Associazione Italiana dei Professori di Storia della Chiesa

Dizionario Storico Tematico La Chiesa in Italia
Dalle origini all'Unità Nazionale
Roma 2015
Copyright © 2015

Liberalismo - vol. I


Autore: Gennaro Cassiani

Il liberalismo, le matrici filosofiche del quale si riconoscono nelle tradizioni giusnaturaliste e contrattualiste e nella dottrina della divisione e dell’equilibrio dei poteri dello Stato, può dirsi una dottrina dei limiti del potere civile, tutrice dei diritti naturali e delle libertà individuali.

Alla fine del Settecento, nella cornice dell’Illuminismo e della fioritura degli ideali di tolleranza, libertà ed eguaglianza, i paradigmi del liberalismo promossero le rivendicazioni del terzo stato e ispirarono l’erosione dei secolari privilegi delle aristocrazie e del clero, inducendo il tramonto dell’edificio politico-istituzionale di antico regime. Contrapposto all’assolutismo dinastico rinato dalle sue ceneri e fortemente critico rispetto all’esperienza della democrazia giacobina, il movimento liberale ispirò i moti insurrezionali tesi a ottenere garanzie giuridiche e costituzionali da parte dei sovrani della Restaurazione. Dall’ispirazione a coniugare cristianesimo, libertà individuale e democrazia parlamentare, trasse alimento la corrente di pensiero del cattolicesimo-liberale, che ha in Hugues-Félicité Robert de Lamennais, il suo più significativo esponente.

Caratterizzati da un consenso più o meno ampio verso le dottrine socio-politiche del liberalismo, gli assunti del cattolicesimo liberale (libertà di coscienza, di culto, di insegnamento, di stampa, di associazione; allargamento del diritto di voto; decentramento amministrativo; difesa del principio di nazionalità rispetto al legittimismo), accolti con entusiasmo in ristretti circoli del clero e del milieu politico-culturale transalpino, ma osteggiati dalla maggior parte dell’episcopato e degli stessi fedeli francesi, incontrarono le solenni censure di Gregorio XVI, nell’enciclica Mirari vos (1832). Il pontefice sconfessò la necessità di un rinnovamento della Chiesa; riaffermò l’indissolubilità del matrimonio e il celibato ecclesiastico; condannò l’indifferentismo religioso che negava il principio «Extra Ecclesiam nulla salus»; sanzionò le pretese della libertà di coscienza, di pensiero e di stampa. Censurò altresì la teoria del separatismo, in base al quale l’ordine politico-civile-temporale e l’ordine spirituale-religioso-soprannaturale sono del tutto separati e Stato e Chiesa sono chiamati a convivere nei termini della formula coniata da Montalembert «Ecclesia libera in libera patria». La Mirari vos ribadì inoltre il dovere di sottomissione dei sudditi ai legittimi sovrani e l’obbligo degli Stati di proteggere la Chiesa.

Rispetto a quello francese, al cattolicesimo liberale italiano appartenne un carattere più composito, dalle intonazioni diverse, contraddistinto dal connubio tra passione patriottica e fede cristiana, componente organica del paradigma d’identità nazionale che echeggia nella manzoniana «una d’arme, di lingua, d’altare, di memorie, di sangue, di cor». Il cattolicesimo liberale italiano espresse l’anelito a conciliare fede e libertà e giustizia sociale in nome di una religiosità autentica. Il movimento si mosse, almeno inizialmente, su un terreno letterario e storico (Troya, Cantù, Manzoni): si mantenne su posizione prudenti, pur respingendo la strumentalizzazione politica della religione e l’alleanza fra trono e altare. In un secondo momento, a valle della maturazione della coscienza nazionale di una parte considerevole della borghesia e dell’aristocrazia progressista, passò invece alla riflessione più esplicitamente politica.

Nell’alveo del cattolicismo liberale italiano è inscritto il neoguelfismo giobertiano che, attraversato dalla polemica con la Compagnia di Gesù, identificata come primario avversario della conciliazione fra liberalismo e Santa Sede, anela a una confederazione di Stati italiani sotto l’egida del papa. Parimenti partecipe della prospettiva cattolico-liberale è la visione antidogmatica, nutrita dall’aspirazione a una profonda riforma della Chiesa e tesa a una sintesi tra cattolicesimo e libertà che permea il pensiero di Raffaele Lambruschini. Istanze, sia pur più generiche, di riforma dell’istituto ecclesiastico, di correzione di abusi, di purificazione del culto e di distacco dal temporalismo traspaiono altresì nella produzione di Nicolò Tommaseo, raro esponente italiano di un cattolicesimo dalle venature radicali e socialisteggianti, vagheggiatore di una libertà conquistata per iniziativa popolare e in nome di una fede tornata alle origini evangeliche.

Sia in Lambruschini che in Antonio Rosmini, l’idea che l’Italia dovesse al papato la sua funzione preminente nella civiltà europea del Medioevo, una missione di civiltà da rilanciare attraverso una sintesi fra i valori religiosi e i principi di libertà e di progresso civile, si intreccia con l’aspirazione a una riforma delle istituzioni ecclesiastiche. Se però Lambruschini, nella sua pietà sentimentale, si limitò ad aspirare a un minimalismo dogmatico che liberasse la Chiesa dai pesi del formalismo e del temporalismo, nell’analisi di Rosmini spiccano giudizi severi e prospettive riformatrici assai nette. Nel volume Delle Cinque piaghe della Santa Chiesa (1848), il roveretano invoca una Chiesa profondamente rinnovata in senso religioso e giuridico; liberata dai vincoli contratti nei secoli dell’antico regime e che condividesse sino in fondo la condizione dei poveri e degli esclusi. Rosmini si spinge sino ad auspicare il ritorno al metodo della prima cristianità che eleggeva i vescovi; la restituzione ai fedeli dei poteri di controllo sull’amministrazione dei beni ecclesiastici e la destinazione delle rendite di questi ultimi a finalità caritative. In Rosmini, il principio di carità è in relazione con la vita religiosa come il principio di libertà con la vita politica.

Nel 1850 – a valle del soffocamento della Repubblica romana per mano francese – con l’avvio della reazione nello Stato della Chiesa e l’esaurimento della mitologia di Pio IX pontefice liberale ed antiaustriaco, sull’aspirazione cattolico-liberale a un connubio tra patria e religione calò il sipario. Svanita l’illusione di saldare il programma nazionale con gli ideali del cattolicesimo tradizionalista, il lascito dell’idea neoguelfa favorì il superamento dell’inerzia delle forze che ambivano a una rinascita civile pur rifiutando la prospettiva della rivoluzione. Ne guadagnarono in coesione le tendenze riformiste riconducibili ad esempio, nell’area toscana, ad aristocratici come Capponi, Ridolfi e Ricasoli o, in ambito piemontese, a D’Azeglio e a Balbo, i quali si collocavano sulla scia del pensiero di Gioberti, pur non riconoscendosi del tutto nelle tesi dell’abate.

Nel corso degli anni decisivi in vista del completamento del processo di unificazione nazionale, la contrapposizione fra Stato e Chiesa coniugata al rovello della Questione romana, alimentò l’antagonismo tra il liberalismo e l’intransigentismo prevalente nella gerarchia ecclesiastica in tutto il periodo risorgimentale. Il clima dei rapporti tra Stato liberale e Santa Sede, segnato dalla nota del conflitto e del risentimento, ingenerò una profonda lacerazione, destinata a una lunga durata, tra la coscienza patriottica e la coscienza religiosa degli italiani. La Chiesa patì la perdita per mano piemontese della sovranità temporale sulle Legazioni, le Marche e l’Umbria (1860); sofferse la diffusione di testi demistificanti quali la Vita di Gesù (1863) di Renan; subì una serie di interventi legislativi di stampo giurisdizionalistico che, già perseguiti dal Regno di Sardegna, sfociarono nelle leggi eversive dell’asse ecclesiastico (1866-1867). Quelle misure, nel 1890, furono completate dalla legge sulle opere pie, la quale stabilì la conversione dei beni dei sodalizi confraternali, mentre già un’altra serie di provvedimenti aveva condotto all’esclusione dell’insegnamento religioso dalla scuola, alla soppressione delle facoltà di teologia, alla cessazione della giurisdizione ecclesiastica sui cimiteri, all’estensione del servizio militare ai chierici.

Sull’altro versante, subito dopo la proclamazione dell’unità, il disappunto dei liberali verso la Chiesa, ben più che dalle scomuniche comminate dal pontefice ai protagonisti del Risorgimento, trasse argomento della sdegnosa opposizione di Pio IX verso ogni prospettiva di rinuncia al potere temporale (il «Non possumus» del 19 gennaio 1860, nella cornice dell’enciclica Nullis verte verbi) e di riconciliazione con lo Stato liberale, espressione – nelle parole pronunciate dal papa nell’allocuzione del 17 marzo 1861 – della civiltà moderna, «madre e propagatrice di infiniti errori e di massime opposte alla fede cattolica». Di quegli «errori» offrì puntigliosa elencazione e solenne riprovazione il Syllabus complectens praecipuos nostrae aetatis errores allegato all’enciclica Quanta cura (1864) ma, a differenza di quest’ultima, non di diretta paternità di Pio IX.

Silloge di già esposti pronunciamenti papali rispetto ai più pericolosi errori moderni, il Sillabo, del quale tanto il governo italiano quanto quello francese proibirono la lettura pubblica, censurò panteismo, naturalismo e razionalismo assoluto e moderato. Così pure: indifferentismo, latitudinarismo, socialismo, comunismo, società segrete, società bibliche, società clerico-liberali. Il documento prosegue col sanzionare le dottrine limitative dei diritti e dei privilegi tradizionali della Chiesa; le dottrine sull’autonomia della società civile quale unica fonte del diritto; quelle relative all’etica naturale e cristiana; quelle che osteggiavano il matrimonio religioso; le dottrine negazioniste della sovranità temporale pontificia. Infine, il Sillabo condannò il liberalismo moderno, le dottrine della sovranità popolare, quelle separatiste e quelle inerenti l’uguaglianza di tutte le fedi dinanzi alla legge.

Apparso tre mesi dopo la stipula della Convenzione di settembre tra Italia e Francia, che riaccendeva la determinazione dei garibaldini a portare a compimento manu militari la Questione romana, il Sillabo vibrò un colpo definitivo al cattolicesimo liberale e allargò, anche fra i politici e gli intellettuali cattolici, i consensi verso la formula «Libera Chiesa in libero Stato» tante volte rilanciata da Cavour, la più solennemente il 27 marzo 1861, nella cornice del discorso tenuto nel parlamento subalpino a sostegno dell’ordine del giorno Boncompagni che proclamava Roma capitale d’Italia.

Significativa è l’adesione all’orientamento separatista da parte del bolognese Marco Minghetti, il quale, già ministro di Pio IX, nel 1859, dopo i moti popolari e la seconda guerra di indipendenza, assunse il dicastero degli Interni del Regno con Cavour e Ricasoli, poi quello delle Finanze con Farini, infine, nel 1863-64 e tra il 1873 e il 1876, fu presidente del Consiglio. Ancor più significativo appare il percorso intellettuale e politico di Carlo Passaglia. Già gesuita e docente presso il Collegio romano, avvicinatosi a Cavour, nel 1861, Passaglia dette alle stampe l’anonimo Pro causa italica ad episcopos catholicos, nel quale invitava il pontefice a rinunciare al potere temporale. Successivamente, docente di filosofia morale a Torino, Passaglia continuò a battersi contro il potere temporale pontificio; divenne figura di primo piano fra le file del clero liberale italiano; pubblicò, anonimi o con lo pseudonimo di Ernesto Filalete, altri opuscoli; fondò i periodici «Il mediatore» (1862-66) e « La pace» (1863-64), ancora una volta intenti a ricercare la conciliazione fra la Santa Sede e la nuova Italia. Infine, depose l’abito ecclesiastico e, nel 1864, fu eletto deputato.

La via del compromesso era assai stretta. E di certo la proclamazione del dogma dell’infallibilità del papa in materia di fede e di morale sancita il 18 luglio 1870, non facilitò il suo dispiegamento. Settimane più tardi, maturarono le circostanze politico-diplomatiche ideali per la conquista militare di Roma da parte italiana. Episodio culminante di un decennio contrassegnato da contrapposizione frontale, l’evento del 20 settembre 1870 innalzò uno “storico steccato” fra cultura liberale e cultura cattolica che, perdurato nei decenni seguenti, avrebbe avuto profonde ripercussioni nella vita civile del Paese.

L’ottantenne e affaticato Pio IX si dichiarò prigioniero in Vaticano. Il papa spodestato e privato con la forza dei suoi diritti temporali, ne uscì solo in feretro, nel 1878, dopo otto anni di esilio volontario dalla città e dal mondo vissuti nella condizione di ostaggio degli usurpatori e delle loro sedicenti Guarentigie (13 maggio 1871) sdegnosamente respinte nel loro carattere unilaterale nell’enciclica Ubi nos arcano (15 maggio 1871).

Fonti e Bibl. essenziale

P. Bernard, Libéralisme catholique, in Dictionnaire de théologie catholique, IX-1, Paris, 1926, coll. 506-630; U. Spirito, Liberalismo, in Enciclopedia Italiana, XXI, Roma, 1934, 36-40; G. Bozzetti, Liberalismo, in Enciclopedia cattolica, VII, Firenze, 1951, coll. 1253-1258; S. Valitutti, Liberalismo, in Enciclopedia del diritto, XXIV, Milano, 1974, 206-14; Id., Liberalismo, in Dizionario delle idee, Firenze, 1977, 604-608; N. Matteucci, Liberalismo, in Dizionario di politica, dir. da N. Bobbio – N. Matteucci – G. Pasquino, Torino, 1976, 529-546; F.A. von Hayek, Liberalismo, in Enciclopedia del Novecento, III, Roma 1978, 982-993; J.P.T. Bury, Liberalismo, in Enciclopedia Europea, VI, Milano, 1978, 863-864; L. Villari, Liberalismo italiano, ivi, 864-865; B. Mondin, Liberalismo, in Dizionario enciclopedico di filosofia, teologia e morale, a cura di B. Mondin, Milano, 1989, 422-423; F. Conti, Liberalismo, in Dizionario di storiografia, Varese, 1996, 608-610; S. G. Huegel, Liberalismo, in Dizionario di dottrina sociale della Chiesa. Scienze sociali e Magistero, a cura del Centro di ricerche per lo studio della dottrina sociale della Chiesa, Milano, 2004, 406-411; P. Ferrari da Passano, Chiesa e Stato, ivi, 183-187; A. Salini, Chiesa e liberalismo (1849-1918), ivi, 663-689; Dizionario del liberalismo italiano, I, Soveria Mannelli, 2011. Si segnalano inoltre: G. de Ruggiero, Storia del liberalismo europeo, Prefazione di E. Garin, Milano, 1962; G. Martina, Il liberalismo cattolico ed il Sillabo, Roma, 1959; Id., La Chiesa nell’età dell’assolutismo, del liberalismo, del totalitarismo, III (La Chiesa nell’età del liberalismo), Brescia, 19866; Id., Osservazioni sulle varie redazioni del “Sillabo”, inChiesa e Stato nell’Ottocento, II, Padova, 1962,419-524; G. D’amelio, Stato e Chiesa. La legislazione ecclesiastica fino al 1867, Milano, 1961; A.C. Jemolo, Chiesa e Stato in Italia dalla unificazione a Giovanni XXIII, Torino, 1965; R. Mori, La Questione romana (1861-1865), Firenze, 1963; Id., Il tramonto del potere temporale. 1866-1870, Roma, 1967; G. Verucci, I cattolici e il liberalismo. Dalle «amicizie cristiane» al modernismo. Ricerche e note critiche, Padova, Liviana, 1966; Id., L’Italia laica prima e dopo l’Unità. 1848-1876, Roma-Bari, 1981; R. Romeo, Cavour e il suo tempo, Bari, 1969-84, 3 voll.; F. Venturi, Utopia e riforma nell’Illuminismo, Torino, 1969; Id., Settecento riformatore, II: La chiesa e la repubblica dentro i loro limiti (1758-1774), Torino, 1976; V. Zanone, Il liberalismo moderno, in Storia delle idee politiche, economiche e sociali, II, Torino, 1972, 191-248; Chiesa e religiosità in Italia dopo l’Unità (1861-1878), Atti del quarto Convegno di Storia della Chiesa (La Mendola, 31 agosto – 5 settembre 1971), Milano, 1973, 4 voll.; R. Romanelli, L’Italia liberale (1861-1900), Bologna, 1979; F. Bolgiani, Chiesa e società moderna. Il problema della scristianizzazione, in La Storia, a cura di n. Tranfaglia – M. Firpo¸Torino, 1987, 733-793; P. Manet, Histoire intellectuelle du liberalisme. Dix lecons, Paris, 1987; L. Spinelli, Lo Stato e la Chiesa. Venti secoli di relazioni, Torino, 1988; S. Pivato, Clericalismo e laicismo nella cultura popolare italiana, Milano, 1990; N. Bobbio, Profilo ideologico del Novecento, Milano, 1995, 24-45 (§ 2.- I cattolici e il mondo moderno); G. Leziroli, Relazioni tra Chiesa cattolica e potere politico. La religione come limite del potere. Cenni storici), Torino, 1996; P.P. Portinaro, Profilo del liberalismo, in B. Constant,La libertà degli antichi, paragonata a quella dei moderni, a cura di G. Paoletti, Torino, 2001, 37-158; L. Prenna, Fede e liberalismo, in «Studium», 1 (2002), 79-87; N. Matteucci, Il liberalismo, Bologna, 2005; Storia del liberalismo in Europa, a cura di Ph. Nemo – J. Petitot, Soveria Mannelli, 2013.


LEMMARIO




Liberalismo - vol. II


Autore: Gennaro Cassiani

Il confronto tra Chiesa e liberalismo, nel corso del trentennio che seguì il compimento dell’unificazione nazionale, si rispecchia nella formula «Non expedit», che contrassegna la lunga stagione dell’astensionismo cattolico rispetto alla partecipazione alle elezioni legislative e, per estensione, alla vita politica italiana, sino ai primi del Novecento. La formula trovava le sue motivazioni nell’illegittimità che i pontefici, almeno sino a Pio X, attribuirono allo Stato italiano, responsabile della conquista di Roma e della spoliazione del potere temporale pontificio.

La stagione del «Non expedit» («Non expedit prohibitionem importat» – precisò il Sant’Uffizio, nel luglio del 1886) – coincise con la fase di incomunicabilità tra cultura liberale e cultura cattolica seguita a quella del conflitto, nel corso degli anni Sessanta dell’Ottocento.

Le premesse dell’astensionismo cattolico sono rintracciabili già in occasione delle prime elezioni del Regno d’Italia (1861), quando don Giacomo Margotti, direttore del quotidiano «L’Armonia», si rese fautore di un’energica campagna giornalistica, al titolo Né eletti né elettori. L’astensionismo di ispirazione intransigentista esprimeva rigetto tanto verso il liberalismo cavouriano quanto rispetto alle posizioni democratiche mazziniane e garibaldine, rivendicando al contempo l’intangibilità del potere temporale pontificio e le prerogative della Chiesa misconosciute dalle leggi Siccardi (1850).

La linea dell’astensionismo trovò la sua prima espressione ufficiale il 30 gennaio 1868, quando, replicando ai presuli piemontesi che chiedevano se fosse lecito per i credenti partecipare alle elezioni politiche, la Congregazione per gli affari ecclesiastici straordinari si pronunciò con la formula «Non expedit».

Il 9 novembre 1870, in coincidenza con le elezioni politiche del successivo 5 dicembre, la Sacra Penitenzieria si espresse nello stesso modo. Il 10 settembre 1874, il dicastero pontificio ribadì il «Non expedit» in una comunicazione ai presuli italiani. Pio IX, in più occasioni, tra il 1874 e il 1877, riaffermò il medesimo concetto.

Il pontificato di Leone XIII rappresentò il fondale di crescenti sentimenti anticlericali e, sull’altro versante, di atteggiamenti di rigida intransigenza cattolica. Sulla Questione romana, le posizioni delle parti restavano immutate. Dal punto di vista dei liberali, la legge delle Guarentigie (13 maggio 1871) aveva dato soluzione definitiva al problema. La prospettiva dei cattolici era invece ben altra: essi rivendicavano il ristabilimento del potere temporale, quale indispensabile garanzia del libero esercizio dell’autorità papale. Il «Non expedit» vaticano continuava, frattanto, a vegliare sul disimpegno politico dei cattolici, i quali trovavano i loro spazi di dibattito e di rappresentanza in organismi assembleari confluiti più tardi nell’Opera dei Congressi.

Solo con l’avvio del nuovo secolo, in seno all’opinione pubblica cattolica e allo stesso corpo ecclesiastico, si fece strada una disposizione favorevole a una graduale distensione dei rapporti tra la Santa Sede e il governo liberale, per parte sua desideroso di allargare le basi sociali dello Stato, specie nel Mezzogiorno.

Tra liberali e cattolici, malgrado le resistenze delle correnti radicali e massoniche fedeli al loro anticlericalismo identitario e quelle residuali dei cattolici più conservatori, prese avvio un processo di reciproco avvicinamento. Nel quadro di questa dinamica, favorita dall’allentamento del vincolo del «Non expedit», maturarono le prime intese elettorali tra liberali moderati e clerico-moderati. Al contempo, si fecero strada le istanze del movimento democratico-cristiano guidato da Romolo Murri che, marcando le distanze dalle strategie elettorali del clerico-moderatismo, aspirava a partecipare alla vita civile nazionale attraverso un partito autonomo. Si pensi al discorso di Sturzo, nel 1905, a Caltagirone, nel quale il sacerdote siciliano, compagno di cordata di Murri, tracciò con formule chiare il profilo di una formazione politica laica, aconfessionale, ispirata ai valori del cristianesimo, che accettasse l’unità del Paese rigettando le pregiudiziali temporalistiche. Un partito altresì fautore della larga autonomia degli enti locali (i comuni, le provincie, le regioni) in un Stato aperto alle esigenze del mondo del lavoro.

I tempi, però, non erano ancora maturi. Dinanzi alla conquista della maggioranza dei consensi nell’Opera dei Congressi da parte del gruppo democratico-cristiano, la reazione di Pio X fu severa. Il pontefice deliberò lo scioglimento dell’assemblea (1904). A seguire, mediante il decreto Lamentabili sane exitu (3 luglio 1907), condannò 65 posizioni moderniste. Infine, pronunciò la condanna del modernismo stesso affidata all’enciclica Pascendi (1907) e, nel 1910, impose al clero un giuramento antimodernista.

La Santa Sede guardava con apprensione anche al crescente ampliamento dei favori riscossi dal movimento socialista. Ma non erano solo i vertici della Chiesa a considerare siffatto fenomeno con sensibile preoccupazione. Non meno vigile e circospetta si mostrava infatti la classe dirigente liberale alla guida del Paese, pronta a considerare con favore un’alleanza elettorale con i cattolici in funzione anti-socialista. In questo contesto, segnato dalla crisi modernista e dall’avanzata dell’ala massimalista del movimento operaio di concerto all’esplosione anche Italia della questione sociale, maturarono, nel 1904, nel 1909 e nel 1913, i primi esperimenti di alleanza elettorale tra le forze liberali moderate, in maggioranza giolittiane, e quelle del già menzionato clerico-moderatismo, organizzato nell’Unione elettorale cattolica italiana succeduta all’Opera dei Congressi.

Nel 1904, nel quadro dell’avvio del processo di “conciliazione silenziosa” culminato un decennio più tardi con il Patto Gentiloni, i cattolici parteciparono alle elezioni politiche prestando sostegno ai candidati liberali moderati. Si trattò di una prima parziale frattura del «Non expedit», autorizzata dallo stesso Pio X, ispirata principalmente dal timore di un successo elettorale socialista dopo lo sciopero generale degli anarco-sindacalisti, i cosiddetti “cinque giorni di follia” che avevano scosso la borghesia italiana.

Persuaso che la maggioranza moderata del Paese avrebbe punito la frangia estrema dello schieramento socialista e interessato a favorire le alleanze tra clericali conservatori e liberali moderati allo scopo di disorganizzare il movimento cattolico, Giolitti, pur senza concedere nulla ai cattolici (e tanto meno, in seguito, riconoscerne il ruolo politico), stipulò un accordo in base al quale i clerico-moderati avrebbero favorito col loro voto i candidati liberali dichiaratisi pronti a negare il sostegno ai futuri provvedimenti legislativi in contrasto con gli interessi del clero. L’alleanza trovò la sua sintesi nella formula «Deputati cattolici no, cattolici deputati sì». E lo stesso Pio X si mostrò favorevole all’intesa, cogliendovi un argine al socialismo e un male minore rispetto prospettiva della nascita di una formazione cattolica-democratica.

Per la prima volta, nel 1904, entrarono alla Camera deputati cattolici (o meglio cattolici deputati). Vi accedettero a titolo personale, senza appartenere ad un raggruppamento politico. L’anno successivo, mediante l’enciclica Fermo proposito, Pio X, pur senza abrogare il «Non expedit», ne allentò ufficialmente le restrizioni. Il papa entrò nel merito della disciplina dell’azione dei cattolici: li indirizzò verso l’analisi dei problemi sociali e li dispensò dal categorico divieto di partecipazione alla vita politica della nazione, invitandoli a prepararsi mediante una buona organizzazione elettorale alla vita amministrativa dei comuni e dei consigli provinciali.

All’indomani dell’impresa coloniale in Libia, le difficoltà del governo con i socialisti riformisti di Turati spinsero Giolitti a ricercare una nuova intesa con i cattolici in vista della consultazione elettorale che, prevista per il novembre del 1913, con il nuovo sistema a suffragio universale maschile, sollevava problemi di natura politica del tutto nuovi. L’ingresso delle masse nella vita civile rompeva la vecchia prassi elettorale ristretta a gruppi ben identificabili: i rodati sistemi del clientelismo giolittiano non garantivano più la loro efficacia. La Chiesa, d’altra parte, si poneva il problema della partecipazione alle urne di ingenti masse cattoliche, specie delle plebi rurali del Mezzogiorno. Quell’elettorato andava indirizzato, aiutato a trovare quell’unità di intendimenti e di azione alla quale la Santa Sede teneva molto. Da questa convergenza di esigenze, trasse origine l’idea del Patto Gentiloni, dal nome del presidente dell’Unione elettorale cattolica italiana, conte Ottorino Gentiloni.

L’accordo siglato comprendeva sette punti programmatici che ogni candidato desideroso del voto dei cattolici doveva sottoscrivere. L’eptalogo includeva, tra l’altro, la difesa della libertà della scuola, dell’istruzione religiosa, dell’unità della famiglia (contro il divorzio), il riconoscimento giuridico delle organizzazioni economiche e sociali cattoliche, la riforma tributaria e giudiziaria.

Il Patto ebbe successo. Le elezioni politiche siglarono una schiacciante vittoria dei liberali, della quale trassero vantaggio soprattutto i canditati moderati e giolittiani, in larga misura eletti proprio grazie al voto cattolico.

Antonio Gramsci poté scrivere che, con il Patto Gentiloni, Giolitti aveva “cambiato spalla al suo fucile”, sostituendo all’alleanza con i socialisti quella con i cattolici. Altri osservarono che il Patto aveva rappresentato una sorta di “andata Canossa dei liberali”, costretti all’aiuto dei clericali. E se Giolitti replicò negando ogni suo diretto intervento nell’operazione elettorale ed escluse che fossero stati stretti accordi tra governo e Vaticano, i socialisti lo incalzarono invitandolo a svelare quali concessioni il governo avrebbe largito ai cattolici in contropartita al soccorso prestatogli. Lo statista piemontese non poteva e né intendeva concedere nulla. L’Italia giolittiana era ormai in crisi. Giolitti non riusciva più a fronteggiare le emergenze e la radicalizzazione della lotta politica, mentre, a sinistra, subiva le pressioni di un socialismo sempre più determinato e meno aperto a possibili combinazioni riformiste e, da destra, quella dell’opposizione conservatrice, che trovava alleati presso i nazionalisti.

Nel 1919, Benedetto XV abrogò definitivamente il «Non expedit», nei fatti, già da tempo estinto. Ciò consentì la nascita del Partito popolare italiano, un quindicennio prima vagheggiato da Sturzo come formazione autonoma, tutrice delle aspirazioni socio-politiche dei cattolici e non avvilita nella subalternità alle forze liberali.

L’avvento della formazione politica, mentre conferì alle masse cattoliche una propria fisionomia politica, siglò il definitivo congedo della tradizione dei blocchi clerico-moderati dei quali Giolitti si era avvantaggiato per sostenere la sua politica di riforme. Frattanto, la Questione romana rimaneva un nodo irrisolto: la conciliazione tra lo Stato liberale e la Santa Sede, compiuta sul piano civile e matura in seno alle coscienze, mancava ancora di un riconoscimento giuridico.

Nel 1919, a Parigi, nel corso della conferenza di pace al termine del primo conflitto mondiale, si ebbe un colloquio tra il diplomatico pontificio, segretario della Congregazione degli affari ecclesiastici, monsignor Bonaventura Cerretti e il presidente del consiglio italiano Orlando. L’opposizione a qualunque trattativa con la Chiesa da parte di Vittorio Emanuele III – sollecito a minacciare l’abdicazione qualora si fosse abbandonata la legge delle Guarentigie – decretò il naufragio dell’iniziativa.

Quanto non riuscì al ceto di governo dello Stato liberale prossimo al collasso, riuscirà invece al regime fascista di Benito Mussolini.

Dopo le prime trattative ufficiose tra il decano degli avvocati della Sacra Rota Francesco Pacelli e il giurista Domenico Barone, al quale successe lo stesso Mussolini spalleggiato dal ministro della giustizia Alfredo Rocco, tra il 1927 e il 1928, ebbero avvio i colloqui ufficiali. Questi ultimi, in più circostanze, furono in procinto di arrestarsi a causa delle pretese di parte fascista, ma l’intransigenza di Pio XI indusse Mussolini a delle concessioni. Al termine delle laboriose discussioni seguite alle istanze avanzate della Santa Sede (costituzione di un autentico Stato vaticano, compensi finanziari, concordato), l’11 febbraio 1929, si giunse alla firma dei Patti tra il cardinale Gasparri e Mussolini, nel palazzo Laterano. Gli accordi raggiunti segnavano l’epilogo della controversia risorgimentale: la tappa finale di un lungo e lento percorso di composizione della frattura tra Stato e Chiesa prodottasi con la nascita dell’Italia unita.

In base ai Patti, la città del Vaticano fu riconosciuta come Stato indipendente. Venne anche stipulato un concordato che riconosceva validità civile al matrimonio religioso; introduceva nella scuola l’insegnamento della religione cattolica; negava pieni diritti civili ai sacerdoti apostati o colpiti da censura. Furono inoltre aboliti l’exequatur ecclesiastico e il placet regio per la nomina dei vescovi. Prima di prendere possesso della loro sede, tuttavia, i vescovi dovevano prestare giuramento di fedeltà allo Stato.

Il suggello alla riconciliazione tra la Chiesa e la concezione liberale dei diritti umani avverrà mediante la dichiarazione del Concilio Vaticano II Dignitatis humanae (1965), sulla libertà religiosa. Ancor prima, Giovanni XXIII, nella Pacem in terris (1963), aveva enunciato in modo esplicito quegli inviolabili diritti quali imprescindibile riferimento del magistero della Chiesa.

Fonti e Bibl. essenziale

Oltre ai riferimenti che corredano il lemma Liberalismo inscritto nel I vol. del presente Dizionario, si segnalano con ulteriori richiami: F. Fonzi, I cattolici e la società italiana dopo l’Unità, Roma, 1953; G. Spadolini, L’opposizione cattolica da Porta Pia al ’98, Firenze, 1954; Id., Giolitti e i cattolici (1901-1914). Con documenti inediti¸ Firenze, 1960; F. Pacelli, Diario della Conciliazione. Con verbali e appendice di documenti, a cura di M. Maccarrone, Città del Vaticano, 1959; A. Gambasin, Il movimento sociale nell’Opera dei Congressi (1874-1904). Contributo per la storia del cattolicesimo sociale in Italia, Roma, 1958; P. Scoppola, Crisi modernista e rinnovamento cattolico in Italia, Bologna, 1961; A.C. Jemolo, Chiesa e Stato in Italia dalla unificazione a Giovanni XXIII, Torino, 1965; G. Verucci, I cattolici e il liberalismo. Dalle «amicizie cristiane» al modernismo. Ricerche e note critiche, Padova, Liviana, 1966; Id., Il movimento cattolico italiano. Dalla Restaurazione al primo dopoguerra, Messina-Firenze, 1977; G. De Rosa, Storia del movimento cattolico in Italia. Dalla Restaurazione all’età giolittiana, I, Bari, 1966; C. Marongiu Buonaiuti, Non expedit. Storia di una politica (1866-1919), Milano, 1971; T. Tomasi, L’idea laica nell’Italia contemporanea (1870-1970), Firenze, 1971; Chiesa e religiosità in Italia dopo l’Unità (1861-1878), Atti del quarto Convegno di Storia della Chiesa (La Mendola, 31 agosto – 5 settembre 1971), Milano, 1973, 4 voll.; C. Ghisalberti, Storia costituzionale d’Italia. 1848-1948, Bari, 1974; M. Di Lalla, Storia del liberalismo italiano. Dal Risorgimento al fascismo, Bologna, 1976; R. Romanelli, L’Italia liberale (1861-1900), Bologna, 1979; P. Bellu, I cattolici alle urne. Chiesa e partecipazione politica in Italia dall’Unità al Patto Gentiloni, Cagliari, 1977; D. Menozzi, La Chiesa cattolica e la secolarizzazione, Torino, 1993, pp. 72-106 (§ 2.- Cristianità e questione sociale. Da Pio IX a Leone XIII); Storia dell’Italia religiosa, III, L’età contemporanea, a cura di G. De Rosa, Roma-Bari, 1995; G. Sabbatucci – V. Vidotto, Storia d’Italia, III: Liberalismo e democrazia. 1887-1914, Roma Bari, 1995; C. M Fiorentino, Chiesa e Stato a Roma negli anni della destra storica, 1870-1876: il trasferimento della capitale e le soppressioni delle Corporazioni religiose, Roma, 1996; Id., La Questione romana intorno al 1870. Studi e documenti, Roma, 1997; G. Formigoni, L’Italia dei cattolici. Fede e nazione dal Risorgimento alla Repubblica, Bologna, 1998; F. Cammarano, Storia politica dell’Italia liberale, Roma-Bari, 1999; F. Jankowiak, La curie romaine de Pie IX à Pie X. Le gouvernement central de l’Église et la fin des États pontificaux (1846-1914), Roma, 2007; A. Monticone, Benedetto XV e il Non expedit, in Democrazia e coscienza religiosa nella storia del Novecento. Studi in onore di Francesco Malgeri, a cura di A. D’Angelo – P. Trionfini – R.P. Violi, Roma, 2010, 13-38; I cattolici che hanno fatto l’Italia. Religiosi e cattolici piemontesi di fronte all’Unità d’Italia, a cura di L. Scaraffia, Torino, 2011; S. Marotta, Il Non expedit, in Cristiani d’Italia. Chiese, società, Stato (1861-2011), a cura di A. Melloni, I, Roma, 2011, 215-235.


LEMMARIO




Libertà religiosa - vol. II


Autore: Silvia Scatena

Pochi anni prima dell’inizio del periodo considerato, nel solco dell’enciclica Mirari vos di Gregorio XVI, l’idea che la libertà di coscienza e di culto rappresentasse «un diritto proprio di ciascun uomo» – e che come tale dovesse essere proclamata e stabilita per legge «in ogni ben ordinata società – veniva annoverata dal Syllabus di Pio IX fra i «principali errori del nostro tempo». Respingendo l’idea che la chiesa potesse «venire a composizione col progresso, col liberalismo e con la moderna civiltà», il documento di Pio IX sollecitava di fatto una totale opposizione fra i principi cattolici ritenuti dogmaticamente irrinunciabili e i principi che stavano alla base del moderno costituzionalismo occidentale.

Con le encicliche Immortale Dei (1885) e Libertas praestantissimum (1888) di Leone XIII, il rifiuto opposto dalla Chiesa cattolica alle sfide della modernità politica non mancò di registrare alcune sfumature, soprattutto in direzione di una maggiore attenzione alla diversità dei contesti reali in cui il principio dei diritti esclusivi della verità – e della trasposizione di ques’ultimo nell’istituzione legale dell’unica religione di Stato – si doveva concretamente realizzare. Papa Pecci formulò in particolare esplicitamente la nota distinzione fra tesi ed ipotesi, cioè fra l’ideale eterno in cui si prevedeva che la validità esclusiva della religione cattolica fosse riconosciuta dallo Stato, se necessario con la coercizione, ed i contesti, religiosamente pluralistici, nei quali, in assenza di una maggioranza cattolica, i legislatori potevano tollerare l’esistenza e l’attività di altre confessioni in vista di un bene ulteriore o per evitare danni sociali maggiori: se solo i cattolici avevano un diritto autentico e inalienabile alla libertà religiosa, in talune circostanze gli stati potevano cioè garantire, in linea di ipotesi, i diritti civili religiosi, fermo restando il principio che l’errore come tale non poteva avere gli stessi diritti della verità.

Per un secolo gli interventi del magistero romano continuarono ad intonarsi sostanzialmente su questo registro, proponendo la restaurazione di un ordine tradizionale affatto idealizzato, in cui la società si conformasse in toto agli insegnamenti della Chiesa. Anche nel nuovo clima ecumenico che l’esperienza del secondo conflitto mondiale e della cooperazione intra-cristiana contribuì notevolmente ad alimentare, chi chiedeva di ripensare le coordinate con cui tutta la questione della tolleranza religiosa e dei rapporti Chiesa-Stato era stata tradizionalmente impostata dovette puntualmente scontrarsi con la permanente validità della teoria della potestas indirecta in temporalibus, perno di tutta una manualistica di diritto pubblico ecclesiastico su cui si erano formate generazioni di seminaristi e di studenti delle università pontificie. Ancora agli inizi del 1958, il padre Gagnebet, già segretario della Commissione degli studi dell’ordine domenicano e dal 1954 «ufficiale» del S. Uffizio, ultimava in particolare un elenco di quarantadue proposizioni erronee contenute nelle elaborazioni di alcuni autori cattolici – il filosofo francese Jacques Maritain, in primis, e il teologo statunitense John Courtney Murray – da anni impegnati in un ripensamento complessivo del problema della libertà religiosa: ridotte a ventuno da un’apposita commissione e tradotte in latino, esse costituirono la seconda parte di un documento di condanna stampato nel giugno 1958 di cui solo la morte di Pio XII sembra aver poi impedito la definitiva pubblicazione.

Fino alla fine degli anni ’50 del secolo scorso, la tradizione di studi riconducibile al filone dello ius publicum eclesiasticum fece dunque sentire tutto il suo peso nell’elaborazione degli schemi, concettuali ed operativi, con cui considerevoli settori del mondo cattolico italiano affrontano in particolare la questione dello statuto giuridico delle minoranze religiose; schemi che a loro volta a lungo si coniugano con la pesante eredità di una prassi amministrativo-giurisprudenziale segnatamente discriminatoria quale quella fascista, inaugurata dalle disposizioni sull’«esercizio dei culti ammessi» della legge del 24 giugno 1929, dalle norme di attuazione della stessa emanate con il regio decreto del 28 febbraio 1930 e da alcuni articoli del Testo unico di Pubblica Sicurezza del 1931. Sottoponendo le confessioni acattoliche ad un’imponente mole di controlli e di autorizzazioni, tale normativa aveva introdotto infatti delle pesanti limitazioni alla libertà delle confessioni acattoliche, in particolare dei protestanti, contribuendo ad accentuare una mentalità ed una prassi restrittiva reiteratamente incoraggiata dai vertici ecclesiastici, che a più riprese chiesero alle autorità di contenere la diffusione ed il proselitismo dei culti protestanti. Una prassi, questa, che di fatto sopravvisse al tornante della guerra, del passaggio dal fascismo alla repubblica e della successiva stagione costituente per riproporsi soprattutto nella prima metà del «decennio freddo».

Fra il 1943 e il 1945 molta di questa legislazione sui culti acattolici introdotta dopo gli Accordi lateranensi del 1929 era in realtà passata di fatto in desuetudine e negli articoli 8 e 19 la carta costituzionale aveva lasciate aperte molte possibilità sul terreno del riconoscimento dei diritti afferenti la sfera religiosa; secondo le note specificazioni di Giuseppe Dossetti in sede costituente, lo stesso secondo comma dell’articolo 7 sui rapporti fra Chiesa e Stato in Italia – quello che conteneva il riferimento ai Patti Lateranensi del 1929 – avrebbe dovuto prevedere sostanzialmente il vincolo per lo Stato a non disciplinare unilateralmente le materie comprese dai Patti, non già «costituzionalizzarne» tutti gli specifici contenuti.

La sottolineatura della natura strumentale di tale norma da parte di Dossetti, così come i richiami all’esemplarità dell’esperienza del costituzionalismo americano da parte di un altro autorevole giurista cattolico italiano, Costantino Mortati, relatore in sede costituente dei lavori della Commissione sui diritti pubblici soggettivi, non ebbero però corso allo schiudersi degli anni ’50: i mutamenti nel frattempo intervenuti nel panorama politico interno e nel più ampio scenario internazionale ebbero infatti una certa indiretta, ma puntuale ricaduta anche sulle soluzioni raggiunte in sede costituente nell’ambito della politica ecclesiastica. Col mutare degli scenari complessivi – il sostanziale accantonamento del patto sociale e politico che aveva retto la Resistenza e la redazione della Costituzione e quindi l’ingresso dell’Italia nel Patto Atlantico – e con il progressivo ingessarsi delle dinamiche interne e internazionali, anche la questione della libertà religiosa diventò cioè progressivamente una questione «congelata». Con la grande affermazione elettorale del partito cattolico nell’aprile 1948 si riaccese così in significativi ed autorevoli ambienti ecclesiastici italiani la speranza in una limitazione del valore e della portata di quelle istanze del dettato costituzionale non conformi alle aspettative di uno sviluppo in direzione confessionale della società italiana del dopoguerra. Il grande consenso cattolico sembrò infatti inaugurare una nuova fase, carica di possibilità per la realizzazione concreta di una forma statuale più vicina alla tradizionale tesi cattolica, e la pluralità delle aspettative che da più parti si erano accese in sede costituente dovette misurarsi con l’emergente individuazione in un’interpretazione estensiva dell’articolo 7 dell’asse centrale dell’intero sistema di relazioni Stato-Chiesa/e a cui subordinare la disciplina complessiva del fenomeno religioso.

Fu solo il difficile avvio dei lavori della Corte costituzionale nel 1956 a modificare significativamente i termini della questione della libertà religiosa in Italia e ad innescare un processo di «costituzionalizzazione» del diritto ecclesiastico. Sebbene sintonizzato con le più generali trasformazioni in atto nella società italiana, il processo stentò tuttavia a trovare positivi segnali di ricezione a livello politico-parlamentare e non mancò di suscitare tensioni, che a loro volta ben evidenziavano la grande difficoltà di un raccordo tra una certa maturazione della coscienza civile in fatto di diritti di eguaglianza e di libertà e le coordinate con cui la S. Sede e l’episcopato italiano nel suo complesso affrontavano in quegli anni l’avvio di dinamiche nuove nella società. Di questo difficile raccordo fu esemplare espressione il «caso» del vescovo di Prato Pietro Fiordelli, rinviato a giudizio nell’ottobre 1957 a seguito della querela da parte di due coniugi da lui accusati di concubinaggio per la scelta di sposarsi civilmente, quindi condannato per diffamazione aggravata e poi assolto l’anno successivo con due successive sentenze che, nella loro contraddittorietà, vennero quasi a prefigurare equilibri nuovi fra Concordato e società civile. Oggetto dell’ultima mobilitazione cattolica di stampo geddiano, ma, ad un tempo, anche segnale del definitivo infrangersi del sogno pacelliano di fare dell’Italia il centro propulsore di una nuova civiltà cristiana, la vicenda di Fiordelli segna per molti versi un punto di «non ritorno» e coincide con l’emergenza di sensibilità e gruppi animati da un evidente desiderio di mutamento e di riflessione critica sull’interventismo delle gerarchie nella sfera pubblica, l’autonomia del laicato, la distinzione fra il piano dell’azione politica e religiosa, last but least sulla questione cruciale della libertà religiosa e dei diritti delle minoranze. La ravvicinata successione cronologica, per fare un esempio, della nascita del gruppo fiorentino che si raccoglie attorno alla rivista «Testimonianze» nel gennaio 1958, del gruppo di «Questitalia» del veneziano Wladimiro Dorigo, impegnato sin dall’inizio sulla questione del rapporto concordatario fra Stato e Chiesa, dell’uscita di Esperienze pastorali di don Milani, sempre nel 1958, rivela in questo senso ben più di una semplice coincidenza, testimoniando piuttosto la convergenza di inquietudini e istanze di rinnovamento di voci ed espressioni diverse, per natura e dislocazione, del cattolicesimo italiano di questo ultimo tornante degli anni ’50.

Lo scenario complessivo cominciò d’altra parte effettivamente a mutare soltanto con le nuove prospettive aperte dal pontificato giovanneo, dalla Pacem in terris e, soprattutto, dall’inattesa scelta di papa Roncalli di affidare al mezzo conciliare il suo programma di aggiornamento della Chiesa: una scelta che aprì allora anche gli spazi per un significativo «avanzamento» del magistero cattolico sul tema dei diritti universali dell’uomo e in particolare di quello alla libertà religiosa e che mutò quindi anche i termini della discussione italiana.

Direttamente sollecitato dai rappresentanti delle comunità separate, l’inserimento della questione della libertà religiosa nell’agenda del Segretariato per l’unità – l’organismo originariamente deputato al compito di aiutare i cristiani non cattolici a seguire lo svolgimento del Vaticano II – avviò in particolare un intenso dibattito che, pur con fatica, non mancò di aprire delle brecce anche in un episcopato, come quello italiano, che nell’insieme aveva profondamente introiettato le fondamentali coordinate teoriche ed ideali del diritto pubblico ecclesiastico; coordinate rispetto alle quali lo stesso partito cattolico, nella fase di reviviscenza concordataria degli anni ’50, era sembrato restare nell’insieme tributario, attingendovi schemi concettuali e criteri più immediatamente operativi. Un ulteriore elemento di ritardo rispetto a una sintonizzazione della Chiesa italiana con alcuni dei temi nuovi e più controversi messi sull’agenda del concilio era inoltre costituito da una certa sua sostanziale impermeabilità alle istanze del movimento ecumenico; questa «latitanza» fece sentire tutto il suo peso anche nei confronti dei nuovi fermenti di riflessione in materia di libertà religiosa, che in altri paesi avevano trovato il loro naturale luogo di innesto proprio negli ambienti ecumenici.

L’insufficiente «alfabetizzazione» ecumenica della grande maggioranza dell’episcopato italiano condizionò non poco i modi e i tempi con cui la Chiesa italiana al Vaticano II si lasciò nell’insieme interpellare da un tema e da un dibattito, come quello sulla libertà religiosa, che al concilio ebbe anche istituzionalmente un’evidente genesi ecumenica. Presentato per la prima volta ai padri conciliari nel novembre 1963 come V capitolo del testo sull’ecumenismo, lo schema sulla libertà religiosa venne per lo più freddamente accolto dall’episcopato italiano, generalmente accostato a quello spagnolo per l’atteggiamento diffidente nei confronti delle prospettive soggiacenti al testo del Segretariato per l’unità. Nel novembre 1963 a distinguersi fra le voci italiane fu in particolare quella dell’arcivescovo di Firenze, Ermenegildo Florit, che espresse in aula forti perplessità nei confronti di un testo che poneva a suo avviso il problema dell’esistenza o meno di un diritto alla diffusione dell’errore. L’anno successivo, a prendere le distanze dai toni fortemente critici di buona parte della componente italiana al Vaticano II nei confronti dello schema sulla libertà religiosa, furono soprattutto l’arcivescovo di Bologna, Giacomo Lercaro, intervenuto ad un convegno ad Assisi sul tema La Chiesa e la libertà organizzato dalla «Pro Civitate Christiana»; il teologo di fiducia di Paolo VI, Carlo Colombo, eletto vescovo nel 1964 e dal settembre di quell’anno direttamente coinvolto nelle vicende redazionali del De libertate; il professore dell’Università Lateranense Pietro Pavan, che contribuì in modo significativo ad avvicinare il testo del Segretariato al nodo costituzionale della questione, favorendo un ripensamento dei principi della limitazione dell’esercizio del diritto alla libertà religiosa ed una più chiara incompetenza dell’autorità civile in materia religiosa.

I loro interventi e contributi non erano senz’altro rappresentativi degli orientamenti più diffusi fra l’episcopato italiano, che anche nel dibattito dell’autunno 1964, pur con varietà di toni, si distinse soprattutto – penso in particolare agli interventi dei cardinali Ottaviani e Ruffini – per la riproposizione della bontà della soluzione concordataria e per la messa in guardia dalla trascuratezza della realtà dell’ordine oggettivo, norma suprema per la coscienza. Contestualmente però, fuori dall’aula conciliare, il dibattito che il Vaticano II innescò in materia di libertà religiosa cominciò d’altra parte ad interessare e a coinvolgere settori sempre più significativi del cattolicesimo italiano; le vicende conciliari dello schema sulla libertà religiosa stimolarono in particolare diversi gruppi e riviste ad avviare un ripensamento complessivo sull’idoneità del principio concordatario come strumento atto a regolare i rapporti fra società civile e società religiosa. Si trattò inizialmente di posizioni assai circoscritte e per lo più distanti dalla sensibilità della maggioranza dei vescovi italiani; di posizioni, però, che, dopo il solenne riconoscimento conciliare del diritto alla libertà religiosa inteso quale duplice immunità dalla costrizione e dalla restrizione in materia religiosa da parte dei pubblici poteri, acquistarono quindi nuova autorevolezza, spessore e diffusione.

Complessivamente, anche in materia di libertà religiosa, nonostante i flussi e i riflussi incontrati nella stagione postconciliare, il Vaticano II – e in particolare il lungo e complesso iter redazionale che ha portato all’approvazione della dichiarazione Dignitatis humanae sulla libertà religiosa – ebbe in altri termini un impatto profondo sulla chiesa italiana, veicolando un mutamento a volte incerto, ma inarrestabile, dello stesso modo di porsi dei cattolici, sia nei confronti del consorzio civile, sia nei confronti delle altre confessioni religiose.

Sarà questo lo sfondo complessivo nel quale andranno quindi collocati, nella seconda metà degli anni ’60, anche l’avvio del lungo processo di revisione concordataria, conclusosi con l’accordo di Villa Madama del 18 febbraio 1984 e la firma del nuovo Concordato fra Italia e S. Sede, e l’apertura della stagione delle «intese» con le altre confessioni non cattoliche, a cominciare da quella firmata con le chiese rappresentate dalla Tavola valdese del 21 febbraio 1984, che ha offerto il modello per gli accordi successivi con altre chiese e confessioni non cattoliche.

Fonti e Bibl. essenziale

G. Long, Alle origini del pluralismo confessionale. Il dibattito sulla libertà religiosa nell’età della Costituente, Bologna 1990; M. Velati, I “consilia et vota” dei vescovi italiani, in À la veille du Concile Vatican II, in À la Veille du Concile Vatican II. Vota et Réactions en Europe et dans le Catholicisme oriental, a cura di M. Lamberigts e Cl. Soetens, Leuven 1992, 83-97; V. De Marco, Le barricate invisibili. La chiesa in Italia tra politica e società (1945-1978), Lecce 1994; P. Chenaux, Paul VI et Maritain. Les rapports du “montinianisme” et du “maritainisme”, Brescia 1994; G. Dossetti, Il Vaticano II. Frammenti di una riflessione, a cura di F. Margiotta Broglio, Bologna 1996, 191-219; J.A. Komonchak, The silencing of John Courtney Murray, in Cristianesimo nella storia. Saggi in onore di Giuseppe Alberigo, a cura di A. Melloni, D. Menozzi, G. Ruggieri, M. Toschi, Bologna 1996, 657-702; J.-D. Durand, La “furia francese” vue da Rome: peurs, suspicions et rejets des années 1950, in Religions par delà les frontières, a cura di M. Lagrée e N.J. Chaline, Paris 1997, 15-35; É. Fouilloux, Une Église en quête de liberté. La pensée catholique française entre modernisme et Vatican II. 1914-1962, Paris 1998; G. Zagrebelsky, La magistratura ordinaria dalla Costituzione ad oggi, in Legge, Diritto, Giustizia (Storia d’ItaliaAnnali 14), a cura di L. Violante, L. Minervini, Torino 1998, 713-790; S. Scatena, Il mondo cattolico italiano e la questione della libertà religiosa nella prima metà degli anni ’50: il problema costituzionale, dottrinale e diplomatico, tesi di dottorato discussa nel marzo 2000 all’Università di Roma Tre, relatore P. Scoppola; S. Scatena, La fatica della libertà. L’elaborazione della dichiarazione «Dignitatis humanae» sulla libertà religiosa del Vaticano II, Bologna 2003; M. Madonna, Breve storia della libertà religiosa in Italia. Aspetti giuridici e problemi pratici, in Cristiani d’Italia. Chiese, società, stato, a cura di A. Melloni, Roma 2011, t. I, 721-731.


LEMMARIO




Libertinismo - vol. I


Autore: Federico Barbierato

Il complesso rapporto fra Chiesa e libertinismo si manifestò innanzitutto nella difficoltà da parte delle istituzioni nel dare una definizione del fenomeno. Quella di libertinismo fu sin dall’inizio e sempre più finì con l’assumere i connotati di una categoria sfaccettata e multiforme, chiamata in causa per indicare un vasto spettro di idee, comportamenti e sensibilità percepite come eterodosse e spesso restie a rientrare pienamente nelle consuete griglie del dissenso religioso. Se etimologicamente deriva da libertus, lo schiavo affrancato, il termine già nell’alto Medioevo comincia ad assumere una connotazione negativa che troverà una prima formulazione compiuta in Calvino, nel 1544, il quale utilizza il termine libertin in francese per designare colui la cui fede non è soggetta alla parola di Dio e che pertanto si abbandona senza remore ai piaceri. Nella trattatistica seicentesca il libertino è ormai stabilmente diventato il miscredente dissimulatore, il libero spirito che indulge senza remore e anzi con compiacimento alla sfrenata soddisfazione dei sensi. L’etichetta pertanto viene costituita dall’apologetica cristiana per identificare tanto l’amoralità dei comportamenti, quanto la giustificazione teorica di tale amoralità attraverso il pensiero. Un’idea che viene pienamente formalizzata nelle opere di padre François Garasse che arriva a fornire una sorta di paradigma tipologico del libertino, delle sue letture, inserendo in modo esplicito fra le caratteristiche di quest’ultimo anche l’ateismo. Non va quindi dimenticato che lo stesso termine fu originalmente elaborato e utilizzato in chiave accusatoria e solo nell’Ottocento proposto come categoria storiografica.

L’etichetta di libertino comincia quindi nel Seicento a essere estesa a un numero e a una tipologia di dissensi molto vasti, definiti talvolta sulla base di comportamenti caratterizzati da una mancata adesione ai precetti morali religiosi. Da qui l’oscillazione continua di significati fra comportamenti e dottrine: al libertino viene progressivamente imputata una morale lassista soprattutto sul piano sessuale. La libertà nei comportamenti sessuali risulta già sufficiente a fare rientrare un individuo nella dimensione del libertinismo, stabilendo un implicito collegamento fra gli atti e la mancata adesione intellettuale alla dottrina cristiana. Tipica della concezione “libertina” è in effetti una posizione già consolidata ma ancora non pienamente sviluppata, vale a dire la convinzione che le religioni costituissero una sorta di “manto politico”, un’invenzione o una “impostura” utilizzata dai “potenti” per tenere asserviti il popolo attraverso lo spettro di una punizione o la speranza di un premio in un aldilà tutt’altro che certo. Se per alcuni libertini è l’occasione per negare qualsiasi forma di trascendenza, sostenendo tra l’altro la teoria della mortalità dell’anima, in altri si afferma una tendenza più latitudinaria, che tendeva o a sottolineare la natura simbolica delle pene dell’inferno, o a negarne la presenza, fino ad affermare che la confessione di appartenenza risultava del tutto indifferente ai fini della dannazione, in quanto un semplice vivere secondo morale era sufficiente a garantire la salvezza.

Il libertinismo incrociava qui altri filoni di pensiero, variamente derivanti dall’aristotelismo eterodosso, dalla teoria della via larga alla salvezza, dalla leggenda dei tre anelli ben diffusa in ambito medievale, da una serie di altri spunti spesso accostati in modo spregiudicato e non organico tanto in opere quanto in discorsi. Dal punto di vista della censura ecclesiastica, pertanto, sotto l’etichetta di libertino potevano passare tanto i testi erotici e spregiudicati prodotti nell’ambito dell’Accademia degli Incogniti a Venezia, quanto Giovanni Boccaccio, Pietro Pomponazzi, Girolamo Cardano, Pietro Aretino, Marcello Palingenio Stellato, Bernardino Telesio, Francesco Patrizi, Giordano Bruno, Tommaso Campanella.

Il rapporto con le istituzioni repressive e censorie dei “libertini” fu ovviamente conflittuale, sebbene i termini “libertino, libertinismo, libertinaggio” non compaiano frequentemente nel vocabolario inquisitoriale. Individui che la polemistica avrebbe definito libertini, in altri termini, vengono perseguiti e accusati variabilmente per la loro incredulità, la miscredenza, l’ateismo, la mancata osservanza dei dogmi, lo scarso rispetto nei confronti delle cerimonie, l’ostentazione di un dissenso non solo anticattolico, ma spesso più compiutamente antireligioso. Così, accanto a un libertinismo “erudito” – per utilizzare una classificazione a lungo utilizzata e per certi versi ancora diffusa – caratterizzato dalla rivendicazione di una libertà di pensiero ristretta a un numero limitato di dotti consapevoli della pericolosità sociale di una filosofia priva di restrizioni dogmatiche, si andò affiancando un materialismo popolare che col libertinismo dell’aristotelismo eterodosso finì con l’avere in comune temi e suggestioni: la convinzione della mortalità dell’anima, la dottrina dell’impostura politica delle religioni, l’assoluta mancanza di un’entità provvidenziale, la casualità dei destini umani e la sostanziale solitudine dell’uomo, la convenzionalità dei codici etici e, pertanto, la possibilità di amministrare come meglio si credeva il proprio corpo e il proprio pensiero. Le posizioni di un individuo come Domenico Scandella detto Menocchio, che avrebbe chiuso tragicamente la propria vita sul rogo alla fine del Cinquecento, potevano rientrare in questa griglia di interpretazione, e la loro derivazione – dotta o frutto di una cultura popolare stratificata – diventava secondaria per gli inquisitori che si trovavano di fronte a un nemico non più riconducibile alla condivisione di un corpo di idee eterodosse ben definibili, ma a una serie di modulazioni individuali dello scetticismo.

Proprio in questi percorsi individuali stava la difficoltà di identificare un nemico e di fissare una tassonomia in grado di rendere agevole l’inserimento dell’individuo all’interno di una griglia. Il libertinismo fu certo un movimento apparentemente elitario: la posizione era ben espressa nella celebre posizione attribuita a Cesare Cremonini, filosofo aristotelico dell’Università di Padova, il quale avrebbe sostenuto che mai avrebbe potuto prendere al proprio servizio un servitore ateo, per la paura che questi potesse ucciderlo nel sonno. Rischio che non correva con un buon cristiano. La simmetria fra codici etici e appartenenza religiosa è qui ancora lontana dalla teorizzazione dell’ateo virtuoso che sarà propria di Pierre Bayle, in un’atmosfera diversa e già vicina all’Illuminismo. La libertà di pensiero appare ancora come un pericolo, una faccenda per pochi, pericolosa qualora oltrepassi i confini di chi sia in grado di maneggiare un meccanismo tanto pericoloso. Ma nel corso del Seicento aumenta esponenzialmente il numero di quanti si ritengono in grado di poter – con possibilità di comprensione molto diverse e livelli di elaborazioni differenziati – rientrare in quella immaginaria società di saggi e spiriti forti. Rispetto al secolo precedente, infatti, il Seicento poteva contare sulla matura diffusione di uno strumento concettuale che si rivelò lo sfondo su cui si andarono ad innestare le molteplici tradizioni eterodosse che caratterizzarono il dissenso religioso libertino dell’epoca: la teoria dell’impostura politica delle religioni: già nel II secolo Celso aveva affermato senza mezzi termini che Mosè e Cristo avevano raggirato «caprai e pecorai» ricorrendo a trucchi ed espedienti. Ripresa ed elaborata da Averroè e progressivamente entrata a far parte della tradizione orale, la formulazione a più riprese era stata adattata e sviluppata nel corso dell’età moderna da averroisti radicali come Pomponazzi, da filosofi politici come Machiavelli (soprattutto nella trattazione della religione dei romani nei Discorsi) e Bodin o ancora da pensatori eterodossi come Bruno e Campanella, finendo col costituire uno dei cardini della critica anticristiana e irreligiosa. Il già diffuso e secolare anticlericalismo, alimentato nel Cinquecento dalla spinta della Riforma e dei tanti gruppi eterodossi che si erano affacciati magari brevemente nei territori italiani, andò infatti maturando nel corso del Seicento verso una visione più organica e cominciò a essere utilizzato in vista di un attacco ampio e strutturato non più solo contro l’istituzione ecclesiastica, ma si estese spesso al cristianesimo nel suo complesso e, talvolta, alla religione in genere. Si iniziò a considerare sempre più apertamente il clero come un gruppo sociale che grazie ai fantasmi della punizione o del premio dopo la morte manteneva la società su binari strettamente controllati. Come detto, era ampiamente accettato che fosse una vigilanza necessaria per mantenere intatto il tessuto sociale, tuttavia portava a considerare la religione in primo luogo come strumento di dominio, un insieme di dogmi, norme e prescrizioni del tutto staccati da ogni ipotesi ultraterrena.

La Chiesa agì contro il diffondersi di questa incontrollabile rete di pensieri sia cercando di utilizzare le armi della censura preventiva, proibendo tutti quei libri e scritti in genere che potessero in qualche misura mettere in circolazione elementi di critica o di scetticismo. Intervenne al tempo stesso contro la diffusione di opere stampate clandestinamente o circolanti in forma manoscritta: Venezia e l’Accademia degli Incogniti rappresentarono, da questo punto di vista, probabilmente il centro più prolifico di idee e scritti di carattere libertino e solo la tenace politica giurisdizionalistica veneta riuscì a proteggere personaggi come il già citato Cesare Cremonini, o Antonio Rocco, Giovan Francesco Loredan e molti altri autori di opere dissacratorie e almeno anticuriali. Lo stesso Ferrante Pallavicino godette a lungo della protezione dello stato veneto, fino a quando decise di abbandonarlo per incontrare la morte ad Avignone. Martire del “libertinismo” e del libero pensiero, Ferrante Pallavicino fu in morte ancor più che in vita un punto di riferimento per quanti intrapresero una lotta senza quartiere per screditare e a ridicolizzare l’Inquisizione, che finiva così sotto attacco per l’«impertinenza degl’Inquisitori, li quali non più lasciano che scrivere, o che leggere a letterati». In una delle molte Anime, opere uscite a partire dal 1643 forse per mano di Giovan Francesco Loredan e a Pallavicino attribuite post mortem, un Ferrante pensoso dichiarava che «per haver scritto con libertà ci hò lasciata la testa e che «gl’inquisitori al giorno d’hoggi fanno tre uffici, di spia, di bargello, e di carnefice». Ma in fondo la censura inquisitoriale era fatica sprecata: «alcuni libri si perderebbero nell’oblivione col nome degli stessi autori, se da gli Indici de l’inquisitione, non venissero resi immortali. Et io ho conosciuto degli Amici, che non facevano raccolta d’altri libri, che di quelli nominati sopra l’Indice».

L’atteggiamento ostile nei confronti del libertinismo non cambiò sensibilmente nei secoli successivi. Accuse in questo senso furono mosse contro quietisti e deisti, e più in genere il misticismo fu considerato anche sinonimo di licenziosità morale e sessuale. Anche le logge massoniche furono percepite come occasioni di libertinaggio e di comportamenti sessuali sfrenati, di cui venne sottolineata la pericolosità anche per quanto riguardava la diffusione di idee come la mortalità dell’anima o la negazione della Trinità. Nel Settecento, e ancor più nel secolo successivo, il libertinismo si identificò sempre di più quindi, dal punto di vista ecclesiastico, con la sfera dei comportamenti oltre che con quella del pensiero. L’ateismo razionalista dell’Illuminismo venne interpretato come una forma di libertinismo, così come lo erano stati in passato le riproposizioni dell’atomismo lucreziano. Nella stessa Massoneria la Chiesa intravvide la possibilità della diffusione di idee di matrice irreligiosa e di fermenti legati a un generico libertinismo: le logge apparirono pertanto come dei centri in cui venivano coltivati tanto discorsi eterodossi quanto comportamenti licenziosi. Si trattava del resto di un’opinione diffusa anche fuori dalla struttura ecclesiastica: nel 1737, l’agente lucchese a Firenze Lorenzo Diodati scriveva che della loggia fiorentina non si sapeva poi molto, ma aveva sentito dire che la massoneria, «quando fu tentato d’introdurla a Turino, fosse scoperto che tenevano li seguenti tre perversi principi, cioè che l’usare carnalmente colle donne non fosse peccato; che non è necessaria la confessione, bastando la contrizione per rimettersi in grazia e che si può mangiar carne il venerdì e il sabato». Di lì a poco Tommaso Crudeli – nell’ambito della persecuzione di quella stessa loggia, la prima a subire tale destino in Italia – sarebbe stato condannato per aver letto Lucrezio, la Vita di Sisto V e quella di Paolo Sarpi, per aver inoltre ironizzato sul Sacro Cuore di Gesù e, infine, per «aver frequentato un’adunanza dove si parlava di filosofia e teologia e dove si osservano vari empi riti e s’insegnano molte eresie». Tutti riferimenti che richiamavano a quel mondo confuso che appariva essere quello della devianza libertina: d’altro canto la Bolla In eminenti emanata il 28 aprile 1738 da Clemente XII non proibiva la Massoneria per motivi di carattere dogmatico o ereticale, ma proprio per l’inquietudine di ciò che si sarebbe potuto celare dietro una struttura così opaca.

Fra Sette e Ottocento, per altri versi, andò consolidandosi una sorta identità naturale fra teorie “libertine” e la loro traduzione sul piano dei comportamenti, in primo luogo quello sessuale. Casi come quello di De Sade non contribuirono del resto a tranquillizzare gli animi di una Chiesa sempre più preoccupata da un fenomeno che appariva sempre meno limitato alle élites, capace di fondersi con un anticlericalismo spesso appoggiato dagli Stati. Gli strumenti a disposizione della Chiesa erano oramai spuntati: venuti meno i tribunali inquisitoriali sul finire del Settecento, lo stesso Index librorum prohibitorum trovò crescenti difficoltà nell’essere applicato, soprattutto fuori dal territorio italiano. Ateismo, libertà di pensiero, anticlericalismo, irreligiosità, immoralità andarono pertanto a connotare una sempre più sfuggente idea di “libertino”, ormai stabilmente diventato una categoria accusatoria definita sulla base della sfida ai buoni costumi e alla morale. La storia del libertinismo di fatto era diventata la storia del laicismo, e il libertinismo una categoria storiografica.

Fonti e Bibl. essenziale

F. Barbierato, Politici e ateisti. Percorsi della miscredenza a Venezia fra Sei e Settecento, Edizioni Unicopli, Milano 2006; J.-P. Cavaillé, Libertino, libertinage, libertinismo: una categoria storiografica alle prese con le sue fonti, «Rivista storica italiana», 2 (2008), 604-655; M. Cavarzere, La prassi della censura nell’Italia del Seicento. Tra repressione e mediazione, Edizioni di Storia e letteratura, Roma, 2011; N. Davidson, Unbelief and Atheism in Italy, 1500–1700, in Michael Hunter and David Wootton (eds), Atheism from the Reformation to the Enlightenment, Clarendon Press, Oxford, 1992; D. Foucault, Storia del libertinaggio e dei libertini, Salerno, Roma, 2009; C. Ginzburg, Il formaggio e i vermi. Il cosmo di un mugnaio del ‘500, Einaudi, Torino, 1974; M. Infelise, I libri proibiti da Gutenberg all’Encyclopédie, Laterza, Roma-Bari, 1999; A. Prosperi, Tribunali della coscienza. Inquisitori, confessori, missionari, Einaudi, Torino, 1996; D. Riposio, Il laberinto della verità. Aspetti del romanzo libertino del Seicento, Edizioni dell’Orso, Alessandria, 1995; Sergio Bertelli (a cura di), Il libertinismo in Europa, Ricciardi, Milano-Napoli, 1980; G. Spini, Ricerca dei libertini. La teoria dell’impostura delle religioni nel Seicento italiano, La Nuova Italia, Firenze 1983; S. Zoli, L’Europa libertina, Nardini editore, Firenze, 1997.


LEMMARIO




Liccardo Giovanni


Archeologo tardo antichista, è dirigente scolastico; insegna presso lo Studio Teologico “Madonna delle Grazie” di Benevento ed è membro del Comitato Scientifico e docente presso la Scuola di Alta formazione di Arte e Teologia della Pontificia Facoltà Teologica dell’Italia Meridionale (sezione San Luigi).





Liturgia (dal I al VIII secolo) - vol. I


Autore: Corrado Maggioni

Quale fisionomia ebbe la liturgia nella penisola italica dell’antichità? La risposta affiora dai dati, più chiari dal sec. V, riguardanti importanti sedi episcopali. Fino al sec. VI, le Chiese delle dieci province dell’Italia su­burbicaria (Tuscia-Umbria, Campania, Lucania-Bruttium, Apulia-Calabria, Samnium, Picenum, Valeria, Sicilia, Sardinia, Corsica), posta sotto l’autorità civile del Vicarius Urbis, erano ritual­mente legate a Roma. Nell’Italia anno­naria, dove l’assetto ecclesiastico non corrispondeva al civile, la sede più importante era Milano, resi­denza del Vicarius Italiae; vi erano poi Torino, Ver­celli, Brescia, Verona, Aquileia, Ra­venna, quest’ultima a cerniera tra il Nord e Roma, che ne nominava i vescovi an­cora al tempo di Gregorio Ma­gno. Nel sec. VII, la geografia si modifica e l’influenza di Roma si riduce per l’occupazione longobarda che la divide dall’esarcato di Ravenna e dalle regioni a sud, dove permangono antichi usi romani. I missionari campani inviati nelle isole inglesi recarono con sé i loro libri liturgici. Anche il monachesimo benedettino ha svolto la sua parte. Il latino era la lingua da tutti condivisa.

Liturgia romana. La Chiesa di Roma fu una matrice liturgica per l’intero Occidente, senza impedire la fioritura di altre prassi rituali. Se nel sec. II alcuni indizi vengono dall’Apologia di Giustino, nel sec. III è la Traditio apostolica attribuita ad Ippolito romano ad informare sul catecumenato, la veglia pasquale, il battesimo, l’Eucaristia, l’ordine, i ministeri, i tempi e modi di preghiera. Dopo la metà del sec. IV si va affermando una liturgia in latino, promossa da papa Damaso (366-384), che commissionò a Girolamo la revisione latina della Bibbia. Si determinò così lo sviluppo di un rito peculiare, caratterizzato da preghiere che non traducevano testi greci e si ispiravano a criteri compositivi del genio romano, ossia la sobrietas et concinnitas, attento all’aspetto giuridico del culto. Un esempio eloquente è il Canone romano, risalente al sec. IV e codificato nel VI.

Il passaggio dalle domus ecclesiae alle basiliche costantiniane (Laterano, S. Pietro in Vaticano, S. Paolo sulla via Ostiense), seguite da altre (S. Sabina e S. Maria Maggiore nel sec. V, S. Lorenzo in Verano nel VI, S. Giorgio al Velabro e S. Agnese nel VII) portò all’organizzarsi delle liturgie presiedute sia dal Vescovo che dai presbiteri. Peculiare fu il fermentum, ossia l’uso di inviare alle parrocchie un frammento del pane consacrato dal Papa affinché fosse immesso dal prete nel calice prima della comunione, segno del vincolo eucaristico di ogni comunità col Vescovo. Il bacio di pace è scambiato prima della comunione (cf. lettera di Innocenzo I al vescovo di Gubbio Decenzio del 19 marzo 416).

Il culto dei martiri fu vivamente coltivato in giorni e luoghi. Di origine romana è la festa del Natale il 25 dicembre, attestata dal Cronografo Filocaliano del 336. Prese così forma il ciclo dell’anno – ci informano le omelie di Leone Magno – in cui, oltre alle feste di Pasqua, Ascensione e Pentecoste, compare la Quaresima, l’adozione dell’Epifania (fine sec. IV), le feste degli apostoli Pietro e Paolo, i giorni di Avvento e la primitiva festa mariana il 1° gennaio (sec. VI). Nel sec. VII giungono a Roma le quattro feste orientali in onore della Vergine (2 febbraio, 25 marzo, 15 agosto e 8 settembre) che, diffuse in Europa con la liturgia romana, rappresentano nei secoli il cardine della pietà liturgica mariana.

Il deposito eucologico romano si è formato grazie a Leone Magno (†461), Gelasio († 496), Vigilio (†555) e Gregorio Magno (†604), il quale riordinò il rito della messa (due letture bibliche invece di tre, l’anticipo del Pater dopo il Canone e prima della fractio panis) e incrementò le stationes, ossia le chiese dove, in dati giorni, il Papa celebrava la messa col popolo romano. Conosciamo le celebrazioni (preghiere, giorni e occasioni) tramite i sacramentari Veronese (risalente al sec. V-VI), Gelasiano antico (testimone della liturgia presbiterale), Gregoriano Adrianeo (testimone della liturgia papale), Gregoriano Paduense. Delle letture bibliche abbiamo delle liste in manoscritti dei secc. VI-VII. Particolare rilievo va al canto gregoriano (fatto risalire a Gregorio Magno), i cui testi per la messa e l’ufficiatura sono custoditi negli antifonari. La residenza di chierici accanto al Papa, come il sorgere di monasteri presso le basiliche, ha favorito l’ufficio divino nelle ore del giorno. Preziosi sono gli Ordines (editi da M. Andrieu), ossia le indicazioni sul modo di celebrare a Roma nel medioevo, tra cui l’Ordo I riguardante la messa papale verso il 700 e l’Ordo XI l’iniziazione cristiana.

Liturgia ambrosiana. Se vi sono opinioni diverse sulla radice li­turgica della primitiva comunità di Milano (Roma o l’Oriente), è concorde ritenere sant’Ambrogio (374-397) l’organizzatore creativo di una prassi rituale, detta appunto ambrosiana. E’ nota la sua opera nell’iniziare al canto corale e nel comporre inni. Nei suoi scritti traspaiono rilevanti testimonianze liturgiche, come i testi biblici letti nelle celebrazioni, la con­sistenza dell’anno liturgico, la ritualità dell’iniziazione e della messa (cf. le catechesi mistagogiche De Sacramentis e De mysteriis). Per la sua intraprendenza il calendario milanese si arricchì del ricordo dei mar­tiri. Quanto osservava circa l’uso di lavare i piedi ai neo battezzati ben esprime la sua consapevolezza in materia liturgica: «Non ignoriamo che la Chiesa romana non ha questa consuetudine, sebbene noi ne seguiamo, in tutto, il modello e la norma. Tuttavia non ha questa consuetudine di lavare i piedi… Dico questo non già per criti­care gli altri, ma per giustificare il rito da me compiuto. Desi­dero seguire in tutto la Chiesa di Roma, ma tuttavia anche noi ab­biamo, come gli altri uomini, il nostro modo di pensare; quindi, ciò che altrove si osserva con fondate ragioni, anche noi lo con­serviamo con fondate ragioni» (De Sacramentis III,1,5).

Lo studio degli antichi libri ambrosiani (secc. IX-XI), ossia i sacramentari di Bergamo, Biasca, san Simpliciano, Ari­berto e il Triplex, ha accertato tre stratificazioni: la prima risa­lente al sec. (IV) V, legata ad Ambrogio ed Eusebio, il quale operò per la riorganizzazione dopo l’invasione di Attila; la seconda è del sec. VII, connessa con il ritorno dei vescovi milanesi dall’esilio a Genova per l’invasione longobarda; la terza, come appare dai manoscritti, è di epoca franco-carolingia. L’analisi comparata manifesta le in­fluenze recepite nei libri ambrosiani (da Chiese latine o orientali e poi dall’imposizione della liturgia ro­mano-franca attestata nei Gelasiani dell’VIII sec. e nel Supplemento del Grego­riano) o esercitate da essi sulla stessa litur­gia romana e ro­mano-franca.

La storia della liturgia ambrosiana ne svela la fi­sionomia specifica: sistemi di lettura liturgica della Scrittura, eucologia con chiari temi teologici, struttura tipica dell’anno liturgico (santorale, eortolo­gia, durata di avvento e quaresima), ordinamenti par­ticolari (l’antifona post evangelium, l’invito del diacono per la pace al termine della liturgia della parola e avanti la comunione, l’orazione super syndonem, il Simbolo prima dell’orazione sulle offerte, la frazione del pane con la sua antifona prima del Pater, l’abbondanza dei prefazi). L’antico deposito eucologico, antifone comprese, evidenzia la volontà di professare, tramite la lex orandi, la retta fede nel mistero di Cristo in­sidiata dall’opposizione ariana durata dai tempi di Ambrogio fino al 698, quando nel Si­nodo di Pavia si decretò formalmente la fine dell’arianesimo nella pianura padana. Tra le particolarità: la Quaresima inizia con la Domenica, prevede i venerdì aliturgici e non celebra i Santi; l’Avvento dura sei settimane e dal sec. V la Dome­nica antecedente il Natale celebra la divina mater­nità della Vergine.

Liturgia aquileiese. Via di comunicazione tra l’Italia e il Norico e tra Occidente ed Oriente, Aquileia conobbe nel sec. IV una notevole vivacità, con influenza giuridico-liturgica sulle Chiese della Venezia, della Rezia, del Norico, della Panno­nia, della Savia: lo testimoniano gli edifici cultuali eretti da Teodoro, firmatario al concilio di Arles del 314, e le basiliche dei secc. IV-V. Sotto il vescovo Valeriano, nel 381 si raccolsero in Concilio ad Aquileia trentadue vescovi per fronteggiare, capeggiati da Ambrogio, l’eresia ariana.

Dell’aquileiese Rufino († 410) ci è pervenuta la for­mula del Simbolo battesimale; nei suoi scritti abbiamo indizi sul legame della Chiesa di Alessandria con Aquileia, del resto vi­sitata più volte da Atanasio durante l’esilio. Dal cap. 97 del De viris illustri­bus di san Girolamo – risie­dette ad Aquileia dal 370 al 373 – sappiamo che il vescovo Fortunaziano († dopo il 360) «in evangelia titulis ordinatis breves sermone rustico scripsit com­mentarios» (CLLA 1, nr. 055 e CLLAS nr. 79). La testimonianza più autorevole sulla liturgia aquileiese a cavallo del sec. IV-V sono le omelie di Cromazio († 407), pronunciate nel corso dell’anno, per le feste del Natale e dell’Epifania, la Quaresima, le feste pasquali con i sacramenti dell’iniziazione, il tempo successivo con l’Ascensione e la Pentecoste, la dedicazione della chiesa di Concordia.

Per le letture bibliche siamo aiutati da due codici: il Codex Foroiuliensis, con frammenti di un capitulare evan­geliorum del sec. VI e note marginali aggiunte nei sec. VII-VIII; e il Codex Rehdigeranus, manoscritto del sec. VII, con l’aggiunta di un capitulare evangeliorum dell’inizio del sec. VIII. Pur presentando i segni dell’avvenuta romanizzazione, le liste delle pericopi evangeliche docu­mentano quale fu la tradizione locale antica, facendo intravedere le particolarità di un rito che andò consoli­dandosi, favorito da situazioni politico-ecclesiali. Infatti, al­terne vicende segnarono il patriarcato di Aquileia nel sec. VI-VII: dal rifiuto del Concilio costantinopolitano del 553 intorno alla questione dei Tre Capitoli e conseguente urto con i papi che lo confermarono, all’invasione dei Longobardi nel 568 che consi­gliò lo spostamento della residenza episcopale a Grado, alla divi­sione nel 605 del patriarcato in due comunità, l’una ortodossa le­gata all’impero bizantino e l’altra scismatica soggetta al regno longobardo, la quale sussistette fino al ritorno nell’unione con Roma nel 698. Quando il vescovo Paolino di Aquileia († 802) accolse­ le direttive di Carlo Magno e con esse il rito romano, rimasero negli ordines delle singole Chiese suffraga­nee (esempio a Como) alcune particolarità che permisero di parlare del cosiddetto “rito patriarchino”, abolito nel con­cilio di Aquileia del 1596.

Liturgia ravennate. Quando Ravenna divenne capitale dell’impero d’Occidente, all’alba del sec. V, anche l’antichissima Chiesa lì residente si riorganizzò. Lo attesta l’opera del ve­scovo Orso, costruttore di un’imponente basilica con bat­tistero. Col suo successore, san Pietro Crisologo (circa 425-456), la sede ravennate divenne metropolìa, soggetta a Roma ma con qualche giurisdizione su Chiese vicine fino allora dipendenti da Mi­lano; nel sec. VI, in epoca bizantino-giustinianea, dopo la dominazione ostrogota (493-526), furono intensi i contatti con l’Oriente.

Le omelie del Crisologo ci informano sull’ordinamento delle letture bibliche, l’anno liturgico ed aspetti della vita li­turgico-sacramentale. L’altra importante fonte è il celebre Rotulus, contenente quarantadue orazioni (sembra per l’ufficio divino) del tempo preparatorio al Natale. Compilato nel sec. VII, raccoglie materiale distinguibile in tre ambiti, dove sono confluite raccolte anteriori. L’impianto romano delle orazioni lascia spazio all’originalità di una lex orandi che ri­flette la professione di fede della Chiesa ravennate del V sec. nel mistero dell’incarnazione del Verbo divino nel grembo della Vergine, in virtù dello Spirito. Diverse orazioni sono indirizzate direttamente a Cristo, confessato nelle sue prerogative divine. E’ evidente il contatto con il pensiero teologico (la mano stessa?) del Crisologo.

Dal Liber pontificalis ecclesiae ravennatis di Andrea Agnello (prima metà del sec. IX) conosciamo l’attività liturgica del vescovo di origine orientale Massimiano (546-556), il quale avrebbe riordinato i libri dei vangeli e delle epistole, e redatto «missales per totum circulum anni et sanctorum omnium, cotidianis namque et quadragesimalibus temporibus, vel quid­quid ad ecclesiae ritum pertinet» (PL 106,610). E’ in questo periodo che la liturgia di Ravenna, officiata nelle ba­siliche che ancora ammiriamo, si consolida nei propri usi, mediati dalla tradizione romana e fatti propri non senza l’influsso di altre Chiese.

Liturgia campano-beneventana. La vicinanza con Roma e la sua dipendenza ecclesiastico-civile, non ha impedito peculiari usi nella regione campana, diffusi dai missionari anche nei paesi inglesi. Secondo Gennadio, Paolino di Nola († 431) avrebbe compo­sto un Liber sacramentorum.

I documenti disponibili, relativi ai testi biblici della messa (tre letture), risalgono ai secc. VI-VII per la Campania e ai secc. X-XI per Benevento: i più antichi, giuntici anche in posteriori copie anglo-sassoni, attestano la loro originalità (ci sarebbero indizi della prassi romana pregregoriana); quelli medie­vali, nonostante la romanizzazione, mostrano tracce di un sistema non romano. Diretto testimone della liturgia campana è il Codex Fuldensis, noto come l’Epistolario di Capua. Composto dal vescovo Vittore verso il 545 e passato in Inghilterra nel secolo seguente, presenta un proprio ordinamento di vangeli ed epistole (solo dalla lettere paoline) per il corso dell’anno (in Quaresima indica testi per la Domenica, mercoledì e venerdì) e la memoria di pochi santi (Pietro e Paolo, Lorenzo, Andrea e testi per un comune dei martiri).

Nell’evangeliario di Lindisfarne (o Comes di Napoli) e nel Co­dex regius, risalenti al VII-VIII sec., sono ravvisate copie di un capitolare dei vangeli proveniente da Na­poli. Poiché non è facile individuare le pericopi, essendo indicato l’evangelista senza dettagli, sono di aiuto le note dell’evangeliario di Burcardo di Würzbourg, che presenta caratteristiche napoletano-romane.

I più antichi codici della regione beneventana sono del sec. X-XI, già conformati come Messali plenari ed ormai romanizzati. Significativo è il Messale di Benevento, nel quale sono però scomparsi elementi tipici dell’antica liturgia locale, quali le tre letture (compaiono solo per le Domeniche dopo Pentecoste) e l’oratio post evangelium. I vangeli, a differenza delle epistole, conservano tracce del vetusto sistema beneventano. Quasi tutti i canti sono contras­segnati da neumi per il canto. Come libri bene­ventani il repertorio CLLA indica anche Breviari, Antifonari e i Rotoli pasquali con l’Exsultet miniato, corredati di una propria notazione musi­cale.

Unità e diversità rituale. I dati, spesso indizi, sull’antica liturgia nella penisola italica, testimoniano una fondamentale unità nella varietà di usi. Nessuna Chiesa, compresa l’ambrosiana, mirò ad avere un proprio rito, ma fu l’esperienza a maturare elementi che manifestarono una ritualità diversa dalla liturgia romana pur con essa imparen­tata, come è constatabile dalla comu­nanza di testi e usi. Il rito della messa a Roma e a Milano è simile rispetto al modo orientale. Il fatto che il Canone romano abbia paralleli nel De Sacramentis (IV, 21-22.26-27) di sant’Ambrogio, fa pensare che Roma e Milano conoscessero uno stesso te­sto-base, pensabile anche a Ravenna dal fatto che nei mo­saici di san Vitale (sec. VI) sono raffigu­rati Abele, Abramo e Melchissedech, nominati nel Canone ro­mano.

L’uso ambrosiano di lavare i piedi ai neofiti (non praticato a Roma ma in altre regioni sì: cf. De Sacra­mentis III, 1, 4-5) forse non era sconosciuto a Ravenna se nei mosaici del battistero neoniano (sec. V) è iscritto il versetto gio­vanneo della lavanda dei piedi. Un’omelia di Cromazio lo attesta come rito pre-battesimale per Aquileia, confermato dal Codex Rehdigeranus. Per l’anno liturgico, la comparazione delle letture bi­bliche in dati giorni e tempi permette di distinguere gli usi propri da quelli comuni ad aree cultuali. Il culto dei Santi locali è spesso coniugato al ricordo dei Santi di altre Chiese, segno di comunione ecclesiale.

Fonti e Bibl. essenziale

E. Cattaneo, Il culto cristiano in occidente. Note storiche, Roma 21984; C. Maggioni, Le antiche liturgie italiche non romane, in Rivista Liturgica 80 (1993) 463-483; B. Neunheuser (C. Cibien), Storia della liturgia, in D. Sartore – A.M. Triacca – C. Cibien (edd.), Liturgia, Dizionari San Paolo, Cinisello Balsamo 2001, 1944-1959; C. Vogel, In­troduction aux sources de l’histoire du culte chrétien au moyen-âge, Spoleto 1981; K. Gamber, Codices liturgici latini antiquiores = Spicilegii Fribur­gensis Subsidia, 1-1A, 2 voll., Freiburg 1986 (= CLLA); Supplementum con la collaborazione di B. Baroffio – F. Dell’Oro – A. Hänggi – J. Janini – A.M. Triacca, Freiburg 1988 (= CLLAS); P. Borella, Il rito ambrosiano, Brescia 1964; A.M. Triacca, Ambro­siana, Liturgia, in D. Sartore – A.M. Triacca – C. Cibien (edd.), Liturgia, Dizionari San Paolo, Cinisello Balsamo 2001, 6-46; F. Sottocornola, L’Anno litur­gico nei Sermoni di Pietro Crisologo. Ricerca storico-critica sulla litur­gia di Ravenna antica, Cesena 1973; G. Montanari, Culto e liturgia a Ravenna dal IV al IX secolo, in AA.VV., Storia di Ravenna, II.2. Dall’età bizan­tina all’età ottoniana. Ecclesiologia, cultura e arte, Venezia 1992, 241-281. E. Cattaneo, Santi milanesi ad Aquileia e santi aquileiesi a Mi­lano, in Aqui­leia e Milano (= Antichità altoadriatiche 4), Udine 1973, 235-248.


LEMMARIO




Liturgia (dall' VIII al XIX secolo) - vol. I


Autore: Norberto Valli

Secoli viii-x. Gli albori del secolo viii videro la fine del pontificato di Sergio I (687-701), che ebbe notevole importanza nella storia della liturgia; a quel tempo risale infatti la diffusione in Occidente della festa dell’Esaltazione della Croce, caratterizzata dall’ostensione e dall’adorazione della più insigne delle reliquie della passione del Signore. L’introduzione del canto dell’Agnus Dei durante la celebrazione eucaristica al momento della frazione del Pane costituì un’ulteriore novità, rispondente al desiderio di sottolineare il valore del sacrificio con il quale Cristo si è offerto per la salvezza del mondo. La decisione del papa fu determinante per l’ordo missae romano, non toccando quello ambrosiano, dotato di un Confractorium variabile, inserito nel “proprio” della messa e ancora oggi eseguito subito dopo il Canone. Inoltre a Sergio I si deve l’accoglienza dall’Oriente delle quattro feste mariane diffusesi nei secoli successivi in tutto l’Occidente: l’Assunzione, la Purificazione, l’Annunciazione e la Natività di Maria santissima. Il culto della Vergine, unito a quello dei martiri e dei santi, ricevette ulteriore incremento sotto il siro Gregorio III (731-741), succeduto al romano Gregorio II (715-731), che aveva difeso la venerazione delle immagini mentre divampava la lotta iconoclasta orientale e, verosimilmente, promosso l’arricchimento del sacramentario con i formulari per i giovedì di Quaresima. Le direttive date alle Chiese della Baviera tramite i missionari che egli inviò sembrano già fare del rito romano il modello al quale le altre tradizioni liturgiche occidentali si sarebbero dovute conformare.

La penisola italica, sia nella parte settentrionale che in quella meridionale, aveva visto la fioritura di una varietà di riti e di usi locali che la documentazione manoscritta è in grado, almeno in parte, di testimoniare. Si pensi, a titolo di esemplificazione, al peculiare ordinamento delle letture evangeliche della liturgia aquileiese, che si segnala per numerosi punti di contatto con quella ambrosiana: lo attestano il capitolare risalente proprio al secolo viii, contenuto nel codex Rehdigeranus, e quello del codex Forojuliensis. Grazie allo studio comparato dei codici ambrosiani del secolo ix è possibile risalire alla fase precarolingia e comprendere l’evoluzione avvenuta nell’eucologia e nel lezionario della Chiesa milanese, riconoscendo la conservazione di persistenti strutture distintive, tra le quali il radicamento negli usi gerosolimitani della Settimana Santa e la peculiare strutturazione dell’anno liturgico. L’evoluzione storica dei due riti aquileiese e ambrosiano ha avuto esiti diversi. La ricezione di usi e di testi di matrice romana, da semplice risultato di un influsso del tutto comprensibile, divenne ad Aquileia con il patriarca Paolino II (787-802), esponente di spicco dell’ambiente culturale carolingio, una precisa linea di condotta ecclesiastica. Ne derivò una progressiva omologazione al rito romano già molti secoli prima della definitiva soppressione degli usi aquileiesi avvenuta nel 1596 da parte del patriarca Francesco Barbaro. Al piano di unificazione liturgica concepito da Pipino il Breve e soprattutto da Carlo Magno, i vescovi della metropoli milanese invece reagirono, riuscendo a salvaguardare le proprie specificità. La ricostruzione della vicenda non è agevole, dovendo appellarsi all’Historia Mediolanensis di Landolfo Seniore (secoli xi-xii) che si pone tra storiografia e leggenda. L’autore informa che all’imperatore, intenzionato a distruggere o, comunque, a far sparire tutti i libri liturgici ambrosiani sia stato impossibile estinguerli completamente; si può infatti dedurre che l’intervento di un tenace quanto disinteressato difensore del rito ambrosiano abbia costituito la ragione determinante della sua preservazione. Landolfo presenta la figura del transmontanus episcopus Eugenio, che presso papa Adriano (772-795), nel corso di un sinodo, avrebbe perorato la causa del rito ambrosiano e ottenuto il riconoscimento pubblico della sua legittimità, accanto al romano, attraverso una sorta di ordalia. La tesi, sostenuta da alcuni studiosi, secondo la quale a Milano si ritroverebbero gli antichi usi romani non intaccati dalle innovazioni subentrate lungo i secoli nella liturgia papale, non ha mai avuto dimostrazioni convincenti. L’assimilazione degli influssi esterni è avvenuta attraverso una loro originale rielaborazione. Lo dimostra, tra l’altro, il canto. Soprattutto dal secolo viii in avanti la chiesa milanese ha assunto una rilevante parte del repertorio cosiddetto “gregoriano”. La storiografia più recente ha ridimensionato però l’idea che con la riforma carolingia ci siano state fortissime pressioni per l’abolizione del canto ambrosiano nell’ambito del tentativo di romanizzazione del rito. Sembra più verosimile che i milanesi abbiano ammesso per l’uso liturgico testi e musiche provenienti dalla tradizione romana, in grado di arricchire il repertorio preesistente. Non c’è però traccia dell’accoglienza da parte dei cantori ambrosiani del sistema modale gregoriano e di tutto ciò che esso comporta. I prestiti non influirono dunque sulla struttura fondamentale del canto ambrosiano; al contrario, si può dire che in questa transizione furono i pezzi gregoriani a subire modifiche al fine di essere adattati al repertorio locale.

Nell’Italia meridionale accanto agli antichi riti locali di matrice occidentale va considerato il rito bizantino o, più precisamente, italo-bizantino. Per quanto riguarda i primi, è stata rinvenuta nel celebre evangeliario di S. Cuthbert (Cotton ms. Nero D. IV), scritto a Lindisfarne all’inizio del secolo viii, una lista di passi neotestamentari da leggersi in determinate circostanze, che riflette l’uso napoletano. Una conferma è fornita dal fondo dei manoscritti pergamenacei della biblioteca dell’Università di Würzburg, dove è conservato il cosiddetto evangeliario di Burchard, codice, giunto in Germania dall’Inghilterra, al seguito di missionari, con note liturgiche assai vicine a quelle dell’evangeliario di S. Cuthbert, che mostrano l’innesto di elementi romani su un ordinamento concepito per la chiesa di Napoli. La varietà di consuetudini è ulteriormente comprovata dalle testimonianze documentarie ascrivibili a Benevento, tutte posteriori però al secolo ix. Non può essere trascurata poi, come si è detto, la presenza orientale, specificamente bizantina. È noto che il Patriarcato di Costantinopoli dall’viii all’xi secolo esercitò la propria giurisdizione su alcune regioni del Meridione. Infatti attorno al 732-733 un editto dell’imperatore Leone III Isaurico (717-741) le sottrasse alla giurisdizione metropolitana del Vescovo di Roma. La presenza di ellenofoni in fuga prima da Persiani e Arabi e poi dagli iconoclasti offrì all’amministrazione bizantina il pretesto per sostituire l’episcopato latino con quello greco. Si comprende così lo svilupparsi di una chiesa greca in Italia, che si è distinta fino a oggi per una liturgia caratterizzata da elementi peculiari rispetto alla metropoli costantinopolitana. Nella seconda metà del secolo xi, in seguito all’invasione normanna, il papato riottenne i territori alienati nel secolo viii, ma le chiese locali rimasero bizantine. Dopo le tensioni con Fozio (858-897) e la crisi del 1054 i vescovi greci d’Italia, ormai sotto la giurisdizione romana, si trovarono nella difficoltà di non essere più in comunione con la Chiesa da cui dipendeva la loro liturgia e, più in generale, la loro identità religiosa. Da rilevare è, in ogni caso, l’attenzione che, qualche tempo dopo, il Lateranense IV (1215) riservò, in modo particolare, ai fedeli di tradizione bizantina, raccomandando nel canone IX ai vescovi delle diocesi in cui fossero stati presenti persone di varia provenienza, ma uniti dalla stessa fede, la predisposizione di un clero idoneo a celebrare nei loro riti.

La penisola italica deve essere quindi ritenuta, in epoca medievale, teatro di una molteplicità di espressioni liturgiche, facenti capo alle sedi episcopali più rilevanti. Il processo di romanizzazione non fu certamente istantaneo, ma l’esito è visibile nei sacramentari, nei lezionari e nei messali plenari che, dall’età carolingia in avanti, tesero a conformarsi al modello imposto da Pipino il Breve e dal figlio Carlo Magno, benché la non immeditata fruibilità dei testi manoscritti abbia reso l’operazione meno rapida di quanto si possa pensare, lasciando sopravvivere a lungo le forme cultuali preesistenti. Bisogna, comunque, ricordare che quando Carlo nel 783 chiese a papa Adriano un sacramentario romano puro con l’intento di sostituire i “gelasiani misti” in circolazione, ottenuto il sacramentario papale lo fece integrare da Benedetto di Aniane (c. 750-821) con il Supplementum, atto a soddisfare esigenze ignorate nella fonte a lui pervenuta. La successiva sintesi del gregoriano adrianeo con i gelasiani produsse quello che è stato definito il gregoriano “gelasianizzato” del x e xi secolo, antecedente del messale della Curia romana del xiii.

Parimenti, gli Ordines romani, che lasciarono Roma nella prima metà del secolo viii, furono rielaborati in territorio franco-germanico fino a costituire quel pontificale romano-germanico del x secolo, ripreso nei secoli seguenti dai pontificali della Curia Romana. Gli stessi imperatori ottoniani che governarono, in seguito, con il fervore religioso dei carolingi, imposero, intorno alla metà del secolo xi, papi germanici che celebravano nelle modalità proprie della loro terra d’origine. La liturgia affermatasi nei secoli successivi al ix in gran parte della penisola italica, contestualmente al resto dell’impero, non è da ritenersi dunque romana pura, bensì il risultato dell’innesto su quel ceppo di elementi propri del contesto franco-germanico. Del resto, con la decadenza a Roma degli scriptoria, giungevano regolarmente ai papi libri liturgici dai monasteri d’Oltralpe. Tra le pratiche liturgiche originatesi fuori dall’Italia e che ebbero nei territori della penisola larghissima diffusione si annovera quella delle Rogazioni o Litanie, che il Concilio di Magonza dell’anno 813 confermò e rese di uso universale per tutto l’impero carolingio. Non trascurabili, infine, furono nel corso di quei secoli dell’alto medioevo, l’arricchimento dei calendari locali con nuove celebrazioni di santi, spesso legate a traslazioni di reliquie e alla devozione suscitata dal loro passaggio attraverso città e campagne, e l’incremento, documentato dalle fonti, delle feste di santi, come gli apostoli, significativi a livello universale.

Dalla riforma monastica cluniacense del x secolo derivarono l’intensificazione delle devozioni alla Croce, all’Eucaristia, a Maria e ai Santi, la commemorazione annuale di tutti i fedeli defunti e un impulso alla moltiplicazione delle messe celebrate in forma “privata”, rispecchiato dalla stessa architettura delle Chiese, dotate, allo scopo, di numerosi altari laterali. Vi sono pareri discordanti a riguardo del rapporto tra pratica delle messe private e formazione del messale plenario. Da una parte si è intravisto infatti un nesso di causalità, dall’altra lo si è negato, affermando che erano celebrate già prima della diffusione di tale libro liturgico; l’accorpamento di sacramentario, lezionario e antifonario sarebbe stato determinato non solo da una pietà sacerdotale portata a recitare ogni parte, ma anche dallo sviluppo della cura d’anime nei territori lontani dai grandi centri diocesani o monastici con la conseguente esigenza pratica di un unico libro facilmente trasportabile. In ogni caso, è innegabile un’evoluzione che condusse a ritenere l’azione eucaristica sempre più di competenza dei sacerdoti e sempre meno celebrazione comunitaria. Un segnale evidente dello sfaldamento della compagine liturgica e dell’acuirsi dell’isolamento della figura sacerdotale può essere identificato nell’ordo lateranense del 1140, che prescrive al celebrante di leggere tutti i testi destinati al canto mentre sono eseguiti dai cantori.

Il loro compito era stato nel frattempo facilitato dall’opera di Guido D’Arezzo (995-1050), insigne trattatista e didatta, prima monaco di Pomposa, trasferitosi in seguito ad Arezzo, dove fondò una scuola di canto. Suo merito fu non solo avere dato un nome alle note, prendendo ispirazione dalle sillabe iniziali delle varie sezioni di una strofa dell’inno di san Giovanni Battista, ma aver anche saputo ideare una forma di scrittura musicale idonea a fissare in modo preciso gli intervalli tra i suoni, fondamentale per lo sviluppo della diafonia e successivamente della polifonia.

Uno sguardo sul x sec. conduce, infine, a scorgere all’interno della liturgia e a partire da essa, soprattutto nel contesto dei riti pasquali, il crescente spazio dato alla drammatizzazione. La riproduzione visiva degli eventi celebrati rispondeva all’esigenza di avvicinare maggiormente il popolo ai contenuti delle celebrazioni e di suscitare una partecipazione emotiva più intensa, facendo, tuttavia, prevalere l’aspetto mimetico su quello anamnetico. In Italia ancora oggi, specialmente durante la Settimana Santa, in alcune regioni è molto diffusa una ritualità di questa natura.

Secoli xi-xiii. Nella prima metà del secolo xi alla solennità della liturgia cluniacense, accompagnata da una sontuosità architettonica e artistica, fecero riscontro in Italia, in ambito monastico, le tendenze a una maggiore essenzialità dei fondatori di Camaldoli e Vallombrosa, san Romualdo (951/53-1027) e san Giovanni Gualberto (995-1073); in una direzione simile si mossero i certosini e i cistercensi.

Novità di grande importanza nella celebrazione della santa messa romana fu, agli inizi del secondo millennio, l’introduzione del Credo. Quando nel 1014 l’imperatore Enrico II venne a Roma si meravigliò che mancasse. Il clero gli spiegò che la chiesa di Roma non aveva bisogno di esprimere la professione di fede, essendo da sempre depositaria dell’ortodossia. Benedetto VIII (1012-1024) cedette però all’insistenza imperiale e cominciò a farlo recitare secondo l’uso franco, dopo il Vangelo. Venne in seguito la determinazione dei giorni in cui usare il Simbolo durante la celebrazione eucaristica. Diversamente, nel rito ambrosiano, che lo ricevette dall’Oriente, il Credo fu collocato dopo la presentazione dei doni e lì ancora si trova.

Il secolo xi vide nel 1073 l’ascesa al soglio pontificio di Gregorio VII. Senza considerare qui la sua complessiva azione di riforma, basti sottolinearne la volontà di affermare l’autorità del romano Pontefice anche mediante la liturgia, imponendo la celebrazione delle feste dei papi santi in tutte le Chiese locali, e il proposito di riportare la liturgia all’antico uso romano, precedente agli influssi franco-germanici. Quest’ultima istanza sarebbe stata ripresa da Pio V per il messale tridentino e poi da Paolo VI per quello del 1970. In effetti, il pontificale romano del xii secolo, se confrontato con il pontificale romano-germanico, denota l’eliminazione di elementi ritenuti non pertinenti all’indole o in contrasto con la sensibilità culturale romana, senza giungere, tuttavia, a cancellare alcuni apporti subentrati a partire dall’età carolingia. Tale libro si diffuse presso le chiese locali d’Italia e anche d’Oltralpe.

Alla fine del secolo xii divenne papa con il nome di Innocenzo III (1198-1216) Lotario di Segni, autore di un commento alla messa dal titolo De altaris mysteriis, al quale si ispirarono analoghe opere tardo medievali, che spesso ne riassumevano i contenuti. A lui si deve, tra l’altro, la designazione dei cinque colori liturgici rimasti in uso fino a oggi. Negli ultimi anni di pontificato, Innocenzo III intervenne sull’ufficio divino, ma lasciò invariata la celebrazione eucaristica. Il successore, Onorio III (1216-1227), sottopose di nuovo l’ufficio a qualche intervento e produsse un Breviario, adottato nel 1230 dai Frati minori (Breviario della Regola); creò anche un messale, accolto dagli stessi Francescani, in quanto assai conveniente alla loro missione itinerante, del quale intorno al 1240 avvenne già una revisione a opera della Curia e, poco dopo, insieme agli altri libri della Regola, a opera di Aimone di Faversham, quarto superiore generale dei Francescani. Questi ripetuti rimaneggiamenti generarono una certa confusione a motivo della facile coesistenza di testi a diverso livello di rielaborazione.

In pieno xiii secolo il territorio della penisola registrava una predominanza della tradizione liturgica romana che si rifaceva ai libri della corte papale, distinta da quella romana antica praticata nella basilica di San Pietro e nelle chiese dell’Urbe, almeno fino al 1250, e da quella in uso presso il Laterano, le quali furono sottoposte dal cardinale Giovanni Orsini, poi Niccolò III (1277-1280), a un tentativo di fusione senza successo, a motivo della sua morte e del trasferimento del papato ad Avignone. A prevalere fu dunque la consuetudine della Curia papale, rispecchiata dal messale adottato già dai Francescani e ratificato all’inizio del secolo xiv dall’approvazione di Clemente V (1305-1314).

Al di là di questo esito, il popolo era sempre più portato ad assistere devotamente a un’azione rituale affidata al clero e alla schola cantorum. Già a cominciare dal ix secolo l’offerta del pane e del vino fu sostituita da un’elargizione di denaro. La comunione eucaristica dei fedeli diventò sempre meno frequente, per ragioni che si possono intuire, ma non facilmente definire, tra le quali il forte sentimento di inadeguatezza personale rispetto alla santità del Sacramento, accentuato dalle prescrizioni di purità rituale, la severità della disciplina penitenziale e le norme relative al digiuno. Alla disaffezione avevano cercato di far fronte ripetute disposizioni disciplinari culminanti nel famoso canone del Lateranense IV (1215) che prescrisse la comunione almeno a Pasqua per ogni fedele giunto all’età della discrezione. La pietà eucaristica dei fedeli si esprimeva sommamente nell’adorazione: la lontananza dalla comunione era compensata dalla “visione” del Corpo di Cristo. All’inizio del xiii secolo il gesto liturgico dell’elevazione durante il Canone era infatti ormai conosciuto in ogni luogo e l’esposizione dell’Eucaristia sempre più praticata. La richiesta, mediante un obolo ai sacerdoti, della celebrazione di sante messe, per ragioni di devozione, impetrazione di grazie o suffragio, portava con sé una visione meno comunitaria e piuttosto individualista. La diffusione di questa prassi è da ritenersi, tra l’altro, causa, non effetto, dell’ordinazione sacerdotale di molti monaci. La reiterazione dell’Eucaristia da parte del medesimo sacerdote per soddisfare le molte richieste provocò la reazione delle autorità ecclesiastiche che sanzionarono ripetutamente la prassi. Si pensi ai divieti di binazione comminati da Innocenzo III nel 1206 e, prima di lui, da Alessandro II (1061-1973) nel 1065. Il riflesso in ambito clericale della privatizzazione della celebrazione fu la progressiva crescita delle cosiddette apologie sacerdotali negli ordinari della messa, come emerge dai documenti fin dal ix secolo.

Quanto all’interpretazione della celebrazione eucaristica, in Italia fu accolto il metodo della lettura allegorica dei singoli riti inaugurato da Amalario di Metz (770/80-850), secondo il quale la messa è imitazione vera e reale della passione. Il genere dell’expositio missae e, in modo particolare, del canon missae risulta assai praticato dall’età carolingia in avanti. Tra le opere più significative in tale ambito è da annoverare il Mitrale di Sicardo di Cremona (1155-1215). Dal secolo xi si svilupparono pure commenti alle feste dell’anno liturgico.

La comprensione del sacramento dell’Eucaristia dovette confrontarsi con la crisi del linguaggio tipologico-figurale tipico dell’età patristica. Ne conseguì il prevalere del fisicismo, al fine di contrastare l’indebolimento dell’identità tra le specie consacrate e il Corpo di Cristo. L’offensiva contro il pensiero di Berengario di Tours (+ 1088), la cui concezione di sacramento non appariva in grado di custodire la realtà di ciò che accade durante la messa, si manifestò in territorio italiano prima a Vercelli (1050) e poi a Roma nei due sinodi del 1059 e del 1079. Un grande ruolo ebbero nella controversia Lanfranco di Pavia (+ 1089) e Guitmondo di Aversa (+ 1094) che, pur rimanendo ancorati al fisicismo, in relazione alle specie eucaristiche operarono una distinzione tra una dimensione che muta e una che resta immutata. Tale linea di pensiero fece da preludio all’elaborazione del concetto di transustanziazione operata dalla teologia scolastica con la decisiva riflessione di Tommaso d’Aquino (1225-1274). Concomitante fu la fioritura nella penisola di numerosi miracoli eucaristici. Quello avvenuto a Bolsena nel 1263 ebbe come riflesso, l’anno seguente, l’estensione della festa del Corpus Domini, già dal 1246 introdotta nella diocesi di Liegi, a tutta la Chiesa da parte di Urbano IV (1261-1264) mediante la bolla Transiturus, nella quale, tuttavia, non si fa alcun cenno all’evento prodigioso.

Figura di spicco, in ambito liturgico, nella seconda metà del xiii secolo fu Guglielmo Durando (1230 – 1296), francese d’origine, ma vissuto a lungo in Italia. A lui si deve la revisione del pontificale romano e il suo adattamento alle esigenze dei vescovi. Quest’opera costituì il punto di riferimento per le successive compilazioni. Ormai verso la fine del xiii secolo conobbe una tappa non irrilevante il processo di latinizzazione delle chiese bizantine della penisola: il sinodo di Melfi del 1284 rese per loro obbligatoria l’introduzione del Filioque nella professione di fede.

Secoli xiv-xvi. I secoli xiv e xv furono contrassegnati in Italia, come nel resto dell’Europa, da luci e ombre: a un intenso fervore culturale, si accompagnava il malessere dovuto ai conflitti e a grandi tragedie, tra le quali la pestilenza del 1380. La spiritualità vedeva il prevalere dell’individualismo sul senso ecclesiale con la conseguente fatica a considerare la liturgia, continuamente interpretata secondo i criteri dell’allegoria, una fonte essenziale per la spiritualità cristiana; a prevalere erano dunque le svariate forme della pietà popolare. In quest’epoca, per di più, il consolidarsi dell’istituto della commenda ebbe tra le sue conseguenze deleterie il disimpegno nella liturgia da parte di ecclesiastici, privi talvolta di ordini maggiori, o il suo esercizio in modi sconvenienti, sanzionati dal Concilio di Vienne (1312-13). Si aggiungano i contrasti tra clero diocesano e ordini mendicanti, continuamente dotati di privilegi, esenzioni e facoltà di agire nell’ambito della vita sacramentale. D’altra parte, le grandiose cattedrali sorte nelle città della penisola esigevano una liturgia celebrata con solennità e si dimostrarono luoghi adatti ad accogliere il gusto musicale che andava diffondendosi, più orientato a dilettare con la sua piacevolezza che a nobilitare il testo sacro, curandone l’intellegibilità. È documentato, soprattutto nella seconda metà del xiv secolo, il riordino delle regole per l’ufficiatura corale dei Capitoli. I fedeli erano avvertiti della preghiera con il suono delle campane e intervenivano direttamente quasi solo ai Vespri domenicali.

Nel 1334 papa Giovanni XXII (1316-1334), spinto dalla sua diffusione a livello locale, introdusse nel calendario universale della Chiesa la festa della Santissima Trinità nella domenica dopo Pentecoste, superando l’opposizione di principio fino ad allora sostenuta dalla Sede Apostolica, contraria a legare a un giorno specifico il mistero di Dio sempre celebrato. Gregorio XI (1370-1378) fissò al 21 novembre la festa della Presentazione di Maria al Tempio, Urbano VI (1378-1389) nel 1389 quella della Visitazione. La crescita continua dei giorni considerati festivi rende ragione della discussione che sarebbe avvenuta al Concilio di Costanza (1414-1418) in merito alla possibilità di lavorare dopo aver compiuto il dovere di presenziare alla messa. Fu di Urbano V (1362-1370), nel 1370, l’iniziativa di inviare Giacomo d’Itri (+ 1387/93), che avrebbe avuto poi parte attiva nello scisma d’Occidente, a visitare chiese e monasteri di rito bizantino per correggere gli “errori” dei loro libri liturgici, in particolare nella preghiera eucaristica. Nel confermare, l’anno seguente, le disposizioni del predecessore, papa Gregorio XI parlò di “alcune parole aggiunte” al testo del Canone che generavano una interpretazione erronea ed eretica e che andavano immediatamente cassate. I presunti “errori” individuati erano la supplica epicletica per la trasformazione del pane e del vino nel corpo e nel sangue di Cristo, che nelle anafore orientali viene dopo il racconto dell’istituzione.

Nel secolo xv si evidenziò la tendenza ad adottare, nel modo di celebrare, il fasto tipico delle corti signorili, parallelamente a una progressiva diminuzione della preoccupazione liturgico-pastorale. Lo si constata nei cerimoniali, redatti a partire dal pontificale di Guglielmo Durando, da illustri componenti della corte papale, quali Giovanni Burcardo (c. 1450-1506), Agostino Patrizi Piccolomini (c. 1435-1495) e Paride Grassi (c. 1460-1528). Si avvertiva, al contempo, l’aspirazione a una riforma della liturgia, dentro il quadro della più generale riforma della Chiesa “in capite et in membris” promossa dal Concilio di Costanza e intrapresa da alcuni vescovi.

Del Concilio di Firenze (1439-1445) si deve ricordare, nella Bolla Exsultate Domino (22 novembre 1439) sull’unione con gli Armeni, la precisazione del settenario sacramentale con la specificazione di materia e forma celebrativa. Poiché tale decreto ometteva la formula di consacrazione del Corpo e del Sangue del Signore, essa fu inserita nel decreto di unione con i copti e gli etiopi (4 febbraio 1442).

L’inizio del Cinquecento avvenne in Italia nel desolante quadro spirituale lasciato da Alessandro VI (1492-1503), per altro grande mecenate e protettore di insigni umanisti, contro il quale predicò Girolamo Savonarola (1452-1498). Al domenicano che dovette patire la scomunica e la condanna a morte per eresia, si deve il Trattato nobilissimo del sacramento, emblematico per intendere gli sviluppi dell’approccio allegorico alla celebrazione della messa, originatosi nell’alto medioevo. Giulio II (1503-1513), oltre ad accentuare lo splendore dei luoghi di culto, fondò la Cappella musicale che da lui prese il nome per garantire la celebrazione quotidiana delle Ore canoniche. Morì durante il Concilio Lateranense V (1512-1517) da lui convocato e proseguito da Leone X (1513-1521), al quale fu indirizzato un Libellus, nel quale si chiedeva l’unificazione di tutti i libri liturgici e, descritta la situazione deplorevole in cui versava la pietà dei fedeli, spesso vittime della superstizione e inclini a credere alla magia, si avanzava la proposta che durante il culto si usasse la lingua parlata. Recentemente la paternità dell’opera, da sempre attribuita ai nobili veneziani, poi monaci camaldolesi, Tommaso Giustiniani e Vincenzo Quirini, è stata ascritta al solo Giustiniani. Il Lateranense V affrontò la questione liturgica solo sotto il profilo disciplinare, dando però alcune regole per la formazione, che contemplano l’attenzione alla dimensione celebrativa. Negli anni successivi cominciarono a farsi strada interessanti tentativi volti a restaurare lo spirito liturgico nel clero a utilità dei fedeli. Il domenicano Alberto Castellani (o da Castello) preparò una nuova edizione del pontificale romano, dedicandola a Leone X e poco dopo compose un altro libro liturgico di ben più largo interesse, il Liber sacedotalis, nel quale raccolse tutti gli ordinamenti rituali di competenza presbiterale, riordinando tutte le leggi canoniche con attenzione pastorale. Tra l’altro vi incluse l’ordo missae composto da Burcardo, che Alessandro VI aveva deciso di far introdurre in tutti i messali di rito romano.

Il successo dell’opera di Castellani indusse Leone X a progettare una revisione del breviario, che affidò al vescovo Zaccaria Ferreri (1479-1524), il quale si dedicò soprattutto agli inni, ma non poté concludere l’opera, perché affidata da Clemente VII (1523-1434) prima a Gaetano da Thiene (1480-1547) e, in seguito, al cardinale spagnolo Francisco Quiñonez (c. 1482-1540); anche la proposta di quest’ultimo, certamente apprezzabile e per molti aspetti precorritrice dei tempi, non ottenne mai un’approvazione ufficiale.

La chiusura del Lateranense V coincise con il divampare della riforma protestante, per le cui vicende si rimanda all’abbondante trattatistica. La riforma cattolica pre-tridentina non aveva ignorato la causa della liturgia, pur fra differenti sensibilità nell’assumerla. Rimanendo nell’ambito dell’ufficiatura, il bisogno di rinnovamento si manifestò in ordini e congregazioni religiose che talora recuperarono lo stile dell’antico opus Dei benedettino (Eremitani), più spesso ne fecero l’espressione della pietà personale (Cappuccini, Barnabiti): i Gesuiti giunsero persino ad abolire il coro. Quanto ai fedeli, la loro attenzione continuò a essere rivolta soprattutto al culto eucaristico con l’incremento delle esposizioni del Santissimo Sacramento, anche nella forma delle cosiddette Quarantore, spesso animate da intenti riparatori, e con l’impulso dato alle Confraternite, nelle quali si coltivava l’abitudine alla comunione mensile.

Nei Padri conciliari riuniti a Trento fu forte la consapevolezza che un vera riforma cattolica, anche nel campo liturgico, si sarebbe potuta attuare solo grazie a un clero formato nei seminari. In ogni caso, si avvertiva l’esigenza di nuovi libri liturgici, la cui preparazione iniziò al termine dell’assise e condusse alla pubblicazione anzitutto del breviario nel 1568, segno dell’avvertita necessità di una nuova spiritualità sacerdotale, poi del messale nel 1570, con un ridimensionamento del santorale rispetto al de tempore, del martirologio nel 1583, del pontificale nel 1586, del cerimoniale dei vescovi nel 1600 e del rituale nel 1614. Nella bolla di pubblicazione del breviario comparve il criterio, esteso poi agli altri libri liturgici, che ne sanciva l’uso per tutte le Chiese d’occidente, a eccezione di quelle provviste di un rito risalente almeno a duecento anni prima. Tale disposizione ratificò la salvaguardia della liturgia ambrosiana, che, sotto san Carlo, avviò la revisione dei propri libri liturgici. In Occidente, fu decretata così la fine di tutte le altre espressioni rituali, ad eccezione del rito ispanico, conservatosi, per iniziativa del cardinale Cisneros, nella cappella del Corpus Christi all’interno della cattedrale di Toledo. Qualche intuizione pastorale di carattere liturgico emersa a Trento non ebbe conseguenze effettive: di fronte al pericolo protestante si ritenne maggiormente prudente non proporre la lettura in volgare delle epistole e dei vangeli. L’interpretazione allegorica dei riti era ormai consolidata insieme alla pratica della comunione spirituale, assai più sentita di quella eucaristica, prevista per i fedeli abitualmente al di fuori della messa. Prevalse invece la preoccupazione di riordinare dal punto di vista disciplinare ogni realtà inerente al culto. San Carlo Borromeo, fedele interprete delle direttive tridentine, si fece promotore a questo scopo di un concilio provinciale, svoltosi nel 1565, le cui risoluzioni ispirarono la legislazione di molte diocesi europee. Giovanni Pierluigi da Palestrina (1525/6-1594) con le sue composizioni polifoniche, ispirate alla purezza delle forme gregoriane e protese alla massima attenzione all’intelligibilità del testo, rappresentò, dal punto di vista musicale, l’esito più ragguardevole del disciplinamento attuato a Trento.

Verso la fine del secolo, nel 1588, nacque la Congregazione dei riti che diede grande importanza soprattutto alla fissazione delle rubriche, aspetto che sarebbe risultato determinante e, troppo spesso esclusivo nell’ambito della formazione del clero, almeno fino al sorgere del movimento liturgico.

Secoli xvii-xix. Il secolo xvii, l’età del barocco, mostra nella stessa architettura il prevalere della devozione sulla liturgia. Gli altari, dotati di una piccola mensa, erano concepiti come grandiosi monumenti con al centro il tabernacolo sovrastato dalla pala con le immagini dei santi venerati; le opere d’arte miravano a suscitare stupore e commozione. In tale clima la festa del Corpus Domini con la sua ottava acquistò in Italia sempre maggiore fasto. Al culto eucaristico si affiancava quello mariano che, dopo aver registrato l’istituzione della festa del Rosario, a ricordo della vittoria di Lepanto (1571), si apprestava ad assumere quella del Nome di Maria, per commemorare la cacciata dei Turchi da Vienna (1683), mentre andava rafforzandosi la devozione alla Vergine nel giorno di sabato e si intensificavano i pellegrinaggi con la continua edificazione di santuari.

Contro la spettacolarizzazione della liturgia, durante la quale suono e canto, dopo la misurata esperienza della polifonia rinascimentale, tendevano, mediante l’arricchimento strumentale, a forme di grande splendore, non sempre, però, idonee all’ordinamento celebrativo, intervenne nel 1643 la competente Congregazione romana, sanzionando l’introduzione di brani musicali non funzionali al rito e persino tali da subordinarlo alle loro esecuzioni. Nel frattempo, il rifiorito uso del latino ridestava l’interesse per l’innodia. Urbano VIII (1623-1644) promosse la correzione dei testi ad carminis et latinitatis leges. Durante il suo papato reagì, inoltre, al dilagare delle dottrine gianseniste con la bolla In eminenti del 1642, mentre, soprattutto dai Gesuiti, l’antidoto a tale spiritualità era individuato nel culto al Sacro Cuore di Gesù, inteso come riconoscimento dell’infinita misericordia divina. La festa liturgica, celebrata per la prima volta in Francia nel 1672, sarebbe stata estesa a tutta la Chiesa nel 1856.

Non mancarono nel Seicento raffinate sensibilità verso lo studio scientifico della liturgia come quella del cardinale Giuseppe Maria Tomasi (1659-1713), che si dedicò all’edizione di antichi sacramentari. Tra i commentatori va ricordato altresì il cardinale Giovanni Bona (1609-1674), che scrisse nel 1688 il trattato De Sacrificio Missae con qualche idea nuova sulla partecipazione dei fedeli.

Il contesto culturale del secolo dell’Illuminismo, teso all’esaltazione della ragione e in generale alle diverse forme del sapere, generò interesse ancora maggiore per gli studi liturgici. Tralasciando qui quanto prodotto nel resto d’Europa, degna di nota in Italia fu l’attività svolta da Ludovico Antonio Muratori (1672-1750) nell’ambito della ricerca storica, in una costante tensione a denunciare le degenerazioni subentrate nel culto e a proporre riforme per sostenere la spiritualità dei fedeli. Nel sua “operetta”, come egli stesso la chiamava, intitolata Della regolata devozione dei cristiani (1743) affrontò, tra l’altro, il tema della partecipazione del popolo alla messa. Già il cardinale Tomasi con una sua breve istruzione sul modo di assistervi fruttuosamente, edita nel 1710, aveva tentato di offrire un’alternativa alla più diffusa concezione devozionale, ulteriormente consolidata dalle Massime eterne (1728, con ristampe fino al xx secolo) di sant’Alfonso Maria de’ Liguori (1696-1787). Muratori si spinse fino a tradurre e a commentare l’ordinario della messa ed entrò nel dibattito a riguardo della comunione eucaristica, di cui aveva trattato l’anno prima papa Benedetto XIV (1740-1758) nell’enciclica Certiores, dopo la cosiddetta questione di Crema del 1737; si espresse pure contro la musica sacra posta al servizio del puro piacere e in merito alle feste di precetto, oggetto di ripetute controversie, auspicandone la riduzione a vantaggio di chi era costretto a lavorare. Sulla presa di posizione di papa Lambertini contro l’uso del volgare, non del tutto conforme alle idee da lui espresse da arcivescovo di Bologna, influì la preoccupazione di contrastare il giansenismo. Il pontefice aveva in animo riforme in campo liturgico, ma morì prima di riuscire ad attuarle.

Alla grande attenzione di Muratori alle fonti liturgiche, documentata nella sua opera dal titolo Liturgia romana vetus, è da associare quella di Francesco Antonio Zaccaria (1714-1795), autore della Bibliotheca ritualis, vera e propria storia dei libri liturgici unita alla prima bibliografia liturgica.

Pur tralasciando l’approfondimento dei risvolti che ebbe in Italia il giansenismo e dei suoi legami con le riforme promosse dal governo austriaco, non si può trascurare il loro punto di approdo rappresentato dal sinodo di Pistoia del 1786, promosso da Pietro Leopoldo, Granduca di Toscana dal 1765 al 1790 (poi Leopoldo II d’Asburgo- Lorena), animato dal teologo Pietro Tamburini (1737-1827) e guidato dal vescovo Scipione de’ Ricci (1740-1810), la cui ambizione a divenire il fulcro di una riforma, di evidente indole antiromana, estesa a tutta l’Italia fallì, anche per suoi atteggiamenti invisi ai fedeli, trascinandolo verso una condanna formale. Di per sé le proposte del sinodo erano molto all’avanguardia, anticipando scelte in materia liturgica che sarebbero state incoraggiate dal Vaticano II, quali l’introduzione della lingua volgare, la semplificazione dei riti, il divieto di celebrare più messe contemporaneamente nella stessa chiesa, la centralità della domenica e dell’Eucaristia parrocchiale. Già i vescovi toscani nel 1787 si dichiararono sfavorevoli alle risoluzioni di Pistoia; nel 1794 con la bolla Auctorem fidei Pio VI (1775-1799) condannò ottantacinque tesi, giudicandone alcune eretiche, altre scismatiche. Nel 1805 Scipione de’ Ricci avrebbe abiurato le sue tesi in un incontro a Firenze con Pio VII (1800-1823), il papa che nello stesso anno, il 23 maggio, con un rito trionfalistico incoronava, nel Duomo di Milano, Napoleone re d’Italia. Se, dopo il tentativo di distruzione del culto cristiano operato dalla rivoluzione francese, l’imperatore sembrò restaurarlo, abolendo il calendario repubblicano e ripristinando quello tradizionale, le sue reali intenzioni si palesarono con nuove soppressioni degli ordini religiosi e la conferma di quelle già avvenute. Con la successiva restaurazione non fu semplice eliminare i disagi che si erano creati nel regolare svolgimento del culto, anche a motivo della secolarizzazione, o persino della distruzione, di molte abbazie, chiese e conventi.

Nonostante queste difficoltà, nei primi anni del xix secolo si percepiva un movimento per la partecipazione dei fedeli alla liturgia: comparvero infatti parecchie traduzioni del messale a uso dei fedeli e si moltiplicarono testi illustrativi e di commento. Si pensi alla Guida liturgica (1829-30) di Giuseppe Maria Pavone, al Dizionario sacro liturgico (1931-32) di Giovanni Diclich o, in ambito milanese, alle Memorie storiche relative al rito ambrosiano (1824) di Giacinto Ferrario e agli studi di Luigi Biraghi (1801-1879). È nota, altresì, la denuncia della “divisione del popolo dal clero nel pubblico culto”, espressa da Antonio Rosmini (1797-1855) nel suo libro Delle cinque piaghe della Santa Chiesa, scritto nel 1832, ma pubblicato nel 1848, nel quale identifica tra le cause l’uso del latino. La Santa Sede non si mostrava incline a introdurre novità. Lo dimostrano l’atteggiamento di Gregorio XVI (1831-1846), che nel 1841 non approvò una rinnovata edizione del breviario ambrosiano, e di Pio IX (1846-1878) che nel concistoro del 9 dicembre 1854 invitava a istruire i fedeli solo a una presenza devota alla santa messa. Si comprende dunque il successo del Manuale di Filotea di Giuseppe Riva (1803-1876) che continuava ad affiancare ai momenti della celebrazione eucaristica gli eventi della vita di Cristo, per suscitare sentimenti corrispondenti alle diverse circostanze. Un’autentica spiritualità liturgica poteva essere coltivata solo da chi aveva la cultura sufficiente per intendere i testi.

Nel corso dell’Ottocento la musica usata durante le celebrazioni si andò caricando sempre più di teatralità, tanto da suscitare giudizi negativi anche al Concilio Vaticano I che, apertosi l’8 dicembre 1869, non ebbe il tempo di affrontare la questione liturgica, essendo stato aggiornato sine die il 20 ottobre 1870.

Fonti e Bibl. essenziale

C. Alzati, Ambrosianum Mysterium. La Chiesa di Milano e la sua tradizione liturgica (Archivio Ambrosiano 81), Milano 2000; C. Alzati, Aquileia, in Dizionario della Chiesa ambrosiana 1, Milano 1987, 196-198; C. Alzati, Landolfo Seniore, in Dizionario della Chiesa ambrosiana 3, Milano 1989, 1655-1658; C. Bernardi, La drammaturgia della Settimana santa in Italia, Milano 1991; P. Borella, Il Rito ambrosiano, Brescia 1964; I. Calabuig, Il culto di Maria in Oriente e in Occidente, in A. J. Chupungco (ed.), Tempo e spazio liturgico (Scientia Liturgica. Manuale di Liturgia 5), Casale Monferrato (Al) 1998, 255-337; P. Caspani, Pane vivo spezzato per il mondo. Linee di teologia eucaristica, Assisi 2011; A.J. Chupungco – K.F. Pecklers, Storia della liturgia romana, in A.J. Chupungco (ed.), Introduzione alla liturgia (Scientia Liturgica. Manuale di Liturgia 1), Casale Monferrato (Al) 1998, 145-194; E. Cattaneo, Il culto cristiano in Occidente. Note storiche (Bibliotheca Ephemerides Liturgicae Subsidia 13), Roma 21992; D. De Bruyne, Les notes liturgiques du Codex Forojuliensis, in Revue Bénédictine 30 (1913), 208-218; C. Folsom, I libri liturgici romani, in A. Chupungco (ed.), Introduzione alla liturgia (Scientia Liturgica. Manuale di Liturgia 1), Casale Monferrato (Al) 1998, 263-330; P. Giustiniani, Un eremita al servizio della Chiesa (Il Libellus ad Leonem X e altri opuscoli) (Scritti del Beato Paolo Giustiniani 3), Cinisello Balsamo (Mi) 2012; P. Golinelli, Città e culto dei santi nel Medioevo italiano (Biblioteca di storia urbana medievale 4), Bologna 1996; J.A. Jungmann, Missarum Sollemnia (ed. anastatica), Milano 2004 (orig. Missarum Sollemnia. Eine genetische Erlärung der römischen Messe, Wien 1949); S. Marsili et alii (edd.), La Liturgia, panorama storico generale (Anamnesis. Introduzione storico-teologica alla Liturgia 2), Genova 1978 (rist. 1996); G. Morin, La liturgie à Naples au temps de Saint Grégoire, in Revue Bénédictine 8 (1891), 481-493.529-537; G. Morin, L’année liturgique à Aquilée antérieurement à l’époque carolingienne d’après le codex Evangeliorum Rehdigeranus, in Revue Bénédictine 19 (1902), 1-12; G. Morin, Les notes liturgique de l’Évangéliaire de Burchard, in Revue Bénédictine 10 (1893), 113-126; S. Parenti, Orientali, Liturgie, in D. Sartore – A.M. Triacca – C. Cibien (edd.), Liturgia, Cinisello Balsamo (Mi) 2001, 1385-1403; S. Parenti, A Oriente e occidente di Costantinopoli. Temi e problemi liturgici di ieri e di oggi (Monumenta Studia Instrumenta Liturgica 54), Città del Vaticano 2010; M. Righetti, Manuale di Storia liturgica 1-4 (ed. anastatica), Milano 1998; Ph. Rouillard, Il culto dei santi in Oriente e in Occidente, in A.J. Chupungco (ed.), Tempo e spazio liturgico (Scientia Liturgica. Manuale di Liturgia 5), Casale Monferrato (Al) 1998, 338-355; N. Valli, L’ordo evangeliorum a Milano in età altomedievale (Monumenta Studia Instrumenta Liturgica 51), Città del Vaticano 2008; C. Vogel, Introduction aux sources de l’histoire du culte chrétien au moyen âge (Biblioteca degli Studi Medievali 1), Spoleto 1965; A. Angenendt, Liturgia e Storia. Lo sviluppo organico in questione, (Leitourgia.Sezione storico-pastorale), Assisi 2005, 169-208; R. Tagliaferri, Il travaglio del cristianesimo. Romanitas Christiana (Leitourgia.Sezione antropologica), Assisi 2012, 111-145; K. Pecklers, Atlante storico della liturgia, Milano 2012], 82-153.


LEMMARIO




Liturgia - vol. II


Autore: Angelo Lameri

Il Movimento liturgico in Europa. Nel cammino della Chiesa in questo nostro mondo, la fine del XIX secolo è ricca di fermenti, di passione, di attenzione alle res novae. In questo contesto si inserisce anche un rinnovato interesse e una rinnovata attenzione alla liturgia celebrata e vissuta. Ci riferiamo a quel fenomeno universalmente noto come Movimento liturgico. Anche se è difficile indicare quando esso prese inizio, possiamo trovare i primi significativi passi nella Francia di fine ottocento e nella rinascita della vita benedettina promossa da Prosper Guéranger (1805-1875). Egli fu infatti il primo abate della riaperta abbazia di Solesmes, soppressa nel 1791. La spiritualità di Guéranger è fortemente radicata sul rapporto tra vita cristiana, vita monastica e vita benedettina. In questo contesto egli si rivolge alla liturgia come fonte di un’autentica spiritualità cristiana. La sua definizione di liturgia è infatti: «preghiera della Chiesa», come forma di preghiera eccellente e superiore ad ogni altra perché realizza l’unità delle anime con Dio e l’unità delle anime nella Chiesa. Gesù Cristo stesso infatti è l’oggetto della liturgia e l’anno liturgico è la manifestazione dei misteri di Cristo nella Chiesa e nell’anima del fedele. Egli espone queste sue riflessioni nelle due opere principali: Istitutions liturgiques (Paris 1840-1851) e soprattutto l’Année liturgique (Paris 1841-1866).

Ben presto la rinascita della vita benedettina e le idee del movimento liturgico si diffondono in Europa, in particolare in Germania e in Belgio. Qui, nell’abbazia di Mont-César a Lovanio, troviamo Lambert Beauduin (1873-1953). La vita liturgica nel monastero, unita alla meditazione dei misteri che era chiamato a insegnare, lo persuasero del grande valore pastorale della liturgia, vista come alimento della fede. Egli ebbe modo di esporre le sue idee nel 1909 al congresso di Malines dove sostenne che la maniera migliore per tenere uniti alla Chiesa «coloro che ancora vi entrano e per riportarvi quelli che l’hanno abbandonata», fosse quella di rendere ai fedeli l’intelligenza e quindi l’amore dei misteri che si celebrano all’altare. La sua opera più significativa fu La Piété de l’église (Paris 1914) nella quale definisce la liturgia «culto della Chiesa», del quale il soggetto unico e universale è il Cristo risuscitato che opera la salvezza. Il culto della Chiesa appare quindi principalmente come esercizio del sacerdozio di Cristo e diventa così storia della salvezza in atto.

In Germania, nell’abbazia di Maria Laach, troviamo Odo Casel (1886-1948). La sua riflessione, prendendo avvio dallo studio della celebrazione liturgica, costantemente chiamata “mistero” nel linguaggio dei Padri della Chiesa e in quello eucologico, arriva a definire la liturgia come «il mistero di Cristo e della Chiesa». Nella sua opera fondamentale Das christliche Kultmysterium [Il mistero del culto cristiano] (Regensburg 1932) egli sostiene che il mistero del culto è la realizzazione, sotto la modalità dei simboli e dei riti liturgici, del mistero di Cristo che continua nella Chiesa per santificarla lungo i secoli. A questo proposito egli parla di una presenza misterica di Cristo, di una ri-attualizzazione e di una ri-presentazione del mistero della salvezza nella liturgia. Le intuizioni di Casel sono fortemente innovative rispetto all’idea stessa di culto allora prevalente. Il culto per Casel non è infatti prima di tutto l’azione dell’uomo che cerca un contatto con Dio attraverso l’offerta della sua adorazione, è invece l’azione salvifica stessa di Dio, in modo che l’uomo, partecipe del mistero di Cristo reso presente nel rito, possa lodare e adorare Dio in “spirito e verità”.

Non possiamo infine non citare anche Romano Guardini (1885-1968), che nella collana lacense “Ecclesia orans” pubblica il volume Vom Geist der Liturgie [Lo spirito della liturgia] (Freiburg 1919). Per Guardini, che si avvicina alla riflessione sulla liturgia grazie al suo impegno nel campo della pastorale giovanile, la liturgia è l’ambito nel quale rifluiscono le ricchezze della verità rivelata e proprio per questo diventa riferimento imprescindibile della vita cristiana individuale e comunitaria.

Il Movimento liturgico in Italia. Diversi autori (Rousseau, Marsili, Falsini, Magrassi) concordano che in Italia il Movimento liturgico procedette con molta lentezza, anche se proprio in Italia possiamo trovare alcuni fatti che già nel XVIII secolo furono antesignani delle idee che il Movimento liturgico diffonderà. Possiamo riferirci a titolo esemplificativo alla controversia di Crema sulla necessità di distribuire la Comunione durante la Messa (1737-1742), al Sinodo di Pistoia (1786), agli studi del card. Giuseppe Tomasi di Lampedusa (1649-1713), di Ludovico Antonio Muratori (1652-1750) e, nel secolo successivo, ad Antonio Rosmini che, nella sua opera Delle cinque piaghe della santa Chiesa (Lugano 1848), individua con la «piaga della mano sinistra della santa Chiesa» la divisione del popolo dal Clero nel culto pubblico.

Tra le ragioni della minore efficacia di risultati del Movimento liturgico italiano rispetto a quello di altre nazioni, oltre al tradizionalismo spirituale e a una pietà devozionale, E. Cattaneo, individua l’assenza, nel movimento, dell’episcopato. Non mancarono comunque figure di vescovi che orientarono la loro attività pastorale verso un rinnovamento liturgico. Tra questi pastori possiamo citare mons. Filipello – vescovo di Ivrea – che nella sua lettera pastorale La liturgia parrocchiale, scritta per la Quaresima del 1914, mostra di aver maturato alcune intuizioni in merito al valore della liturgia. Essa è intesa come la strada privilegiata per l’educazione del popolo. Viene da lui messa in chiara luce la centralità della celebrazione eucaristica e l’importanza della partecipazione attiva.

Un altro vescovo a cui stava particolarmente a cuore il tema liturgico fu certamente mons. Geremia Bonomelli (1831-1914), vescovo di Cremona, che nel 1913 scrisse una lettera pastorale – La Chiesa – con la quale entrò direttamente nell’argomento liturgico. A Cremona egli promosse in mezzo al popolo il canto delle parti fisse della Messa e propose che se ne spiegassero le formule ai fedeli.

Una menzione particolare spetta poi al card. Ildefonso Schuster (1880-1954), non solo per la sua formazione benedettina e per la sua opera di studioso di liturgia, ma soprattutto per la sua attività come arcivescovo di Milano. Egli cercò di inserire nella vita pastorale, come mezzo essenziale di vita cristiana, la liturgia con tutto quello che comporta di sacramenti, di culto e di partecipazione: su questo punto fu in notevole anticipo sui tempi.

Rivista liturgica. Per molti studiosi del Movimento liturgico italiano il 1914 costituisce la data ufficiale del suo inizio con il nascere di Rivista liturgica, fondata dai monaci di Finalpia e sostenuta con competenza e rigore dal suo primo direttore dom Emanuele Caronti. Nell’editoriale del primo numero egli, delineando il programma della rivista, dichiara l’intento di far maturare anche in Italia quel movimento che era già diffuso in Francia e in Belgio. La sua insistenza è sulla realtà della liturgia come vita della Chiesa e sul carattere teologico-ecclesiale di essa e del Movimento liturgico che si intende iniziare. Il merito di Rivista liturgica, secondo S. Marsili, fu quello di aver concepito la liturgia non come una dottrina esoterica, ma di aver impostato il sorgere del Movimento liturgico con un carattere spiccatamente teologico che forse è stata anche una causa del ritardo che ha poi incontrato nel penetrare la massa, non solo del popolo, ma dello stesso clero e dei ceti anche qualificatamente intellettuali.

Movimento liturgico e pastorale liturgica. Espressione del rinnovamento liturgico in Italia non furono solo gli scritti e l’opera di vescovi o la benemerita attività di studio e di riflessione di Rivista liturgica. È necessario fare anche riferimento a quella miriade di iniziative e pubblicazioni che singoli, diocesi o associazioni hanno realizzato nelle varie parti della penisola. Sono particolarmente significativi tutti quei tentativi per favorire la partecipazione dei fedeli alla Messa. A Roma i Missionari del Sacro Cuore pubblicano Il foglietto della domenica, proprio con lo scopo di aiutare il popolo all’assistenza della Messa festiva; a Genova la congregazione mariana parrocchiale di San Giovanni di Prè pubblica nel 1915 Preghiere per la S. Messa, che parafrasano il testo della Messa adattandolo allo spirito dei giovani. Sempre a Genova un primo tentativo in questo senso fu realizzato da mons. Moglia che nel 1912 stampò a titolo personale un volantino per la partecipazione alla Messa. L’intuizione continuò anche durante la prima guerra mondiale dove il Moglia, cappellano militare, la sperimentò, con diffusione però molto irregolare, tra i soldati. Mons. Moglia nel 1930 fondò a Genova l’Apostolato Liturgico con lo scopo di allargare nei diversi settori il lavoro di formazione e di apostolato, dando sviluppo ad iniziative di più ampio respiro. Ben presto il centro dell’Apostolato Liturgico divenne ricco di attività. Tra queste va segnalato il primo Congresso Liturgico Nazionale che si tenne a Genova nel 1934. In mons. Moglia era viva la convinzione del valore della liturgia come partecipazione alla vita della Chiesa e come efficace mezzo di apostolato.

Sulla stessa direttiva di marcia procede poi il trevigiano don Francesco Tonolo, famoso per le sue iniziative liturgico-pastorali tra le quali segnaliamo “la crociata della Messa”, tesa a creare nella parrocchia un movimento intenso di partecipazione alla Messa quotidiana. L’obiettivo più profondo dell’iniziativa fu quello di fare in modo che il cristiano rendesse la Messa il centro della propria vita. Per realizzare questo suo intento il Tonolo era convinto che fosse necessario ridare il Messale nelle mani del popolo.

Tra le attività delle associazioni cattoliche segnaliamo in modo particolare quelle della Gioventù Femminile di Azione Cattolica, il cui consiglio superiore operò la scelta dell’educazione liturgica delle giovani.

L’Opera della Regalità. È sicuramente degna di menzione la meritoria opera di promozione e di apostolato liturgico dell’Opera della Regalità. L’Opera, fondata da P. Agostino Gemelli e approvata dalla Santa Sede nel 1928, annoverò ben presto tra le sue attività l’apostolato liturgico attraverso numerose iniziative e pubblicazioni. In modo particolare, oltre alle settimane liturgiche parrochiali, agli esercizi spirituali a carattere liturgico, ai convegni liturgico-pastorali che continuano ancora oggi, è da segnalare «La Santa Messa per il popolo italiano». Si tratta di una semplice pubblicazione settimanale, che a partire dal 1931 fino al 1945, ha accompagnato migliaia di fedeli nella loro partecipazione e comprensione della liturgia eucaristica, dei suoi testi, dei suoi gesti e riti.

Il Centro di Azione Liturgica. Un organismo benemerito nella promozione della liturgia in Italia è senz’altro costitutito dal Centro di Azione Liturgica, fondato nel 1947 a Parma nel contesto di un convegno liturgico svoltosi il mese precedente alla pubblicazione dell’enciclica Mediator Dei. Il suo primo presidente fu mons. Adriano Bernareggi, vescovo di Bergamo, a cui seguirono mons. Carlo Rossi (Biella), mons. Carlo Maziana (Crema), mons. Mariano Magrassi (Bari), mons. Luca Brandolini (Sora-Aquino-Pontecorvo), mons. Felice Di Molfetta (Cerignola-Ascoli Satriano), mons. Alceste Catella (Casale Monferrato) e mons. Claudio Maniago (Castellaneta). Lo scopo del CAL, fin dal suo primo statuto del 1949, fu quello di dare incremento e aiuto al movimento liturgico in Italia in sintonia con le direttive della Santa Sede e della Conferenza Episcopale Italiana, che nel 1964 lo dichiarò proprio Institutum liturgicum a norma dell’articolo 44 della Costituzione liturgica conciliare. Tra le attività di cui il CAL si fece e si fa tuttora promotore segnaliamo i corsi di formazione per operatori liturgici, l’organizzazione della “Settimana liturgica nazionale”, la pubblicazione di sussidi di studio e di divulgazione, in modo particolare la rivista Liturgia, gli annuali corsi di formazione destinati ai seminaristi.

In sintesi. Non era nostra intenzione presentare uno sviluppo particolareggiato e organico del Movimento liturgico italiano, ma soltanto fornire alcuni dati, con un’attenzione privilegiata ai suoi primi passi. Dall’analisi svolta emerge un primo dato di fondo: il Movimento liturgico italiano non fu caratterizzato da grandi originalità di intuizioni e di riflessioni. D’altra parte tale era anche la situazione della teologia italiana a esso contemporanea. Tra i motivi di una simile situazione due pensiamo siano i più significativi. Innanzitutto il fatto che il Movimento liturgico in Italia nacque successivamente a quello di altri paesi europei e questo ha senz’altro condizionato i suoi indirizzi e i suoi sviluppi che, pur con le loro sottolineature, si sono mossi su percorsi già tracciati e sperimentati. Questo gli ha permesso però di assumere posizioni più equilibrate, lontane da ogni forma di romanticismo e di archeologismo. Il secondo motivo sta nel fatto che in Italia si privilegiò l’aspetto spiccatamente pastorale.

La produzione di quegli anni più che su grandi studi a carattere storico o teologico si diresse verso numerosissime pubblicazioni di propaganda e di divulgazione. Ci si preoccupò di una diffusione capillare anche per guadagnare al movimento il popolo, la parrocchia e il clero, che spesso, seppur persuaso in teoria delle ragioni del Movimento liturgico, nella pratica era portato a continuare secondo quello che si era sempre fatto. Convinzione di fondo degli artefici del Movimento liturgico in Italia era lo stretto legame tra liturgia e vita cristiana, per cui una rivalorizzazione e una rinascita dello spirito liturgico avrebbero favorito la ripresa di una vita cristiana più autentica contro i vari mali della società contemporanea. Suo merito indiscusso fu l’aver riaccostato il popolo alla liturgia e averne indirizzato la pietà e la devozione. Molto meno presente fu invece la preoccupazione di andare oltre, cioè di verificare le condizioni di celebrabilità della liturgia nel contesto culturale dell’epoca e la consapevolezza che la liturgia da sola non era in grado di far fronte al crescente processo di scristianizzazione.

Il Motu proprio si san Pio X «Tra le sollecitudini». È diffusa convinzione che, sul versante del magistero pontificio, il documento che nel secolo scorso ha iniziato a promuovere un autentico interesse per la liturgia e a dare nuovo impulso al Movimento liturgico fu il Motu proprio di Pio X Tra le sollecitudini (22 novembre 1903). Il paragrafo più citato è il n. 3: «Essendo infatti  nostro vivissimo desiderio che il vero spirito cristiano rifiorisca in tutti i modi e si mantenga nei fedeli tutti, è necessario provvedere prima di ogni altra cosa alla santità e alla dignità del tempio, dove appunto i fedeli si radunano per attingere tale spirito dalla sua prima e indispensabile fonte, che è la partecipazione attiva ai sacrosanti Misteri e alla preghiera pubblica e solenne della Chiesa».

In esso il papa fa propria l’idea dei primi autori del Movimento liturgico sottolineando il nesso tra la rinascita dello spirito cristiano e la liturgia, come sua «prima e indispensabile fonte»: si tratta di un’idea che verrà sempre più condivisa dal Movimento liturgico, anche se in quei tempi essa non fu sempre pienamente compresa. In questo documento inoltre per la prima volta compare ufficialmente l’espressione «partecipazione attiva», che tanto sviluppo avrà in seguito. Il documento in realtà aveva obiettivi più modesti nel campo della musica sacra: por fine agli abusi (presenza di musica teatrale) e avviare un’azione di riforma nel campo della musica sacra. Forse anche per questo motivo il passaggio del paragrafo sopra riportato non è stato immediatamente compreso e ripreso dai suoi contemporanei.

In ogni modo si possono cogliere i segni di un fermento nuovo che vede accresciuto l’interesse per la liturgia e per il suo valore in relazione alla vita cristiana, anche se ancora in assenza di una considerazione teologica della stessa. Il nuovo fermento trova le sue prime attuazioni proprio durante il pontificato di Pio X che, oltre all’attenzione al rinnovamento della musica sacra, promuove la comunione frequente (Motu proprio Sacra Tridentina Synodus, 1905), l’ammissione dei fanciulli alla comunione (Decreto Quam singulari, 1910) e avvia una riforma del Breviario (Costituzione apostolica Divino afflatu, 1911) e dell’anno liturgico (Motu proprio Abhinc duos annos, 1913).

L’enciclica «Mediator Dei». Bisogna giungere al 20 novembre 1947 per trovare una lettera enciclica interamente dedicata alla liturgia: la Mediator Dei di Pio XII. La preoccupazione del papa è duplice: una, di carattere pastorale, in relazione ai nuovi fermenti presenti e agli eccessi che inevitabilmente essi portarono con sé, l’altra tesa a portare il discorso sulla liturgia su un piano direttamente teologico. Proprio per questo egli rigetta come errate le concezioni della liturgia che la riducono al suo aspetto esteriore o alle leggi che la regolano. In positivo l’enciclica definisce la liturgia esercizio del sacerdozio di Cristo, sempre in atto nella successione dei tempi, e in modo più globale: «il culto pubblico che il nostro Redentore rende al Padre come Capo della Chiesa, (…) il culto che la società dei fedeli rende al suo Capo e, per mezzo di lui all’eterno Padre: [la liturgia] è, per dirla in breve, il culto integrale del Corpo mistico di Gesù Cristo, cioè del Capo e delle sue membra».

Di particolare rilevanza in questa definizione è il punto di partenza: il sacerdozio di Cristo, la sua mediazione sacerdotale, che egli ha esercitato nella pienezza dei tempi rendendo culto al Padre nel proclamare la sua grandezza e nel costituire il suo Regno di gloria. Cristo, con un atto di redenzione eterna, ha istituito la Chiesa rendendo in questo modo noi stessi degni di elevare la nostra lode al Padre. Il sacerdozio di Cristo quindi continua nella Chiesa, la cui liturgia non è altro che la continuazione del culto già prestato da Cristo durante la sua vita terrena, e precisamente nella duplice dimensione di glorificazione di Dio e di santificazione degli uomini.

Proprio questo secondo aspetto rimanda alla dimensione sacramentale della liturgia in quanto conseguenza della partecipazione dell’uomo ai misteri salvifici di Cristo attraverso i riti della Chiesa, perché «in ogni azione liturgica insieme con la Chiesa è presente il suo Divino Fondatore». È rilevante la conseguenza di queste affermazioni: la liturgia prima di essere azione della Chiesa tesa a onorare Dio, è l’azione di Cristo nella Chiesa. Vi è quindi una priorità della liturgia sulla Chiesa. La Chiesa, prima di essere soggetto attivo dell’azione liturgica, è destinataria della sua stessa azione, che non è separabile da quella di Cristo.

L’enciclica inoltre riserva grande spazio al tema della partecipazione attiva. Riprende l’espressione già utilizzata da Pio X e la precisa ulteriormente nel contesto della parte dedicata al culto eucaristico. In essa il papa dichiara che la partecipazione dei fedeli si colloca su tre livelli: esterna, interna e sacramentale. Il primo livello è costituito dal semplice essere presente all’azione sacra. Il secondo si ha quando alla partecipazione esterna si aggiungono le disposizioni interiori, la pia attenzione dell’animo e del cuore: in questo modo i fedeli si uniscono intimamente a Cristo e questa loro partecipazione (esterna + interna) diviene “attiva”:

Il Concilio Vaticano II. La Costituzione conciliare Sacrosanctum Concilium venne approvata a larghissima maggioranza dai padri conciliari (2147 placet – 4 non placet) e promulgata da papa Paolo VI il 4 dicembre 1963.

Possiamo per prima cosa constatare con immediata evidenza che l’approccio conciliare alla liturgia si discosta di molto dal tradizionale metodo dei manuali preconciliari che, dalla generale riflessione sulla natura del culto e sulle sue forme di attuazione (interno – esterno; pubblico – privato), giungevano a definire la liturgia come il culto pubblico e ufficiale che la Chiesa rende a Dio. SC 5-7 pone come punto di partenza della riflessione teologica sulla liturgia la volontà salvifica universale di Dio, che trova attuazione nella storia dell’uomo e compimento negli eventi pasquali del Cristo morto e risorto, dai quali è scaturito il mirabile sacramento della Chiesa. In questo contesto viene esplicitato il rapporto di continuità-discontinuità tra l’opera salvifica di Cristo e la sua attuazione nell’oggi della Chiesa: «Pertanto, come il Cristo fu inviato dal Padre, così anch’egli ha inviato gli apostoli, ripieni di Spirito Santo. Essi, predicando il Vangelo a tutti gli uomini, non dovevano limitarsi ad annunciare che il Figlio di Dio con la sua morte e risurrezione ci ha liberati dal potere di Satana e dalla morte e ci ha trasferiti nel regno del Padre, bensì dovevano anche attuare l’opera di salvezza che annunziavano, mediante il sacrificio e i sacramenti attorno ai quali gravita tutta la vita liturgica» (SC 6). La liturgia della Chiesa appare quindi come celebrazione della salvezza: il piano concepito da Dio fin dall’eternità si attua “storicamente” nell’AT e nel NT e si ri-attualizza “sacramentalmente” nelle azioni liturgiche della Chiesa fino al definitivo compimento escatologico nel secondo avvento di Cristo. Questa attuazione dell’opera della salvezza è resa possibile dal fatto che «Cristo è sempre presente nella sua Chiesa, e in modo speciale nelle azioni liturgiche» (SC 7).

Particolarmente significativo nel documento conciliare è la sottolineatura del rapporto tra liturgia e sacra Scrittura: «Nella celebrazione liturgica la sacra Scrittura ha una importanza estrema» (SC 24). Da questa affermazione conciliare è scaturita la riforma del lezionario con una più abbondante presenza della parola di Dio offerta alla meditazione del popolo di Dio, che anche al di fuori della liturgia ha progressivamente imparato a leggere la Bibbia e a maturare nella familiarità con essa.

La SC può essere a ragione considerata un chiaro segno anche dell’ecclesiologia conciliare. Da un lato essa è maturata con il fiorire della visione di Chiesa fatta propria dal Concilio, dall’altro la sua pubblicazione ha coinciso con il dibattito appassionato sulla domanda fondamentale che ha interpellato l’assemblea conciliare: “Chiesa, cosa dici di te stessa ?”. Le affermazioni dottrinali e le indicazioni della SC hanno costituito le primizie della dottrina emersa poi nella Lumen gentium. Fin dai suoi primi articoli la SC mostra la consapevolezza dell’impreteribilità del rapporto tra Chiesa e liturgia. (cf SC 2) Così, il n. 26 dall’affermazione che le azioni liturgiche non sono azioni private, ma celebrazioni della Chiesa, fa derivare la conseguenza: «Perciò appartengono all’intero corpo della Chiesa, lo manifestano e lo implicano».

Nella Costituzione conciliare e nella riflessione che ne è seguita si avverte la necessità di una rinnovata concezione di Chiesa da parte di tutti coloro che ne sono membri. In modo particolare la considerazione della concreta assemblea dei fedeli che si riunisce per la celebrazione, come luogo proprio del darsi dell’evento liturgico-sacramentale nella storia, ha favorito il concretizzarsi della nozione di Chiesa universale in quella di Chiesa locale, fatta di persone in reciproco contatto in un determinato tempo e luogo.

L’insistente richiamo alla partecipazione attiva come diritto e dovere del popolo cristiano (SC 14), unita alle intuizioni di natura teologica, ha costituito la chiave e la prospettiva per l’attuazione della riforma che ne è seguita. L’elemento più evidente è stato l’introduzione delle lingue parlate dal popolo, proprio per rendere più immediata la partecipazione e far sì che la liturgia si mostri quale essa è: celebrazione del Corpo di Cristo che è la Chiesa, il Capo unito alle sue membra. Il desiderio di santa Teresa di Gesù Bambino che manifestava la sua sofferenza perché non sapendo il latino non era in grado di comprendere quello che diceva quando pregava i Salmi, è stato esaudito! Naturalmente questo non è sufficiente, è necessario continuare l’impegno di riforma sul versante della catechesi liturgica, su quello dell’«arte del celebrare», della cura per i segni e i gesti che vi si compiono, dell’attenzione al canto e alla musica, della valorizzazione del silenzio e della interiorità.

La riforma liturgica in Italia. Non è possibile presentare qui in modo esaustivo il dispiegarsi dell’appicazione della riforma conciliare in Italia. Tra le possibili scelte, segnaliamo due percorsi.

Il primo prende come punto di riferimento gli orientamenti pastorali decennali della CEI, precisamente: Evangelizzazione e Sacramenti (1973), Comunione e comunità (1981), Evangelizzazione e testimonianza della carità (1990), Comunicare il Vangelo in un mondo che cambia (2001), Educare alla vita buona del Vangelo (2010). I citati orientamenti pastorali sono trasversalmente segnati dal tema dell’evangelizzazione all’interno del quale è possibile individuare pure un percorso di tipo liturgico. Si va infatti dall’individuazione di una chiara soggettività ministeriale, sviluppata nel tema dell’assemblea e dei ministeri; all’attenzione all’iniziazione cristiana, come esperienza ecclesiale di annuncio e di celebrazione; all’affermazione del primato della Parola e alla peculiarità della sua proclamazione nella celebrazione liturgica. Da segnalare infine l’emergere della “questione rituale”, attenta al soggetto della celebrazione e al linguaggio simbolico, che conduce anche ad occuparsi della comunicazione liturgica. Nel Direttorio Comunicazione e missione (2004) si afferma infatti che la liturgia è il “codice dei codici”, paradigma di ogni autentica comunicazione.

L’altro percorso è costituito dall’attenzione all’attività dell’Ufficio Liturgico Nazionale, costituito nel febbraio 1973. In questa sede pare utile segnalare come proprio negli anni della sua costituzione si sono poste le fondamenta di un lavoro che è proceduto per un quarantennio tra propositi mantenuti e questioni ancora aperte ed attuali.

Tra i primi possiamo annoverare una lunga serie di realizzazioni. Oltre al lavoro di traduzione e, in una seconda fase, di adattamento dei libri litrugici, è opportuno segnalare le due note pastorali dedicate rispettivamente a La progettazione di nuove chiese (1993) e a L’adeguamento delle chiese secondo al riforma liturgica (1996), il repertorio nazionale Canti per la liturgia (2009), la pubblicazione de La messa dei fanciulli (1976) seguita dalla nota dell’ULN (1977), l’istruzione Sulla comunione eucaristica (1989), l’edizione della Preghiera del mattino e della sera (1975), soprattutto per i laici. Un prezioso testo è inoltre costituito da Il rinnovamento liturgico in Italia (1983), pubblicato per il ventesimo anniversario di SC.

Vi sono questioni ancora aperte e sempre attuali non tanto perché non abbiano trovato adeguata soluzione, ma perché costituiscono temi che sempre accompagnano la vita della Chiesa. Tra questi sono da segnalare la formazione liturgica di clero e laici, che si presenta sempre in tutta la sua attualità e urgenza. Ad essa l’ULN ha cercato e cerca di essere presente con proposte a livello nazionale che possano essere di servzio per le diocesi. Pensiamo in modo particolare ai corsi stabili di formazione come il Coperlim o il corso on line per gli operatori liturgico musicali, pensiamo al più recente ProgettOmelia. La recente pubblicazione della seconda edizione italiana del Rito delle Esequie (2011) che ha visto una significativa opera di adattamento, sollecita a riprendere il tema della ministerialità laicale non solo in relazione ai riti esequiali, ma anche ad altri momenti del vissuto liturgico delle nostre comunità, pensiamo a questo proposito, oltre alla consolidata presenza dei ministri straordinari della Comunione eucaristica, ai ministri per le celebrazioni domenicali in attesa di presbitero. Sempre aperto a un sereno cammino di collaborazione reciproca è il tema del rapporto con altri organismi a carattere nazionale. In questi decenni la collaborazione si è attuata soprattutto attraverso le persone, membri di questi organismi, che hanno prestato con generosità e competenza la loro opera a servizio della liturgia in Italia.

Al lavoro di promozione della riforma liturgica in Italia, svolto in questi quarant’anni, si può applicare quello che a livello di Chiesa universale ha affermato recentemente papa Francesco: «Lo stesso Paolo VI, un anno prima della morte, diceva ai Cardinali riuniti in Concistoro: “È venuto il momento, ora, di lasciar cadere definitivamente i fermenti disgregatori, ugualmente perniciosi nell’un senso e nell’altro, e di applicare integralmente nei suoi giusti criteri ispiratori, la riforma da Noi approvata in applicazione ai voti del Concilio”. E oggi c’è ancora da lavorare in questa direzione, in particolare riscoprendo i motivi delle decisioni compiute con la riforma liturgica, superando letture infondate e superficiali, ricezioni parziali e prassi che la sfigurano. Non si tratta di ripensare la riforma rivedendone le scelte, quanto di conoscerne meglio le ragioni sottese, anche tramite la documentazione storica, come di interiorizzarne i principi ispiratori e di osservare la disciplina che la regola. Dopo questo magistero, dopo questo lungo cammino possiamo affermare con sicurezza e con autorità magisteriale che la riforma liturgica è irreversibile» (Discorso ai partecipanti alla 68ma Settimana Liturgica Nazionale, Roma 24 agosto 2017).

«Il lavoro della riforma liturgica è stato un servizio al popolo come rilettura del Vangelo a partire da una situazione storica concreta. Sì, ci sono linee di ermeneutica di continuità e di discontinuità, tuttavia una cosa è chiara: la dinamica di lettura del Vangelo attualizzata nell’oggi che è stata propria del Concilio è assolutamente irreversibile» (Intervista rilasciata a Civiltà Cattolica, 19.09.2013).

Fonti e Bibl. essenziale

Aa.Vv., Celebrare il mistero di Cristo.1. La celebrazione: introduzione alla liturgia cri­stiana, Edizioni Liturgiche, Roma 1993; L. Bonora, La liturgia agli albori del XX secolo. L’opera pastorale del beato A. G. Longhin, Vescovo di Treviso (1904-1936), CLV – Edizioni Liturgiche, Roma 2018; B. Botte, Il Movimento liturgico. Testimonianza e ricordi, Effatà, Cantalupa (To), 2009; C. Braga, La riforma liturgica di Pio XII. Documenti, Edizioni liturgiche, Roma 2003; F. Brovelli, (a cura), Ritorno alla liturgia. Saggi di studio sul Movimento liturgico, Edizioni Liturgiche, Roma 1989; F. Brovelli, Liturgia: temi e autori. Saggi di studio sul movimento liturgico, Edizioni liturgiche, Roma 1990; A. Bugnini, La riforma liturgica (1948-1975), Edizioni liturgiche, Roma 19972; E. Cattaneo, Il culto cristiano in occidente. Note storiche, Edizioni Liturgiche, Roma 1978; Congregazione per il Culto Divino (a cura), Costituzione liturgica «Sacrosanctum Concilium». Studi, Edizioni liturgiche, Roma1986; A. Favale, Abbozzo storico del movimento liturgico, in La costituzione sulla sacra liturgia, LDC, Torino 1967, p. 3-52; P. Jounel – R. Kaczynski – G. Pasqualetti, Liturgia opera divina e umana, Edizioni liturgiche, Roma 1982; A. Lameri, L’attività di promozione liturgica dell’opera della regalità (1931-1945). Contributo allo studio del Movimento Liturgico Italiano, Ed. OR, Milano 1992; A. Lameri, Dalla Sacrosanctum Concilium alla riforma liturgica. Lo sviluppo di un cammino, “Rassegna di Teologia”, 53(2012), n. 2, pp. 237-261; A. Lameri, La «Pontificia Commissio de sacra liturgia praeparatoria Concilii Vaticani II». Documenti, Testi, Verbali, CLV – Edizioni Liturgiche, Roma 2013; A. Lameri, Alla ricerca del fondamento teologico della partecipazione attiva. Il dibattito nella commissione liturgica preparatoria del Concilio Vaticano II, CLV – Edizioni Liturgiche, Roma 2016; M. Metzger, Storia della liturgia. Le grandi tappe, Edizioni San Paolo, Cinisello Balsamo 1996; G. Midili, La riforma liturgica nella diocesi di Roma. Studio in prospettiva storica e pastorale (1956-1975), CLV – Edizioni Liturgiche, Roma 2018; D. Moulinet, La liturgie catholioque au XXe siècle. Croire et participer, Beauchense, Paris 2017; B. Neunheuser, Storia della liturgia attraverso le epoche culturali, Edizioni Liturgiche, Roma 1983; O. Rousseau, Storia del movimento liturgico. Lineamenti storici dagli inizi del secolo XIX ad oggi, Paoline, Roma 1961; D. Sartore – A.M. Triacca – C. Cibien (a cura di), Liturgia, Edizioni San Paolo, Cinisello Balsamo 2001; F. Trolese (a cura), La liturgia nel XX secolo: un bilancio, EMP, Padova 2006.


LEMMARIO




Lombardi Daniela


 





Loparco Grazia