanni Paolo II, nella Laborem exercens (1981), il messaggio della quale si comprende a dovere solo in relazione alla riflessione religiosa sull’uomo affidata alla Redemptor hominis (1979), riprese la riflessione del predecessore. L’enciclica – di certo non estranea all’esperienza dei lavoratori e del sindacato polacco di Solidarnosc – evoca il conflitto tra capitale e lavoro e ne riconduce le matrici alla cultura e alla prassi economico-sociale caratteristica della “prima rivoluzione industriale”, quando in nome delle ragioni del profitto, si misconobbe l’uomo come primo fondamento del valore del lavoro. Woytjła non esitò tuttavia a riconoscere nel progresso industriale un fattore di sviluppo e, potenzialmente, di emancipazione morale dell’uomo e della comunità.
Giovanni Paolo II tematizzò l’uomo lavoratore anche nella Centesimus annus (1991): scopo dell’impresa non è semplicemente la dilatazione degli utili, ma l’esistenza stessa dell’azienda come aggregato di persone che perseguono, in diverso modo, il soddisfacimento dei loro bisogni e, come gruppo, si pongono al servizio della società. Tra la Laborem exercens e la Centesimus annus, Karol Woytjła dette in luce la Sollecitudo rei socialis (1987). Ivi, il papa pose l’accento sulla dilatazione della questione sociale; sul sempre più marcato carattere sovranazionale delle dinamiche industriali e delle problematiche del lavoro operaio; sull’assai diseguale distribuzione di beni e servizi addotti dallo sviluppo economico. Siffatti concetti echeggiano altresì nella Caritas in veritate (2009), nella quale la riflessione di Benedetto XVI affronta la prassi della delocalizzazione della produzione industriale, meccanismo che, promosso dall’obiettivo dell’incremento della competitività, finisce spesso col determinare nuove emergenze occupazionali nei Paesi d’origine delle imprese, senza accrescere il benessere delle aree nelle quali le attività sono state trasferite allo scopo ridurre i costi della manodopera.
Fonti e Bibl. essenziale
V. Castronovo, Rivoluzione industriale, in Enciclopedia Europea, IX, Milano, 1979, 794-797; R. Giannetti, Rivoluzione industriale, in Dizionario di storiografia, Varese, 1996, 893-895; G. Bianchi, Il lavoro nella società industriale, in Dizionario di dottrina sociale della Chiesa. Scienze sociali e magistero, a cura del Centro di ricerche per lo studio della dottrina sociale della Chiesa, Milano, 2004, 795-802; E. Botto, Giustizia sociale, ivi, 338-344; A. Cova, Industria, ivi, 370-374; P. Galea, I sistemi economici di Otto e Novecento, ivi, 747-760; M. La Rosa, Classi sociali; ivi, 193-194; D. Parisi, Capitalismo, ivi, 177-183; A. Zanetti, Impresa, 364-367; E. Zucchetti, Questione sociale, ivi, 536-539. Si segnalano inoltre con ulteriori richiami: T.S. Ashton, La rivoluzione industriale. 1760-1830, Prefazione di C. Cipolla, trad. it., Bari, 1953; G. Jarlot, Doctrine pontificale et histoire. L’enseignement social de Léon XIII, Pie X et Benoit XV vu dans son ambiance historique (1878-1922), Roma, 1964; A. Gambasin, Il movimento sociale nell’Opera dei Congressi (1874-1904). Contributo per la storia del cattolicesimo sociale in Italia, Roma, 1958; Id., Gerarchia e laicato in Italia nel secondo Ottocento, Padova, 1969; G. De Rosa, Storia del movimento cattolico in Italia. Dalla Restaurazione all’età giolittiana, I, Bari, 1966; D.S. Landes, Prometeo liberato. Trasformazioni tecnologiche e sviluppo industriale nell’Europa occidentale dal 1750 ai giorni nostri, trad. it., Torino, 1978;M. D. Chenu, La dottrina sociale della chiesa. Origine e sviluppo (1891-1971), Brescia, 19822; L’enciclica Laborem exercens e la società industriale. Incontro di studio tra «La Civiltà Cattolica» e Confindustria, Roma, 25 febbraio 1982, supplemento a «La Civiltà Cattolica», 3177 (1982); R. Aron, La società industriale, Milano, 1983; J.M. Ibánez Langlois, La dottrina sociale della chiesa. Itinerario testuale dalla Rerum novarum alla Sollicitudo rei socialis, Milano, 1987; M. Romani, La Mater et magistra e i problemi del lavoro nella dottrina sociale della Chiesa, in ID., Il risorgimento sindacale in Italia. Scritti e discorsi 1951-1975, a cura di S. Zaninelli, Milano, 1988, 149-158; O. Garavello, La Populorum progressio fra contrastanti visioni del processo di sviluppo economico dei paesi del Terzo Mondo, in Il magistero di Paolo VI nell’enciclica Populorum progressio, Giornata di studio (Milano, 16 marzo 1988), Brescia, 1989, 60-97; Dalla Rerum novarum alla Centesimus annus. Le grandi encicliche sociali, a cura di R. Spiazzi, Milano, 1991; G. Vecchio, La dottrina sociale della Chiesa. Profilo storico dalla Rerum Novarum alla Centesimus Annus, Milano, 1992; D. Menozzi, La Chiesa cattolica e la secolarizzazione, Torino, 1993, 72-106 (§ 2.- Cristianità e questione sociale. Da Pio IX a Leone XIII); P. Hudson,La rivoluzione industriale, trad. it., Bologna, 1995; I tempi della Rerum Novarum, Atti del Convegno (Roma, 16-20 ottobre 1991), a cura di G. De Rosa, Soveria Mannelli, 2003; M. Toso, Welfare Society. La riforma del welfare: l’apporto dei pontefici, Roma, 2003; D. Forte, Encicliche sociali, capitalismo e socialismo, in «Atlantide», 4 (2006), 44-51; W. Magnoni, La Laborem exercens nel contesto della dottrina sociale della Chiesa, in I problemi del lavoro a trent’anni dalla Laborem exercens, in «Quaderni per il dialogo e la pace», 3 (2011), 8-12.
L’inquisitio haereticae pravitatis si sviluppa a partire dal papato di Gregorio IX e ha un inizio che potremmo definire policentrico. Spesso si indica nella Ad Abolendam (diversarum heresium pravitatem) del 1184 il momento in cui sarebbe nata l’inquisizione. In realtà, la Ad Abolendam rappresenta soltanto un presupposto teorico, ma non implica «inquisitores ab apostolica sede deputati» ovvero scelti dal papa in un rapporto di dipendenza istituzionale. Una serie di norme volte a colpire l’eresia precedono la nascita dell’inquisizione: a partire dal canone Sicut ait beatus Leo del Concilio Lateranense III del 1179 seguito dalla decretale Ad Abolendam emessa nel 1184 a Verona da Lucio III in occasione di un incontro con Federico I. La grande svolta si ha nel 1199 con la decretale Vergentis in senium in cui Innocenzo III equipara il crimine di eresia al crimen lesae maiestatis. Nel breve corso di vent’anni l’eresia viene definitivamente collocata in un ambito disciplinare e politico attraverso l’affinarsi della concezione teorico-giuridica del potere monarchico papale: Solo con Gregorio IX (1227-1241) nasce il negotium inquisitionis, o officium inquisitionis, o inquisitio haereticae pravitatis che, sostituendo le precedenti forme di inquisizione antiereticale demandate ai vescovi, impiegherà circa un secolo a concludere il proprio cammino di definizione istituzionale. Sempre durante il papato di Gregorio IX, il titulus «De Hereticis» trova spazio nel Liber Extra, la raccolta ufficiale di decretali pontificie extra Decretum vagantes raccolte dal frate Predicatore Raimondo da Peñaforte pubblicate dal papa nel 1234. La legislazione antiereticale entrava così a far parte del diritto canonico.
Nel 1254 con la Licet ex omnibus di Innocenzo IV (1243-1254) l’Italia viene divisa in due zone inquisitoriali: la Lombardiacon Bologna e Ferrara sino a Genova corrispondente alla giurisdizione dei frati Predicatori, e il vasto territorio della Marca Trevisana, della Romagna e della Marca d’Ancona affidato ai frati Minori. Tale organizzazione amministrativa è l’esito di una fase di sperimentazione dell’inquisizione in Italia che ebbe in Lombardialo spazio e nei frati Predicatori gli attori del proprio consolidamento. Immediatamente dopo l’elezione, il 29 aprile 1227, Gregorio IX scrive una lettera ai podestà e al popolo di Lombardia sui pericoli dell’haeretica pravitas. In una lettera del 3 novembre 1232, indirizzata ad un non meglio precisabile frate Predicatore Alberico, si riscontra la prima indicazione precisa del nome di un inquisitore e della definizione formale di «inquisitor haeretice pravitatis in Lombardia». Milano e la Lombardia rappresentano un’area privilegiata sia per la presenza di eretici (buoni cristiani dualisti, o catari, e poveri di Lione, o valdesi) sia per il conflitto tra papato e impero. Non a caso il vero rafforzamento propulsivo dell’officium fidei avrà luogo solo dopo la morte di Federico II, nel 1250, e l’uccisione del frate Predicatore e inquisitore Pietro da Verona avvenuta nel 1252. A entrambe le morti Innocenzo IV reagisce con una serie di lettere volte a rafforzare il ruolo e l’intervento degli inquisitori che, anche in questa fase, si caratterizzano per essere personalità d’eccezione con le quali il pontefice ha un contatto personale diretto. Ciò emerge in modo chiaro dalle numerose missive rivolte a frate Raniero da Piacenza, un ex cataro divenuto inquisitore, che mostrano il progressivo delinearsi delle competenze e delle mansioni degli inquisitori “sul campo”. Se nella concezione innocenziana della repressione frate Pietro da Verona, divenuto in tempi brevissimi san Pietro martire rappresenta la santità antiereticale militante, frate Raniero da Piacenza ne impersona il risvolto operativo sul territorio. In tale contesto i frati Predicatori diventano i protagonisti della repressione. Solo in seguito il ruolo dei frati Minori verrà rafforzato da Alessandro IV (1254-1261) – che, tra l’altro, era stato cardinale protettore di quell’Ordine – e le direzioni della repressione antiereticale si spostano verso l’Italia nord-orientale e centrale.
L’importanza strategica e sinergica dell’officium fidei di Lombardia, e in particolar modo della sede milanese in seguito all’uccisione di frate Pietro da Verona, si manifesta anche nella produzione di manuali di procedura e di trattati antiereticali di cui la Summa di frate Raniero da Piacenza rappresenta uno degli esempi più fortunati – se ne sono conservate oltre cinquanta copie coeve e successive – a cui vanno aggiunti la Summa di frate Moneta da Cremona e il Tractatus de hereticis di frate Anselmo d’Alessandria. Si tratta di manuali in cui le procedure inquisitoriali e l’operatività poliziesco-giudiziaria diventano impegno giuridico-normativo attraverso il supporto teologico-dottrinale. A queste due tipologie di fonti vanno affiancati i quaderni contabili degli inquisitori e gli atti dei procedimenti giudiziari i cui esemplari superstiti si collocano soprattutto verso la fine del XIII secolo: se i rendiconti finanziari hanno avuto una conservazione centralizzata (e attualmente si trovano presso la Camera Apostolica dell’Archivio Segreto Vaticano), per i documenti giudiziari si ha una conservazione eccentrica che ne ha determinato la dispersione e, assai spesso, la scomparsa. Non è caso che la maggior parte dei procedimenti giudiziari superstiti non sia stata rinvenuta nei cosiddetti archivi dell’inquisizione, di cui non si può propriamente parlare per il medioevo.
Nonostante la scarsità della documentazione prodotta (o, meglio, sopravvissuta), un quadro meno impressionista del rapporto, interno e esterno, tra inquisizione e Chiesa si precisa tra XIII e XIV secolo con gli interventi nevralgici di Bonifacio VIII (1294-1303). Controlli più attenti e centralizzati dei rendiconti della gestione dell’officium fidei da parte del camerlengo mostrano le anomalie di confische incontrollate di beni di eretici e conducono alla sospensione di alcuni inquisitori appartenenti, per lo più, all’Ordine dei frati Minori. Si tratta di un importante preludio alla progressiva vigilanza sulle questioni patrimoniali strettamente connesse al concreto svolgimento dell’officium fidei da parte dei funzionari della curia papale. Viene inaugurata così una stagione di inchieste, soprattutto di carattere finanziario-amministrativo, che proseguirà con Clemente V (1305-1314). Parallelamente procede l’inserimento delle norme antiereticali e inquisitoriali nel diritto canonico: nel 1298 viene pubblicato il Liber Sextus in cui nel titulus «De Hereticis» viene raccolta parte della normativa antiereticale precedentemente promulgata da Gregorio IX, Alessandro IV, Urbano IV, Clemente IV e, infine, le decretali dello stesso Bonifacio VIII. Specifica attenzione è rivolta al problema della collaborazione tra inquisitori e vescovi, una materia assai delicata che impegnerà in seguito Benedetto XI (Ex eoquod del 2 marzo 1304) e Clemente V (Multorum querela del concilio di Vienne del 1311 inserita, in seguito, nelle cosiddette Clementine).
Il 1300, l’anno del primo Giubileo della Chiesa cattolico-romana e momento promozionale del pontificato di Bonifacio VIII, coincide con la svolta risolutiva di alcuni procedimenti inquisitoriali condotti dall’officium fidei di Lombardia. È assai verosimile che la ricorrenza simbolica del primo Giubileo, il progressivo consolidamento dell’officium fidei e il rafforzamento di legami personali e professionali, soprattutto tra alcuni membri dell’Ordine dei frati Predicatori (in particolare con frate Niccolò di Boccassio, futuro Benedetto XI) e il vertice della Chiesa, abbiano contribuito in maniera convergente alle risoluzioni dei casi lombardi. Emergono gli elementi per confermare un coinvolgimento sempre maggiore di cardinali che, riuniti in apposite commissioni, sono impegnati a risolvere i casi più delicati e controversi. Con il papato di Bonifacio VIII ha luogo un’altra importante mutazione: si colgono i segnali dell’avvio di processi specificamente politici per eresia – di cui egli stesso sarà uno dei primi illustri imputati nei procedimenti intentati dal re di Francia Filippo il Bello in cui sono coinvolti anche i suoi cardinali in qualità di testimoni– giungendo fino alle aperte strumentalizzazioni del pontificato di Giovanni XXII (1316-1334).
Quando il 22 ottobre 1303, Niccolò di Boccassio diventa Benedetto XI (1303-1304) si completa la saldatura tra i vertici della Chiesa cattolico-romana e i frati Predicatori, di cui beneficiano gli inquisitori grazie a rapporti istituzionali e personali di lunga durata. Nonostante la brevità del suo pontificato, Benedetto XI emette provvedimenti importanti per il funzionamento dell’officium fidei nella giurisdizione di competenza dei suoi confratelli. Il 16 febbraio 1304 con la Ad perpetuam rei memoriam ratifica la decisione dei capitoli generali dei frati Predicatori di dividere la Provincia di Lombardia in due circoscrizioni (Lombardia superior e inferior) e di aumentare il numero degli inquisitori (nella Lombardia superior possono raggiungere il numero di sette e nella Lombardia inferior diventano tre). Il 2 marzo 1304 indirizza agli inquisitori di Lombardia la Ex eoquod, nella quale regola la collaborazione tra l’ordinario diocesano e i rappresentanti dell’officium fidei, ma affronta anche problemi patrimoniali e amministrativi frequentemente causa di dissidi all’interno e all’esterno dell’Ordine.
Con il pontificato di Clemente V aumentano le inchieste sull’operato amministrativo degli inquisitori, si intensifica la repressione contro i Templari, e si concludonole ampie indagini sugli inquisitori di Lombardia e della Marca Trevisana.Nel 1307ha luogo la crociata contro il più famoso eretico medievale italiano: frate Dolcino che, con i suoi Apostoli, si era ritirato sulle montagne della Val Sesia in attesa di una palingenesi spirituale e dei “tempi nuovi” dove venne attaccatoe imprigionato con alcuni compagni. Si tratta del caso più clamoroso – soprattutto per l’amplificazione dovuta alla fortuna dei versi nella Divina Commedia di Dante Alighieri (Inf. XXVIII, vv. 55-60) – di crociata interna alla cristianità in territorio italiano di cui abbiamo testimonianze certe. Condotti da inquisitori, gli interrogatori dei prigionieri assumono la forma di veri e propri processi inquisitoriali che, seppur perduti, sono stati riassunti nel trattato De secta illorum qui se dicunt esse de secta Apostolorum. Tale descrizione della dottrina e della vita religiosa degli Apostoli di frate Dolcino è convogliata nel più noto manuale medievale di dottrina e procedura inquisitoriale: la Practica haereticae pravitatis del frate inquisitore domenicano Bernard Gui.
Il passaggio della sede pontificia da Roma ad Avignone con Clemente V nel 1309 non muta la gestione, ormai consolidata, della repressione in Italia bensì le modalità. A causa degli eccessi del pontificato di Giovanni XXII si assiste al deflagrare degli equilibri tra Chiesa e Impero nello scontro con Ludovico il Bavaro, al quale si affianca l’ex ministro generale dei frati Minori Michele da Cesena. Ha luogo unacollisione ferocissimatra il pontefice e alcuni gruppi di frati Minori, dalle cui fila proviene l’antipapa Niccolò V. Tali conflitti assumeranno in Italia le dimensioni di un controllo sempre più diretto e personalmente coinvolto del papa con una ampiezza d’intervento senza precedenti contro i Visconti di Milano, gli Estensi di Ferrara, e i signori delle Marche, dell’Umbria e della Romagna, ovvero contro i cosiddetti ghibellini, i rebelles, a cui si aggiungono i frati Minori spirituali dell’Italia centrale. Con Giovanni XXII l’opposizione politica e religiosa è combattuta tramite l’accusa di eresia in grandi processi indubitabilmente politici– e per lo più in assenza degli imputati – dove non mancano le accuse di magia e di fornicazione, in un clima nutrito anche delle personali ossessioni, o debolezze, del pontefice. In tale contesto, assume dimensioni di grande rilevanza giuridica, pubblicistica e visiva la procedura di raggiungere e coinvolgere tutta la cristianità nell’azione repressiva della Chiesa attraverso l’invio delle sentenze dei processi contro i rebelles da leggere nelle chiese. La cosiddetta età dei processi si conclude con la revisione delle principali inchieste volute da Giovanni XXII da parte dei successori, Benedetto XII e Innocenzo VI, decretandone il sostanziale fallimento.
Con il successore Benedetto XII (1334-1342), il vescovo e co-inquisitore Jacques Fournier, è sempre più evidente il cambiamento di atteggiamento e di mentalità degli uomini al vertice della Chiesa verso l’inquisizione. Importanti e famose inchieste condotte da Jacques Fournier a Pamiers tra il 1317 e il 1325 sono riportate in un codice che nulla ha a che vedere con la tradizionale modalità di redazione di atti giudiziari: le testimonianze processuali si presentano con una inusuale scrittura su due colonne e con spazi bianchi destinati alle miniature mostrando come un testo giudiziario, per sua natura segreto, si fosse trasformato in elegante oggetto-libro, con cambiamento di funzioni e, quindi, di destinatari. A dimostrazione dell’anomalia si aggiunge il luogo di conservazione presso la biblioteca dei papi (ora Biblioteca Apostolica Vaticana) di cui rappresenta uno dei pochi registri inquisitoriali allogati in una istituzione che non mostra sensibilità conservativa verso questa tipologia di manoscritti.
Nel Trecento la Chiesa aveva definitivamente vinto la propria battaglia contro i buoni cristiani dualisti o catari dell’Italia centro-settentrionale, mentre continuerà la repressione contro i Poveri di Lione o Valdesi soprattutto del Piemonte (nel Cuneese, nel Saluzzese, del Pinerolese, del Chierese e delle valli del Sangone e di Susa) che nel 1487 si concretizzerà con una crociata interna alla cristianità voluta da Innocenzo VIII (1484-1492) diretta nell’alta valle del Chisone, detta val Pragelato, nel Piemonte occidentale (ma allora nel Delfinato). Nel corso del Quattrocento proprio nei confronti dei valdesi l’accusa di eresia è associata a quella stregoneria, tanto che il termine vauderie ne diventa sinonimo. È un fenomeno europeo di ampie dimensioni che però non ha né la fase sperimentale né il proprio consolidamento giudiziario in Italia.
Il territorio italiano è l’ambito geografico in cui la repressione degli eretici e il consolidamento dell’inquisizione hanno primariamente luogo (sebbene non vadano dimenticate la crociata e i processi contro i buoni cristiani dualisti, o albigesi, del Midi francese che rappresentarono una importante tappa operativo-organizzativa preliminare). Il fenomeno della caccia alle streghe non è concepito in modo mirato per l’Italia, bensì per i territori tedeschi. Se ne individuano i primordi nel Canon Episcopi inserito nel Decreto di Graziano degli anni Quaranta del XII secolo e aspetti più concreti in una lettera del inviata da Gregorio IX nel 1232 ai vescovi tedeschi invitandoli a procedere «ad exterminium» degli Stedinger accusati di dedicarsi al culto di Satana. Nel 1233, all’arcivescovo di Magonza, al vescovo di Hildesheim, a Corrado di Marburg, a Federico II e al figlio Enrico giunge la Vox in Rama, nella quale è descritta l’adorazione del demonio da parte di coloro che, di conseguenza, verranno chiamati Luciferani. Gli Stedinger che, lungi dall’essere adoratori del demonio, erano contadini che si erano ribellati alle autorità locali, verranno sterminati con una crociata. Tra i più antichi interventi papali circa le divinazioni e i sortilegi si devono ricordare due lettere di Alessandro IV del 1258 e del 1260, mentre risale al 1320, nel pieno corso delle lotte e dei processi contro i ghibellini italiani, una consultazione di Giovanni XXII – apparentemente senza conseguenze giurisprudenziali – sulla possibilità di considerare eretici coloro i quali vengono accusati di magia o di invocazione del demonio: si profilava così il trinomio eresia-magia-stregoneria.
Fonti e Bibl. essenziale
Henry-Charles Lea, A History of the Inquisition of the Middle Ages, I-III, London-New-York, The Macmillan Company, 1906; Grado Giovanni Merlo, Eretici e inquisitori nella società piemontese del trecento, Torino, Claudiana, 1977; Mariano D’Alatri, Eretici e inquisitori. Studi e documenti, I: Il Duecento, Roma, Istituto storico dei Cappuccini, 1986; Die Anfänge der Inquisition im Mittelalter, herausgegeben von P. Segl, Köln-Weimar-Wien, 1993; Wolfram Benziger, Die rechtliche Entwicklung der Ketzerinquisitionim 14. Jahrhundert, in Stagnation oder Fortbildung? Aspekte des allgemeinen Kirchenrechtsim 14. und 15. Jahrhundert, a cura di M. Bertram, Tübingen, 2005 (Bibliothek des Deutschen Historischen Institut in Rom, 108), 282-298; Marina Benedetti, I libri degli inquisitori, in Libri, e altro, a cura di Grado Giovanni Merlo, Milano, Fondazione Arnoldo e Alberto Mondadori, 2006, 15-32; Andrea Del Col, L’Inquisizione in Italia dal XII al XXI secolo, Milano, Mondadori, 2006; Frati minori e inquisizione, Spoleto, Fondazione Centro italiano di studi sull’alto medioevo, 2006; Marina Benedetti, Inquisitori lombardi del Duecento, prefazione di A. Prosperi, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 2008; Grado Giovanni Merlo, Inquisitori e inquisizione del Medioevo, Bologna, Il Mulino, 2008; L’età dei processi. Inchieste e condanne tra politica e ideologia nel ‘300, a cura di A. Rigon, F. Veronese, Roma, Istituto storico italiano per il medioevo, 2009; Jaques Chiffoleau, La Chiesa, il segreto e l’obbedienza. La costruzione del soggetto politico nel medioevo, Bologna, Il Mulino, 2010; M. Benedetti, Gregorio IX: gli inquisitori, i frati e gli eretici, in Gregorio IX e gli ordini Mendicanti, Spoleto, 2011, 295-323; L. Paolini, Le piccole volpi. Chiesa ed eretici nel Medioevo, a cura di R. Parmeggiani, Bologna, BUP, 2013.
La congregazione cardinalizia dell’I. o Sant’Ufficio fu istituita da papa Paolo III Farnese il 21 luglio 1542 con la bolla Licet ab initio. La bolla affidava la lotta contro l’eresia a un gruppo di cardinali nominati dal pontefice (in quell’occasione furono sei, ma il numero variò a seconda dei papi) attribuendo loro poteri giudiziari dirompenti per una società come quella di antico regime basata sulla diseguaglianza giuridica. I cardinali inquisitori e i loro delegati avevano infatti il potere di perseguire i crimini contro la fede senza tener conto di eventuali privilegi ed esenzioni degli imputati, si trattasse anche delle supreme autorità civili ed ecclesiastiche. Alla base del provvedimento papale c’era l’allarme per l’eresia diffusasi con la connivenza di principi, prelati e porporati in diverse aree della penisola italiana e in ogni strato sociale.
Il nuovo tribunale centrale utilizzò la preesistente rete medievale, ossia i tribunali inquisitoriali dislocati nei conventi degli ordini mendicanti francescano e soprattutto domenicano. Nel giro dei tre decenni dall’istituzione del Sant’Ufficio questa rete s’infittì (a metà Seicento si contavano 47 tribunali periferici nella penisola), ma soprattutto fu sottoposta a un duplice processo di gerarchizzazione e centralizzazione in base al quale i cardinali si arrogarono progressivamente la nomina degli inquisitori locali precedentemente designati dai superiori degli ordini e la scelta dei conventi dove installare i tribunali (quelli dei domenicani osservanti furono privilegiati a scapito del ramo conventuale), imponendo una crescente vigilanza sui processi celebrati dai tribunali periferici.
La corrispondenza tra i tribunali sparsi nella penisola italiana e quello centrale romano testimonia l’esistenza di un’organizzazione verticale dell’informazione. Se da Roma giungevano istruzioni sul modo di condurre i procedimenti più delicati, avocazioni dei processi, licenze di torturare gli imputati, liste di libri proibiti, etc., dalla periferia si inviavano relazioni sui procedimenti giudiziari, copie di sentenze e abiure, liste di libri confiscati, richieste di consigli e chiarimenti. Le lettere dei cardinali inquisitori ai tribunali locali avevano valore di decreti, alla pari delle decisioni assunte durante le sedute della congregazione che si tenevano il mercoledì alla presenza dei cardinali (feria quarta) e il giovedì davanti al papa (feria quinta) alle quali prendevano parte vari consultori, il Maestro del sacro palazzo e il commissario dell’I., entrambi frati domenicani. Questo apparato repressivo – eccezionale in antico regime per la sua capillarità – non funzionava tuttavia come un moderno apparato burocratico-amministrativo. Nelle comunicazioni tra centro e periferia i cardinali dell’I. preferivano infatti risolvere casi specifici piuttosto che trasmettere norme universali e responsi definitivi, che soli sarebbero stati in grado di scongiurare in modo permanente l’arbitrarietà degli interventi dei giudici locali.
Quella romana fu una delle tre inquisizioni operanti nell’Europa cattolica in età moderna insieme con quelle spagnola (1478) e portoghese (1547). In Francia, la giurisdizione dell’I. non fu mai riconosciuta dalla corona e dalle istituzioni civili del regno. Nonostante la pretesa universalità delle sue competenze, l’I. romana circoscrisse quindi l’esercizio dei suoi poteri alla penisola, cui occorre aggiungere le sedi fuori d’Italia (l’isola di Malta, Avignone, Besançon, Carcassonne, Tolosa e Colonia) nonché una breve e discontinua attività sulle coste balcaniche e in alcune isole del Mediterraneo orientale ai confini con il mondo musulmano.
La rete dei tribunali inquisitoriali si stendeva nella penisola secondo una geografia differenziata che escludeva la minuscola repubblica di Lucca mentre in Sicilia e in Sardegna vigeva l’inquisizione spagnola. Nel viceregno di Napoli i compiti inquisitoriali erano affidati ai vescovi e ai loro delegati ma il Sant’Ufficio operava egualmente anche se in modo sotterraneo per mezzo di un commissario suo delegato residente a Napoli. Gran parte dei tribunali erano concentrati nell’Italia centrosettentrionale, un’area cruciale attraversata dalle vie di collegamento con il mondo protestante, nella quale erano dislocati i maggiori centri di produzione culturale, in particolare le città sede di università e di una fiorente industria libraria. Si disegnavano così due spazi distinti: un’«Italia inquisitoriale» dove maggiore era l’incidenza degli apparati coercitivi e un’«Italia vescovile» costituita dal Mezzogiorno continentale dove i tribunali vescovili – eccetto quello napoletano – partecipavano della debolezza delle strutture episcopali meridionali.
Se le inquisizioni spagnola e portoghese, nate per iniziativa dei rispettivi sovrani, furono potenti strumenti del processo di consolidamento delle corone, in Italia il papa impose i tribunali inquisitoriali agli altri principi della penisola. Per i governanti degli stati regionali italiani (che dovevano garantire l’aiuto del braccio secolare nell’esecuzione delle sentenze capitali) accettare l’insediamento dell’I. significava dover tollerare, entro i propri domini, tribunali dipendenti da un’autorità esterna che potevano giudicare in tutta segretezza e punire i loro sudditi, nonché pretenderne la confisca dei beni e l’estradizione a Roma. Al fine di limitare l’autonomia dei giudici ecclesiastici, la repubblica di Venezia era riuscita a ottenere l’eccezionale privilegio che ai processi dell’I. partecipassero rappresentanti dello stato con funzioni di informazione e controllo.
Nonostante la convergenza stabilitasi dopo la metà del Cinquecento tra autorità civili ed ecclesiastiche nella lotta contro l’eresia avvertita come disobbedienza insieme politica e religiosa, i poteri degli inquisitori erano sostanzialmente lesivi della sovranità statale e perturbatori delle normali relazioni sociali, come dimostrano i conflitti con le autorità secolari, gli assalti da parte della popolazione ai conventi sede dei tribunali e la reiterata pubblicazione nel corso del Seicento della costituzione di Pio V Si de protegendis (1569) che stabiliva aspre sanzioni per quanti osassero violare persone e cose dell’I. Un altro fattore di turbamento dell’ordine sociale e di conflitto con le autorità secolari era il fenomeno dei patentati e familiari dell’I. che raggiunse dimensioni di grande rilievo nel Sei-Settecento. La moltiplicazione delle licenze di porto d’armi di cui godevano queste forze di polizia al servizio dei tribunali inquisitoriali si scontrava infatti con i tentativi dell’autorità statale di disarmare i propri sudditi, di combattere il banditismo e d’imporsi come unica titolare dell’uso legittimo della forza.
Se il decollo e il consolidamento della rete inquisitoriale periferica furono lenti e difficoltosi, a Roma nel giro di pochi anni il Sant’Ufficio riuscì a creare le condizioni istituzionali e politiche per influenzare le scelte di governo della Chiesa in base ai propri rigidi orientamenti non solo nei confronti del mondo protestante ma anche verso il dissenso religioso diffuso ai vertici dell’istituzione ecclesiastica, come dimostrano le inchieste e i processi degli anni quaranta e cinquanta del Cinquecento contro vescovi, prelati e prestigiosi cardinali come il milanese Giovanni Morone. Tra i mezzi insidiosi utilizzati per reprimere tale dissenso interno ci fu l’uso spregiudicato in conclave di incartamenti inquisitoriali e delle accuse d’eresia contro gli avversari al fine di impedirne l’elezione al soglio pontificio, anche in vista dell’ascesa al papato dei cardinali intransigenti membri dell’I.
Nel 1555 fu eletto il napoletano Paolo IV Carafa (1555-1559), a capo del Sant’Ufficio sin dalla sua creazione. Sotto il papa inquisitore s’intensificarono le persecuzioni di eretici e di minoranze religiose; le competenze dei tribunali dell’I. furono estese a bestemmiatori, sodomiti, simoniaci, ebrei e giudaizzanti, celebranti la messa senza ordinazione e ordini regolari di recente fondazione; fu promulgato dall’I. il devastante indice dei libri proibiti del 1558. Alla morte del pontefice la sua sede a Roma fu assalita e incendiata, i prigionieri liberati e gli inquisitori malmenati, ma il peso istituzionale conferito al Sant’Ufficio dalle costituzioni di Paolo IV si dimostrò capace di condizionarne durevolmente il ruolo ai vertici della Chiesa.
Con la bolla Cum ex apostolatus officio (1559) Paolo IV stabilì la deposizione immediata delle massime autorità pubbliche civili ed ecclesiastiche (principi, re, imperatori, vescovi, cardinali e papi) nel caso che, prima di assurgere alla loro carica, si fossero macchiate d’eresia. L’accusa d’eresia, già utilizzata durante i conclavi per scongiurare candidature avversate dall’I., trovò così formale legittimazione come strumento della lotta politica all’interno della Chiesa per bloccare carriere ecclesiastiche sgradite ai cardinali del Sant’Ufficio, e addirittura contro il pontefice per influenzarne le scelte, come si verificò sotto Pio IV, Clemente VIII, Innocenzo XI, ossia ogni volta che papi non provenienti dalle file dell’I. vollero prendere importanti decisioni per la Chiesa (la concessione del calice ai laici, l’assoluzione di Enrico IV di Francia, l’apertura verso il quietismo) in contrasto con gli orientamenti della potente congregazione, pronta a ergersi anche contro il papa a giudice dell’ortodossia.
Dopo la breve parentesi del pontificato di Pio IV (1560-1565) che convocò e concluse il Tridentino e tentò di contenere i poteri del Sant’Ufficio, il cardinale inquisitore e frate domenicano Michele Ghislieri, già insignito da Paolo IV della carica a vita di Inquisitor Maior e delle enormi prerogative ad essa connesse, fu eletto con il nome di Pio V (1566-1572). Il papa domenicano inquisitore e santo (fu canonizzato nel 1712) prendeva le decisioni più importanti non in concistoro con l’assistenza del Sacro collegio, ma durante le sedute dell’I. Oltre a scatenare nelle città italiane processi e roghi cui dovettero piegarsi i principi della penisola, Pio V promulgò la bolla Inter multiplices curas (1566) con la quale concedeva all’I. facoltà di riaprire i processi per eresia già conclusi con sentenze di assoluzione, persino nel caso che tali assoluzioni fossero state emanate dal concilio di Trento (da poco concluso) o dai pontefici suoi predecessori. La bolla sanciva così il principio che il ruolo di supremi giudici in materia di fede e il monopolio del controllo sull’ortodossia non spettavano né al concilio universale né al papa, ma ai cardinali inquisitori. Del resto, di lì a poco con la bolla In Coena Domini del 1568 Pio V abrogò la norma tridentina che affidava ai vescovi il potere d’assoluzione degli eretici occulti nel foro interiore, sancendo così contro quanto stabilito addirittura da una norma conciliare l’unicità della via giudiziale dei tribunali della fede nel condurre la lotta contro l’eresia.
In breve tempo il rischio derivante da un’accusa d’eresia davanti all’I. era diventato lo strumento per regolare i meccanismi d’accesso al papato e la distribuzione del potere ai vertici della Chiesa. I margini di autonomia e la posizione di preminenza acquisiti dall’I. furono sanciti da un altro papa inquisitore, il francescano Sisto V Peretti (1585-1590), che riorganizzò il sistema di congregazioni cardinalizie attribuendo al Sant’Ufficio la preminenza su tutte le altre (bolla Immensa Aeterni Dei, 1588). Negli ultimi tempi gli studi hanno messo in rilievo anche le valenze economiche del potere detenuto dall’I. al centro e in periferia.
Alla morte di Pio V, a trent’anni dalla creazione dell’I., ogni forma organizzata di dissenso era ormai cancellata nella penisola. L’I. e la rete periferica dei suoi tribunali, tuttavia, non cessarono di operare ma, sulla base della stretta connessione posta tra eresia e morale, estesero il loro raggio d’azione dalla lotta contro le deviazioni dottrinali al vasto universo dei disordini comportamentali diffusi nella società. Le implicazioni ereticali di pratiche magiche e superstiziose, malefici, culti incontrollati e simulata santità, bestemmie, sodomia, bigamia e poligamia giustificarono così l’intervento degli inquisitori nella sfera delle credenze, delle devozioni e dei comportamenti sessuali.
Alcuni di questi reati erano di misto foro, ossia di competenza non solo dei tribunali ecclesiastici ma anche di quelli civili. Occorre sottolineare però che, diversamente dagli inquisitori, i giudici secolari non volevano punire le opinioni e le convinzioni dell’imputato, ma le implicazioni sociali del reato e l’eventuale danno contro terzi. Nel caso della stregoneria, ad es., laddove i tribunali della fede erano principalmente interessati a verificare il patto con il diavolo e l’apostasia che ne costituivano le premesse, i giudici laici si preoccupavano piuttosto di accertare le conseguenze del maleficio e i danni che ne derivavano. Le sovrapposizioni di competenze si risolsero in modo differenziato a seconda del delitto, della sua rilevanza sociale, dei contesti istituzionali e dei rapporti di forza vigenti tra autorità secolari ed ecclesiastiche.
Alle ragioni di scontro con i poteri civili occorre affiancare i contrasti interni alla sfera ecclesiastica tra inquisitori e vescovi. L’autorità dei vescovi nel governo delle superstizioni e della morale dei fedeli era stata affermata dal concilio, per essere poi contrastata e progressivamente erosa dagli inquisitori. Inoltre, a livello locale autorità diocesane e inquisitori si scontravano su chi dovesse pubblicare gli editti, sull’ordine delle precedenze nelle cerimonie pubbliche, sul luogo in cui celebrare i processi cui avrebbero dovuto partecipare anche il vescovo o un suo rappresentante, sulla custodia dei processi. In generale, nel corso del Seicento, con il crescere dell’assenteismo dei vescovi aumentò la subordinazione del vicario episcopale all’inquisitore, rafforzata dalle istruzioni provenienti dal dicastero centrale.
A partire dal tardo Cinquecento, parallelamente a quello delle superstizioni, le autorità ecclesiastiche affrontarono il problema della santità e delle devozioni a essa connesse. Anche questo campo di cruciale importanza per la definizione del rapporto tra la società e il sacro fu sottoposto a un crescente controllo clericale e all’accentramento a Roma della selezione degli aspiranti santi a scapito delle proposte provenienti dai fedeli e dalle chiese locali. Entro tale contesto, l’I. conservò un ruolo decisivo nella definizione delle vie legali alla santità e nell’approvazione dei nuovi santi anche dopo l’istituzione della congregazione cardinalizia dei Riti (1588), mentre a partire dagli anni trenta del Seicento fu sancita la sua competenza esclusiva nella repressione dei fenomeni di santità «simulata» o «affettata».
Nel tardo Cinquecento, al processo ordinario si affiancò e consolidò l’istituto giuridico della spontanea comparizione, ossia dell’autodenuncia, che comportava una serie di vantaggi per gli sponte comparentes (rito sommario, abiura privata, punizioni lievi, soluzione locale del caso) qualora fossero sinceramente pentiti dei loro reati e denunciassero eventuali complici. L’accresciuto controllo sulla società impose la necessità della vigilanza sui mediatori ecclesiastici. Di qui la definizione del reato di sollicitatio ad turpia, l’adescamento sessuale delle penitenti da parte del sacerdote durante la confessione sacramentale, incluso tra i crimini di pertinenza inquisitoriale da un decreto di Paolo IV del 1559 per la Spagna e solo nel 1622 affidato al Sant’Ufficio, con pene più severe e procedure speciali, in tutto il mondo cattolico (Gregorio XV, bolla Universi dominici gregis). La preoccupazione per gli abusi che potevano associarsi all’intenso sviluppo della pratica femminile della confessione si accompagnava anche a esigenze di tutela della reputazione e dell’onore del clero, cosicché molte delle scabrose vicende si arenarono o si scontrarono con mille difficoltà.
La preminenza conseguita dal Sant’Ufficio ai vertici curiali, l’ampiezza delle sue prerogative e la specificità delle sue procedure permisero ai cardinali inquisitori di mantenere – non senza contrasti e frizioni – un ruolo di rilievo anche entro la sfera di competenza propria di altri dicasteri romani istituiti successivamente, quali le congregazioni dell’Indice (1572), dei Riti (1588), e persino la potente congregazione De Propaganda Fide creata nel 1622 per il coordinamento e il governo dell’area vastissima costituita dalle terre di missione.
Per il periodo che va dalla seconda metà del Seicento a tutto il Settecento le ricerche sono ancora molte da fare soprattutto per quanto riguarda l’evoluzione e le dimensioni quantitative dell’attività giudiziaria dei tribunali periferici, che sembra in calo, ma non dovunque, mentre le sentenze capitali appaiono senz’altro in netta diminuzione. La formazione di una rete di Vicarie anche nei centri più piccoli dell’Italia centro-settentrionale, portò l’I. sin «ne’ boschi», trasformandola in un’istituzione sempre più capillare e pervasiva, che si occupava di «cose piccole», specie di pratiche magiche e bestemmie, e comminava per lo più penitenze salutari. Nello stesso tempo, però, il rogo di Giordano Bruno, le vicende di Tommaso Campanella e il caso Galilei mostrano che i cardinali inquisitori fronteggiarono con rigida determinazione le grandi sfide all’ortodossia via via poste dalla libertas philosophandi e dalla scienza moderna, nonché dal quietismo e dal giansenismo con le loro importanti diramazioni e aderenze all’interno della Chiesa.
Nel corso del Settecento la politica repressiva dell’I. ostacolò anche i tentativi di quanti, appartenenti ai ranghi ecclesiastici come l’abate Celestino Galiani, tentarono di instaurare un rapporto più aperto tra la Chiesa romana e la cultura contemporanea. Nel 1748 Pietro Giannone moriva nelle carceri dell’I. torinese; frattanto la lotta contro la cultura illuministica, la condanna della massoneria e l’accresciuto rigore contro gli ebrei aumentavano la distanza tra l’I. e una società che cambiava.
La critica dei Lumi contro l’intolleranza s’intrecciò anche in Italia con le sempre più decise politiche giurisdizionalistiche dei sovrani volte a ridurre le competenze e l’incidenza dei tribunali inquisitoriali nei loro domini, a cancellare i privilegi di cui godevano i patentati, ad avocare all’autorità statale gli interventi in materia di censura. Queste misure furono spesso premessa delle successive abolizioni dei tribunali inquisitoriali in diverse città e stati regionali italiani che avvennero secondo processi differenziati e talvolta graduali a Napoli (1746), Parma (1768), Milano (1774), Firenze (1782), Modena (1785), sino alle sistematiche soppressioni avvenute a seguito dell’invasione francese nel triennio giacobino e sotto i governi napoleonici. In questo periodo ebbe luogo la più grave dispersione nella storia dell’archivio centrale dell’I. che era stato trasferito a Parigi nel 1809: dopo la caduta dell’imperatore, gli inviati della Santa sede incaricati di riportare le carte a Roma ricevettero infatti l’ordine di rendere illeggibile e rivendere a salumieri e cartai gran parte della documentazione, tra cui i fascicoli processuali.
Con la Restaurazione la congregazione dell’I. e i tribunali periferici dello stato pontificio ripresero a funzionare sino all’unificazione della penisola italiana sotto i Savoia e alla caduta di Roma nel 1870. Una volta privata della rete dei tribunali periferici, l’I. romana (l’unica sopravvissuta delle tre inquisizioni dell’età moderna) mantenne il ruolo di tribunale supremo dell’ortodossia continuando a orientare con i suoi interventi la vita dei fedeli italiani e del clero, come dimostrano il decreto con cui nel 1886 confermava il Non expedit, ossia la disposizione per tramite della quale Pio IX aveva vietato la partecipazione dei cattolici italiani alle elezioni politiche, sino alla dura condanna del modernismo agli inizi del Novecento.
Fonti e Bibl. essenziale
A dieci anni dall’apertura dell’archivio della Congregazione per la Dottrina della Fede: storia e archivi dell’Inquisizione, Roma, Accademia dei Lincei, 2011; L’apertura degli archivi del Sant’Uffizio romano, Roma, Accademia Nazionale dei Lincei, 1998; E. Brambilla, La giustizia intollerante. Inquisizione e tribunali confessionali in Europa (secoli IV-XVIII), Roma, Carocci, 2006; A. Del Col, L’inquisizione in Italia dal XII al XXI secolo, Milano, Mondadori, 2006; Dizionario storico dell’Inquisizione, 4 voll., diretto da A. Prosperi, con la collaborazione di V. Lavenia e J. Tedeschi, Pisa, Edizioni della Normale, 2010; M. Firpo, La presa di potere dell’Inquisizione romana. 1550-1553, Roma-Bari, Laterza, 2014; L’inquisizione, a cura di A. Borromeo, Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana, 2003; L’Inquisizione e gli storici. Un cantiere aperto, Roma, Accademia Nazionale dei Lincei, 2000; Le Inquisizioni cristiane e gli ebrei, Roma, Accademia Nazionale dei Lincei, 2003; G. Maifreda, I denari dell’inquisitore. Affari e giustizia di fede nell’Italia moderna, Torino, Einaudi, 2014; Th. F. Mayer, The Roman Inquisition. A Papal Bureaucracy and Its Law in the Age of Galileo, Philadelphia, Pennsylvania U. P., 2013; A. Prosperi, Tribunali della coscienza. Inquisitori, confessori, missionari, Torino, Einaudi, 1996; G. Romeo, L’inquisizione nell’Italia moderna, Roma-Bari, Laterza, 2002; Id., L’Inquisizione romana e l’Italia nella più recente storiografia, CCXXV, fasc. 2, 2014, 188-206; J. Tedeschi, Il giudice e l’eretico. Studi sull’Inquisizione romana, Milano, Vita e Pensiero, 1997.
Premesse
Dovendo trattare dei rapporti tra la Chiesa Cattolica e l’Islam in Italia sembra anzitutto necessario precisare i termini di questo impegno. Quanto alla Chiesa, si è scelto di considerarla nel suo senso più ampio, proiettando senza esitazione sull’intero percorso storico in esame la consapevolezza contemporanea che non restringe la qualifica di “Chiesa” soltanto al Magistero gerarchico, ma piuttosto la estende ad ogni battezzato. Non intendiamo quindi limitarci ad esaminare i documenti ufficiali e le scelte dei Papi e dei Cardinali più influenti, ma faremo il possibile per dare conto anche delle scelte di singoli pastori e di laici. Dovendo giungere ad una sintesi, tenteremo di selezionare tra queste esperienze quelle che ci sembreranno più rappresentative dei diversi approcci cattolici al confronto con l’Islam in Italia. Similmente estenderemo il termine Islam fino a fargli comprendere tutte le manifestazioni religiose e culturali legate alla fede musulmana, sia riferendoci agli atteggiamenti delle autorità politiche che si sono poste a guida delle diverse anime del mondo islamico, sia riferendo di eventi locali rimasti ai margini della “grande storia”. Infine daremo al termine “Italia” una connotazione prettamente geografica, intendendo quindi tutto ciò che accade dalle Alpi alla Sicilia e accostandoci alle vite di tutti quegli uomini che in questa ripartizione fisica sono nati o hanno operato avendo a che fare col nostro tema. Gli estremi cronologici di questa sezione, infine, sono dati dal primo contatto diretto fra abitanti della Sicilia e fedeli musulmani in territorio isolano da un lato, e dalla proclamazione ufficiale del Regno d’Italia dall’altro. Questa seconda data è considerata significativa, poiché da quel momento esistono confini politici ufficiali che contribuiscono a definire una chiesa “nazionale” in senso proprio.
Preludio e primo contatto
Il primo incontro fra Islam ed Italia fu, in effetti, uno scontro nel senso più proprio del termine. Protesa nel Mediterraneo, a pochi passi dalla costa tunisina, l’Italia è per sua natura un ponte naturale nonché il confine tra le due metà del mare, strategicamente necessaria per chiunque voglia dominarlo. In più Roma, al centro della Penisola, fin dalla sua nascita ha costituito una calamita potente per le ambizioni degli uomini, siano esse religiose, politiche od economiche, ed i Califfi non fecero eccezione. Dal 652 con Mu’awiya, futuro fondatore del califfato omayyade, al 1595 con Sinan Pasha, Gran Vizir ottomano e genovese convertito (Scipione Cicala alla nascita), molte volte ed in molti modi uomini tra loro diversissimi ed accomunati solo dalla generica dicitura di “musulmano” assalirono l’Italia per mare e per terra, avendo come meta ideale la Città Eterna. Dopo di loro i corsari barbareschi continuarono ad insidiare le navi e le coste dell’Italia meridionale fino agli inizi del XIX secolo. Ciò non poteva restare senza conseguenze per l’idea di Islam che la Chiesa Cattolica andava maturando, e viceversa. Che il primo terreno di confronto tra il Cristianesimo italiano e l’Islam dovesse essere il campo di battaglia era piuttosto prevedibile. Sul piano politico parte della Penisola apparteneva all’Impero Bizantino, in guerra con i Califfi dal 634, anno dell’invasione della Siria da parte di Abu Bakr, e dunque era da allora formalmente coinvolta nel susseguirsi di eventi bellici fra le due parti. Gli Arabi, poi, non ignoravano il valore di Roma per quella Cristianità che stavano rapidamente imparando a considerare come il loro principale avversario politico (ed in seguito dottrinale), anche se la conoscevano inizialmente soltanto come un nome e non di rado la confondevano con Costantinopoli. Non va dimenticato infatti come il termine “bizantino” sia stato coniato da Du Cange nel ‘600, mentre ai nemici arabi gli uomini di Bisanzio si presentavano come “romani”. Fin dall’inizio della storiografia e geografia islamica Roma ha un posto d’onore, al punto che su di essa vengono tessute descrizioni spesso fantasiose ricalcate sulla “seconda Roma” constantinopolitana, per gli Arabi assai più familiare. Infine il richiamo economico dell’Italia era molto forte nel Mediterraneo, e furono proprio le scorrerie finalizzate al saccheggio il primo approccio islamico alle sue coste. In tutto questo le tradizioni mitiche ed i racconti di guerra e di viaggio sulla città di Roma consegnarono al mondo musulmano stereotipi e pregiudizi sul Cristianesimo ed il Papato che durarono per secoli e lasciano tracce osservabili anche ai nostri giorni. Rispetto al nostro tema è anche necessario considerare anche la pre-comprensione dell’Islam da cui la Chiesa mosse i primi passi di questo difficile confronto. Dopo le frequenti e spesso tragiche esperienze di conflitto con numerose eresie, sulla scorta delle prime osservazioni di Giovanni Damasceno i pensatori cristiani identificano l’Islam come l’ennesima forma deviante di Cristianesimo. Non è possibile comprendere la natura complessa ed ambivalente dei legami politici ed economici formati nel Medioevo tra potenze cristiane e musulmane senza tenere conto di questo: sebbene non mancassero i distinguo teologici, fu a lungo opinione comune che gli islamici non fossero altro che cristiani eretici, seguaci di un eresiarca arabo del quale si ricamavano volentieri leggendari trascorsi nella gerarchia pontificia, o che poteva essere addirittura rappresentato come l’anti-cristo biblico.
Espansione musulmana in Italia meridionale, la Guerra Santa dei Cristiani e la controversia ereticale
Dal punto di vista islamico medioevale l’orizzonte italiano è prevalentemente occupato dalla Sicilia, parte del dar-al-Islam per circa due secoli. Come già detto fu Mu’awiya ibn Abi Sufyan, nel 652, ad armare la prima flotta musulmana per la pirateria ed il saccheggio della Sicilia bizantina, mentre il porto e l’arsenale marittimo di Tunisi furono approntati nel 698 principalmente per sostenere questa politica di aggressione. L’idea di un’occupazione stabile si sviluppa progressivamente e per tentativi, in particolare quello del 739/740 da parte del governatore d’Ifrikiya ‘Ubayd Allah b. Habhab, che viene però respinto dopo l’infruttuoso assedio di Siracusa. La doppia linea della pirateria e degli intensi contatti commerciali salda un rapporto altalenante di tensione e cordialità fra i Bizantini e gli emiri Aghlabidi d’Ifrikiya, fino alla rivolta del tumarca siracusano Eufemio contro l’Imperatore di Costantinopoli nell’827. Il generale ribelle chiede l’intervento islamico, e nel giugno di quell’anno un esercito aghlabita di 10.000 uomini, al comando del sessantottenne Abu ‘Abd Allah Asad ibn al Furat sbarca a Mazara del Vallo. Alcune note biografiche su questo generale possono essere di aiuto per comprendere lo spirito dell’impresa, vista anzitutto come una conquista intellettuale ed un’acquisizione culturale, che condizionò per certi versi l’approccio arabo all’isola anche sotto i successivi governanti. Egli era un famoso esperto di legge islamica, intellettuale molto rispettato, e pur facendo formalmente parte dei ranghi militari non aveva mai partecipato ad alcuna attività bellica. Egli stesso giustificò questa singolare situazione affermando che solo con la conoscenza maturata nella vita era possibile sperare nella vittoria sul campo. I fatti gli danno ragione, poiché nel giro di un mese le armate bizantine vengono sconfitte ed è posto l’assedio a Siracusa per circa un anno. Non la sconfitta vi mette fine ma una pestilenza scoppiata tra gli assedianti ed i musulmani si ritirano verso Mazara, riuscendo però a prendere Palermo nell’831. Solo nell’842 le posizioni arabe possono dirsi sicure e riprende l’offensiva con la conquista di Messina (843) e l’avanzata fino a Ragusa (848). Da notare come il successo contro i Bizantini sia dovuto anche all’alleanza con Napoli, che nell’835 si accorda con gli invasori e ne assoldai soldati come mercenari contro il principe longobardo di Benevento, Sicardo (che da parte sua fa lo stesso con altre fazioni musulmane), e nell’842 appoggia il tentativo islamico di conquistare Messina. Ormai proiettati all’espansione, nell’847 con il capo berbero Khalfun gli arabi assalgono e conquistano la città pugliese di Bari, stabilendovi il primo ed unico emirato della Penisola. Ancora una volta emergono alleanze interreligiose, con il nuovo principe di Benevento, Radelchi, che incoraggia l’iniziativa a spese dei suoi avversari salernitani. Gli emiri di Bari arrivano a sottomettere Oria, Matera e Taranto, organizzando scorrerie in buona parte della costa Adriatica, ma il loro regno è destinato avita breve: dopo soli trent’anni l’Imperatore carolingio Ludovico II, spronato anche dalle autorità ecclesiastiche, conduce una serrata campagna con la collaborazione dei Bizantini e dei feudatari dell’Italia meridionale, ed espugna la città nel Febbraio 871. Ma la linea di confine tra Islam e Cristianità non fu mai un tratto continuo. Enclavi musulmane, colonie, emirati di breve durata ed effimere moschee nascono e muoiono nel giro di pochi anni – o talvolta di qualche mese – lungo le coste italiane e della Francia meridionale. In questo periodo, nell’846, un esercito islamico sbarca nel Lazio e saccheggiala periferia di Roma e le basiliche extra-murarie di San Pietro e San Paolo, spingendo Papa Leone IV ad edificare le mura leonine a difesa del colle Vaticano tra l’848 e l’852. Essendo evidentemente insufficiente provvedere soltanto alla difesa, Leone avvia contatti diplomatici con le principali città costiere dell’Italia meridionale e sollecita l’allestimento di una flotta da opporre agli invasori. La sua strategia viene messa alla prova nell’849, quando al largo di Ostia, per la prima volta, gli Arabi vengono sconfitti dagli alleati italici; «per la prima volta un esercito composto da italici aveva vinto una grande battaglia e l’aveva fatto sotto la guida del Pontefice in una guerra a difesa del mondo occidentale. Da quel momento il vescovo di Roma si assunse il compito di condurre una battaglia diplomatica a tutto campo, sia per tessere alleanze antimusulmane sia per annullare ogni impium foedus esistente tra cristiani e infedeli». Ancora, nell’875, alla morte dell’Imperatore Ludovico II il giovane, è il Papa Giovanni VIII a farsi promotore e talvolta organizzatore della lotta contro i musulmani in Italia, d’intesa con il nuovo sovrano Carlo il Calvo. Del resto la situazione risultava preoccupante: nel Garigliano viene infatti fondata una colonia musulmana che resiste dall’881 al 915 e fa da base alle scorrerie in Lazio ed Umbria, sostenuta o almeno tollerata dai grandi feudatari del territorio in lotta col Papato per la propria indipendenza. Solo un’inedita e trasversale alleanza tra il Papa Giovanni X, l’Imperatrice bizantina Zoe, i principi del Meridione ed i Longobardi permetterà infine di cacciare gli invasori. Che la propensione italiana dell’Umma sia tutt’altro che spenta lo prova però il saccheggio di Genova nel 935; intanto la base arabo-andalusa di Fraxinetum in Provenza (nei pressi dell’odierna Saint-Tropez), dall’889 al 975 è all’origine di continue incursioni attraverso le Alpi nelle valli più occidentali del Piemonte (in provincia di Saluzzo si festeggia ancora ogni anno il Bahìo, o Baìo, “carnevale alpino” in cui gli uomini, travestiti, rievocano la definitiva sconfitta degli arabi); da ultimo la Sardegna viene in parte conquistata – ma abbandonata meno di un anno dopo – dal convertito spagnolo Mugiahid nel 1015.
Sintesi: Si è visto sin qui come la Cristianità, a cominciare dal Papato, tra il IX e l’XI secolo abbia avuto molti motivi ed occasioni per sviluppare una precisa identificazione dell’Islam come nemico temibile ed irriducibile, un problema anzitutto politico e militare da affrontare sul campo di battaglia, mettendo in gioco la sopravvivenza stessa della Chiesa e del mondo europeo. Dal punto di vista teologico per i Cristiani è sufficiente considerare i musulmani degli infedeli, uomini che hanno preferito seguire l’eresiarca Maometto piuttosto che il Vangelo. Gli scritti del Damasceno fanno scuola e, per il momento, il confronto teologico resta inquadrato tra le controversie ereticali.
Ascesa e declino dei musulmani in Sicilia, la reconquista normanna
Le battaglie di terraferma, condotte da capi locali e bande di briganti più o meno autonome, non hanno significative influenze sulla conquista araba della Sicilia orientale, che dopo i precedenti successi prosegue con la presa di Noto (864) e di altre località, oltre ad incursioni contro i principali centri della costa est. Infine, nell’878, dopo nove mesi di assedio cade Siracusa, e Taormina, l’ultima roccaforte bizantina, si arrende nell’agosto del 902. Al termine di 75 anni di scontri l’isola è pienamente inserita nel dar-al-Islam. Un dominio non esente da tensioni, come la rivolta di Taormina nel 961, oltre a scontri interni ai conquistatori per stabilire i limiti dell’autonomia dei governanti locali rispetto ai Fatimidi dell’Africa settentrionale, ma che nel complesso determina un’evidente fioritura economica e culturale. Soprattutto la prima metà del X secolo può essere considerata il punto culminante dell’incontro siciliano fra cultura araba e greca, fra Islam e Cristianesimo. Nell’insieme la popolazione rimane infatti cristiana, ottenendo il riconoscimento legale della condizione di dhimmicon l’obbligo della tassa per la libertà di culto ed alcune limitazioni in campo matrimoniale. Ai Cristiani non è permessa la pratica della propria fede negli spazi pubblici, tuttavia le funzioni religiose all’interno delle chiese restano regolari. I Cristiani devono portare sugli abiti un contrassegno, visibile anche sulle loro case, e sono interdetti dall’assumere quegli uffici pubblici che li metterebbero in condizione di superiorità rispetto al cittadino musulmano. È permesso il matrimonio tra una donna cristiana ed un musulmano ma non l’opposto. Ciò è comunque sufficiente a consentire una certa ibridazione tra la popolazione araba e quella italica. Oltre a queste altre limitazioni vengono di volta in volta aggiunte o rimosse dai governanti sia centrali che locali. Bisogna però notare che non sempre questa legislazione viene applicata, ed anzi la sua perfetta osservanza può considerarsi l’eccezione piuttosto che la regola, salvo la questione matrimoniale che risulta essere stata sempre strettamente normata. Il 900 arabo in Sicilia vede lo sviluppo di Palermo, che superando i 300.000 abitanti diviene per qualche tempo la città più popolosa della penisola italiana e tra le maggiori d’Europa, manifesto internazionale del successo politico e sociale dei conquistatori, la sola città a ricevere il nome arabo di al-Madina, omaggio alla Medina del Profeta. Le sorti politiche dell’isola sono quindi legate al regno aghlabita d’Ifriqiya, la cui conquista da parte dei Fatimidi nel 909 segna il passaggio del potere in nuove mani. Dal Cairo viene mandato nel 948 il governatore yemenita Hasan b. ‘Ali al-Kalbi, che sebbene formalmente dipendente dai Fatimidi ottiene da questi ultimi una sempre maggiore autonomia, politica condivisa dai suoi successori. Se questo consente un’elaborazione culturale e religiosa autonoma, caratterizzata anche da una certa apertura verso i sudditi Cristiani, segna però l’isolamento dell’emirato, precludendo interventi a suo sostegno dal resto del mondo islamico mediterraneo e favorendone infine la caduta nel 1053 per ribellioni interne, sia dei Cristiani che dei Musulmani berberi ostili ai reggenti di origine arabica. Ad essa seguono diversi anni di anarchia. La frantumazione del dominio islamico in piccoli emirati e le continue guerre tra questi spingono il conte normanno Ruggero d’Hauteville, vassallo del fratello Roberto, duca di Puglia e Calabria, a sbarcare una prima volta a Messina nel Febbraio 1061, rispondendo alla richiesta di aiuto dell’emiro di Siracusa Ibn al-Thumna suo alleato, ed una seconda volta nel 1071 puntando all’occupazione stabile di Palermo, conquistata l’anno seguente. Tra alterne vicende l’avanzata normanna incontra il suo unico oppositore credibile in Ibn ‘Abbad, emiro di Siracusa dal 1072 e noto ai Cristiani come Benavert, che cade in mare nel 1086 mentre tenta di rompere l’assedio della sua città e viene trascinato a fondo dalla pesante armatura. Venuto meno l’ultimo ostacolo, i Normanni completano la conquista prendendo Noto nel 1091 ed imponendo ai Saraceni di Malta un giuramento di fedeltà. Ruggero I di Sicilia regna fino al 1101, con una politica fortemente legata al Papato e preoccupata della tutela della religione cattolica. Nominato Gran Conte di Sicilia e Legato Apostolico da Papa Urbano II, con facoltà di trasmettere i titoli agli eredi, Ruggero I governa direttamente le diocesi latine ed è il primo sovrano a cui la Chiesa di Roma conceda giurisdizione sulle nomine episcopali. Inserita così nell’organico del governo siciliano, la Chiesa cattolica viene sostenuta e garantita nel suo rapido passaggio da minoranza a maggioranza egemone sul territorio, a scapito delle comunità islamiche e soprattutto delle ancora diffuse diocesi bizantine. Con il successore Ruggero II i Normanni continuano la loro “reconquista” arrivando a dominare le coste africane fra Tunisi e Tripoli fra il 1135 e il 1153. Un simile successo si spiega nell’ambito della più ampia pressione militare esercitata dalla Cristianità sul mondo islamico a partire dalla Prima Crociata del 1095, e proseguita con alterne vicende fino alla definitiva riconquista musulmana di San Giovanni d’Acri nel 1291. Nonostante il marcato appoggio alla (e dalla) Chiesa di Roma, i governanti normanni operano con grande pragmatismo, cercando l’integrazione della popolazione araba a tutti i livelli della società, anche incorporando reggimenti musulmani nell’esercito (è noto “l’entusiasmo” dei reggimenti saraceni contro le milizie germaniche di Lotario e quelle del Papa, che si scontrarono più volte con Ruggero II nel vano tentativo d’impedirgli l’annessione dei territori normanni in Calabria e Puglia). La riuscita di questo progetto è rilevabile anche dalla scelta di buona parte dei musulmani di non emigrare. La significativa componente araba ed islamica della popolazione siciliana contribuisce, nel corso del XII secolo, a strutturare la singolare cultura arabo-normanna che ancora oggi caratterizza l’isola (e per certi aspetti la Calabria e la Puglia) nella lingua, nei toponimi, nell’architettura, nelle abitudini quotidiane e nella religiosità popolare, oltre ad un’evidente traccia araba nella fisionomia di parte dei suoi abitanti. Nel corso del XII secolo la Sicilia è anche un importante centro di traduzione dall’Arabo al Latino, ma poiché il lavoro dei traduttori si concentra sulle opere scientifiche e filosofiche, specie quelle radicate nella tradizione greca,la cultura islamica viene divulgata in Occidente per lo più sotto questi aspetti, lasciando la sua dimensione religiosa alle fantasiose ipotesi di romanzieri e cantastorie. La società normanna mostra i primi segnali di crisi a partire dal 1161 per scontri dinastici tra i figli di Ruggero II. I musulmani, più deboli ed esposti, sono oggetto di saccheggi e violenze, e maturano così una forte disposizione alla ribellione, più volte tradotta in pratica e sempre soffocata nel sangue. Ciononostante il resoconto del pellegrino musulmano Ibn Gubayr, che mentre torna in Granada dalla Mecca fa naufragio a Messina e visita l’isola tra il Dicembre 1184 e il Gennaio 1185, riferisce di una situazione ancora relativamente pacifica e favorevole ai suoi correligionari sotto l’egida del re Guglielmo il Buono. Durante il suo regno, fra il 1153 e il 1189, essi sono per lo più salariati alle dipendenze dei Cristiani e tenuti a pagare una tassa specifica per la loro condizione (probabilmente viene ribaltata sic et simpliciter la normativa islamica sui dhimmi), ma possono possedere terreni e farsi strada nel commercio e nell’artigianato, hanno moschee e muezzin abilitati all’adhana pubblica e sono liberi di celebrare le proprie feste religiose ed osservare le purità alimentari. La loro presenza alla corte di Guglielmo II è riconosciuta ed apprezzata, i matrimoni misti permessi e non insoliti, ed alcuni costumi arabi vengono imitati anche dai Cristiani (forse l’autore esagera, ma riferisce di donne cristiane che nelle feste amano vestirsi e velarsi come le musulmane); l’Arabo è ancora una lingua praticata largamente da tutte le componenti della popolazione, e lo studio delle scienze e della filosofia islamica fa parte della formazione dei reali e della nobiltà. Unica nota negativa, secondo il nostro pellegrino, il problema della gestione della famiglia. Il ruolo forte del padre secondo la tradizione araba non viene riconosciuto dalla società normanna, e non sono pochi i casi di mogli e figli che chiedono il Battesimo per sfuggire all’autorità paterna, così che i padri musulmani sono “costretti” a più miti consigli ed impossibilitati al pieno esercizio del governo familiare concesso loro dall’Islam.
La fine dei Musulmani d’Italia nella colonia di Lucera
Dopo la morte improvvisa di Guglielmo II nel 1189, a soli 36 anni, l’instabilità politica riemerge con maggior vigore e laddove i musulmani sono maggioranza, o comunque possono contare su una forte presenza, scoppiano frequenti ribellioni verso i feudatari cristiani. In questo periodo diverse chiese, abbazie e cattedrali vengono saccheggiate e più di un vescovo viene fatto prigioniero e rilasciato dietro riscatto, determinando un’insanabile frattura fra il clero locale ed i musulmani. È Federico II di Svevia a riportare l’ordine in Sicilia, assumendo il potere effettivo nel 1208 e ricorrendo anche a mezzi estremi verso i dissidenti. Nel 1225, dopo avere sconfitto i musulmani di Iato ed Entella ribelli dal 1206, egli organizza una progressiva deportazione delle comunità islamiche dalla Sicilia alla Puglia, nella cittadina di Lucera, che nel 1239 viene a contare appena dodici abitanti cristiani a fronte di diverse migliaia di musulmani. Lì i fedeli dell’Islam hanno la possibilità di vivere in pace contribuendo al successo economico e culturale del territorio, spesso paragonato dai cronisti alla Cordova degli Omayyadi. Grati, i musulmani prestano servizio nell’esercito imperiale, anche come guardie personali dell’Imperatore a cui essi si riferiscono in arabo come “Sultano”, e restano fedeli alla casata sveva di Federico anche dopo la sua morte. Il tragico epilogo di Lucera si deve anche al diretto intervento del Papato. Nell’agosto del 1269 Clemente IV esorta Carlo I d’Angiò, succeduto agli Svevi nel controllo del Regno di Napoli, ad attaccare la città per liberarla dalla presenza musulmana, ma il sovrano non riesce a raggiungere una vittoria definitiva. Quando poi nel Luglio del 1300 i musulmani di Lucera si ribellano al successore Carlo II, pare per ragioni legate alla tassazione ritenuta iniqua, questi indice la cosiddetta “Crociata angioina”, che grazie alla partecipazione massiccia dei feudatari si conclude con la distruzione di Lucera e lo sterminio della popolazione araba. I superstiti fuggono nelle campagne, chi resta in città deve convertirsi. Lucera viene ribattezzata “Città di Santa Maria”, tutti gli edifici “islamici” vengono abbattuti, gli oggetti arabeggianti requisiti e fusi o distrutti e molti nuovi abitanti cristiani vengono fatti arrivare dalle altre regioni del regno. I musulmani latitanti restano comunque causa di continui attriti, rendendo necessario mantenere una grossa guarnigione, e ben vent’anni più tardi Roberto d’Angiò, già vicario pontificio per tutelare gli interessi papali in Italia, concorda con Papa Giovanni XXII l’invio in città del vescovo croato Agostino Kazotic (italianizzato in “Casotti”), domenicano, già pastore di Zagabria ed in esilio ad Avignone per tensioni con il suo sovrano. Considerando che il Papa aveva già inviato nel 1319 il Cardinale Bertrando del Poggetto a ripristinare l’autorità pontificia nell’Italia centrale, la preoccupazione di normalizzare l’appartenenza religiosa di Lucera sembra inserirsi bene nel quadro politico del tempo. Il nuovo vescovo riserverà però delle sorprese. Noto per la grande carità pastorale, il Casotti si dedica in particolare all’edificazione di strutture assistenziali ed all’evangelizzazione dei cittadini islamici, rifiutando l’uso della forza che pure gli era stata raccomandata dal re e dal Pontefice. Arrivato a Lucera nel 1322, in poco meno di un anno si guadagna la fama di uomo di dialogo e di pace, infaticabile tanto nella predicazione che nella visita pastorale degli abitanti, particolarmente attento alla ricerca dei musulmani ed alla frequentazione assidua dei loro luoghi di ritrovo. Questa insistenza e la ferma decisione di non avvalersi della guardia angioina lo espone ad un attentato da parte di un musulmano armato di ascia. Ferito ma vivo, egli continua la sua opera evangelizzatrice fino alla morte, probabilmente per infezione, il 3 agosto 1323. La sua esperienza, breve ma incisiva, resta purtroppo un caso isolato che non fa scuola nei rapporti tra la Chiesa e l’Islam. Rimane la speranza che possa oggi venire riscoperto come antesignano di un approccio disarmato, caritatevole e dialogante all’insegna della buona convivenza. Questo grande agente di conversione verso i musulmani fu beatificato nel 1702, pochi anni dopo il secondo assedio di Vienna e la vittoria cristiana della pace di Carlowitz (1699), che tra l’altro permise a Venezia di prendere agli Ottomani la Dalmazia da cui Kazotic era nativo e dove era oggetto di una discreta venerazione popolare.
Sintesi: Tentando una sintesi, è possibile notare come la caduta di un potere politico e militare islamico in Italia abbia di fatto condannato i musulmani rimasti sul territorio. La loro presenza diventa inevitabilmente un bene di scambio nel confronto politico tra il Papa, l’Imperatore e le casate sveva ed angioina. Quanti, come Federico II, riescono ad imporre la propria volontà sui Pontefici utilizzano i Musulmani come minaccia e deterrente; altri, come gli Angioini, intendono guadagnarsi il favore papale indossano volentieri l’egida dei crociati. Se però l’atteggiamento delle autorità tanto laiche quanto ecclesiastiche è nell’insieme coerentemente improntato alla lotta armata per sradicare l’Islam dall’Italia (e l’eccezione del Casotti non fa che ribadirlo), per contro la popolazione cristiana mostra atteggiamenti diversi. In Sicilia, almeno finché resistette un governo saldo capace di far valere le proprie leggi, Cristiani e Musulmani convivono senza attriti ed anzi si contaminano a vicenda nelle abitudini quotidiane, nella lingua, nella devozione religiosa. Persino nella situazione di cattività della colonia di Lucera i Musulmani trovano una collocazione pacifica nel territorio, intessendo lucrosi commerci con mercanti cristiani e diffondendo le proprie competenze artistiche e metallurgiche in un territorio che ancora oggi è in parte legato a questo comparto di artigianato. Ogni traccia di questa presenza viene però cancellata, gli stessi edifici musulmani non sono riutilizzati come accadde in altri luoghi ma abbattuti e del tutto eliminati, come anche gli oggetti di fattura islamica. Attualmente solo una pisside nel museo diocesano di Lucera testimonia dell’incontro fra culture e religioni che un tempo avvenne in quei luoghi.
La percezione popolare dell’Islam in Italia nel tardo Medioevo.
Poiché se ne è fatto cenno, è doveroso approfondire brevemente e sintetizzare la conoscenza che la cultura popolare italiana poteva avere dell’Islam fra il XII e il XIV secolo. Essa, maturata sullo sfondo degli scontri militari e delle tensioni politiche presentati finora, ha segnato profondamente anche i secoli successivi, ed a tutt’oggi se ne possono rintracciare alcuni elementi sopravvissuti all’approccio scientifico del 1800. Almeno a partire dalla prima metà dell’XI secolo è possibile individuare nella letteratura francese (Guiberto di Nogent e Galterius di Compiegne, ad esempio) dei testi che definiscono e diffondono un racconto leggendario della vita di Muhammad che circolò rapidamente. In Italia una recezione esemplare di queste idee si può ritrovare nel “Tesoro” di Brunetto Latini, maestro di Dante, a cavallo fra il XIII e il XIV secolo. Il Profeta dell’Islam viene descritto in questi racconti come un monaco africano, talvolta addirittura un cardinale, abile predicatore e versato nelle scienze, il quale ambiva al Papato al tempo dell’Imperatore Teodosio. Vistasi negata l’elezione, avrebbe comunque tentato di costituire un proprio dominio spirituale e temporale in Africa, dando luogo all’ennesima eresia cristiana. Cacciato dall’Impero, avrebbe diffuso le sue dottrine fra gli Arabi, generando così l’Islam. Definito con tratti come “l’uomo più malvagio mai vissuto”, del quale “si può dire ogni male senza timore di sbagliare”, la comprensione di Muhammad e quindi dell’Islam risulta chiaramente consona al clima di tensione bellica del tempo, alla minaccia incombente della Spagna musulmana sulla Francia, ai fantasiosi racconti di veri o presunti pellegrini e viaggiatori nelle terre dominate dai musulmani. Si struttura una vera e propria teologia popolare dell’Islam, visto come eresia ispirata dal Diavolo appoggiandosi ai peggiori istinti dell’animo umano; di qui alla Guerra Santa il tragitto è breve, e non mancheranno Papi e Re desiderosi di percorrerlo a grandi falcate. Va anche tenuta presente, tra il 1095 e il 1291, l’esperienza delle Crociate. Essa spinge inevitabilmente le due parti in campo a strutturare un opportuno linguaggio di propaganda per consolidare le proprie posizioni, sia in battaglia che nelle retrovie. È sorprendente, o forse al contrario è banalmente ovvio, constatare come il linguaggio cristiano e quello musulmano finiscano col convergere tanto nel definire le proprie motivazioni a favore della “guerra santa”, quanto nel dipingere i tratti del proprio nemico come nemico del proprio Dio. In circa due secoli, ma soprattutto fino al 1202 e alla famigerata IV Crociata dirottata su Bisanzio, viene definita nell’immaginario collettivo la certezza di un’inevitabile ed irriducibile opposizione tra Cristianità ed Umma, si salda il rapporto tra volontà di Dio e guerra all’infedele, emergono giustificazioni teologiche, filosofiche, politiche ed economiche per motivare la necessità del conflitto. Con tutto questo è doveroso dare conto anche di vicende alternative, come gli scambi di doni tra Salah al-Din (Saladino) e Riccardo I Cuor di Leone in occasione dei reciproci periodi di malattia, o la sorpresa del Sultano al-Malik al-Kamil nell’incontrare l’Imperatore Federico II che gli si rivolgeva in perfetto arabo, eventi che testimoniano il costruirsi di relazioni di mutuo rispetto anche nell’orizzonte di un’irriducibile opposizione bellica. Trova posto qui la singolare vicenda di san Francesco d’Assisi (1182-1226), che nel 1219 incontra proprio al-Malik a Damietta. L’episodio storico è stato sin dall’inizio oggetto di una forte polarizzazione interpretativa, così da rendere ormai impossibile la sua esatta ricostruzione. Negli scritti coevi e posteriori questo incontro viene utilizzato sia per sostenere la legittimità delle Crociate, a cui dunque Francesco si sarebbe associato, sia al contrario per condannarle e proporre il modello alternativo della disputa teologica e dell’annuncio del Vangelo con la predicazione e il martirio. Sarà questa seconda lettura a prevalere, infine, col mutare dell’orizzonte mediterraneo e dei rapporti politici al suo interno. Francesco, in ogni caso, ha certamente questa esperienza ben presente quando nel 1221 stende il capitolo 16 della sua regola non bollata, che ai versetti 5-7 delinea con sintetica chiarezza due modalità con cui i frati possono vivere in un contesto musulmano: «I frati poi che vanno fra gli infedeli, possono comportarsi spiritualmente in mezzo a loro in due modi. Un modo è che non facciano liti o dispute, ma siano soggetti ad ogni creatura umana per amore di Dio (1Pt 2,13) e confessino di essere cristiani. L’altro modo è che, quando vedranno che piace al Signore, annunzino la parola di Dio perché essi credano in Dio onnipotente Padre e Figlio e Spirito Santo, Creatore di tutte le cose, e nel Figlio Redentore e Salvatore, e siano battezzati, e si facciano cristiani, poiché, se uno non sarà rinato per acqua e Spirito Santo non può entrare nel regno di Dio (Gv 3,5)». Tenendo presente il contesto della Crociata di Innocenzo III e la teologia dei Sacramenti e della Salvezza in vigore al tempo, è possibile apprezzare il peso di ognuna delle parole scelte dal santo di Assisi, e non sembra improprio rintracciare in queste sue posizioni una delle radici di quell’intento missionario pacifico, dialogante e attento alla cura dell’uomo che in diverse occasioni la Chiesa Cattolica ha saputo esprimere.
La scoperta delle fonti arabe e l’opzione del dibattito filosofico
La complessità di queste relazioni, che superano la dimensione puramente oppositiva maturata fra l’VII e il XII secolo, si radica in un più ampio mutamento di prospettiva della Cristianità tardo-medioevale rispetto all’Islam che si farà lentamente strada ed emergerà soprattutto a partire dal 1300, ma il cui inizio effettivo va forse individuato nel viaggio in Spagna di Pietro il Venerabile, abate di Cluny, nel 1141. Egli sembra essere il primo sinceramente preoccupato di risalire alle fonti arabe originali, specie per una corretta traduzione del testo coranico, così da maturare una reale conoscenza della religione islamica e poter offrire ai musulmani una presentazione del Cristianesimo capace di persuaderli. Dopo l’opzione militare, si sviluppa così nella Cristianità una corrente apologetica e controversistica, attenta alla migliore conoscenza possibile della religione e della cultura islamica, tutta protesa alla volontà di argomentare in modo convincente la superiorità del Cristianesimo per suscitare la conversione. In ambito italiano si registra così la disposizione di Papa Clemente V nel 1311, che istituisce la cattedra di lingue orientali (arabo, greco, ebraico e caldaico) in alcune università europee, tra le quali Roma e Bologna. Frattanto nella prima metà del 1200 in Inghilterra, ragionando sui possibili approcci della predicazione agli infedeli,Ruggero Bacone teorizza la necessità di abbandonare la Bibbia per la Filosofia, unico terreno valido per un confronto con i musulmani ed efficace preparatio evangelica, poiché essi mostrano competenza ed interesse nella materia. Ma Bacone mostra di ridurre l’Islam alle posizioni di filosofi come al-Farabi, Avicenna ed Averroè, che in realtà esprimevano una minoranza destinata a non avere seguito. Ancora una volta la Cristianità cerca di ricondurre il mondo musulmano ad una identità monolitica e definita, ed inevitabilmente se ne costruisce un’immagine non adeguata alla realtà. Sempre nella seconda metà del ‘200 si colloca l’opera di san Tommaso d’Aquino, a contatto col mondo islamico fin dai primi studi (’39-’44) a Napoli, nello studium fondato da Federico II. Dal ‘48 al ‘52 l’Aquinate studia alla scuola di sant’Alberto Magno a Colonia, il quale lo introduce alle traduzioni latine dei grandi commenti arabi ad Aristotele: i già citati Avicenna/Ibn Sina ed al-Farabi da parte musulmana, Avecenbrol e Maimonide da quella ebraica. Assieme ad Averroè/Ibn Rusd questi autori entreranno fra le auctoritates ricorrenti nelle sue opere, con le quali l’Aquinate si troverà talvolta concorde e talvolta in disaccordo. Dal ‘59 al ‘65 vive ad Orvieto, dove conclude la Summa contra gentiles iniziata in Francia nel ‘58. Attorno a quest’opera si coagula la reazione intellettuale dell’intera Cristianità europea alla civiltà islamica. Dopo le Crociate, la riconquista dell’Italia meridionale, i decisivi progressi in Spagna con la caduta degli Almohadi di Cordova ed il piccolo regno Nasride di Granada ridotto ad innocua periferia, il mondo islamico non è più visto soltanto come un’incombente minaccia militare. Ora c’è spazio per apprezzarne la ricchezza culturale ed il rigore scientifico e filosofico, ed il suo innegabile fascino è una provocazione che deve essere raccolta dall’apologetica cattolica chiamata a rendere ragione della dottrina. Tommaso introduce per primo una distinzione tra i non cattolici: con gli eretici è possibile dibattere a partire dalla Bibbia cristiana, con gli Ebrei soltanto dall’AT, con i musulmani ed i pagani non restano che le evidenze della ragione, e quindi la filosofia. Inizia timidamente un processo di superamento della concezione dell’Islam come eresia cristiana, sebbene l’idea resti corrente ancora a lungo e sia in pratica adottata anche dallo stesso Tommaso. Non è poi fuori luogo ricordare come, anche nel dibattito contemporaneo sul dialogo islamo-cristiano, resti centrale il problema della possibilità di un confronto teologico oltre che culturale, secondo una distinzione che già sembra indicata dal Dottore Angelico. Nel suo insieme l’opera di Tommaso, al di là dei singoli punti d’incontro o di presa di distanza, “sdogana” definitivamente i filosofi musulmani come interlocutori dei pensatori cristiani e li pone sullo stesso piano di autorità pagane come Platone ed Aristotele. L’Islam non è solo il nemico dei Cristiani: esso costituisce una civiltà avanzata con la quale è necessario confrontarsi senza pregiudizi, capace sia di fornire utili argomentazioni per rafforzare alcune posizioni dottrinali che di proporre sfide utili a stimolare una risposta ed una più profonda affermazione della fede della Chiesa (si pensi al dibattito con Avicenna, che sosteneva la non-libertà della Creazione rispetto a Dio, oppure la critica dell’idea islamica per cui non esiste causalità riferibile alle creature ma ogni cosa consegue da un diretto e puntuale intervento di Dio). Il confronto è però sempre in ambito filosofico, specie con quei pensatori che appartenevano alla corrente filosofica ellenistica dell’Islam, minoritaria ed abbandonata rapidamente. Le poche affermazioni dell’Angelico in campo prettamente teologico rispetto all’Islam sono nella linea dell’eresia, ed egli mostra di considerare la dottrina di Muhammad nulla più di una distorsione delle principali verità cristiane. A margine di queste considerazioni sulla vicenda dell’Aquinate, bisogna annotare la scarsità di studi da parte islamica su di lui, o quantomeno la difficoltà di reperire materiale in lingue occidentali, così da rendere impossibile tracciare un quadro della percezione del suo lavoro in ambito musulmano sia antico che recente. Mentre l’Europa cominciava così a scoprire la ricchezza del mondo arabo e, sia pure con fatica ed errori, perseguiva la via di una sua conoscenza più approfondita, la cultura islamica ha già intrapreso la via del declino. Nella seconda metà del XIV secolo le note geo-politiche di Sihab al-Din al-Umari, letterato presso la corte mamelucca del Cairo e viaggiatore nel Mediterraneo, offrono una descrizione di Roma ancora del tutto fantasiosa, come di una città sulla riva del mare ricalcata sulle fattezze di Costantinopoli, e propongono un’immagine singolare del Papato: esso sarebbe il vertice sia religioso che politico della Cristianità, capace di esercitare un’autorità diretta ed immediata su ogni credente e su tutti i principi e gli stati cristiani, così che i singoli e le nazioni si accordano ed agiscono secondo la sua volontà; un “Califfo cattolico”, per così dire.
L’Italia rinascimentale e l’Islam
I secoli XIV e XV sono ben poco attestati nelle fonti di nostro interesse. Una volta conclusa l’esperienza di Lucera il territorio italiano non ha più alcun contatto diretto con i fedeli dell’Islam, e la maggior parte degli stati che lo occupano rivolgono le proprie attenzioni al contesto europeo e cristiano piuttosto che alla sponda musulmana del Mediterraneo. La frammentazione e la debolezza dei regni islamici in questo periodo contribuisce ad allontanare la percezione di una minaccia da parte loro. La Chiesa stessa è assorbita prevalentemente dalle vicende dell’Impero e delle emergenti gradi monarchie, contemplando soddisfatta i buoni esiti della Reconquista spagnola, il relativo equilibrio della situazione nei Balcani all’ultimo tramonto dell’esangue Bisanzio, e solo rimpiangendo il fallimento delle Crociate che non avevano assicurato quel dominio cristiano sui luoghi santi per cui inizialmente erano state bandite. La “scoperta” delle Americhe allontana ulteriormente l’attenzione europea dal mondo arabo-islamico, sempre più ridotto a periferia. Conviene dunque procedere nell’analisi adottando una lente diversa, che metta a fuoco le situazioni particolari di alcuni centri italiani di rilievo, nei quali la realtà civile e l’istituzione ecclesiastica presero posizione rispetto all’Islam. Nel fare questo dovremo abbandonare la perfetta successione cronologica, ed ogni sezione ripercorrerà gli eventi evidenziando ciò che la riguarda.
– Venezia
Oltre alla Serenissima anche Pisa, Genova, Napoli, Bari ed altre città marinare fra il 1100 e il 1400 hanno importanti rapporti commerciali con l’Africa e il Medio Oriente musulmani. Ci concentriamo su Venezia, convinti che possa fungere da utile paradigma per comprendere la situazione storica ed i contatti tra politica, economia ed autorità religiose nei contesti segnati dalla preminenza dei commerci con l’oriente musulmano. In primo luogo va segnalato, poiché non sempre noto, come il commercio fra Occidente ed Oriente fosse bilaterale: l’Italia importa soprattutto spezie, legname e metalli, e per contro esporta nel mondo arabo i suoi tessuti, le lavorazioni vetrarie e più in generale oggetti d’arte e d’uso quotidiano. Già dalla fine dell’XI secolo Venezia è presente nei mercati di Alessandria, Damietta, Acri e Tiro, ed i suoi commerci sono tutelati e regolati dalle autorità musulmane che si impegnano a contribuire alla lotta contro la pirateria. Dal XII secolo si afferma il modello dei fondachi e dei quartieri franchi nei principali porti islamici, ovvero settori della città riservati a comunità stabili di mercanti europei, nei quali viene applicata una legislazione riservata dal carattere generalmente assai liberale. Nella stessa Venezia, dal 1631 al 1732, è attivo il “Fondaco dei Turchi”, che garantisce ai mercanti ottomani un luogo dove conservare le merci e vivere nel rispetto dei propri costumi, anche dal punto di vista religioso. Di seguito, in breve, una rassegna dei principali eventi che segnano i rapporti tra il mondo veneziano e quello islamico, annotando il contributo dei contesti allo sviluppo del confronto tra Cristiani e Musulmani. È del 1462 il primo “trattato di amicizia e di commercio” con l’Egitto musulmano, ed i rapporti tra i due stati saranno così buoni e forieri di profitto per entrambi da portare, nel 1501, ad un accordo per lo scavo di un canale tra il Mediterraneo e il Mar Rosso. Il progetto fallisce per insormontabili problemi tecnici, ma è significativa la disponibilità delle parti ad un tale impegno economico che si sarebbe comunque protratto per anni. Ma la disponibilità veneziana ad allearsi con i musulmani non era limitata ad accordi di tipo commerciale. Nel 1509 la battaglia di Diu, al largo del Mare Arabico in direzione della costa indiana, vede i Portoghesi scontrarsi con una flotta partecipata dal Sultano Turco, quello di Calcutta e la Repubblica di San Marco. Le tre potenze erano andate oltre le tensioni storiche che le contrapponevano per tentare di imporre la propria supremazia sui commerci marittimi verso l’Estremo Oriente. Vengono sconfitte e questo contribuisce al declino del commercio nel Mediterraneo Orientale a favore delle rotte atlantiche per l’India e le Americhe. Nonostante questa irrecuperabile perdita, nel resto del ‘500 le attività commerciali veneziane nel Vicino Oriente restano fiorenti fino a che l’espansione ottomana nei Balcani e le mire sulle isole e gli scali veneziani incrinano il fragile equilibrio raggiunto. I rapporti commerciali di Venezia si spostano così decisamente verso il Maghreb, e la Repubblica tratterà prevalentemente con Egitto, Tunisia e Marocco fino alla fine della propria storia, imitata dalla Toscana e dal Regno delle Due Sicilie. All’interno di questo quadro tutt’altro che monolitico, nel corso di vicende che hanno visto i Veneziani appoggiarsi sia economicamente che militarmente ad alleanze e compromessi con popolazioni islamiche, non deve sorprendere l’interesse culturale e religioso per quel mondo negli ambienti colti della Serenissima. Così nel 1537 i fratelli Paganino e Alessandro Paganini danno a alle stampe quella che è forse la prima edizione completa del testo arabo del Corano, di cui oggi sopravvive una copia conservata presso la biblioteca di San Francesco della Vigna. Nemmeno la guerra di Cipro (1570-1573) e la battaglia di Lepanto del 1571 saranno eventi tali da rompere definitivamente la lunga tradizione di confronto, dialogo ed accordi fra il Doge e il Sultano. Anzi, già nel 1575 a Venezia è aperto il fondaco ottomano presso Rialto, spostato nel 1621 sul Canal Grande in una sede capace di ospitare fino a 300 mercanti con le loro merci. In quel periodo è nota la presenza di macellai musulmani in città per garantire il rispetto della ritualità islamica, così come un apposito cimitero accanto a quelli giudaico e protestante. Per contro il Sultano permetteva ai Veneziani, e solo a loro, di spostarsi a cavallo nel suo Impero e di vestire come i turchi, risultando dunque impossibili da identificare immediatamente come stranieri e non musulmani. Veneziani ed Ottomani intervennero diverse volte, sia su convocazione che spontaneamente, a reciproco sostegno contro Austria e Spagna. Ciò non era apprezzato dalla Chiesa romana, a sua volta considerata con sospetto dai Veneziani in quanto concorrente nel controllo della costa emiliana. Va segnalata l’azione dei Cappuccini, che ordinariamente garantivano il servizio spirituale agli eserciti veneti, e che in più occasioni si adoperarono per convertire gli alleati ed i mercenari musulmani assoldati dalla Serenissima anche contro il parere dei comandanti militari. Bisogna poi ricordare che nel 1606 Venezia venne colpita dall’Interdetto e non mancarono figure, come il Servita Paolo Sarpi o i Dogi Leonardo Donà e Nicolò Contarini, che affermarono pubblicamente di “ritenere più leali, liberali e progrediti i Turchi che i Papisti, i Gesuiti e gli Spagnoli”. Non manca, nella Venezia del primo ‘600, una genuina ammirazione per la struttura politica e militare della Sublime Porta, e la Serenissima promuove pure lo studio della lingua e della religione islamica per meglio comprendere i suoi interlocutori; nella metà del secolo, del resto, i commerci veneziani con il mondo islamico conoscono una seconda e redditizia primavera, ed i rappresentanti della Repubblica in terra turca inviano frequenti e puntuali notazioni sul mondo islamico, considerandone limiti e pregi dal punto di vista socio-politico, militare, economico e religioso. Gli autori veneziani del tempo, anche non esperti in questioni teologiche, mostrano di saper distinguere le diverse forme di Islam praticate nell’Impero turco e negli altri regni musulmani, come pure di considerare diverse la religione musulmana e la superstizione che talvolta ad essa si accompagna; non sono poi rari i tentativi di mettere a confronto i diversi approcci alla figura di Gesù, o le somiglianze tra pratiche come il Ramadan e la Quaresima. In questo contesto si radica l’opera del Marracci, al quale dedicheremo il paragrafo conclusivo di questa parte. Il definitivo tramonto di ogni collaborazione turco-veneziana avvenne nel 1645, quando gli Ottomani pretesero la vendita di Creta e, al rifiuto veneziano, iniziarono l’invasione dell’isola per riuscire faticosamente a conquistarla nel 1669. In questo tempo di belligeranza i Cappuccini, espulsi dalla Repubblica assieme agli altri religiosi durante l’Interdetto, tornarono in forze per assistere gli eserciti e si fecero portatori della ben diversa prospettiva sull’Islam adottata dai Papi a partire dalla sacralizzazione di Lepanto. Il cambiamento a Venezia è evidente, e nella Repubblica di San Marco, ora in aperto conflitto con il mondo islamico, prendono a circolare storie e leggende sulla ferocia, la crudeltà e l’immoralità dei Turchi, tanto che alcuni capitani, mercanti e ambasciatori veneziani operativi lungo i confini, al rientro in laguna lasciano scritti pieni di stupore per i grossolani errori dei propri concittadini nel giudicare i musulmani. In particolare il bailo Giovanni Battista Donà prende a cuore la causa ed organizza una scuola di lingua araba. Così il vescovo di Padova Gregorio Barbarigo avvia dal 1680 l’insegnamento dell’arabo nel suo seminario, e le due istituzioni, civile ed ecclesiale, gareggiano nella produzione di opuscoli e trattati sul mondo arabo. Questa attività non si ferma nemmeno durante la guerra del 1684-1699, che vede la riconquista veneziana del Peloponneso. Anche a questi instancabili operatori culturali si deve l’ultima conversione veneziana, che nel ‘700 torna a subire il fascino della Sublime Porta. Non più di quella vera, però, ma delle Mille e una notte, dei Sette veli, dei caffè nelle calli ammobiliati alla turca e delle opere teatrali e liriche in cui l’Islam appare trasfigurato in una favola esotica: «I sogni degli europei non erano più popolati dal feroce Saladino, che faceva strage di cristiani, bensì da indolenti musulmani, felici poligami e padroni di esotici harem, oggetti di derisione e forse anche di sottaciuta invidia».
Sintesi: Nell’insieme l’esperienza veneziana si pone come un caso particolare nel panorama italiano, in cui uomini e donne cristiani hanno dovuto e potuto confrontarsi con l’Islam a partire dalle necessità di conviverci, da un rapporto paritario segnato dall’uguaglianza tra contraenti tipica delle trattive commerciali, dalla distanza politica ed intellettuale rispetto agli ambienti della Curia romana, che a Venezia era spesso considerata un pericoloso rivale. Il forte carattere laico dello stato veneziano imprime al dialogo islamo-cristiano i caratteri della convenienza economica e politica. Non sorprende che questo abbia permesso anche di coltivare un approccio maggiormente scientifico alla conoscenza della religione musulmana, favorito dalle notizie di prima mano che i mercanti e gli ambasciatori potevano riportare, oltre che dalla possibilità per i veneziani di intraprendere viaggi e soggiornare senza pericolo in diversi luoghi del dar-al-Islam.
– Roma
Fin dal trionfo organizzato in città il 4 Dicembre 1571 per accogliere la vittoriosa armata pontificia di ritorno da Lepanto, il Papato investe molte energie nella celebrazione di questo evento come festa della fede. Il rapido processo di canonizzazione di Pio V, che aveva dedicato e quindi implicitamente attribuito la vittoria alla Vergine, sancisce la scelta che verrà scrupolosamente seguita dai successori. La conquista delle Americhe, la lotta all’eresia protestante e l’inizio del contrattacco contro i Turchi si saldano in un unico movimento di espansione e trionfo della Chiesa Cattolica, che fino all’800 inoltrato resterà convinta dell’ormai prossima ed inevitabile conversione di tutte le genti all’unica vera fede. Il modello che si va imponendo è quello della missione colorata di tinte apocalittiche, per cui la storia è prossima al suo compimento ed i Cristiani devono affrettarne la fine col dono della propria vita per la conversione degli infedeli. Dopo Lepanto ogni grande vittoria militare viene celebrata nell’Urbe con atti pubblici come segno della Provvidenza divina, sempre legata al culto mariano: non a caso si diffonde l’immagine dell’Immacolata con la Mezzaluna turca sotto i piedi, adattamento della più antica immagine devozionale. Non sfugga che così si associa il Turco al Serpente della Genesi, destinato ad avere il capo schiacciato dalla Donna secondo il diffuso fraintendimento di quell’immagine biblica, riferita in realtà a Cristo. Cresce assieme a questa anche la devozione a San Michele Arcangelo, e non mancano nuovi santi e beati che hanno ricevuto il martirio ad opera dei perfidi musulmani. Infine va menzionato l’onore reso nelle chiese agli stendardi ottomani catturati nelle diverse vittorie, esposti e spesso trasformati in oggetti liturgici come vesti e baldacchini, vere reliquie dei campi di battaglia, assicurazioni della divina benedizione e quindi della certezza che, ormai, l’Islam non è più una minaccia e la Chiesa può adempiere, libera e vittoriosa, alla sua vocazione di conquistare il mondo a Cristo. Bisognerà attendere il trauma della Rivoluzione Francese e il crollo del regime coloniale europeo perché questa opzione torni ad essere messa in questione. Lo slancio missionario ha per conseguenza, nel corso del ‘600, l’abbondante reflusso di scritti che i missionari compilavano durante il loro soggiorno e spedivano in patria, coordinati dalla neonata Congregazione De Propaganda Fide a partire dal 1622. Sono racconti in buona parte dal tono fortemente apologetico, in cui ad esempio il sopravvivere di una comunità cristiana in terra islamica non è mai considerato prova di tolleranza dei musulmani, ma segno della loro debolezza oppure di eccessivi compromessi da parte dei cristiani locali. Raccontano poi volentieri di prodigi avvenuti nei luoghi santi della Cristianità a danno degli infedeli che hanno osato avventurarvisi, e calcano la mano sui vizi e gli errori che vedono o credono di vedere. Nasce così una percezione del mondo islamico per molti versi opposta a quella perdurata fino al XV secolo: esso non è più la sede di una raffinata ed evoluta civiltà, ma una società in declino, che miete le conseguenze della sua infedeltà ed è ormai prossima a collassare. Il mito della superiorità dell’Europa e della sua vocazione di guida e maestra si affaccia all’orizzonte; religione cristiana e civilizzazione sono presentati come direttamente conseguenti ed assimilabili. Anche le inevitabili esperienze positive di accoglienza ed ascolto vengono collocate in questo orizzonte. I missionari onestamente si stupiscono delle virtù che osservano e che attribuiscono a doni di Dio che precedono l’errore teologico e morale degli infedeli, e sono pertanto ancor più scandalizzati per la seria devozione islamica al confronto con lo scarso impegno dei Cristiani. Ogni differenza culturale, in breve, è stigmatizzata come inferiorità intellettuale, se non come immoralità o persino empietà, utile in definitiva a confermare l’identità del missionario e il divino imperativo cui obbedisce nel dover persuadere l’infedele. Ancora una volta temi e vocabolario richiamano la polemica anti-protestante. Bisogna dare comunque conto anche di esperienze diverse, come le scuole dei francescani riformati a San Pietro in Montorio (1622) e dei Carmelitani scalzi a Santa Maria delle Grazie (1626), dove all’insegnamento della lingua araba si accompagnava un’introduzione alla polemica controversistica e apologetica con i musulmani. Pur condividendo la prospettiva dello scontro ereticale, in queste sedi si cerca anche una concreta comprensione della realtà islamica a partire dall’esperienza diretta di missionari richiamati come docenti. Né va dimenticata la presenza di una stabile comunità di maroniti arabofoni nell’Urbe, che diedero il proprio contributo sia a Propagande che al Sant’Uffizio nel giudicare questioni legate al mondo arabo e all’Islam.
Sintesi: Nell’800 le scienze illuministe sottraggono ai religiosi il monopolio dell’Orientalismo e di fatto si perdono le tracce di una lettura teologica prettamente cattolica dell’Islam che solo in epoca recente torna ad occupare la Chiesa, con prospettive ben diverse. Il Papato rinascimentale, in conclusione, continua a trattare l’Islam come avversario politico prima che teologico, e sviluppa la propria attrezzatura polemica allo scopo di mostrare gli errori, le contraddizioni e i fallimenti della religione musulmana. Tutto questo si salda con l’imperativo di dare invece risalto al Papato e alla Chiesa di Roma, impegnata nel riscattarsi dagli scismi del Nord Europa e nell’affermare il primato cattolico nell’evangelizzazione del Nuovo Mondo e dell’Africa.
– Milano
Nella prima parte del ‘600 il Cardinale di Milano Federico Borromeo, che aveva dalla sua una elementare conoscenza dell’Arabo, si adoperò per dotare la Biblioteca Ambrosiana di un fondo in questa lingua. Oltre ad opere cristiane si procurò anche diverse copie del Corano e molti scritti islamici di scienza e filosofia. Di lui abbiamo anche un manoscritto, intitolato “Lux matutina”, nel quale immagina di dover spiegare le essenziali verità del Cristianesimo ad un musulmano persiano. Altro fattore peculiare del territorio ambrosiano, fra il XV e il XVIII secolo, sono le Confraternite dedite al riscatto degli schiavi cristiani prigionieri dei musulmani. Queste esistevano in tutto il mondo cattolico, ma nel Milanese vedono una fioritura tale da poter risultare paradigmatiche per la nostra sintesi. Gestite da ordini religiosi, queste istituzioni vivevano delle offerte raccolte per la causa e delle indulgenze che potevano offrire in cambio. Ogni qual volta un gruppo di cristiani veniva affrancato e portato in città si organizzavano fastose cerimonie e processioni, durante le quali era uso drammatizzare la condizione vissuta dagli schiavi nei paesi islamici ed accostarla alla Passione di Cristo. L’Islam era così presentato come l’Inferno in terra, che alla sofferenza fisica univa la tentazione dell’apostasia dietro laute ricompense. Difficile non considerare quantomeno assai colorite molte delle descrizioni pervenute fino a noi, e non avvertire in esse un fine propagandistico che si mescola al genuino slancio devozionale. Da notare che mai veniva data ai liberati la possibilità di raccontare con proprie parole l’esperienza vissuta; la regia delle celebrazioni era appannaggio di teologi che di solito non avevano mai messo piede in terra islamica. Altra fonte d’informazioni per le popolazione dell’Italia nord-occidentale sono i resoconti dei viaggi missionari dei Frati Minori francescani, che soprattutto nel XVIII secolo percorrono le regioni balcaniche e gli stati del Mediterraneo orientale in cerca di occasioni di predicazione e di martirio. Nelle loro testimonianze si rintracciano due opposte percezioni, da un lato quanti hanno trovato nelle autorità turche una difesa contro l’intransigenza ed il fondamentalismo religioso della popolazione musulmana locale, dall’altro invece chi ha assistito al martirio di confratelli e quindi racconta di crudeltà e barbare torture. Va riconosciuto come i frati, pur impegnati in una dichiarata propaganda sia della fede cristiana che delle virtù del proprio Ordine, abbiano saputo accostare con una certa onestà il mondo islamico in cui spesso trascorrevano più decenni della loro vita, riuscendo a comporre il rifiuto della fede musulmana con la genuina meraviglia per molte acquisizioni morali, scientifiche e sociali di quelle popolazioni, fino ad una seria autocritica come quella di frà Timoteo Canevese. Egli, dopo essere stato missionario, prigioniero, ospite ed amico dei musulmani, ammonisce: «La republica christiana non deve divenire scandalo per gli infedeli, appresso de quali non v’ha chi possa corromper la giustizia, che con essi non vale quell’assioma, chi ha denari ed amicitia non teme la giustizia!». Agli scritti dei missionari milanesi va riconosciuta un’attenzione all’obiettività senz’altro superiore rispetto ad altri testi dello stesso periodo.
– Toscana
Sin dall’XI secolo Pisa ha stabili relazioni commerciali con il mondo musulmano, specie con l’Emirato di Tunisia. Nel 1133 un trattato con l’Emiro del Marocco e nel 1264 con l’emiro di Tunisi aprono ai mercanti toscani i regni islamici del Mediterraneo occidentale. Negli ambienti accademici della città era noto l’Arabo e nel XII secolo furono tradotti diversi testi arabi in Latino. Leonardo Fibonacci, grande matematico del XIII secolo, apprende tale scienza nella colonia di Bugia (Algeria) e svolge molte delle sue ricerche alla corte di Federico II di Svevia. La pittura toscana dal ‘300 in poi rappresenta frequentemente tessuti e tappeti di fattura araba, ed usa le lettere della calligrafia islamica come elemento decorativo, specie nei quadri dedicati alla Vergine, di cui era già noto il comune renderle onore. Non mancano ipotesi sulla relazione tra la Commedia dantesca e il Miraj di Muhammad (soprattutto col racconto del “Libro della Scala”, tradotto dall’arabo in spagnolo e latino a Toledo da Bonaventura da Siena). Dante stesso, del resto, se mette Muhammad in bocca a Lucifero riconosce invece Averroè tra i grandi sapienti del Limbo. Anche la grande fucina culturale toscana, dunque, beneficiando di conoscenze di prima mano dai suoi mercanti, custodisce uno sguardo quantomeno plurale verso l’Islam, fatto di rifiuto e insieme di fascinazione.
Il ‘700 italiano e il crollo del mondo islamico di fronte al colonialismo europeo
La pace di Carlowitz del 1717, cui si è già accennato, costituisce il definitivo arresto della spinta espansionistica ottomana grazie all’alleanza tra l’Austria e Venezia. Secondo alcuni autori questo momento chiude una lunga fase della storia mediterranea e segna un radicale cambiamento nella posizione della Chiesa Cattolica rispetto alla realtà politica europea. Così sintetizza il Leoni: «Quel giorno si concludeva un’intera epoca: la minaccia ottomana, incombente sull’Europa per più di tre secoli, era finita per sempre. […] Il vincitore in questione era la Chiesa Cattolica che, fin dalla metà del XIV secolo, si era adoperata instancabilmente per tessere alleanze e finanziare eserciti che stornassero la minaccia musulmana sull’Europa. Un flusso incalcolabile di danaro era confluito nelle casse vaticane per distribuirsi fra gli Stati che avevano deciso di resistere contro quello che sembrava un destino ineluttabile. […] Scomparsa l’emergenza del Turco, anche il ruolo politico della Chiesa venne meno, iniziò il rapido declino degli ordini militari di Malta e Santo Stefano ed ebbe inizio la grande partita tra i sovrani assoluti nelle guerre di successione polacca e austriaca». Di certo la storia delle transazioni finanziarie che fecero della Santa Sede un potente sostenitore ed organizzatore della resistenza anti musulmana può offrire contributi interessanti alla nostra ricerca, ma allo stato attuale i contributi sembrano scarsi. Ad ogni modo, il fatto che dal ‘700 in avanti non vi siano più nazioni musulmane percepite come una minaccia per l’Europa e la Cristianità consente di innescare nella Chiesa Cattolica un cambiamento di prospettiva, che attraversando l’epoca coloniale vedrà maturare nuovi approcci all’Islam. La prima e forse maggiore novità è la ricerca minuziosa ed accurata dei fatti storici e delle posizioni teologiche del mondo islamico, che trova il suo esponente esemplare in Ludovico Marracci (1612-1700). Egli porta a termine la prima traduzione latina completa del Corano a Padova nel 1698, con testo originale integrale a fronte. Con lui nasce l’Islamologia in senso moderno, basata sullo studio delle fonti in lingua originale. Membro dei Chierici regolari della Madre di Dio di Lucca, il Marracci dedica allo studio dell’Islam e in particolare alla traduzione critica del Corano buona parte della sua vita accademica. Buon conoscitore della lingua araba, la insegna alla Sapienza di Roma e contribuisce alla traduzione della Bibbia. Nell’orizzonte accademico del tempo si inserisce perfettamente nella linea controversistica cui già abbiamo accennato. Egli si adopera per «Una traduzione del Corano integrale, che segua criteri scientifici, con spirito antiriformista, e i criteri pastorali-pedagogici della Chiesa Cattolica». Il suo lavoro sul Corano si divide in due parti: la prima viene pubblicata a Roma nel 1691 e tratta della vita di Muhammad e dei fondamenti teologici dell’Islam, tutti accompagnati da puntuale confutazione. La seconda parte, con la traduzione del testo coranico, non può essere pubblicata a causa della messa all’Indice di ogni testo che contenesse citazioni dirette del Corano. La scelta di pubblicare a Padova si deve alla protezione accordata dal Vescovo Barbarigo, di cui diremo più avanti. Nella sintesi di Rizzi: «Acquisizione fondamentale di quest’opera è dunque l’intento di una conoscenza obiettiva dell’Islam nella sua interezza, facendo riferimento alle fonti stesse; altra prospettiva interessante è quella della presa in considerazione sia pratica che teorica del problema dell’evangelizzazione dei musulmani. Inoltre è significativo il tentativo di elaborare un’istanza teologica nella lettura dell’Islam». Tutto questo senza tradire lo spirito apologetico del tempo, ma cercando una fondazione accademica alla confutazione dell’eresia islamica. Quanto ancora fosse forte l’antica tradizione teologica, già del Damasceno, di considerare l’Islam un’eresia giudeo-cristiana lo attesta sant’Alfonso Maria de’ Liguori, che nel 1768 dedica due articoli della sua “Storia delle eresie” alla “setta di Maometto”. Il Dottore della Chiesa considera il Profeta dell’Islam il maggior eresiarca del VII secolo, in quanto avrebbe composto il suo Corano con l’aiuto di “un certo monaco chiamato Sergio” mescolando elementi della tradizione giudaica e cristiana ed inserendovi poi credenze arabe. Sant’Alfonso riprende la confutazione dell’Islam nelle “Verità della fede”. In particolare evidenzia come incompatibili con la vita cristiana gli eccessi carnali e il compiacimento dei sensi che invece il Corano mostra di stimare, in quanto descrive persino il paradiso in termini di diletto corporale. La poligamia è un altro elemento di scontro, ed infine le discrepanze sulla storia di Gesù e la sua identità. Curiosamente, invece, viene detto che Maometto avrebbe aderito al dogma trinitario. Sant’Alfonso mostra di conoscere la varietà delle scuole di diritto e teologia del mondo islamico, le diverse convinzioni sulla realtà creata o increata del Corano, le discrepanze nel riportare i testi coranici più controversi, ed usa questa conoscenza per presentarlo come diviso in se stesso. Rileva anche la frattura fra l’interpretazione allegorica proposta da Avicenna ed il letteralismo che aveva poi avuto il sopravvento nella grande maggioranza dell’Islam. Non manca di dare conto delle controversie sulla natura di Cristo, citando quei passi in cui egli viene talvolta descritto come uomo e profeta, talaltra come Spirito di Dio. Maometto resta un nemico della verità, un uomo astuto e dedito ai piaceri sensuali, il cui solo scopo è confezionare una religione che giustifichi la sua condotta contraria alla buona vita cristiana. Di tanto in tanto emergono apprezzamenti per istituti come l’elemosina rituale, la preghiera quotidiana e il digiuno prolungato, sui quali però l’Autore non si sofferma.
Sintesi: La fine del ‘700 italiano vede così affermarsi un’apologetica dotta ed una ripresa iniziativa missionaria verso le popolazioni islamiche, considerate spesso moralmente inferiori ed inclini alla sensualità e alla brutalità. In questo senso lo sguardo ecclesiale è organico all’orizzonte culturale europeo delle imprese coloniali, cui presto parteciperà anche l’Italia post-unitaria.
Fonti e Bibl. essenziale
Vedi al termine del lemma corrispondente nel volume II
In questa seconda parte utilizzeremo una diversa scansione, mettendo a fuoco dapprima la storia delle edizioni del Corano in italiano e la vicenda coloniale. In seguito ci soffermeremo sulla CEI come espressione della Chiesa italiana, prestando attenzione agli attentati dell’11/09/01 come punto di svolta della percezione comune dell’Islam nel Paese. Consapevoli dei limiti di questa indagine, non possiamo che rimandare ad ulteriori approfondimenti più mirati e circoscritti, accontentandoci di proporre il quadro generale in cui i Cattolici italiani interessati al confronto con l’Islam oggi si possono muovere.
Il Corano in Italia
La scelta di pubblicare il testo coranico ed il modo in cui viene corredato da note ed approfondimenti è chiaramente rivelativa del modo in cui l’autore si pone rispetto all’Islam. Riportiamo in sintesi la cronologia delle opere italiane proposta da Paolo Branca e le sue conclusioni in merito. Dopo l’opera del Marracci bisogna attendere ben tre secoli prima che l’editoria italiana si interessi nuovamente al testo coranico, ed all’inizio in modo farraginoso. Nel 1847, 1882 e 1912 vengono proposte traduzioni basate per lo più sulla versione francese di Kasimirski, con errori, omissioni, sintesi non segnalate come tali ed un minimo corredo di commenti e spiegazioni. Solo nel 1914 il Fracassi pubblica una versione tradotta direttamente dall’Arabo e con originale a fronte, specificando di voler così contribuire all’integrazione dei sudditi musulmani delle colonie nel Regno d’Italia. La traduzione non è esente ad errori e critiche, sia contemporanee che successive, ma segna comunque una svolta decisiva nell’approccio al Corano in Italia. Segue il Bonelli nel 1929, più fedele al dettato arabo e finalmente il Bausani nel 1955, edizione ancor oggi considerata valida e consigliabile sia per il testo che per l’apparato critico. Di qui in poi le traduzioni si moltiplicano e susseguono rapidamente. Nel 1986, a Trieste, un’ulteriore e per ora ultima aggiunta alla pubblicistica è la prima edizione italiana curata da un gruppo di musulmani e indicata semplicemente come “Qur’an”, cui ne seguiranno molte altre. Nelle librerie italiane è poi divenuto ormai normale trovare pubblicazioni tradotte dall’inglese o da altre lingue di commenti al Corano con traduzione del testo, in numero tale da rendere impossibile in questa sede darne conto puntualmente. Il professor Branca annota l’augurio di una sempre maggior diffusione e comprensione critica di queste traduzioni, come anche maggior coinvolgimento e disponibilità dei musulmani italiani che ancora risentono della storica riserva islamica all’idea di tradurre il libro sacro. Interessante l’annotazione sulla scarsità di traduzioni italiane delle principali opere classiche dell’Islam, contributo determinante e necessario per i prossimi sviluppi della materia.
Sintesi: Nell’insieme risulta evidente come ormai la questione islamica non sia appannaggio solo degli interessi teologici della Chiesa, ma tutti gli elementi della società italiana abbiano a cuore in certa misura una comprensione dell’Islam come religione, oltre che come cultura. Resta da approfondire quale sia il rapporto dei fedeli cristiani con questa significativa mole di pubblicazioni dal tenore tanto diverso, come anche l’eventuale opportunità per il Magistero in Italia di offrire indicazioni per consentire a ciascuno di orientarsi e non inciampare in testi poco affidabili o di parte credendoli invece obiettivi ed universalmente validi.
Il colonialismo italiano nei paesi islamici e la missione cattolica
Anzitutto segnaliamo la difficoltà di reperire materiale sul tema citando Romanato: «Del tutto trascurabile è poi l’interesse per le missioni nella storiografia italiana. Tolta, e non sempre, una citazione d’obbligo per Guglielmo Massaja, l’ottica rimane, in fondo, quella di Croce, che ricordava “l’operosità” di “viaggiatori” ed “esploratori”, ma ignorava del tutto la presenza dei religiosi». L’azione missionaria della Chiesa ha da sempre una dimensione universale, tuttavia nel periodo coloniale le singole chiese nazionali concentrano il proprio impegno nei territori amministrati dai rispettivi governi (sia pure mai in modo esclusivo). Il punto di partenza della rinnovata penetrazione missionaria ottocentesca e novecentesca in Africa sono i paesi musulmani della costa mediterranea, soprattutto l’Egitto, e nel caso dell’Italia le aree interessate sono quelle della Libia e del Corno d’Africa, parte del mondo islamico fin dai suoi primi secoli. Il giovane stato italiano era ben consapevole che molti suoi cittadini erano già da tempo presenti nei territori africani e mediorientali al seguito delle missioni cattoliche, e che la netta preminenza numerica rispetto ad altre nazionalità, unita alla centralizzazione in Roma delle case generalizie, aveva di fatto promosso la diffusione della lingua e della cultura italiana quasi di pari passo con il costituirsi di enclave cattoliche in quelle regioni. A differenza di Francia e Gran Bretagna, però, in Italia la questione missionaria resta di appannaggio esclusivo della Chiesa, e le ingerenze politiche sono assai contenute e sporadiche. Questo permette al missionario italiano di sentirsi «prevalentemente uomo di chiesa, portatore di un disegno di evangelizzazione, come diremmo oggi, potenzialmente universale, non condizionato da interessi politici o nazionali». Per completare il quadro, si tenga conto che i missionari italiani erano figli di una Chiesa che in Europa, ovvero là dove riteneva di essere a casa, si sentiva e sperimentava perseguitata, rifiutata, condannata ad un futuro incerto sia dal laicismo francese che dalla conquista sabauda dello Stato Pontificio: la Chiesa di Gregorio XVI, anti-liberale, contro-rivoluzionaria, impegnata a guadagnarsi la propria libertà e la speranza di un domani migliore. In tutto questo complesso movimento, che con tutti i limiti propri della cultura e dei mezzi educativi allora correnti è stato comunque il principale esempio di confronto non razzista tra europei ed africani durante l’esperienza coloniale, la Chiesa italiana opera soprattutto attraverso gli ordini religiosi. Un caso particolarmente interessante è quello di Daniele Comboni e dei suoi religiosi. Nel 1864 il Comboni propone a Propaganda Fide un piano missionario che dovrebbe superare le difficoltà e i limiti che hanno segnato il sostanziale fallimento del progetto missionario francescano in Sudan. Il religioso propone di stabilire lungo le coste africane dei centri di formazione e di preparazione per i religiosi missionari del continente, evitando così di farli venire in Europa. A suo dire, infatti, il missionario africano formato in Europa «ritornato nell’Africa ne è reso inetto per le quasi connaturate abitudini europee contratte nel centro della civiltà, che diventano ripugnanti e nocevoli nella condizione della vita africana». Il piano poi precisa la necessità di formare non solo sacerdoti, ma catechisti, insegnanti, artigiani d’ambo i sessi che possano gradualmente penetrare nelle regioni interne dell’Africa e divenire fermento di sviluppo e conversione per le comunità. Per il presente lavoro è interessante constatare come il Comboni citi esplicitamente l’esperienza dei Vicariati apostolici in paesi islamici come Egitto, Tunisia, Libia e Marocco, ed abbia direttamente affrontato anche il difficile confronto con i musulmani dell’Africa nera. Egli, nel corso della sua opera, non considera mai l’Islam una realtà impermeabile al messaggio evangelico né le società islamizzate come particolarmente ostili ai missionari. Concentrato su problemi di tipo culturale, economico, sociale e non ultimo sui disagi della calura e delle malattie, il Comboni accosta il dialogo con l’Islam in termini di assistenza gratuita e disinteressata alla promozione delle comunità africane e di esplicita testimonianza della fede cristiana.
Sintesi: Nell’insieme le missioni italiane, che siano tali per un diretto interessamento del governo nazionale o per il semplice fatto di fare riferimento a religiosi italiani, mostrano di non avere particolare attenzioni per l’Islam. Esso, pur presente e radicato presso i popoli colonizzati dall’Italia, specie in Libia, costituisce non tanto il destinatario della missione quanto il concorrente con cui contendere per evangelizzare le genti ancora legate alla propria religione tradizionale o, nella migliore delle ipotesi, un contesto tra gli altri in cui applicare il proprio progetto di evangelizzazione.
Il contesto civile del dopoguerra
Tra il 1952 e il 1954 matura nell’Università di Roma la scelta di cambiare nome alla cattedra di “Storia ed istituzioni musulmane” in “Islamistica”, sancendo così la scelta di considerare il mondo islamico come universo socio-culturale oltre che religioso in senso stretto. Si sviluppa da qui il percorso dell’islamistica italiana laica, per lo più di indirizzo positivista e segnata dal desiderio di farsi scienza autorevole e riconosciuta. Va segnalata poi la figura di Padre Federico Peirone, che negli anni ’70 e ’80 fu attivo sia nel mondo accademico laico che ecclesiastico come docente di lingua araba e di islamistica, oltre che convinto promotore del dialogo interreligioso.
La CEI e l’Islam
A partire dal 1973 nelle note e negli orientamenti pastorali della Conferenza Episcopale Italiana si affaccia la questione del dialogo interreligioso, orizzonte che va tenuto presente per contestualizzare le affermazioni specifiche legate all’Islam. Queste appariranno solo dal 1993, legate inizialmente alle questioni dell’immigrazione e dei matrimoni misti. Solo lentamente si apriranno prospettive di dialogo teologico e pastorale per la Chiesta italiana nel suo insieme e per le comunità cattoliche sul territorio. Diamo allora anzitutto conto della questione interreligiosa. Negli anni ’70 la CEI è pienamente nella linea della preparazione evangelica, e nei suoi documenti il dialogo si configura come annuncio della verità cristiana che purifica gli errori delle altre religioni e ne porta a pienezza i germogli di bene (28.2.1974, Evangelizzazione del mondo contemporaneo in Enchiridion CEI, vol.2 nn. 1061-1064, 1072-1074). La prospettiva è fortemente “ad gentes” e il contesto italiano resta genericamente percepito come cristiano-cattolico; i contrasti avvertiti nel mondo sono ricondotti esclusivamente a dimensioni ideologiche, politiche e razziali, la differenza religiosa non è ancora una preoccupazione pressante. Del resto la presenza di altre religioni, ed in particolare dell’Islam, nel contesto italiano non poteva essere avvertita facilmente. Se Francia, Gran Bretagna e Germania sperimentano fin dagli anni ’50 una massiccia immigrazione da paesi a maggioranza islamica, l’Italia ha un primo approccio al fenomeno solo nel corso degli anni ’80. I Musulmani stessi, giunti in Italia, cominciano ad organizzarsi in associazioni solo nei primi anni ’70 e, a causa delle differenze etnico-linguistiche e di appartenenza religiosa, fin dall’inizio si trovano divisi ed incapaci di offrire allo stato ed alla Chiesa un interlocutore che li rappresenti nel loro insieme. L’impressione è che il clima italiano presentasse ancora fino agli anni ’90 un’omogeneità tale da rendere trascurabile il fenomeno del pluralismo religioso, che resta ai margini del pensiero ecclesiale nel nostro Paese, tutt’al più appannaggio di missionari e specialisti. L’esperienza ecumenica ed il confronto serrato con una società in evoluzione e che si andava allontanando dalla morale cattolica tradizionale sono però l’occasione preziosa che mantiene desto l’episcopato italiano su ciò che accade al di fuori della comunità cattolica, fungendo da utile profilassi contro il rischio di un eccessivo ripiegamento all’interno. Il dialogo sorto dalle istanze conciliari, in quegli anni più evocato che descritto, resta comunque presente nella riflessione e risulta capace di affascinare i pastori d’Italia che lo riconoscono come risorsa necessaria per la Chiesa nel suo insieme e per i singoli credenti. Le sempre più chiare sollecitazioni del magistero pontificio di Giovanni Paolo II e le rapide trasformazioni sociali e culturali della fine del ‘900 spingeranno a tradurre queste riflessioni in termini pastorali. Ciò si concretizza nel 1990, quando la CEI prende atto di come, anche in Italia, il pluralismo non sia più soltanto un fenomeno culturale o etnico ma anche un dato religioso, ed esiga quindi risposte in questa sede specifica. Proprio in quell’anno il Vescovo di Milano, il Cardinale Carlo Maria Martini, introduce con forza la questione islamica nella pastorale italiana con un discorso alla sua diocesi. Già nel sottotitolo “dall’accoglienza al dialogo”, Martini si fa interprete di un cambio di prospettiva: dal musulmano visto solo come straniero bisognoso si assistenza al fratello di altra religione con cui cercare il confronto paritario, sia in termini pastorali che teologici. È un riconoscimento della dignità dell’altro, oltre che una provocazione sia per i Cattolici che per i Musulmani. Partendo dal riferimento biblico alla benedizione di Dio su Ismaele, il Cardinale traccia alcune linee-guida che andranno ben oltre i confini ambrosiani e segneranno l’esperienza italiana nel suo insieme: anzitutto l’invito ad affrontare la sfida di pensare al valore teologico dell’Islam nel suo insieme, come religione che interroga il Cristianesimo con i suoi valori, la sua visione di Dio, la sua interpretazione del patrimonio ebraico e cristiano. In secondo luogo il confronto tra singoli credenti delle due religioni, che deve essere anzitutto una testimonianza esplicita delle ragioni evangeliche per cui si agisce in tal senso. Fondamentale, per Martini, è l’invito alla reciprocità e la ricerca di obiettivi comuni da realizzare sul fronte della carità e dell’educazione a valori condivisi. Interessante il rilievo di dover segnare la distinzione tra società e Cristianesimo, mettendo a conoscenza i Musulmani delle riserve critiche nei confronti di alcune derive dell’Occidente che Cristianesimo ed Islam condividono. Il Cardinale, infine, raccomanda a tutti, e specie ai presbiteri, il dovere di non ignorare la questione, d’informarsi e di conoscere, di custodire la speranza e l’augurio che il Vangelo trovi ascolto e disponibilità anche presso i Musulmani che si vanno stabilendo in Italia. Si vedrà nei paragrafi seguenti l’attualità di queste considerazioni. Il delicato equilibrio espresso da Martini, tra disponibilità e richiamo al mutuo impegno, è condiviso dall’intera Chiesa italiana. In quegli anni essa invoca una più precisa regolamentazione del flusso migratorio ed avverte sulla necessità inderogabile della reciprocità, ponendo come mèta l’integrazione sociale in termini che comunque hanno ancora un certo sapore di assimilazione. A questo riguardo bisogna notare come, anche negli anni successivi, il credente di altra religione resti generalmente associato all’immigrato, e diverse annotazioni sul dialogo compaiano in documenti inerenti l’azione caritativa, facendo perdurare l’impressione che si tratti di uno degli atteggiamenti di chi intende occuparsi degli ultimi. La realtà dell’Islam in Italia viene infatti trattata per la prima volta in modo sistematico ai nn. 2019-2024 degli Orientamenti Pastorali del 1993 dedicati all’immigrazione. Il testo ricalca sostanzialmente quanto già detto da Martini, con in più delle attenzioni alla questione dei matrimoni misti e alle inevitabili difficoltà che questi presentano. La riflessione del cardinal Martini apre comunque alla Chiesa italiana una situazione nuova, che va oltre l’ambito prettamente caritativo: la sfida della prossimità quotidiana ed ordinaria con persone di religione musulmana intenzionate a vivere coerentemente con la propria fede e a manifestarla in forma pubblica. Alle parole del Vescovo di Milano farà eco due anni dopo la Conferenza Episcopale Triveneta. La CET parte dalle reciproche ferite che Musulmani e Cristiani si sono inferte, chiedendo la disponibilità a perdonare e dimenticare per costruire una nuova relazione fatta di reciproca conoscenza, onestà e rispetto. Dopo aver brevemente presentato gli elementi fondamentali della religione islamica, i Vescovi affermano che il dialogo interreligioso «non scaturisce da opportunismi tattici, ma dalla fedeltà a Dio e all’uomo», riferendosi in nota a Nostra Aetate. I punti di contatto con l’Islam sono identificati nell’atteggiamento di fede ed obbedienza a Dio riconosciuto come unico, mentre fra le differenze teologiche ha un posto importante la questione della separazione tra società civile e comunità religiosa, sulla linea degli ammonimenti di Martini. Tra i contributi più interessanti del documento l’invito a tutti i Cristiani ed alle comunità parrocchiali in particolare di fare la propria parte nel dialogo, affiancando il livello istituzionale già da tempo impegnato. Si vede quindi come le affermazioni del Concilio e la prima presa di posizione del Vescovo di Milano trovino nel Triveneto un’ulteriore precisazione pastorale e dei passi, sia pure incerti, di applicazione concreta attraverso un breve elenco di direttive accluso in conclusione. Solo un anno dopo gli Orientamenti Pastorali della CEI si concentrano sulla questione dell’immigrazione e dedicano ampio spazio al dialogo interreligioso, menzionando l’Islam come presenza più evidente e luogo privilegiato per questa buona pratica. Al numero 20, in particolare, la questione si pone in termini squisitamente teologici: «nel piano della Provvidenza quale significato per noi cristiani cattolici può avere questo mondo musulmano con il quale entriamo in contatto?», mentre i numeri 33 e 34 sono specificamente dedicati ai rapporti con l’Islam. Le coordinate della riflessione sono date da Nostra Aetate, dal magistero di Giovanni Paolo II e dal documento “Dialogo e annuncio”. La CEI, oltre ad osservazioni ed indicazioni già evidenziate nei testi precedenti, insiste marcatamente sulla questione della reciprocità nel rispetto e nella stima, interpellando sia i Musulmani residenti in Italia che le comunità nazionali di legge islamica da cui essi provengono. Frattanto la dimensione quotidiana e pastorale, che chiama in causa la vita ordinaria di tutti i Cristiani, diventerà gradualmente sempre più centrale nelle pubblicazioni nazionali sul dialogo islamo-cristiano, ed uno dei luoghi teologici e pastorali più predisposti a considerazioni positive e ragionevoli speranze: «Le persone possono prescindere dai contrasti, dai conflitti e dalle differenze dottrinali, vivendo nello sforzo di mutua comprensione, conoscendo e accettando i punti comuni e le differenze». È pressoché unanime il rilievo grato dell’assoluta apertura e disponibilità delle comunità cristiane nell’assistenza ai musulmani, che da parte loro hanno imparato immediatamente a non disdegnare le porte delle canoniche se si tratta di chiedere un aiuto materiale. Al contempo, col crescere delle nuove generazioni, i musulmani sono una presenza sempre più marcata nei luoghi di aggregazione e di svago offerti dalla parrocchia, ed essendo questi spazi disponibili gratuitamente non è raro che i giovani figli di immigrati li abitino volentieri, mentre i coetanei italiani e cattolici tendono sempre più a disertarli e preferire altre proposte. Di qui l’urgenza, già evidenziata nel documento della CET del 1992, della formazione di operatori pastorali specificamente attrezzati per l’incontro con persone musulmane, e la necessità di preparare anche i normali fedeli a vivere questa convivenza in modo consapevole, fraterno, e capace di testimoniare apertamente la propria fede in Cristo. È interessante notare come la stessa CEI maturi il deciso rifiuto della “conversione” dei musulmani come obiettivo diretto del suo rivolgersi a loro. La solidarietà della Chiesa italiana risulta così veramente gratuita e libera da ogni sorta di preoccupazione di “conquista”, e questo viene puntualmente riconosciuto dai musulmani. Non sarebbe onesto, però, tacere dei movimenti di opinione contraria che emergono sia da parte della società civile che in seno alla stessa Chiesa, e rivendicano come condizione all’accoglienza una perfetta ed assoluta reciprocità, non di rado confondendo il piano delle relazioni interpersonali privati con quelli dei rapporti tra enti religiosi e tra stati sovrani. Sebbene la Chiesa Cattolica non abbia mai mancato di chiedere esplicitamente la stessa cosa, il fatto che tale reciprocità non sia comunque considerata un prerequisito necessario per ogni ulteriore gesto caritativo rimane a tutt’oggi motivo di scontri e critiche tra persone ed istituzioni, specie quando le comunità islamiche chiedono di poter aprire dei centri culturali e di preghiera. Evidentemente gli attentati dell’11/09/01 hanno gettato altra benzina sul fuoco. Partecipe dei mutamenti della politica mondiale e dal diffondersi di paure e pregiudizi, la Chiesa italiana torna sulla questione islamica sia localmente che a livello nazionale. Anzitutto i Vescovi di Sicilia, storicamente e geograficamente più vicini al mondo islamico, cercano di leggere l’immigrazione sempre più massiccia di Musulmani in Italia come un “segno dei tempi”. Per la prima volta le contrapposizioni politiche in tema di immigrazione vengono trattate insieme alle questioni dottrinali ed alla prassi caritativa. Il documento è evidentemente frutto di una complessa gestazione accademica, con approfondimenti teologici, di diritto civile e canonico, di economia, di storia locale e mediorientale, e di confronto interreligioso sullo sfondo del “noachismo”. Più interessato a porre domande che a dare risposte, questo documento si chiude con l’appello ad una sempre più attenta e curata formazione delle comunità cristiane al dialogo con l’Islam. Sempre in conseguenza dell’acuita percezione mondiale nei confronti del terrorismo islamico, la CEI fa sua la preoccupazione di sollecitare e sostenere «quelle persone e quegli organismi che appartengono all’islam ma che non si riconoscono nell’ideologia dello scontro di civiltà e tanto meno nella strategia del terrore», oltre che dare voce alla necessità di distinguere sempre tra terroristi e musulmani. Nel 2006 la CET, che già si era espressa nel 1992, torna a fare il punto sui rapporti tra Musulmani e Cristiani. Decisamente più corposo del predecessore, questo testo approfondisce le motivazioni teologiche e pastorali del dialogo interreligioso ed offre anzitutto dei criteri generali che aiutino i singoli e le comunità locali. La preoccupazione principale è far sì che la Chiesa possa contribuire all’integrazione degli immigrati musulmani ed essere percepita da questi come un partner da stimare e rispettare, alleata nel perseguimento dei diritti civili e della libertà religiosa ma anche esigente nel chiedere reciprocità e gesti concreti di impegno per divenire buoni concittadini. L’inserimento scolastico, il prestito di ambienti per attività sociali e di culto, il contributo alla gestione del tempo libero dei minori sono alcuni degli spazi di confronto e testimonianza sulla base dell’esercizio concreto della carità di Cristo. Altro filone di ricerca e sperimentazione pastorale è la questione dei matrimoni misti. La Chiesa italiana, pur avendo segnalato la questione fin dagli anni ’90, interviene per esteso quando ormai è già maturata un’esperienza diffusa e, purtroppo, non di rado dolorosamente fallimentare. A quel punto è già prassi consolidata per le coppie miste preferire l’unione civile a quella religiosa, con un’ignoranza spesso totale delle possibilità di celebrazione con dispensa e di benedizione della coppia che permetterebbero un riconoscimento religioso da parte della comunità cattolica, oltre ad offrire al coniuge battezzato alcuni preziosi strumenti per coltivare la propria fede e farla crescere proprio grazie all’esperienza della vita coniugale con un partner di altra religione. Va poi rilevato come il matrimonio con musulmani, generalmente nella situazione di moglie cattolica e marito musulmano a causa delle prescrizioni islamiche, suscita nelle comunità reazioni di diffidenza ed ostilità più marcate che nel caso siano coinvolte altre religioni. La Chiesa è quindi intervenuta su due livelli, da un lato la preoccupazione di informare quanto più possibile i nubendi rispetto alle somiglianze e differenze nel modo di concepire il matrimonio, la famiglia, i ruoli dei coniugi e le scelte educative rispetto ai figli, dall’altro cercando di avviare percorsi di formazione per l’intera comunità, perché prenda atto della presenza di queste famiglie interreligiose e sappia farsi accogliente verso di loro, oltre ad avere cura e sostenere il coniuge cattolico senza giudizi preconcetti o illusori irenismi. È infine doveroso citare la questione della presenza di bambini musulmani nelle scuole cattoliche. Non è raro che i genitori musulmani percepiscano come una ricchezza il riferimento esplicito a Dio nella prassi educativa, guardando invece con preoccupazione alla laicità della scuola pubblica. Ciò però non significa che vi sia da parte della famiglia alcun “cedimento” verso l’adesione al Cristianesimo. La Chiesa italiana ha sviluppato la problematica con attenzione e continua a farlo, cercando il giusto equilibrio tra la fedeltà ai principi educativi cristiani, l’affermazione esplicita della fede in Cristo e l’accoglienza rispettosa del patrimonio religioso musulmano con le pratiche connesse a cui il fedele non può rinunciare. La preoccupazione educativa della Chiesa si estende anche all’ambito civile, arrivando a condividere la richiesta di alcune famiglie musulmane di potersi avvalere anche dell’insegnamento della religione islamica nelle scuole pubbliche con un Comunicato del 2006. Nel 2010 la Chiesa Cattolica Italiana, reagendo alla querelle sollevata sull’esposizione del Crocifisso in luoghi pubblici, esprime in un comunicato l’auspicio che la simbologia religiosa in generale non venga penalizzata negli ordinamenti legislativi, ed anzi sia valorizzata e compresa come occasione di confronto e di proposta, mai di imposizione o discriminazione. In questo modo viene evitata ogni polemica con l’Islam nel suo insieme, e si ribadisce il rifiuto di identificare la comunità musulmana con quei suoi membri che esprimono posizioni estremiste. Anche tra i musulmani italiani, frattanto, emergono figure che chiedono direttamente di essere considerate parte del Paese, come efficacemente rimarcato da Pallavicini: «Il rischio è di continuare a compiere l’equazione: musulmani = poveri immigrati ignoranti», sebbene egli stesso riconosca che ancora oggi circa il 90% dei musulmani presenti in Italia non siano cittadini né italiani né europei. Una preoccupazione, la sua, che non sembra del tutto ingiustificata rispetto all’atteggiamento ufficiale della Chiesa Cattolica Italiana, la quale nei suoi documenti dedicati sembra frequentemente supporre che le persone musulmane presenti in Italia siano per lo più non italiane, e si trovino in situazione di bisogno e povertà tanto economica quanto sociale e culturale. Per contro «la Chiesa italiana, per buona parte, sembra contestare la logica della polarizzazione e si sforza di introdurre elementi di pacatezza nel dibattito [sull’accoglienza degli immigrati musulmani], rifiutando tanto l’integralismo e il fanatismo, quanto gli atteggiamenti rinunciatari o la temuta “omologazione delle differenze”. […] Che questo atteggiamento non significhi, poi, una accettazione debole di prove di forza o la volontà di un dialogo forzato a tutti i costi, lo si può dedurre anche dalla richiesta puntuale di una “controparte”, ovvero di una reciprocità fatta non soltanto di rapporti asimmetrici, ma omogenei.
Sintesi: La Chiesa italiana, in queste prime decadi del XXI secolo, ha mostrato di avere ormai maturato un approccio pastorale originale e peculiare alla presenza dell’Islam nel Paese. Se da un lato si tiene conto delle preoccupazioni manifestate da una nazione che è stata colta di sorpresa da questo evento, dall’altro rimane decisiva la fedeltà alla prassi evangelica dell’accoglienza e del dialogo. Sia pure non sempre in modo ordinato, tanto gli organi nazionali che le realtà regionali, diocesane e parrocchiali hanno fin dagli anni ’90 attivato percorsi di incontro e conoscenza verso le persone musulmane e l’Islam in quanto tale. Ad oggi pare che non vi siano significative incertezze in merito al vissuto quotidiano, quanto piuttosto si avverte la necessità di una fondazione teologica fruibile anche dal comune credente. Per andare oltre l’accoglienza del povero e dello straniero, la Chiesa italiana deve ancora precisare quale lettura di fede faccia della presenza dell’Islam in Italia e del suo essere ormai costitutivamente ed irrevocabilmente parte della realtà nazionale.
Conclusione.
La lunga analisi fin qui condotta ci sembra offrire un’indicazione chiara: pur nell’estrema varietà di rapporti e di soggetti ecclesiali coinvolti, la Chiesa in Italia pare essersi rapportata con l’Islam soprattutto in risposta a puntuali questioni di tipo politico ed economico, oppure nell’ambito della propaganda missionaria, dell’apologia e della confutazione. Sebbene non siano mancate genuine testimonianze di carità pastorale e di seria intenzione di ricerca scientifica, la Chiesa mostra di non avere ancora definito una valutazione teologica del fenomeno islamico, della figura di Maometto e del suo Corano. Questa lacuna rende assai difficile impostare un percorso di relazione sia per la Chiesa gerarchica nell’ambito istituzionale che per le comunità locali ed i singoli fedeli nella quotidianità e nella vita privata. Da parte loro i fedeli dell’Islam in Italia, oggi, sperimentano ancora il sentirsi quasi esclusivamente oggetto di cure caritative, legati al mondo degli stranieri immigrati e della povertà, reclamando un sempre più concreto riconoscimento come interlocutori pienamente inseriti nella realtà italiana ed alla pari. Nel secondo decennio del XXI secolo ci si trova così ad un passaggio di ripensamento radicale dei rapporti e delle prassi, che deve tenere conto di istanze teologiche e sociali in egual misura.
Fonti e Bibl. essenziale
AA.VV., Atti del Simposio su Il Piano per la Rigenerazione dell’Africa e le Regole del 1871, Archivio Madri Nigrizia, Anno XIV n.23, Settembre 2013; AA.VV., Guida all’Islam in Italia, Airplane, Bologna 2005; Accattoli Luigi, Islam, EDB, Bologna 2004; Anawati Georges Chehata, Islam e Cristianesimo: l’incontro tra due culture nell’Occidente medioevale, Vita e Pensiero, Milano 1994; Bausani Alessandro, Cinquant’anni di islamistica, in Pubblicazioni dell’Istituto per l’Oriente 63, Scuola Grafica Don Bosco, Roma 1971, 1-26; Bono Salvatore, Relazioni commerciali fra Italia e paesi arabi dal medioevo al secolo XIX, in S. Bono e A. Tramontana, Italia e paesi arabi nell’economia internazionale, Edizioni Franco Angeli, Milano 1982, 17-35; Branca Paolo, Noi e l’Islam. Dall’accoglienza al dialogo. Vent’anni dopo, EMP, Padova 2010; Conferenza Episcopale dell’Emilia-Romagna, Islam e Cristianesimo, in Documenti Chiese locali 99, EDB, Bologna 2000; Conferenza Episcopale Siciliana, Per un discernimento cristiano sull’Islam, Paoline, Torino 2004; Conferenza Episcopale Triveneta, Cristiani e Musulmani in dialogo, in Il Regno-documenti 7, 1992; Conferenza Episcopale Triveneta, Le vie dell’incontro. Quale dialogo con i musulmani?, in Documenti Chiese locali136, EDB, Bologna 2006; Cipollone Giuseppe, Cristianità – Islam: cattività e liberazione in nome di Dio; il tempo di Innocenzo III dopo il 1187, Gregorian University Press2, Roma 2003; D’Ancona Amedeo, La leggenda di Maometto in Occidente, Salerno Ed., Roma 1994; D’Errico Gian Luca (a cura di), Il Corano e il Pontefice, Carocci Editore, Bari 2014; De Liguori Alfonso Maria, Storia delle eresie colle loro confutazioni, in De Liguori Alfonso Maria, Opere, Marietti, Torino, 1857, vol. 8, 5-440; De Liguori Alfonso Maria, Verità della fede, in De Liguori Alfonso Maria, Opere, Marietti, Torino, 1857, vol. 8, 536-786; Feniello Amedeo, Sotto il segno del leone, Laterza, Bari 2011; Ferrari Silvio, Musulmani in Italia, Il Mulino, Rastignano (BO) 2000; Gabrieli Francesco, La colonia saracena di Lucera e la sua fine, in Archivio Storico Pugliese, Anno XXX, fasc. I-IV 1997, 169-175; Giovanni Damasceno, Controversia tra un Saraceno e un Cristiano, Centro Ambrosiano, Milano 1998; Giovanni Damasceno, La centesima eresia, Centro Ambrosiano, Milano 1997; Giovanni Paolo II, Insegnamenti, LEV, Città del Vaticano 1987, vol. IX,2; González Fernández Fidel, Daniele Comboni e la rigenerazione dell’Africa. Piano, postulatum, regole, Urbaniana University Press, Città del Vaticano 2003; Heyberger Bernard, L’islam dei missionari cattolici (Medio Oriente, Seicento), in B. Heyberger, M. Garcia-Arenal, E. Colombo, P. Vismara, L’Islam visto da Occidente: cultura e religione del seicento europeo di fronte all’Islam, Marietti 1820, Genova 2009, 289-314; Hoeberichts Jan, Francesco e l’Islam, Ed. Messaggero, Padova 2002; Ianari Vittorio, Lo stivale nel mare, Guerini e Associati, Milano 2006; Ibn Gubayr, Viaggio in Sicilia e in altri paesi del Mediterraneo, Sellerio, Palermo 1981; Leoni Alberto, La croce e la mezzaluna, Edizioni Ares, Città di Castello (PG) 2002; Mansur Baudo ‘Abd al Hayy, La storia dell’Islam in Italia, in Associazione Italiana Internazionale per l’Informazione sull’Islam (a cura di), L’Islam e l’Italia, La Sintesi Editrice, Milano 1996, 117-124; Martini Carlo Maria, Noi e l’Islam, in Comunicare nella Chiesa e nella società, EDB, Bologna 1991, 609-623; Monaco Massimiliano, Agostino da Traù, Edizioni Terzo Millennio, Foggia 2001. Data la difficoltà di reperire il testo, segnaliamo anche una sua versione online: https://books.google.it/books?id=zpntu9EKdMkC&printsec=frontcover&hl=it#v=onepage&q&f=false; Nanni Stefania, Figure dell’impero turco nella Roma del Seicento, in B. Heyberger, M. Garcia-Arenal, E. Colombo, P. Vismara, L’Islam visto da Occidente: cultura e religione del seicento europeo di fronte all’Islam, Marietti 1820, Genova 2009, 187-213; Negri Augusto Tino, I cristiani e l’islàm in Italia, Elledici Torino 2001; Pacini Andrea, Chiesa e Islam in Italia, Paoline, Milano 2008; Pallavicini Yahya Sergio Yahe, L’Islam in Europa, Il Saggiatore, Milano 2004; Pedani Maria Pia, Oltre la retorica: il pragmatismo veneziano di fronte all’Islam, in B. Heyberger, M. Garcia-Arenal, E. Colombo, P. Vismara, L’Islam visto da Occidente: cultura e religione del seicento europeo di fronte all’Islam, Marietti 1820, Genova 2009, 171-185; Perotti Barra Giancarla, Sposare un musulmano, Effatà Editrice, Grugliasco (TO) 2001; Pizzo Paola e Gutterez Valeria, I Cristiani e l’Islam, rivista Sette e Religioni 8, ESD, Bologna 1996; Romanato Gianpaolo, L’Africa nera fra Cristianesimo e Islam, l’esperienza di Daniele Comboni, Corbaccio, Milano 2003; Romanato Gianpaolo, L’Italia fuori d’Italia: le missioni, in Acerbi Antonio, La Chiesa e l’Italia, Vita e Pensiero, Milano 2003, 341-364; Rizzi Giovanni, Da Lepanto a Passarowitz: echi dello scontro con gli Ottomani sulla religiosità e la cultura popolare in Italia, in B. Heyberger, M. Garcia-Arenal, E. Colombo, P. Vismara, L’Islam visto da Occidente: cultura e religione del seicento europeo di fronte all’Islam, Marietti 1820, Genova 2009, 159-169; Rizzi Massimo, Le prime traduzioni del Corano in Italia: contesto storico e attitudine dei traduttori, L’Harmattan Italia, Torino 2007; Rizzitano Umberto, Gli Arabi in Italia, in Centro Italiano di Studi sull’Alto Medioevo, L’Occidente e l’Islam nell’Alto Medioevo, Arti Grafiche Panetto & Petrelli, Spoleto 1965; Silvano Carlo, Cristiani e musulmani, Edizioni del noce, Villa del Conte (PD) 2003; Schiapparelli Celestino,‘Al ’Umari: notizie d’Italia, Tipografia della Reale Accademia dei Lincei, Roma 1888; Stasolla Maria Giovanna, Gli Arabi nella penisola italiana, in Accademia Nazionale dei Lincei, Giornata di studio: testimonianze degli Arabi in Italia, A. tip. Eredi dott. G. Bardi S.r.l., Roma 1988, 77-94; Tragella Giovanni Battista, L’impero di Cristo: le missioni cattoliche nel mondo, La Nuova Italia, Firenze 1941; Tramontana Salvatore, Sant’Agata e la religiosità della Catania normanna, in Zito Gaetano (a cura di), Chiesa e società in Sicilia vol. I, Società Editrice Internazionale, Torino 1995, 189-202; Vanni Rovighi Sofia, Introduzione a Tommaso D’Aquino, Laterza2, Bari 1981; Ventura Alberto, Gli Arabi in Italia, in Accademia Nazionale dei Lincei, Convegno sul tema: Fenici e Arabi nel Mediterraneo, La Roccia, Roma 1983,193-207; Vismara Paola, Conoscere l’Islam nella Milano del Sei-Settecento, in B. Heyberger, M. Garcia-Arenal, E. Colombo, P. Vismara, L’Islam visto da Occidente: cultura e religione del seicento europeo di fronte all’Islam, Marietti 1820, Genova 2009, 215-252; Zatti Giuliano, L’Islam d’Italia, racconto di un percorso, in Islamochristiana, 33/2007, 163-197; Zonta Bernardo, I matrimoni tra cattolici e musulmani, in Communio, 147 (1996), 66-81.
La dichiarazione conciliare Gravissimum educationis (ottobre 1965), n. 10 («Nelle università cattoliche, in cui manchi la facoltà teologica, dovrà esserci un istituto o cattedra di sacra teologia, in cui si tengano lezioni adatte anche per gli studenti laici») e la costituzione Gaudium et spes, 62 («È anzi desiderabile che molti laici acquistino una conveniente formazione nelle scienze sacre e che non pochi tra loro si diano di proposito a questi studi e li approfondiscano con mezzi scientifici adeguati») hanno aperto anche ai laici lo studio della teologia, ponendo le premesse per un superamento del monopolio clericale. Per quanto a tutt’oggi non siano ancora state istituite vere e proprie facoltà teologiche nelle università statali, e neppure nell’Università cattolica di Milano, l’impulso del Concilio ha favorito il sorgere di varie iniziative destinate ai laici. Mons. Enrico. Bartoletti promosse, mediante il “Progetto donna” (1972), la partecipazione di giovani donne allo studio della teologia: per esse mons. Gualdrini, rettore del Collegio Capranica, avviò nel 1974 il convito di Villa S. Cecilia a Vitinia (Roma).
Sorsero inoltre scuole diocesane di teologia indirizzate in modo peculiare ai laici, come quella di Bologna (nata nel 1977), che si caratterizzò per una spiccata attenzione allo studio della Scrittura, della liturgia e della storia della Chiesa locale. Dopo la revisione del Concordato (1984) e la promulgazione, da parte della Congregazione per l’Educazione Cattolica, di una Nota illustrativa (10 aprile 1986) e di una Normativa (12 maggio 1987) tali scuole si trasformarono in veri e propri Istituti di scienze religiose, destinati prevalentemente alla formazione professionale degli insegnanti di Religione, che in base alle nuove norme dovevano dotarsi di un preciso titolo di studio, oltre che di diaconi e ministri istituiti; ed in conformità al cosiddetto Processo di Bologna (avviato nel 1999 con lo scopo di costruire nell’arco di un decennio uno spazio europeo dell’istruzione superiore) essi assunsero una più precisa configurazione come “Istituti superiori di scienze religiose” (ISSR), strettamente raccordati alle facoltà teologiche regionali, che ne garantiscono il livello accademico e conferiscono i titoli di studio, ed alla Congregazione per l’Educazione Cattolica. Come previsto dall’Istruzione sugli Istituti superiori di scienze religiose” (28 giugno 2008), che ha riorganizzato la struttura e il curriculum formativo degli ISSR adottando il modello 3+2, i corsi sono articolati in un triennio, al termine del quale lo studente consegue il Baccalaureato in Scienze Religiose, ed in un biennio finale (spesso suddiviso in diversi indirizzi, ad esempio pedagogico-didattico e pastorale-liturgico), che conferisce la Licenza in Scienze Religiose. Secondo tale Istruzione gli ISSR hanno «lo scopo di: promuovere la formazione religiosa dei laici e delle persone consacrate, per una loro più cosciente e attiva partecipazione ai compiti di evangelizzazione nel mondo attuale, favorendo anche l’assunzione di impieghi professionali nella vita ecclesiale e nell’animazione cristiana della società; preparare i candidati ai vari ministeri laicali e servizi ecclesiali; qualificare i docenti di religione nelle scuole di ogni ordine e grado, eccettuate le Istituzioni di livello universitario». Ad un livello più divulgativo rispetto agli ISSR si collocano le scuole diocesane di formazione teologica, che, talora decentrate a livello vicariale, intendono offrire una formazione teologica di base a quanti desiderano approfondire i contenuti della fede e qualificare il proprio servizio ecclesiale come catechisti, educatori, operatori pastorali, ministri istituiti.
Come ha osservato G. Canobbio (Figure, 210), gli ISSR non sono in genere veri centri di ricerca teologica, con l’eccezione dell’Istituto trentino di cultura (sorto nel 1962 e dal 2007 denominato Centro di scienze religiose della Fondazione Bruno Kessler) e dell’Istituto superiore di scienze religiose “Italo Mancini” di Urbino (sorto nel 1969, sotto l’impulso determinante del rettore della libera Università di Urbino, Carlo Bo, con l’obiettivo ambizioso, poi realizzato solo in parte, di far entrare la teologia dentro l’università pubblica): questi due Istituti non dipendono giuridicamente da Facoltà teologiche né da università statali, per cui possono favorire un’interazione tra la ricerca attuata in quei due diversi ambiti. L’Istituto di Urbino, pensato da Mancini come «una comunità di formazione e ricerca» (è il titolo di una lettera da lui inviata ai membri dell’Istituto nel marzo 1982), cura la pubblicazione della rivista «Hermeneutica», ed ha ottenuto dalla Congregazione per l’Educazione Cattolica, nel quadro di un’intesa fra l’Arcidiocesi e l’Università degli Studi di Urbino “Carlo Bo”, il riconoscimento del Corso biennale di alta specializzazione in Scienze religiose, finalizzato alla formazione di insegnanti di Religione Cattolica altamente qualificati; alla promozione del dialogo ecumenico e interreligioso, fondato su un’approfondita conoscenza delle religioni; ed alla ricerca scientifica nel campo delle scienze religiose e teologiche. Non è stata invece sinora attivata una vera e propria facoltà di teologia presso l’Università cattolica del S. Cuore, nonostante siano state avanzate diverse proposte in questa direzione,.
Il Centro di Documentazione (ora Fondazione per le Scienze religiose Giovanni XXIII) di Bologna, fondato nel 1953 da Giuseppe Dossetti d’intesa col card. Lercaro ma autonomo nei confronti della gerarchia ecclesiastica, e dotato di una ricca biblioteca, costituisce un importante centro di ricerca storica, teologica, patristica, esegetica ed un luogo di incontro di studiosi di rilevanza internazionale: a lungo coordinato da Giuseppe Alberigo, prima e durante il Vaticano II fu una sorta di officina che predispose importanti materiali per i dibattiti conciliari, e negli anni ’80-90 promosse la pubblicazione della fondamentale Storia del concilio Vaticano II (5 voll., Bologna, Il Mulino, 1995-2001). Attraverso vari passaggi l’Associazione per lo sviluppo per le scienze religiose si strutturò a partire dal 1985 nell’attuale Fondazione, riconosciuta con DPR 6-04-1990.
Fonti e Bibl. essenziale
G. Leonardi, Scuole di teologia per laici nel Triveneto: esperienze e prospettive, in «Rassegna di teologia», 5 (1980), 345-408; Conferenza episcopale triveneta- Commissione per le scuole di teologia per laici, Indicazioni programmatiche per le scuole di teologia per laici del Triveneto: 4 febbraio 1982, Tipografia regionale veneta, Conselve, 1982; P. Vanzan – S. Tanzarella (edd.), Nuovi orizzonti per la formazione dei laici: guida per gli istituti di scienze religiose e altre scuole: normative e riflessioni, AVE, Roma, 1989; V. Battaglia – C.M. Sersale (edd.), Gli istituti di scienze religiose nella Chiesa: per uno statuto epistemologico. Una ricerca inter e transdisciplinare, Dehoniane-Antonianum, Bologna-Roma, 1990; Comitato per gli Istituti di scienze religiose, Gli Istituti di scienze religiose a servizio della fede e della cultura : nota illustrativa e normativa, edizioni Paoline, Milano, 1993; D. Menozzi, Le origini del Centro di Documentazione (1952-1956), in A. e G. Alberigo (edd.), Con tutte le tue forze. I nodi della fede cristiana oggi. Omaggio a Giuseppe Dossetti, Marietti, Genova, 1993, 333-369; F. Trudu (ed.), Religione cultura laicità: il contributo degli Istituti superiori di scienze religiose al dialogo culturale in Italia, Atti del Convegno di studio dell’Istituto Superiore di Scienze Religiose di Cagliari nel 25 di fondazione (1972-1997), Istituto superiore di scienze religiose, Cagliari, 1998; M. Marcheselli-G. Matteuzzi (edd.), Laici e teologia: i vent’anni di una scuola a Bologna, 1977-1997, EDB, Bologna, 1998; S. Miccoli (ed.), L’Istituto superiore di scienze religiose Italo Mancini, 1979-1999: vent’anni di teologia nell’Università, Quattro venti, Urbino, 2000; G. Alberigo (ed.), L’officina bolognese, 1953-2003, EDB, Bologna, 2004; Congregazione per l’Educazione cattolica (dei Seminari e degli Istituti di studi), Istruzione sugli Istituti Superiori di Scienze Religiose, Città del Vaticano, Libreria editrice Vaticana, 2008; G. Canobbio, Figure, tappe, fattori, novità e contesti delle scienze teologiche in Italia, in P. Ciardella – A. Montan (edd.), Le scienze teologiche in Italia a cinquant’anni dal concilio Vaticano II. Storia, impostazioni metodologiche, prospettive, Elledici, Leumann (Torino), 2011, 195-212.
La nascita degli istituti secolari in Italia. La possibilità di condurre una vita consacrata nel mondo, senza vita comune e senza abito religioso, era già stata ventilata in Italia da Caterina Volpicelli (1839-1894) che, attorno agli anni 1880, aveva chiesto alla S. C. dei Vescovi e Regolari che le sue Ancelle del Sacro Cuore, fondate a Napoli su influsso francese, potessero essere approvate in due rami, uno interno e uno esterno. Orientata, però, a definire la struttura della congregazione religiosa, per la quale erano previsti la vita comune, un apostolato specifico e un abito religioso, la S. C. dei Vescovi e Regolari non volle riconoscere questa nuova esperienza di vita religiosa, e con il decreto Ecclesia catholica del 1889 sancì che queste istituzioni non sarebbero state riconosciute come “religiose”, ma solo come pie unioni, sempre a condizione che esse si facessero conoscere ai loro vescovi e dipendessero da loro.
Si sa, però, che il modello di donne “esterne” che volevano vivere come religiose ebbe numerose imitazioni nei primi decenni del secolo XX con le Apostole del Sacro Cuore, fondate a Milano nel 1919 dal gesuita Ernesto Busnelli; con le Terziarie francescane del regno sociale del Sacro Cuore (poi Missionarie della Regalità di Nostro Signore Gesù Cristo), fondate nel 1919 ad Assisi da Armida Barelli e Agostino Gemelli; con la Compagnia di San Paolo, fondata nel 1920 a Milano da don Giovanni Rossi; con le Filiae Reginae Apostolorum (FRA) avviate nel 1921, dopo un decennio di esitazioni, da Elena da Persico; con la Unio Filiarum Dei, fondata nel 1924 da Ippolita Teresa Eranci; con le Oblate di Cristo Re, fondate nel 1924 a Chiavari dal p. Enrico Mauri; con le Figlie dei Sacri Cuori di Gesù e di Maria, fondate nel 1924 a Bitonto da Anna De Renzio; con le Ancelle Mater Misericordiae fondate nel 1926 a Macerata; con la Piccola Famiglia Francescana, fondata a Brescia nel 1929; con le Oblate del Sacro Cuore di Gesù, fondate a Cremona nel 1932; con le Missionarie degli Infermi fondate nel 1936; con le Piccole Apostole della carità, fondate nel 1938; con le Missionarie del sacerdozio regale fondato nel 1945; e con tanti altri istituti ancora sino a raggiungere, nel 2010, il numero di 74 istituti secolari italiani, cioè circa un terzo di tutti gli istituti secolari di diritto pontificio e di diritto diocesano sparsi nel mondo (circa 210 nel 2010) e dipendenti dalla Congregazione per gli istituti di vita consacrata e le società di vita apostolica.
L’interesse di conoscere gli istituti secolari italiani, però, più che dal loro notevole numero, è dato soprattutto dal contributo che essi hanno offerto alla configurazione della struttura dell’istituto secolare che, sicuramente sin verso il 1940, tendeva a essere inserito nelle strutture della vita religiosa propriamente detta.
Di fatto, pur coinvolgendo anche le donne in un progetto comune, la Compagnia di S. Paolo evitava accuratamente qualsiasi promiscuità nel campo apostolico e proibiva espressamente alle donne di svolgerlo insieme con gli uomini e i giovani della Compagnia. Queste misure non furono ritenute sufficienti dalla S. C. dei Religiosi e si arrivò alla decisione di dividere nettamente le due sezioni, una maschile e l’altra femminile, su un modello religioso.
Elena da Persico dovette assistere alla scissione del suo istituto a seguito dell’intervento del gesuita p. Giuseppe Petazzi, direttore spirituale di alcune sodali dell’istituto. Il gesuita dichiarò alla fondatrice che la S. Sede non avrebbe mai approvato il suo progetto di istituto con membri che emettevano voti nel mondo senza essere sottoposti all’autorità di un direttore spirituale sacerdote. Al gesuita sembrava inoltre impossibile un apostolato individuale, non determinato dall’istituto, così come gli sembrava in contrasto con la carità un apostolato extrafamiliare, e altre particolarità di vita che egli voleva ricondurre alla vita religiosa. La conclusione fu che si addivenne alla costituzione (nel 1931) di un nuovo istituto secolare, le Ancelle della Madre di Dio, sotto la guida del p. Petazzi e del tutto indipendente dalle Filiae Reginae Apostolorum.
Qualche cosa del genere avvenne quando le Apostole del Sacro Cuore chiesero di poter essere riconosciute come istituzione con voti, e ricevettero la risposta che ciò non era possibile, non avendo esse la vita comune.
Inoltre, quando le Missionarie della Regalità di Armida Barelli e Agostino Gemelli chiesero un’approvazione pontificia, vennero sottoposte alla S. C. del Concilio, e sono note le loro traversie per ottenere un riconoscimento della loro vita di consacrazione a Dio come “laiche”. Il loro statuto fu respinto due volte, e solo nel 1945 la S. C. del Concilio si dichiarò disposta ad approvarlo, a condizione però che venissero esclusi i voti e conservato il solo voto di castità come voto privato dei singoli membri, con notevole disappunto delle Missionarie, che si ritenevano “religiose nel mondo”. E fu solo nel 1948, chiarite le questioni, che le Missionarie furono riconosciute come istituto secolare di diritto pontificio alle dipendenze della S. C. dei Religiosi,
Di particolare interesse è l’esame di quanto avvenuto ai Missionari della Regalità del p. Gemelli. Ritenendo, infatti, che la struttura di questo istituto fosse troppo legata alla vita della Università Cattolica, con ripercussioni sui membri stessi dell’istituto, Giuseppe Lazzati ritenne opportuno uscirne, nel 1938, con l’appoggio dell’allora arcivescovo di Milano Ildefonso Schuster, dando vita a un nuovo istituto secolare, inizialmente denominato “Milites Christi Regis” e attualmente “Cristo Re”. La conclusione fu, per tutti gli istituti secolari, che essi non potevano essere giuridicamente legati a un’opera specifica come gli istituti religiosi.
La novità degli istituti secolari italiani appare ancor più evidente se la si raffronta con il primo istituto secolare di diritto pontificio riconosciuto dalla Chiesa, l’Opus Dei, considerato modello di tutti gli istituti secolari, il quale però riconosceva come propri membri solo quelli che vivevano una vita in comune, esattamente il contrario di quanto chiedevano, tra gli altri, p. Gemelli, Armida Barelli, Elena da Persico, Giuseppe Lazzati.
Una ulteriore chiarificazione si ebbe quando, dopo l’inchiesta svolta nel 1976 circa la presenza (discussa anche tra gli istituti secolari italiani) di sposati negli istituti secolari da parte della Congregazione per i religiosi e gli istituti secolari, Lazzati ribadì che era proprio nella natura dell’istituto secolare, in quanto forma di vita consacrata, esigere il celibato.
Fondatori e fondatrici. Se si considerano i fondatori e le fondatrici degli istituti secolari italiani, si può osservare che una trentina di essi hanno alle loro origini un sacerdote, diocesano o religioso, e tra questi ultimi figurano sicuramente 5 gesuiti. Ciò significa che la spinta verso un nuovo “stato di perfezione” era stata avvertita da molti sacerdoti, mossi soprattutto dall’intento di poter intervenire nella società, in un momento in cui nello Stato italiano vigevano ancora le leggi generali di soppressione emanate nel 1866 ed estese a Roma nel 1873 (il Concordato è del 1929), e si notavano i limiti dell’opera degli istituti religiosi propriamente detti.
Questa sensibilità era ovviamente maggiore in quelle fondatrici di istituti secolari che provenivano da ambienti di notevole cultura, come Armida Barelli, o Anna De Renzio, lauretasi in lettera nel 1912 a Padova, o Germana Sommaruga e Angela Milani, laureatesi entrambe alla Università Cattolica di Milano.
La presenza di molti sacerdoti come fondatori o guide di istituti secolari era data anche dalla convinzione, abituale in quel tempo, che i sodalizi, anche laicali, dovessero essere diretti da sacerdoti, e come affermava p. Gemelli propagandando il suo sodalizio dei Missionari della Regalità nel 1929, “non potrebbe essere diversamente, perché ad essi Iddio ha affidato la cura del governo delle anime”(Una parola amica…, Milano, 1929, 21, pro ms.).
Lo sviluppo degli istituti secolari italiani. Gli istituti secolari italiani non sono solo un terzo circa di tutti gli istituti secolari presenti nel mondo, ma rappresentano anche un terzo circa dei membri di tutti gli istituti secolari. Nel 1973, di fatto, essi erano poco oltre 12.000 a fronte di un totale di membri di circa 26.000 in Europa e di circa 32.000 nel mondo intero.
Presenza di istituti secolari italiani in Italia e nel mondo | |||
Italia | Mondo | ||
anni | 1973 | 1988 | 2010 |
Missionarie della Regalità | 3.351 | 3.247 | 2.258 |
Apostole del Sacro Cuore | 741 | 557 | 410 |
Ancelle della Divina Misericordia | 678 | 498 | 166 |
Oblate di Cristo Re | 676 | 723 | 515 |
Figlie della Regina degli Apostoli (FRA) | 570 | 462 | 298 |
Volontarie di don Bosco | 342 | 341 | 1270 |
Missionarie degli infermi | 225 | 229 | 273 |
Figlie dei Sacri Cuori di Gesù e Maria | 211 | 160 | 63 |
Piccole Apostole della Carità | 205 | 224 | 259 |
Missionarie del sacerdozio regale | 162 | 143 | 103 |
Piccola Famiglia Francescana | — | 952 | 680 |
Ancelle Mater Misericordiae | — | 572 | 507 |
Le statistiche relative al 1973 si riferiscono unicamente all’Italia e sono desunte dal DIP 10 (2003) 875-886.
Le statistiche relative all’anno 1988 si riferiscono unicamente all’Italia e sono desunte da un “Questionario” inviato a tutti gli istituti sparsi nel mondo, conservato nella Segreteria di Stato Vaticana, Ufficio centrale di statistica della Chiesa.
Le statistiche relative all’anno 2010 indicano il numero dei membri dei singoli istituti in tutto il mondo e sono desunte da Sequela Christi, n.s., 37 (2011/2), numero speciale dedicato agli istituti secolari, pag. 181-200 per le statistiche.
Non si possono tuttavia dimenticare alcuni istituti secolari che, fondati all’estero, in Italia hanno trovato particolare sviluppo, come l’Opus Dei (in particolare nelle sue case di Roma, Milano, Palermo, Verona ecc.), con oltre 100 membri in Italia già verso il 1950; l’istituto secolare francese Caritas Christi con 131 membri in Italia nel 1973, e la spagnola Istituzione Teresiana (in quegli anni ancora istituto secolare prima di passare alle dipendenze del Pontificio consiglio per i laici come associazione internazionale laicale) con 205 membri in Italia nel 1973.
Lo scarso sviluppo degli istituti secolari sacerdotali italiani si deve alla difficoltà di conciliare la vita di un sacerdote diocesano nei suoi vari aspetti di dipendenza dal vescovo e di completezza della sua vita spirituale, con quella di un sacerdote diocesano che, in qualche modo, aveva un punto di riferimento diverso dal vescovo e una vita spirituale che poggiava su altri elementi.
Presenza di istituti secolari sacerdotali in Italia e nel mondo | ||
Italia | Mondo | |
anni | 1973 | 2010 |
Servi della Chiesa (Reggio Emilia) | — | 69 |
Sacerdoti Missionari della Regalità (Arezzo) | 327 | 314 |
Società dei Sacerdoti del Sacro Cuore di Gesù (Parigi) | 26 | 557 |
Le statistiche relative al 1973 si riferiscono unicamente all’Italia e sono desunte dal DIP 10 (2003) 875-886.
Le statistiche relative all’anno 2010 indicano il numero dei membri dei singoli istituti in tutto il mondo e sono desunte da Sequela Christi, n.s., 37 (2011/2), numero speciale dedicato agli istituti secolari, pag. 181-200 per le statistiche.
Queste due difficoltà si trovavano chiaramente espresse nel 1959 dall’allora card. Montini, per il quale non era “ammissibile che sacerdoti diocesani… assumano altra obbedienza avvalorata da un voto… dipendente da un superiore diverso dal vescovo; … [avvalorando] l’opinione che il clero diocesano manchi d’una spiritualità sufficiente per soddisfare le aspirazioni delle anime sacerdotali desiderose di perfezione…” (dal “Folium” datato 31 marzo 1959 trasmesso alla Pontificia Commissione dei Religiosi preparatoria al Concilio Vaticano II: Subcommissio mixta de institutis saecularibus sacerdotum dioecesanorum).
Le attività. Volendo agire nella società, in tutti gli ambiti possibili, diveniva fondamentale anche per gli istituti secolari italiani la questione del riserbo o segreto. Per le sue Missionarie della Regalità e poi anche per i suoi Missionari, p. Gemelli impose subito l’obbligo del segreto, proprio per facilitare l’opera di penetrazione che essi si ripromettevano di compiere.
Comunque, a parte i casi, ben noti, della Compagnia di San Paolo, che si dedicò a molteplici opere nel campo dell’assistenza agli operai, dell’istruzione, delle missioni, dei pellegrinaggi, dell’editoria, e di Giuseppe Lazzati, fondatore dell’istituto secolare “Cristo Re”, che notevole ruolo svolse nella società italiana, si possono ricordare molti altri esempi di membri di istituti secolari attivi in Italia: Elsa Conci, delle FRA, che nel 1945 diede vita al movimento politico delle donne, venne eletta nel 1946 deputato alla Costituente nella liste della Democrazia Cristiana, e fu sempre rieletta nelle successive elezioni; Anna Sciarra, delle Missionarie della Regalità, più volte consigliere del comune di Teramo; Lucia Schiavinato, consigliere provinciale di Venezia nelle liste della Democrazia Cristiana; Elena da Persico, eletta nel 1946 consigliere provinciale della Democrazia Cristiana di Verona e consigliere comunale di Affi (Verona), dove risiedeva; Ezia Fiorentino, vice presidente (anni 1957-1966) dell’Ente comunale assistenza a Milano; Eugenia Govi, delle FRA, direttrice della Biblioteca Nazionale Marciana di Venezia e della Biblioteca universitaria di Padova; Vittoria Quarenghi, dell’istituto secolare “Caritas Christi”, entrata in politica nel 1976 e rimastavi sino alla morte, avvenuta nel 1984; e Maria Badaloni, delle Missionarie della Regalità.
Tra le opere sostenute da istituti secolari particolarmente nota è l’associazione “La nostra famiglia”, legata alle Piccole Apostole della Carità, con sede centrale a Ponte Lambro (Como), aperta nel 1948 e con centri di riabilitazione per bambini irregolari psichici, fisici, sensoriali, presenti in varie regioni italiane e riconosciuta giuridicamente con decreto presidenziale nel 1958. Questo particolare impegno ha comportato per le Piccole Apostole della Carità una vita di famiglia, in nuclei di vita e di lavoro.
Il riconoscimento civile degli istituti secolari. Dopo l’approvazione degli istituti secolari con la Provida Mater del 1947, in ambito civile si discusse se essi potessero essere riconosciuti anche dallo Stato italiano. La tesi affermativa fu quella preponderante ed ebbe la convalida con il riconoscimento, nel 1952, della Provincia Italiana della Società Sacerdotale della Santa Croce o Opus Dei, in quegli anni ancora istituto secolare. Dopo il Concordato del 1984 la questione riemerse con la richiesta del riconoscimento civile della Compagnia missionaria del Sacro Cuore, allora istituto secolare di diritto diocesano con sede a Bologna. Il parere del Consiglio di Stato fu favorevole e il riconoscimento venne poi concesso ad altri istituti secolari.
Fonti e Bibl. essenziale
Organizzazione e statistiche. Attualmente gli istituti secolari italiani sono organizzati nella Conferenza Italiana degli Istituti secolari (CIIS), che pubblica il bimestrale Incontro, e le statistiche che li riguardano, complessive per nazioni, sono regolarmente pubblicate nell’Annuarium Statisticum Ecclesiae. La bibliografia sugli istituti secolari italiani si trova raccolta in F. Morlot, Biblographie sur instituts séculiers (années 1891-1972), in Commentarium pro religiosis 54 (1973) 231-297, 354-362. Molti particolari, inoltre, in Sequela Christi 37 (2011), con i fascicoli 1 e 2 dedicati agli istituti secolari. Una sintesi, con informazioni riguardanti però anche altri istituti religiosi, in A. Parola, I laici “fondatori”, in Cristiani d’Italia. Chiese, società, Stato, 1861-2011, a cura di A. Melloni, vol. II, Roma, Istituto della Enciclopedia italiana, 2011, 1001-1011. In rapporto alla storia della vita consacrata e della emancipazione femminile: G. Rocca, Donne religiose. Contributo a una storia della condizione femminile in Italia nei secoli XIX-XX, in Claretianum 32 (1992) 5-320 (come estratto, con Appendice, Bibliografia e Indici: Roma, [Edizioni Paoline], 1992. Circa la presenza di sposati negli istituti secolari: G. Rocca, La “consacrazione” dei coniugi, in L’identità dei consacrati nella missione della Chiesa e il loro rapporto con il mondo, a cura dell’Istituto “Claretianum”, Libreria Editrice Vaticana, 1994, 375-418. Per la presenza degli istituti secolari nella diocesi di Padova: G. Di Gioia, Istituti secolari oggi. Un’identità difficile? (indagine conoscitiva), Padova, Cleup, 1990. Per il riconoscimento degli istituti secolari da parte dello Stato italiano: G. Di Mattia, Gli istituti secolari e la qualifica di enti ecclesiastici civilmente riconosciuti. A proposito del Parere del Consiglio di Stato, Sezione Prima, 13 dicembre 1989, n. 2090/89, in Apollinaris 63 (1990) 655-679. Per la storia dei singoli istituti secolari e loro fondatori, con bibliografia, cf le rispettive voci nel DIP, mentre per un rapido elenco cf l’Annuario Cattolico d’Italia, ai vari anni.