Associazione Italiana dei Professori di Storia della Chiesa

Dizionario Storico Tematico La Chiesa in Italia
Dopo l'Unità Nazionale
Roma 2015
Copyright © 2015

Millenarismo - vol. II


Autore: Fabio Besostri

Il termine “millennio” (da cui “millenarismo”) nasce nell’Ottocento (da un raro aggettivo di uso dotto, “millenne”, “di mille anni, che dura mille anni”, ricalcato su “decenne” e simili): è interessante notare che il contesto in cui il vocabolo viene coniato è quello del cattolicesimo liberale italiano, dove viene usato da alcune figure eminenti per congiungere insieme l’espressione della fede cristiana e il sentimento del moderno: ad esempio Vincenzo Gioberti (1801-1852) ne Il Gesuita moderno, pubblicato a Losanna nel 1847 (p. 196) afferma che «il regno temporale di Cristo sulla terra, espresso coll’allegoria del millennio, non è altroche la civiltà moderna partorita dal Cristianesimo».

Attraverso il recupero di un concetto per altro problematico (v. la voce “millenarismo” nel primo vol.) i cattolici liberali intendevano far risaltare la vocazione ed il destino dell’Italia nella particolare congiuntura storica che si era creata a metà del secolo XIX, ed insieme promuovere il ruolo che il papato avrebbe dovuto assumere, nella loro visione politica, nei confronti della nazione e dell’Europa intera. I successivi sviluppi della vicenda risorgimentale italiana e le posizioni ostili assunte da Pio IX nei confronti di quel processo storico vanificarono le attese e le speranze dei cattolici liberali, mentre le loro prospettive millenariste, private del loro afflato più propriamente cristiano, venivano curiosamente assunte da altre istanze culturali, anticlericali e quasi anche anticristiane, come suggerisce l’Inno a Satana del Carducci (che destò grande scalpore al tempo della sua pubblicazione, nel 1865), anticipando per certi versi i messianismi sottostanti alle ideologie rivoluzionarie di stampo marxista e totalitario del secolo successivo.

Nel contesto della realtà italiana, il millenarismo non scomparì però del tutto, riemergendo in maniera imprevista in un ambito completamente diverso e inatteso, privato però delle sue caratteristiche più “alte”. Fu il movimento popolare suscitato da David Lazzaretti, “il messia dell’Amiata” (1834-1878), a riprenderne in maniera confusa e per così dire “carismatica” le istanze, rievocando per breve tempo le gesta e le aspirazioni dei millenaristi medievali (v. DBI, s.v.).

Dal canto suo, la Chiesa cattolica mantenne un atteggiamento sempre piuttosto guardingo nei confronti delle diverse sfumature millenaristiche che nel corso del XIX e XX secolo sono variamente apparse sulla scena italiana e mondiale. Il Catechismo della Chiesa cattolica (nn. 675-676) del 1997 riassume i contenuti ortodossi della fede sulla seconda venuta di Cristo e sugli eventi che la precedono, mettendo in guardia i credenti da ogni messianismo di stampo materialista, riprendendo in questo le affermazioni del magistero precedente (specialmente l’enciclica Divini Redemptoris di Pio XI, 19 marzo 1937, contro il comunismo).

Il Catechismo definisce anche “falsificazione” il cosiddetto “millenarismo mitigato”, proposto dall’ex-gesuita Manuel de Lacunze y Diaz, che nel 1810 pubblicò (sotto lo pseudonimo di Juan Josafat Ben-Ezra) l’opera Venida del Mesías en gloria y majestad, proibita nel 1824 dal Sant’Uffizio. La dottrina si ripresentò nel XX secolo, e fu oggetto di una lettera della stessa “Suprema Congregazione” all’arcivescovo di Santiago del Cile pubblicata su AAS (=Acta Apostolicae Sedis) nel 1944 (cf. Denzinger-Schoenmetzer 3839), nella quale si dichiarava che tale dottrina non poteva essere insegnata con sicurezza. Il Catechismo rigetta con maggior decisione la dottrina in questione, forse anche a causa di alcune sue nuove manifestazioni in tempi molto recenti, sulla scorta dei movimenti di tipo pentecostale e di suggestioni legate alle numerose asserite apparizioni mariane di questi ultimi decenni a cavallo del nuovo millennio, verso le quali sembra esserci una acuta sensibilità anche in Italia (che di alcuni fenomeni è stata anche teatro).

A questo proposito, vale la pena di ricordare come nel periodo immediatamente precedente l’inizio del nuovo millennio, il Magistero ecclesiale, e soprattutto Giovanni Paolo II si siano costantemente preoccupati di purificare da ogni falsa attesa l’appuntamento: si vedano, ad esempio, le meditazioni che accompagnano l’Angelus di domenica 6 settembre 1998, quando il papa ha ricordato che un mistero d’amore avvolge l’uomo e il creato; per cui non servono oroscopi e previsione magiche, ma piuttosto la preghiera. E in un’omelia nel febbraio 1997, soffermandosi sul passo biblico relativo al diluvio universale e all’alleanza stabilita con Noè (Genesi 6,5 – 9,17) ha affermato: «Nel corso delle epoche della storia gli uomini hanno continuato a commettere peccati, forse persino maggiori di quelli descritti prima del diluvio: tuttavia dalle parole dell’alleanza stretta da Dio con Noè si comprende che ormai nessun peccato potrà portare Dio ad annientare il mondo da Lui stesso creato» (Omelia della prima domenica di Quaresima, 16 febbraio 1997).

Fonti e Bibl. essenziale

G. Bonomi, Gioberti, Brescia, La Scuola, 1948; G. Guderzo, Pietro Tamburini, (estr. da Grande Dizionario Enciclopedico), Torino, UTET, 1962; F. Bardelli, David Lazzaretti, Siena, Cantagalli, 1978; I. Garlaschi, Vita cristiana e rigorismo morale: studio storico-teologico su Pietro Tamburini (1737-1827), “Pubblicazioni del Pontificio seminario lombardo in Roma”, 24, Brescia, Morcelliana, 1984; P. Apolito, Il cielo in terra : costruzioni simboliche di un’apparizione mariana, Bologna, Il Mulino, 1992; V. De Cesari, Pro Judaeis: il filogiudaismo cattolico in Italia (1789-1938), Milano, Guerini, 2006.


LEMMARIO




Miniatura - vol. I


Autore: Giovanni Liccardo1

Definizione. La miniatura (da minium, il colore ottenuto con ossido salino di piombo con il quale si eseguivano le prime versioni dell’ornamentazione della scrittura, quali titoli, iniziali o segni che marcassero i paragrafi) passa ingiustamente per aspetto “minore” dell’attività artistica; con questo termine si intendono le forme di decorazione eseguite a mano e non a stampa su libri (manoscritti e dal XV secolo in poi anche libri stampati) con più inchiostri o altre materie coloranti. Illustrazione, miniatura tabellare, capolettera, cornice non costituiscono però generi di decorazione strettamente distinti: essi si trovano combinati in tutte le maniere possibili, fino a raggiungere risultati di estrema complessità e ricchezza.

La miniatura venne assumendo un carattere basilare nell’arte medievale; in essa scrittura e immagini stabilirono un rapporto intimo e strettissimo. Basti pensare allo sviluppo dell’iniziale che si sviluppò dapprima con elementi decorativi, a intreccio, vegetali o animalistici e divenne poi figurata e istoriata. Allo stesso modo le grandi miniature a piena pagina palesano esiti del tutto confrontabili con i risultati raggiunti dalla pittura monumentale. Per di più, in alcuni periodi, come nell’età carolingia o ottoniana, proprio la miniatura rappresenta una fonte essenziale per conoscere la cultura stilistica e iconografica della parallela arte pittorica, considerata la perdita di molti cicli ad affresco o di tavole. Anche dopo la nascita della stampa continuarono fino ai primi decenni del Cinquecento a prodursi libri manoscritti e libri stampati, gli uni e gli altri decorati a mano; da questo momento tuttavia la diffusione della stampa e l’avvento delle tecniche incisorie meccaniche, soprattutto la xilografia, soppiantarono la decorazione e l’illustrazione miniata.2

Storia e centri di produzione. La progressiva cristianizzazione dell’Occidente determinò un fondamentale connotato iconografico; le storie bibliche divennero protagoniste di un’alta percentuale di codici che diffusero in ogni luogo le Sacre Scritture, con una perdita di interesse verso la realtà percepita dai sensi e il predominio di uno stile figurativo dove ogni elemento acquistava valore solo in quanto metafora del mondo trascendente. Si sviluppò una relazione stretta tra testo e immagini, con iniziali figurate (umane o animali) e istoriate (con piccole scene o decori vegetali), bordi decorati, monogrammi a piena pagina per le prime lettere del testo, tavole di canoni, immagini didattiche e mnemoniche. Si moltiplicarono anche i libri destinati alla liturgia, strumenti per la celebrazione del culto, strettamente legati all’arredo dell’altare. Ai codici dedicati alla preghiera pubblica (breviario e messale), utilizzati per l’ufficio canonico e la celebrazione eucaristica, si affiancano presto i libri concepiti per la preghiera individuale e silenziosa; così il libro d’ore, destinato alla meditazione personale dei laici, venne di frequente commissionato da sovrani, principi e nobili e si diffuse a tal punto da diventare anche oggetto di una produzione quasi seriale, destinata alla vendita.

Le modalità di organizzazione e diffusione delle miniature furono determinate dall’accentramento della produzione negli scriptoria allestiti nei centri monastici che andavano diffondendosi in ogni parte d’Europa; nei monasteri si preparava la pergamena, si rigava e scriveva il manoscritto, lo si illustrava e infine veniva eseguita la legatura. Qui i libri, lungi dall’essere beni materiali, oggetto di compravendita, diventavano opus spirituale; prodotti e conservati all’interno di un monastero o di una scuola cattedrale, erano oggetti di valore, da conservare o, al massimo, da donare: preziosi in sé, per il loro contenuto sacrale, tanto più se composti con materiali pregiati. E per esaltare al massimo la parola divina, la si scriveva con inchiostri d’oro o d’argento, su fogli di pergamena colorata di porpora.3

Nell’Italia altomedievale i centri nei quali vengono prodotti i più importanti libri illustrati sono, accanto a Roma che mantiene attraverso i secoli una situazione privilegiata, gli scriptoria dei grandi monasteri benedettini e quelli delle grandi sedi vescovili come Milano, Vercelli, Ivrea, Verona, Padova ecc.. E ancora, i monasteri di Bobbio, fondato nel 612 da san Colombano, e centro di diffusione delle influenze insulari che ebbe un importante ruolo fino a tutto il X secolo, e quello di Nonantola, fondato nel 756 da Anselmo duca del Friuli fattosi monaco e molto attivo nel campo della produzione libraria. Tra i poli romanici celebri furono Polirone (fondata nel 1007), l’antica abbazia di Nonantola, San Salvatore all’Amiata, i monasteri di Roma e dintorni, l’abbazia imperiale di Farfa nella Sabina, Subiaco e soprattutto Montecassino in cui la produzione artistica e lo scriptorium furono rinnovati dall’abate Desiderio (1058-87).

Nell’Italia altomedievale i centri nei quali vengono prodotti i più importanti libri illustrati sono, accanto a Roma che mantiene attraverso i secoli una situazione privilegiata, gli scriptoria dei grandi monasteri benedettini e quelli delle grandi sedi vescovili come Milano, Vercelli, Ivrea, Verona, Padova ecc.. E ancora, i monasteri di Bobbio, fondato nel 612 da san Colombano, e centro di diffusione delle influenze insulari che ebbe un importante ruolo fino a tutto il X secolo, e quello di Nonantola, fondato nel 756 da Anselmo duca del Friuli fattosi monaco e molto attivo nel campo della produzione libraria. Anche le formulazioni dell’Italia meridionale occupano un posto di primo piano nella storia della miniatura italiana; le opere testimoniano l’esistenza di legami culturali, oltre che con Roma, soprattutto con l’arte del mondo bizantino, come esemplifica  l’Evangeliario di Rossano, con  i suoi colori di smalto, le sue stilizzazioni, le sue singolari vedute decorative ispirate alla flora, alla fauna, ai motivi più vari, geometrici e d’architettura. Le miniature mostrano la tendenza ad aprirsi a nuove soluzioni, con la presenza di motivi ornamentali che giungono dalla Sicilia, in particolare da Messina, attestanti in modo evidente un atteggiamento estremamente moderno degli artisti, sempre aperti a recepire le nuove proposte culturali che andavano sorgendo nei vari centri di produzione artistica. In seguito, quando la Sicilia fu occupata dagli Arabi dalla metà del secolo IX, si diffondono miniature con evidenti influenze islamiche; tra l’altro, anche i maggiori artisti italiani furono influenzati dal gusto cromatico e decorativo arabo. Arnolfo di Cambio, Duccio di Buoninsegna e soprattutto Giotto che dipinge spesso alle spalle delle Madonne stoffe con motivi islamici. La grafia islamica si trova anche in alcune decorazioni di manoscritti miniati di area bolognese; questa moda dura tuttavia in Italia solo fino agli anni ’30 del Trecento, viene in seguito sopraffatta dalle decorazioni goticheggianti, di ispirazione francese.4

In seguito il crescente peso acquisito dalla committenza laica (soprattutto rappresentata dai circoli universitari e dall’aristocrazia), stimolò la creazione di ateliers (in Italia primo centro ne è Bologna, seguita poi da Padova, Rimini, Venezia, Milano, Siena, Firenze, Pisa, Perugia, Napoli, Palermo) non più entro mura conventuali, ma nei centri urbani più importanti impegnati a sviluppare e creare iconografie del tutto nuove, attorno ai temi della letteratura profana cortese. Tra i miniatori più noti sono da ricordare Oderisi da Gubbio, attivo tra 1269 e 1271, seguito agli inizi del Trecento da Franco Bolognese e il Maestro della Bibbia di Corradino (ultimo quarto del Duecento), Lando di Antonio, vicinissimo al grande anonimo chiamato Pseudo-Jacopino, il Maestro dell’Arte dei Merciai, Niccolò di Giacomo, Zanobi, il Beato Angelico e Francesco d’Antonio del Chierico.

Fonti e Bibl. essenziale

M.L. Agati, Il libro manoscritto. Introduzione alla codicologia, L’Erma di Bretschneider, Roma 2003; De arte illuminandi e altri trattati sulla tecnica della miniatura medievale, a cura di F. Brunello, Neri Pozza, Vicenza 1992; Gregorio Magno e le radici cristiane dell’Europa, a cura di G. Zivelonghi, C. Adami, A.M. Faccini, Ed. C.F.P. “Stimmatini”, Verona 2005; La miniatura italiana. I. Dal Tardoantico al Trecento con riferimenti al Medio Oriente e all’Occidente europeo, a cura di A. Putaturo Donati Murano – A. Perriccioli Saggese, Edizioni Scientifiche Italiane-Biblioteca Apostolica Vaticana, Napoli-Città del Vaticano 2005; La tradizione veronese nelle miniature dei Codici Capitolari, a cura di A. Piazzi – G. Zivelonghi, Ed. C.F.P. “Stimmatini”, Verona 1984; La vita medioevale italiana nella miniatura, a cura di A. Giardini – E. Baggio, Ed.D’arte, Roma 1966; Il codice miniato: rapporti tra codice, testo e figurazione, in Atti del 3° Congresso di storia della miniatura, a cura di M. Ceccanti – M.C. Castelli, L.S. Olschki, Firenze 1992; A. Petrucci, La descrizione del manoscritto. Storia, problemi, modelli, Carocci, Roma 20012a; M. Rotili, Introduzione alla storia della miniatura e delle arti minori in Italia, Libreria scientifica editrice, Napoli 1970; M. Salmi, La miniatura italiana, Electa, Milano 1955.

Immagini:

1) Rossano Calabro, Codex Purpureus Rossanensis, Ultima cena (VII secolo); 2) Firenze, Biblioteca Laurenziana, Codex Amiatinus 1, f. Vr, Ritratto di Ezra, (VIII secolo); 3) Roma, Codice Miniato, Biblioteca Apostolica Vaticana (XIV secolo); 4) Chirignago (Ve), Miniatura dello statuto, Mater Misericordiae (1517).

Sitografia:

http://www.riccardiana.firenze.sbn.it (sito della biblioteca Riccardiana che vanta uno dei più preziosi patrimoni manoscritti e di codici miniati); http://manus.iccu.sbn.it//index.php (database che comprende la descrizione e le immagini digitalizzate dei manoscritti conservati nelle biblioteche italiane pubbliche, ecclesiastiche e private); http://www.iccu.sbn.it/opencms/opencms/it/ (sito dell’Istituto Centrale per il Catalogo Unico delle biblioteche italiane e per le informazioni bibliografiche, ICCU).


LEMMARIO




Missioni estere - vol. I


Autore: Angelo Manfredi

Con questa espressione si intende l’impegno di personale originario della penisola italiana, e radicato nelle chiese che la strutturano, per la missione verso popoli non cristiani esterni alla penisola stessa, che come tale si cristianizza nei secoli del tardo impero. Quindi escluderemo il fenomeno del passaggio al cristianesimo nella sua forma romana dei Longobardi che occupano i gangli vitali di gran parte dell’Italia attuale.

Per ciò che riguarda il I millennio cristiano, si può brevemente rammentare l’apporto della chiesa aquileiese e delle realtà ad essa collegate per la diffusione del cristianesimo verso le popolazioni slave dell’attuale Carinzia, Slovenia e Croazia, e la figura di Gerardo, veneziano e vescovo di Czanad tra gli ungari, al tempo del re Vajk-Stefano. Gerardo fu martirizzato nel 1046 in occasione di una reazione pagana. Tuttavia gran parte delle stirpi germaniche, slave e di altre origini e culture videro l’impegno missionario di clero proveniente più dalle realtà statuali franche o da Bisanzio, mentre le chiese più propriamente italiche sembrano meno coinvolte.

Qui si evoca soltanto l’apporto dei membri italiani degli ordini mendicanti ai tentativi di evangelizzazione rivolti alle popolazioni musulmane del nord-Africa, del vicino Oriente, o alle orde ancora sciamaniche dell’Asia Centrale, nei secoli XII-XV: basti ricordare la figura del francescano Giovanni da Montecorvino che fu dal 1307 arcivescovo di Khanbaliq (Pechino), e del domenicano Tommaso Mancasole da Piacenza che fu vescovo di Samarkand nello stesso periodo.

Con la cosiddetta scoperta del nuovo mondo, lo sviluppo della navigazione e del commercio intercontinentale e i primi fenomeni di colonizzazione, spesso com’è noto collegati con l’evangelizzazione, si aprono prospettive di investimento di personale italiano, appartenente a ordini più antichi o più recenti che si dedicano anche alla missione ad gentes. Sono ben noti i nomi di Matteo Ricci (Macerata 1552 – Pechino 1610) e di Roberto De’ Nobili (Roma 1577 – Meliapur 1656), gesuiti, pionieri dei metodi di adattamento rispettivamente in Cina e in India. Forse meno noto, ma di reale importanza storica è Alessandro Valignano (Chieti 1538 – Macao 1606), missionario in Giappone e visitatore delle missioni d’oriente, sempre della Compagnia di Gesù. Ricordiamo pure Nicolò Mascardi di Sarzana S.J. (1624-1674) missionario ed esploratore in Cile. Nei territori soggetti al patronato della corona di Spagna, ossia in gran parte dell’America Latina, come nei territori più direttamente collegati al Portogallo, quali Brasile, Goa, Macao, le congregazioni impegnate nella diffusione del cristianesimo reclutavano personale esclusivamente d’origine spagnola, e rispettivamente lusitana, escludendo perfino, a quanto ne sappiamo, i territori italiani soggetti al monarca iberico. Fanno eccezione, oltre ai gesuiti, i cappuccini, direttamente alle dipendenze della congregazione romana di Propaganda Fide, e presenti in Congo nei secoli XVII e XVIII, e in Pernambuco (Brasile) dal 1699. Il governo portoghese soppresse nel 1834 gli ordini religiosi anche in quell’area, facendo venir meno la presenza cappuccina italiana. Invece è una pagina in gran parte da esplorare coi metodi moderni la presenza di italiani francescani, domenicani e di altri ordini nel mondo legato all’impero ottomano, tra i secoli XVI e XIX: Bosnia, Turchia, Terrasanta, dove alcuni raggiunsero anche responsabilità prelatizie o svolsero compiti diplomatici o culturali di alto livello. Questa missione, oltre ai rapporti col mondo musulmano, creava relazioni con i cristiani orientali, separati o uniti a Roma, rapporti spesso delicati. In oriente abbiamo pure i cappuccini italiani in Tibet e Nepal (1703-1803) e i carmelitani scalzi italiani presenti nel XVIII e inizio XIX secolo a Verapoly (ora Ernakulam, in Kerala, India sud-occidentale; diviso in tre vicariati nel 1845) e a Bombay sulla costa centro-occidentale: Ferdinando Fortini sarà l’ultimo vicario italiano a Bombay (1840-1848), ove poi saranno presenti soprattutto vicari francesi; i carmelitani scalzi ebbero una missione anche a Isphahan in Persia (1607-1797) con un certo irradiamento nel golfo Persico.

Come si può notare da quanto finora elencato, il secolo XVIII portò a un regresso dell’opera di propagazione della fede oltremare, a seguito delle soppressioni dei gesuiti e poi napoleoniche e della crisi di reclutamento negli ordini religiosi europei.

Con la restaurazione e il ripristino della congregazione romana di Propaganda Fide anche le chiese della penisola italiana furono coinvolte nel movimento missionario, che si può definire ormai verso le “missioni estere”, e che assume forme e modalità innovative. Ci limiteremo qui al periodo precedente al 1870, con connessioni che porteranno com’è ovvio alla seconda parte della voce.

Le province francescane e cappuccine, appena fu possibile, ripresero l’invio di personale in terre di missione: diversi vicariati furono assegnati o ripristinati a favore dei minori in Cina (lo Shanxi e lo Shaanxi sono presidiati dai francescani con continuità dalla fine del XVII sec.; lo Hukwang dal 1836, diviso nel 1856 in due vicariati, Hunan e Hubei; lo Shandong dal 1837); la provincia di Aracoeli (Roma) inviava missionari nel 1857 tra gli indios dell’Argentina del nord; cappuccini italiani sono presenti tra gli Araucani del Cile (1848-1888); dodici francescani italiani cacciati dal Messico nel 1835 si dedicarono alla Bolivia. Un alone di mito circonda il cappuccino Guglielmo Massaia (Piovà/AT 1809 – S. Giorgio a Cremano/NA 1889, cardinale dal 1884), vicario apostolico dal 1841 nel centro-sud dell’Etiopia, tra gli Oromo (o Galla), esploratore e scrittore popolare.

Anche i gesuiti, restaurati in Italia nel 1814, nonostante le minacce e poi la crisi di una seconda soppressione, dedicarono parte del personale alla missione. La provincia romana nel 1863 inviò in Brasile, nello stesso periodo la provincia torinese era presente tra i nativi in California, Oregon e Montagne Rocciose (più tardi anche in Alaska); la provincia siciliana in Honduras e, con qualche elemento, in Australia.

I Vincenziani o Lazzaristi sono presenze singolari in teatri particolarmente dislocati: Luigi Montuori (Avellino 1798 – Napoli 1857) e Girolamo Serao (o Serrao) a Khartoum in Sudan (1834-1846); Vincenzo Spaccapietra (Francavilla 1801 – Smirne 1878) fu arcivescovo di Port of Spain nelle Antille (1855-1859) e poi a Smirne (1862-1878); il nome più noto è quello di S. Giustino De Jacobis (1800-1860), in Etiopia come vicario dal 1839 al 1860. La missione sudanese fu quella più critica, mentre la difficile presenza in Etiopia fu proseguita da vincenziani francesi.

Citiamo poi l’alternarsi di italiani in Birmania (ora chiamato Myanmar): dapprima i barnabiti dal 1722 al 1837, con un vicariato apostolico e alcuni padri per i meticci birmano-portoghesi cristianizzati; dopo una breve successione degli scolopi, dal 1837 tentarono gli oblati di Maria Vergine “di Torino”, fondati da Pio Brunone Lanteri, fino al 1862, sostituiti poi dai francesi delle “Missions étrangères”.

In Australia, sembra che il primo tentativo di approccio verso i nativi (1842-46) fu di quattro passionisti nell’isola di Dunwich (North Stradbroke Island, Queensland, davanti alla città di Brisbane).

Come si può notare, molti di questi invii ebbero breve durata e lasciarono frequentemente il posto a missionari francesi. Questo dipese certamente dalle vicende che portarono a una seconda ondata di soppressioni, prima con le leggi piemontesi e poi con quelle del 1866-67 sull’asse ecclesiastico, mentre l’impero di Napoleone III e poi la Terza repubblica fino almeno al 1905 appoggiavano le missioni. Ma in Italia il movimento popolare missionario, vera novità del secolo XIX, pur essendo diffuso abbastanza precocemente (1824 Piemonte, 1825 Sardegna, 1835 tutti gli altri stati) non aveva la stessa forza economica. Infine una realtà antica e consolidata come le “Missions étrangères” non aveva ancora un vero corrispettivo nella penisola.

Su questo modello, cioé di sacerdoti secolari dedicati alla missione, in Italia si stavano formando alcuni istituti: anzitutto l’Istituto Missioni Estere di Milano (S. Calogero) dal 1850, con missioni nelle Isole Salomone (1852-1858: nel 1855 vi morì martire il b. Giovanni Mazzucconi), ad Hyderabab e in Bengala, India (1855), in Borneo (1855-1860), in Colombia (1856-1942), a Hong Kong (dal 1858), in Cina (Henan 1870), e tra i “tribali” in Birmania (dal 1870); e a Genova il Collegio Brignole-Sale-Negrone dal 1855. Dal 1835 esiste la Società Missionaria dell’Apostolato Cattolico fondata a Roma da Vincenzo Pallotti, che però avrà missioni dal 1870 in avanti.

Intanto in varie città italiane stavano giungendo i “negretti” e le “negrette”, piccoli schiavi riscattati e portati in Italia per essere educati al cattolicesimo (Genova, con don Nicolò Olivieri; Napoli, col p. Ludovico da Casoria OFM; Verona, con don Nicola Mazza). Dalla vivace realtà ecclesiale di Verona, in cui l’ideale missionario è diffuso da don Mazza, parte nel 1857 un gruppo di sacerdoti, che accompagnano un nuovo vicario apostolico dell’Africa centrale, l’austriaco I. Knoblecher, dopo il ritiro del vincenziano Montuori da Khartoum. Di questo gruppo fa parte Daniele Comboni. I superstiti della spedizione, decimata dalle malattie, ritornano in Europa nel 1862. Comboni, dopo questa prima esperienza fallimentare, elabora nel 1864 il “Piano per la rigenerazione dell’Africa”, dai forti contenuti innovativi e antischiavisti. Il seguito della sua avventura missionaria si colloca dopo il concilio Vaticano I, a cui Comboni partecipa attivamente.

Tra le prime religiose dedite alla missione ci saranno le Canossiane, anch’esse originarie di Verona, a Hong Kong dal 1860. Nell’Italia della prima metà dell’ottocento inizia lentamente a maturare la possibilità di una presenza femminile nelle missioni. Tra i vari esempi si può citare l’itinerario originale delle Francescane Missionarie d’Egitto, sorte da un monastero di vita contemplativa di Ferentino nella Ciociaria ma presto (1859) lanciate dalla fondatrice, suor Maria Caterina Troiani (Giuliano Romano 1813 – Cairo 1887), nell’impegno educativo presso i musulmani.

Un rapido sguardo al movimento missionario italiano del primo ottocento evidenzia un certo fermento di persone e opere, slegato da mire egemoniche e coloniali come quelle francesi, a cui anche Propaganda Fide intendeva limitare il monopolio, ma fondato sui tradizionali ordini religiosi, con le fragilità che emergono nei momenti di crisi europea, con la frammentazione tipica di queste organizzazioni e dell’Italia del tempo, e con un embrione di diffusione popolare, non ancora sostenuta da congregazioni interamente missionarie. In questo senso, la vicina Francia resta all’avanguardia ed è modello di quelle nuove realtà che lentamente vanno delineandosi.

A questo apporto di forze di evangelizzazione sul campo l’Italia però aggiunge i prelati dedicati alla congregazione romana di Propaganda Fide, spesso personalità acute e preparate, anche se prive di esperienza diretta in missione, comunque sensibili a nuovi orizzonti. Citiamo Stefano Borgia (1731-1804) segretario e poi prefetto, estensore di relazioni in cui si postulava la formazione di clero indigeno, Mauro Cappellari (Belluno 1765 – Roma 1846), prefetto nel 1825-1830 poi papa Gregorio XVI, Giacomo Filippo Fransoni (prefetto da 1834 al 1856), Alessandro Barnabò (prefetto dal 1856 al 1874).

Presto la diffusione dei testi di René de Chateaubriand, della traduzione delle Lettres édifiantes et curieuses (Milano 1825-1829), delle traduzioni degli Annali della Propagazione della Fede e delle relazioni di Massaia (1885-1895, 12 volumi editi a Roma e Milano) apriranno all’opinione pubblica popolare una più intensa sensibilità verso la missione “oltremare”.

Fonti e Bibl. essenziale

G. Battelli, Daniel Comboni et son “image” de l’Afrique, in Eglise et histoire de l’Eglise en Afrique. Actes du colloque de Bologne (22-25 octobre 1988), a cura di G. Ruggieri, Paris (Beauchesne) 1988, 63-87; Dalle missioni alle chiese locali (1846-1965), a cura di J. Metzler, (Storia della Chiesa “Fliche-Martin”, 24), Cinisello Balsamo (Ed. Paoline) 1990; P. Gheddo, PIME: 150 anni di missione (1850-2000), Bologna (EMI) 2000; Histoire universelle des missions catholiques. 3: les missions contemporaines (1800-1957), a cura di S. Delacroix, Paris (Grund) 1958; J. Leflon, Crisi rivoluzionaria e liberale. II: restaurazione e crisi liberale (1815-1846), (Storia della Chiesa “Fliche-Martin”, 20/2), Torino (SAIE) 1975, 893-944; G. Martina, Pio IX (1851-1866), Roma (Editrice Univ. Gregoriana) 1986, 357-424; G. Martina, Storia della Compagnia di Gesù in Italia (1814-1983), Brescia (Morcelliana) 2003, 121-124. 137; G. Romanato, L’Africa nera fra cristianesimo e islam. L’esperienza di Daniele Comboni (1831-1881), Milano (Corbaccio) 2003; J. Schmidlin, Manuale di storia delle missioni cattoliche. III: le missioni nell’epoca contemporanea, Milano (Pontificio Istituto Missioni Estere) 1929; G. B. Tragella, Le Missioni Estere di Milano nel quadro degli avvenimenti contemporanei, 3 volumi, Milano (Pontificio Istituto Missioni Estere) 1950-1963; DIP: Cappuccini, 2, 230-233; 247-249 (Melchiorre da Pobladura); Carmelitani scalzi, 2, 570-580 (V. Macca); Congregazione della Missione, 2, 1543-1551 (L. Chierotti, quasi senza notizie sulle missioni); Figlie della Carità Canossiane, 3, 1534 (A. Serafini); Francescane Missionarie del Cuore Immacolato di Maria dette d’Egitto, 4, 337-338 (E. Frascadore); Frati minori simpliciter dicti, 4, 873-895 (E. Frascadore, P. Péano); Oblati di Maria Vergine, 6, 634-637 (P. Calliari).


LEMMARIO




Missioni estere - vol. II


Autore: Angelo Manfredi

Con questa espressione si intende l’impegno di personale originario della penisola italiana, e radicato nelle chiese che la strutturano, per la missione verso popoli non cristiani esterni alla penisola stessa, che come tale si cristianizza nei secoli del tardo impero. Quindi escluderemo il fenomeno del passaggio al cristianesimo nella sua forma romana dei Longobardi che occupano i gangli vitali di gran parte dell’Italia attuale.

Per ciò che riguarda il I millennio cristiano, si può brevemente rammentare l’apporto della chiesa aquileiese e delle realtà ad essa collegate per la diffusione del cristianesimo verso le popolazioni slave dell’attuale Carinzia, Slovenia e Croazia, e la figura di Gerardo, veneziano e vescovo di Czanad tra gli ungari, al tempo del re Vajk-Stefano. Gerardo fu martirizzato nel 1046 in occasione di una reazione pagana. Tuttavia gran parte delle stirpi germaniche, slave e di altre origini e culture videro l’impegno missionario di clero proveniente più dalle realtà statuali franche o da Bisanzio, mentre le chiese più propriamente italiche sembrano meno coinvolte.

Qui si evoca soltanto l’apporto dei membri italiani degli ordini mendicanti ai tentativi di evangelizzazione rivolti alle popolazioni musulmane del nord-Africa, del vicino Oriente, o alle orde ancora sciamaniche dell’Asia Centrale, nei secoli XII-XV: basti ricordare la figura del francescano Giovanni da Montecorvino che fu dal 1307 arcivescovo di Khanbaliq (Pechino), e del domenicano Tommaso Mancasole da Piacenza che fu vescovo di Samarkand nello stesso periodo.

Con la cosiddetta scoperta del nuovo mondo, lo sviluppo della navigazione e del commercio intercontinentale e i primi fenomeni di colonizzazione, spesso com’è noto collegati con l’evangelizzazione, si aprono prospettive di investimento di personale italiano, appartenente a ordini più antichi o più recenti che si dedicano anche alla missione ad gentes. Sono ben noti i nomi di Matteo Ricci (Macerata 1552 – Pechino 1610) e di Roberto De’ Nobili (Roma 1577 – Meliapur 1656), gesuiti, pionieri dei metodi di adattamento rispettivamente in Cina e in India. Forse meno noto, ma di reale importanza storica è Alessandro Valignano (Chieti 1538 – Macao 1606), missionario in Giappone e visitatore delle missioni d’oriente, sempre della Compagnia di Gesù. Ricordiamo pure Nicolò Mascardi di Sarzana S.J. (1624-1674) missionario ed esploratore in Cile. Nei territori soggetti al patronato della corona di Spagna, ossia in gran parte dell’America Latina, come nei territori più direttamente collegati al Portogallo, quali Brasile, Goa, Macao, le congregazioni impegnate nella diffusione del cristianesimo reclutavano personale esclusivamente d’origine spagnola, e rispettivamente lusitana, escludendo perfino, a quanto ne sappiamo, i territori italiani soggetti al monarca iberico. Fanno eccezione, oltre ai gesuiti, i cappuccini, direttamente alle dipendenze della congregazione romana di Propaganda Fide, e presenti in Congo nei secoli XVII e XVIII, e in Pernambuco (Brasile) dal 1699. Il governo portoghese soppresse nel 1834 gli ordini religiosi anche in quell’area, facendo venir meno la presenza cappuccina italiana. Invece è una pagina in gran parte da esplorare coi metodi moderni la presenza di italiani francescani, domenicani e di altri ordini nel mondo legato all’impero ottomano, tra i secoli XVI e XIX: Bosnia, Turchia, Terrasanta, dove alcuni raggiunsero anche responsabilità prelatizie o svolsero compiti diplomatici o culturali di alto livello. Questa missione, oltre ai rapporti col mondo musulmano, creava relazioni con i cristiani orientali, separati o uniti a Roma, rapporti spesso delicati. In oriente abbiamo pure i cappuccini italiani in Tibet e Nepal (1703-1803) e i carmelitani scalzi italiani presenti nel XVIII e inizio XIX secolo a Verapoly (ora Ernakulam, in Kerala, India sud-occidentale; diviso in tre vicariati nel 1845) e a Bombay sulla costa centro-occidentale: Ferdinando Fortini sarà l’ultimo vicario italiano a Bombay (1840-1848), ove poi saranno presenti soprattutto vicari francesi; i carmelitani scalzi ebbero una missione anche a Isphahan in Persia (1607-1797) con un certo irradiamento nel golfo Persico.

Come si può notare da quanto finora elencato, il secolo XVIII portò a un regresso dell’opera di propagazione della fede oltremare, a seguito delle soppressioni dei gesuiti e poi napoleoniche e della crisi di reclutamento negli ordini religiosi europei.

Con la restaurazione e il ripristino della congregazione romana di Propaganda Fide anche le chiese della penisola italiana furono coinvolte nel movimento missionario, che si può definire ormai verso le “missioni estere”, e che assume forme e modalità innovative. Ci limiteremo qui al periodo precedente al 1870, con connessioni che porteranno com’è ovvio alla seconda parte della voce.

Le province francescane e cappuccine, appena fu possibile, ripresero l’invio di personale in terre di missione: diversi vicariati furono assegnati o ripristinati a favore dei minori in Cina (lo Shanxi e lo Shaanxi sono presidiati dai francescani con continuità dalla fine del XVII sec.; lo Hukwang dal 1836, diviso nel 1856 in due vicariati, Hunan e Hubei; lo Shandong dal 1837); la provincia di Aracoeli (Roma) inviava missionari nel 1857 tra gli indios dell’Argentina del nord; cappuccini italiani sono presenti tra gli Araucani del Cile (1848-1888); dodici francescani italiani cacciati dal Messico nel 1835 si dedicarono alla Bolivia. Un alone di mito circonda il cappuccino Guglielmo Massaia (Piovà/AT 1809 – S. Giorgio a Cremano/NA 1889, cardinale dal 1884), vicario apostolico dal 1841 nel centro-sud dell’Etiopia, tra gli Oromo (o Galla), esploratore e scrittore popolare.

Anche i gesuiti, restaurati in Italia nel 1814, nonostante le minacce e poi la crisi di una seconda soppressione, dedicarono parte del personale alla missione. La provincia romana nel 1863 inviò in Brasile, nello stesso periodo la provincia torinese era presente tra i nativi in California, Oregon e Montagne Rocciose (più tardi anche in Alaska); la provincia siciliana in Honduras e, con qualche elemento, in Australia.

I Vincenziani o Lazzaristi sono presenze singolari in teatri particolarmente dislocati: Luigi Montuori (Avellino 1798 – Napoli 1857) e Girolamo Serao (o Serrao) a Khartoum in Sudan (1834-1846); Vincenzo Spaccapietra (Francavilla 1801 – Smirne 1878) fu arcivescovo di Port of Spain nelle Antille (1855-1859) e poi a Smirne (1862-1878); il nome più noto è quello di S. Giustino De Jacobis (1800-1860), in Etiopia come vicario dal 1839 al 1860. La missione sudanese fu quella più critica, mentre la difficile presenza in Etiopia fu proseguita da vincenziani francesi.

Citiamo poi l’alternarsi di italiani in Birmania (ora chiamato Myanmar): dapprima i barnabiti dal 1722 al 1837, con un vicariato apostolico e alcuni padri per i meticci birmano-portoghesi cristianizzati; dopo una breve successione degli scolopi, dal 1837 tentarono gli oblati di Maria Vergine “di Torino”, fondati da Pio Brunone Lanteri, fino al 1862, sostituiti poi dai francesi delle “Missions étrangères”.

In Australia, sembra che il primo tentativo di approccio verso i nativi (1842-46) fu di quattro passionisti nell’isola di Dunwich (North Stradbroke Island, Queensland, davanti alla città di Brisbane).

Come si può notare, molti di questi invii ebbero breve durata e lasciarono frequentemente il posto a missionari francesi. Questo dipese certamente dalle vicende che portarono a una seconda ondata di soppressioni, prima con le leggi piemontesi e poi con quelle del 1866-67 sull’asse ecclesiastico, mentre l’impero di Napoleone III e poi la Terza repubblica fino almeno al 1905 appoggiavano le missioni. Ma in Italia il movimento popolare missionario, vera novità del secolo XIX, pur essendo diffuso abbastanza precocemente (1824 Piemonte, 1825 Sardegna, 1835 tutti gli altri stati) non aveva la stessa forza economica. Infine una realtà antica e consolidata come le “Missions étrangères” non aveva ancora un vero corrispettivo nella penisola.

Su questo modello, cioé di sacerdoti secolari dedicati alla missione, in Italia si stavano formando alcuni istituti: anzitutto l’Istituto Missioni Estere di Milano (S. Calogero) dal 1850, con missioni nelle Isole Salomone (1852-1858: nel 1855 vi morì martire il b. Giovanni Mazzucconi), ad Hyderabab e in Bengala, India (1855), in Borneo (1855-1860), in Colombia (1856-1942), a Hong Kong (dal 1858), in Cina (Henan 1870), e tra i “tribali” in Birmania (dal 1870); e a Genova il Collegio Brignole-Sale-Negrone dal 1855. Dal 1835 esiste la Società Missionaria dell’Apostolato Cattolico fondata a Roma da Vincenzo Pallotti, che però avrà missioni dal 1870 in avanti.

Intanto in varie città italiane stavano giungendo i “negretti” e le “negrette”, piccoli schiavi riscattati e portati in Italia per essere educati al cattolicesimo (Genova, con don Nicolò Olivieri; Napoli, col p. Ludovico da Casoria OFM; Verona, con don Nicola Mazza). Dalla vivace realtà ecclesiale di Verona, in cui l’ideale missionario è diffuso da don Mazza, parte nel 1857 un gruppo di sacerdoti, che accompagnano un nuovo vicario apostolico dell’Africa centrale, l’austriaco I. Knoblecher, dopo il ritiro del vincenziano Montuori da Khartoum. Di questo gruppo fa parte Daniele Comboni. I superstiti della spedizione, decimata dalle malattie, ritornano in Europa nel 1862. Comboni, dopo questa prima esperienza fallimentare, elabora nel 1864 il “Piano per la rigenerazione dell’Africa”, dai forti contenuti innovativi e antischiavisti. Il seguito della sua avventura missionaria si colloca dopo il concilio Vaticano I, a cui Comboni partecipa attivamente.

Tra le prime religiose dedite alla missione ci saranno le Canossiane, anch’esse originarie di Verona, a Hong Kong dal 1860. Nell’Italia della prima metà dell’ottocento inizia lentamente a maturare la possibilità di una presenza femminile nelle missioni. Tra i vari esempi si può citare l’itinerario originale delle Francescane Missionarie d’Egitto, sorte da un monastero di vita contemplativa di Ferentino nella Ciociaria ma presto (1859) lanciate dalla fondatrice, suor Maria Caterina Troiani (Giuliano Romano 1813 – Cairo 1887), nell’impegno educativo presso i musulmani.

Un rapido sguardo al movimento missionario italiano del primo ottocento evidenzia un certo fermento di persone e opere, slegato da mire egemoniche e coloniali come quelle francesi, a cui anche Propaganda Fide intendeva limitare il monopolio, ma fondato sui tradizionali ordini religiosi, con le fragilità che emergono nei momenti di crisi europea, con la frammentazione tipica di queste organizzazioni e dell’Italia del tempo, e con un embrione di diffusione popolare, non ancora sostenuta da congregazioni interamente missionarie. In questo senso, la vicina Francia resta all’avanguardia ed è modello di quelle nuove realtà che lentamente vanno delineandosi.

A questo apporto di forze di evangelizzazione sul campo l’Italia però aggiunge i prelati dedicati alla congregazione romana di Propaganda Fide, spesso personalità acute e preparate, anche se prive di esperienza diretta in missione, comunque sensibili a nuovi orizzonti. Citiamo Stefano Borgia (1731-1804) segretario e poi prefetto, estensore di relazioni in cui si postulava la formazione di clero indigeno, Mauro Cappellari (Belluno 1765 – Roma 1846), prefetto nel 1825-1830 poi papa Gregorio XVI, Giacomo Filippo Fransoni (prefetto da 1834 al 1856), Alessandro Barnabò (prefetto dal 1856 al 1874).

Presto la diffusione dei testi di René de Chateaubriand, della traduzione delle Lettres édifiantes et curieuses (Milano 1825-1829), delle traduzioni degli Annali della Propagazione della Fede e delle relazioni di Massaia (1885-1895, 12 volumi editi a Roma e Milano) apriranno all’opinione pubblica popolare una più intensa sensibilità verso la missione “oltremare”.

Fonti e Bibl. essenziale

G. Battelli, Daniel Comboni et son “image” de l’Afrique, in Eglise et histoire de l’Eglise en Afrique. Actes du colloque de Bologne (22-25 octobre 1988), a cura di G. Ruggieri, Paris (Beauchesne) 1988, 63-87; Dalle missioni alle chiese locali (1846-1965), a cura di J. Metzler, (Storia della Chiesa “Fliche-Martin”, 24), Cinisello Balsamo (Ed. Paoline) 1990; P. Gheddo, PIME: 150 anni di missione (1850-2000), Bologna (EMI) 2000; Histoire universelle des missions catholiques. 3: les missions contemporaines (1800-1957), a cura di S. Delacroix, Paris (Grund) 1958; J. Leflon, Crisi rivoluzionaria e liberale. II: restaurazione e crisi liberale (1815-1846), (Storia della Chiesa “Fliche-Martin”, 20/2), Torino (SAIE) 1975, 893-944; G. Martina, Pio IX (1851-1866), Roma (Editrice Univ. Gregoriana) 1986, 357-424; G. Martina, Storia della Compagnia di Gesù in Italia (1814-1983), Brescia (Morcelliana) 2003, 121-124. 137; G. Romanato, L’Africa nera fra cristianesimo e islam. L’esperienza di Daniele Comboni (1831-1881), Milano (Corbaccio) 2003; J. Schmidlin, Manuale di storia delle missioni cattoliche. III: le missioni nell’epoca contemporanea, Milano (Pontificio Istituto Missioni Estere) 1929; G.B. Tragella, Le Missioni Estere di Milano nel quadro degli avvenimenti contemporanei, 3 volumi, Milano (Pontificio Istituto Missioni Estere) 1950-1963; Dizionario degli Istituti di Perfezione: Cappuccini, 2, 230-233; 247-249 (Melchiorre da Pobladura); Carmelitani scalzi, 2, 570-580 (V. Macca); Congregazione della Missione, 2, 1543-1551 (L. Chierotti, quasi senza notizie sulle missioni); Figlie della Carità Canossiane, 3, 1534 (A. Serafini); Francescane Missionarie del Cuore Immacolato di Maria dette d’Egitto, 4, 337-338 (E. Frascadore); Frati minori simpliciter dicti, 4, 873-895 (E. Frascadore, P. Péano); Oblati di Maria Vergine, 6, 634-637 (P. Calliari).


LEMMARIO




Missioni interne - vol. I


Autore: Giovanni Pizzorusso

Le missioni interne (dette anche popolari) originano dalle istanze di riforma sviluppatesi nel XVI secolo. In quanto rivolte si svolgono all’interno del mondo cattolico si distinguono da quelle dette ad gentes, cioè dirette ai popoli non cattolici da convertire, e vengono anche definite come forma straordinaria di predicazione. La specificità delle missioni popolari è l’intervento sui fedeli all’interno delle diocesi per correggere la scarsa conoscenza, l’indifferenza o la vera e propria ignoranza dei principi e delle pratiche della religione cattolica, carenze emerse in diversa modalità e misura in ambito urbano e soprattutto rurale nel quale la religiosità popolare sconfinava nella superstizione. Tale esigenza di sollecitazione del fervore e della pietas dei fedeli sorse all’interno di alcuni ordini regolari che divennero i protagonisti di tali missioni. Così esse si diffusero in tutta l’Europa cattolica nel corso del XVI secolo, quando anche la tensione confessionale con il mondo protestante stimolò l’urgenza di un rafforzamento della fede della popolazione cattolica soprattutto attraverso la catechesi, la penitenza, l’orazione e gli esercizi spirituali, talvolta attuati con forme espressive particolarmente drammatizzate o teatrali, secondo una metodologia che muta nel tempo e che viene sistematizzata in vari trattati scritti dagli stessi missionari.

La penisola italiana, nella sua grande maggioranza cattolica, conobbe un ampio sviluppo di queste missioni. La scarsa pratica della religione era determinata anche dal numero insufficiente e dalla scarsa preparazione di parroci, tema al centro del Concilio tridentino. La diffusione dei missionari era quindi destinata a sopperire alle inefficienze del clero diocesano, a costituire un intervento di emergenza, autorizzato dai vescovi, che doveva agire dove richiesto e altresì cessare al momento del ripristino o del raggiungimento di una situazione normale di cura spirituale.

Il rapporto istituzionale era quindi soprattutto con l’autorità locale diocesana. Per le missioni interne non fu fondato un dicastero pontificio come accadde per quelle ad gentes, la Congregazione de Propaganda Fide nel 1622. Anche per quest’ultima l’azione missionaria era costituita dal duplice sforzo di propagazione e difesa della fede, ma lo spazio dell’azione giurisdizionale di Propaganda si definì quasi subito come quello esterno al mondo cattolico, dove i precetti tridentini andavano introdotti ex-novo e dovevano essere accudite e difese semmai le comunità di neo-convertiti. Dopo un’iniziale inchiesta a tappeto nel 1622 sulla necessità di invio di missionari presso tutti i vescovi italiani, cui questi risposero in modo piuttosto evasivo, Propaganda limitò la sua giurisdizione in Italia alle frontiere con l’eresia, come nelle valli alpine, oppure alle minoranze di italo-greci unite a Roma in cambio della protezione del loro rito orientale. Inoltre il dicastero si interessò alle città portuali (Venezia, Napoli, Livorno) con il loro mondo cosmopolita fatto di schiavi musulmani, ma spesso anche di eretici di passaggio, in particolare mercanti.

A parte questi casi di missione “interna”, ma rivolta ad eretici o a cattolici di rito orientale, l’apostolato in Italia è costituito dalle missioni popolari nell’ambito istituzionale della diocesi. I missionari sono soprattutto membri degli ordini regolari, in primo luogo i gesuiti fin dalla fondazione della Compagnia alla metà del XVI secolo. Per essi le missioni popolari costituirono un completamento dell’azione apostolica presso gli “infedeli” e gli “eretici” costituendo le Indie “interne” nelle quali essi agirono già alla metà del secolo con Silvestro Landini, missionario in Garfagnana e in Corsica. In quel periodo di persistente timore di infezione eretica, la missione costituiva l’aspetto apostolico e devozionale di una lotta che si combatteva anche con la repressione dottrinale ad opera di vescovi e di inquisitori. La confessione era il momento nel quale il missionario svolgeva un’attività di inquisitore, registrando nomi e spingendo ad abiure segrete. Se questa attività repressiva si attenuò nel corso del secolo, rimasero le iniziative a favore dell’intervento disciplinare sui fedeli nel segno di un persistente controllo dottrinale. Così le missioni si sovrapponevano alle visite pastorali dei vescovi di cui assumevano i compiti organizzando il culto dei laici e proponendosi come pacificatori. Come ha osservato Adriano Prosperi, questa funzione vicaria di inquisitori e vescovi portò, oltre a conflitti istituzionali, anche a una perdita del senso specifico della missione. Tra XVI e XVII secolo vi fu quindi uno sforzo di ridefinizione da parte della Compagnia di Gesù durante il generalato di Claudio Acquaviva. Questi operò un sostanziale rilancio di tale attività missionaria indirizzandola soprattutto verso il risveglio della pietà cristiana e lasciando alla visita pastorale del vescovo gli aspetti riformatori della disciplina e all’azione inquisitoriale quella repressiva. Se quindi i gesuiti avevano offerto una forza di rapida mobilitazione, stimolata anche dall’autorità civile, per il controllo socio-religioso dei fedeli, tuttavia la struttura episcopale della Chiesa tridentina doveva, pur lentamente, mettersi in moto.

La missione diventa quindi un’attività più specializzata e definita, legata all’apostolato, alla predicazione e alla mobilitazione delle coscienze e i missionari tendono a specializzarsi e dividersi tra l’attività di conversione nelle vere Indie e quella di risveglio apostolico nelle Indie “interne”. Non che manchino casi in cui lo stesso religioso abbia operato nei due contesti, oppure che vengano utilizzati strumenti di comunicazione comuni (le immagini, le rappresentazioni teatrali), ma i due campi d’azione si definiscono spesso come alternativi, anche nelle aspirazioni degli stessi religiosi come percorsi individuali di perfezionamento spirituale. All’interno della Compagnia di Gesù la missione si istituzionalizza, con gli interventi dei generali dell’ordine, in particolare le disposizioni di Acquaviva del 1590, 1594 1599 e 1613, ma anche quelle successive di Vincenzo Carafa nel 1646, volti sia a mobilitare i religiosi, sia a regolare l’attività. Acquaviva volle che ogni provincia destinasse dodici religiosi alle missioni. In seguito chiese che ogni collegio avesse due missionari. Carafa poi istituì la figura del prefetto per le missioni in ogni provincia italiana. L’impegno doveva quindi essere stabile e continuo, ma non doveva però dar luogo a residenze fisse. Rispettando il principio ignaziano dell’itineranza, i missionari dovevano andare due a due in città e campagne, senza stabilirvisi per evitare conflitti con le istituzioni religiose locali e mantenendo quindi il carattere di provvisorietà della missione popolare, ma incidendo anche nella società locale esercitandovi un controllo (le pacificazioni).

Per la loro organizzazione dell’apostolato, i gesuiti costituiscono un punto di riferimento per gli altri ordini che concorrono allo sviluppo pur discontinuo delle missioni popolari in Italia, che si allarga nel XVII secolo a vari ordini regolari, ma anche a istituzioni più specifiche. Già nel secolo precedente i cappuccini, non ancora attivi come in seguito nell’evangelizzazione ad gentes, svolgono un’attività missionaria inserita nel solco della loro attività di predicazione e costituiva un complemento della vita spirituale basata sulla meditazione del ritiro (Giuseppe da Leonessa). Essi sviluppano una forma di “predicazione di missione” che unisce a una semplicità retorica e facilità di comprensione forti stimoli penitenziali per convertire i peccatori che si concentra nella devozione delle Quarant’ore. All’inizio del XVII secolo a Napoli viene fondata da Carlo Carafa la congregazione dei Pii Operai specializzata nelle missioni popolari e impostata sul modello gesuita. La pratica missionaria si sviluppa presso molte famiglie di regolari dapprima in direzione delle campagne (ad esempio l’Agro romano), che per la loro marginalità potevano ben rispondere all’immagine esotica delle Indie. In effetti anche per le missioni interne si riproduce il meccanismo che dà luogo a tentativi di acculturazione da parte dei missionari e, al contempo, alla raccolta di informazioni etnografiche di prima mano da parte degli stessi religiosi. Più tardi l’attività si sviluppa nelle città, vista anche come un disimpegno dalla dura realtà rurale, in particolare in luoghi urbani specifici come gli ospedali dove già operavano ordini specializzati. Per Camillo de Lellis, fondatore dei Ministri degli infermi, sono essi “le più belle Indie, il più bel Giappone”.

Fenomeno importante nel corso del XVII secolo è il coinvolgimento del clero secolare, spesso su impulso dei regolari. Per diretto impulso dei gesuiti, la Congregazione dell’Assunzione della Beata Vergine Maria (1611) viene fondata a Napoli nel 1611 da Francesco Pavone e si dedica alla predicazione e alla catechesi. Espressione diretta del clero diocesano napoletano è la Congregazione delle apostoliche missioni (1646) fondata da Sansone Carnevale per dedicarsi anche alle missioni estere (vi si studiava anche il turco per le missioni a Costantinopoli), ma che si limitò alle missioni interne con varie filiali per tutto il Mezzogiorno. Di essa fece parte anche il giovane Alfonso Maria de’ Liguori.

Dalle prime esperienze dei gesuiti Silvestro Landini e Nicola Alfonso Bobadilla alla metà del XVII secolo, la missione popolare ha elaborato modus operandi piuttosto empirici che poi si diffondono e vengono teorizzati. La figura più importante in questo senso è il gesuita Paolo Segneri seniore (1624-1694) che elabora una specifica forma di predicazione di missione, diversa dalla predicazione “alta”, lasciando memoria scritta delle tematiche trattate in lettere e relazioni ma anche in opere a stampa come Il cristiano istruito nella sua legge (1686-1687) e Il parroco istruito (1692). Inoltre dalle corrispondenze emergono le tecniche oratorie, l’improvvisazione e gli apparati scenografici e teatrali. Segneri è considerato anche il promotore della “missione centrale”, che si svolge cioè in una località centrale rispetto a un’area circostante. I fedeli vengono fatti affluire, in genere da un raggio di sei miglia, alla celebrazione rituale pomeridiana dove si svolgeva la predica e anche l’istruzione dottrinale da parte dei due missionari (Segneri agì per 26 anni insieme a Giovanni Pietro Pinamonti). La processione notturna (con la recita di “fervorini”) e la comunione generale concludevano la missione, nella quale le tecniche performative e scenografiche barocche dovevano acuire l’effetto (“missione strepitosa”). Per i gesuiti era importante anche la promozione presso il popolo dei fedeli della pratica della confessione in contrapposizione al quietismo.

Nella tradizionale divisione tra missione penitenziale e catechetica (che tuttavia la storiografia tende a sfumare) la missione segneriana vede la relativa prevalenza della prima, anche se l’elemento dottrinale d’insegnamento si afferma sempre di più in Italia, grazie alla diffusione dei lazzaristi di provenienza francese nella seconda metà del XVII secolo. Essi miravano a “rimediare l’ignoranza” sia del clero sia dei fedeli con missioni che erano molto legate alla parrocchia, sviluppando gli esercizi spirituali e stabilendo o rigenerando le confraternite, nelle quali il laicato femminile aveva gran peso.

La contrapposizione tra la missione gesuita “tutta fuoco” e quella lazzarista “tutta quiete” si fissa nel XVIII secolo quando sulle missioni popolari si apre un vero e proprio dibattito. In effetti si levano voci insofferenti verso gli aspetti più appariscenti della missione, in particolare quando essa si svolge in città dove si biasimano tali aspetti per i quali il fedele è “più spaventato che divoto” (Mauro Alessandro Lazzarelli). Se il metodo segneriano era ancora accolto nella Compagnia di Gesù, anche per opera di importanti missionari come Paolo Segneri juniore, Antonio Tomassini e Antonio Baldinucci, anche nella Compagnia si alzavano voci come quella di Vincenzo Imperiali nel 1701 per rendere la missione meno solenne e più consueta nella diocesi con una rivalutazione del ruolo del parroco, una “regolata devozione” condivisa anche da Muratori. In quegli anni il domenicano francese Jean-Baptiste Labat, a lungo inquisitore a Civitavecchia, si fa beffe delle processioni e delle flagellazioni nello stesso modo divertito con il quale Montaigne descriveva la Curia pontificia.

Questo mutamento conosce tuttavia fasi altalenanti e sforzi di sintesi che vedono all’opera gli ordini regolari vecchi e nuovi. Il clero diocesano partecipa soprattutto o organizzato in associazioni collegate agli ordini o con adesioni individuali a tali ordini, promotori ancora indispensabili nel panorama italiano. Vediamo dunque, insieme a gesuiti, francescani e lazzaristi, anche nuovi ordini in azione sia in campagna, sia in città per una risposta alla scristianizzazione attraverso una missione dal carattere più integrato nell’attività parrocchiale rispetto ai secoli precedenti.

I Pii Operai, rigenerati sotto la spinta di Pietro Gisolfo nella seconda metà del XVII secolo verso uno “zelo discreto” che significa fare della missione un momento catechetico rivolto con stile grave e semplice e con modalità differenziate per ceti e tipi di fedeli. Questo metodo è applicato da Antonio Torres nella congregazione della Purità di Maria Vergine fondata nel 1680 a Napoli. Questa tendenza, che porterà addirittura a sospetti di quietismo, cambia poi nella seconda metà del XVIII secolo con il ritorno a momenti più intensi, come i “sentimenti di notte” destinati soprattutto alle popolazioni rurali.

Emerge quindi una sintesi tra le due tipologie missionaria operata dal francescano osservante Leonardo da Porto Maurizio nella quale la metodologia segneriana è accolta, ma completata con una maggior attenzione alle confessioni e con un più forte inserimento nella cura spirituale ordinaria del parroco. Ma non mancavano le processioni penitenziali e lo “svegliarino della buona morte”.

Il pontificato di Benedetto XIV è un tornante decisivo per lo sviluppo di nuove devozioni e per l’impulso alle missioni popolari, anche in coincidenza con l’anno santo del 1750. Due nuovi ordini si affermano in particolare, i passionisti e i redentoristi. Nei primi, fondati da Paolo della Croce nel 1720, si afferma nell’azione missionaria la spiritualità cristologica di matrice francescana. Nella meditazione sulla Passione di Cristo emergono elementi mistici e pastorali, di forte richiamo alla penitenza e alla conversione con i simboli della croce e del cuore sofferente posti in primo piano, anche sull’abito ecclesiastico. Questa spiritualità rigorosa, che richiede ai religiosi comportamenti austeri e la ricerca della povertà, si richiama a quella promossa nelle missioni di Leonardo da Porto Maurizio che nelle campagne e nelle città dell’Italia centrale dove agivano anche i passionisti e nella stessa Roma, aveva introdotto la devozione della via crucis, in particolare nel 1750 con l’elevazione del Colosseo come santuario della cristianità e del suo martirio.

Intanto nel 1732 Alfonso Maria de’ Liguori fonda i redentoristi che si dedicano alle missioni nelle campagne e tra il popolo minuto delle città raggiungendo i villaggi più sperduti in opposizione alla missione “centrale” gesuita. Infatti essi sviluppano le “missioni parrocchiali” sensibilizzando i parroci e anche i laici all’azione pastorale, come già i lazzaristi. Alfonso sosteneva che la missione doveva essere periodicamente ripetuta, ma non troppo intensamente (ogni tre anni). Come per i passionisti anche per i redentoristi la mistica cristologica era centrale, le loro missioni si concludevano infatti con l’erezione di calvari, oltre che sulla necessità della preghiera e della contrizione, le meditazioni vertevano sul Cristo crocifisso e sulla protezione della Madonna che diviene un elemento importante di una pastorale volta a trasmettere anche un messaggio di fiducia. Come ha sottolineato Stefania Nanni, sulla base della centralità cristologica tra Passione e Redenzione, in questi nuovi ordini missionari settecenteschi si realizzano forme diverse di una fusione tra mistica e apostolato, attraverso la catechesi e la ritualità spettacolare della missione.

Nel XVIII secolo si sviluppano poi molti altri istituti formati da secolari tra i quali i Sacerdoti Secolari Missionari di Palermo (1703), i Missionari di Rho (1721) filiazione degli Oblati dei ss. Ambrogio e Carlo fondati da S. Carlo Borromeo; i Missionari rurali (1713) a Genova e in Liguria che estendono al contado l’azione dei Missionari urbani genovesi fondati nel 1643 dal cardinale Stefano Durazzo; i Missionari Imperiali (fondati da Francesco Maria Imperiali nel 1738) attivi in Italia centrale come i Missionari della SS. Vergine Imperatrice del Cielo e della Terra (1738); i Missionari del Santissimo Sacramento (1745) nel Regno di Napoli; la Pia Opera delle Missioni (1752). Superata la fase napoleonica nella quale le missioni furono proibite, nel XIX secolo si assiste a un notevole risveglio missionario in tutta Europa nel clima della Restaurazione. In Italia già durante il periodo napoleonico Pio Bruno Lanteri aveva fondato associazioni laicali (“amicizie”), poi nel 1816 prende la direzione della Congregazione degli Oblati di Maria Vergine dedita, oltre che a missioni e esercizi spirituali, anche alla formazione del clero e alla diffusione della stampa. S. Gaspare del Bufalo, già fondatore di un’arciconfraternita del Preziosissimo Sangue e poi dell’omonima Congregazione nel 1815, è attivo nello Stato pontificio con predicazioni e esercizi spirituali le cui tecniche riprendono la centralità cristologica degli istituti settecenteschi, accentuandone le caratteristiche penitenziali e drammatiche (il sangue di Cristo come oggetto mistico) e sviluppando associazioni laiche dei fedeli per rendere continuativa la prassi missionaria anche in opposizione alle forme associative massoniche. Nel Mezzogiorno i Missionari dei Sacri Cuori di Gesù e Maria, fondati da Gaetano Errico ispirandosi a S. Alfonso Liguori si dedicavano alla predicazione, agli esercizi spirituali e alla missione, oltre che alla devozione di cui portano il nome. Nel 1835 S. Vincenzo Pallotti fonda la Pia Società dell’Apostolato cattolico (poi Pia Società delle Missioni) che, in un ampio spettro di attività, ha anche le missioni interne e gli esercizi spirituali, nonché l’aiuto al clero diocesano e anche l’apertura verso le missioni estere, in particolare a servizio delle comunità italiane emigrate, prima a Londra poi in America del Nord, un’attività di missione “interna” (cioè di controllo e risveglio religioso dei cattolici) che si sviluppa sempre di più grazie al forte sviluppo dell’emigrazione italiana fuori dai territori e nazioni cattoliche. Proprio per la sua collocazione geografica, questa attività ricade sotto l’autorità della Congregazione de Propaganda Fide, mentre in Italia le missioni popolari proseguono adeguandosi alla mutata realtà dello stato unitario.


LEMMARIO




Missioni interne - vol. II


Autore: Angelo G. Dibisceglia

Nella seconda metà dell’Ottocento, all’interno dell’universalità cristiana contraddistinta dall’azione della Congregazione di Propaganda Fide e dall’Opera per la Propagazione della Fede – con l’articolato e variegato costituirsi di Chiese locali nei diversi continenti e il passaggio da un’accezione di evangelizzazione intesa a senso unico con baricentro Roma a un concetto di incontro mirato, tra l’altro, anche allo scambio con le altre Chiese – un inedito significato di “missione” impegnò la realtà ecclesiale in Italia. Ciò avvenne a più livelli, affiancando alla tradizionale proiezione verso l’“esterno”, l’inedita accezione di un movimento rivolto all’“interno” della realtà ecclesiale. All’antica modalità tridentina di interpretare la missione come azione tipica degli ordini religiosi messa in atto per indottrinare le popolazioni ritenute “distanti” dalla ortodossia cristiana e, in particolare, nel passaggio tra Ottocento e Novecento, per accompagnare l’opera di colonizzazione realizzata dalle potenze europee, fu affiancata un’inconsueta – fino a quel momento – modalità di intendere l’azione missionaria, tesa a fronteggiare il diffondersi di processi di secolarizzazione che, originatisi con la Rivoluzione Francese, avevano trovato anche nella penisola – nazione storicamente “cattolica” – accanto alla Questione Romana e alla diffusione del socialismo, la loro più incisiva espressione.

Nel passaggio tra vecchio e nuovo secolo non mancò la consapevolezza di dover mobilitare la realtà ecclesiale italiana attraverso la realizzazione di “missioni interne” allo scopo di sviluppare metodi e tecniche utili per difendere, ri-cristianizzandola, una società comunque cattolica ma esposta, per ovvie ragioni, ai rischi del laicismo. Nel 1889, con la definizione delle regioni ecclesiastiche, papa Leone XIII mirò alla realizzazione di una Chiesa italiana – il “paese reale” – da contrapporre all’Italia liberale – il paese legale – che aveva “chiuso” il Papa in Vaticano, inaugurando – di fatto – l’inedita stagione che la “cittadella assediata” si accingeva a vivere nel nuo­vo Regno d’Italia. Ben presto, però, emersero notevoli differenze. Non era poca, infatti, la distanza esistente anche tra vescovi di diocesi vicine, così come molteplici apparvero le conseguenze derivanti dall’assenza di una concorde e convinta applicazione delle decisioni adottate collegialmente. Fu quello il periodo durante il quale emerse l’esistenza di un nord, caratterizzato dalla pastorale di matrice borromaica, contrapposto a un sud ancora segnato dall’assenza di una strutturata presenza parrocchiale, dove – alla fine del XIX secolo – continuava a perdurare una “gestione del sacro” legata, in gran parte, ai capitoli cattedrali e ai sodalizi confraternali.

I primi tentativi per uniformare una realtà alquanto diversificata coinvolsero l’associazionismo cattolico, protagonista di una fase di ripensamento tesa a indirizzare il tradizionale concetto di assistenza filantropica verso la realizzazione di interventi più mirati. In quegli anni, mentre la Chiesa ripensava le diverse modalità della sua presenza nella società italiana, il settentrione registrò, accanto all’impegno profuso dai “preti sociali” – Leonardo Murialdo (1828-1900), Luigi Guanella (1842-1915), Guido Conforti (1865-1931), Luigi Orione (1872-1940) – lo sviluppo di cooperative, società di mutuo soccorso, segretariati per il popolo, fra i quali scopo della cassa rurale fu di fornire sostegno economico alla classe operaia e bracciantile impegnata a difendersi – già a quei tempi – dalla diffusa piaga dell’usura. Se il modello della cassa rurale registrò un notevole sviluppo soprattutto nelle regioni settentrionali – nel 1897 se ne contavano 921, coordinate a partire dal 1905 dalla Federazione Italiana delle Casse Rurali, che nel 1922 giunse a censirne oltre 3000 diffuse in Veneto, Lombardia, Toscana, Emilia Romagna, Sicilia e Sardegna – il Mezzogiorno continentale non fu estraneo a quella spinta rinnovatrice che mirava a superare la tradizionale e dichiarata chiusura all’introduzione di una pastorale fondata sul magistero ecclesiale e sul riferimento a Roma. La Calabria, nel 1896, celebrò il suo primo congresso cattolico regionale. La Puglia si radunò nel 1901 a Taranto alla presenza di Romolo Murri. Il primo «Congresso delle sezioni meridionali della Società della Gioventù Cattolica Italiana» si svolse a Benevento nel 1908. Quelle prime esperienze, però, costituirono iniziative isolate con risultati, spesso, parziali.

Solo il nuovo assetto dell’Italia repubblicana avviò definitivamente, attraverso nuove “missioni interne”, il processo teso a delineare la specificità di una Chiesa italiana e, quindi, il concretizzarsi di una pastorale comune alle singole diocesi. Dal voto del referendum istituzionale del 2 giugno 1946 non scaturì soltanto la nuova identità della nazione – la nascita della repubblica sulle ceneri della monarchia sabauda – ma il suffragio universale rivelò principalmente come il Paese – anche dal punto di vista politico – fosse proiettato verso la ricostruzione racchiudendo in sé due Italie: un nord legato alla repubblica e un sud ancora legato alla monarchia, a conferma di come il contesto storico che aveva legato il Mezzogiorno al Regno delle Due Sicilie si fosse protratto oltre «la fine di quel regno». Tale situazione, ritenuta alquanto rischiosa per il futuro del Paese dai vertici vaticani, esponeva la nazione, dopo l’esperienza fascista, al rischio di un nuovo regime di matrice comunista. Occorreva, quindi, ricucire – dal punto di vista politico ed ecclesiale – le distanze che dividevano il Paese.

Appena due anni dopo, il risultato delle prime elezioni dell’Italia repubblicana del 18 aprile 1948, registrando l’affermazione della Democrazia Cristiana di Alcide De Gasperi con il 48,5% e la sconfitta del Partito Socialista Italiano di Pietro Nenni e del Partito Comunista Italiano di Palmiro Togliatti, mostrò l’esistenza di una nazione che, al di là di specifiche differenze locali, era riuscita a evitare il pericoloso perpetuarsi di un meridione politicamente – e non solo, quindi, ecclesiasticamente – contrapposto al settentrione. La trasformazione del “partito dei cattolici” in “partito italiano” rappresentò un risultato ottenuto – accanto ai Comitati Civici di Luigi Gedda – anche attraverso alcune “missioni interne” messe in atto, in ambito ecclesiale, tra il 1946 e il 1947.

Quegli interventi, secondo un piano suddiviso in quattro fasi – con i corsi di studio per i propagandisti, le riunioni periodiche per i presidenti regionali, le “Tre giorni” per la formazione dei nuovi propagandisti, la giornata del reclutamento – avevano coinvolto le diocesi italiane utilizzando i carri-cinema e la proiezione di pellicole a carattere religioso – come Bernadette, Pastor Angelicus, Guerra alla Guerra, La città dei Ragazzi – per colmare la «mancanza di principi chiari e di direttive precise». Nei primi mesi del 1947 l’iniziativa “missionaria” fu realizzata in «un gran numero di Diocesi di tutte le Regioni», attraverso 156 missioni, 241 missionari e 2.227 conferenze.

A metà Novecento, l’azione di valorizzazione della propria identità e della propria funzione svolta dall’associazionismo cattolico fu affiancata dall’impegno svolto, sulla stessa scia e nella medesima direzione, dall’episcopato italiano. Dall’8 al 10 gennaio 1952, a Firenze, la prima riunione dei presidenti delle conferenze episcopali regionali – la cui partecipazione, durante il Concilio Vaticano II, fu estesa a tutti i vescovi residenziali d’Italia – sancì la nascita della Conferenza Episcopale Italiana e, quindi, la creazione di una pastorale in grado di uniformare – ulteriormente – le diverse espressioni del cattolicesimo italiano. Dopo l’incontro fiorentino, la costruzione di nuove chiese – in un’Italia impegnata a fronteggiare i danni provocati dal secondo conflitto mondiale – rappresentò il punto di partenza per l’istituzione di nuove parrocchie – soprattutto nel Mezzogiorno – e, quindi, per una presenza capillare della realtà ecclesiale sull’intero territorio italiano. In quel progetto anche la funzione del parroco assunse un inedito ruolo, facendosi non soltanto interprete delle esigenze cultuali della popolazione ma anche – e soprattutto – testimone delle istanze pastorali richieste dall’autorità episcopale.

Superata la contrapposizione politica tra nord e sud evidenziatasi a metà Novecento, anche il problema ecclesiale del Mezzogiorno – già analizzato nella lettera collettiva dell’episcopato del sud su I problemi del Mezzogiorno (1948) e nella Lettera dei Presidenti delle Conferenze Episcopali Regionali d’Italia (1954) – diventava problema comune alla Chiesa Italiana, per la quale documenti come Sviluppo nella solidarietà. Chiesa italiana e Mezzogiorno (1989) e Per un Paese solidale. Chiesa Italiana e Mezzogiorno (2010) hanno reso più visibile il volto nuovo assunto dalle diocesi italiane. Un processo che, attraverso la messa in atto di “missioni interne”, ha registrato non soltanto il protagonismo dell’associazionismo cattolico e dell’episcopato italiano, nell’affrontare nuove problematiche e nel sollecitare nuovi comportamenti, ma che ha ulteriormente sancito l’esistenza di una realtà ecclesiale unitaria, contraddistinta dai piani pastorali decennali come Evangelizzazione e Sacramenti (1973-1980), Comunione e Comunità (1981-1990), Evangelizzazione e testimonianza della carità (1991-2000), Comunicare il vangelo in un mondo che cambia (2001-2010), Educare alla vita buona del vangelo (2010-2020), e dai convegni ecclesiali nazionali su Evangelizzazione e promozione umana (Roma, 1976), Riconciliazione cristiana e comunità degli uomini (Loreto, 1985), Il Vangelo della carità per una nuova società in Italia (Palermo, 1995), Testimoni di Gesù risorto, speranza del mondo (Verona, 2006).

Fonti e Bibl. essenziale

P. Chenaux, Pio XII. Diplomatico e pastore, Edizioni San Paolo, Cinisello Balsamo 2004; G. Formigoni, L’Italia dei cattolici. Dal Risorgimento a oggi, Il Mulino, Bologna 2010; L. Gheza Fabbri, Solidarismo in Italia fra XIX e XX secolo. Le società di mutuo soccorso e le casse rurali, Giappichelli, Torino 2000; G. Sale, Dalla Monarchia alla Repubblica 1943-1946. Santa Sede, cattolici e referendum, Jaca Book, Milano 2003; F. Sportelli, La Conferenza Episcopale Italiana (1952-1972), Congedo Editore, Galatina 1994; F. Traniello, Religione cattolica e stato nazionale. Dal Risorgimento al secondo dopoguerra, Il Mulino, Bologna 2007. Fonti: Archivio dell’Istituto “Paolo VI” (Roma), Nota riservata sulla situazione del Mezzogiorno d’Italia, 1947, in Presidenza Generale: VI – Presidenza Veronesi (1946-1952), n. 92; Archivio dell’Istituto “Paolo VI” (Roma), Relazioni (sulle missioni religioso-sociali), 1947, in Presidenza Generale: VI – Presidenza Veronesi (1946-1952), n. 38.


LEMMARIO




Modernismo - vol. II


Autore: Maurilio Guasco

Nella storia della Chiesa il termine, utilizzato spesso anche in altre discipline, fa riferimento a un periodo storico che copre i decenni tra l’Ottocento e il Novecento, e indica un insieme di istanze soprattutto di carattere biblico e teologico che emersero nel mondo cattolico di fronte ai profondi cambiamenti che si stavano verificando in seguito agli sviluppi non solo del pensiero scientifico, ma anche in ambito umanistico, conseguenza di orientamenti culturali che avrebbero messo in causa proprio gli studi biblici, e di conseguenza anche quelli filosofici e teologici. In Italia si sarebbe parlato soprattutto di una forma di modernismo politico, senza che questo escludesse la presenza di quegli orientamenti che non furono solo, come spesso è stato detto, copie sbiadite di dottrine straniere, ma ebbero una loro originalità e forse uno sviluppo anche maggiore di quanto non stesse avvenendo in Francia, Inghilterra e Germania.

La pesante condanna comminata da Pio X nella enciclica Pascendi dominici gregis (8 settembre 1907) a tutti quei fermenti, e persone, avrebbe finito per condizionare per decenni gli studi teologici: questi in effetti giudicavano il modernismo a partire dall’enciclica di Pio X, che tra l’altro presentava un tentativo di dare una sistematizzazione a dottrine espresse dagli autori in modo frammentario e non sempre con la pretesa di offrire una dottrina ben strutturata.

Dopo lo studio pionieristico di Rivière (1929), negli anni Sessanta, soprattutto grazie alle ricerche di Pietro Scoppola ed Emile Poulat, il modernismo sarebbe diventato argomento per gli studi storici. Questo avrebbe permesso di uscire dai limiti di un’analisi esclusivamente teologica, nella scia della Pascendi, con l’evidente preoccupazione di presentare elenchi di errori in cui potevano essere incorsi gli studiosi del tempo. Poteva nascerne un altro rischio, che pure venne messo in risalto: che il ridurre lo studio della crisi modernista ad argomento puramente storico, portasse a dimenticare quelle problematiche dottrinali che pure erano presenti negli studi biblici e teologici di inizio Novecento

In quel periodo, gli studi ecclesiastici sono costretti a confrontarsi con le giovani scienze religiose, che si fondano su un principio rivoluzionario: l’applicazione del metodo storico-critico a testi considerati ispirati, e quindi non soggetti a quel tipo di analisi. Il dibattito avrebbe finito per coinvolgere le scienze bibliche e storiche, per le quali il maggiore esponente sarebbe stato il francese Alfred Loisy, quelle teologiche, soprattutto con l’inglese George Tyrrell, e quelle filosofiche, dove alla tradizionale dottrina tomista, imposta da Leone XIII a tutti i seminaristi, si contrapponeva le teorie immanentiste presentate nei suoi scritti dal francese Maurice Blondel. Anche le nuovi concezioni dello Stato e della democrazia venivano a conflitto con le teorie tradizionali della Chiesa cattolica.

Loisy aveva pubblicato nel 1902 un lavoro che, nelle intenzioni dell’autore, doveva essere una risposta alle teorie esposte da Adolf von Harnack sull’essenza del cristianesimo. Con L’Évangile et l’Église Loisy insisteva sul senso primario dell’annuncio da parte di Gesù Cristo dell’avvento del Regno. Un’insistenza però che finiva per mettere in causa la stessa divinità di Cristo e la sua intenzione di dare origine a una Chiesa. Il lavoro di Loisy sarebbe stato messo all’Indice, aprendo così il capitolo delle condanne che sarebbe durato in pratica fino alla Pascendi e nei tre anni successivi.

In Italia, il personaggio più noto e più erudito era Ernesto Buonaiuti, già alunno del seminario romano e compagno di studi di Angelo Roncalli. Anche Buonaiuti sarebbe stato accusato negli anni successivi di seguire le teorie di Loisy, errori compresi. Avrebbe esposto le sue teorie soprattutto in due opere pubblicate anonime, Il programma dei modernisti. Risposta all’enciclica di Pio X “Pascendi dominici gregis” (1907), e quindi nelle Lettere di un prete modernista (1908).

Certamente meno erudito e meno coinvolto negli studi biblico-teologici, ma anche più noto di altri causa il suo prevalente interesse di carattere politico, era Romolo Murri, fedele seguace, a differenza degli altri, di un rigido tomismo, ma molto attento a tutti i fermenti che si andavano diffondendo nei vari settori disciplinari, abile giornalista e conferenziere, e per questo anche più esposto ai richiami e alle condanne.

Molti altri personaggi avrebbero agito in Italia in quegli anni, spesso ai limiti dell’ortodossia, e ancora più spesso a rischio di condanna. Possiamo ricordare fra questi padre Giovanni Semeria e Umberto Fracassini, Francesco Mari, Giovanni Genocchi e Salvatore Minocchi.

Alcuni di loro, insieme con amici e maestri non italiani, avrebbero tentato di darsi un coordinamento, organizzando un convegno che avrebbe avuto luogo nel Trentino, a Molveno, senza esiti significativi. Anzi, la condanna da parte di Pio X sarebbe arrivata proprio nei giorni successivi al convegno di Molveno, una condanna senza possibilità di appello, presentata in pagine di rara durezza, e che avrebbe avuto come conseguenza una serie di richiami e scomuniche che avrebbero coinvolto anche persone che avevano dato un contributo del tutto positivo al progresso degli studi. In altri termini, si preferì rischiare di condannare degli innocenti, per essere certi di avere punito tutti i colpevoli.

Vi è un altro aspetto che in genere viene trascurato da chi studia il modernismo, ed è il contributo dato dagli autori, spesso sospetti, alla riflessone sulla ecclesiologia. A monte vi sono le pagine che molti di loro dedicano agli aspetti mistici della religione, alla preghiera liturgica, all’importanza della testimonianza cristiana per trasmettere il messaggio evangelico.   Il riferimento più significativo erano le opere di von Hügel dedicate agli aspetti mistici della religione, a partire soprattutto dagli scritti su Santa Caterina di Genova (The Mistical Elements of Religion as Studied in Sainte Catherine of Genoa and Her Friends, 1908), e la vita di San Francesco come veniva raccontata da uno dei maggiori studiosi di francescanesimo, Paul Sabatier. Non erano pochi, e primo fra tutti Tommaso Gallarati Scotti, che notavano i rischi che potevano derivare da un’eccessiva, anche se comprensibile, attenzione agli aspetti teologici, biblici e storici dei nuovi problemi che dovevano affrontare gli studiosi cattolici, trascurando gli aspetti fondamentali della vita interiore e dell’unione con Cristo. Ed era ancora Gallarati Scotti a ricordare “che un profondo rinnovamento della cultura cattolica non avrebbe potuto fare a meno di rivalutare il filone della tradizione mistica che la preferenza per lunghi anni data dal pensiero ufficiale alla teologia scolastica aveva finito con il lasciare nell’ombra”.

A differenza di altri però, per Gallarati Scotti tutto deve avvenire dentro, e non contro, la Chiesa istituzionale, operando in modo da contribuire a realizzarne il rinnovamento, ma senza rotture. D’altra parte, anche Romolo Murri, considerato allora uno dei principali esponenti della linea eterodossa del modernismo, rimane convinto della necessità di operare dentro la Chiesa, e la sua rottura avrà ragioni più di carattere disciplinare che dottrinale. L’elemento che gli verrà rimproverato sarà di insistere sulla autonomia del laicato in ambito politico, per cui non solo pensa di dare origine a un raggruppamento politico, prima La Democrazia cristiana poi la Lega democratica nazionale, ma sostiene anche, facendo riferimento al pensiero di san Tommaso, che il credente è tenuto ad obbedire all’autorità ecclesiastica solo quando questa interviene negli ambiti che le sono propri. Il papa Pio X era del tutto contrario a tale orientamento, dal momento che riteneva che l’autorità ecclesiastica fosse legittimata a dare il proprio parere vincolante in tutti quegli ambiti che riteneva funzionali all’annuncio del vangelo e alla salvezza delle anime.

La riflessione ecclesiologica appare anche più evidente in Gallarati Scotti e nei diversi autori de “Il Rinnovamento”, la rivista che tra il 1907 e il 1909 ha rappresentato quanto di meglio abbia saputo offrire il modernismo, anche quello italiano, con le sue aperture agli studi internazionali e la sua attenzione alle diverse religioni, oltre alle Chiese cristiane. Gli autori sono laici, non tutti cattolici dichiarati, e tra i maestri annoverano personaggi come Antonio Fogazzaro, che nel romanzo Il Santo (1905), ha presentato, anche se con il linguaggio del letterato, il nuovo ruolo che i laici potranno assumere nella Chiesa, e padre Gazzola, a lungo parroco a Milano, padre spirituale di molti dei rinnovatori, e poi esiliato a Livorno. Ma considerano un riferimento anche don Brizio Casciola, personaggio singolare che però presenta un modello di cristianesimo vissuto e di povertà francescana che provoca in tutti quelli che lo incontrano un forte sentimento religioso.

Altro personaggio singolare del panorama italiano è Antonietta Giacomelli, nipote di Antonio Rosmini, a sua volta accusata di tendenze moderniste, ma in effetti vera propria pioniera del movimento ecumenico e liturgico. Il rimprovero maggiore che le sarà rivolto sarà di avere tradotto in italiano le parti essenziali della liturgia eucaristica per offrire ai credenti la possibilità di pregare nella propria lingua e di essere coinvolti nelle celebrazioni liturgiche. Questo poi avrebbe reso possibile a tutti di ritrovare nella Parola di Dio e nella liturgia la sorgente primaria della loro fede e della loro devozione. Per questo avrebbe molto insistito sull’aspetto comunitario della celebrazione eucaristica.

Molti di questi aspetti sarebbero lentamente entrati nella riflessione della comunità dei credenti, mentre la morte di Pio X e lo scoppio della prima guerra mondiale avrebbero finito per modificare anche il clima culturale. Sarebbe stato il successore di Pio X, Benedetto XV, a cercare di ovviare lentamente a situazioni conflittuali che si erano prodotte fra i credenti. Possiamo dire che quel clima di sospetti e condanne sarebbe terminato (o forse neppure?), solo con il Concilio Vaticano II.

Fonti e Bibl. essenziale

AA.VV., Monseigneur Duchesne et son temps, Ecole française de Rome, Roma 1975; C. Arnold – G. Losito (edd), “Lamentabili sane exitu” (1907). Les documents préparatoires du Saint Office,  Libreria Editrice Vaticana, Roma 2011; C. Arnold – G. Losito (edd.), La censure d’Alfred Loisy (1903). Les documents des Congrégations de l’Index et du Saint Office, Libreria Editrice Vaticana, Roma 2009; L. Bedeschi, Il modernismo italiano. Voci e volti, San Paolo, Cinisello Balsamo 1995; A. Botti e R. Cerrato (ed.), Il modernismo tra cristianità e secolarizzazione, Quattro Venti, Urbino 2000; S. Casas (ed.), El modernismo a la vuelta de un siglo, Ediciones Universidad de Navarra, Pamplona 2008; D. Cesarini, Tra storia e mistica. Studi e documenti sul modernismo cattolico, Cittadella, Assisi 2008; P. Colin, L’audace et le soupçon. La crise moderniste dans le catholicisme français (1893-1914), DDB, Paris 1997; M. Guasco, Modernismo. I fatti, le idee, i personaggi, San Paolo, Cinisello Balsamo 1995; E. Poulat, Histoire, dogme et critique dans la crise moderniste, Albin Michel, Paris 1996; M. Ranchetti, Cultura e riforma religiosa nella storia del modernismo,Einaudi, Torino 1963; J. Rivière, Le modernisme dans l’Eglise. Etude d’histoire religieuse contemporaine, Paris 1929; P. Scoppola, Crisi modernista e rinnovamento cattolico in Italia, Il Mulino, Bologna 1961; L. Vaccaro e M. Vergottini (ed.), Modernismo. Un secolo dopo, Morcelliana, Brescia 2010; G. Verucci, L’eresia del Novecento. La Chiesa e la repressione del modernismo in Italia, Einaudi, Torino 2010; G. Vian, Il modernismo. La Chiesa cattolica in conflitto con la modernità, Carocci, Roma 2012 (con ampio aggiornamento bibliografico); A. Zambarbieri, Modernismo e modernisti. I – Il movimento. II – Semeria Buonaiuti Fogazzaro, Edizioni di Storia e Letteratura, Roma 2013, 2014. Da ricordare anche il Centro Studi per la storia del modernismo fondato dal Bedeschi e quindi i volumi di “Fonti e Documenti”, che hanno approfondito le realtà di Roma e di varie regioni dal nord al sud dell’Italia.


LEMMARIO




Modernità - vol. II


Autore: Francesco Bonini

Al momento dell’unificazione italiana le scelte essenziali in ordine al rapporto della Chiesa con la modernità, nel senso limitato e “continentale” che identifica ciò che viene dopo quello che per convenzione è stato appunto definito l’Antico Regime, erano già evidenti da oltre un decennio. Precisamente si erano consumate nel cruciale passaggio del 1848-’49, quando la storia aveva subito in tutta Europa e nei diversi stati italiani una repentina accelerazione. L’evento che può essere considerato emblematico era stata la missione a Roma di Antonio Rosmini, nella duplice veste di inviato del Regno di Sardegna e di candidato alla porpora cardinalizia.

Il fallimento della missione a Roma è radicale da entrambi i punti di vista e permette di cogliere un duplice, connesso ordine di problemi, destinato a pesare lungamente. In primo luogo la cosiddetta seconda restaurazione, in tutti gli stati della Penisola, a partire da quello della Chiesa, salvo il Regno di Sardegna, chiude la possibilità di una evoluzione costituzionale dell’intera Italia, sintonizzando anche il Papa, come sovrano temporale, con la modernità istituzionale. Nello stesso tempo e più in profondità la messa all’indice degli scritti di Rosmini sancisce la rinuncia a porre la questione della riforma della Chiesa, peraltro in termini compatibili con la tradizione e l’iniziativa del pontificato.

La mancata sintesi tra l’impegno per la riforma della Chiesa e quello per la modernizzazione del quadro politico istituzionale, pur declinato su entrambi i versanti in termini realistici e non ideologici, caratterizzerà uno spazio più che secolare. In effetti, mentre si rivela non realistica la riproposizione di forme di “ancien régime” la modernità pone in evidenza due ordini di questioni, sulla concezione della persona e dello stato, risolte con la condanna ribadita nell’enciclica Pascendi (1907), della modernità intesa come progresso, applicato alla Chiesa e in particolare dell’affermazione che «nulla deve essere di stabile, nulla di immutabile nella Chiesa», riprendendo il filo della condanna da parte di Pio IX di «questi nemici della divina rivelazione, che estollono con altissime lodi l’umano progresso, [e] vorrebbero, con temerario e sacrilego ardimento, introdurlo nella cattolica religione, quasi che la stessa religione fosse opera non di Dio ma degli uomini o un qualche ritrovato filosofico che con mezzi umani possa essere perfezionato».

Di fronte all’affermazione dell’autonomia dell’uomo la Chiesa non poteva che temere il disordine e, alla fine l’ateismo. Incapace di produrre una correzione equilibrata degli eccessi della modernità, a partire dalle sue stessi radici, che sono propriamente cristiane e cattoliche, essa si ritirò, per quanto concerne l’elaborazione culturale, in quello che Michael Paul Gallagher ha definito «un ghetto monologico, dove è rimasta al sicuro, ma insofferente, per generazioni, assente dalle frontiere della storia, scegliendo di giudicare negativamente la modernità dall’alto piuttosto che sforzarsi di capire il nuovo mondo che stava emergendo». Tuttavia questa ricostruzione deve essere completata dalla constatazione che nel mondo “moderno” del XIX secolo la Chiesa peraltro continuava a muoversi agevolmente, in particolare grazie all’azione pastorale del tessuto tradizionale delle parrocchie, e attraverso i nuovi ordini e congregazioni, che si cimentano proprio sulle frontiere della modernità, come l’educazione, e delle esigenze e povertà nuove ed antiche che dalla modernità emergono.

Infatti una delle peculiarità italiane è proprio la surroga in termini pratici di questa rottura, costantemente ribadita dai pronunciamenti ufficiali, che di fatto largamente ne depotenzia gli effetti pratici, tanto in ordine alla vita religiosa che alla partecipazione alla vita politica e sociale. I due connessi movimenti della realistica adesione alle forme di modernità ed alla persistente condanna degli esiti della stessa è emblematicamente rappresentata, proprio nel passaggio dell’unificazione, dalla fondazione dei salesiani di Don Bosco, ufficialmente Società di San Francesco di Sales, avvenuta a Torino nel 1854, nel vivo delle leggi di eversione degli ordini religiosi, ma in forme giuridicamente compatibili con lo stato secolarizzato, e dalla pubblicazione del Sillabo (1864) dei principali errori moderni, cioè «dell’età nostra» tra cui l’idea di separazione tra Chiesa e Stato. In quella organica silloge infatti si ribadisce la condanna di una modernità intesa come una concezione dello Stato e dell’uomo che alla Chiesa ed alla fede praticamente non voleva più concedere alcuno spazio. Il peso delle problematiche di secolarizzazione che hanno caratterizzato il seguito della Rivoluzione resterà infatti decisivo, fino almeno alla conclusione della seconda guerra mondiale, che per certi versi rappresenta, con l’affermazione dei totalitarismi, il compimento della parabola dello Stato “moderno” e delle contraddizioni che gli sono costantemente imputate da parte cattolica. Anche in una situazione di opposizione comunque la chiesa e il “movimento cattolico” utilizzano tutte le tecniche ed i mezzi della modernità, evitando di porsi in una situazione di pratica arretratezza culturale ed operativa ed anzi puntando decisamente sulla presenza nella vita sociale.

Il delicato passaggio che si compie negli anni a cavallo della seconda guerra mondiale è ben rappresentato da Jacques Maritain, la cui opera ha in Italia una vasta eco. Questa proposta in qualche modo ne rappresenta e sintetizza diverse altre, pur diversamente orientate, che si manifestano nel corso dei primi decenni del ventesimo secolo, come ad esempio quella di padre Agostino Gemelli. In pratica, con una sorta di efficace paradosso, che aggiorna il pratico arrangiamento del XIX secolo e lo rende capace da un lato di superare le obiezioni del magistero sulla modernità “protestante” e “rivoluzionaria”, dall’altro di esercitare un appeal anche nei confronti di un’opinione pubblica disorientata, si punta ad attribuire al cattolicesimo la libertà di essere insieme “antimoderno” e “ultramoderno”. Il cattolicesimo insomma resta antimoderno perché solidale con la tradizione travolta dalla modernità intesa come secolarizzazione, ma anche ultramoderno, perché pronto a cogliere i frammenti di verità dispersi lungo la traiettoria del moderno, aggiornato oltre le sue contraddizioni, emerse da ultimo proprio con la guerra e dunque suscettibile di essere ricondotto alle sue radici cristiane.

Attraverso l’emergere di un neo-medioevismo, che peraltro negava qualunque pratica prospettiva di un ritorno al Medioevo che tradizionalmente serpeggiava nella pubblicistica cattolica, è così possibile contribuire alla sintesi costituzionale del dopoguerra, e profilare anche la questione dell’”aggiornamento” ecclesiale. Il pontificato di Pio XII stimola l’apogeo di una moderna forma di aggregazione e di iniziativa, come l’Azione Cattolica. Resta infatti a caratterizzare in particolare la Chiesa italiana l’uso puntuale e appropriato di tutti gli strumenti della modernità, tra cui essenziali i mezzi di comunicazione, come si vede proprio nel cruciale passaggio dalla carta stampata alla radio ed alla televisione.

Si pongono così le premesse per tentare di superare questa dicotomia tra il pratico impegno e la posizione magisteriale: diventa inevitabile affrontare la questione di fondo, come avviene nel passaggio conciliare.

La Chiesa italiana e in concreto i vescovi e la stessa Azione Cattolica affrontano il Concilio con quel realismo e quell’adesione al papa che ne rappresentano un tratto caratterizzante, condividendo, sia pure con diversi accenti, l’impostazione per cui il Vaticano II rappresenti il tornante nel quale, innestandosi sulla riscoperta delle radici più antiche (aggiornamento e ressourcement furono le parole-chiave) sia possibile confrontarsi con gli interrogativi moderni con nuova serenità, così da maturare un atteggiamento ecclesiale più aperto ed ospitale verso lo spirito moderno, di cui peraltro si constata l’evoluzione interna, la “revisione interna”, rispetto alle asprezze ottocentesche, a partire dal campo delle scienze naturali.

L’innovazione maggiore dell’evento conciliare è rappresentata dal dibattito pubblico che si apre anche all’interno del mondo cattolico e della Chiesa italiana per la prima volta in termini espliciti e contrapposti.

Se i movimenti “progressisti”, per cui «il concilio rappresentava la “conversione” della Chiesa alla cultura moderna, pura e semplice, il rovesciamento agognato del Sillabo di Pio IX», hanno una certa visibilità, il caso italiano si caratterizza per l’assenza, proprio in ordine alle questioni essenziali della modernità, come quella relativa alla libertà religiosa, decise nel Concilio, di una significativa ed esplicita aggregazione tradizionalista. Prevale insomma la linea per cui, come ha sintetizzato Benedetto XVI all’inizio del suo pontificato «in questa apparente discontinuità la Chiesa ha invece mantenuto ed approfondito la sua intima natura e la sua vera identità».

Così, nel corso del decisivo pontificato di Paolo VI, si realizza una modernizzazione guidata, riconciliata appunto con una nuova idea di modernità in cui fosse compiutamente riconoscibile la presenza cristiana. Questa cornice scongiura l’acutizzarsi del conflitto intra-ecclesiale, grazie anche al riaffermato ancoraggio popolare e papale del cattolicesimo italiano. Il fatto poi che il cattolicesimo italiano sia caratterizzato da una forte attenzione politica, favorisce uno stemperamento del conflitto intorno ai temi ecclesiali, trasferito sugli esiti politici. E’ un processo che vale in particolare in relazione al marxismo, inteso come una sfida radicale oppure come una «verità parziale», ed alle vicende della democrazia cristiana, a proposito della questione della cosiddetta unità politica dei cattolici.

Il Concilio da un lato “chiude” o forse più esattamente “sistema” la questione della relazione con la modernità nei suoi indirizzi e nel magistero, dall’altro è il tempo della contestazione e della frammentazione. Tiene comunque, attraverso un progressivo aggiornamento, il tessuto “popolare” della fede, in un accentuato pluralismo di modelli e di soggetti, che permette di interloquire con una società sempre più articolata e in vario e complesso movimento, cui si comincia ad attribuire la definizione di “postmoderna”.

Questa dinamica che si manifesta con particolare evidenza in relazione con i processi di (ulteriore) secolarizzazione (secondo paradigmi radical), della fine degli anni Sessanta, a proposito di quelli che vengono definiti “ nuovi diritti”, fino ai temi della cosiddetta bio-politica, che chiamano in causa la “questione antropologica”.

La presa di coscienza che non è inevitabile una diluizione della presenza e dell’identità cristiana, avviene non senza fatica e tensioni anche intra-ecclesiali, tra gli anni Settanta ed i primi anni Ottanta e permette di superare il paradigma della dialettica conservatori/progressisti come chiave di lettura del postconcilio. Anzi, riprendendo proprio la prospettiva conciliare, appare possibile, superato il secolare conflitto sulla modernità, affermare una rinnovata iniziativa “in avanti”, tipica del carisma di Giovanni Paolo II. Insomma, come è affermato nell’iniziativa del “progetto culturale orientato in senso cristiano” di fronte ai cambiamenti in corso, l’atteggiamento non può essere una semplice chiusura, né un altrettanto semplicistico adeguamento, ma l’impegno a cercare di modificarli, orientarli e, in senso profondo, “convertirli”, operando con fiducia e realismo all’interno di essi.


LEMMARIO




Mondo Monica


 





Monetazione papale tra XV e XVI secolo. La Zecca di Roma - vol. I


Autore: Tomassoni Roberto

Dopo la morte di Paolo II il conclave elesse, il 9 agosto 1471, il cardinale Francesco Della Rovere che assunse il nome di Sisto IV (1471-1484). Secondo molti autori con questo papa la dignità principesca divenne addirittura preminente rispetto alla vocazione per la cura delle anime e per il bene della Chiesa. E la monetazione si rese da subito preziosa testimone di questo importante punto di svolta.

Al momento dell’ascesa al soglio petrino di Francesco della Rovere la Zecca di Roma si trovava in una casa nei pressi del Ponte Sant’Angelo, sulla piazzetta che precedeva il ponte alla fine della via dei Banchi Vecchi. Incaricato di incidere le monete presso la zecca romana era il celebre artista originario di Foligno Emiliano Orfini. È a partire da questo momento in effetti che l’arte si espresse pienamente nel campo dell’incisione monetale. Proprio all’Orfini dobbiamo il primo ritratto di un papa mai apparso su di una moneta. Nel gennaio 1483, infatti, venne emessa una provvisione di Zecca che prevedeva la coniazione di multipli di grossi (per l’illustrazione delle monete, tra le quali figura anche il grosso, si veda infra); di questi multipli è noto un doppio grosso del peso di 6,85 g per il quale l’Orfini ricevette l’incarico di apporre l’immagine del pontefice e lo fece con mirabile perizia. Per averne conferma basti raffrontare il ritratto sulla moneta con quello conservato presso i Musei Vaticani ed eseguito dal pittore Melozzo da Forlì nel 1477. Il ritratto di Sisto IV comparve anche sul grosso.

In questo torno di tempo, che potremmo per comodità fissare tra il 1475 e il 1476, la Zecca di Roma coniava monete d’oro, d’argento e in mistura (cioè con una lega contenente un’infima percentuale di argento essendo le monete costituite per lo più di rame).

La moneta aurea veniva battuta principalmente in due nominali: il ducato papale e il fiorino di camera. Entrambi venivano coniati con un fino di 24 carati, mentre il peso differiva leggermente: 3,5 g per il ducato, 3,39 g per il fiorino (considerata per l’epoca l’impossibilità di giungere ad una precisione assoluta tutti i pesi delle monete inseriti nel presente articolo sono da considerarsi puramente teorici).

Il circolante in argento era imperniato sul grosso papale del peso di 3,79 g con un fino di 927/1000 (durante il pontificato di Giulio II – Giuliano della Rovere, 1503-1513 – il grosso prenderà il nome di “giulio” in suo onore, mentre a partire da Paolo III – Alessandro Farnese, 1534-1549 – la moneta assumerà il nome di “paolo”). Venivano coniate, inoltre, altre due monete importanti: il bolognino papale del peso di 0,92 g con un fino di 812/1000, e il baiocco del peso di 0,57 g con il medesimo fino previsto per il bolognino.

I valori più bassi erano rappresentati dalla moneta in mistura costituita dal quattrino e dal picciolo (o denaro). Nel 1475 per il primo se ne previde l’emissione al peso di 1,17 g con un risibile contenuto argenteo di 71/1000; mentre il picciolo venne coniato al peso di 0,58 g quasi completamente in rame (con appena 19/1000 di argento).

Ogni moneta sin qui enunciata rientrava in un sistema di conto i cui rapporti di cambio, che potevano anche variare di frequente, venivano indicati periodicamente da bandi, detti gride. Nel periodo in questione avevamo i seguenti valori:

1 DUCATO PAPALE = 77 BAIOCCHI
1 FIORINO DI CAMERA = 75 BAIOCCHI
1 GROSSO PAPALE = 30 QUATTRINI O 7 ½ BAIOCCHI
1 BOLOGNINO PAPALE = 6 QUATTRINI
1 BAIOCCO = 4 QUATTRINI
1 QUATTRINO = 4 PICCIOLI

I valori delle monete dipendevano principalmente dal loro contenuto di fino (cioè dalla quantità di oro o argento presente in ciascuna moneta). Le monete più stabili, ovvero quelle che mantenevano costante ed elevato il loro contenuto in metallo, e che per questo tendevano a rivalutarsi, erano le monete d’oro, mentre le monete in mistura erano soggette a continui svilimenti, ovvero alla perdita progressiva della loro quantità di argento e di conseguenza del loro valore. Questa perdita di valore andava a tutto danno dei meno abbienti che vedevano diminuire sistematicamente la loro capacità di acquisto.

L’esaltazione della maestà regale del pontefice vide probabilmente la sua massima espressione durante i pontificati di Alessandro VI (Rodrigo Borgia, 1492-1503) e Giulio II (Giuliano della Rovere, 1503-1513). E ancora una volta la monetazione venne abilmente utilizzata quale specchio di tale magnificenza. Nuovamente comparve sulle monete il profilo del papa regnante; nell’anno del Giubileo 1500 venne coniato un grosso d’argento con al dritto lo stemma della famiglia Borgia sormontato dalle chiavi decussate e dalla tiara papale e al rovescio il ritratto di Alessandro VI (sulle monete papali di questo periodo lo stemma della famiglia del pontefice sormontato dalle chiavi e dalla tiara rappresenta un elemento iconografico pressoché costante).

Con questi due papi l’immagine del pontefice viene rappresentata anche sulle monete d’oro, in particolare su alcuni multipli del ducato e del fiorino di camera.

 

 

La moneta che qui si presenta mostra al dritto il profilo del papa volto a destra, mentre al rovescio compaiono i santi Pietro e Andrea alla pesca. Merita soltanto una breve annotazione il riferimento alla terra di origine di Giulio II (nativo di Albisola) espresso dalla parola LIGVR riportata sulla legenda del dritto.

Da un punto di vista monetario un’importante innovazione si verificò con il pontificato di Clemente VII (Giulio de’ Medici, 1523-1534). Nel 1533 la Zecca di Bologna emise, a nome del papa, lo scudo d’oro di lontana derivazione francese (più o meno contemporaneamente emise lo scudo d’oro a nome del papa anche la Zecca di Ancona). Quattro anni più tardi, nel 1537, anche la Zecca di Roma avviò la coniazione di scudi d’oro. Questa moneta aveva preso a circolare sul territorio italiano sin dai primi anni del 1500 causando alcuni inconvenienti di notevole rilevanza. La prima Zecca ad emettere lo scudo era stata quella di Genova seguita ben presto da molte altre. Il successo di questa moneta venne determinato da ragioni principalmente monetarie e speculative; lo scudo, infatti, era coniato al peso di circa 3,38 g con un fino di 22 carati, mentre la principale moneta d’oro circolante in Italia, il fiorino (o ducato a Venezia), circolava al peso di 3,5 g con un contenuto di metallo prezioso pari a 24 carati (purezza assoluta). In questa particolare circostanza il mercato dimostrò di saper cogliere l’opportunità che si presentava e i due carati di differenza, associati al peso leggermente inferiore, provocarono un’interessante fenomeno. Il valore nominale dello scudo d’oro (ossia il suo potere di acquisto) rimase molto vicino a quello del fiorino non risentendo in maniera determinante delle difformità appena menzionate. Tale situazione innescò il meccanismo che prende il nome di Legge di Gresham: i fiorini iniziarono a sparire rapidamente dalla circolazione per essere tesaurizzati o rifusi per ricavarne scudi. Della gravità della situazione si rese portavoce il cronista fiorentino Benedetto Varchi (1503-1565) che sotto l’anno 1533 scrisse: «E perché quasi per tutte le zecche della Cristianità s’era cominciato a lasciar di battere i fiorini d’oro e a battere scudi, i quali son d’oro manco fine che non è il fiorino [24 carati contro 22, ndr]…; di qui nasceva, che i fiorini che si battono nella zecca di Firenze, erano subitamente portati fuora della città o disfatti dall’altre zecche vicine, e battutone scudi con grande utilità di chi gli faceva battere, ma con grandissimo danno della città, la quale in questa maniera si votava d’oro» (Varchi 1858, Vol. III, pp. 44-45). Il meccanismo coinvolse progressivamente tutte le principali Zecche dell’Italia centro settentrionale che non poterono far altro che avviare la coniazione di scudi. Roma, come abbiamo visto, vi si adeguò nel 1537. La produzione dello scudo si affiancò a quella del fiorino di camera la cui coniazione terminò durante il pontificato di Gregorio XIII (Ugo Boncompagni, 1572-1585).

I pontefici di questo periodo, a partire da Clemente VII, poterono avvalersi dell’opera di un artista d’eccezione: Benvenuto Cellini (1500-1571). Già intorno al 1530 il papa commissionò al celebre orafo una moneta che è lo stesso artista a descriverci nel dettaglio: «…mi commise il papa una moneta di valore di dua carlini, inella quale era il ritratto della testa di sua santità, e da rovescio un christo in sul mare, il quale porgeva la mana a San Piero, con lectere intorno che dicevano: quare dubitasti?» (Bacci, 1901, p. 99). In seguito Cellini ebbe modo di prestare i suoi servigi anche presso la corte di Paolo III per il quale disegnò la stampa di uno scudo d’oro. Ancora una volta possiamo leggere dall’autore la descrizione della sua opera. Dalle parole del Cellini è possibile comprendere quanto elevata fosse l’opinione che l’artista aveva del proprio talento: «Cominciai a fare le stampe degli scudi inelle quali io feci un mezo sanpagolo, con un motto di lectere che diceva: vas electionis. Questa moneta piacque molto più che quelle di quelli che havevan fatto a mia concorrenza. Di modo che il papa disse che altri non gli parlassi più di monete, perché voleva che io fussi quello che le facessi e no altri» (Bacci, 1901, pp. 143-144).

Per concludere, non risulterà superfluo accennare brevemente al valore che veniva assegnato alle monete forestiere circolanti all’interno dello Stato Ecclesiastico. Da questo punto di vista un importante bando venne emesso durante il pontificato di Paolo III, l’11 maggio 1542. Nella provvisione si evidenziava che «essendo moltiplicata la trista moneta nell’alma città di Roma e per tutto il Stato Ecclesiastico, anzi tutta Italia, … la Santità di N. S. Paolo per la divina providenza papa III, considerando quanto importi all’interesse publico ed all’honore di S. Santità, che nel Stato suo corra buona moneta, ci ha commesso che dobbiamo remediare opportunamente a tal disordine, e dare la valuta conveniente alle monete forestiere et l’altre che corrano in Roma, et che dobbiamo far battere buone monete». In altre parole all’interno di Roma e più in generale dello Stato Ecclesiastico (ma la situazione non differiva di molto rispetto ad altri stati italiani come il Granducato di Toscana o la Repubblica di Venezia) circolavano monete il cui valore nominale (potere di acquisto) risultava spesso superiore rispetto al loro reale valore intrinseco (contenuto di metallo prezioso presente in ciascuna moneta). Per ovviare a questo stato di cose le autorità romane cercarono da un lato di definire, con maggior chiarezza, il valore da assegnare alle valute straniere e, contestualmente, ribadirono i criteri di coniazione delle monete interne. Non mancarono casi per i quali vennero assunte decisioni alquanto drastiche: «Le monete di Siena e di Lucca d’argento, & Bajocchi & Quatrini di Fano siano banditi, & non si possano spendere, sotto pena di cento scudi”. In ogni caso, prudenzialmente, si decise che qualunque “moneta battuta fuori di Roma di qual si voglia parte, non si possa spendere…se prima non è vista & aprobata per la Camera Apostolica sotto pena di falso, & di perdere la moneta».

Fonti e Bibl. Essenziale

R. Aubenas – R. Ricard, L’assolutismo violento e tracotante di Sisto IV, in La Chiesa e il Rinascimento (1449-1517), Torino 1963, pp. 102-124; O. Bacci, Vita di Benvenuto Cellini, Firenze 1901; G.R. Carli, Delle monete e dell’instituzione delle zecche d’Italia, Aja 1754; CNI = Corpus Nummorum Italicorum. Primo tentativo di un catalogo generale delle monete medioevali e moderne coniate in Italia o da Italiani in altri paesi, XV, Parte I (dal 496 al 1572), Roma 1934; G. Garampi, Saggi di osservazioni sul valore delle antiche monete pontificie, Roma 1766; E. Martinori, La moneta. Vocabolario generale, Roma 1915; E. Martinori, Clemente VII, Annali della zecca di Roma, Roma 1917; E. Martinori, Sisto IV – Innocenzo VIII, Annali della zecca di Roma, Roma 1918; E. Martinori, Alessandro VI – Pio III – Giulio II, Annali della zecca di Roma, Roma 1918; F. Muntoni, Le monete dei papi e degli stati pontifici, Vol. 1, Roma 1996; M. Pellegrini, Il papato nel Rinascimento, Bologna 2010; A. Saccocci, Aspetti artistici della monetazione italiana del Rinascimento, in G. Gorini, R. Parise Labadessa, A. Saccocci, A testa o croce. Immagini d’arte nelle monete e nelle medaglie del Rinascimento. Catalogo della mostra, Padova 1991, pp. 11-65; C. Serafini, Le monete e le bolle plumbee pontificie del medagliere Vaticano, Vol. I, Milano 1910; B. Varchi, Storia fiorentina, Vol. III, Firenze 1858.

Immagini

Fig. 1 – Doppio grosso (g 7,05), Sisto IV (1471-1484), zecca di Roma. Ex asta NAC, Auction 90, Lotto 528. Scala 2:1
Fig. 2 – Doppio fiorino di camera (g 6,67), Giulio II (1503-1513), zecca di Roma. Ex asta Artemide, Auction XLIX, Lotto 556. Scala 2:1

LEMMARIO