Associazione Italiana dei Professori di Storia della Chiesa

Dizionario Storico Tematico La Chiesa in Italia
Dalle origini all'Unità Nazionale
Roma 2015
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Monti di Pietà - vol. I


Autore: Maria Giuseppina Muzzarelli

La proposta da parte dei Minori Osservanti di creare un Monte di Pietà, istituzione che è giunta fino a noi, e la successiva concretizzazione di essa ebbe luogo nelle città dell’Italia centrale e settentrionale a partire dagli anni Sessanta del XV secolo.

La necessità alla quale il Monte intendeva dare risposta era quella di credito a basso tasso di interesse o comunque a condizioni tali da consentire a quanti si collocavano al limite della sopravvivenza personale e famigliare di far fronte a urgenze senza peggiorare ulteriormente la loro situazione. Non si voleva offrire elemosina ma credito a persone povere ma non poverissime in grado di dare in pegno un oggetto, anche di modesto valore, a garanzia della restituzione e che si immaginava potessero risollevarsi dallo stato di bisogno in quanto capaci di lavorare. Il tenue tasso di interesse richiesto a questo genere di cliente cittadino caratterizzava l’azione del Monte diversificandola dalle usuali forme di beneficenza ma anche da quella dei banchi privati di prestito.

Se nelle città basso medievali erano attive da tempo varie forme di assistenza per i derelitti, per quanti invece necessitavano di piccolo credito non esisteva, almeno ufficialmente, alternativa al banco privato. Dalla seconda metà del XIII secolo in molti piccoli e grandi centri urbani funzionavano uno o più banchi di prestito gestiti da ebrei regolarmente “condotti”. La “condotta” era l’autorizzazione ufficiale ad aprire un banco a condizioni concordate con le autorità cittadine. Tali condizioni prevedevano un tasso di interesse fra il 20 e il 30%, la definizione dei termini per la restituzione e il rispetto delle consuetudini ebraiche in fatto di giorni di festa e di regole alimentari. Le condotte fissavano dunque le condizioni della convivenza cristiano-ebraica a partire dalla necessità del servizio di prestito offerto dai banchieri. Il tasso richiesto era elevato ma di mercato e comunque concordato con i governanti. Il servizio reso dai banchieri ebrei era agile e soddisfacente ma non alla portata di tutti. Di qui la necessità di rispondere alle esigenze di quanti, pur poveri, non lo erano in misura tale da dover essere soccorsi con l’elemosina e, pur necessitando di credito e non di beneficenza, rischiavano la rovina se accedevano ai banchi ebraici di prestito. Il ricorso a questi ultimi, va ricordato, era stata un’ importante e coraggiosa ideazione del basso Medioevo per affrontare i problemi creditizi. Funzionò per secoli ma non risolse tutti i problemi.

È pur vero che i banchieri ebrei, se richiesti in tal senso, avrebbero potuto erogare, accanto al credito concesso a condizioni di mercato e comunque nelle forme stabilite nelle condotte, un altro tipo di credito più di genere assistenziale differenziando così i loro servizi. Il fatto è che accanto alla necessità di trovare una soluzione alle concrete necessità dei meno abbienti c’era anche un altro problema da affrontare, quello del monopolio ebraico del prestito ad interesse o perlomeno di quello ufficiale e soprattutto del prestito su pegno di piccolo e medio calibro.

Al tempo della fondazione dei primi Monti di pietà nelle città operavano da secoli i mercanti-cambiatori che oltre a convertire le diverse monete compivano anticipazioni di denaro ma si trattava di operazioni di notevole entità e perlopiù di prestiti di impresa. Grandi banchi, come quello dei Medici a Firenze, prestavano comunemente ma non piccole somme dietro presentazione di un modesto pegno. Questo segmento del mercato era di fatto nelle mani dei banchieri ebrei liberi dalle restrizioni che la morale cristiana poneva alle attività di prestito. In realtà tutti o quasi coloro che avevano un po’ di denaro risulta che lo prestassero e non gratuitamente nè ufficialmente, fatto che non calmierava certo il costo del denaro.

La delega agli ebrei derivava dal fatto che la Chiesa aveva dubbi circa la legittimità dell’attività di prestito che, se ad interesse, era definita usuraria, qualunque fosse il tasso richiesto. Davanti alle evidenti necessità dei singoli e della collettività, la Chiesa cercò di proporre modelli di comportamento economico capaci di coniugare le esigenze economiche con i principi etici. Ciò portò all’elaborazione di titoli di legittima restituzione maggiorata che valevano ad esempio in caso di “danno emergente” o di “lucro cessante”, ma di fronte al piccolo credito di consumo la Chiesa assunse un atteggiamento di tolleranza nei riguardi dei servizi offerti dagli ebrei fino a quando, prendendo spunto proprio dalla operatività dei banchieri privati e nella consapevolezza della necessità di un servizio creditizio diverso dall’assistenza ai più poveri, maturò in ambiente francescano l’idea dei Monti. Questi ultimi esprimevano il tentativo di cercare una via che consentisse alla società cristiana di risolvere il problema senza ricorrere a chi le era estraneo e che nel contempo sperimentasse una forma di realizzazione del bene comune sostenendo nelle loro necessità i “poveri meno poveri”. Si intendeva con quest’ultima formula l’insieme di coloro che potevano essere sottratti all’elemosina e, se attivati, erano in grado produrre ricchezza a vantaggio loro, delle loro famiglie e della città.

I Minori Osservanti proposero dunque nelle piazze un istituto pubblico di prestito che prendeva spunto per la sua operatività dai banchi privati introducendo alcune varianti e soprattutto offrendo una risposta cristiana alle necessità di quei poveri ma non poverissimi che erano in grado di presentare un pegno che valesse almeno un terzo di più della somma presa in prestito. Fu così che efficaci predicatori quattrocenteschi, da Giacomo della Marca a Bernardino da Feltre (quest’ultimo negli ultimi decenni del XV secolo si specializzò nella creazione di Monti Pii) cominciarono a diffondere l’idea di raccogliere denaro dai cittadini e dalle autorità per creare un cumulo di risorse, un monte appunto, da impiegare per soddisfare la diffusa richiesta di piccolo credito. Il periodo accordato per la restituzione era di circa un anno, passato il quale se la somma non veniva restituita il pegno sarebbe stato venduto all’asta. Le regole di funzionamento erano scritte negli Statuti analoghi di città in città ma anche un po’ diversi per aderire ai singoli contesti.

A segnare la differenza con il prestito dei banchieri privati era in primo luogo il tasso di interesse che nel caso dei Monti ammontava al 5% annuo ma più di un Monte, almeno nel periodo delle origini, non esigeva alcun interesse nel nome del principio evangelico “Mutuum date nihil inde sperantes” (Luca 6,35). Un’altra differenza era costituita dalla predeterminazione della tipologia di clienti da parte del Monte, diversamente dai banchieri privati che non indagavano qualità sociale e origine del cliente e meno che mai si occupavano dell’uso del denaro concesso. Mentre i banchi privati offrivano un servizio impiegando il denaro dei banchieri o di quanti avevano deciso di investire nel banco in vista di un guadagno, i Monti si prefiggevano uno scopo solidaristico, anche se nel campo del credito, lontana dalla logica del profitto. Per questa ragione non potevano né volevano soddisfare qualsiasi richiesta di prestito e operavano utilizzando denaro assegnato, donato o depositato al Monte proprio con l’intesa che tramite esso si svolgesse una funzione sociale.

Il primo Monte di pietà fu fondato a Perugia nel 1462 ma l’idea circolava già da un po’ di tempo. Sappiamo che nel 1458 fu proposta ad Ascoli Piceno, contestualmente alla soppressione dei banchi ebraici, un’istituzione che aveva il nome di Monte di pietà ma aveva caratteristiche un po’ diverse dai veri e propri Monti, in quanto si occupava di raccogliere elemosine da distribuire fra i poveri della città. Prima ancora, nel 1428, si era denominata Monte di Pietà un’istituzione benefica in favore dei poveri di Arcevia. Da tempo poi si indicava con la formula Monte Comune l’insieme del denaro raccolto tramite prestiti forzosi da alcune città che utilizzarono questo mezzo per affrontare spese straordinarie o comunque ingenti che richiedevano il concorso dei cittadini più abbienti che ricevevano un interesse su quanto prestato.

Dopo il Monte di Perugia sorsero numerosi analoghi istituti in Umbria ed in altre aree dell’Italia centro-settentrionale. A Bologna si fondò un Monte nel 1473 ma dopo un breve periodo di funzionamento chiuse i battenti per riaprirli una trentina d’anni dopo: nel frattempo continuarono a operare i prestatori ebrei con evidente soddisfazione cittadina. In alcune città la fondazione di un Monte portò alla rinuncia ai servizi ebraici, in altre no. Quello che i Monti resero chiaro era che la società cristiana era in grado di rispondere cristianamente alle necessità di credito dei “pauperes pinguiores” come al tempo si definirono i clienti dei Monti.

I Monti fecero discutere, divisero, suscitarono accesi dibattiti soprattutto per quanto riguardava la richiesta di interesse, ma dalla seconda decade del XVI secolo divenne generalizzata e condivisa la richiesta di un interesse-rimborso delle spese che doveva servire a pagare l’affitto dei luoghi in cui operava il Monte e i salari dei funzionari. Questi ultimi dovevano essere competenti e disponibili a giorni e orari determinati e dunque andavano compensati.

Se nel 1515 si contavano 135 Monti, nel 1562 erano già più di duecento perlopiù dislocati nell’Italia centro-settentrionale. Il primo Monte del sud fu fondato a L’aquila nel 1460, seguirono quelli di Sulmona, Pescocostanzo, Lecce rispettivamente nel 1471, 1517 e 1520 mentre il Monte di Napoli sorse nel 1539. Nel Mezzogiorno il maggior numero di fondazioni ad opera di privati o di confraternite ha avuto luogo nel trentennio 1591-1620. Per oltre un secolo si è continuato a fondare Monti e questi ultimi hanno progressivamente ampliato l’area delle loro azioni e competenze. Nel corso del Cinquecento infatti divennero tesorerie cittadine assumendo il profilo di una vera e propria banca che riceveva depositi e li remunerava meritando la definizione impiegata per il Monte di Bologna di “thesoro” della città.

Con il Concilio di Trento i Monti passarono dalla tutela civile a quella ecclesiastica prevalendo nella considerazione di essi i caratteri caritativi ma la loro tarsformazione in opere pie, soggette a periodiche ispezioni vescovili, non modificò la sostanza dell’attività dei Monti. Essi continuarono a rappresentare una risorsa significativa per quanti necessitavano di piccolo credito ma fu alquanto importante anche la funzione rivestirono nella raccolta del risparmio da incanalare verso usi sociali. Ciò fece di questi istituti un puntello delle piccolissime imprese spesso domestiche e anche femminili nonché uno strumento di sostegno allo sviluppo del territorio.

La maggiore complessità delle operazioni svolte dai Monti fra Sei e Settecento produsse la trasformazione dei Monti che, pur svolgendo un’importante funzione sociale, erano autentici istituti creditizi sempre più importanti che si posizionavano al centro della vita economica cittadina. Fra Sette e Ottocento erano più di 700 i Monti che operavano in Italia Si trattava di istituti analoghi eppure parzialmente diversi l’uno dall’altro come peraltro anche i Monti delle origini. La diversità dei modelli organizzativi-funzionali dipendeva infatti dalla eterogeneità dei contesti politici, sociali ed economici. In molti casi si registrarono ricorsi impropri alle risorse del Monte da parte di abbienti e di membri del patriziato locale che intravidero nel Monte un luogo di potere, dove dunque conveniva essere presenti, e una risorsa da sfruttare. L’intuizione felice dei Minori Osservanti riscuoteva ancora in pieno Settecento il plauso di chi, come Ludovico Antonio Muratori (Della carità cristiana in quanto essa è amore del prossimo, 1720, in G. Falco, F. Forti, edd., Opere di L.A. Muratori, Milano-Napoli, Ricciardi 1964, 413-18) si augurava che questi istituti penetrassero in tutte le province e che quelli “deboli e smilzi che paiono piuttosto desideri di Monti che Monti effettivi” riuscissero a fortificarsi. Sta di fatto che ancora nel Settecento i Monti continuavano a diffondersi in Italia mentre fuori d’Italia solo nel XVII secolo ne risultano fondati nei Paesi Bassi e nel XVIII in Spagna. Nel corso del XVIII secolo, mentre si preparavano ad evolvere per divenire Casse di Risparmio, con l’arrivo delle truppe napoleoniche in Italia i Monti subirono devastanti spoliazioni in quanto ritenuti “casse pubbliche” i cui beni potevano essere confiscati a titolo di preda bellica, salvo la restituzione gratuita dei pegni più modesti.

Intacchi e frequenti ruberie indebolirono regolarmente nel corso dei secoli l’azione dei Monti, ciò in quanto l’accumulo di beni e di denaro pubblico ispirava malversazioni e furti. Avvedutamente i fondatori vollero per i Monti sedi in posizione centrale e possibilmente vicine alle prigioni o comunque in luoghi difendibili. I beni del Monte erano di tutti e quindi di nessuno e perciò facevano gola a molti. La posizione scelta per la sede del Monte e le forme della sede stessa, che caratteristicamente era tanto più grande e accogliente quanto più era in crisi l’economia del luogo, sono in grado di dire molto sulla attribuzione di importanza all’istituto sia alle origini sia nel corso dei secoli. La elevata considerazione è attestata dalla intitolazione al Monte della via o della piazza adiacente all’istituto: ciò ha segnato indelebilmente la topografia cittadina rivelando il forte nesso della città con l’istituto posizionato perlopiù in posizione centrale ma con accesso da una via secondaria per rispetto della dignità del cliente. Un’avvertenza, quest’ultima, che si è avuta fin dagli esordi dei servizi in un Medioevo più attento di quanto non si pensi alle necessità non solo economiche delle persone.

L’emanazione della legge 753 del 3 agosto 1862 inseriva i Monti fra le Opere Pie, definizione che non corrispondeva perfettamente alla loro natura e operatività, e provvedimenti successivi ostacolarono la continuazione dell’attività creditizia dei Monti. Sul finire del secolo ottennero un ampliamento delle loro attività al settore creditizio pur restando sotto doppia tutela come istituti di credito e come istituti di beneficenza. Negli anni che seguirono alcuni Monti cessarono l’attività mentre altri si rafforzarono ed in proseguo si fusero con altri istituti di credito fino a veder scomparire il loro nome. Ormai erano le Casse di Risparmio a svolgere funzioni finanziarie e insieme sociali. Le Casse di Risparmio, create per raccogliere il piccolo risparmio e sostenere con prestiti iniziative individuali ma anche azioni benefiche, nacquero in Italia negli anni Venti dell’Ottocento (la prima è stata fondata a Venezia nel 1822), in ritardo rispetto alla Germania, alla Francia o alla Gran Bretagna. L’iniziativa fu in alcuni casi dei Comuni, in altri dei privati ma anche dei Monti stessi dai quali derivarono il modello d’azione ed ai quali furono in alcuni casi associate. Oggi è riconosciuto il ruolo propedeutico alle Casse svolto dai Monti.

In Italia nel 1880 si contavano 183 Casse di Risparmio che, come gli antichi Monti, sollecitavano a depositare e utilizzavano il denaro raccolto per sostenere piccole e piccolissime imprese locali. E’ caratteristico il forte legame con il territorio che già aveva tipizzato l’azione dei Monti. Per legge le Casse di Risparmio sono state equiparate alle altre banche e molte Casse sono state indotte a fondersi con la Cassa del capoluogo. Nel 1990 la legge Amato ha modificato il sistema e obbligato a separare la Azienda Bancaria (perché le Casse erano anche vere e proprie banche) dalla Fondazione Cassa di Risparmio che era la parte con finalità morali e benefiche.

All’inizio del ’900 in molte città, a Bologna ma anche a Roma, a Torino e a Padova si è aperta la Banca del Monte che rappresentava lo stesso programma di Bernardino da Feltre (1439-1494), attivissimo sostenitore dei Monti Pii alla fine del Medioevo, e cioè prestare a un interesse modesto ma tale da assicurare il mantenimento delle risorse necessarie per continuare a operare. Nel 1923 i Monti si divisero in due categorie a seconda delle funzioni prevalenti: creditizie o di prestito su pegno. Dunque gli antichi Monti di pietà hanno continuato a funzionare e benché considerati istituti pii hanno svolto ininterrottamente attività creditizia sotto la vigilanza ministeriale. Sottoposti alle norme delle Casse di Risparmio hanno assicurato funzioni di credito (aprendo più sportelli) e continuato l’attività di prestito su pegno. A Bologna, ad esempio, tale attività persiste ed è svolta nella antica sede vicino alla cattedrale, molto centrale ma con ingresso secondario dalla via denominata Via del Monte. Gli istituti che hanno continuato e continuano ad accogliere pegni si sono nel tempo specializzati soprattutto in preziosi (per un periodo è stata intensa l’offerta in pegno di pellicce). Oggi sono ancora numerose le persone che fanno ricorso al prestito per superare momentanee difficoltà ma anche per scambiare con denaro oggetti non desiderati che possono avere altrove un mercato. Gli oggetti hanno avuto ed hanno una parte importante nella storia dei Monti come si ricava anche dalle numerose testimonianze letterarie e quelle iconografiche là dove, ad esempio, il cliente tipo del Monte è rappresentato da una donna che, con un fagotto sotto il braccio, varca la soglia del Monte con dignità.

Oggi sono le Fondazioni, che nel nome si richiamano agli antichi istituti, (ad esempio Fondazione del Monte di Bologna e Ravenna) a perseguire le finalità di solidarietà sociale: contribuiscono alla salvaguardia ed allo sviluppo del patrimonio artistico e culturale, al sostegno della ricerca scientifica ed allo sviluppo delle comunità locali attraverso la definizione di propri programmi e progetti di intervento da realizzare direttamente o con la collaborazione di altri soggetti pubblici o privati.

Oggi, a cinquecento anni dalla loro fondazione, i Monti continuano ad avere clienti e mercato svolgendo una funzione riconosciuta. Soprattutto però va riconosciuto a questi istituti il ruolo di battistrada, anzi di ideatori di una sfida, quella di tenere insieme denaro e salvezza, di garantire cioè un professionale servizio creditizio che fosse però rispettoso delle condizioni di bisogno del cliente. Di quest’ultimo interessava il destino ed importava che non fosse rovinato dal credito ma che anzi, grazie ad esso, potesse superare il bisogno e, se possibile, migliorare la sua condizione. Un’idea ancora moderna come sono eterne le utopie ma anche le idee giuste.

Fonti e Bibl. essenziale

G. Garrani, Il carattere bancario e l’evoluzione strutturale dei primigeni Monti di pietà, Milano 1957; S. Majarelli – U. Nicolini, Il Monte dei Poveri di Perugia. Periodo delle origini (1462-1474), Perugia 1962; V. Meneghin, Bernardino da Feltre e i Monti di pietà, Vicenza 1974; V. Meneghin, I Monti di pietà in Italia: dal 1462 al 1562, Vicenza 1986; D. Montanari, a cura di, Monti di pietà e presenza ebraica in Italia (secoli XV-XVIII), Roma 1999 (Quaderni di Cheiron, 10); M.G. Muzzarelli, Il denaro e la salvezza. L’invenzione del Monte di pietà, Bologna 2001; M. Carboni – M.G. Muzzarelli – V. Zamagni, a cura di, Sacri recinti del credito. Sedi e storie dei Monti in Emilia-Romagna, Venezia 2005. Su singoli Monti si possono vedere indicativamente alcuni recenti studi: C. Bresnahan Menning, The Monte di pietà of Florence. Charity and State in late renaissance Italy, Ithaca and London 1993; G. Silvano, A beneficio dei poveri. Il Monte di Pietà di Padova tra pubblico e privato, Bologna, 2005; E. Fraccaroli, Fra pubblico bene e privata utilità. Il Monte di pietà di Milano dagli ordini del 1635 all’età napoleonica, Bologna 2008. Per una bibliografia aggiornata vedere il sito del Centro studi sui Monti di pietà e sul credito solidaristico: www.fondazionedelmonte.it


LEMMARIO




Morale - vol. I


Autore: Sabatino Majorano

Una corretta comprensione dello sviluppo storico della morale cristiana esige che si abbiano presenti fattori diversi: la concretezza del vissuto quotidiano della comunità cristiana e il costante richiamo alla sua evangelicità, da parte soprattutto del Magistero; la specificità del suo argomentare e dei suoi contenuti, radicati nella fede, e la necessaria incarnazione nella realtà socio-culturale; la consapevolezza di dover testimoniare una verità di vita che le è stata affidata e l’urgenza di rendere comprensibile e possibile tale novità nella concretezza delle situazioni; l’idealità dei modelli proposti e la consapevolezza della fragilità propria delle persone. Tutto questo non può non creare delle tensioni, in ricerca costante di un equilibrio costruttivo.

Le istanze evangeliche nella praticità latina. L’apertura al mondo ellenistico è la prima sfida che la nascente comunità cristiana deve affrontare, non tanto a livello di annunzio kerigmatico quanto per le conseguenze pratiche. Paolo la vive come una specifica missione, difendendo con forza la libertà dei nuovi battezzati nei confronti della Legge giudaica (cf. Gal 2). L’assemblea di Gerusalemme, per dare una risposta alle tensioni sorte all’interno della comunità, sancisce che «non si debbano importunare quelli che dalle nazioni si convertono a Dio» (At 15,19).

Gli scritti dei Padri Apostolici testimoniano il cammino difficile di questa libertà: accanto a proposte decisamente cristocentriche, come le lettere di Ignazio di Antiochia, troviamo visioni in cui è forte il riferimento vetero-testamentario, come la Didachè o il Pastore di Erma. Nel mondo più propriamente romano, la proposta morale evangelica si confronta con la praticità etica e giuridica che lo caratterizza. Significativo è il fatto che categorie giuridiche, come “equità della legge” e “presunzione”, diventano ben presto fondamentali nella formulazione e soprattutto nell’applicazione delle norme morali. In maniera particolare sarà più forte che nell’Oriente la preoccupazione per la precisazione del valore oggettivo degli atti.

Il criterio fondamentale, che guida questa incarnazione, è quello del porsi come lievito: non contrapporsi alla prassi vigente, ma, permeandola di Vangelo, ridarle un significato nuovo. Significativa è la graduale evoluzione della morale familiare, che, senza negare la centralità della patria potestas, la rimodella come patria pietas alla luce dell’esperienza della paternità di Dio. Parimenti i rapporti sociali vengono gradualmente influenzati dal rifiuto evangelico della forza, come chiave risolutrice, e dall’attenzione fattiva per le categorie più deboli. La lealtà con cui si partecipa al bene comune della società e ci si rapporta all’autorità, si accompagna alla consapevolezza di sentirsi «come stranieri e pellegrini» in cammino verso la patria definitiva (1Pt 2,11). La visione evangelica del prossimo, non determinata da appartenenze razziali o sociali, dà nuovo impulso alla prospettiva universalistica presente nella cultura romana. Netto è il rifiuto per tutte le forme di sacralizzazione del potere e di stratificazione sociale discriminante. Soprattutto, continuando nel solco già tracciato dalla riflessione filosofica, è chiara l’affermazione della priorità del bene sulla stessa autorità.

Il martire, visto come colui che, per la forza dello Spirito, riesce a continuare la vittoria pasquale del Cristo sul potere del male, costituisce il modello ispiratore di tutta la prassi cristiana. A questo modello si aggiunge ben presto anche quello della vergine. Nei primi due secoli, fin quando la comunità cristiana è minoranza e spesso minoranza perseguitata, nella proposta morale predomina un senso apologetico, che modella la vita come motivo di credibilità per il Vangelo. Le dispute intorno al comportamento da mantenere nei riguardi dei lapsi e il rigore della disciplina penitenziale ne sono una testimonianza chiara.

Il successivo affermarsi come minoranza determinante, fino alla identificazione con le strutture dell’Impero, porta la comunità cristiana a una crescente assunzione di responsabilità sociali, di cui è testimonianza la graduale legittimazione del servizio militare. Nella vita concreta si attenua la prospettiva apologetica e diventano dominanti le esigenze dell’incarnazione. L’esemplarità della coerenza evangelica è affidata a un nuovo modello, quello del monaco che lascia la città per dedicarsi totalmente al “servizio” di Dio. Il De officiis di S. Ambrogio (350-397) è l’opera che meglio testimonia il dialogo con la cultura etica del tempo: assume, come punti di riferimento strutturali e argomentativi, quelli del De officiis di Cicerone, ma li apre e li fonda in prospettiva evangelica.

A partire dal quinto-sesto secolo, la nuova realtà, determinata dalla crisi dell’impero e dalle grandi trasmigrazioni dei popoli germanico-slavi, pongono la comunità cristiana dinanzi a urgenze complesse, a livello sociale e di evangelizzazione. Il crollo delle strutture imperiali chiede di assumere compiti di supplenza sempre più forti, soprattutto nei riguardi delle categorie più deboli. Allo stesso tempo, diventa indispensabile un impegno rinnovato di evangelizzazione e di inculturazione. A livello morale, la sfida maggiore è il superamento della riaffermazione della forza come elemento decisivo del vivere sociale, presente nella cultura germanica. Parimenti importante è la riproposta evangelica del corretto rapporto tra autorità e bene. S. Gregorio Magno (540-604), particolarmente con i Moralia in Job e il Liber regulae pastoralis, costituisce l’anello di congiunzione tra il periodo patristico e quello monastico-medioevale. Nella proposta morale, Gregorio si preoccupa principalmente della concretezza pratica della vita cristiana, cercandone nella Scrittura i criteri (precetti, consigli, esempi). Inoltre, pur nella fondamentale visione unitaria, Gregorio sottolinea la distinzione tra vita attiva (fattivamente impegnata nel servizio misericordioso del prossimo) e vita contemplativa (dedicata unicamente al “servizio” del Signore).

L’affermarsi dell’oggettività. Dall’incontro del mondo romano con quello germanico-slavo si delinea, a partire dal sesto secolo, una realtà culturale nuova, che trova nella fede l’elemento unificante. Ne risulterà una visione unitaria della realtà, che caratterizzerà tutto il periodo medioevale, con una crescente identificazione tra norme giuridiche e norme etiche, ma anche con dispute e conflitti tra potere spirituale e potere civile. Il simbolismo, non solo linguistico, e la categoria filosofica dell’analogia permetteranno di esprimere la continuità e insieme la differenza tra soprannaturale e naturale.

Nella pedagogia morale prevalgono il riferimento all’autorità e il controllo sociale. Il valore dell’agire morale è dato dall’oggetto dell’atto, più che dall’intenzionalità. L’affermarsi della penitenza privata e reiterabile, con la determinazione “quantitativa” di opere penitenziali per i singoli peccati (penitenza “tariffata”), rinforza questa oggettivazione della vita morale. Il crescente distacco dalla spiritualità orientale, che si consuma alla fine del primo millennio, contribuisce a rendere più forte questo processo.

Accanto ai pastori, un ruolo sempre più decisivo per la formazione morale è svolto dai monaci. Nella realtà italiana, è soprattutto il modello benedettino (ora et labora), non mancano però influssi del monachesimo orientale, soprattutto in alcune regioni. Particolare risalto è dato alla lectio divina, che ha come oggetto prima di tutto la Scrittura e poi gli scritti dei Padri. È fatta normalmente a voce alta (lectio aperta). A questa segue la lectio tacita (l’approfondimento personale) e la condivisione (collactio) soprattutto con l’Abate. I monaci vengono visti come modello di vita cristiana. La loro fuga mundi, per una fedeltà più piena al Vangelo, diventa ben presto custodia e promozione di civiltà. Il Rinnovamento Carolingio dell’ottavo-novo secolo ne è una espressione particolarmente significativa. La proposta di vita cristiana è centrata sulla conversio, che fonde insieme spiritualità e morale.

Nella vita concreta del popolo, le prospettive propriamente evangeliche convivono con quelle culturali, senza però raggiungere sempre una sintesi valida. L’enfatizzazione della forza e perfino della violenza e la rigidità della stratificazione sociale ne sono le espressioni più evidenti. Ma lo sono anche una diffusa superstizione, il ricorso al magico e la difficoltà a distinguere tra peccato e peccatore (la “teologia delle Crociate”).

La sintesi scolastica. Il XII e il XIII secolo sono momenti di particolare importanza per la teologia in genere e per quella morale in particolare. Il rinnovamento, che trova la sintesi più felice nella proposta di Tommaso di Aquino (1224/1225-1274), ha fattori e radici diverse: la vivacità economica, sociale e artistica dei Comuni; la riorganizzazione delle scuole monastiche e l’affermazione delle Scholae urbanae e poi delle prime Università; i fermenti dell’Umanesimo e la riscoperta del pensiero aristotelico. La teologia scolastica, a differenza di quella monastica di taglio prevalentemente esperienziale (scientia experimentalis), ha un’impostazione più sistematica e teorica. Il suo sviluppo riceve accentuazioni e sfumature diverse, anche per quanto riguarda la parte morale: più volontaristiche nella scuola francescana, più cognitivistiche in quella domenicana.

La metodologia è prevalentemente deduttiva: attingendo i principi dal patrimonio comune di fede e di cultura, ne illustra le conseguenze, ricorrendo soprattutto allo strumento dialettico del sillogismo e servendosi ampiamente dell’analogia. La morale è parte integrante di un discorso teologico unitario ed è centrata nella “legge naturale”, intesa come espressione delle relazioni che necessariamente si danno tra le “essenze” o “nature” secondo il progetto creaturale di Dio (aeternus rerum ordo). Nella Summa Theologiae di S. Tommaso, la morale, vista fondamentalmente come “ritorno a Dio”, viene sviluppata nella Pars Secunda, dopo che nella Pars Prima è stato presentato il “venire da Dio” di tutta la realtà e prima che nella Pars Tertia venga considerata la “via” costituita da Cristo e dai sacramenti. Nella sintesi tommasiana, la intentio finis è vista come fattore formale della bontà morale, mentre l’oggetto dell’atto (insieme alle circostanze) ne costituisce le fonte materiale. Si realizza così una sintesi dei due elementi, dopo il confronto serrato tra S. Bernardo (1090-1153), difensore della centralità tradizionale dell’oggetto, e Abelardo (1079-1142) che, in sintonia con le istanze umanistiche, enfatizza l’intenzionalità fino a quasi vanificare l’oggetto.

Nei secoli successivi le istanze dell’umanesimo prima e del rinascimento poi determinano uno sviluppo della proposta morale in una prospettiva più positiva verso la realtà e più incarnata in essa. Non mancano però tensioni da parte di movimenti desiderosi di una chiesa e una prassi cristiana meno compromessa e più coerente con la radicalità evangelica. S. Francesco di Assisi (1182-1226) è retto da queste istanze, che però apre alla spiritualità gioiosa e cosmica del Cantico delle Creature. Nella vita quotidiana del popolo, pur tra aperture a una visione più serena dell’impegno etico, resta predominante un senso drammatico della vita, dovuto anche alle forti discriminazioni socio-economiche. Il mistero della croce, accompagnato dalla sofferenza materna dell’Addolorata, è il punto di riferimento privilegiato. Il timore della dannazione eterna è tra gli elementi che maggiormente spingono a una effettiva conversione. La mentalità mercantile influisce anche su quella etico-religiosa determinando una visione che risente di un individualismo preoccupato di “accumulare” meriti.

Una nuova metodologia. Tra il Quattro e il Cinquecento, l’orizzonte socio-religioso cambia in maniera profonda: l’affermazione dei grandi stati dinastico-nazionali segna il tramonto della universalità socio-politica del Sacro Romano Impero; la scoperta del Nuovo Mondo apre a una considerazione più ampia dello “umano”, sganciandolo progressivamente dalla identificazione con il “cristiano”; la crisi protestantica del Cinquecento segna la rottura dell’unità religiosa dell’Europa. Si tratta di fenomeni storici che portano a spostare verso l’Atlantico l’asse di interesse internazionale, con un ruolo crescente dei paesi del Nord Europa. La molteplicità di stati, in cui è suddiviso, accentua la debolezza e la vulnerabilità del nostro paese dinanzi ai progetti espansionistici delle grandi Dinastie.

La visione etico-religiosa del popolo italiano resta fedele alla tradizione cattolica, anche se non mancano alcune significative eccezioni, come i Valdesi. Le istanze di rinnovamento, con cui il Concilio di Trento (1543-1563) cerca di rispondere alla crisi della Riforma protestantica, determinano anche il cammino della teologia morale. La chiarificazione dottrinale (cf. particolarmente le affermazioni relative alla giustificazione, al rapporto tra fede e opere, al sacramento della penitenza e alle sue parti) porta a ribadire e rendere più chiare le prospettive “unitarie” della prassi e della proposta morale. Nella riqualificazione evangelica e pastorale del clero, viene sottolineata la preparazione per il ministero della confessione e il suo ruolo nella formazione delle coscienze. Il rinnovato slancio di evangelizzazione si concretizza in un impegno più convinto nella predicazione popolare.

Nell’annuncio morale, che riceve ampio spazio in tutta la pastorale, vengono accentuati: la conversione individuale (“salva la tua anima”); i novissimi presentati con una accentuazione del timore per scuotere dal peccato e mantenere nel cammino del bene; i sacramenti visti soprattutto come aiuto e fonte di merito (sottolineatura dello ex opere operato e preoccupazione prevalente sulla validità). Quanto ai contenuti, si insiste in maniera particolare sui doveri religiosi del Decalogo e dei Precetti della Chiesa e su quelli familiari (vita affettivo-sessuale, responsabilità educative dei genitori). Le problematiche della giustizia vengono sviluppate in prospettiva prevalentemente commutativa e interpersonale.

Le affermazioni tridentine sulla necessità della confessione dettagliata dei peccati (numero, specie e circostanze che ne mutano la specie) spingono la teologia morale a concentrarsi sulla determinazione oggettiva dei singoli atti-peccato alla luce delle possibili circostanze che possono accentuarne o sminuirne la gravità (“casi morali”). I “corsi dei casi”, pensati per la pratica della confessione e destinati ai sacerdoti meno dotati per la teologia speculativa, spingono all’elaborazione delle Institutiones theologiae moralis o Manuales theologiae moralis, che, sulla scia delle Summae confessariorum quanto ai contenuti e attingendo dalla Summa tommasiana gli elementi più pratici della morale generale, cercano di determinare dettagliatamente il valore morale oggettivo degli atti.

La teologia morale acquisisce una propria autonomia metodologica, che privilegia le istanze filosofiche della legge naturale (per la determinazione dell’imperativo morale) e quelle giuridiche (per la sua attuazione pratica da parte delle coscienza). Sullo sfondo c’è una visione di Dio come fonte e vindice dell’Ordo moralis. Il bene morale viene rinchiuso nei parametri del “precetto/obbligo”, perdendo l’essenziale rapporto con lo spirituale. È la teologia morale casistica che, se va apprezzata per la concretezza delle risposte e il coraggio con cui scende nella realtà, si mostrerà ben presto lacunosa sul piano teologico ed etico-antropologico.

La pedagogia morale del Sei-Settecento mira a “quietare” le coscienze mediante la proposta del valore oggettivo dei singoli atti, sulla base della loro “natura” e ricorrendo all’aiuto delle auctoritates canoniche, magisteriali e teologiche. Assegna perciò un ruolo preponderante al “giudizio” autoritativo sulla presenza o meno di un obbligo nella concreta situazione. Il riferimento al confessore o al direttore spirituale diventa centrale, con la conseguente priorità attribuita all’ubbidienza. La sottolineatura del bene morale come espressione del precetto/obbligo porta alla contrapposizione con la libertà, ridotta al solo libero arbitrio: la coscienza diventa un “tribunale”, in cui si confrontano la legge, portatrice dell’oggettività morale, e la libertà espressione della soggettività della persona. Nei casi in cui questo giudizio non è chiaro, la certezza pratica viene raggiunta attraverso i “sistemi morali”. Questi, senza dare una risposta alla moralità oggettività dell’atto (veritas rei), assicurano la certezza della correttezza morale dell’azione (honestas actionis), ricorrendo a principi di carattere generale, attinti prevalentemente dal diritto romano (praesumptio, equitas…).

La diversità dei sistemi, determinata dalla divergenza dei punti di partenza (priorità della libertà o della legge) e delle sensibilità antropologiche (prevalenza delle prospettive ottimistiche o pessimistiche nella lettura della concretezza storica dell’uomo) e pastorali (prospettive più elitistiche, in forza delle esigenze della purezza evangelica, o più popolari, attente alla guarigione della “fragilità” storica della persona), portano a dibattiti e confronti interminabili, che finiscono con il chiudere la teologia morale su stessa, rendendo più problematico il dialogo con la sensibilità morale che la modernità comincia a sviluppare.

Nel contesto italiano, l’equilibrio tra gli opposti sistemi è frutto soprattutto dell’opera di S. Alfonso de Liguori (1696-1787). Partendo dall’ascolto della “fragilità” del popolo più umile, egli riesce a proporre «una sintesi equilibrata e convincente tra le esigenze della legge di Dio, scolpita nei nostri cuori, rivelata pienamente da Cristo e interpretata autorevolmente dalla Chiesa, e i dinamismi della coscienza e della libertà dell’uomo, che proprio nell’adesione alla verità e al bene permettono la maturazione e la realizzazione della persona» (Benedetto XVI, OR 31 marzo 2011, 8).

Il difficile dialogo con le istanze della modernità. Tra la fine del Settecento e i primi decenni dell’Ottocento, la sintesi alfonsiana si diffonde non solo in Italia, ma anche nell’intera Europa, contribuendo al superamento del rigorismo sul piano morale e pastorale. Tra i protagonisti di questa diffusione troviamo i gruppi delle Amicizie cristiane, sorte a Torino tra il 1778 e il 1780 e ben presto irradiatesi negli altri paesi europei. Importante è anche l’opera molteplice di Pio Bruno Lanteri (1759-1830), soprattutto per il rinnovamento morale e pastorale del clero attraverso il “Convitto ecclesiastico” di Torino (da lui fondato nel 1817 insieme a Luigi Guala, 1775-1848), fucina di Santi, come Giuseppe Cafasso (1811-1860) e Giovanni Bosco (1815-1888), che avrebbero segnato il cammino della Chiesa in tutto l’Ottocento.

La vita concreta del popolo, soprattutto più semplice, attinge risorse e criteri soprattutto dalla pietà popolare, con le sue devozioni, feste, riti. È una pietà che cerca di rispondere ai bisogni della vita quotidiana, accentuando il potere taumaturgico della Vergine Maria e dei Santi. Le radici evangeliche non riescono sempre a evitare il contagio con credenze e prassi tradizionali dal sapore superstizioso. A causa anche della qualità del clero, la dimensione formativa delle coscienze non riceve sempre risposte adeguate, finendo con il legittimare prassi eticamente non corrette. Soprattutto nel Sud, il sentimento e la sua espressione festiva diventano predominanti. La purificazione della pietà popolare costituisce una preoccupazione prioritaria a livello pastorale, anche se non sempre gli interventi appaiono realisticamente illuminati. Decisa è la critica di Ludovico Antonio Muratori (1672-1750), in vista anche di un’apertura alle istanze illuministe che cominciano a diffondersi nel nostro paese. Più costruttivo è l’approccio alfonsiano mediante la riqualificazione della predicazione popolare e la diffusione, tra il popolo, dell’orazione mentale e della frequenza dei sacramenti.

Il dialogo con le istanze etiche della modernità (centralità della coscienza individuale, diritti umani, autonomia delle realtà politiche, visione dinamica del denaro e dei processi economici) incontra ostacoli notevoli. Non mancano pensatori, come Antonio Rosmini (1797-1855), che se ne fanno attivi e critici promotori. Resta però predominante un senso di sospetto e di difesa, a causa dei presupposti ideologici di molti protagonisti dell’Illuminismo (razionalismo chiuso alla rivelazione, immanentismo materialista, critica radicale di ogni forma di autorità). Nell’Ottocento, si aggiungono le tensioni riguardanti gli Stati Pontifici, nell’insieme del processo di riunificazione italiana, generando veri conflitti di coscienza.

Questi fattori determinano uno stile morale di taglio prevalentemente conservativo: più che affrontare alla radice le problematiche della giustizia sociale, si cerca di porre rimedio alle sue conseguenze attraverso il moltiplicarsi delle risposte caritativo-assistenziali. È un atteggiamento che si vede confermato dal clima di restaurazione determinato dal Congresso di Vienna (1814-1815). La separazione etica tra privato e pubblico porta a una accentuazione, a volte di sapore puritano, delle problematiche effettivo-sessuali e familiari. La famiglia e i suoi valori tradizionali costituiscono il punto di riferimento e l’asse portante della mentalità morale, con a volte delle radicalizzazioni non in sintonia con il dato evangelico (come la legittimazione del delitto di onore).

Sulla privatizzazione della morale incidono anche alcune tendenze presenti nel Romanticismo del primo Ottocento. Ben presto però si fa più forte l’influsso della mentalità capitalistica, con la crescente industrializzazione soprattutto in alcune regioni del Nord, anche se essa, nel nostro paese, non raggiunge le radicalizzazioni di altri paesi europei. Non va però dimenticata l’apertura all’impegno verso i più deboli, che contrassegna la prassi quotidiana, anche grazie all’opera infaticabile di istituti religiosi, maschili e femminili, dediti all’assistenza o all’educazione della gioventù, che nell’Ottocento nascono o conoscono una nuova fioritura. Parimenti importante è la proiezione missionaria, che gradatamente si va affermando, aprendo la mentalità morale sul mondo intero.

Fonti e Bibl. essenziale

AA.VV., Storia della teologia, I-IV, Piemme, Casale Monferrato, 1993-2001; G. Angelini, Teologia morale fondamentale. Tradizione, Scrittura e teoria, Glossa, Milano 1999; D. Capone, S. Tommaso e S. Alfonso in teologia morale, Asprenas 21 (1974), 439-473; R. Gerardi, Storia della morale. Interpretazioni teologiche dell’esperienza cristiana. Periodi e correnti, autori e opere, EDB, Bologna 2003; S. Pinckaers, Le fonti della morale cristiana. Metodo, contenuti, storia, Ares, Milano 1992; A. Prosperi, Eresie e devozioni. La religione italiana in età moderna, Edizioni di storia e Letteratura, Roma 2010; L. Vereecke, Storia della teologia morale, in F. Compagnoni – G. Piana – S. Privitera (edd.), San Paolo, Cinisello Balsamo 1990, 1314-1338; M. Vidal, Historia de la Teología Moral, vol. II-IV, Editorial Perpetuo Socorro, Madrid 2010-2012; P. Zovatto (ed.), Storia della spiritualità italiana, Città Nuova, Roma 2002; C. Zuccaro, Teologia morale fondamentale, Queriniana, Brescia 2013, 51-84.


LEMMARIO




Morale - vol. II


Autore: Sabatino Majorano

Nell’Italia post-unitaria, il vissuto e la proposta morale della comunità cristiana appaiono retti da una duplice preoccupazione: rispondere costruttivamente alle istanze di una realtà sociale e culturale in rapida evoluzione e restare fedele al particolare rapporto che la lega al Successore di Pietro, che riceve nuovo impulso dalla definizione dell’infallibilità da parte del Vaticano I (1870). È una sintesi complessa con momenti di tensione e sfumature diverse nelle varie realtà regionali. È possibile evidenziarne alcune coordinate più significative.

Una complessa eredità. Il processo di unificazione del paese, per le modalità in cui si era svolto e per le tensioni presenti all’interno della stessa comunità cristiana che lo avevano accompagnato, lascia una difficile eredità di riconciliazione e di pacificazione. A pesare non è solo l’annessione degli Stati Pontifici, ma anche le scelte di politica religiosa del governo (come la confisca dei beni degli istituti religiosi e i limiti alle attività formative e assistenziali). La “questione romana” e il condizionamento dell’anticlericalismo massonico, da una parte, e, dall’altra, gli atteggiamenti di chiusura di fronte alla nuova realtà (Non expedit di Pio IX), rendono problematica la presenza costruttiva dei credenti a livello politico nazionale, pur conservando un protagonismo significativo a livello amministrativo locale. Il superamento di questo stato di cose richiederà decenni di lavoro, sarà facilitato dallo sforzo unitario, vissuto nel corso dalla Prima Guerra Mondiale, e sarà sancito dal Concordato e dai Patti Lateranensi del 1929.

Per quanto riguarda la proposta morale, occorre ricordare che, dai primi decenni dell’Ottocento, era in corso nel nostro paese un graduale processo di unificazione, grazie all’affermazione della benignità pastorale di S. Alfonso, riconosciuto dottore della Chiesa nel 1871. Il rinnovamento catechistico, sfociato nella pubblicazione del Catechismo di S. Pio X (1912), e la progressiva creazione di seminari regionali sotto la guida diretta della Santa Sede, favoriscono l’ulteriore unificazione. Resta però difficile il rapporto con le istanze della modernità, come emerge dalla crisi del Modernismo (cf. Sillabo di Pio IX del 1864 e decreto Lamentabili del S. Uffizio del 1907).

L’esclusione della teologia dai curriculum universitari statali porta ad attribuire un’importanza maggiore alle Università Pontificie di Roma per la specializzazione del clero del nostro paese e contribuisce a dare una impronta di romanità più marcata al pensiero teologico e alla pastorale italiana. Nel campo morale, ci si preoccupa prevalentemente di aggiornare i contenuti pratici, senza mettere in discussione il metodo casistico, come invece avviene in altri paesi europei tra la fine dell’Ottocento e i primi anni del Novecento. Va però segnalata la partecipazione convinta al rinnovamento tomista, stimolato da Leone XIII (Aeterni Patris, 1879).

Una nuova corresponsabilità per il sociale. La Rerum Novarum di Leone XIII (1881) trova un’accoglienza non sempre entusiasta tra i cattolici italiani. Però le resistenze cedono ben presto il passo a una condivisione più convinta, determinando la ricerca di una rinnovata presenza nel sociale: Opera dei Congressi e dei Comitati Cattolici in Italia negli ultimi decenni dell’Ottocento; Settimane Sociali, promosse per la prima volta da Giuseppe Toniolo nel 1909; fondazione del Partito Popolare ad opera di Luigi Sturzo nel 1919.

Questa apertura al sociale, si inserisce nell’affermarsi progressivo di una più chiara coscienza della corresponsabilità dei laici in tutta la vita ecclesiale. Pio XI fa della promozione dell’Azione Cattolica uno dei cardini del suo programma rinnovatore e nel 1923 ne riordina la struttura e ne approva gli statuti.

Per la proposta morale, questo significa una graduale apertura a un metodo non più rigidamente deduttivo dai principi (il giudizio della coscienza come “sillogismo pratico”), ma aperto all’ascolto e al discernimento della realtà (“vedere, valutare, agire”). La laicità, intesa come presenza nel sociale coerente con i valori cristiani e, al tempo stesso, rispettosa della specificità e dell’autonomia dei diversi campi e discipline, determina maggiormente i modelli di vita cristiana. Gradatamente anche il rapporto con le scienze positive acquista toni e prospettive più costruttive.

L’ascesa al potere del fascismo negli anni Venti è fonte di nuove difficoltà e tensioni nella chiesa italiana: l’iniziale atteggiamento di sostegno critico, giustificato dalla difesa della tradizione etica e dalla ricerca del dialogo con la stessa chiesa (Concordato e Patti Lateranensi del 1929), si trasforma in rifiuto e condanna per le derive violente, totalitarie e razziali. Dalle rovine della Seconda Guerra Mondiale e dall’esperienza della Resistenza emerge un nuovo slancio del laicato cattolico, che sfocia nella fondazione della Democrazia Cristiana, in conflitto ma anche in rapporto di concreta cooperazione con le forze politiche di ispirazione diversa.

Gli anni Cinquanta-Sessanta sono quelli della ricostruzione e del primo boom economico, che incide sugli stili di vita aprendoli verso il consumismo. Sono anche gli anni in cui si fanno più forti i processi di secolarizzazione, fino all’approvazione della legge sul divorzio (1970) e sull’aborto (1978). Il fallimento dei referendum abrogativi (rispettivamente 1973 e 1981) e le tensioni, che li accompagnano, fanno emergere gravi difficoltà per individuare, nel metodo e nei contenuti, le modalità di una presenza efficace nel pluralismo crescente della società.

Il rinnovamento conciliare. Come per gli altri campi, anche per la proposta morale, il Concilio Vaticano II (1963-1965) segna una svolta importante. Nonostante i fermenti di rinnovamento dei decenni precedenti, la teologia morale presente nei testi preparatori è quella casistica, sia nel metodo sia nei contenuti. Le riserve, evidenziate nel corso dei lavori conciliari, sono diverse: carenza di fondazione e articolazione propriamente teologica, polarizzazione eccessiva sui dati normativi e distacco dalla spiritualità, inadeguata considerazione delle dimensioni comunitario-sociali.

Il rinnovamento richiesto dal Concilio è profondo. Per coglierlo in maniera corretta occorre aver presente l’insieme dei testi conciliari, partendo dalle quattro Costituzioni: Sacrosanctum Concilium (la priorità della grazia e il fondamento sacramentale), Lumen Gentium (la dimensione comunitaria e la chiamata universale alla santità), Dei Verbum (il radicamento nella Parola), Gaudium et spes (il dialogo con mondo contemporaneo). In maniera più specifica, il Concilio chiede una «speciale cura nel perfezionare la teologia morale, in modo che la sua esposizione scientifica, più nutrita della dottrina della sacra Scrittura, illustri la grandezza della vocazione dei fedeli in Cristo e il loro obbligo di apportare frutto nella carità per la vita del mondo» (OT 16). A questo fine, la Gaudium et spes indica una metodologia che parte dall’ascolto della realtà e coglie in essa, attraverso un discernimento radicato nel Vangelo e aperto al contributo dell’esperienza e delle scienze, il bene da fare. È possibile così superare le impostazioni individualistiche dell’etica (cf. n. 30), riconoscendo la competenza, propria anche se non esclusiva, dei laici nel campo sociale e professionale (cf. n. 43).

La ricezione dei dati conciliari nel nostro paese non avviene senza difficoltà e tensioni, anche a causa della loro ricaduta nel campo socio-politico. Sullo sfondo è possibile cogliere la tensione tra un’ermeneutica della continuità o della riforma e un’ermeneutica della discontinuità o rottura. Non mancano momenti di particolare acutezza di queste tensioni, come la crisi dell’Azione Cattolica e delle ACLI, il dibattito sul pluralismo nelle scelte politiche, il rapporto tra coscienza e magistero in seguito alla promulgazione dell’enciclica Humanae vitae (1968), le questioni poste dai referendum sul divorzio e sull’aborto. Nel suo insieme però il postconcilio nel nostro paese è vissuto in maniera meno problematica che in altri.

Per meglio promuovere il rinnovamento della teologia morale, nel 1966 viene fondata l’Associazione Italiana dei Teologi Moralisti, divenuta poi Associazione Teologica Italiana per lo Studio della Morale (ATISM). Ripercorrendo il susseguirsi dei suoi Congressi e scorrendo le pagine della Rivista di Teologia Morale (fondata nel 1969 dalle Edizioni Dehoniane di Bologna in collaborazione con la stessa associazione) è possibile avere un quadro dell’evoluzione della teologia morale: dall’iniziale impegno per la ristrutturazione teologica e cristologica, si passa a una maggiore preoccupazione per il dialogo con le scienze e per un argomentare significativo in una società divenuta pluralista, con un interesse crescente per le problematiche sociali e bioetiche.

Negli ultimi decenni, la prassi e la proposta morale della comunità cristiana nel nostro paese sono influenzate in maniera crescente dai movimenti ecclesiali. La varietà dei percorsi formativi da essi proposti determina non solo un’articolazione maggiore della dinamica della comunità cristiana, ma anche una diversità di stili di vita, che costituisce una ricchezza, purché sorretta dal riconoscimento reciproco e da sincera comunione ecclesiale.

Per un impegno condiviso di testimonianza. L’evolversi sempre più rapido del nostro paese, in simbiosi con il contesto europeo e mondiale, dominato in maniera crescente dai processi di globalizzazione, pone problematiche morali sempre nuove. Diventa prioritario il discernimento, comunitario e personale. Occorre però riconoscere che tale discernimento non è sempre all’altezza della complessità e della urgenza delle situazioni, come è avvenuto, ad esempio, per la crisi morale che ha investito la politica a partire dagli anni Ottanta/Novanta.

Il rinnovamento della catechesi, iniziato nella seconda metà degli anni Sessanta e concretizzato nella pubblicazione prima del Documento base (1070) e poi, tra il 1973 e il 1982, dei volumi destinati alle diverse fasce di età, tende a suscitare un impegno formativo globale: «Educare al pensiero di Cristo, a vedere la storia come lui, a giudicare la vita come lui, a scegliere e ad amare come lui, a sperare come insegna lui, a vivere in lui la comunione con il Padre e lo Spirito Santo. In una parola, nutrire e guidare la mentalità di fede: questa è la missione fondamentale di chi fa catechesi si a nome della Chiesa» (RdC, 38). Questa scelta di fondo è alla base anche della redazione definitiva dei Catechismi (1995-1997), che la integra con le indicazioni, soprattutto contenutistiche, del Catechismo della Chiesa Cattolica (1992).

Attraverso una programmazione su base decennale, la CEI cerca di promuovere un impegno unitario su alcuni obiettivi, decisivi anche per il rinnovamento morale: fare che la pratica sacramentale, a volte solo in forza di tradizione familiare o sociale, diventi effettivo cammino di fede (Evangelizzazione e sacramenti, per gli anni Settanta); essere promotori di incontro e di riconciliazione (Comunione e comunità, per gli anni Ottanta, segnati dalla violenza terroristica); un impegno rinnovato di carità nei diversi settori della vita (Evangelizzazione e testimonianza della carità negli anni Novanta); la necessità di comprendere e vivere evangelicamente i cambiamenti sociali (Comunicare il Vangelo in un mondo che cambia per il primo decennio del Duemila). Questo cammino sfocia nella scelta per l’educazione per questo secondo decennio (Educare alla vita buona del Vangelo).

Fonti e Bibl. essenziale

AA.VV., Le scienze teologiche in Italia a cinquant’anni dal Concilio Vaticano II. Storia, impostazioni metodologiche, prospettive, ElleDiCi, Leumann 2011; G. Angelini, Teologia morale fondamentale. Tradizione, Scrittura e teoria, Glossa, Milano 1999; D. Capone, La teologia morale in Italia oggi, in Studia Moralia 18 (1980), 5-32; R. Gerardi, Storia della morale. Interpretazioni teologiche dell’esperienza cristiana. Periodi e correnti, autori e opere, EDB, Bologna 2003; L. Lorenzetti, La morale nella storia. Una nuova voce nei quarant’anni della “Rivista di teologia morale” (1969-2009), EDB, Bologna 2009; B. Petrà, Teologia morale, in G. Canobbio – P. Coda (edd.), La teologia del XX secolo. Un bilancio, 3. Prospettive pratiche, Città nuova, Roma 2003, 97-193; A. Prosperi, Eresie e devozioni. La religione italiana in età moderna, Edizioni di storia e Letteratura, Roma 2010; A. Rovello, La morale e i movimenti ecclesiali, EDB, Bologna, 2013; L. Vereecke, Storia della teologia morale, in F. Compagnoni – G. Piana – S. Privitera (edd.), San Paolo, Cinisello Balsamo 1990, 1314-1338; M. Vidal, Nuova morale fondamentale. La dimora teologica dell’etica, EDB, Bologna 2004; P. Zovatto (ed.), Storia della spiritualità italiana, Città Nuova, Roma 2002.


LEMMARIO




Morandini Simone


 





Movimenti ecclesiali - vol. II


Autore: Angelo Manfredi

Nel 1981 la nota pastorale Criteri di ecclesialità dei gruppi, movimenti, associazioni della Commissione episcopale per l’apostolato dei laici tentava una “definizione”: “il movimento è in genere così caratterizzato: alcune ‘idee-forza’ e uno ‘spirito comune’ fanno da elementi aggreganti più delle strutture istituzionali; spesso l’aggregazione avviene, o almeno inizia, attorno alla figura e alla proposta di un ‘leader’; più che in uno ‘statuto’, ci si riconosce in una ‘dottrina’ e in una ‘prassi’, fortemente caratterizzanti, che tendono a diventare quasi una ‘spiritualità’; l’adesione non è formale, ma vitale: il movimento ‘sta’ sulla adesione vitale continuamente rinnovata dai membri, senza iscrizioni o tessere” (Enchiridion della Conferenza Episcopale Italiana, 3 [1980-1985], Bologna 1986, 312).

Sembra difficile offrire una mappa precisa del fenomeno, anche solo restringendosi al campo italiano. Una possibile area di delimitazione può essere la seguente: intendiamo per “movimenti” o “nuove comunità” quelle forme recenti di aggregazione ecclesiale ispirate a spiritualità carismatiche, ossia collegate a figure di leadership dal punto di vista dello stile e dei contenuti, e impegnate in strategie di “nuova evangelizzazione” (cfr. Faggioli 2010, 1151). Ciascuno di questi termini (aggregazione, leader carismatico, strategia, nuova evangelizzazione), e perfino l’espressione “movimento”, si presta a contestazioni e approfondimenti, ma non possiamo rinunciare a tentare empiricamente di delineare un processo storico visibile per vari aspetti nella Chiesa italiana soprattutto dagli anni ’70 del XX secolo ad oggi. Sembra che i tre focus della “forma di aggregazione”, dell’origine carismatica della spiritualità, e della prassi d’impegno di nuova evangelizzazione, siano elementi sufficientemente caratterizzanti la novità storica dei “movimenti” in Italia.

Alcuni studi propongono un’incubazione analoga e parallela tra ciò che oggi definiamo “movimenti ecclesiali” e ciò che è entrato nel novero dei “cattolici del dissenso”. Il dibattito sul legame tra alcuni di questi gruppi e il “movimento cattolico” italiano ed europeo del XIX secolo è ancora aperto. Sembra storicamente accertato che con Pio X e Pio XI le forme di militanza laicale come risposta alla secolarizzazione, alla perdita del potere temporale del papa, al diffondersi dei regimi liberali, furono incluse nell’Azione Cattolica direttamente controllata dai vescovi. In Italia l’organizzazione di AC era particolarmente articolata, e integrava anche quelle sperimentazioni di tipo carismatico e proselitistico che poi sbocceranno nei movimenti. L’AC di Pio XI e di Pio XII non aveva un impegno direttamente politico ma aveva sviluppato una forma di “collateralismo” rispetto alla Democrazia Cristiana come partito unitario dei cattolici. Nel secondo dopoguerra i mutamenti sociali e culturali, i primi sintomi di distacco dalla pratica religiosa, esigenze e inquietudini spirituali e sensibilità diverse rispetto all’impegno politico provocarono forme di tensione rispetto al quadro unitario AC – DC: è in questo periodo che si collocano i primi passi di sperimentazione verso il mondo studentesco (L. Giussani), verso una spiritualità innovativa (Ch. Lubich) e verso l’attenzione agli ultimi (O. Benzi).

La celebrazione del Concilio Vaticano II apre a una visione più complessiva della presenza del laicato nella Chiesa. D’altra parte si pone in modo nuovo la questione della Chiesa nel mondo. In concomitanza a questo mutamento, si fa urgente il problema dell’impegno politico, condizionato dal duro dibattito riguardante l’alleanza tra DC e Partito Socialista e dall’esplodere della contestazione giovanile. I movimenti laicali si sentono svincolati da una visione monolitica della militanza. Una parte di essi interpreta l’impegno cristiano come riforma delle strutture di Chiesa e scelta politica di sinistra, e si muoverà progressivamente verso il dissenso cattolico. Un’altra parte tende a escludere dal proprio pensiero motivi di riforma ecclesiastica e a estraniarsi dalla lotta politica giovanile orientata a sinistra, o scegliendo di dedicarsi ad aspetti spirituali e comunitari (Opera di Maria ossia Focolari, Comunità di Bose) o al servizio ai poveri (Comunità Giovanni XXIII, Comunità di S. Egidio, SerMiG), oppure prendendo le distanze, attraverso una crisi dolorosa, dalle tendenze marxiste, per proporre una visione dell’impegno politico dei cattolici in forme simili a quelle dell’intransigenza militante (Comunione e Liberazione), mentre l’AC, attraversando un drastico alleggerimento delle strutture centrali e un calo vistoso di adesioni, ripensava completamente la sua forma di presenza ecclesiale e sociale attraverso la cosiddetta “scelta religiosa” promossa da V. Bachelet.

Mentre il referendum del 1974 sul divorzio sanciva la definitiva distanza tra cattolici del dissenso e movimenti, ponendo l’AC in una posizione difficile di ricerca di equilibrio, il diffondersi dei movimenti accendeva nella Chiesa italiana la questione del rapporto di questi gruppi con la struttura diocesana e parrocchiale, che invece l’AC rispecchiava. La maggioranza dei vescovi, con l’appoggio di settori rilevanti della curia romana, vedeva con diffidenza le tendenze movimentistiche; per contro i movimenti, molto visibili attraverso i mass media, iniziavano a darsi strutture materiali e aggregative (Loppiano, la “mariapoli” dei Focolarini, nasceva nel 1964; prendeva vita nel 1975 il “braccio politico” di CL, Movimento Popolare), e facevano del riferimento diretto al papato il loro carattere di cattolicità, in questo riprendendo la tradizione ultramontana del XIX secolo. La Santa Sede progressivamente apriva ad alcune forme dirette o indirette di riconoscimento, negli ultimi anni di governo di Paolo VI e soprattutto durante il pontificato di Giovanni Paolo II. La Chiesa italiana dava un primo sguardo organico alle forme dei movimenti con la già citata nota del 1981, che sembra rappresentare un primo tentativo di discernimento di “ecclesialità”. Nel 1993 la nota su Le aggregazioni laicali nella Chiesa recepiva la più ampia apertura ai movimenti delle esortazioni post-sinodali Christifideles Laici (1989) e Pastores Dabo Vobis (1992) pur mettendo in guardia sulla non esclusività dei movimenti. Nel frattempo (1987-88) esplodeva la più dura polemica tra un movimento, Comunione e Liberazione, e una diocesi, ossia la Chiesa ambrosiana, il cosiddetto “caso Lazzati”: sul settimanale “Il sabato”, vicino a CL, apparivano interventi critici contro i dirigenti dell’associazionismo cattolico dal 1974 in avanti, tra cui in particolare Giuseppe Lazzati (1909-1986), già rettore dell’Università Cattolica di Milano, “colpevoli” di aver “protestantizzato” il cattolicesimo italiano. Le reazioni coinvolgevano il tribunale ecclesiastico di Milano; un dirigente di MP alludeva all’arcivescovo Carlo Maria Martini come a un giudice non imparziale. L’abbraccio del Card. Martini e di Mons. Giussani durante un pellegrinaggio nel giugno 1988 chiudeva simbolicamente la vicenda.

I principali movimenti che si collocano nell’ambiente italiano si possono distinguere tra movimenti e comunità di origine italiana e movimenti nati all’estero e attecchiti in Italia.

Il movimento dell’Opera di Maria, meglio noto come “Focolari”, è fondato da Silvia Lubich, detta Chiara (1920-2008), proveniente dalle fila dell’AC trentina, nel 1943, e ha assunto nella sua spiritualità dell’unità e della fratellanza universale la linea conciliare dell’ecumenismo e del dialogo interreligioso. Luigi Giussani (1922-2005), giovane sacerdote insegnante in un seminario milanese, nel 1954 sceglie di dedicarsi a “ricostruire una presenza cristiana in ambiente studentesco” e diventa insegnante di religione in un liceo di Milano. Il gruppo di giovani che si raduna attorno a lui, inizialmente chiamato “Gioventù Studentesca”, dopo una fase critica nel periodo della contestazione dà vita a “Comunione e Liberazione”. Nel 1958 un sacerdote della diocesi di Rimini, Oreste Benzi, si dedica a coinvolgere gli adolescenti in un incontro “simpatico” con Cristo. Nel 1968 decide di accogliere ragazzi disabili nei campeggi estivi. Nel 1973 nasce la prima “casa famiglia” e la comunità “Giovanni XXIII”. Nel 1964 un impiegato di banca piemontese, Ernesto Olivero, fonda con altri giovani il Servizio Missionario Giovanile, con una particolare attenzione alle realtà della povertà e della fame nel mondo. Nel 1983 il SerMiG ottiene la gestione di un’immensa area industriale dismessa, l’antico arsenale militare di borgo Dora a Torino, che diviene il centro delle attività assistenziali e delle esperienze giovanili del movimento. La Comunità di Sant’Egidio nasce nella città di Roma nel 1968 da un gruppo di giovani che intendono condurre una vita cristiana di servizio alla povertà e alla pace senza connotazioni politiche. Il fondatore è un liceale, Andrea Riccardi, ora docente universitario. La comunità trova ospitalità presso una chiesa di Trastevere. I punti di riferimento sono la preghiera quotidiana, la comunicazione del vangelo, la solidarietà con i poveri, l’ecumenismo e il dialogo. La comunità si impegna a intervenire anche nei conflitti internazionali con contatti di mediazione. Un gruppo di studenti cattolici, valdesi e battisti di Torino si ritrovavano nel 1963 attorno al giovane Enzo Bianchi per leggere insieme il vangelo. Nel 1965 Bianchi si trasferisce in una cascina della pianura piemontese, a Bose. Sostenuti nei primi passi dall’arcivescovo Torinese Michele Pellegrino, i monaci di Bose offrono la possibilità dell’accoglienza e propongono un percorso ecumenico.

Pur non essendo nato in Italia, ma nella periferia di Madrid, il cammino neocatecumenale attecchisce quasi subito in Italia, con una comunità presso la parrocchia dei santi Martiri Canadesi in Roma, nel 1968. Anche altri movimenti di origine ispanica e definiti di riconquista cristiana della società si diffondono in Italia: i Cursillos di Cristianità, nati dai giovani di AC di Mallorca (in Italia dal 1965), e l’Opus Dei, il cui fondatore J. Escrivá de Balaguer (1902-1975), si trasferisce a Roma nel 1946.

Una interessante diffusione in tutta la penisola ha Rinnovamento nello Spirito, la forma italiana del movimento carismatico cattolico sorto nei college americani con analogie e contatti con il movimento pentecostale protestante.

Dagli anni ’80 fino all’inizio del XXI secolo i movimenti in Italia hanno vissuto alcuni passaggi di svolta. La scelta di papa Wojtyła di proclamare una fase di “nuova evangelizzazione” per il mondo occidentale offre una cifra che accomuna molti di questi gruppi. In Italia, la CEI dà origine alla Consulta Nazionale delle Aggregazioni Laicali (1993), che apre una stagione di riconciliazione con le associazioni come l’AC e lo scoutismo (Agesci). Negli ultimi tempi molti dei movimenti italiani si trovano ad affrontare il delicato momento della scomparsa del fondatore: Luigi Giussani (2005), Oreste Benzi (2007), Chiara Lubich (2008), il sacerdote bresciano Dino Foglio, storico leader di Rinnovamento nello Spirito (2006).

Accenniamo ad alcune questioni aperte. I movimenti sono stati e sono l’avanguardia della Chiesa cattolica verso il mondo contemporaneo, o sono un fenomeno di nostalgia, di retroguardia (D. Menozzi), oppure una “anti-contestazione” (G. Martina)? Quanto ogni singolo movimento ha veramente e non solo nominalisticamente assunto le linee del Concilio Vaticano II? I movimenti e le nuove comunità sono percorsi di nuova evangelizzazione rivolti al mondo secolarizzato, oppure in realtà “pescano” proseliti sostanzialmente all’interno del mondo dei credenti praticanti (M. Faggioli)? I movimenti sono nuove forme di vita laicale nella Chiesa, o rappresentano un fenomeno di tipo clericale?

Fonti e Bibl. essenziale

M. Casella, L’Azione Cattolica nell’Italia contemporanea: 1919-1969, Roma (AVE) 1992 Chiesa in Italia. Annale 2010 di “Il Regno”; M. Faggioli, Breve storia dei movimenti cattolici, Roma (Carocci) 2008; M. Faggioli, Movimenti religiosi, in Dizionario del sapere storico-religioso del novecento, a cura di A. Melloni, II, Bologna (Il mulino) 2010, 1151-1155; Fedeli Associazioni Movimenti, XXVIII incontro di studio (2-6 luglio 2001), a cura del Gruppo italiano docenti diritto canonico, Milano (Glossa) 2002; M. Guasco, Chiesa e cattolicesimo in Italia (1945-2000), Bologna (EDB) 2001; D. Hervieu-Léger, Il pellegrino e il convertito. La religione in movimento, Bologna (Il mulino) 2003; G. Martina, La Chiesa in Italia negli ultimi trent’anni [1946-1976], Roma (Studium) 1977; D. Menozzi, La continuità di un modello nella chiesa postconciliare: il “caso Lazzati”, in D. Menozzi, La Chiesa cattolica e la secolarizzazione, Torino (Einaudi) 1993, 232-263; E. Preziosi, Obbedienti in piedi. La vicenda dell’Azione Cattolica in Italia, Torino (SEI) 1996.


LEMMARIO




Mutegeki Robert


Dottorando della Facoltà di Storia e Beni Culturali della Chiesa della Pontificia Università Gregoriana




Muzzarelli Maria Giuseppina


 





Neoguelfismo - vol. I


Autore: Guido Formigoni

Corrente di pensiero risorgimentale che collega strettamente l’unificazione dell’Italia come nazione alla sua identità di paese cattolico, e più specificamente alla presenza sul territorio italiano del papato, guida della Chiesa universale. Il termine ebbe inizialmente un significato polemico, quando repubblicani e rivoluzionari dell’età della Restaurazione accusavano i cattolici di essere neoguelfi in quanto passatisti e reazionari che idealizzavano il guelfismo medievale. Venne però acquisito da alcuni intellettuali cattolici per definire un modo originale di intendere la “questione nazionale”. Lo sfondo polemico era molteplice: in primo luogo, la nota tesi, ascrivibile a Machiavelli, per cui la presenza del “papa re” aveva impedito la costruzione di uno Stato unitario in Italia; poi, la rottura rivoluzionaria dei nessi religione-civiltà; infine, le posizioni di chi, come il Sismondi, aveva ascritto alla morale cattolica molta responsabilità per la decadenza italiana. Reagendo a queste provocazioni, una variegata serie di contributi storiografici iniziò a soffermarsi sui benefici storici connessi alla nascita e allo sviluppo dello Stato pontificio nella penisola, nel senso della civiltà e della difesa dell’italianità da varie potenza straniere (dal de Maistre del Du Pape si arrivò in questa linea fino a Carlo Troya o Cesare Balbo).

Lo sviluppo più articolato di questa riflessione apparve in un ponderoso trattato di Vincenzo Gioberti, Del primato morale e civile degli italiani (stampato dapprima nel 1843 a Bruxelles, dove l’abate piemontese era esule). La sua tesi forte era che l’Italia come nazione affondasse le sue origini proprio nell’intreccio storico con l’istituzione papale: ciò motivava appunto il «primato» italiano tra le nazioni, in quanto una nazione particolare serviva alla più nobile causa di civiltà, quella cristiana, con un ruolo addirittura «sacerdotale» («gl’italiani, umanamente parlando, sono i Leviti della cristianità»). Sulla base di tale «idea guelfa», Gioberti sviluppava una proposta propriamente politica, che prendeva posizione nel dibattito sul Risorgimento d’Italia. Siccome «l’idea del primato romano [… era] il solo principio di unione possibile ai vari stati peninsulari», l’Italia avrebbe potuto ottenere forza e potenza solo tramite «una confederazione politica sotto l’autorità moderatrice del pontefice» (V. Gioberti, Del primato morale e civile degli italiani, [1843], a cura di U. Redanò, Bocca, Milano 1938, pp. 37-39). Questa proposta non toccava le sovranità dei legittimi principi (compreso ovviamente il pontefice, anche se in modo velato chiedeva di spostare il suo ruolo su registri morali), suggeriva vaghe riforme all’interno di ogni Stato e aggirava il problema annoso dell’influenza austriaca. Si può comprendere come fossero posizioni gradite all’opinione moderata che in vari Stati della penisola era spaventata dalle minacce rivoluzionarie o dalle prospettive di un salto nel buio repubblicano e unitario. Attorno al neoguelfismo crebbe un ampio consenso: il successo del volume fu straordinario (si parla di undici edizioni e forse 80.000 copie in cinque anni).

La finestra di possibile realizzazione politica di questo progetto si aprì con le riforme del 1846-’48, e soprattutto con l’elezione di quello che si ritenne – in modo piuttosto equivoco – il “papa liberale” Pio IX, che peraltro simpatizzava per la causa nazionale ed era disponibile a modeste riforme amministrative nello Stato pontificio. All’inizio dell’ondata rivoluzionaria del 1848 il modello sembrò tenere, con il papa che utilizzò in alcune allocuzioni un linguaggio neoguelfo. Preti patrioti combatterono l’Austria al Nord e comparvero bandiere tricolori italiane (simbolo rivoluzionario, non dimentichiamolo) con le scritte speculari «Viva l’Italia – Viva Pio IX». Ma tale possibilità non doveva reggere l’accelerazione politica delle vicende: la prospettiva di una guerra degli Stati italiani all’Austria fece fare a Pio IX una rapida marcia indietro, con il proclama del 29 aprile 1848. Il papa non poteva intendere la sua missione in modo troppo esclusivamente «italiano». L’evoluzione del regime rappresentativo romano verso la soluzione repubblicana scavò poi un solco duraturo tra il papa e le idee costituzionali.

La strada del neoguelfismo si interrompeva. Il Piemonte sabaudo divenne faro di attrazione per l’opinione liberale e nazionale della penisola, assumendo la guida del moto unitario. Il Risorgimento doveva quindi scontrarsi sempre più chiaramente con il ruolo del papa come sovrano temporale. La controversia diplomatica sul destino di Roma e la libertà del pontefice si aggiungeva al crescente arroccamento di Pio IX su una impostazione che vedeva tale sovranità come necessario simbolo della subordinazione delle istituzioni civili a quelle religiose.

L’impostazione neoguelfa, sconfitta sul piano politico, doveva però lasciare dietro di sé un impressionante lascito culturale, sia nella coscienza di molti credenti comunque coinvolti nel moto risorgimentale nei decenni successivi, che da quei cattolici che si arroccarono su posizioni intransigenti, seguendo il papato nella sdegnosa condanna della costruzione statuale usurpatrice dei diritti divini del pontefice. In questa seconda versione, si vagheggiava un’altra Italia, quella vera, a guida papale, come alternativa al Risorgimento scomunicato.

Fonti e Bibl. essenziale

A. Giovagnoli, Il neoguelfismo, in G. De Rosa (a cura di), Storia dell’Italia religiosa, III vol., L’età contemporanea, Laterza, Bari-Roma 1995, 39-59; G. Rumi, Vincenzo Gioberti, Il Mulino, Bologna 1999.


LEMMARIO




Nunziatura - vol. II


Autore: Alberto Guasco

Secondo il Codex Iuris Canonici del 1917, nunzio apostolico è colui che detiene l’incarico di rappresentare la Santa Sede presso i governi stranieri, curando le relazioni tra le due istituzioni e vigilando la locale vita diocesana, per riferirne direttamente al papa. In questo senso, per le specifiche condizioni dell’Italia, il ruolo dei nunzi e della nunziatura pontificia presso i governi del nostro paese si è fino a oggi configurato in maniera del tutto particolare, tanto durante gli anni del regime fascista quanto nell’arco della storia repubblicana.

L’11 febbraio 1929, giorno della firma dei Patti del Laterano, la Santa Sede e il Regno d’Italia ristabilirono relazioni diplomatiche, interrotte il 20 settembre 1870 a seguito dell’ingresso delle truppe piemontesi a Roma. In questo senso, la norma giuridica concordataria – all’articolo 12 del Trattato – stabilì l’insediamento di un nunzio apostolico presso il re d’Italia: “Le Alte Parti contraenti si impegnano a stabilire tra loro normali rapporti diplomatici, mediante accreditamento di un Ambasciatore italiano presso la Santa Sede e di un Nunzio pontificio presso l’Italia, il quale sarà il Decano del Corpo Diplomatico, a termini del diritto consuetudinario riconosciuto dal Congresso di Vienna con atto del 9 giugno 1815”.

Designato da papa Pio XI, primo nunzio in Italia fu monsignor Francesco Borgongini Duca (1884-1954), già segretario della congregazione per gli Affari Ecclesiastici Straordinari, che ricoprì la carica dal 1929 al 1953. Nel quadro dei rapporti con il regime fascista, gestiti direttamente dal papa e dalla segreteria di stato, ad Achille Ratti occorreva un ecclesiastico conosciuto dal regime – tale era Borgongini, coinvolto nelle trattative concordatarie per tutto il loro arco – e a esso non sgradito, ben inserito nella curia e nel mondo ecclesiastico romano, fedele interprete della linea pontificia e non, eventualmente, di una propria. In questo senso, non è un caso che accanto alle istruzioni relative ai privilegi e alle prerogative del nunzio in Italia, e a quelle di Propaganda Fide inerenti i tre vicariati africani, il materiale relativo alla nomina di Borgongini non conservi alcuna istruzione riguardante le linee di politica ecclesiastica che il nunzio avrebbe dovuto mantenere verso il regime fascista. Tali linee, peraltro, dopo tre anni di trattative a singhiozzo, doveva essere ben evidente a Borgongini, destinato a occuparsi di stampa anticlericale e pornografica, attività comuniste in danno alla gioventù, moralità degli spettacoli, rispetto del riposo festivo, situazione del clero congruato e protezione demografica della città di Roma.

Il 2 luglio 1929 Borgongini si insediò nel palazzo di via Nomentana, entro un contesto cerimoniale che – descritto al cardinal Gasparri nel primo rapporto del 15 luglio 1929 – lasciava intravedere il rapporto ancora traumatico con il 1870 e il compiacimento dell’uomo di chiesa che nella sconfitta del liberalismo massonico rileggeva provvidenzialmente un intero tratto di storia: “Passando per Porta Pia manifestai la mia emozione al Cerimoniere di Corte … “Sessant’anni fa” io osservavo “entrando le truppe italiane per questa Porta, la massoneria intendeva di dare l’ultimo colpo alla Chiesa e al Pontificato; oggi, con il consenso universale del popolo italiano, l’umile rappresentante del Sommo Pontefice entra solennemente, e riprende il posto d’onore nella vita pubblica della Nazione. La Provvidenza ha disposto che noi passassimo per la stessa Porta. Altrettanto dissi a Sua Maestà il Re, e poi al Capo del Governo”. Tuttavia, allo stesso tempo, la nomina prese corpo nel crescendo di polemiche tra Santa Sede e governo italiano che seguì alla stipula del Concordato, in qualche modo già restituendo il peso specifico del nunzio e della nunziatura nel rapporto tra le due istituzioni: un ruolo marginale, ma al contempo un barometro dell’accordo o dell’attrito alternativamente intercorrente tra le due autorità.

La lettura dei rapporti e degli appunti delle udienze con Mussolini stilate dallo stesso Borgongini nel corso degli anni non disegna il ritratto di un pedissequo esecutore delle indicazioni pontificie, ma certo quello d’un diplomatico tenuto ad attenersi strettamente alle linee formulate dal pontefice, costretto a operare – come annotato dal suo segretario, monsignor Giulio Barbetta – “in Roma, cioè presso i dicasteri diplomatici della S. Sede, in contatto con due personalità fortissime, quali Pio XI e Benito Mussolini, e in circostanze spesso drammatiche”. Per quanto scrupolosamente Borgongini svolgesse il ruolo di portavoce del papa, specie sui problemi specifici della post-conciliazione (l’abolizione della festa del XX settembre, la gestione della “vigilanza” contro i nemici della chiesa, protestanti, massoni e anticlericali), tuttavia finì sempre per essere accantonato nei momenti di più acuto urto con il regime, cioè durante la crisi di Azione Cattolica del 1931 e del 1938.

Nelle sue linee di fondo, il peso specifico della nunziatura non aumentò durante con il pontificato di Pio XII, né durante il periodo bellico, né negli anni del dopoguerra e del centrismo degasperiano. In questo senso, anche se la normativa concordataria parlava chiaro fu sempre papa Pacelli – che dalla morte del cardinal Maglione tenne anche la segreteria di stato – il referente ultimo delle questioni di carattere politico e diplomatico concernenti i rapporti con il governo italiano. Di conseguenza, la nunziatura finì costantemente scavalcata dai rapporti diretti tra governi a guida democristiana e segreteria di stato, nonché dal canale rappresentato dall’ambasciata italiana presso la Santa Sede. Ulteriore fattore di debolezza della nunziatura fu poi costituito dalle iniziative personali attraverso le quali cardinali e vescovi – in un contesto sempre più segnato dal contrasto tra i ritmi della modernizzazione e dell’incipiente boom economico – si approcciarono al potere politico, tentando di condizionarne le scelte nel senso dei propri obiettivi specifici. L’attività della nunziatura restò dunque concentrata in settori secondari della vita ecclesiastica (modifiche dei confini diocesani, adeguamento della congrua al clero, richiesta di commissari qualificati nei concorsi magistrali per esaminare i futuri maestri di religione) finendo sistematicamente esclusa nel caso di più delicati casi di frizione tra Santa Sede e stato italiano (come nel caso di monsignor Pietro Fiordelli) o di nomine episcopali di particolare importanza (come quella di Giovanni Battista Montini a Milano).

Il quadro restò tale durante la nunziatura dell’eporediese Giuseppe Fietta (1883-1960), già nunzio in America Centrale e nell’Argentina di Peron, che nel 1953 sostituì Borgongini Duca. Fu una “quarta scelta”, se prima di lui – come scrisse l’ambasciatore Mameli il 24 dicembre 1952 – la Santa Sede aveva pensato a monsignor Filippo Bernardini, già nunzio a Berna, e a due altri prelati. Tuttavia, si trattava pur sempre, aggiungeva l’ambasciatore il 21 gennaio 1953, d’un “prelato di alte doti” e di “sentimenti altamente italiani”. Simile scelta fu ripetuta anche nel caso del successore di Fietta, monsignor Carlo Grano (1887-1976), operata da Giovanni XXIII nel 1958. Entrato in segreteria di stato nel 1923, non si trattava d’una personalità di elevata esperienza politica e diplomatica, quanto – come scrisse l’ambasciatore Migone il 1° dicembre 1958 – “noto per la sua pietà e il senso di assoluta devozione ai pontefici”. In questo senso, aggiungeva l’ambasciatore mostrando notevole consapevolezza, “la Santa Sede sembra preoccuparsi di designare quale Nunzio in Italia personalità politicamente incolori e quindi non portate ad agire per iniziativa propria”. Se ci fu invece un livello di novità nell’azione di papa Roncalli, fu il tentativo di normalizzazione delle relazioni con l’Italia, riconducendole entro i canali diplomatici prestabiliti, frenando il protagonismo delle diverse correnti democristiane e dei cardinali e dei vescovi italiani.

A questa novità si aggiunsero poi quelle degli anni del Concilio, con il suo tentativo – e le relative difficoltà – di armonizzare la figura diplomatica del nunzio apostolico con il nuovo ruolo pastorale progressivamente delineato per i vescovi diocesani e per le conferenze episcopali. Già nel 1951, nel discorso tenuto in occasione dei 250 anni della Pontificia Accademia Ecclesiastica – semenzaio dei diplomatici vaticani – Montini aveva sottolineato l’indole sacerdotale del nunzio, sì impegnato a “difendere i diritti della Santa Sede”, ma anche a “a servire i bisogni dei popoli presso cui va”. Il 24 giugno 1969, in pieno post-concilio, il motu proprio di Paolo VI Sollicitudo Omnium Ecclesiarum riprendeva in esame il problema, per descrivere la nunziatura e il nunzio apostolico non solo quale rappresentante del pontefice presso le chiese del mondo, ma anche delle chiese del mondo presso il pontefice.

Tale intendimento trovava quindi formalizzazione – mentre quali nunzi in Italia si succedevano, dal 1967 al 1969, l’emiliano Egano Righi-Lambertini (1906-2000) e, dal 1969 al 1986, il marchigiano Romolo Carboni (1911-1999) – nel nuovo codice di diritto canonico promulgato da papa Giovanni Paolo II nel 1983. Ne usciva confermato un ruolo più ecclesiastico che diplomatico dei nunzi, comunque più formati in missione, sul campo, che non all’Accademia. In questo contesto e in quest’ottica, durante il pontificato woytilano, si sono succeduti alla nunziatura: il piacentino Luigi Poggi (1917-2010), nunzio in Italia dal 1986 al 1992 dopo aver contribuito allo stabilimento del concordato tra Santa Sede e Tunisia (1964) e una lunga trafila d’incarichi diplomatici nei paesi dell’Africa centrale, in Perù, nunzio con incarico speciale per migliorare le relazioni con diversi paesi aderenti al patto di Varsavia (1973), in particolare con la Polonia; l’eporediese Carlo Furno, (1921-), nunzio in Italia dal 1992 al 1994 dopo l’analogo incarico ricoperto in Perù (1973), in Libano (1978) e in Brasile (1982); il barese Francesco Colasuonno (1925-2003), nunzio in Italia dal 1994 al 1998 dopo aver rivestito il ruolo di pro-nunzio in Yugoslavia (1985), di nunzio con poteri speciali in Polonia (1986) e rappresentante presso la Federazione Russa (1990); il torinese Andrea Cordero Lanza di Montezemolo (1925-), nunzio in Italia dal 1998 al 2001 dopo l’analogo incarico svolto in Honduras e Nicaragua (1980) durante la rivoluzione sandinista, in Uruguay (1986), e il lavoro quale delegato apostolico e pro-nunzio in Gerusalemme e per la Palestina (1990-1998); il catanese Paolo Romeo (1938-), nunzio in Italia dal 2001 al 2006, dopo le esperienze ad Haiti (1983), in Colombia (1990) e Canada (1999). Infine, per quel che riguarda gli anni di pontificato di Benedetto XVI, nunzi in Italia sono stati nominati il torinese monsignor Giuseppe Bertello (1942), che ha ricoperto l’incarico dal 2006 al settembre 2011, quando gli è subentrato nel ruolo Adriano Bernardini, nativo di Pian di Meleto (Pesaro-Urbino) già nunzio in Thailandia e ambasciatore vaticano in Argentina.

Fonti e Bibl. essenziale

M. Casella, Gli ambasciatori d’Italia presso la Santa Sede dal 1929 al 1943, Congedo, Galatina 2009; N. Del Re, La curia romana. Lineamenti storico-giuridici, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 1998; G. De Rosa, G. Cracco a cura di, Il Papato e l’Europa, Rubbettino, Soveria Mannelli, 1999; C.M. De Vecchi, Tra papa, duce e re. Il conflitto tra chiesa cattolica e stato fascista nel diario 1930-1931 del primo ambasciatore del regno d’Italia presso la Santa Sede, Jouvence, Roma 1998; M.F. Feldkamp, La diplomazia pontificia, Jaca Book, Milano 1995; A. Giovagnoli a cura di, Pacem in terris tra azione diplomatica e guerra globale, Guerini e Associati, Milano 2003; A. Guasco, “Dies war der Beginn der Nuntiatur Italiens”. Anmerkungen zur Person Francesco Borgongini Ducas”, in H. Wolf a cura di Eugenio Pacelli als Nuntius in Deutschland, Kommison fur Zeitgeschichte, Bonn 2011; A. Guasco, Guasco, Tra segreteria di Stato e regime fascista. Mons. Francesco Borgongini Duca e la nunziatura in Italia (1929-1939), in L. Pettinaroli (a cura di), Le gouvernement pontifical sous Pie XI: pratiques romaines et gestion de l’universel, Ecole Francaise de Rome 2013; Melanges de l’Ecole Francaise de Rome. Italie et Mediterranee, Ecole Francaise de Rome, 1998; A. Melloni, M. Guasco a cura di, Un diplomatico vaticano fra dopoguerra e dialogo. Mons. Mario Cagna (1911-1986), Il Mulino, Bologna 2003; Pennacchini P., La Santa Sede e il fascismo in conflitto per l’Azione cattolica, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano, 2012; A. Riccardi, Le politiche della chiesa, San Paolo, Cinisello Balsamo 1997; H. Wolf a cura di Eugenio Pacelli als Nuntius in Deutschland, Kommission fur Zeitgeschichte, Bonn 2011; A. Zambarbieri, Il nuovo papato. Sviluppi dell’universalismo della Santa Sede dal 1870 a oggi, San Paolo, Cinisello Balsamo 2001.


LEMMARIO




Nunziature - vol. I


Autore: Antonio Menniti Ippolito

Le Nunziature permanenti sono rappresentanze diplomatiche stabili della Santa Sede incaricate di esercitare il diritto di legazione sia nella sua forma esterna, ossia nel trattare gli affari politici con i governi civili, sia nella forma interna, in relazione alle Chiese locali. A questo proposito i Nunzi nell’età moderna dovevano tra le altre cose informare la Sede romana sullo Stato della religione nelle aree in cui erano stati inviati; individuare candidati a benefici vacanti ove Roma conservava qualche possibilità d’esprimersi al riguardo; potevano consacrare i vescovi che non erano in grado di recarsi a Roma per essere investiti direttamente dal papa; esercitare infine attività giurisdizionale, legata soprattutto ai giudizi d’appello, con un proprio tribunale. La funzione dei Nunzi era insomma da un lato simile a quella degli ambasciatori ordinari, ma sotto altro aspetto, che lo studio delle fonti mostrano di fatto prevalente, presupponeva una funzione di giurisdizione sulle gerarchie ecclesiastiche locali. Alle Nunziature permanenti si affiancano quelle straordinarie, dai caratteri più difficilmente codificabili.

Origini. La Sede romana ebbe rappresentanti diplomatici già nei tempi più antichi, ad esempio presso la Corte imperiale di Costantinopoli, ma l’origine delle Nunziature permanenti è di norma collegata all’ufficio del Nunzio collettore e commissario delle decime. Dal XIII sec. il papato riscuoteva le decime inviando a tal fine funzionari della Camera Apostolica. Via via tale funzione aumentò di rilievo e in qualità di collettori vennero destinati prelati di grado sempre più elevato. Costoro, in Francia o in Germania, esercitavano il compito in una o due province ecclesiastiche, mentre in sedi più lontane, come in Inghilterra, esso veniva svolto per l’intero territorio dello Stato. In queste aree più lontane, i collettori potevano essere investiti anche di un mandato che li autorizzava a trattare questioni d’ordine politico (nelle altre invece ai collettori potevano affiancarsi a tal fine legati) e gradualmente gli agenti fiscali andarono a trasformarsi in agenti diplomatici. Ciò in misura più decisa, se non definitiva, quando l’evoluzione generale europea vide comparire, in specie dal XV sec., potenze statuali sempre più solide e ambiziose ora sotto la guida di stabili dinastie il che condusse alla istituzione da parte delle stesse di sedi diplomatiche permanenti, guidate da ambasciatori. Il papato trasferì nel ruolo di Nunzio le funzioni che già avevano svolto i collettori, e questo sia nelle sedi ove queste figure già avevano operato, sia in quelle che vennero istituite ex novo per far fronte alle esigenze.

I Nunzi, titolari delle Nunziature permanenti, lo si è già detto, non svolgevano esclusivamente le funzioni tipiche degli ambasciatori, legate alla funzione di tenere rapporti politici con i governi. Si sovrapponevano infatti sulle gerarchie ecclesiastiche locali, gelose delle proprie prerogative, rappresentando anche presso di loro, oltre che con i governi, l’autorità del papa. Una funzione molto delicata che li impegnava, come già accennato, per gran parte della loro missione. Tutto questo innestò una dialettica che ritmò l’intera vicenda delle Nunziature in età moderna generando contrasti di diversa intensità e che portò in qualche occasione a vere e proprie prese di posizione da parte delle Chiese locali contro quelle rappresentanze diplomatiche avvertite quali lesive delle competenze dei metropoliti e dei vescovi (nel 1786, gli arcivescovi di Magonza, Treviri, Colonia e Salisburgo, richiesero formalmente l’abolizione delle Nunziature apostoliche).

Fondazione delle Nunziature. Di norma le Nunziature non nascevano in virtù di un atto formale di fondazione, bensì dalla stabilizzazione dei rappresentanti straordinari che erano stati inviati a trattare degli affari diplomatici presso un principe. Troviamo tuttavia casi in cui una serie di inviati straordinari venne seguita da altri stabili, ma anche casi dove ad una serie di rappresentanti stabili seguì una serie di straordinari. Ciò rende insomma complicato stabilire date di nascita precise delle Nunziature permanenti: più prudente collocare la prima affermazione delle stesse a partire dalla metà del XV sec. quando sappiamo che sotto il pontificato di Niccolò V, Antonio Giacomo Venier (o de Veneris) fu destinato Nunzio in Castiglia. In Italia la prima Nunziatura permanente fu quella veneziana e ciò a partire dal 1485 quando Niccolò Franco, appena destinato alla guida del vescovato di Treviso, venne nominato oratore pontificio con potestà di legato a latere presso le Serenissime autorità veneziane. La durata dell’incarico (fino al 1492) e il fatto che a Franco vennero conferiti pure i poteri di collettore delle decime ecclesiastiche nel Dominio veneto portano ad identificarlo quale il primo della lunga serie di Nunzi pontifici presso la Repubblica veneta.

A partire dai primi decenni del XVI sec. si consolidò un sistema di sedi diplomatiche che si articolò in una dozzina circa di nunziature ordinarie: Bruxelles (da qui si diceva anche di ciò che accadeva in Inghilterra e Olanda), Colonia, Firenze, Francia, Graz, presso la Corte imperiale, Napoli, Polonia, Savoia, Spagna, Svizzeri, Venezia. La Nunziatura del Portogallo si era trasformata in collettoria priva di incombenze politiche quando quella Corona era stata assimilata dal sovrano di Spagna, mentre altre realtà che possono essere in qualche modo accomunate a quelle delle Nunziature furono rappresentate dalla Legazione di Avignone e dall’Inquisizione di Malta. Il sistema era però dinamico e legato a esigenze particolari che potevano venir meno o mutare. S’è appena detto del declassamento della Nunziatura del Portogallo; quella di Transilvania venne invece soppressa nel 1600, quella di Modena fu chiusa da Paolo V che istituì invece quelle di Milano e Vienna che non sopravvissero però al suo pontificato. Nel 1622 Gregorio XV soppresse la sede di Graz, nel 1785 venne invece inaugurata la Nunziatura di Baviera, ecc.

Tale evoluzione mostra dei papi sempre più coinvolti nella politica europea in qualità di principi di uno stato territoriale oltre che come pastori della Chiesa universale. Sotto questo aspetto, l’articolazione delle Nunziature fu anche conseguenza inevitabile della serie di concordati stipulati tra la Santa Sede e le potenze europee soprattutto a partire dagli anni ’40 del Quattrocento. L’esigenza di fronteggiare il conciliarismo e di evitare che altri seguissero l’esempio del re di Francia che con la Prammatica sanzione di Bourges aveva creato unilateralmente la Chiesa gallicana, a lui soggetta, spinsero i papi ad elargire per concessione ai principi ampie prerogative sulle Chiese nazionali. L’istituzione delle Nunziature si legava in definitiva anche a questa situazione, per cercare di stabilire un network tra tutte queste realtà e per evitare che il loro legame con Roma assumesse un carattere esclusivamente formale. L’incombenza di rappresentare oltralpe una Chiesa per forza di cose sempre più italianizzata venne ricoperta da Nunzi e legati di sola origine peninsulare (immediato pensare che ciò era dovuto anche alla necessità di evitare imbarazzi, incompatibilità e contestazioni) e la funzione di Nunzio, così come fu indicato dal Concilio di Trento e sostanzialmente rispettato nella prassi, fu legata alla dignità episcopale. Per fare un esempio durante il pontificato di Paolo V il 36% di chi venne nominato Nunzio fu consacrato vescovo proprio in occasione dell’invio in missione. La durata media delle missioni fu di circa 4 anni, ma il dato è ricavato da un quadro generale che vide Nunziature anche di durata quasi ventennale.

Nunziature e carriere curiali. L’indagine prosopografiche sugli alti livelli delle carriere curiali rivela come per un lungo periodo la totalità dei pontefici e un’alta percentuale di cardinali e prelati di vertice poté vantare precedenti esperienze diplomatiche, in qualità di Nunzi o di legati a vario titolo presso corti extrapeninsulari. Per dir meglio, tale genere di esperienza dovette di fatto essere ritenuta indispensabile per poter assumere la responsabilità di pontefice ancora per tutto il Seicento perché riguardò tutti gli eletti al trono di Pietro da Martino V a Innocenzo XII (che spirò nel 1700), con la sola eccezione di Alessandro VIII (1689-91), che percorse l’intera sua carriera in Curia e che si era allontanato dall’Urbe nel solo decennio 1654-64 quando fu vescovo di Brescia. Nel sec. XV le missioni di questi curiali poi destinati al papato si svolsero in gran parte in area tedesca; nel secolo successivo, stante anche l’unione, per largo tratto della prima metà del secolo, delle corone di Spagna e imperiale nella persona di Carlo V, nella penisola iberica; nel XVII sec. la sede più impegnativa e sotto certi aspetti ambita fu quella francese. Dopo papa Pignatelli la situazione mutò d’improvviso. A partire da Clemente XI (1700-1721), che mai pose piede fuori dello Stato pontificio, e fino a Pio IX, con la sola eccezione di Innocenzo XIII, nessun papa godette infatti di tale esperienza, e anche questo è indice del livello di marginalizzazione che la Chiesa di Roma conobbe in misura sempre maggiore a partire dalle paci di Vestfalia.

Facoltà dei Nunzi. Al momento di partire per la missione i Nunzi ricevano delle Istruzioni e dei brevi che tracciavano le linee politiche cui il loro operato avrebbe dovuto ispirarsi e indicavano le facoltà generali o più specifiche di cui avrebbero goduto: su quali aree avrebbero esercitato la loro giurisdizione, quali dispense avrebbero potuto elargire, quali cause giudicare (dopo Trento, lì dove il concilio era stato recepito, fungevano da giudici d’appello per le sentenze di primo grado emesse dagli ordinari), quando poter richiedere l’intervento del braccio secolare o dei vescovi, quali benefici ecclesiastici poter collazionare, quali deleghe poter concedere, ecc. Alcuni Nunzi avevano la facoltà di svolgere i processi informativi circa le qualità di chi veniva candidato ai benefici concistoriali (vescovi o abati). Ma la varietà di queste facoltà era assai ampia e ad esempio in Germania i Nunzi ne godettero anche di tipicamente inquisitoriali, come la possibilità di assolvere eretici o di autorizzare la lettura di libri proibiti ma anche quella di assumere le funzioni di commissario e inquisitore generale. Quanto al cerimoniale, i Nunzi, che avevano il titolo d’Eccellenza, godevano ovunque della precedenza sugli altri ambasciatori.

Struttura diplomatica della Santa Sede. Nunzi avevano una propria cancelleria e un proprio tribunale. Loro referente principale romano fu, per un buon tratto dell’età moderna (seconda metà XVI-fine XVII sec.), il cardinal nipote, attraverso però la struttura della Segreteria di Stato retta dal suo Segretario che prese formalmente il posto del favorito consanguineo del papa dopo l’abolizione del nepotismo nel 1692. La mole di corrispondenza che passava attraverso la Segreteria di Stato era cospicua e dai contenuti assai vari il che creava l’esigenza di coinvolgere nell’attività diplomatica anche altre Congregazioni curiali. Tale struttura ancora per tutto il XVIII sec. conobbe mutamenti spesso significativi, da un lato favoriti dalla persistenza delle figure degli influentissimi cardinali nipoti sia pure sotto altre vesti, in primis quella di Segretari dei memoriali, e sotto un altro aspetto anche determinati dalle figure insipide o del tutto indegne di alcuni Segretari di Stato (ininfluente fu ad esempio il cardinale Lazzaro Pallavicini sotto Clemente XIV e parte del pontificato di Pio VI, costretto alle dimissioni per condotta immorale fu Ignazio Boncompagni sempre durante il papato Braschi). Solo dopo il 1814 il processo di riorganizzazione curiale promosso da Pio VII con l’indispensabile collaborazione del cardinal Consalvi pose la Segreteria di Stato definitivamente al centro degli affari interni ed esterni della Santa Sede.

Fonti e Bibl. essenziale

H. Biaudet, Les Nonciatures Apostoliques permanentes jusqu’en 1648, Suomalainen Tiedeakatemia, Helsinki 1910; L. Karttunen, Les Nonciatures Apostoliques permanentes de 1650 a 1800, Imprimerie E. Chaulmontet, Genéve 1912; F. Gaeta, Origine e sviluppo della rappresentanza stabile pontificia in Venezia (1485-1533), in “Annuario dell’Istituto Storico Italiano per l’età moderna e contemporanea”, IX-X (1957-1958), 5-281; P. Blet, Histoire de la Représentation Diplomatique du Saint Siège des origines à l’aube du XIXe siècle, Città del Vaticano 1982; Le istruzioni generali di Paolo V ai diplomatici pontifici. 1605-1621, a cura di S. Giordano OCD, I, Max Niemeyer Verlag, Tübingen 2003, 119-152.


LEMMARIO