Associazione Italiana dei Professori di Storia della Chiesa

Dizionario Storico Tematico La Chiesa in Italia
Dopo l'Unità Nazionale
Roma 2015
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Nuove comunità - vol. II


Autore: Giancarlo Rocca

Negli anni attorno al concilio Vaticano II sono cominciate a sorgere molte nuove comunità in tutto il mondo, e quelle sorte in Italia presentano le caratteristiche che si ritrovano un po’ ovunque, e cioè di essere: laicali, anche se al loro interno ci sono sacerdoti; miste, con vita comune di uomini e donne; ecumeniche, lasciando posto anche a membri di altre confessioni; e tendenza al cosiddetto radicalismo evangelico. Per l’Italia le caratteristiche della comunità laicale, mista ed ecumenica si ritrovano nella comunità di Bose, fondata attorno al 1963-1964 a Torino da Enzo Bianchi, mentre il radicalismo lo si ritrova nella comunità denominata alle origini “Monaci del Padre”, fondata da don Emilio Grasso a Roma nel 1969, i quali sottolineavano che la discriminante per loro non passava più sui consigli evangelici di castità, povertà e obbedienza, ma su un impegno di radicalità nei confronti del Vangelo. E ciò comportava che anche gli sposati potessero far parte della loro comunità.

Stando al censimento edito nel 2010 (Primo censimento…: v. bibl.), sino al 2009 sono state fondate 775 nuove comunità, di cui 205 negli USA, 200 in Italia, 161 in Francia, cui seguono, a una certa distanza, Canada (con 47 nuove comunità), Brasile (44) e Spagna (20). Per la periodizzazione, anche per l’Italia sembra che gli anni di maggior fioritura siano quelli tra il 1970 e 1990. Per catalogare questa enorme fioritura di comunità si sono cercate diverse tipologie, e quella che permette di classificarle più facilmente distingue tra: a) Comunità vicine alla vita monastico-religiosa intesa in senso classico; b) comunità di servizio o caritative; c) comunità vicine al movimento carismatico o alle apparizioni di Medjugorie.

In Italia le nuove comunità a carattere monastico-religioso (studiate da Torcivia: v. bibl.) sono numerose, sicuramente oltre 40, e le più note, oltre quella di Bose, sono la Piccola Famiglia dell’Annunziata, fondata tra il 1953 e il 1954 da Giuseppe Dossetti; i Memores Domini, fondati nel 1964 a Gudo Gambaredo da don Luigi Giussani; i Frati Minori Rinnovati, fondati a Palermo nel 1972; la Fraternità di Gesù, fondata nel 1972. Tra le comunità di servizio (caritativo e missionario) figurano: la Comunità di Villapizzone, fondata a Milano alla fine degli anni ’60; la Piccola Opera di San Giuseppe, fondata a Pavia nel 1971; la Comunità Emmanuel, fondata a Lecce.

Tra le comunità che hanno le loro radici in un movimento spirituale figurano la Fraternità Francescana di Betania, legata al movimento carismatico, fondata dal cappuccino p. Pancrazio Gaudioso; e la Comunità Mariana Oasi della Pace, legata a Medjugorie e fondata dal passionista Gianni Sgreva. Anche per quanto riguarda l’approvazione da parte della autorità ecclesiastica, le nuove comunità italiane hanno seguito l’orientamento generale.

Considerando le difficoltà di tenere uniti in un corpo unico consacrati, consacrate e sposati, gradatamente le nuove comunità hanno separato gli sposati dal gruppo centrale dell’istituto, considerandoli come una specie di terz’ordine o associazione che segue gli orientamenti del gruppo, ma non è equiparata ai consacrati intesi in senso stretto. In questo senso si sono orientati già alle origini i “Monaci del Padre”, e poi un po’ tutte le nuove fondazioni, particolarmente dopo la dichiarazione di Vita consecrata (n. 62) che riaffermava come gli sposati non potessero essere considerati consacrati.

Considerando che la Congregazione per gli Istituti di vita consacrata e le società di vita apostolica avrebbe mosso difficoltà alla loro approvazione, nonostante l’esistenza del canone 605 del Codice di diritto canonico che prevedeva il riconoscimento di nuove forme di vita consacrata, diverse nuove comunità hanno preferito chiedere l’approvazione al Pontificio consiglio per i laici.

La prima nuova comunità, con possibilità di vita comune, con attività apostolica e con impegni (castità, povertà e obbedienza) molto vicini a quelli dei consacrati, a chiedere l’approvazione al parte del Pontificio Consiglio per i laici è stata “Seguimi”, fondata a Roma nel 1965 dal p. Anastasio Gutiérrez e da Paola Majocchi, che ottenne l’approvazione pontificia definitiva nel 1984. Sulla sua scia si posero altre fondazioni, come l’Opera di Maria (Focolarini), i Memores Domini e la Comunità Missionaria di Villaregia.

Altre comunità, che desideravano invece avere un riconoscimento dalla Congregazione per gli istituti di vita consacrata e le società di vita apostolica, quindi come consacrati (come la Fraternità Francescana di Betania e la Comunità mariana Oasi della Pace), sono rimasti a livello diocesano, anche perché non tutte le questioni circa la nuove comunità sono state risolte (ad es., il carattere misto delle comunità e la possibilità che la carica di superiore generale possa essere affidata a una donna, anche se in comunità ci sono sacerdoti). Attualmente, delle circa 800 nuove comunità sparse nel mondo solo 7 hanno ricevuto l’approvazione pontificia da parte della Congregazione per gli istituti di vita consacrata come “Altri istituti di vita consacrata”, e nessuna di essi è italiana.

Fonti e Bibl. essenziale

G. Rocca, Bibliografia generale sulle nuove comunità, in Id., ed., Primo censimento delle nuove comunità, Roma, Urbaniana University Press, 2010, 327-344. Per alcune comunità: E. Bianchi, Bose, in DIP 1 (1974) 1533-1537; R. Meridiani, Monaci del Padre, ivi, 6 (1980) 23-25. Studi: G. Rocca, Nuove forme di vita consacrata: le nuove comunità, in Informationes SCRIS 30 (2004/2) 87-126; G. Ghirlanda, Iter per l’approvazione degli istituti di vita consacrata a livello diocesano e pontificio e delle nuove forme di vita consacrata, in Periodica 94 (2005) 621-646; R. Fusco – G. Rocca, edd., Nuove forme di vita consacrata, Roma, Urbaniana University Press, 2010. Statistiche e censimenti: A. Favale, Movimenti ecclesiali contemporanei. Dimensioni storiche, teologico-spirituali ed apostoliche, Roma, LAS, 19914; B. Zadra, I movimenti ecclesiali e i loro statuti, Roma, Pontificia Università Gregoriana, 1997; M. Torcivia, Guida alle nuove comunità monastiche italiane, Casale Monferrato, Piemme, 2001; G. Rocca, ed., Primo censimento delle nuove comunità, Roma, Urbaniana University Press, 2010.


LEMMARIO




Oratori - vol. II


Autore: Angelo Manfredi

L’oratorio moderno, come forma popolare di dialogo tra Chiesa e mondo dei ragazzi e dei giovani, ha origine da due galassie di iniziative radicate nella Chiesa post tridentina, con radici certamente risalenti all’età dell’umanesimo: le “scuole della Dottrina Cristiana” di Milano, sostenute soprattutto dall’arcivescovo Federico Borromeo, e gli “oratori” animati dai seguaci di Filippo Neri, che da Roma si diffusero in varie città d’Italia. Si trattava sostanzialmente di modalità per accompagnare l’impegno di formazione catechistica dei ragazzi a iniziative aggregative-espressive, in particolare nel versante musicale. Mentre le “scuole” milanesi ebbero rilevanza locale, i filippini diffusero il loro modello in alcune città della penisola.

Il XIX secolo mise alcune Chiese italiane di fronte alle questioni dell’urbanizzazione e della primissima industrializzazione, con il conseguente abbandono dei piccoli da parte dei genitori-lavoratori o con le forme di lavoro minorile. In queste città, prevalentemente del nord Italia, si misero in moto figure di educatori e iniziative che in vari modi finirono per richiamarsi all’antica immagine di “oratorio”. I contatti tra questi padri fondatori provocarono reciproche influenze e contaminazioni: ad esempio don Bosco e gli oratori milanesi, il Murialdo e i patronati veneziani; non va dimenticato un certo influsso di analoghe iniziative di origine francese. I poli di accensione più importanti del fenomeno si riconducono a Torino con Giovanni Bosco, Leonardo Murialdo e la singolare figura di Giovanni Cocchi; a Milano con la ripresa e la moltiplicazione degli oratori tradizionali in città; nel bresciano con il modello dell’oratorio cittadino della “Pace” e l’azione del barnabitaFortunato Redolfi; a Venezia con il sorgere e il diffondersi anche in terraferma dei “patronati”. I governi, sia quello Sardo che il Lombardo-Veneto, diedero un certo sostegno alle iniziative, considerate in un’ottica paternalistica.

Negli ultimi decenni dell’800 questi diversi modelli varcarono gli ambiti territoriali d’origine. L’oratorio milanese fu sostenuto dall’arcivescovo Andrea Carlo Ferrari, prese piede in provincia e, grazie a una lettera collettiva dei vescovi lombardi (1899) e all’impegno di quasi tutti i capi delle diocesi, in alcuni decenni determinò il sorgere di un oratorio per ogni parrocchia, perfino nelle più piccole; il che portò alcune tensioni tra questi oratori parrocchiali e gli antichi oratori “cittadini” come per il caso di Lodi. I salesiani cercarono di affiancare a ciascuna loro fondazione l’oratorio festivo, in più di cento città o centri di medie dimensioni; però spesso le esigenze dei collegi finirono per mortificare l’impegno originario per l’oratorio, nonostante le ripetute ammonizioni dei responsabili della congregazione. Il sostegno offerto dal Murialdo ai patronati veneti portò a una certa diffusione anche in Emilia. La disuguale geografia dell’oratorio in Italia si riproduce, con qualche limitato spostamento, fino ai giorni nostri: altissima densità in Lombardia, presenza dei patronati in Veneto, media presenza nelle altre regioni del nord, oratori salesiani e di altre congregazioni nel centro sud, soprattutto nelle città. In parallelo e nelle stesse aree, varie congregazioni religiose femminili di vita attiva fecero sorgere oratori femminili, con una certe disomogeneità di stili educativi ma con una sintonia di fondo.

Le diverse tradizioni oratoriali ebbero modo di incontrarsi e dialogare in alcuni congressi: Brescia (1895), Torino (1902), Faenza (1907), Milano (1909), Torino (1911), Cagliari (1921). Si tentarono le prime forme associative, tra le quali la Federazione Oratori Milanesi (FOM, 1913) fu quella con maggior futuro. Soprattutto la Lombardia e il Veneto innestarono nell’oratorio una certa sensibilità sociale, già percorsa dal Murialdo: formazione al risparmio, garanzia verso i contratti e le condizioni di lavoro.

Con una certa dose di semplificazione, pur nelle tradizioni e sensibilità differenti si potrebbe identificare in questo momento un modello base d’oratorio: un “direttore”, sacerdote, coadiuvato da pochi responsabili adulti, religiosi a loro volta oppure laici quasi “professionalizzati” (prefetti, cooperatori), a fronte di centinaia di bambini generalmente dai 6 ai 12/14 anni. Qualche studioso definisce giustamente questa forma il modello “patriarcale”. Di fronte a questa struttura, emergevano già a fine ‘800 nei dibattiti alcune questioni: anzitutto, il ruolo e il possibile inserimento negli oratori dell’associazionismo giovanile che faceva capo alla Società della Gioventù Cattolica, con notevoli tensioni tra direttori d’oratorio e responsabili sacerdoti e laici di AC. In secondo luogo, a questi oratori nati per ospitare soprattutto piccoli studenti e apprendisti, e anche “bambini di strada”, non era facile la frequenza per adolescenti studenti e giovani, e il modello della “Pace” di Brescia, con la compresenza e la distinzione tra l’oratorio e il “circolo studenti”, era una possibile soluzione. Infine, il diffondersi del teatro popolare e dello sport moderno richiedeva una continua e talvolta tormentata ricerca di equilibrio tra le forme aggregative popolari e i tempi di formazione catechistica. Tra le strade battute, in primo luogo dai salesiani ma con altre esperienze legate al clero secolare, per rivolgersi a studenti delle scuole superiori e dell’università, vanno menzionate le “scuole di Religione”, veri corsi di formazione teologica-apologetica.

Le vicende delle prima guerra mondiale e della presa di potere del fascismo, mentre posero alla Chiesa italiana con forza la “questione giovanile” e misero in pericolo le realtà associative, ebbero una relativa influenza sulla realtà oratoriana, che però dovette rinunciare alla sensibilità di tipo sociale là dove era diffusa e si trovò a dover limitare le attività sportive, rigidamente controllate dal regime. Gli oratori che avevano sviluppato un certo contatto col mondo dei giovani (18-30 anni) in vari casi videro esperienze di pastorale dei militari e divennero i depositari simbolici delle memorie dei tanti caduti.

Il secondo dopoguerra invece fu un tempo di più gravi scosse per le strutture e per le tradizionali metodologie oratoriale. I danni dei bombardamenti e l’utilizzo degli spazi per gli sfollati posero gli stabili oratoriali in condizioni d’emergenza. La successiva ondata di urbanizzazione soprattutto nei centri a più alta densità di oratori (Lombardia e Torino) spinsero a una diffusione massiccia di queste realtà aggregative nelle nuove periferie, con uno sforzo economico parallelo a quanto si fece per le nuove chiese. Riprese soprattutto in Lombardia la sensibilità sociale degli oratori, a volte informali uffici di collocamento, ed esplose lo sport popolare, con squadre oratoriane che scalavano i campionati nazionali.

Da Brescia partì il tentativo di dare una forma associativa alle diverse realtà oratoriane diffuse in Italia, e nel 1963 nacque l’Associazione Nazionale San Paolo Italia, che si proponeva pure come interfaccia tra gli oratori e le autorità civili. Non tutti i mondi oratoriani però si raccolsero nell’ANSPI, anzi la FOM di Milano e il mondo salesiano rimasero totalmente indipendenti. Con il consolidarsi, pur tra tensioni interne, dell’associazionismo giovanile dell’AC di Gedda, ritornò sul tappeto la questione del rapporto tra oratori e GIAC. Il modello impostato a Milano dall’arcivescovo A. I. Schuster e continuato dal successore G. B. Montini, l’oratorio era per tutti e l’associazione per “i migliori”. Altrove invece le sezioni dell’Azione Cattolica trovarono la loro sede naturale nell’oratorio, il cui direttore era pure assistente associativo, così come negli oratori parrocchiali lombardi si aveva la sede delle attività catechistiche, con interessanti sperimentazioni, mentre non mancarono le tensioni tra oratori salesiani e parrocchie sulla responsabilità ultima della formazione cristiana dei bambini.

Soprattutto in ambito milanese, con qualche esperienza in altre diocesi lombarde, gli anni ’50 vedono il dibattito e la sperimentazione di luoghi specificamente rivolti ad adolescenti e giovani, chiamati “centri giovanili” o “case della gioventù”, con esiti più o meno efficaci nel tempo. Chi studia questa fase del rapporto tra Chiesa italiana e giovani pone il problema dell’effettiva capacità delle comunità, e in particolare degli oratori, di comprendere i dinamismi delle società italiana del dopoguerra. In effetti si ha l’impressione di un mondo legato a salde tradizioni ma in difficoltà nell’ampliare la lettura della società al di là di un approccio moralistico quando non politico. Questo ritardo sembra colpire in modo particolare il mondo degli oratori femminili.

La scuola media unificata, il diffondersi della frequenza degli adolescenti alla scuole superiori, i primi segni di un’università di massa, dimensioni vissute ovviamente con ritmi diversi a seconda dei territori, impongono agli oratori una forma che sovverte il modello “patriarcale”: non più il “direttore” che impronta con la propria sensibilità educativa tutto il cortile, ma un oratorio pieno di adolescenti e giovani, che assumono responsabilità soprattutto sul versante formativo, anzi sono i protagonisti del “rinnovamento della catechesi” post-conciliare, ma che chiedono di avere un peso decisionale. E’ l’oratorio “giovanile” degli anni ’60-’80, del boom demografico e della entusiasta ricezione del Vaticano II, con una “crisi di crescita” generazionale che vide anche i gruppi giovanili degli oratori coinvolti in vari modi e gradi nella contestazione, ma che trovò sia il mondo oratoriano che quello associativo capaci di integrare ancora numeri consistenti negli anni ’80. E’ il periodo in cui le vecchie “colonie” estive si trasformano nei “Grest” con una proposta educativa sempre più studiata e il coinvolgimento della fascia degli adolescenti come “animatori”, e nei “campi-scuola”.

Questa fase espansiva e di trasformazione subisce una progressiva messa in crisi dovuta all’avanzare dei fenomeni di distacco dalla pratica religiosa ma anche al brusco calo della natalità e alla trasformazione dei ritmi di vita dei giovani. Silenziosamente viene meno il mondo degli “oratori femminili” sia per l’esigenza recente di educare insieme gli adolescenti e i giovani di entrambi i sessi, sia per il calo di personale e di presenza delle congregazioni religiose femminili. Mentre diverse realtà tentano sperimentazioni sul versante del tempo libero, della musica, dello sport, anche nelle regioni dove la presenza del sacerdote in oratorio è consolidata il calo delle vocazioni pone il problema delle responsabilità educative. Qua e là ci si domanda se l’oratorio abbia un futuro, ma sembra che si stia delineando un nuovo modello, con un ruolo delle famiglie, e anche di operatori professionali. Intanto sia una legge nazionale (2003) che alcune disposizioni regionali (Lombardia, Abruzzo e Lazio 2001, Piemonte 2002, Puglia 2003, Liguria 2004, Valle d’Aosta 2006, Marche 2008, Sardegna 2010) riconoscono formalmente gli oratori come attori dell’impegno educativo nella società. Nel 2003 nasce il Forum Oratori Italiani (FOI) come realtà di rappresentanza delle diverse tradizioni oratoriane verso la società e gli enti pubblici.

Si attendono studi più complessivi sul fenomeno oratoriano, in vista di una sintesi che mostri la rilevanza storica degli oratori in Italia. Certamente l’oratorio è una forma di pastorale popolare con una capacità di risonanza e di coinvolgimento di tutti gli strati della società. Giustamente Caimi (2006, 382) afferma che “oratori e associazioni giovanili hanno rappresentato una tessera rilevante del cammino della Chiesa in Italia: senza la loro vitalità e il loro contributo nell’àmbito della formazione, l’intera esperienza della comunità ecclesiale sarebbe rimasta notevolmente depotenziata” e sottolinea la necessità, per chi volesse fare una storia dei giovani in Italia, di non trascurare l’apporto di queste strutture all’aggregazione e alla formazione della gioventù.

Fonti e Bibl. essenziale

E. Apeciti, L’oratorio ambrosiano da san Carlo ai giorni nostri, Milano (Ancora) 1998; G. Barzaghi, Tre secoli di storia e pastorale degli oratori milanesi, Leumann (LDC) 1985; P. Braido, L’oratorio salesiano in Italia. “Luogo” propizio alla catechesi nella stagione del Congressi (1888-1915), in “Ricerche storiche salesiane” 24 (2005)/1, 7-87; P. Braido, L’oratorio salesiano vivo in un decennio drammatico (1913-1922), in “Ricerche storiche salesiane” 24 (2005)/2, 224-243; L. Caimi, Cattolici per l’educazione. Studi su oratori e associazioni giovanili nell’Italia unita, Brescia (La Scuola) 2006; E-state in oratorio/2. La formazione e la sussidiazione per gli Oratori estivi e i Cre-Grest lombardi, (Gli sguardi di ODL, 4), Bergamo (Oratori Diocesi Lombarde) 2007; Le Figlie di Maria Ausiliatrice in Italia (1872-2010). Donne nell’educazione. Documentazione e saggi, a cura di Gr. Loparco e M. T. Spiga, Roma (LAS) 2011; F. Frassine, Riverisco, sior Cürat. Appunti per un iter storico sull’Oratorio bresciano nel XX secolo, Brescia (COB) 2002; G. Gregorini, Gli oratori, in A servizio del Vangelo. Il cammino storico dell’evangelizzazione a Brescia. 3: l’età contemporanea, a cura di M. Taccolini, Brescia (La Scuola) 2005, 297-306; Salesiani di don Bosco in Italia. 150 anni di educazione, a cura di Fr. Motto, Roma (LAS) 2011; G. Vecchio, Gli oratori milanesi negli anni della ricostruzione: tradizione e novità, in “Bollettino dell’Archivio per la storia del movimento sociale cattolico in Italia” 29 (1994), 413-420; G. Vecchio, Per una storia dell’oratorio a Milano e in Lombardia, in Educare i giovani alla fede, Milano (Ancora) 1990, 69-77.


LEMMARIO




Oratori e Compagnie - vol. I


Autore: Stefano Tessaglia

L’Umanesimo e il Rinascimento costituiscono un momento importante anche per la storia della chiesa, come preparazione e passaggio dall’epoca medievale all’età moderna. Nasce, a partire dal XIV-XV sec., un nuovo clima religioso e spirituale che parte dagli ambienti colti (in sintonia, soprattutto in Italia, con lo spirito umanistico) ma che poi ridonda fecondo anche a livello popolare, nell’azione caritativa e di culto. Molti gruppi, prevalentemente formati da laici, si ritrovano nei centri urbani a studiare e a meditare la Scrittura, animati da una sincera volontà di approfondimento spirituale e di santificazione personale.

È questa l’epoca in cui si ricercano da più parti soluzioni alla rilassatezza della fede religiosa e dei costumi, anche nel clero: sorgono nuovi ordini o si cerca di ricondurre la vita dei conventi al rigore della origini. In quest’ottica nascono le “osservanze”, movimenti di riforma dall’interno degli stessi conventi (domenicani, francescani, ecc.), con la finalità di riportare la vita religiosa all’osservanza della regola originaria. Nel corso del XVI sec., dopo la riforma protestante e il concilio di Trento (1545-1563), nascono nuovi ordini di cosiddetti “chierici regolari” (teatini, barnabiti, gesuiti, somaschi, ecc.) che, riuniti in comunità da una regola e sotto un superiore, si dedicano all’apostolato, allo studio e alla formazione.

A partire dal XIV sec., una nuova tendenza, comunemente nota con il nome di “devotio moderna”. Si tratta di un vasto movimento spirituale, originario del Nord Europa e dal rapido successo, che chiama ogni cristiano a condurre una vita di fede profonda, basata su una devozione personale interiore ed affettiva, non senza qualche eccesso di sentimentalismo. Questo nuovo genere di devozione prevede inoltre un programma pratico e metodico di atti di preghiera, di meditazione e di lettura della Bibbia.

Tale clima di risveglio coinvolge secondo aspetti molto diversificati tutta l’Europa che precede e segue Lutero, il concilio di Trento e le riforme, e vede nascere spontanei (e poi via via più disciplinati dopo il concilio) anche variegati movimenti di laici, che si impegnano nelle opere caritative e nella formazione spirituale, ma anche nella riforma della Chiesa.

In tutta Italia si fondano oratori, congregazioni, compagnie della carità e della dottrina cristiana, secondo tipologie e denominazioni molto varie: confraternitas, fraternitas, schola, consortium, congregatio, societas, universitas, amicitia, ecc.

Si tratta in ogni caso di piccole comunità che hanno come soggetto i laici: il clero è presente, ma in forma aggregata, per la predicazione e l’amministrazione dei sacramenti. Le iniziative sono varie e comprendono manifestazioni di culto (processioni, messe perpetue, novene, ecc.); fondazione di “luoghi pii” per l’assistenza dei bisognosi o di “fabbriche” per la manutenzione di edifici di culto; unioni a scopo di mutua assistenza tra i membri; formazione personale e pratiche penitenziali.

Ricordiamo in questo senso le confraternite legate agli ordini mendicanti (in specie ai domenicani) sorte a Bologna, a Firenze e in altri centri; l’Oratorio di S. Girolamo fondato a Vicenza da Bernardino da Feltre (1439-1494), con l’impegno per i sodali di visite settimanali ai poveri e malati, in collegamento con l’ospedale della Misericordia; la Pia opera di Santa Corona (1497) del domenicano Stefano da Seregno; le Compagnie della Carità (1519) del card. Giulio de’ Medici (1478-1534), futuro papa Clemente VII; ma anche gruppi devoti di studio della Scrittura come quello fondato a Venezia da Paolo Giustiniani (1476-1528) e dai suoi compagni di università Vincenzo Quirini (1479-1514) e Gaspare Contarini (1483-1542).

Nel contesto della riforma cattolica italiana spicca senza dubbio l’Oratorio o Compagnia del Divino Amore, che si raccoglie a Genova attorno a Caterina Fieschi (1447-1510), nobildonna dedita a una vita di preghiera, penitenza e carità. Caterina, indotta da una rivelazione mistica ad abbandonare l’esistenza mondana avviata col marito, dal 1473 intraprende una vita di carità, giungendo ad essere a capo della sezione femminile dell’ospedale del Pammatone (Genova), e distinguendosi per l’abnegazione dimostrata durante le pesti del 1497 e del 1501. A partire dal 1497, su iniziativa del suo discepolo Ettore Vernazza (1470ca-1524), inizia ad operare la Compagnia del Divino Amore, insieme con quella del Mandiletto, i cui aderenti sono impegnati, con discrezione e conservando l’anonimato, a portare aiuti alle famiglie indigenti.

La Compagnia si dedica, secondo un programma stabilito e con un numero definito di membri (trentasei laici e quattro presbiteri, per un totale di quaranta componenti), alla formazione e santificazione personale, secondo una devozione intensa e rilevanti attività caritative, in particolare l’assistenza ai malati più gravi e agli “incurabili”. Il Divino Amore ha una rapida diffusione e l’esperienza genovese si trasferisce poi in altre città italiane, tra cui Savona, Bologna, Vicenza, Verona, Padova e Venezia. L’oratorio di Roma, forse il più importante e sorto intorno al 1515, insieme con quello Napoli (1518), assume un rilievo speciale, con l’impegno per gli associati della partecipazione frequente all’eucarestia, confessione, comunione almeno mensile, digiuno settimanale, preghiera personale e visite agli infermi più gravi e abbandonati. Da questo gruppo romano passano anche Gian Pietro Carafa (1476-1559), futuro papa Paolo IV, e Gaetano da Thiene (1480-1547), poi fondatori dei Teatini, con altre importanti personalità della riforma ecclesiastica.

Provenendo da questa esperienza, il sacerdote Bartolomeo Stella († 1554) fonda a Brescia nel 1521 un ospedale per gli incurabili, collegato ad un circolo di laici (tra cui alcune donne e Angela Merici) e denominato “Amicitia” (1525), identico nome scelto da Antonio Maria Zaccaria (1502-1539) per il gruppo di fedeli cremonesi associati con lui.

In seguito, presso l’Oratorio dell’Eterna Sapienza di Milano (importante ma poco duratura esperienza di oratorio, 1500-1530), lo Zaccaria con alcuni membri dà vita alla Compagnia dei Figlioli e delle Figliole di Paolo Santo, una formazione religiosa originale, formata da tre collegi, uno di sacerdoti, uno di religiose e uno di laici. Nascono così i Barnabiti, preti di vita austera dediti all’attività pastorale (approvati da Clemente VII nel 1533) e insieme con loro, riunite attorno alla nobile Ludovica Torelli (1500-1569), vi sono appunto un collegio di donne (le Angeliche), non legate alla clausura e consacrate all’azione apostolica tra il popolo, nonché un gruppo di persone sposate, chiamate appunto i “maridati”.

Un’altra iniziativa importante, nata a Milano ma in seguito divenuta esperienza diffusa, è quella della Compagnia della Dottrina cristiana, fondata nel 1536 presso l’oratorio della chiesa dei Santi Giacomo e Filippo dal sacerdote Castellino da Castello (1476ca-1566), già membro dell’Opera di Santa Corona. Insieme con un gruppo di laici, egli riunisce ragazzi (e ragazze) delle classi più disagiate, insegnando loro a leggere e scrivere, per poi proseguire con un’istruzione propriamente religiosa, anche grazie ad un catechismo in forma di domande e risposte da lui stesso composto. Scuole di questo genere non esistono all’epoca e l’iniziativa incontra presto grande favore, estendendosi rapidamente (nella sola Milano si contano trenta scuole): al gruppo originario si aggiungono molti collaboratori e sono aperte nuove sedi, con l’ammissione anche di adulti. Per organizzare ed amministrare questa imponente attività lo stesso Castellino dà vita, nel 1539, ad una confraternita che diffonde l’esperienza delle scuole in tutto il Nord Italia, cercando di rispondere al problema dell’istruzione religiosa popolare affrontato anche dal concilio di Trento. Lo stesso card. Carlo Borromeo, alla morte del fondatore, prende a cuore e consolida le Compagnie della Dottrina Cristiana, emanando nuove Costituzioni (1569).

Del tutto singolare e feconda di ulteriori sviluppi, sia in ambito laicale che clericale, è l’attività avviata a Roma dal fiorentino Filippo Neri (1515-1595).

Uomo intensamente impegnato in una ricerca spirituale personale, egli compie esperienze di vita eremitica ma anche di attività caritativa e collabora a Roma alla fondazione della Confraternita della Santissima Trinità (1548) per l’accoglienza dei migliaia di pellegrini che giungevano a Roma in occasione di solennità e specialmente di giubilei.

Divenuto sacerdote Filippo Neri si dedica al ministero pastorale (in specie come confessore) e successivamente dà vita, con alcuni dei suoi fedeli e penitenti, all’iniziativa dell’Oratorio presso la chiesa di S. Girolamo della Carità (poi in S. Maria in Vallicella), dando subito prova della sua particolare vocazione insieme mistica e pratica, ascetica e attiva.

Nato e modellato dal carattere gioviale ed aperto del suo fondatore, l’Oratorio si configura immediatamente come momento di sano impiego del tempo libero per un gruppo di giovani e di uomini, ma anche come luogo di formazione, alternativo all’ozio borghese, attraverso letture e conversazioni spirituali. La formula raccoglie un rapido consenso, i fedeli crescono e le iniziative si diversificano: visite culturali e devote (di grande diffusione è quella alle “sette chiese” di Roma), conferenze (celebri quelle di Cesare Baronio sulla storia della chiesa), pratica della musica e del canto, nonché altri “onesti divertimenti”.

Successivamente, quest’esperienza di formazione laicale si diffonde in altre città e, nell’ambito dell’Oratorio romano, prende forma (con bolla di Gregorio XIII del 1575) anche una congregazione religiosa (Oratoriani o Filippini) che già informalmente si era riunita attorno a Filippo Neri e si inserisce nella prospettiva del rinnovamento spirituale e pastorale del clero. Si verifica così, come in molti casi, che le iniziative di rinnovamento laicale, la riforma del clero e i nuovi modi di vita religiosa, si legano e si integrano a vicenda pro reformatione Ecclesiae Dei in capite et in membris.

Fonti e Bibl. essenziale

A. Bianconi, L’opera delle Compagnie del “Divino Amore” nella Riforma Cattolica, Lapi, Città di Castello 1914; P. Paschini, Le Compagnie del Divino Amore e la beneficenza pubblica nei primi decenni del Cinquecento, in Tre ricerche sulla storia della Chiesa nel Cinquecento, Edizioni Liturgiche, Roma 1945, 3-88; M. Marcocchi, La Riforma Cattolica: documenti e testimonianze, 2 voll., Morcelliana, Brescia 1967-1970; M. Petrocchi, Storia della spiritualità italiana. II. Il Cinquecento e il Seicento, Ed. Storia e Letteratura, Roma 1978; G. G. Meersemann – G. P. Pacini, Le confraternite laicali in Italia dal quattrocento al seicento, in AA.VV., Problemi di storia della chiesa nei secoli XV-XVII, Ed. Dehoniane, Napoli 1979, 109-136; M. Marcocchi, Per la storia della spiritualità in Italia tra il cinquecento e il seicento, in AA.VV., Problemi di storia della chiesa nei secoli XV-XVII, Ed. Dehoniane, Napoli 1979, 223-265; A. Cistellini, Figure della riforma pre-tridentina, Morcelliana, Brescia 1979; A. Cistellini, San Filippo Neri, l’Oratorio e la Congregazione oratoriana. Storia e spiritualità, 3 voll., Morcelliana, Brescia 1989; A. Bianchi, Le scuole della dottrina cristiana: linguaggio e strumenti per un’azione educativa “di massa”, in F. Buozzi – D. Zardin (edd.), Carlo Borromeo e l’opera della “grande riforma”. Cultura, religione e arti del governo nella Milano del pieno Cinquecento, Milano 1997; D. Solfaroli Camillocci, I devoti della carità. Le confraternite del Divino Amore nell’Italia del primo Cinquecento, Ed. La Città del sole, Napoli 2000.


LEMMARIO




Ordini mendicanti - vol. I


Autore: Felice Accrocca

Gli Ordini mendicanti ebbero origine variegata: Domenico di Calaruega dette subito ai Frati Predicatori una chiara impronta apostolica, a differenza di Francesco d’Assisi, che nel Testamento vietò ai Frati Minori di richiedere privilegi in funzione di una loro azione pastorale; Carmelitani e altri gruppi che poi confluiranno a formare l’Ordine agostiniano spiccavano, invece, per una chiara impronta eremitico-contemplativa. Nondimeno, anche per il chiaro indirizzo impresso dalla Sede Apostolica, in breve finirono tutti per omologarsi e la scelta della povertà sia personale che comunitaria, la vita in fraternità, l’apostolato attivo in ambito urbano, l’impegno intellettuale e l’insegnamento divennero denominatori comuni.

Frati Predicatori e Minori ebbero origine sotto Innocenzo III, ma una loro conferma da parte pontificia si ebbe solo con Onorio III, che nel 1216 prese sotto la protezione di san Pietro la chiesa di S. Romano di Tolosa e nel 1223 approvò la Regola di Francesco. Fu però Gregorio IX il primo papa a scommettere con determinazione sulle nuove formazioni religiose, immettendole sempre più nell’attività pastorale. Il vero motivo del loro successo fu la scelta della città quale campo di apostolato, una scelta alla quale il monachesimo – per sua natura – non poteva far fronte; inoltre gli Ordini mendicanti avevano una struttura di governo centralizzata, ciò che consentiva loro di muoversi con un’agilità e un’efficacia superiore rispetto al passato. All’inizio il pontefice sembrò assegnare campi diversi ai due Ordini: ai Minori prevalentemente la riforma all’interno della Chiesa, ai Predicatori la lotta antiereticale. Ben presto, però, i piani finirono per incrociarsi e sovrapporsi e tanto i Predicatori quanto i Minori furono impegnati nell’attività inquisitoriale.

Sotto i pontificati di Innocenzo IV e Alessandro IV assunsero forma definitiva anche le altre famiglie mendicanti. Alcuni eremiti stabilitisi sul monte Carmelo ricevettero un propositum vitae da Alberto, patriarca di Gerusalemme, tra il 1206 e il 1214; l’Ordine della Beata Vergine Maria del Monte Carmelo fu confermato poi da Onorio III il 30 gennaio 1226. Emigrata in Occidente a motivo dell’incertezza politica dominante nella regione, la piccola famiglia ricevette una configurazione mendicante da Innocenzo IV, che nel 1247 ne adattò la Regola.

Pure l’Ordine degli Eremitani di sant’Agostino ebbe origine da diversi gruppi eremitici dell’Italia centro-settentrionale. Sollecitato anche dalla richiesta di alcuni di essi, il 16 dicembre 1243 Innocenzo IV decretò l’unione (lettera Incumbit nobis) sotto la Regola di Agostino, di vari gruppi di eremiti toscani. Sostenuta dal favore della Sede Apostolica, la nuova famiglia ricevette forma definitiva sotto Alessandro IV, con la Magna unio del 1256 (lettera Licet Ecclesiae Catholicae), che raggruppò gli Eremitani di sant’Agostino e di san Guglielmo, gli eremiti di Brettino e di Montefavale e il gruppo degli eremiti di Giovanni Bono (Guglielmiti ed eremiti di Montefavale, tuttavia, finiranno per seguire presto vie proprie).

Impronta eremitica, con forti venature pauperistiche, aveva in origine anche l’Ordine dei Servi di Maria, sorto per iniziativa di un gruppo di laici (i sette santi fondatori), appartenenti a una formazione penitenziale sulla quale aveva esercitato il suo influsso il domenicano Pietro da Verona (†1252). Approvati in un primo momento da legati di Innocenzo IV (1249-1250), furono poi confermati dallo stesso pontefice (1251-1252) e, in seguito, da Alessandro IV (1256).

Pure i Servi di Maria, come già i Domenicani, adottarono la Regola di Agostino, alla quale affiancarono proprie costituzioni: fu però la legislazione domenicana a fare scuola, influendo sulla legislazione dei nuovi Ordini religiosi. L’impronta domenicana sugli altri Mendicanti fu evidente anche nell’ambito della vita liturgica e dell’organizzazione degli studi. Nel terzo quarto del Duecento, mentre gli Ordini ‘maggiori’ sostenevano una difficile battaglia contro il clero secolare, anche gli Ordini ‘minori’ s’inserirono sempre più nell’attività pastorale: la tensione crebbe, al punto che si rese necessario affrontarla espressamente in un Concilio ecumenico.

Nel 1274 il Concilio di Lione II decretò quindi la soppressione di tutti gli Ordini sorti dopo il Concilio Laternanense IV (1215) privi di conferma pontificia e la naturale estinzione di altri che pure l’avevano ricevuta: tuttavia, in ragione della loro “manifesta utilità” per la “Chiesa universale”, tali decisioni non riguardarono Frati Minori e Frati Predicatori, insieme ai quali riuscirono a sopravvivere anche Carmelitani ed Eremitani di S. Agostino che – dopo un’iniziale sospensione – ottenennero l’approvazione da Bonifacio VIII nel 1298. Dal loro canto, i Servi di Maria – non nominati nei decreti del II Concilio di Lione – furono definitivamente approvati da Benedetto XI nel 1304 (lettera Dum levamus): a quel tempo l’Ordine contava 31 conventi, 27 dei quali nel centro e nel nord Italia.

Chiusa positivamente la lunga battaglia per l’esistenza, gli Ordini mendicanti poterono finalmente dispiegare la propria attività d’insegnamento, di predicazione, di ministero pastorale, con una presenza nel territorio che – soprattutto per l’ampia diffusione del mondo francescano – non ha avuto eguali tra le altre famiglie religiose. Nella seconda metà del ’200 crebbe anche il loro inserimento nella gerarchia ecclesiastica, al punto che i Predicatori, con Innocenzo V (1276), e i Minori, con Niccolò IV (1288), salirono sulla cattedra di Pietro.

Ordine dei Predicatori. Impegnati principalmente nello studio e nell’insegnamento, i frati s’inserirono in tutti i campi correlati a tale attività: alla metà del Duecento erano già dispersi in ogni parte d’Europa (occidentale e orientale), dell’Africa del Nord, del Medio Oriente, dell’Asia; nel 1303 l’Ordine contava circa 10.000 frati, distribuiti in 590 case, divise tra 18 province. Teologi domenicani furono protagonisti nelle sedute dei grandi Concili, composero opere di grandissima diffusione (si pensi, ad esempio, allo Speculum Historiale di Vincenzo di Beauvais e alla Legenda aurea di Jacopo da Varazze o alle opere di Domenico Cavalca e Jacopo Passavanti), guidarono l’attività inquisitoriale, motivo quest’ultimo, di frequenti ostilità e ritorsioni nei loro confronti. Una chiara rappresentazione della raggiunta autocoscienza dell’Ordine si ha nell’esaltazione che ne fece Andrea di Bonaiuto nell’affresco della Chiesa militante e trionfante in S. Maria Novella a Firenze: i frati domenicani (cani bianchi pezzati in nero: domini canes) difendono il popolo cristiani (agnelli) dalla minaccia degli eretici (lupi).

La difficile situazione della Chiesa nel Trecento, aggravata dalla peste nera e culminata nello Scisma d’Occidente, segnò anche la vita dei Predicatori, con un allentamento della vita comunitaria e della pratica della povertà, minacciata soprattutto dal diffondersi di varie forme di possesso individuale. Sotto il governo di Raimondo da Capua (†1399), discepolo prima ancora che direttore spirituale e confessore di Caterina da Siena, prese avvio un’attività di riforma che in Italia trovò concreta attuazione con l’opera di Giovanni Dominici (1357-1419). Le decisioni di Sisto IV (1475 e 1478), poi confermate dal Concilio di Trento, disciplinarono infine la pratica della povertà, escludendo ogni proprietà privata e concedendo invece ai conventi di possedere beni e rendite fisse.

La lotta contro il luteranesimo impegnò notevoli energie nel corso del ’500, evidenziando le doti di molti polemisti; tutto ebbe evidenti contraccolpi nelle aree d’infuenza della Riforma, con una drastica riduzione della presenza domenicana nelle province del centro e del nord Europa. Spina dorsale dell’Ordine rimasero dunque italiani e spagnoli, che improntarono l’espansione missionaria del nuovo mondo (spagnoli) e diedero un contributo notevole al Concilio di Trento, favorendo anche la diffusione della dottrina ivi definita con il Catechismo Romano.

Nell’epoca post-tridentina l’Ordine raggiunse la sua massima espansione numerica, anche se le pressioni delle potenze e dei governi secolari, oltre all’accanirsi di dispute dottrinali interne alla Chiesa, non giovarono troppo alla vita spirituale. Immune dalle soppressioni che investirono gran parte d’Europa nella seconda metà del ’700, in Italia l’Ordine non riuscì ad evitare la soppressione napoleonica, mentre si accendeva un’altra questione che avrebbe potuto minarne l’unità: Pio VII, infatti (lettera Inter graviores, 1804), sottoposto alla pressione del re di Spagna, per consentire l’alternanza di spagnoli e ‘romani’ alla guida suprema dell’Ordine, aveva portato a 6 anni la durata in carica del maestro generale, che fino a quel momento era stata a vita; la scissione fu tuttavia evitata e nel 1872 Pio IX revocò la lettera del suo predecessore.

Ordine dei Minori. Dopo il 1274 crebbe il dibattito interno in merito alla fedeltà dei frati alla volontà del fondatore, sfociato poi in aspri conflitti sotto il pontificato di Giovanni XXII (1316-1334). La lotta interna si trasformò infine in una lotta con il papato quando Giovanni XXII dichiarò (lettera Cum inter nonnullos, 1323) eretica la tesi dell’assoluta povertà di Cristo e degli Apostoli: le più alte gerarchie dell’Ordine, che in precedenza avevano condannato le insubordinazioni degli Spirituali, si ribellarono quindi apertamente al pontefice alleandosi con la fazione imperiale di Ludovico il Bavaro.

Queste evidenti difficoltà non devono comunque far dimenticare che, grazie al coraggio di grandi missionari (Giovanni da Pian del Carpine era giunto in Asia molto prima di Marco Polo), l’Ordine si era ormai ramificato in tutto il mondo allora conosciuto: secondo il Provinciale vetustissimum, nel 1334 contava 35 Provincie, 5 Vicarie, quasi 1.500 conventi. Intanto riprendevano vigore le antiche inquietudini degli Spirituali – elemento ricorrente della storia francescana –, nel movimento dell’Osservanva, che riuscì a trovare positiva accoglienza grazie anche a una serie di fattori concomitanti, non ultimi gli sconvolgimenti prodotti dalla grande peste del 1347-1350, interpretata da molti come un segno apocalittico. Alla morte di Paoluccio Trinci (1309-1391), iniziatore del movimento, la ‘riforma’ Osservante contava ancora poche decine di religiosi: all’inizio essa aveva optato per l’eremo, ma in seguito s’immerse decisamente nelle realtà urbane, grazie soprattutto alla svolta impressa da Bernardino degli Albizzeschi (1380-1444), che nel 1412-1413 lasciò l’eremo del Colombaio presso Siena, per gettarsi a capofitto nella predicazione.

Gli Osservanti conquistarono pian piano la loro autonomia dal resto dell’Ordine (Conventuali). Divisi in due Vicarie (Ultramontana e Cismontana), erano presieduti da due vicari generali, che dovevano però essere confermati dall’unico ministro generale dell’Ordine: tale situazione fu definitivamente varata da Eugenio IV (lettera Ut sacra, 1446), sotto il cui pontificato l’Osservanza fu colmata di una serie impressionante di privilegi. I Conventuali tentarono di reagire e la situazione sembrò ribaltarsi al tempo di Sisto IV (1471-1484), papa proveniente dalle loro stesse fila. Tuttavia, grazie anche al favore di cui godeva presso vari principi, l’Osservanza riuscì a resistere e d’allora in poi furono i Conventuali a doversi difendere. In effetti, fu soprattutto per la capacità di espansione dell’Osservanza che il francescanesimo impresse la propria orma sulla vita religiosa e sociale del ’400 (rilevante, in proposito, l’invenzione dei Monti di Pietà e dei Monti frumentari).

Infine sotto Leone X, nel 1517, si giunse alla definitiva separazione tra Conventuali e Osservanti (lettera Ite vos, eufemisticamente detta ‘bolla di unione’). Eppure anche nell’Osservanza covava, da tempo, un moto d’insoddisfazione che portò alla nascita della riforma dei “Frati Minori della vita eremitica”, detti poi Cappuccini, sanzionata da Clemente VI nel 1528 (lettera Religionis zelus). In seguito e ancora a lungo (fino al XIX secolo) si diffusero inquietudini all’interno dell’Osservanza e degli stessi Conventuali che portarono allo sviluppo di altri gruppi di riforma, dando vita a tensioni evidenti.

I Conventuali, mortificati dalle decisioni del 1517, dovettero subire nuovi colpi nel corso del XVI secolo: nel 1566 e 1567 Pio V, dietro petizione dei rispettivi sovrani, soppresse l’Ordine in Spagna e in Portogallo, incorporandolo all’Osservanza. Il papa conventuale Sisto V (1585-1590) cercò di aiutarli come poté, anche sostenendo i vari tentativi di riforma, e per questo offrì protezione ai Conventuali riformati, che però nel secolo seguente vennero definitivamente soppressi. Nel 1625 il Capitolo generale promulgò delle nuove Costituzioni, poi confermate da Urbano VIII nel 1628, che ressero l’Ordine per lungo tempo, conferendogli la sua moderna fisionomia. Fedeli alla propria tradizione, i Conventuali si distinsero negli studi.

I Cappuccini, nel Capitolo romano del 1536 vararono le Costituzioni che – con successivi aggiustamenti – rimasero in vigore per oltre quattro secoli. Dopo un inizio di vita eremitica, l’Ordine s’immise più decisamente nell’apostolato; superate le difficoltà determinate dall’apostasia di Bernardino Ochino, nel 1564 ottenne un proprio cardinale protettore, cessando infine di dipendere dal maestro generale dei Conventuali nel 1619. Suoi principali settori di apostolato furono la predicazione e il ministero del confessionale, grazie ai quali conquistò fiducia, simpatia e stima in larghe fasce di popolazione. All’inizio sospettosa verso gli studi, la riforma cappuccina finì pian piano per condividere – almeno su questo aspetto – le tesi degli Osservanti.

Nel complesso, i francescani non furono mai così numerosi come nel XVIII secolo, ma le ricorrenti tensioni interne e un evidente rilassamento (comune a tutte le famiglie) produssero anche germi di dissoluzione. La minaccia più grande, tuttavia, giunse dall’esterno: le soppressioni napoleoniche e le esclaustrazioni di epoca liberale produssero una drastica riduzione del numero dei frati e danni incalcolabili al patrimonio, anche librario e documentario.

Ordine degli Eremitani di sant’Agostino. Grazie al cardinale Riccardo Annibaldi, che per un trentennio fu la vera guida dell’Ordine, gli Agostiniani s’erano insediati a sud di Roma sin dal 1273. Con Niccolò IV, poi con Celestino V e Bonifacio VIII essi guadagnarono progressivamente l’esenzione dagli ordinari diocesani, completata infine da Clemente VI (lettera Ad fructus uberes, 1347). Nel 1295 l’Ordine contava già 16 province, che nel 1329 erano salite a 24, con una diffusione che abbracciava tutta l’Europa, la Terra Santa e le isole del Mediterraneo. Gli Eremitani si dedicarono soprattutto all’attività intellettuale, grazie anche all’influsso esercitato, fra XIII e XIV secolo, da Egidio Romano (†1316). La crisi del Trecento non risparmiò l’Ordine, generando però anche energie riformatrici: a partire dal 1387, alle province si affiancheranno le congregazioni, che finirono per raggrupparsi in congregazioni di Osservanza e di Scalzi.

Alla grande peste fece seguito (ma fu problema comune a tutti gli Ordini mendicanti) una poco vigile accoglienza dei nuovi candidati; la difficile situazione della Chiesa, vessata dallo scisma, finì per rendere tutto più difficile, al punto che i priori generali si decisero a rendere indipendenti dai singoli provinciali le congregazioni di Osservanza, sottomettendole al loro governo diretto: inutilmente Eugenio IV tentò di riunirle sotto la guida di un unico rettore. Nonostante la crisi, non mancarono figure di alto livello culturale, come l’umanista Andrea Biglia (†1435 ca.); in quegli anni consumò la sua vicenda terrena Rita da Cascia (†1456), il cui culto ha conosciuto una straordinaria diffusione in Italia.

I secoli XVI-XVIII furono caratterizzati invece da un’invidiabile fioritura, non solo numerica: fra 1650 e 1750 gli Agostiniani, compresi gli Osservanti, avevano in Italia oltre 800 insediamenti; alla metà del secolo XVIII l’Ordine contava oltre 20.000 frati, più di un terzo in Italia. A dispetto delle tensioni con il resto dell’Ordine, ebbe una grande diffusione la riforma degli Scalzi, i quali emettevano un quarto voto di “umiltà”: eretta a Napoli nel 1593, s’irradiò anche nell’Europa centro-orientale. Le soppressioni ottocentesche decimarono gli Agostiniani, che alla fine del secolo erano ridotti del 90% rispetto a poco più di cent’anni prima.

Ordine della Beata Vergine Maria del monte Carmelo. L’Ordine fu definitivamente confermato da Bonifacio VIII (1298) e Giovanni XXII (1317 e 1326). Alla crisi del ’300 seguì il fiorire dei movimenti di riforma, tra i quali si distinse la congregazione poi detta Mantovana, che ebbe anche notevoli dispute con i priori generali e fu poi riunita all’Ordine da Pio VI (1783); notevole attività riformatrice esplicò anche il priore generale Giovanni Soreth (†1471): i diversi tentativi, proseguiti nel secolo seguente da alcune grandi figure di priori generali, faticarono tuttavia a produrre frutti duraturi.

Esplose quindi la riforma teresiana: nel 1562 Teresa d’Avila (1515-1582) fondò il primo monastero di Carmelitane Scalze, maturando l’idea di avere dei frati idonei alla guida spirituale delle sue monache; nel 1568 fu così inaugurato il conventino di Duruelo, presso Avila, che ebbe tra i primi abitatori il giovane sacerdote Giovanni della Croce (1542-1591). Gli Scalzi acquisirono progressivamente la loro autonomia fino a raggiungere la completa separazione nel 1593 (ratificata da Clemente VIII con la lettera Pastoralis officii). Ideali riformatori continuarono ad agitare anche il resto dell’Ordine, dando vita ad alcune riforme, che in Italia presero piede in Sicilia (1619, riforma del Primo Istituto o di Monte Santo), a Napoli (1631, riforma di S. Maria della Vita), Torino (1633, riforma di Piemonte o di Torino), Siracusa (1724, riforma di S. Maria Scala del Paradiso).

Nel 1584 gli Scalzi penetrarono in Italia, a Genova; nel 1597 si aggiunse un’altra comunità a Roma: i due conventi furono da Clemente VIII (breve Sacrarum Religionum) esentati dalla giurisdizione dei superiori e sottomessi direttamente alla Sede Apostolica. Tre anni dopo il medesimo pontefice trasformò i conventi italiani in una congregazione indipendente, la cosiddetta Congregazione d’Italia, che nel 1617 contava già 6 province, 3 delle quali in Italia, e nel 1631 vide approvate le sue costituzioni da Urbano VIII. Essa raggiunge la sua massima espansione alla metà del ’700 (oltre 4.000 frati), momento in cui si evidenziarono anche segni di affievolimento, poi seguiti dalla dura fase delle soppressioni.

Il mondo carmelitano, segnato da una chiara devozione verso la Madre di Dio, ha impresso un’orma non lieve nella spiritualità del popolo cristiano.

Ordine dei Servi di Maria. Approvato definitivamente nel 1304, l’Ordine dei Servi conobbe una fase di espansione nei secoli successivi, come risulta dal catalogo del 1580, che enumera 1818 frati divisi in 241 conventi, 227 dei quali sul suolo italiano. Nella crisi generale del ’300, tentativi di riforma partirono dai priori generali Pietro da Todi (1314-1344) e Andrea da Faenza (1374-1396). Si dovette però attendere il Capitolo generale del 1404 e l’azione del priore generale Niccolò da Perugia (1427-1461) per avere un’azione più incisiva con la nascita della congregazione dell’Osservanza (approvata da Eugenio IV nel 1440), che si sviluppò soprattutto nel nord Italia non senza contrasti con il resto dell’Ordine, detti Conventuali: alla fine del secolo, l’Osservanza vide comunque diminuire il suo fervore; nel secolo successivo nacquero perciò nuove riforme, non solo in seno all’Osservanza, ma anche tra i Conventuali.

Dal secolo XIV si assistette anche ad una progressiva marginalizzazione dei non sacerdoti, fino alla loro completa esclusione dai Capitoli. Ai campi di lavoro consueti a tutti gli altri Mendicanti, i Servi aggiunsero come proprio segno distintivo il servizio ai santuari mariani e l’impegno in alcune attività caritative; inoltre, la spiritualità mariana accentuò il culto dell’Addolorata. Intorno al 1750 l’Ordine contava 15 province (3 negli stati austro-ungarici), 225 conventi, 2731 religiosi: alla fine del secolo seguente i frati erano invece 359, divisi in 53 conventi.

La storia degli Ordini mendicanti in Italia registra delle costanti. Alla lotta per l’esistenza, vinta con il decisivo sostegno del papato, fece seguito una prima espansione; sopraggiunsero poi la crisi del ’300, le riforme di Osservanza, l’espansione dei secoli XVII-XVIII, la drastica riduzione seguita alle soppressioni.

I Mendicanti hanno impresso un’orma marcata nella storia della Chiesa e della società italiana: la loro capillare dislocazione sul territorio ha influito sull’architettura e la topografia di città e paesi incrementandone il patrimonio artistico, mentre l’apporto dato dai frati alle diverse arti è stato notevole. A livello religioso, si è poi rivelato determinante il loro contributo alla predicazione, all’insegnamento, al ministero della confessione e della direzione spirituale. Infine, pagine di straordinario interesse, purtroppo non sempre facili da documentare, sono state scritte dai frati laici, che hanno inciso tra il popolo non meno dei sacerdoti: a motivo della questua, essi entravano infatti in tutte le case, offrendo a gente di ogni ceto una prima rudimentale catechesi, alleviando molte sofferenze, guadagnando ai diversi Ordini un gran numero di vocazioni.


LEMMARIO




Ordini mendicanti - vol. II


Autore: Giuseppe Buffon

Denominazione e statistiche. L’appellativo ‘Ordini mendicanti’, inizialmente attribuito ai soli Predicatori, o Domenicani OP, ai Frati Minori OFM, agli Agostiniani OSA e ai Carmelitani O.CARM, in seguito viene applicato anche ad altri istituti religiosi, quali: i Gesuati (1567), i Servi di Maria OSM (1567), i Minimi OM (1567), i Trinitari O.SS.T (1609), i Fatebenefratelli OH.FBF (1624) i Mercedari ODM (1690), i Penitenti di Gesù Nazareno (1784), l’Ordine teutonico (1929). Nell’annuario pontificio del 1978, ne vengono enumerati addirittura diciassette, inclusi Conventuali OFMConv, Cappuccini OFMCap, Terz’Ordine Regolare (TOR), Agostiniani Recolletti, Agostiniani Scalzi OAD, Carmelitani Scalzi OCD, Mercedari Scalzi.

Ordine prov mem com par. Ordine prov mem com par
OP 3 359 38 16 OCD 7 465 60 18
OFM 18 2142 281 165 O.SS.T 2 98 16 10
OFMConv 12 909 134 96 ODM 1 130 13 15
OFMCap 21 2277 283 148 OSM 3 293 40 24
TOR 2 82 19 14 OM 3 90 26 16
OSA 1 157 27 23 OH.FBF 2 83 19 0
OAD 1 42 13 6 Totale 7489 1005 573
O.CARM 3 370 36 22

Leggenda: prov= provincia/custodia/commissariato; mem= membri; par= parrocchie.

Buffon

Fonte = Conferenza italiana superiori maggiori CISM, Annuario statistico 2012, Roma 2012

Riforma di Pio IX a favore della selezione dei candidati e della vita comune. Tra i fautori della riforma dei regolari voluta da Pio IX con l’istituzione della nuova congregazione sullo stato dei regolari (7.10.1846), si distingue il cappuccino p. Giusto da Camerino, che lo stesso pontefice designa quale braccio destro di mons. Andrea Bizzarri, l’abile segretario del nuovo dicastero, promosso in seguito cardinale. Il p. Giusto insignito a sua volta del titolo cardinalizio offre il suo apporto determinate soprattutto a favore dell’introduzione del triennio di voti semplici, a vantaggio di una migliore selezione dei candidati, provvedimento che incontra forti resistenze anche nel collegio cardinalizio, a motivo del ritardo delle ordinazioni che priva delle entrare dovute agli onorari di messe. In rapporto all’altro importante provvedimento di riforma, cioè l’obbligo della vita comune, Pio IX ascolta in modo particolare l’allarme lanciato dal neo ministro generale del minori, Venanzio da Celano, da lui stesso investito dell’ufficio generalizio. È ancora il p. Venanzio a stimolare l’accordo tra gli altri ministri generai con l’obiettivo di rivolgere un appello al card. Antonio Orioli, prefetto della congregazione dei Vescovi e Regolari (VVRR), con la richiesta di un interveto energico a favore della vita comune. Il ministro minorita e il vicario generale dei domenicani, Vincent Jandel – questi pure scelto direttamente dal pontefice – saranno tra i più convinti patrocinatori della riforma della vita comune, elemento distintivo dei Mendicanti, tanto da diventare bersaglio di dure reazioni da parte dei loro confratelli e rimanere questione irrisolta fino al 1920.

Soppressioni, tra polemiche e provvedimenti di confisca. I Mendicanti e non solo i gesuiti vengono presi di mira dalla classe politica italiana che vota le leggi per la soppressione dei regolari (7.7.1866). I francescani, ad esempio, vengono stigmatizzati per il pauperismo, tramite il quale essi sarebbero colpevoli di fomentare l’accattonaggio. Ai domenicani invece viene attribuito il marchio di eredi dell’inquisizione, emblema dell’oscurantismo cattolico. Esponenti dell’aristocrazia borghese adombrano l’eventualità che la vita comunitaria assunta da francescani e cappuccini favorirebbe lo sviluppo del comunismo. Soltanto tra i moderati alcuni, come, ad esempio, Ruggero Bonghi, futuro biografo di S. Francesco, indica nell’opzione mendicante e in particolare francescana il modello per una percorribile ‘via media’ tra le soluzioni estreme prospettate da comunismo e capitalismo. A tirare un duro colpo alla vita dei Mendicanti, più ancora della polemica anti religiosa, sono soprattutto i provvedimenti contro la personalità giuridica dei religiosi, con i quali si decreta estinto ogni loro diritto di proprietà. Le statistiche elaborate dalla congregazione dei VVRR documentano tramite cifre eloquenti l’entità del danno che la confisca dei conventi arreca, ad esempio, all’ordine dei conventuali, del quale si computano ben 990 dispersi, o a quello degli agostiniani che ne calcola 450. I religiosi, demandati alla custodia di chiese, rappresentano un numero assai esiguo; la maggioranza infatti si rifugia presso parenti o amici, oppure alloggia in locali presi in affitto. Altri, soprattutto tra agostiniani e domenicani, trovano occupazione nei seminari quali insegnati, altri ancora in maggioranza francescani, ottengono dai vescovi l’ufficio di parroco. Le conseguenze della soppressione dei Mendicanti per le visite pastorali rivestono particolare gravità per le popolazioni dell’Italia meridionale, dove la cura pastorale riposa più che sulle strutture parrocchiali sull’impegnano dei regolari.

Lenta e laboriosa ricostruzione. La legge italiana sulla soppressione delle corporazioni religiose in realtà non nega loro in senso assoluto il diritto di associazione, ossia la possibilità di condurre vita comune. Non tutti però riescono a cogliere l’opportunità per una ripresa. I francescani siculi, ad esempio, vi intravedono con soddisfazione l’espediente per riacquistare libertà; altri si lasciano cogliere da avvilimento per l’ozio forzato, altri ancora cadono preda dello sconforto per l’incertezza del futuro. Solo in pochi seguono l’esempio del domenicano Agostino Marchi, il quale conserva intatto l’ottimismo per la ripresa futura. Si distinguono nell’opera di ricostruzione ministri generali quali, ad esempio, il minore Bernardino da Portogruaro, il minore conventuale Lorenzo Caratelli, il domenicano Giuseppe Sanvito, il carmelitano Girolamo Gotti, i quali intraprendono una capillare iniziativa di animazione dei confratelli, incitando i migliori a riprendere, nella misura del possibile, la pratica religiosa. Si formano così comunità clandestine che avviano una certa vita di preghiera, la pratica della povertà, e col tempo riprendono anche l’uso dell’abito monastico. La resistenza di molti religiosi ad accettare l’invito dei superiori a far ritorno alla vita regolare è attestato da statistiche, dalle quali si apprende come, ad esempio, i cappuccini, nel 1860 computati con la cifra di 8563, nel 1885 risultino dimezzati (4567). I più intraprendenti si presentano alle aste con un nome fittizio allo scopo di ricomprare i conventi grazie alla generosità di qualche benefattore. Avviene così, che anche i cappuccini riescono a recuperare in vari modi parte del loro patrimonio. I carmelitani acquistano con un prestanome il loro antico convento di s. Torpez (Pisa) nel 1873 e nel 1884 entrano in possesso della loro antica casa generalizia. Il convento di S. Dominano ad Assisi trova un acquirente nell’inglese Lord Ripon, di religione protestate e dichiaratamente anticattolico, il quale lo mette a disposizione dei suoi antichi inquilini.

Reclutamento, formazione e studi. A dare nuovo avvio non solo sul piano materiale bensì intellettuale, pastorale e spirituale ai Mendicanti si rende necessaria una inedita struttura di reclutamento che non si avvalga più di ceti medio – alti, come accadeva nelle epoche passate, bensì di rampolli della classe popolare. I minori, ad esempio, diedero vita a sistemi di probandato, detti collegi serafici, che ospitavano ragazzi di 14-16 anni orientati alla vita religiosa, fornendoli di nozioni di latino, grammatica, letteratura, canto. L’iniziativa rappresentava il tentativo di educare la gioventù ai valori cristiani, prima che il contatto con ambienti educativi avversi alla fede e ostili alla chiesa potessero distoglierli all’orientamento alla vita cristiana ed edentulamente religiosa. L’educazione intellettuale dei nuovi aspiranti continuava poi con l’istruzione superiore per la quale si istituirono seminari e facoltà teologiche. L’insegnamento teologico necessitava però di riferimenti a contenuti di provata scientificità, ed è questa la ragione per cui anche i Mendicanti si impegnarono a produrre edizioni critiche dei testi scritti dai propri teologi. I domenicani istituirono la commissione leonina per l’edizioni delle opere di S. Tommaso, i francescani fondarono a Quaracchi presso Firenze un collegio per le edizioni critiche di S. Bonaventura. Successivamente venne istituita la commissio scotista per le edizioni degli scritti di Giovanni Duns Scoto, già venerato quale cultore dell’Immacolata. Gli studi intorno alle fonti biografiche di S. Francesco e la conseguente riscoperta dei suoi scritti generarono controversie e discussioni intorno alla interpretazione dell’identità del santo, la cosiddetta ‘questione francescana’.

Fondazione di congregazioni femminili. Il fenomeno correlato alla nascita e allo sviluppo delle congregazioni femminili ispirate ai Mendicanti tra XIX e XX secolo risulta senza dubbio determinate per il processo di modernizzazione della vita religiosa, intesa nelle sue componenti ideologiche, istituzionali ed apostoliche. Procedendo con un raffronto tra i dati numerici relativi alle congregazioni di terziarie riscontriamo per le francescane ca. 70 nuovi istituti, per le domenicane 25, per le carmelitane 15, per le agostiniane appena 4. In rapporto alla povertà, da sempre ritenuta la specificità mendicante, queste istituzioni dimostrano una differenziazione interpretativa. Alcune, nel fervore iniziale, ritengono che l’ideale della povertà evangelica debba essere tradotto mediante la pratica della questua. Altre in modo più permanente ritengono invece che tale principio possa essere stimato come ‘lavoro assiduo e disinteressato’. Per altre ancora si tratterebbe di un servizio ai poveri, ai più poveri o ai lebbrosi. Come si può notare, si passa da una interpretazione della povertà come pratica ascetica – la questua –, in linea con la tradizione controriformistica, ad una sua lettura in termini non solo di azione apostolica, ma addirittura di concezione di vita, intesa nei canoni della professionalità.

Scuole di spiritualità. Nella linea delle scuole di spiritualità emergente nel primo ventennio del XX secolo troviamo notevoli accentuazioni relative all’impostazione spirituale francescana, che viene proposta tramite le biografie di S. Francesco, i suoi scritti, correlati specialmente alla devozione eucaristica, e agli approfondimenti di testi bonaventuriani e di altri scrittori; incrociamo quindi quella domenicana, che si rende nota tramite le figure di S. Domenico, di S. Tommaso e di S. Caterina da Siena, nonché con la preghiera del rosario; infine ci imbattiamo in quella carmelitana, che esprime attenzione prevalente verso S. Teresa, S. Giovanni della Croce e S. Teresa di Lisieux. In questa letteratura si manifesta anche un tentativo di confronto tra le differenti spiritualità, in particolare tra la francescana e la domenicana. Da questo paragone, si deduce che i francescani, in virtù dell’impatto mediatico sortito dal loro fondatore fin dalle origini, avrebbero goduto di una peculiarità esclusiva. Essi, già con le prime numerose biografie del fondatore, si sarebbero avvalsi di lui per confezionare la propria, per così dire, carta da visita. L’espediente biografico avrebbe incontrato successo negli ultimi tempi, grazie ai contributi al genere storico offerti in Italia tanto dagli emuli del Sabatier quali ad esempio Ruggero Bonghi, quanto da suoi oppositori.

Francesco d’Assisi e Caterina da Siena patroni d’Italia (1939). Nel 1939 vengono proclamati patroni d’Italia S. Francesco d’Assisi e S. Caterina da Siena. L’avvenimento è preceduto e seguito da cerimonie pubbliche, atti di culto ed avvenimenti artistici che mutuando antichi simboli di una religione civica servono a tessere la trama di un Paese che da un patriottismo venato di polemica anticlericale evolve verso eccessi di nazionalismo, fino a un vero e proprio imperialismo coloniale e totalitario. La santità medicante di Caterina e Francesco, già effigiata nel mosaico della cripta di S. Lorenzo che accoglie le spoglie di Pio IX, si dimostra funzionale nei confronti sia del fascismo, che nella Roma pontificia esibisce un emblema del suo nazionalismo imperialistico, sia delle gerarchie ecclesiastiche paghe di avere risolto la questione romana con l’imposizione al governo italiano di un concordato, a garanzia di una nuova cristianità. Il più santo degli italiani e il più italiano dei santi, Francesco, riceverà onori ufficiali e soprattutto pubblici pari alla popolarità della sua fama, con l’innalzamento della statua bronzea sulla piazza del Laterano, a conclusione delle celebrazioni del centenario della morte (1226), mentre la fama di Caterina non esce dai circuiti di elite culturali affezionate alla sua religiosità civica tutta senese.

Istituti secolari e devozione a Cristo Re. Di religione civica si deve assolutamente parlare in rapporto alla devozione a Cristo Re, propaggine sì del culto al Sacro Cuore già in voga durante il secolo precedente, ma rispetto alla pietà forgiata dai gesuiti maggiormente debitrice della predicazione mendicante dell’umanesimo rinascimentale. Il suo principale patrocinatore è infatti papa Ratti, che a sostegno del suo ideale di cristianità vede con favore l’iniziativa del francescano Agostino Gemelli, fondatore dell’Università cattolica, nella quale per ordine di scuderia si pratica il neotomismo lovaniense, mentre per convinzione, anzi per passione, si persegue l’obiettivo del ritorno al medievismo, ossia alla società cristiana tenuta a battesimo dagli Ordini mendicanti. In vista di un tale scopo, il neo convertito dal socialismo anticlericale, Gemelli, progetta l’identità di nuovi fratres, che dovranno essere ora dei laici, semplicemente donne e uomini senza segni religiosi, secolari al tal punto da essere perfino anonimi, cioè le missionarie e i missionari dell’Istituto della Regalità, francescani contro la moderna eresia del secolarismo laicista e pagano sostenuto dal totalitarismo. La sua proposta trova numerosi e validi aderenti, tra i quali ricordiamo Luigi Gedda, Giuseppe Dossetti, Giorgio La Pira, Giuseppe Lazzati. Il medesimo ideale attrae anche un folto gruppo di donne, affascinate dalla tenace femminilità di Armida Barelli, già vice presidente generale dell’Unione fra le Donne cattoliche d’Italia (1917), quindi vice presidente generale dell’Azione cattolica italiana (1946).

Pastorale parrocchiale e missioni popolari. L’impegno pastorale espletato in epoca moderna nella predicazione, nella pratica sacramentale (confessioni), nell’insegnamento, nell’assistenza, durante il corso del secolo XIX e specialmente del XX, conosce un campo di apostolato del tutto inedito. Il ministero parrocchiale, prima a lungo rifiutato o accettato solo parzialmente dai conventuali e dai carmelitani (sec. XIII) e poi dagli agostiniani (sec. XVI), ora diventa appetibile e quasi ambíto anche da domenicani, minori e cappuccini, diventando così indicatore di una svolta verso un inserimento più deciso nella struttura della chiesa locale. Nelle facoltà e atenei pontifici diretti dai Mendicanti, in particolare all’Angelicum e all’Antonianum si introducono corsi, poi interi dipartimenti, di scienze sociali e di eloquenza. Cappuccini e minori si impegnano nel rinnovamento della predicazione e soprattutto delle missioni popolari, che diventano organismi per la purificazione della devozione popolare e dopo il Vaticano II sprone alla comunione ecclesiale. Negli anni 1970, anche le congregazioni femminili aderiscono all’iniziativa delle missioni al popolo, le quali nel frattempo si specializzano creando modalità adatte alla evangelizzazione del mondo operaio, urbano e delle periferie, con forme denominate di itineranza o di semipermanenza. Dagli anni 1980 la famiglia francescana conduce una riflessione affiancandosi a istituti moderni, quali redentoristi, passionisti, oblati ed altri che sul territorio italiano svolgono un ruolo preminente nel campo delle missioni al popolo.

Aggiornamento conciliare. Nel processo di rinnovamento della vita religiosa richiesto dal Concilio Vaticano II con l’appello a far ritorno all’ispirazione primigenia, al modello dei fondatori, si distinguano in modo particolare per laboriosità delle procedure intraprese, i minori, i cappuccini, gli agostiniani, in parte anche i carmelitani. Gli ultimi si sono trovati a chiarire il ruolo del fondatore, dovendo distinguere in questa funzione differenti componenti: l’ispiratore, il modello di virtù, il codificatore ecc. Gli agostiniani si sono impegnati intensamente per dimostrare l’esclusività della loro attinenza a S. Agostino, dato che la regola del vescovo di Ippona, lungo il corso della storia è stata assunta a riferimento normativo da parte di numerosi istituti religiosi. Cappuccini e frati minori, che a tempo debito rifiutarono il privilegio tridentino sulla proprietà in comune, durante il processo di aggiornamento, per rispondere ai tempi, giungono a ritenere necessario invece chiedere alla Sede apostolica l’abolizione delle dichiarazioni pontificie emanate nei secoli per regolamentare la tanto controversa prassi dell’uso dei beni.

Fonti e Bibl. essenziale

G. Buffon, Storia dell’ordine francescano. Problemi e prospettive di metodo, Roma, Storia e Letteratura, 2013; J. Gavigan, Los Agustinos desde la revolución Francesa hasta los tiempos modernos, Roma, Istitutum Historicum Prdinis Fratrum S. Augustini, 1999; W. Hinnebusch, I Domenicani-Breve storia dell’Ordine, Alba (CN), Paoline, 1992; L. Iriarte, Storia del francescanesimo, Napoli, EDB, 1982; G. Odoardi, Conventuali, Frati Minori Conventuali, in: Dizionario degli Istituti di perfezione, vol. 3, Roma 1976, coll. 1-94; G. Rocca, Tra Chiesa e Stato. La vita religiosa tra fine Ottocento e inizio Novecento, in Collectanea Franciscana 83/1-2 (2013), 5-24; ID., Donne religiose, Contributo a una storia della condizione femminile in Italia nei secoli XIX-XX, Roma 1992; J. Smet, The Carmelites: The modern period 1750-1950, Vol. IV, Darien (Illinois), Carmelite Spiritual Center, 1985.


LEMMARIO




Ordini militari - vol. I


Autore: Luigi Michele de Palma

La nuova esperienza di vita religiosa, nata all’indomani della prima crociata e accolta nella Chiesa cattolica tramite l’approvazione della regola dei Templari nel concilio di Troyes (1129), ebbe larga risonanza sul territorio italiano fra XII e XIII secolo. Nel frattempo era sorto l’Ordine italiano detto dei Giovanniti – o semplicemente Ospedalieri – la cui organiz­za­zione si deve a Gerardo (†1120); mentre l’Ordine dei Cavalieri tedeschi, o Ordine Teutonico, fu costituito in occa­sione della terza crociata – guidata da Federico Barbarossa – e con­fermato da Innocenzo III nel 1199. Furono numerosi i membri della famiglie aristocratiche, dediti al mestiere delle armi, i quali abbracciarono l’idea di porre la propria professionalità al servizio della fede, in difesa della Chiesa e in favore dei più indigenti. Essi considerarono confacente alla loro condizione di milites l’ingresso in un ordine religioso militare, entro cui non veniva modificato lo status di laici e, nello stesso tempo, era riconosciuta la loro attività militante come via di perfezione evangelica. La vocazione del frate cavaliere apriva la strada – specie per quanti avevano avuto un trascorso burrascoso – alla conversio, iniziava alla vita di penitenza e conduceva alla santità anche attraverso il “martirio”. Essa rappresentava la natura religiosa e cristiana del novum militiae genus, elogiata da s. Bernardo nel De laude novae militiae, entro cui veniva chiamata a rispecchiarsi la nobiltà europea.

Il favore della Sede Apostolica e delle autorità politiche locali consentì il proliferare di numerosi insediamenti degli O.m. lungo la penisola italiana e la formazione di cospicui patrimoni, da cui gli O.m. traevano finanziamento e foraggiamento per le proprie attività in Terra Santa. Nella prima metà del XII sec. i Templari erano presenti nelle città costiere della Puglia ed anche a Messina, come pure a Venezia, a Genova e a Pisa, città di antica tradizione marinara. Nel secolo successivo le sedi templari si moltiplicarono fino a contarne almeno 150 e poco meno di un terzo nel Regno di Sicilia. È probabile che in origine le province italiane dell’ordine siano state costituite in Sicilia, in Puglia e in Lombardia. Inoltre, anche la militarizzazione di alcuni ordini ospedalieri, dediti prevalentemente all’assistenza dei pellegrini (ad es. l’Osp. di S. Giovanni di Gerusalemme, l’Osp. di S. Maria dei Teutonici, l’Osp. di S. Lazzaro), contribuì al diffondersi di case, ospedali, commende, precettorie e baliaggi nelle regioni italiane e in particolare lungo la via Francigena e sulle coste liguri e del basso Adriatico. Prettamente italiana è la fondazione dell’Ordine di S. Giacomo di Altopascio (Lucca), sorto presso un ospedale forse istituito – fra il 1070 e il 1080 – dalla contessa Matilde di Canossa. Nato come ordine ospedaliero (la prima notizia è del 1084) per volontà di 12 Lucchesi, i suoi frati si dedicavano all’assistenza dei pellegrini, alla cura delle strade e alla manutenzione dei ponti. Anch’esso, dopo l’approvazione della regola templare, si militarizzò e nel XII sec. si diffuse in varie zone dell’Italia, per poi, nel secolo successivo, estendere le proprie dipendenze (obedientie) in Spagna, Portogallo, Germania, Inghilterra e Francia. L’ordine venne soppresso dapprima da Pio II (1459) e definitivamente da Sisto V (1587), mentre i suoi beni ebbero differenti destinazioni.

Origini italiane ebbe anche l’Ordine dell’Ospedale di S. Giovanni di Gerusalemme. Frate Gerardo l’Ospedaliero, monaco amalfitano, gestiva l’ospedale benedettino, sito nell’area circostante il Santo Sepolcro denominata Mauristan (località di Mauro) e fatto edificare, fra il 1055 e il 1060, da alcuni mercanti di Amalfi insieme al monastero e alla chiesa di S. Maria Latina. Dopo la conquista di Gerusalemme (1099), Gerardo dette inizio alla costruzione di un nuovo e più grande ospedale congiunto alla chiesa di S. Giovanni Battista. Con Gerardo vivevano altri confratelli, probabilmente monaci o membri della familia monastica, i quali assicuravano il servizio all’interno dello xenodochio. Nel 1113 Pasquale II concesse a Gerardo il privilegium protectionis Beati Petri (Pie postulatio voluntatis), che poneva l’Ospedale al riparo da qualunque ingerenza, tanto ecclesiastica quanto laicale, e salvaguardava la sua condizione di autonomia. Rese, dunque, esente lo xenodochio gerosolimitano e indipendente il gruppo di frati, gettando le basi per la successiva trasformazione della fraternitas gerosolimitana in un ordine ospedaliero internazionale. L’Ospedale fu posto sotto la protezione della Sede Apostolica e il papa affiliò ad esso numerosi ospizi europei. Nonostante la resistenza di molti frati, gelosi del carattere ospedaliero dell’ordine, le esigenze dell’assistenza ai pellegrini e della difesa del Regno Latino di Gerusalemme determinarono la militarizzazione dell’Ospedale. Di conseguenza si accrebbe la componente aristocratica che diventò rapidamente preponderante in seno all’ordine.

Dopo la perdita di San Giovanni d’Acri (1291), ultimo caposaldo latino, gli O.m. dovettero abbandonare la Terra Santa e trasferire le proprie sedi conventuali. Nel frattempo, però, s’indeboliva la loro principale funzione, strettamente connessa alla Terra Santa e svaniva la speranza della riconquista, mentre si consolidava l’idea della difesa della cristianità dal pericolo turco (compresa la liberazione della penisola iberica), della propagazione della fede presso le popolazioni nordeuropee non ancora evangelizzate e della lotta contro gli eretici. I Teutonici si trasferirono a Venezia (1291-1309) e poi in Prussia, dove costituirono un principato ecclesiastico (Ordennsstat). Gli Ospedalieri di S. Giovanni, invece, conquistarono Rodi (1306-1309), sottraendola ai Bizantini, ed anch’essi dettero vita ad un principato ecclesiastico, indipendente dalle altre potenze politiche e sotto l’egida della Sede Apostolica. La metamorfosi salvò i due ordini dagli attacchi sferrati dagli stati europei contro gli O.m., i cui frati, lontani dalla Terra Santa, venivano considerati “imboscati”, mentre i loro beni attiravano l’avidità di alcuni sovrani. I primi a soffrirne le conseguenze furono i Templari, accusati di eresia e d’immoralità da Filippo il Bello, ma assolti da Clemente V e soppressi per via amministrativa (1312). Fra il 1308 e il 1311 si svolsero numerosi processi a carico dei Templari in Puglia, nelle Terre della Chiesa, in Abruzzo, in Toscana, nella Marca d’Ancona e nella provincia ecclesiastica di Ravenna, mentre a Messina e in Sardegna nessun Templare venne sottoposto alle inchieste. Soprattutto sui territori lontani dall’influenza francese l’esito dei processi andò a vantaggio dell’innocenza dei Templari.

Per disposizione papale, destinatario ed erede dei beni del Tempio fu l’Ospedale Gerosolimitano, sebbene gran parte delle proprietà templari fossero state sottratte dai principi ed anche dal papa. Tuttavia i Giovanniti raddoppiarono il loro patrimonio e soprattutto in Italia i beni dei Templari passarono all’Ospedale Gerosolimitano. Di fatto venne consolidata l’organizzazione dell’Ospedale sul territorio italiano, che contava 7 priorati (istituiti fra XII e XIII sec.: Lombardia, Venezia, Pisa, Roma, Capua, Barletta e Messina) e 130 commende, a cui si aggiungevano 4 monasteri femminili (Firenze, Genova, Penne e Pisa). Nel frattempo, però, continuava il declino degli O.m.: la cavalleria non era più la prestigiosa punta di diamante degli eserciti e i suoi membri avevano assunto le vesti dei cortigiani; l’aspirazione alla riconquista della Terra Santa era rimasta un sogno. Gli O.m. avevano perso la loro funzione originaria e vennero fagocitati dai principi, i quali ne laicizzarono la struttura e la composizione, ponendole alle loro dipendenze. Sul piano ecclesiale queste ingerenze politiche incontrarono spesso l’appoggio della Sede Apostolica, la quale, dinanzi al degrado dell’osservanza della disciplina, tentò più volte di sollecitare la riforma interna degli O.m. L’Italia fu interessata soprattutto agli interventi dei papi avignonesi nei confronti dell’Ospedale e durante lo scisma d’Occidente diventò teatro di una divisione dell’Ordine Gerosolimitano: Urbano VI nominò Gran Maestro Riccardo Caracciolo (1383-1395), riconosciuto dai priorati italiani, mentre il convento di Rodi restò obbediente a Juan Fernandez de Heredia e fedele a Clemente VII. A questa epoca risale il diffondersi di culti locali riservati a Giovanniti italiani ed entrati nel santorale dell’ordine: Nicasio (†1187, martire), Ugo Canefri (1168-1233), Gherardo Mecatti di Villamagna (1174ca-1264), Gerlando (†1271) Pietro Pattarini (1250-1320), nonché Ubaldesca Taccini (1136-1206) e Toscana (1280-[1343-1344]).

A Rodi l’Ospedale Gerosolimitano aveva costruito lo xenodochio e trasformato i suoi frati in esperti marinai, impegnati nella “guerra di corsa”: non era una guerra offensiva, bensì difensiva: una forma di rappresaglia contro quanti violavano le acque territoriali dell’isola, estremo baluardo della cristianità al confine con l’Islam. Il reclutamento dei frati cavalieri, provenienti da vari paesi europei, comportò l’organizzazione dell’Ospedale a seconda della nazionalità (“Lingue”) dei suoi membri. La Lingua d’Italia occupò un ruolo rilevante nell’organismo dell’ordine e per consuetudine ai frati italiani vennero riservate alcune alte cariche e ruoli istituzionali. Dopo il terzo assedio, caduta Rodi nelle mani dei Turchi (1522), i Giovanniti vagarono per sette anni alla ricerca di una sede del convento. Dapprima sostarono a Candia, a Messina e a Baia (nel golfo di Napoli), poi si stabilirono a Civitavecchia, a Viterbo e a Nizza (1528). Infine Carlo V donò all’Ospedale l’arcipelago maltese, feudo imperiale nel Regno di Sicilia. Da Malta, punto strategico all’incrocio delle rotte sul Mediterraneo centrale diventato principato dell’Ordine (1530), i Giovanniti ripresero la propria attività, svolgendo la funzione di polizia marittima in difesa dei territori del Regno. Anche su quest’isola venne edificato un ospedale, presso cui i frati cavalieri svolgevano il loro servizio di assistenza, e fu fondato un monastero di Giovannite.

Nel passaggio all’età moderna la crisi religiosa degli O.m. si accentuò maggiormente. Se i Teutonici subirono, in parte, l’influenza della riforma protestante e avviarono la secolarizzazione del loro principato e dell’ordine, a Malta i Giovanniti vissero momenti di tensione interna e seri tentativi di autoriforma. L’Ospedale Gerosolimitano continuava a godere del sostegno della Sede Apostolica e, di fatto, rimase l’unico ordine ospedaliero-militare a mantenere in vita l’antico ideale religioso del miles Christi e del servus pauperum. Tuttavia il modello degli O.m. continuò ad ispirare il sorgere di nuovi ordini. Il 1° ottobre 1561 Pio IV approvò l’Ordine di Santo Stefano, istituito da Cosimo I de’ Medici con sede a Pisa.Parallelamente si dette vita anche al ramo femminile con la fondazione dei monasteri di Firenze e di Pisa. Missione dell’ordine, secondo la volontà del fondatore, era la difesa del mare dalle scorrerie dei pirati berberi. Sebbene le regole ricalcassero la Regola benedettina e per un triennio i cavalieri – rigorosamente reclutati fra l’aristocrazia – dovessero risiedere nel convento per ricevere la necessaria istruzione militare, il sodalizio si presentava come un o.m. laico. I suoi affiliati, infatti, non professavano i classici voti dei religiosi, bensì quelli di carità, di castità coniugale (nel matrimonio religioso) e d’obbedienza agli ordini dei superiori. I cavalieri Stefaniani esaurirono il loro compito verso la metà del XVIII sec., sia per il superamento degli armamenti utilizzati dall’ordine sia per effetto dei trattati di pace stipulati dal Granduca di Toscana con i Turchi. Nonostante alcuni tentativi di riorganizzazione, l’ordine venne abolito dal governo francese nel 1809, ripristinato dal granduca Ferdinando III nel 1817 sotto forma di onorificenza, e definitivamente soppresso dal governo Ricasoli nel 1859.

La storia dell’ordine Stefaniano si sviluppò in controtendenza rispetto all’orientamento generale delle aristocrazie europee perché restò fedele all’ideale comune della cristianità e della mentalità medievale di combattere contro i nemici della fede. Durante l’età moderna l’esito di gran parte degli O.m. fu, se non l’estinzione, la secolarizzazione e la riduzione a mera onorificenza concessa dai principi. Gli stati moderni avevano esautorato le aristocrazie dalle loro funzioni politiche e, dimentichi dei comuni ideali religiosi, impegnarono la nobiltà militare nelle guerre fra cristiani. I sovrani trascuravano il loro dovere di difendere la cristianità dalle insidie degli infedeli e, nello stesso tempo, moltiplicavano le nobilitazioni.

Fino alla fine dell’età moderna, unico depositario dell’autentica tradizione dell’aristocrazia cristiana restò l’Ospedale di S. Giovanni di Gerusalemme, sulle cui navi, al confine centromediterraneo della cristianità, si continuava a combattere contro gli infedeli. Da Malta, con le sue leggi sovrane, l’ordine Giovannita tutelava la nobiltà generosa, garantiva la società nobiliare (soltanto chi apparteneva ad un’antica prosapia veniva ammesso nell’Ospedale e otteneva un riconoscimento internazionale della propria nobiltà) e costituiva un codice di comportamento applicato al modello del cavaliere cristiano. Il frate cavaliere “di Malta” incarnava nei tempi moderni l’idea antica dell’identificazione del nobile col miles Christi e, dunque, l’ideale della nobiltà cristiana, in buona parte rimosso dalle menti dei sovrani assoluti.

Il turbine rivoluzionario che attraversò l’Europa raggiunse anche Malta. L’isola venne occupata da Napoleone e l’ordine dovette abbandonare l’arcipelago (1798). Nonostante il passaggio di Malta nelle mani degli Inglesi, questi non restituirono le isole all’Ospedale e il gran maestro insieme al convento si trasferì temporaneamente a Messina, a Catania, a Ferrara e infine, definitivamente, a Roma (1834). Le soppressioni napoleoniche compresero anche gli insediamenti italiani maschili e femminili dell’Ospedale e vennero espropriati i possedimenti dei 7 priorati della Lingua d’Italia. Con la Restaurazione fu dapprima ricostituito il Gran Priorato di Roma (1816) e poi, tramite la fusione dei precedenti priorati, quelli di Lombardia e Venezia e di Napoli e Sicilia (1839).

Con la perdita di Malta cessò l’impegno bellico dell’ultimo o.m. rimasto attivo. Al suo interno si aprì una fase critica perché, dopo l’abdicazione del gran maestro von Hompesch, alcuni frati offrirono la suprema carica a Paolo I, zar di Russia (ortodosso e coniugato). Questi assunse di fatto il gran magistero, ma non venne mai riconosciuto dalla Santa Sede. Specialmente i Giovanniti italiani, obbedienti alle decisioni di Pio VII, sostennero la nomina di Giovanni Battista Tommasi, nuovo gran maestro (1803-1805). Ciò nonostante la crisi non fu superata e soltanto dopo una serie di luogotenenti di nazionalità italiana (1805-1879) Leone XIII ricostituì la carica di gran maestro, alla quale venne chiamato l’italiano fra’ Giovanni Battista Ceschi a Santa Croce (1879-1905), dando inizio ad un nuovo periodo di vita dell’Ospedale. Nel frattempo il calo vocazionale aveva ridotto il numero dei frati, mentre si accrebbe notevolmente il ceto dei cavalieri non professi. Tuttavia la Lingua d’Italia, con i suoi tre gran priorati, restò la componente nazionale, religiosa e laicale, più numerosa dell’ordine. L’antico ideale del miles Christi continuò ad essere alimentato in seno all’Ordine Gerosolimitano, ma subì un’ulteriore metamorfosi che mantenne lo stretto coniugio con lo spirito del servus pauperum. Pur conservando il tradizionale carattere militare e l’impegno della tuitio fidei, le attività dell’ordine si concentrarono sul settore ospedaliero e dell’assistenza agli indigenti e ai profughi nel caso di guerre, di terremoti o altri cataclismi, con la gestione di case di cura e ambulatori, nonché tramite l’accompagnamento degli ammalati presso vari santuari.

Fonti e Bibl. essenziale

Dizionario degli Istituti di Perfezione, VI, 796806; VIII, 462-5, 942-4; IX, 886-905; Prier et combattre. Dictionnaire européen des ordres militaires au Moyen Âge, Paris 2009, 47, 54, 84-5,123, 143-4, 164-5, 181, 188, 203-4, 325, 445-52, 473-6, 543, 553, 557, 576-7, 619, 620-1, 645-6, 677, 680-1, 687-8, 692-3, 710-1, 718-9, 725, 734, 807-8, 818-23, 827-35, 853, 854-5, 871-3, 876, 896-902, 923-5, 932, 952-4, 956-7; F. Bramato, Storia dell’Ordine dei Templari in Italia, 2 vol., Roma 1991-4; A. Spagnoletti, Elementi per una storia dell’Ordine di Malta nell’Italia moderna, «Mélanges de l’École Française de Rome», 96 (1984), 1021-49; Id., Stato, aristocrazia e Ordine di Malta nell’Italia moderna, Roma 1988; Id., Per una introduzione alla storiografia sulla Lingua d’Italia dell’Ordine di San Giovanni di Gerusalemme in età moderna, «Studi Melitensi», X (2002), 131-48; H.J.A. Sire, The Knights of Malta, New Haven-London 1994; Monaci in armi. Gli Ordini religioso-militari dai Templari alla battaglia di Lepanto: Storia e Arte, Roma 2004; L.M. de Palma, Il Frate Cavaliere. Il tipo ideale del Giovannita fra medioevo ed età moderna, Bari 2007; Id., Il “Consiglio” e le “Costituzioni” di fra’ Lionardo Bonafedi per le Giovannite di Firenze, Bari 2010; Nobildonne, monache e cavaliere dell’Ordine di Santo Stefano. Modelli e strategie femminili nella vita pubblica della Toscana granducale. Convegno Internazionale di Studi. Pisa, 22-23 maggio 2009, a cura di M. Aglietti, Pisa 2009; La Cavalleria al femminile: il contributo delle donne agli Ordini Militari, a cura di A. Giorgi, Pontedera 2010; M. Salerno, Gli Ospedalieri di San Giovanni di Gerusalemme nel Mezzogiorno d’Italia (secc. XII-XV), Taranto 2001; A. D’Auria, L’Ordine di Malta nel Mezzogiorno d’Italia (1734-1913), Taranto 2002; K. Toomaspoeg, Templari e Ospitalieri nella Sicilia Medievale, Taranto 2003; I cavalieri teutonici tra Sicilia e Mediterraneo. Atti del Convegno internazionale di studio, Agrigento,24-25 marzo 2006, a cura di A. Giuffrida – H. Houben – K. Toomaspoeg, Galatina 2007; L.M. Guida, L’Ordine di San Giovanni di Gerusalemme, le sue commende e i suoi conventi, Taranto 2007; L’Ordine Teutonico tra Mediterraneo e Baltico: incontri e scontri tra religioni, popoli e culture. Atti del Convegno internazionale, Bari-Lecce-Brindisi, 14-16 settembre 2006, a cura di H. Houben – K. Toomaspoeg, Galatina 2008; K. Toomaspoeg, Die Brüder des Deutschen Ordens in Italien, in «Ordines Militares. Yearbook for the Study of the Military Orders», 19 (2014), 87-113; Ordine di Malta. Da Gerusalemme a Roma. Itinerario Storico-Spirituale, Roma 2015; G. Rocca, Gli ordini militari in età moderna (secoli XVI-XVIII), in «Studi Melitensi», XXIV (2016), p. 7-87; Lo Stato dell’Ordine di Malta, 1630. Biblioteca Apostolica Vaticana, Codex Barberini Latino 5036, Relatione della Religione Gerosolimitana di Malta dell’Anno MDCXXX, a cura di V. Mallia-Milanes, Bari 2017.


LEMMARIO




Ordini militari - vol. II


Autore: Luigi Michele de Palma

All’indomani dell’unità nazionale, sul territorio italiano continuava a vivere l’unico O.m. che aveva mantenuto la tradizione spirituale della militia Christi, l’Ospedale di S. Giovanni di Gerusalemme, meglio conosciuto come Sovrano Militare Ordine di Malta. L’esilio dall’arcipelago melitense aveva condotto l’ordine a fissare la propria residenza a Roma (1834), dove si stabilì il gran magistero sotto l’egida della S. Sede, mentre l’organizzazione religiosa in Italia era articolata nei gran priorati di Roma, di Lombardia e Venezia e di Napoli e Sicilia.

Sebbene l’Ospedale avesse abbandonato definitivamente la sua funzione bellica e perduto il territorio del suo principato a Malta (1789), la protezione della S. Sede e il riconoscimento degli stati gli permisero di conservare il suo status di diritto internazionale e le prerogative di sovranità e d’indipendenza. Una commissione cardinalizia istituita da Pio XII (1951) confermò la natura di ordine religioso (dipendente dalla S. Sede) dell’Ospedale Gerosolimitano, nonché di ente sovrano ed indipendente nella comunità internazionale. Furono quindi promulgati la Carta Costituzionale (1956, 1961) e poi, alla luce del dettato del Vaticano II, il Codice Melitense (1967). Entrambi vennero riformati nel 1997 in conformità al nuovo Codice di Diritto Canonico (1983) e in essi veniva puntualizzata l’attività ospedaliera e assistenziale nonché la riorganizzazione interna dell’ordine. Nel frattempo il numero dei frati era diventato esiguo, si accrebbe invece la componente laica affiliata: fino al 1987 si contavano 36 professi, di cui 7 cappellani, e 10.000 non professi.

Dal 1805 al 1871 avevano governato l’ordine 6 luogotenenti italiani del gran magistero, mentre fra il 1931 e il 1988 si erano succeduti 2 gran maestri anch’essi italiani. L’Italia era la nazione maggiormente rappresentata e offrì all’ordine la base per riprendere la sua missione ospedaliera sul piano internazionale. Durante la luogotenenza di Giovanni Battista Ceschi a Santa Croce venne stipulata una convenzione (1876) con il Regno d’Italia, tramite cui si avviò la cooperazione fra il Corpo Militare dell’Ordine di Malta e il Servizio Sanitario dell’Esercito Italiano, finalizzata all’assistenza sanitaria e spirituale dei malati e dei feriti in guerra. Le leggi italiane consentirono la costituzione dell’Associazione dei Cavalieri Italiani del Sovrano Militare Ordine di Malta (1877), per mezzo della quale l’ordine amministrava e gestiva le proprie strutture ospedaliere e di beneficenza sul territorio della penisola. Tuttora dipendono dall’associazione l’ospedale di S. Giovanni Battista alla Magliana in Roma e alcuni poliambulatori e centri per la cura del diabete in altre città italiane.

L’Italia è rimasta l’unica “Lingua” dell’ordine organizzata in tre gran priorati e, dagli anni ’60 del Novecento, la loro articolazione si è sviluppata con l’istituzione delle delegazioni granpriorali, distribuite nelle maggiori località della penisola (29 nel 2011). Annualmente la Lingua d’Italia organizza un pellegrinaggio al santuario di Loreto, riservato agli ammalati. Nel 1970, inoltre, è stato istituito il Corpo Italiano di Soccorso Ordine di Malta, organismo composto da volontari e facente capo all’associazione. Esso presta servizio sul territorio nazionale e collabora con la Protezione Civile. Nel 2011 l’ordine contava 63 professi, di cui 6 cappellani, e 12.500 membri affiliati; un terzo dei professi (con 2 cappellani) era di nazionalità italiana.

I Teutonici tornarono ad essere presenti sul territorio italiano con l’annessione dell’Alto Adige, dopo la prima guerra mondiale, ma dalla metà dell’Ottocento il Sud Tirolo aveva conosciuto l’efficace attività di Pier Paolo Rigler (1796-1873), dotto sacerdote della diocesi di Trento e professo teutonico, il quale fu protagonista della riforma religiosa dell’ordine. Alcuni sacerdoti teutonici vivevano nel convento di Lana (fondato nel 1854), località in cui le suore – ricostituite con finalità assistenziali ed educative dal gran maestro l’arciduca Massimiliano Giuseppe d’Austria-Este (1835-63) e approvate da Pio IX nel 1837 – si erano insediate nel 1841, presso il castello di Lanegg, con una casa provincializia. Nello stesso tempo si era avviato il processo di clericalizzazione dell’ordine: l’ultimo gran maestro non professo, l’arciduca Eugenio d’Austria, si dimise e nel 1923 venne eletto il vescovo Norbert Klein, mentre alla morte dell’ultimo cavaliere l’O.m. si estinse. Pio XI approvò la rielaborazione della regola (1929) e i Teutonici diventarono un ordine religioso clericale, dedito alla cura pastorale, all’insegnamento e alle missioni. Nell’Annuario Pontificio viene tuttora classificato fra i canonici regolari e l’Alto Adige è una delle 4 province dell’ordine. Anche le suore ottennero l’approvazione papale delle proprie costituzioni riformate (1929), scegliendo di rimanere sotto la giurisdizione del gran maestro. Nonostante le difficoltà insorte durante la 2a guerra mondiale, la presenza dei due rami dell’Ordine Teutonico in Alto Adige non ha finora conosciuto soluzione di continuità. Le suore, in particolare, aprirono nuove filiali a Lana (1940), Bolzano (1957), San Michele/Appiano (1970), Merano (1971) ed anche a Roma (1957).

Una reviviscenza dello spirito e della regola dei Templari sorse a Poggibonsi (Siena) nel 1979. Il conte Marcello Alberto Cristofani della Magione aveva acquistato il castello della Magione (XI sec.) appartenuto ai Templari, passato ai Giovanniti e poi ad altri proprietari. Il questa sede egli fondò un’associazione (riconosciuta civilmente nel 1979), che ottenne l’approvazione canonica (8.9.1988) dell’arcivescovo di Siena Mario Jsmaele Castellano come associazione privata di fedeli, intitolata “Milizia del Tempio” (Ordo Militiae Christi Templique Hierosolymitani). Le sue costituzioni furono approvate dall’arcivescovo nel 1989, mentre il successore, Gaetano Bonicelli, approvò la regola, un aggiornamento dell’antica regola templare. La Milizia del Tempio non pretende di essere legittima ereditaria dell’Ordine Templare, né ricalca l’originario e peculiare spirito militare del Tempio, tuttavia propone la propria regola come percorso di santificazione personale e intende la milizia come testimonianza pubblica di fede da parte dei suoi membri. Alcuni di questi, facenti parte del ceto primario, professano voti privati. Per gli altri aderenti sono previste forme differenziate di aggregazione, ma soltanto ai primi vengono riservati i ruoli dirigenziali. Oltre alla sede magistrale (Poggibonsi), il territorio della penisola comprende la precettoria d’Italia, mentre altre 4 sono all’estero. Fanno parte della Milizia del Tempio alcune centinaia di affiliati, di cui una trentina professi. Sono in progetto esperienze di vita comune.

Fonti e Bibl. essenziale

Biblotheca Sanctorum, II App., 1194-5; Dizionario degli Istituti di Perfezione, VI, 796-806; IX, 903-5; G. Mantelli, I Cavalieri del Tempio e il castello della Magione di Poggibonsi, in «I Templari: mito e storia. Atti del convegno internazionale di studi alla Magione di Poggibonsi-Siena. 29-31 maggio 1987», Poggibonsi 1989, 337-346; Der Deutsche Orden in Tirol: die Ballei an der Etsch und im Gebirge, a cura di H. Hoflatscher, Bozen-Marburg 1991; H.J.A. Sire, The Knights of Malta, New Haven-London 1994, 247-279; U. Arnold, L’Ordine Teutonico. Una viva realtà, Lana 2001; M. de Pinto, La riforma della “Carta costituzionale” e del “Codice” del Sovrano Militare Ordine di Malta, «Odegitria», XVII (2010), 171-218; L.M. de Palma, Un ordine militare torna al fronte. L’Ordine di Malta nella Grande Guerra, in « “Inutile strage”. I cattolici e la Santa Sede nella Prima Guerra mondiale. Raccolta di studi in occasione del Centenario dello scoppio della Prima guerra mondiale (1914-2014)», a cura di L. Botrugno, Città del Vaticano 2016, 271-407; L.M. de Palma, Alle origini della Delegazione di Puglia e Lucania del Sovrano Militare Ordine di Malta, in «Studi Melitensi», XXIV (2016), 223-244; H.J.A. Sire, The Knights of Malta. A Modern Resurrection, London 2016; N. Neri, I Cavalieri e la Repubblica. La nascita delle relazioni diplomatiche tra l’Ordine di Malta e l’Italia, in «Studi Melitensi», XXV (2017), 77-92.


LEMMARIO




Ordini monastici - vol. II


Autore: Mariano Dell’Omo

Le soppressioni nel nuovo Stato italiano. Il 17 marzo 1861 Vittorio Emanuele II è proclamato dal nuovo parlamento nazionale re d’Italia. Già tra il 1860 e il 1861 erano stati promulgati nelle diverse regioni e province annesse – esclusa la Sicilia – vari decreti di soppressione. Ma si trattava ancora di una legislazione occasionale, disorganica e lacunosa, che si traduceva in profonde discriminazioni tra regione e regione, Ordine e Ordine, frutto di indecisioni e di ripensamenti da parte dello stesso legislatore. Per porvi rimedio una rielaborazione generale della materia venne compiuta mediante la legge del 7 luglio 1866, poi estesa al territorio di Roma con quella del 19 giugno 1873. In particolare l’art. 33 della legge soppressiva del ‘66 segnava espressamente il destino di importanti monasteri della Congregazione benedettina cassinese, adottando un dispositivo di salvaguardia dell’incalcolabile patrimonio spirituale e culturale che essi racchiudevano da secoli e che si identificava con quello della stessa nazione italiana: Montecassino, la SS. Trinità di Cava, S. Martino delle Scale a Palermo, Monreale, oltre che la Certosa di Pavia, prevedendo l’incameramento nei beni demaniali dello Stato ma preservandone l’unità e la cura nel tempo a carico dello Stato: «Sarà provveduto dal governo alla conservazione degli edifizi colle loro adiacenze, biblioteche, archivi, oggetti di arte, strumenti scientifici e simili…», come pure – si aggiunge – «di altri simili stabilimenti ecclesiastici distinti per la monumentale importanza e pel complesso dei tesori artistici e letterari. La spesa relativa sarà a carico del fondo pel culto».

Una nuova Congregazione benedettina: cassinese della Primitiva Osservanza poi sublacense. Dopo la conquista di Roma da parte delle truppe piemontesi il 20 settembre 1870, l’abate Pietro Casaretto che aveva dato vita ad una provincia sublacense della congregazione benedettina cassinese, temendo il crollo di tutta la sua opera, riuscì ad ottenere, in anticipo di alcuni anni, il 9 marzo 1872, l’erezione ‒ come indipendente ‒, della nuova congregazione cassinese della Primitiva Osservanza poi sublacense, sotto il governo di un abate generale residente nel monastero di S. Scolastica di Subiaco. L’intento del fondatore era quello di rinnovare, superando le costituzioni del 1680, la disciplina del monastero di S. Giustina iniziata da Ludovico Barbo nel 1408, attraverso un’esistenza trascorsa abitualmente all’interno del monastero in un’atmosfera di silenzio e di raccoglimento, in un regime di penitenza, nella preghiera assidua, quella liturgica in primo luogo, nello studio. Dal punto di vista istituzionale la novità era costituita dal potenziamento della figura dell’abate generale, che pur coadiuvato da 4 assistenti (consultori) scelti da ciascuna delle province (italiana, anglo-belga, francese, spagnola), aveva un potere monarchico ben più accentrato rispetto al debole e discontinuo potere di tipo oligarchico che il Casaretto aveva riscontrato nella congregazione cassinese. Innovativa era altresì l’interpretazione della stabilitas loci, dal momento che il monaco non emetteva la professione per la famiglia monastica – come volevano la Regola e la tradizione – ma per la singola provincia, talché egli poteva essere destinato all’una o all’altra casa nell’ambito della rispettiva provincia. Circa poi il governo dei singoli monasteri, essi erano retti normalmente da priori e solo in via eccezionale da abati; inoltre mentre questi ultimi erano nominati dal capitolo generale, la scelta dei priori era invece di competenza dei capitoli provinciali; infine gli uni e gli altri restavano in carica per un triennio. In seguito alle opposizioni che tali novità incontrarono, dopo la morte del Casaretto (1° luglio 1878) un nuovo capitolo generale riunito a Roma nel 1880 modificò decisamente le costituzioni, introducendo cambiamenti suggeriti da un maggior rispetto verso le antiche tradizioni monastiche; in particolare circa la stabilità si dispone ora che il monaco emette la professione solenne per un singolo monastero cui resta legato dal voto di stabilità, anche se è possibile il trasferimento ad altra casa da parte del capitolo provinciale o del visitatore, oppure ad altra provincia dall’abate generale. Per quanto concerne l’osservanza regolare, due punti, che sin dall’inizio erano stati considerati fondamentali e tipici della congregazione, sostanzialmente rimasero invariati, sebbene con l’aggiunta di alcune clausole che aprivano la via a mutamenti futuri: la recita del mattutino alle ore due dopo mezzanotte; l’astinenza perpetua dalle carni, sebbene meno severamente praticata – si tollerava d’ora in poi l’uso di mangiare la carne la domenica, il martedì e il giovedì. Si tratta di soluzioni che pongono tra l’altro un interrogativo più generale sull’esistenza o meno di una spiritualità o anche solo di un sistema ascetico specifico della congregazione della Primitiva Osservanza. In realtà la spiritualità del Casaretto non si discosta, pur nella sua personale connotazione, da quella dei buoni religiosi della sua epoca; per lui infatti la vita monastica ha un accentuato carattere penitenziale, dal quale deriva tra lʼaltro la recita del mattutino nelle ore notturne; la penitenza interiore trova invece il suo centro nell’obbedienza ai superiori “sempre ciecamente”, anche nelle cose minime, “come fa un bambino”. Ciò doveva risultare particolarmente vero per i monaci missionari che emettevano un quarto voto, in base al quale potevano essere inviati dal superiore su richiesta della Congregazione de Propaganda Fide in qualsiasi parte del mondo, adattandosi anche a rinunciare alla famiglia monastica, alla vita comune e all’osservanza se necessario. La perfetta vita comune, specialmente nell’uso del denaro, rappresenta uno dei capisaldi del rinnovamento compiuto, anche se sotto il profilo sostanziale la riforma del Casaretto non aggiunge nulla di più a quanto era già stabilito nelle declarationes cassinesi alla Regola del 1680 circa il peculio privato: in base ad esse infatti, se era possibile disporre di una certa somma di denaro, ciò d’altra parte non poteva avvenire senza licenza del superiore. È piuttosto la sottolineatura formale che rivela nel Casaretto la preoccupazione di ancorare l’esperienza monastica al rispetto della “vita comune”, se solo si pensi che nel 1846 i suoi monaci emisero per la prima volta il giuramento di perfetta vita comune secondo il cap. xxxiii della Regola (“Se i monaci debbano avere qualcosa di proprio”). Mezzo di perfezione monastica è considerata, com’è naturale, la liturgia, mentre alla lectio divina si sostituisce la lettura dell’Imitazione di Cristo. Testimonianza della forza d’attrazione che esercitava sul finire del secolo XIX la nuova congregazione cassinese della Primitiva Osservanza, è l’unione ad essa dell’antica congregazione verginiana il 1° febbraio 1879.

Il contributo del monachesimo italiano alla nuova Confederazione dell’Ordine di S. Benedetto. Intanto nel maggio dell’anno seguente (1880), XIV centenario della nascita di s. Benedetto, nel corso delle celebrazioni tenutesi a Montecassino maturava il progetto di unione federativa delle congregazioni benedettine, nella prospettiva che a Roma fosse istituita una casa di studi a vantaggio di tutti i monasteri. Leone XIII proprio in vista di una possibile unione aveva restaurato il collegio S. Anselmo, nato nel 1687 presso l’abbazia di S. Paolo fuori le mura per i soli monaci della congregazione cassinese, e non più attivo dopo il 1810. Ora il nuovo presidente della congregazione cassinese, l’abate Michele Morcaldi della SS. Trinità di Cava (Salerno), con una circolare del 4 dicembre 1885 avviava un piano di riforma e di restaurazione della congregazione, privilegiando oltre al tema dell’osservanza, quello degli studi e perciò del collegio anselmiano, che quell’abate intendeva riaprire in vista della stessa rinascita della congregazione da lui presieduta. Il voto approvato in tal senso dal capitolo straordinario dei Cassinesi tenuto a S. Callisto in Roma fu suggellato dal breve di Leone XIII Quae diligenter del 4 gennaio 1887, indirizzato all’arcivescovo di Catania e monaco cassinese, il b. Giuseppe Benedetto Dusmet, di lì a poco creato cardinale nel concistoro dell’11 febbraio 1889. Il papa che puntava a raccogliere in una più solida unità le sparse forze dei Benedettini neri, voleva ormai che il nuovo collegio anselmiano in via di restaurazione fosse aperto a membri di tutte le congregazioni monastiche, divenendo così lo strumento di una più stretta e fraterna unione fra i monaci di s. Benedetto. Individuato il terreno disponibile sull’Aventino e dalla S. Sede acquistato nel 1890, finalmente il 18 aprile 1893 avveniva la posa della prima pietra alla presenza del cardinale Dusmet. Leone XIII poco dopo col breve Summum semper del 12 luglio 1893 istituiva la Confederazione benedettina, cioè l’unione fraterna delle congregazioni monastiche di monaci neri viventi sub Regula Benedicti, fatta salva l’autonomia di ciascuna. Essa è presieduta dall’abate primate, residente a Roma in S. Anselmo per gli affari che riguardano il bene dell’Ordine intero, senza tuttavia pregiudicare diritti e privilegi dei singoli abati o dei loro monasteri. Nel momento in cui nasceva la Confederazione 13 erano le congregazioni benedettine che ne facevano parte, tra cui la cassinese e la sublacense. Non aderivano ancora alcune congregazioni monastiche di origine italiana, che solo più tardi vi sarebbero entrate: quella di Monte Oliveto confederata dal 1960, di Vallombrosa e Camaldoli dal 1966, quella silvestrina dal 1973.

Verso il Concilio Vaticano II. Come nella nascita della Confederazione benedettina così in particolare nel fervore del movimento liturgico il monachesimo benedettino italiano ha saputo offrire un valido contributo in preparazione alla stagione del Concilio Vaticano II. Al di là di contributi occasionali o settoriali, a partire dal primo ‘900 furono compiuti tentativi per saldare spiritualità e cultura, passato e presente, riflessioni pastorali e ricerche nel campo dell’erudizione. Il caso più noto è indubbiamente quello del Liber sacramentorum dell’abate di S. Paolo fuori le mura, il b. Ildefonso Schuster (1880-1954), commento generale al Messale romano, tradotto in varie lingue. Ancora in Italia la ripresa del primo dopoguerra fu contraddistinta da nuove iniziative, come congressi e settimane sociali, mentre nel 1920 usciva il volume La pietà liturgica dell’abate di S. Giovanni Evangelista di Parma Emanuele Caronti (1882-1966), monaco di Praglia, dal 1914 alla guida della “Rivista Liturgica”, nata per iniziativa dell’abate Bonifacio Bolognani (1869-1931) di Finalpia e con il sostegno dell’abate Placido Nicolini (1877-1973) di Praglia. In Italia, dopo le inevitabili interruzioni del periodo bellico, vi era anche nel campo liturgico un forte desiderio di rinascita, che si riflette in modo peculiare nella fondazione del CAL (Centro di azione liturgica) lʼottobre del 1947 nell’abbazia di S. Giovanni di Parma, mentre nel contempo assumevano una periodicità annuale le Settimane liturgiche nazionali. Tra i monaci italiani che più furono impegnati in prima persona nella stagione pre e post-conciliare vanno ricordati, per il loro impegno intellettuale e spirituale volto a diffondere la cultura della scienza e della sapienza liturgica, Anselmo Lentini (1901-1989), Cipriano Vagaggini (1909-1999), Salvatore Marsili (1910-1983), Pelagio Visentin (1917-1997), e Mariano Magrassi (1930-2004).

Il monachesimo femminile di Regola benedettina. Nell’ambito del monachesimo benedettino femminile in Italia tra ‘800 e ‘900 la grande novità è costituita dall’impiantazione delle Benedettine dell’Adorazione Perpetua, fondate nel 1653 a Parigi da Caterina de Bar (Suor Metilde del SS. Sacramento). Suor Maria Teresa dell’Incarnazione (Lamar) desiderando fare una nuova fondazione lasciava infatti la casa di Parigi nel 1878 e finalmente giunta prima a Milano con due novizie, si trasferiva poi in provincia, a Seregno nel 1880, ottenendo dall’arcivescovo Luigi Nazari di Calabiana l’autorizzazione ad aprire una comunità e ad accettare novizie per condurre vita monastica secondo la Regola di s. Benedetto, dedicandosi alla preghiera e all’adorazione e riparazione eucaristica secondo le Costituzioni metildiane. Al 1892 risale ufficialmente la nascita di un’altra comunità a Milano. Nel 1906 da Seregno la comunità si trasferì definitivamente a Ronco di Ghiffa sul Lago Maggiore (Verbania) fiorendo grazie alla priora Caterina Lavizzari (1867-1931), ed espandendosi anche altrove con l’aggregazione di altri monasteri (“Gruppo di Ghiffa”). Nel frattempo la comunità di Milano separatasi da Seregno, dopo essere stata incorporata a quella francese di Arras, veniva dichiarata autonoma nel 1913, e nel suo successivo sviluppo andava aggregando anch’essa altre comunità viventi secondo il carisma benedettino-metildiano. Si giunse così nel 1956 alla formazione di due Federazioni italiane di Benedettine dell’Adorazione Perpetua, quella del “Gruppo di Ghiffa” e quella del “Gruppo di Milano”, poi nel 1998 soppresse per dar luogo all’erezione di un’unica Federazione italiana dei monasteri delle monache benedettine dell’Adorazione perpetua del Santissimo Sacramento. Per quanto riguarda l’attualità dei monasteri femminili di Regola benedettina in Italia, oltre a quella dell’Adorazione perpetua, si contano le federazioni dell’Italia Settentrionale, Toscana, Umbria-Marche, del Piceno-Marche inferiori, e Centro-Meridionale, cui si aggiunge quella delle Benedettine Celestine. Tra le congregazioni si annoverano: le Oblate di S. Francesca Romana del monastero di Tor de’ Specchi, le Suore Benedettine di Carità, quelle di S. Geltrude, di Maria SS.ma di Montevergine, di Priscilla, le Suore Oblate Benedettine di S. Scolastica, le monache della congregazione di Vallombrosa (per un totale di 147 case, inclusi i monasteri indipendenti né federati né congregati, e altri appartenenti a congregazioni non specificamente italiane, come quelli delle Olivetane e Camaldolesi). La federazione delle monache cistercensi in Italia comprende 11 monasteri. Le monache trappiste sono presenti in due sole comunità: Vitorchiano (Viterbo) e Valserena (Pisa).

I Cistercensi. Circa l’altra grande famiglia monastica cenobitica, quella cistercense, si può sottolineare come dopo la crisi causata dalle soppressioni nella seconda metà dell’800, il fatto più rilevante per la storia cistercense in Italia riguarda Casamari. L’abbazia nel 1717, per interessamento del cardinale commendatario Annibale Albani aveva accolto una colonia di monaci della Stretta Osservanza (Trappisti) provenienti da Buonsollazzo a pochi km da Firenze, iniziando così un’esperienza di vita trappista, che continuò, pur fra molte mitigazioni, fino al 1929, allorché Casamari, che non aveva aderito all’unione dei Trappisti avvenuta nel 1892, fu eretta a congregazione autonoma dell’Ordine cistercense.

L’attualità. Le congregazioni monastiche maschili oggi presenti in Italia sono le seguenti: a) benedettine: congregazioni cassinese, sublacense (provincia italiana), camaldolese, vallombrosana, silvestrina, olivetana; b) cistercensi: congregazione di S. Croce o di S. Bernardo in Italia, e di Casamari. Infine possono qui menzionarsi due realtà monastiche che testimoniano un nuovo monachesimo. La prima è la Comunità del monastero di Bose (Magnano, Biella), fondata da Enzo Bianchi (1943-) che vi si trasferì da Torino ufficialmente nel 1965, caratterizzata sin dall’inizio dal suo chiaro impegno ecumenico. L’altra è la Piccola Famiglia dell’Annunziata di Giuseppe Dossetti (1913-1996), basata su valori monastici perenni, come silenzio, preghiera, lavoro, povertà.

Fonti e Bibl. essenziale

G. Penco, Storia del monachesimo in Italia nell’epoca moderna, Paoline, Roma 1968; F.G.B. Trolese (ed.), Il monachesimo in Italia tra Vaticano I e Vaticano II. Atti del III convegno di studi storici sull’Italia benedettina, Badia di Cava dei Tirreni (Salerno), 3-5 settembre 1992 (Italia Benedettina 15), Centro Storico Benedettino Italiano, Cesena 1995, 25-41; M. Torcivia, Guida alle nuove comunità monastiche italiane, Piemme, Casale Monferrato 2001; M. Carpinello, Il monachesimo femminile, Mondadori, Milano 2002; G. Lunardi, La congregazione sublacense O.S.B., I. L’abate Casaretto e gli inizi (1810-1878), La Scala, Noci 2003; G. Lunardi, La congregazione sublacense O.S.B. II. 1878-1972, La Scala, Noci 2005; M. Dell’Omo, Storia del monachesimo occidentale dal medioevo all’età contemporanea. Il carisma di san Benedetto tra VI e XX secolo (Complementi alla Storia della Chiesa diretta da Hubert Jedin), Jaca Book, Milano 2011; R. Fornaciari, “Di fronte alle prime esortazioni della Chiesa a rinnovarci”. L’evoluzione istituzionale del monachesimo italiano dall’Unità ai nostri giorni, in Cristiani d’Italia. Chiese, società, Stato, 1861-2011, direzione scientifica A. Melloni, Istituto della Enciclopedia italiana, Roma 2011, 911-928.


LEMMARIO




Ordini monastici femminili - vol. I


Autore: Gaetano Greco

Nei primi secoli di diffusione del Cristianesimo non mancarono in Italia, come altrove, donne che scelsero una vita ascetica, rifiutando il matrimonio e vivendo ritirate nelle proprie case di famiglia nei due gradi di castità: quelle virgines, consacrate pubblicamente a questo stile di vita, e quelle viduae sacrae, la cui presenza, non sempre apprezzata dalla gerarchia ecclesiastica, si è prolungata per due millenni e perdura ancora oggi nella Chiesa cattolica. Le prime notizie certe su forme di vita ascetica organizzata risalgono alla metà del IV secolo d.C., in coincidenza del soggiorno a Roma del vescovo alessandrino Atanasio, e riguardano anche l’universo femminile, che all’inizio del movimento cenobitico assunse un ruolo di rilievo grazie alla partecipazione di donne, vergini o vedove, di estrazione aristocratica e con una discreta diffusione anche fuori Roma, da Verona alla Sicilia. Le donne, che praticavano questo stile di vita, singolarmente o in comunità, moderavano drasticamente il vitto e il vestiario, osservavano l’astinenza sessuale e conducevano una vita assai ritirata, prodromo di quella clausura, che nei secoli successivi caratterizzerà la vita monastica femminile sul piano disciplinare (almeno in via di diritto). Nuovo impulso venne poi dall’affermarsi in Italia del monachesimo benedettino: secondo la tradizione, Scolastica, sorella di Benedetto da Norcia, avrebbe fondato il monastero di Piumarola, nei presi di Montecassino, ma più certi e più importanti furono i monasteri di Sant’Agata a Pavia e di Santa Giulia a Brescia, fondati rispettivamente dai re longobardi Pertarito e Desiderio. Tuttavia, ancora in quell’epoca mancavano “regole” scritte appositamente per le comunità femminili, che forse adottavano quelle già in uso (di Basilio, di Pacomio-Gerolamo, di Benedetto, etc.).

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Nell’Alto Medio Evo i monasteri femminili erano fondazioni regie o aristocratiche, con uno scarso numero di monache: in qualche caso si può accertare l’iniziativa o la presenza delle donne appartenenti a casati e clan nobili sconfitti politicamente. Perciò, alla stessa stregua di analoghe fondazioni maschili, talora questi monasteri costituivano un rifugio, voluto o imposto, per le donne in situazioni di violenza, subita o temuta, e per salvaguardare almeno parzialmente i beni di clan gentilizi sconfitti, che si ritiravano dentro queste istituzioni ecclesiastiche. In seguito, anche per questo monachesimo femminile si riscontra una lenta influenza del movimento cluniacense. Nell’XI secolo vi fu una ripresa delle fondazioni monastiche su base gentilizia, anche dentro le città comunali, con la dotazione di beni familiari comuni e conservando il patronato familiare nell’elezione della «badessa», spesso eletta a vita: come già in età longobarda e franca, in questi monasteri si ebbero vere e proprie dinastie di badesse appartenenti alle stirpi dei fondatori. La rinascita monastica del XII secolo portò alla nascita di nuove famiglie femminili, rami degli ordini maschili esenti: dalle Camaldolesi (1085) alle Vallombrosiane (1145), dalle Certosine (1228) alle Olivetane. In questo contesto di ripresa sono importanti le fondazioni femminili legate all’ordine dei Cistercensi: i monasteri di questo tipo si sottoponevano al governo spirituale del ramo maschile, che provvedeva tramite propri monaci all’amministrazione dei sacramenti alle monache.

Con lo sviluppo di una specifica religiosità cittadina e con l’affermazione degli Ordini Mendicanti nacquero, sul loro esempio e sotto la loro guida, monasteri del ramo femminile, come le Domenicane, la cui istituzione, intorno al 1206, si deve allo stesso s. Domenico in Provenza, a Prouille nei pressi di Tolosa, recuperando donne sottratte all’eresia catara. A Roma, poi, nel dicembre del 1219 papa Onorio III affidò a Domenico la cura delle monache confluite nel monastero istituito, per volontà di Innocenzo III, presso la basilica di S. Sisto. Le «sorelle povere» o «povere donne» (o Secondo Ordine di s. Francesco, più note con il nome di Clarisse) furono fondate da Chiara di Favarone di Offreduccio, cugina di s. Francesco, che nel 1212 prima si fece monaca benedettina e poi si stabilì presso la chiesa rurale di S. Damiano, vicino ad Assisi. La sua Regola fu accettata formalmente da papa Innocenzo IV solo quarant’anni dopo, il 9 agosto del 1253, pochi giorni prima della sua morte; eppure, il successo dell’impresa di Chiara era stato testimoniato dalle decine di conventi femminili sorti ad imitazione del suo nel giro di pochi anni. Agli inizi, Chiara e le sue consorelle si erano ritirate a vivere in ospizi nei pressi delle città, si mantenevano con il proprio lavoro e rifiutavano le donazioni di beni e le offerte; ma già dal 1229 anche alle Povere Donne erano state imposte le due norme tradizionali delle fondazioni monastiche femminili: il possesso dei beni e la clausura. A partire dalla fine del XIII secolo comparvero le Eremitane Agostiniane, che formarono il ramo femminile degli Agostiniani, chiedendo ed ottenendo di porsi sotto il loro governo e la loro assistenza spirituale: il primo monastero italiano fu quello di S. Maria Maddalena di Orvieto, istituito il 16 giugno 1286, al quale seguì nella stessa città il monastero di S. Caterina, ma la vicenda della fondazione a Foligno nel 1230 del monastero femminile di S. Elisabetta secondo la regola agostiniana da parte di una donna tedesca fa pensare a un’iniziativa originariamente tedesca, trasferita poi in Italia. Il primo monastero di Servite, di cui si abbia notizia, nacque a Todi nel 1285 con un gruppo di prostitute convertite da s. Filippo Benizi: le loro fondazioni erano legate al ramo maschile attraverso o il priore generale o il priore provinciale dell’Ordine. Infine, alla metà del XV secolo nacquero anche monasteri di Carmelitane.

Gli ordini monastici femminili conobbero una serie di problemi comuni. Di fatto non ottennero il riconoscimento della loro aspirazione alla povertà evangelica, che pure era fortissima in alcune delle loro ispiratrici: si riteneva, infatti, che una condizione di miseria esponesse le donne alle tentazioni ed ai pericoli della “carne”, cioè a relazioni sessuali libere o a pagamento. Nonostante le loro aspirazioni, Francescane e Domenicane si dovettero limitare a uno stile di vita più austero rispetto agli altri monasteri femminili e anche i loro monasteri furono fondati su una base patrimoniale (ma meno doviziosa rispetto a quella dei monasteri aristocratici), arricchita poi con le doti delle singole monache: un’involuzione favorita anche dal grande successo che le case femminili dei Mendicanti riscossero negli stessi ceti aristocratici. Le monache, poi, in quanto donne erano considerate inabili all’amministrazione dei sacramenti; di conseguenza dovevano ricorrere al servizio sacramentale fornito per l’eucarestia e la confessione da religiosi maschi: questa presenza maschile esponeva le monache a rischi e maldicenze, mentre gli stessi religiosi non di rado provavano fastidio e imbarazzo nell’assolvere a questo compito, soprattutto nel caso dei confessori. Inoltre, con la Decretale Periculoso ac detestabili del 1298 confermata nel 1309 dalla Apostolicae Sedis di Clemente V, papa Bonifacio VIII impose anche a questi monasteri l’obbligo della “clausura”, cioè della segregazione rispetto al mondo esterno; tuttavia, la ricezione della decretale, che pure entrò a far parte del Corpus Iuris Canonici, non fu né generale né costante. Sullo scorcio del Medio Evo e gli inizi dell’età moderna, molti monasteri femminili o cessarono di osservare l’obbligo della clausura, o addirittura non lo avevano mai rispettato sin dalle origini. L’apertura dei monasteri e delle case femminili verso l’esterno poteva avere in qualche caso inferenze sentimentali (come testimonia la novellistica), ma più spesso costituiva una scelta obbligata, determinata da concrete esigenze di sopravvivenza: per i monasteri era necessario mantenere rapporti con chi commissionava alle monache lavori di filatura, tessitura, cucito, etc., e in alcuni mesi dell’anno i monasteri più poveri dovevano mandare fuori dal loro chiostro alcune sorelle, per raccogliere le elemosine indispensabili a sfamare la comunità. Soprattutto, l’apertura verso l’esterno manteneva in costante rapporto le singole monache con il contesto sociale, in primo luogo con le proprie famiglie d’origine, rispondendo a esigenze connesse alla gestione economica dei patrimoni monastici e delle doti monacali. Da tempo molte monache non vivevano più “a vita comune”, con refettori e dormitori collettivi, bensì vivevano in “celle”, organizzate su base familiare e clientelare e composte da uno o più locali: qui le monache dormivano, preparavano e consumavano i loro pasti, e svolgevano tutta una serie di lavori, i cui prodotti erano venduti a beneficio della micro-comunità titolare della cella. Spesso le monache di una medesima cella erano legate fra di loro da vincoli di parentela o da rapporti di clientela: così all’interno del monastero si ricostruiva il microcosmo familiare presente nel mondo esterno, compresa la più complessa rete dei comparatici e dei patronati. Come nel caso dei benefici ecclesiastici secolari di patronato privato, con questo sistema le famiglie dei ceti superiori impegnavano una quota del patrimonio domestico per sostentare le figlie non destinate al matrimonio (alla fine del Medio Evo, per esempio, a Firenze una dote monastica poteva ammontare dal 10 al 30 % di una dote coniugale: Trexler, Le célibat à la fin . Per una conferma si veda anche Molho, “Tamquam vere mortua” , 27).

Agli inizi dell’età moderna, tranne i casi di autentica vocazione volontaria e autonoma, la scelta dello stato monastico delle fanciulle spettava ai maschi delle loro rispettive famiglie e dipendeva da motivazioni esclusivamente connesse con quelle “strategie familiari”, che erano tese, oltre che a sistemare in qualche modo figlie illegittime o inadatte al matrimonio per evidenti difetti fisici, a conservare e accrescere il patrimonio domestico, senza intaccarlo con l’erogazione di ricche doti coniugali o con lasciti testamentari. Eppure, fino quasi alla metà del Cinquecento queste strategie familiari, così condizionate da motivazioni economiche, erano sopportabili per le interessate, poiché non comportavano la recisione dei loro legami affettivi con le famiglie d’origine. La comunità familiare si perpetuava nel chiostro e l’assenza di clausura consentiva alle donne e ai maschi restati nel “secolo” di visitare le parenti monacate, di servirsi delle celle monastiche per conservarvi i denari, i gioielli e i preziosi di casa nei momenti più turbolenti della vita cittadina, di usare la rinomata cucina monastica per organizzare i banchetti delle grandi feste domestiche, come i matrimoni e i battesimi. Né erano troncati i rapporti con il contesto sociale: una circolarità di rapporti, che, se in misura rilevante interessava gli aspetti della vita monastica nella quotidianità delle sue esigenze materiali, coinvolgeva anche la sfera dei bisogni culturali e delle istanze religiose. Tuttavia, in questo quadro monastico femminile, non segregato dal mondo, col tempo si erano consolidate alcune trasformazioni, che avevano suscitato forti preoccupazioni nei ceti dirigenti locali: a causa dell’assenteismo dei vescovi era cresciuta la subordinazione spirituale e gestionale dei monasteri nei confronti delle rispettive case maschili e la formazione di più ampi stati territoriali era stata accompagnata dall’invadenza dei nuovi governi (sovrani e città “dominanti”) anche nei chiostri femminili delle città dominate, sfruttandone le risorse per mantenere le fanciulle delle dominanti. La consapevolezza del disordine economico provocato da questo sfruttamento indusse alcuni governi ad adottare provvedimenti che garantissero una corretta amministrazione economica dei patrimoni monastici. Nel 1521 a Venezia fu istituita la magistratura dei «Provveditori sopra i monasteri»; nel 1524-25 la città di Parma nominò alcuni deputati sulla clausura e commissioni particolari per ogni singolo monastero femminile; nel 1545 il nuovo duca di Firenze Cosimo I de’ Medici Cosimo affidò la gestione economica di ciascun monastero a quattro Operai, eletti dal Duca stesso all’interno di liste approntate dalle magistrature cittadine e composte da parenti stretti delle monache, e istituì una Commissione centrale di tre “Deputati sopra i Monasteri”; sei anni dopo anche la Repubblica di Genova dette forma stabile ad un ufficio governativo di controllo sui monasteri femminili, operativo già da circa un secolo e composto da laici e chierici.

In alcuni di questi provvedimenti politici cominciò anche a prefigurarsi una normalizzazione della disciplina monastica sulla base di un’interpretazione misogina e carceraria del concetto di clausura. Nel frattempo, il Concilio di Trento dedicò solo un fuggevole accenno alla disciplina monastica femminile (Sess. XXV, Decretum de regularibus et monialibus, c. V), puntando soprattutto sul rafforzamento del controllo da parte del vescovo locale a scapito dei superiori regolari, ma la Santa Sede promosse una forte offensiva per introdurre un nuovo stile di vita nei monasteri, minacciando di non riconoscere il carattere religioso alle comunità che non avessero obbedito a questi precetti: il mandato temporaneo dell’ufficio di madre superiora, l’obbligo della vita comune e la realizzazione di un regime di stretta clausura in tutti i monasteri femminili, a qualunque ordine appartenessero e qualunque regola seguissero. Momenti principali di questa strategia disciplinatrice furono alcuni provvedimenti romani. L’8 maggio del 1565 la Congregazione del Concilio, sollecitata da alcuni vescovi, estese la clausura a tutti i monasteri di monache professe e di terziarie; poi, il 29 maggio 1566, con la costituzione Circa Pastoralis officii e due anni dopo con la Lubricum vitae genus, papa Pio V impose l’obbligo della rigida clausura a tutti i monasteri femminili, compresi quelli “aperti” (dalla loro fondazione o da tempo immemorabile); infine con la bolla Deo sacris virginibus del 30 dicembre 1572 Gregorio XIII ribadì gli ordini del suo predecessore, aggiungendovi una minaccia: i monasteri inadempienti sarebbero stati condannati all’estinzione, perché non avrebbero potuto accettare nuove consorelle. L’imposizione dall’alto del rigore disciplinare controriformistico sollevò le proteste generalizzate delle monache e tentativi di resistenza, che si protrassero fino agli inizi del Seicento: con la morte naturale delle monache ribelli, ferme nel rifiuto della nuova disciplina, alcune case monastiche conclusero la loro esistenza plurisecolare. Alla fine, grazie anche al coinvolgimento attivo dei ceti nobiliari e dei patriziati cittadini, ormai alieni dalla cultura umanistica e interessati alla nuova ideologia sottesa alla disciplina della Controriforma, sugli antichi monasteri femminili piombò una pesante cappa claustrale, che solo a partire dalla fine del secolo XVII fu scalfita dagli effetti della rivoluzione scientifica, che riuscì a “medicalizzare”, rendendoli leciti, tutta una serie di comportamenti e consumi (cioccolato, tabacco, soggiorni termali etc.) e poi fu travolta dalla secolarizzazione sette-ottocentesca della società. Le “monacazioni forzate”, intanto, continuarono per tutto l’arco dell’età moderna e, salvo qualche scandalo (come quello della famosa monaca di Monza), i monasteri femminili nascosero quei drammi individuali che provenivano dalle scelte connesse alle strategie familiari tese a consolidare i patrimoni domestici, privilegiando la discendenza maschile nella successione ereditaria.

Come era già avvenuto fra Quattro e Cinquecento, quando il fenomeno dell’“Osservanza” regolare era penetrato anche nei chiostri femminili, non mancarono monache che accolsero con entusiasmo l’inasprimento della vita monastica e ne fecero persino il fondamento di nuovi istituti, come, per l’Italia, nel caso delle Cappuccine, la cui nascita è attribuita alla fondazione del monastero napoletano “delle Trentatré” da parte della nobildonna Maria Lorenza Longo: queste monache adottarono la prima regola di s. Chiara (stretta povertà, penitenza, umiltà) e la più stretta clausura monastica, optando per una vita di preghiera e di privazioni. Fortuna arrise in Italia pure alla riforma rigorista delle Carmelitane, iniziata in Spagna da s. Teresa d’Avila, e alle Visitandine di s. Francesco di Sales, dopo che per volere della gerarchia la loro congregazione, nata con fini assistenziali, fu trasformata in un ordine claustrale dedito alla vita contemplativa. Ancora nel Seicento e nel Settecento nacquero in Italia nuovi istituti religiosi femminili di clausura: a Genova nel 1604 Maria Vittoria Fornari Strada fondò l’Ordine della Santissima Annunziata; ad Avellino nel 1654 sorsero le Oblate Sacramentine, che osservavano la stretta clausura, benché si dedicassero all’educazione delle giovani in un conservatorio interno; e nel secolo successivo ad opera di Maria Antonia Felice Solimani nacquero le Romite di san Giovanni Battista, approvate da Benedetto XIV nel 1744. Anche le monache Redentoriste, fondate nel 1731 da Maria Celeste Crostarosa con l’appoggio di Alfonso Maria Liguori, e quelle Passioniste, fondate da s. Paolo della Croce nel 1771, osservavano una stretta clausura e si dedicavano a una vita di preghiera e di penitenza. E negli anni dell’Impero napoleonico la maremmana Caterina Sordini fondò a Roma l’ordine contemplativo delle Adoratrici Perpetue del Santissimo Sacramento.

Negli ultimi decenni del Settecento, alcuni sovrani assoluti (come Pietro Leopoldo e Giuseppe II d’Asburgo) attuarono riforme disciplinari d’impianto rigorista per attribuire un’utilità sociale ai monasteri femminili, che ormai versavano in una fase di lenta decadenza a causa di ben diverse “strategie familiari”: strategie inedite, che si affermavano anche nell’Occidente europeo cattolico col sostegno di una letteratura e di una saggistica improntate a modelli di vita simili a quelli europei nord-occidentali. Contro l’ideale della vita contemplativa riemergeva forte il richiamo alla vita attiva, anche nell’ambito della vita religiosa: un richiamo che peraltro non era stato soffocato neanche nell’età della Controriforma e degli Stati confessionali (cf. voce «Congregazioni religiose femminili»). Così, nel 1785 il granduca di Toscana Pietro Leopoldo impose ai monasteri di clausura di impegnarsi nel campo dell’educazione delle ragazze, obbligando i monasteri femminili e le singole monache a scegliere fra un rinnovato regime di vita rigorosamente comunitaria (con l’abolizione delle celle individuali) e la riconversione in conservatori finalizzati all’istruzione. Quando, dopo le più massicce soppressioni di monasteri e confische dei relativi patrimoni dell’età napoleonica (culminate nei provvedimenti adottati in tutta la Penisola fra il 1806 e il 1810), arrivò la Restaurazione quel modello controriformista di monastero femminile di rigorosa clausura e di vita contemplativa poté recuperare parzialmente le sue posizioni. Il ritorno ai valori e agli stili di vita della tradizione cattolica fu ostacolato non solo dai mutamenti sociali, resi irreversibili di fatto dall’alienazione massiccia dei patrimoni ecclesiastici (acquistati pure da famiglie di sicura fedeltà alla Chiesa e al pontefice), ma anche dalla ripresa dei principi del giurisdizionalismo ecclesiastico, soprattutto in Toscana e nel Settentrione. Per attenuare gli ostacoli frapposti alla vita contemplativa, gli ordini monastici femminili adottarono un atteggiamento di compromesso, facendo coesistere l’osservanza della clausura con l’impegno educativo verso le ragazze. Questa strategia dell’impegno in attività di educazione, d’istruzione e di assistenza si rivelerà utile anche negli anni immediatamente successivi all’Unità per attenuare gli effetti dell’estensione a tutto il Regno d’Italia (legge del 7 luglio 1866) delle leggi piemontesi di soppressione degli enti ecclesiastici non dediti ad attività di utilità sociale (29 maggio 1855). D’altra parte, sia per le vicende generali del nostro paese e delle sue diverse regioni, sia per le situazioni particolari delle singole case monastiche, in Italia è mancata una radicale e generalizzata soppressione di tutti i monasteri femminili osservanti la rigorosa disciplina claustrale: la stessa applicazione delle leggi di soppressione fu più o meno rigorosa a secondo dei luoghi e dei tempi, perché, mentre in alcuni casi le comunità furono del tutto soppresse e le suore disperse, in altri le monache rimasero nei loro istituti anche se a titolo precario e riuscirono persino ad aggirare il divieto di accettare nuove affiliate.

Fonti e Bibl. essenziale

A parte le numerosissime voci dedicate dal Dizionario degli Istituti di Perfezione sia ai singoli ordini monastici femminili, sia a problematiche di carattere generale, si vedano: «De Monialibus» (secoli XVI-XVII-XVIII), in «Rivista di Storia e Letteratura Religiosa», XXXIII, 1997, 643-715; M. Campanelli, Monasteri di provincia (Capua secoli XVI-XIX), Milano, Franco Angeli, 2012; M. D’Amelia – L. Sebastiani edd., I monasteri femminili in età moderna: Napoli, Roma, Milano, Roma, Carocci, 2009 («Dimensioni e problemi della ricerca storica», 2009, fasc. 2); K. Di Rocco, Gli orientamenti storiografici intorno al monachesimo femminile, in «Itinerari di ricerca storica», n. 20-21, 2006-2007, 363-394; Donna, disciplina e creanza cristiana dal XV al XVII secolo. Studi e testi a stampa, a cura di G. Zarri, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 1996; L. Scaraffia – G. Zarri, Donne e fede. Santità e vita religiosa in Italia, Roma-Bari, Laterza (“Storia delle donne in Italia”), 1994; Donne sante sante donne. Esperienza religiosa e storia di genere, Milano, Rosenberg & Sellier, 1996; A. Lirosi ed., Le cronache di Santa Cecilia. Un monastero femminile a Roma in età moderna, Roma, Viella, 2009; M. Modica ed., Esperienza religiosa e scritture femminili tra Medio Evo ed età moderna, Acireale, Bonanno Ed., 1992; F. Medioli, L’«Inferno monacale» di Arcangela Tarabotti, Torino, Rosenberg & Sellier, 1990; G. Zarri ed., Il monachesimo femminile in Italia dall’alto medioevo al secolo XVII. A confronto con l’oggi, Atti del VI Convegno del «Centro di Studi Farfensi», Santa Vittoria in Matenano 21-24 Settembre 1995, Negarine di San Pietro in Cariano (Verona), Il Segno dei Gabrielli Editori, 1997; G. Pomata e G. Zarri edd., I monasteri femminili come centri di cultura fra Rinascimento e Barocco, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 2005; E. Novi Chavarria, Monache e gentildonne. Un labile confine. Poteri politici e identità religiose nei monasteri napoletani. Secoli XVI-XVII, Milano, Franco Angeli, 2001; Ead., Sacro, pubblico e privato. Donne nei secoli XV-XVIII, Napoli, Guida, 2009; C. Russo, I monasteri femminili di clausura a Napoli nel secolo XVI, Napoli, Università di Napoli – Istituto di storia medioevale e moderna, 1970; M.I. Sutto, I monasteri benedettini femminili in Italia dopo l’età delle soppressioni, in Il monachesimo in Italia tra vaticano I e Vaticano II, Atti del III Convegno di studi storici sull’Italia benedettina, Badia di Cava dei Tirreni (Salerno), 3-5 settembre 1992, Cesena, Badia di Santa Maria del Monte, 1995, 291-306; S. Seidel Menchi – A. Jacobson Schutte – Th. Kuehn, Tempi e spazi di vita femminile tra Medioevo ed Età Moderna, Bologna, Il Mulino, 1999; M. Sensi, «Mulieres in Ecclesia». Storie di monache e bizzoche, Spoleto, Centro Italiano sull’Alto Medioevo, 2010; G. Zarri, Monasteri femminili e città (secoli XV-XVIII), in G. Chittolini – G. Miccoli edd., Storia d’Italia. Annali 9. La Chiesa e il potere politico dal Medioevo all’età contemporanea, Torino, Einaudi, 1986, 357-429; Ead, Recinti: donne, clausura e matrimonio nella prima età moderna, Bologna, Il Mulino, 2000; G. Zarri – G. Festa edd., Il velo, la penna e la parola. Le domenicane: storia, istituzioni e scritture, Firenze, Nerbini, 2009.


LEMMARIO




Ordini monastici maschili - vol. I


Autore: Mariano Dell’Omo

Monachesimo prebenedettino. In Italia la parabola evolutiva del monachesimo anteriore a quello benedettino, che dall’eremo va verso il cenobio, è incarnata dall’esperienza dello stesso s. Benedetto da Norcia (ca. 480-ca. 547), che dalla solitudine anacoretica di Subiaco passa all’organizzazione pienamente cenobitica di Montecassino, comunità centralizzata sotto un unico abate e una sola regola. Due furono i testi che più di altri ebbero successo tra i monaci della penisola come del resto in tutto l’Occidente, essendo già noti negli anni 420-430: il De institutis coenobiorum e le Conlationes di Cassiano, scaturiti dall’esperienza del deserto tra gli anacoreti della Palestina e dell’Egitto, sì da costituire un punto di riferimento per la vita dei monasteri che andavano sorgendo, a Roma in primo luogo, nel corso del sec. V, a partire da quello di S. Sebastiano sulla via Appia fondato da Sisto III (432-440), seguito da altri presso le principali basiliche e le antiche diaconie. Il modello anacoretico rappresentato dall’isola di Lerins nella Gallia meridionale (Cannes) segna la vita del monachesimo italico tra IV e VI sec., come testimoniano gli eremi di Monteluco nei pressi di Spoleto, di Eutizio in Val Castoriana non lontano da Norcia, e ancora quelli costituiti da Equizio, facenti capo alla fondazione di Amiterno vicino L’Aquila. Allo stesso ambito di tradizioni appartiene anche il monastero fondato nel castrum Lucullanum di Napoli dall’africano Eugippio († poco dopo il 536), discepolo del monaco s. Severino, apostolo del Norico. Ad una tradizione monastica tendente alla separazione dalla società, si giustappone in Italia una seconda, fiorente all’interno della comunità ecclesiale, grazie a vescovi come s. Eusebio a Vercelli, s. Ambrogio a Milano, s. Paolino a Nola. Caso isolato infine, sincrono sebbene del tutto estraneo all’esperienza benedettina di Montecassino, è quello di Vivarium presso Squillace in Calabria, dove Cassiodoro, già ministro di Teodorico, reduce da Costantinopoli, fondava intorno al 554 un monastero i cui monaci si dedicavano specialmente allo studio della Bibbia, coltivando al tempo stesso per una retta intelligenza delle lettere sacre quelle profane, in un nobile seppur troppo precoce tentativo di mediazione e sintesi tra antichità pagana e novità cristiana.

Da Benedetto di Montecassino a Benedetto d’Aniane (secc. VI-IX). L’abbazia di Montecassino fondata da s. Benedetto verso l’anno 529 fu il punto iniziale di un’avventura monastica che condusse nel corso del medioevo alla formazione in terra italiana di vere e proprie congregazioni, ispirate in misura diversa da quella Regola benedettina che Gregorio Magno nel II libro dei Dialogi definisce «notevole per il senso della misura e bella per la perspicuità della forma» (cap. 36). Dopo la distruzione di Montecassino nel 577 ad opera dei Longobardi, la comunità trovò rifugio a Roma, il luogo più idoneo per una precoce diffusione della stessa Regola benedettina oltre le Alpi, nel territorio della Gallia, dov’è attestata per la prima volta nella lettera inviata nel 625-630 da Venerando, fondatore del monastero di Altaripa in Aquitania, al vescovo Costanzo di Albi. Negli stessi anni, all’incirca dal 629, a Luxeuil (Haute-Saône, Francia), prima fondazione monastica dell’irlandese s. Colombano sul continente europeo, la Regola benedettina e quella colombaniana erano entrambe applicate in un regime di “regola mista” sotto l’abate Valdeberto. Proprio al nome di Colombano è collegato il fatto più notevole della storia religiosa dell’Italia del nord nel sec. VII: la fondazione del monastero di Bobbio nel 614, con il conseguente sviluppo di un monachesimo iro-franco che facilitò il graduale avvicinamento dei Longobardi, ancora ariani, all’ortodossia romano-cattolica. La svolta religiosa grazie alla quale dalla fine del sec. VII i Longobardi abbandonano gli ultimi residui di arianesimo e di scisma, rende questi ultimi protagonisti di una politica di ampio favore nei riguardi delle istituzioni monastiche sul suolo italico: da S. Pietro in Ciel d’Oro (Pavia) a Nonantola (nel contado di Modena), Farfa, S. Vincenzo al Volturno, la stessa Montecassino che rinasce intorno al 717/718 grazie al bresciano Petronace, con il contributo della vicina abbazia di S. Vincenzo e il sostegno di papa Gregorio II. Nel frattempo in un atto di donazione del gastaldo senese Vuarnefredo per S. Eugenio di Siena nel 730, si legge esplicitamente per la prima volta in Italia che i monaci di quel cenobio erano tenuti a vivere nell’osservanza della Regola di s. Benedetto. Ormai si registra al sud come al nord della penisola una graduale affermazione del codice benedettino su tutte le altre regole, come testimonia il fatto che da Montecassino, durante l’abbaziato di Teodemaro (777/778-796), su richiesta di Carlo Magno re dei Franchi e Longobardi, è inviata ad Aquisgrana una copia dell’esemplare della Regola. Sarà poi lo stesso Carlo a favorire nel regno franco l’ascesa di una grande personalità monastica come Benedetto d’Aniane (†821), al quale, con il successivo determinante appoggio dell’imperatore Ludovico il Pio, si deve il definitivo primato della Regula Benedicti su tutte le altre nei territori dell’Impero, in base a quanto era stato sancito nel primo e secondo sinodo di Aquisgrana (816, 817). Nessun abate italico fu presente in quell’occasione, ma la riforma anianense, pur interrotta dalla prematura morte di Benedetto, avrà modo di diffondersi anche in Italia (Nonantola, Montecassino). Nel frattempo l’abbazia di Cluny, fondata l’11 settembre 909, va perfezionando l’ideale monastico anianense mediante l’osservanza integrale della Regola e il principio del raggruppamento di più case in una istituzione centralizzata (Ecclesia o congregatio Cluniacensis, divenuta tra XII e XIII sec. un vero e proprio Ordo come quello cistercense).

Primi influssi cluniacensi a Roma e in Italia. In Italia l’influsso cluniacense si registra in primo luogo nell’opera di riforma compiuta a Roma dall’abate Oddone di Cluny a partire dal 936, specialmente a S. Paolo fuori le mura e S. Maria sull’Aventino, non senza riflessi anche a Montecassino. Pochi anni dopo, richiamato in Italia dal papa nel 939, Oddone estese la sua opera ad altri centri monastici del nord Italia come S. Pietro in Ciel d’Oro a Pavia. Grazie poi all’azione vigorosa del successore Maiolo (948-994) l’influenza cluniacense toccò altri centri monastici: S. Salvatore di Pavia, Pomposa, ancora S. Paolo di Roma, S. Apollinare in Classe a Ravenna, S. Giovanni di Parma. Usi cluniacensi sono testimoniati a Farfa nella Sabina (Liber tramitis aevi Odilonis, 1027-60) come pure a Cava dei Tirreni presso Salerno. Tra i tanti monasteri italiani tuttavia il solo che fece parte della congregatio cluniacense con il titolo di abbazia fu S. Benedetto di Polirone (San Benedetto Po, Mantova), mentre altri pur notevoli, come Pontida o Vertemate, mantennero il carattere di priorati. E ancora nel quadro dell’influsso cluniacense, notevole fu la fondazione (1003) del monastero di S. Benigno di Fruttuaria (San Benigno Canavese, Torino) ad opera di un discepolo di Maiolo, Guglielmo da Volpiano, il cui impulso riformatore è alla base della vasta rete monastica fruttuariense.

  1. Romualdo e gli inizi dell’esperienza camaldolese. Mentre in Italia tra X e XI sec. l’ideale cenobitico riceve l’apporto di correnti monastiche d’oltralpe, s. Romualdo, nato a Ravenna nel 952, rilancia nuovamente in Occidente l’ideale anacoretico nato in Oriente, sebbene la sua organizzazione di tipo eremitico sia basata sul riferimento esplicito alla Regola cenobitica di Benedetto. Il suo progetto consiste infatti nello stretto legame tra cenobio ed eremo sotto la guida di un unico superiore vivente in quest’ultimo. Il cenobio doveva servire alle varie attività destinate al sostentamento materiale dei monaci, svolgendo tuttavia in primo luogo una funzione propedeutica, di preparazione all’eremo. Approvata da papa Pasquale II nel 1113 la nascente congregazione, il cui superiore era lo stesso priore del Sacro Eremo camaldolese, contava già diversi eremi e cenobi, tra i quali i più importanti erano quelli di Camaldoli in Toscana (Poppi, Arezzo) e di Fonte Avellana sul Monte Catria (Serra Sant’Abbondio, Pesaro) in diocesi di Gubbio.
  2. Giovanni Gualberto e i Vallombrosani. Anche per Giovanni Gualberto nobile fiorentino, già monaco nel monastero di S. Miniato, la scelta di ritirarsi in solitudine presso Vallombrosa (Firenze) nel 1036 diede avvio ad una forma monastica di prevalente impronta eremitica, la cui espansione tuttavia in seguito determinò la nascita di una nuova congregazione monastica di tipo cenobitico, che raggiunse il suo massimo sviluppo in Toscana, e che fu particolarmente polemica verso le degenerazioni della vita clericale, come nel caso del vescovo simoniaco Pietro Mezzabarba. Caratteristica della congregazione vallombrosana, il cui incremento dopo la morte del Gualberto si deve a Bernardo degli Uberti, abate generale, cardinale e vescovo di Parma (†1133), è il fatto che i diversi monasteri godevano di una posizione paritaria, secondo un modello di relazioni più vicino a quello cistercense, che non a quello cluniacense di tipo più verticistico.
  3. Guglielmo da Vercelli e S. Giovanni da Matera (Montevergine e Pulsano). Tra XI e XII sec. altri movimenti rigoristici, fondati rispettivamente da s. Guglielmo da Vercelli e s. Giovanni da Matera, si affermano in un ambito locale più circoscritto. Il primo ebbe il suo nucleo d’origine nel monastero di Montevergine (1124) sul monte Vergiliano (Avellino), destinato a divenire sede di un celebre santuario mariano oltre che capo di una florida congregazione, ufficialmente approvata da papa Alessandro III (1161-72) e confermata in particolare da Lucio III e Celestino II. Organizzata con case dipendenti forse sul modello cluniacense e osservante la Regola benedettina, la congregazione verginiana incrementò particolarmente lo spirito di fedeltà a Roma tra popolazioni che prima dell’influsso normanno avevano conosciuto una presenza ecclesiastica e monastica di derivazione bizantina. Giovanni da Matera, dopo diverse e dolorose esperienze dava inizio nel 1129 ad una congregazione monastica di orientamento eremitico e marcatamente penitenziale, detta dei Pulsanesi, dal nome di Pulsano, alle pendici del monte Gargano, via via sostenuta dal riconoscimento e dall’approvazione dei papi Innocenzo II, Eugenio III, Alessandro III, oltre che dalla protezione dei re normanni Ruggero II, Guglielmo I, e Guglielmo II, nonché dello svevo Federico II.

Nilo di Rossano (Basiliani) e Bruno di Colonia (Certosini). Altri due grandi esponenti del carisma monastico in Italia furono s. Nilo di Rossano e s. Bruno di Colonia, dalla cui vocazione alla solitudine scaturiranno poi due Ordini monastici. Nilo (†1004) dalla nativa Calabria, dopo diverse esperienze di ascetismo simile a quello praticato dai Padri del deserto (Valleluce presso Montecassino, Serperi a Gaeta), fondò infine l’anno stesso della sua morte il monastero di Grottaferrata nei pressi di Tuscolo (Frascati), divenuto infine centro della congregazione basiliana d’Italia (1579), oggi Ordine Basiliano Italiano di Grottaferrata. Bruno, originario di Colonia, dov’era nato verso il 1030, già canonico di Reims, riuscì a stabilirsi in una valle alpina, in prossimità della Chartreuse, grazie all’aiuto di Ugo vescovo di Grenoble. I suoi compagni vestiti di bianco, conducevano una vita isolata in piccole celle, riunendosi per l’ufficio comune al mattino e alla sera, e soprattutto la domenica e i giorni festivi per la celebrazione della Messa e per il pasto comune. Chiamato a Roma da papa Urbano II nel 1090, Bruno preferì tuttavia ritirarsi in Calabria, stabilendosi l’anno dopo a S. Maria della Torre (Serra San Bruno), ove morì nel 1101. Contrassegnato da un’osservanza sostanzialmente eremitica, temperata nondimeno con alcuni elementi di quella cenobitica, l’Ordine certosino ha al suo vertice il priore della Grande Chratreuse, chiamato “generale”, il quale benché eletto dalla sola comunità cui appartiene, ha giurisdizione sull’intero Ordine.

All’origine dei Cistercensi in Italia. Il primo ambito territoriale fuori della Francia nel quale si espande la congregazione cistercense è l’Italia, quando nel 1120 un gruppo di monaci per opera dell’abate Pietro di La Ferté, una delle quattro “figlie” di Cîteaux, fonda S. Maria del Tiglieto (diocesi di Acqui, Alessandria). L’anno precedente (1119) papa Callisto II aveva approvato il documento costitutivo dell’Ordo cistercense, la Carta Caritatis di Stefano Harding. Un nuovo sistema organizzativo circa le relazioni tra casa fondatrice e casa affiliata, e al tempo stesso l’istituto del capitolo generale, erano destinati a caratterizzare da questo momento la vita monastica anche in terra italiana, dispiegando gradualmente il loro influsso su altri monasteri e specialmente sulle nuove congregazioni di Regola benedettina sorte fra XIII e XIV sec.

Gioacchino da Fiore e la congregazione dei Florensi. Nato verso il 1130 a Celico in Calabria (Cosenza), Gioacchino da Fiore (†1202) era entrato poco più che ventenne nel monastero benedettino di S. Maria Requisita, in seguito occupato dai monaci cistercensi di Casamari. Trasferitosi nell’abbazia benedettina di S. Maria di Corazzo (Carlopoli, Catanzaro), Gioacchino vi fu eletto abate nel 1177. Intanto poiché il suo desiderio di affiliazione all’Ordine cistercense non poté essere accolto, dopo essersi fermato a Casamari (1183) e aver incontrato papa Lucio III che lo incoraggiò nello studio della Bibbia, egli tornò a Corazzo. Qui infine rassegnate le dimissioni da abate, con alcuni compagni si ritirò fra i monti della Sila, dando inizio ad una nuova esperienza monastica, poi culminata nella fondazione di S. Giovanni in Fiore. Respinta anche questa dal capitolo generale cistercense, che nel 1195 dichiarava Gioacchino apostata e fuggitivo, non avendo egli obbedito all’ordine di ritirarsi a Corazzo, nasceva così la nuova congregazione chiamata florense, destinata ad ottenere l’appoggio dei sovrani svevi, e a svilupparsi in Calabria, Lucania, Puglia, Campania, Lazio, Toscana. Personalità eccezionale, Gioacchino con la sua opera letteraria e monastica, specialmente per la sua concezione di vivere le primizie di un’epoca dello Spirito, avrebbe esercitato un forte influsso sulla spiritualità dei nuovi Ordini religiosi, Francescani e Domenicani, e dell’intero sec. XIII, così animato dall’ansia di riforma e di rinnovamento della vita religiosa e dell’intera Chiesa.

La vita monastica nei secc. XIII e XIV tra difficoltà e novità (Albi, Umiliati, Silvestrini, Celestini, Olivetani). Al declino dell’antica istituzione monastica, particolarmente in Italia più che nei territori d’oltralpe, corrisponde nei secc. XIII e XIV una nuova fioritura di congregazioni, il cui punto di riferimento disciplinare resta la Regola di s. Benedetto, seppure ormai in un contesto civile e religioso diverso da quello altomedievale, caratterizzato da istanze sociali emergenti dal basso, da un clima spirituale escatologico e penitenziale, nonché dai nuovi Ordini mendicanti. Di tali novità si segnalano in particolare l’Ordo dei monaci albi di S. Benedetto di Padova, fondato dal b. Giordano Forzatè, in crisi già nel sec. XIV, e gli Umiliati, che si ispiravano al modello cistercense, sul principio (1201) distinti in tre Ordini formanti un unico organismo (chierici e religiose, uomini e donne laici con vita in comune, laici in famiglia), soppressi infine nel 1571. Silvestro Guzzolini (ca. 1177-†1267), canonico della cattedrale di Osimo nella Marca di Ancona, ritiratosi in età matura nei pressi di Valdicastro, da dove poi si trasferì nell’eremo di Montefano (Fabriano), già prima del 1248 adottò per i suoi discepoli la regola di s. Benedetto. Approvato il nuovo Ordo da papa Innocenzo IV nel 1248, esso mostrò ben presto la sua capacità di mettersi in relazione con le nuove forme di organizzazione cittadina rappresentate dai Comuni. Come sui Vallombrosani, anche sui Silvestrini l’abate generale esercitava un potere centralizzato e vitalizio, che solo nel sec. XVI diverrà temporaneo. Caso raro se non unico di un abate temporaneo è invece quello dell’Ordo S. Spiritus de Maiella, che in seguito, dopo la canonizzazione del suo fondatore Pietro del Morrone (ca. 1209-†1296), futuro papa Celestino V, assunse la denominazione di Ordine dei Celestini. L’istituto dell’abate ad tempus avrà un seguito illustre nell’esperienza organizzativa della congregazione olivetana. Iniziata secondo una prassi assai diffusa come esperienza eremitica ad Accona nel 1313, la fondazione di Monte Oliveto (Siena) da parte dei tre nobili senesi Bernardo Tolomei, Patrizio Patrizi e Ambrogio Piccolomini viene sancita ufficialmente dalle due lettere apostoliche del 21 gennaio 1344, con le quali papa Clemente VI dava la sua approvazione alla nascente congregazione olivetana, concedendo altresì la facoltà di fondare dei priorati dipendenti da Monte Oliveto. Segno distintivo del nuovo istituto, destinato ad influire sull’evoluzione stessa della costituzione monastica, è la durata annuale dell’ufficio abbaziale (senza proroghe dal 1349), poi triennale (dal 1351): un’assoluta novità rispetto alla tradizione precedente, che non conosceva, in linea di principio, la temporaneità dell’ufficio abbaziale. Inoltre annualmente il capitolo generale olivetano provvedeva al rinnovo delle cariche e ricostituiva le comunità dei singoli monasteri, i cui membri quindi non erano più legati dal consueto vincolo della stabilità ad un particolare cenobio. Si delinea così il modello organizzativo al quale si ispirerà nel secolo successivo la congregazione benedettina di S. Giustina di Padova.

Il sec. XV: la congregazione di S. Giustina e le nuove congregazioni monastiche di Osservanza. Il secolo XV fu ricco di grandi novità per il mondo benedettino, a partire dal pontificato di Martino V, eletto l’11 novembre 1417 nel conclave riunitosi durante il concilio di Costanza, che poneva così fine allo scisma d’Occidente. Fin dal 1419, pur tra gravi problemi, egli non tralasciò la questione della disciplina degli Ordini religiosi: non a caso in questo stesso anno egli istituiva la nuova congregazione di S. Giustina di Padova, dal nome del monastero di cui era abate Ludovico Barbo, già canonico secolare di S. Giorgio in Alga a Venezia. Dopo alcuni anni di difficile rodaggio, e dopo aver superato la sua prima crisi istituzionale, determinata dal diverso modo di interpretare l’originaria costituzione pontificia circa l’esercizio dell’autorità da parte dei vari abati, la nuova congregazione fu denominata de Observantia S. Iustinae de Padua, trovando appoggio e protezione in papa Eugenio IV che ne approvò il definitivo assetto interno con le costituzioni Etsi ex sollicitudinis debito del 23 ottobre e 23 novembre 1432. Tutti i monaci, pur appartenendo a monasteri diversi e professando per il rispettivo monastero, costituivano un solo corpo, il quale, come dispone la bolla del 23 ottobre 1432, veniva rappresentato nella sua globalità – superiori e sudditi – dal capitolo generale annuale che eleggeva 9 definitori – 2 abati e 7 conventuali –, come rappresentanti dell’intero capitolo. Tra l’altro i definitori nominavano gli abati dei singoli monasteri, la cui carica durava un anno, e vigilavano attraverso i visitatori sull’osservanza della Regola all’interno dei monasteri aderenti, i quali dipendevano direttamente dal papa, con l’esclusione perciò di ogni altra interferenza ecclesiastica o laica. Gli influssi del nuovo assetto istituzionale di S. Giustina si estesero anche ad altre nuove congregazioni italiane, come quella cistercense di S. Bernardo in Italia (1497), camaldolese di S. Michele di Murano (1474), degli Eremiti camaldolesi di Monte Corona (1525), nonché di S. Maria di Vallombrosa (1485).

Il Cinquecento. Nel sec. XVI la congregazione di S. Giustina, ormai dal 1504 dopo l’ingresso di Montecassino denominata “cassinese”, era destinata ad una notevole fioritura nel corso dell’intero secolo. Non a caso all’apertura del Concilio di Trento (1545) i soli abati benedettini presenti erano cassinesi (Isidoro da Chiari, Luciano degli Ottoni da Goito, Crisostomo Calvini da S. Gemiliano). La congregazione costituiva ormai un rilevante fattore di unità religiosa e culturale in un’Italia politicamente divisa tra regno di Napoli e ducato di Milano sotto il predominio spagnolo, granducato di Toscana, ducato di Parma, repubblica di Venezia, repubblica di Genova, Stato pontificio: dal 1409 al 1596 sono infatti ben 75 i monasteri facenti parte della congregazione, e altri 13 vi aderiranno nel corso del ‘600.

Il Seicento. Tra le novità del sec. XVII si registra la divisione della congregazione cassinese in 7 province, decretata da papa Paolo V nel 1607: romana, veneta, lombarda, toscana, ligure, napoletana e siciliana. Nella congregazione 16 erano i monasteri destinati agli studi “formali”, sebbene le dichiarazioni del 1642 disponessero che in tutti i monasteri con almeno 12 monaci si tenessero tra le altre lezioni relative ai casi di coscienza oltre che di Sacra Scrittura. Tra le diverse congregazioni spicca quella olivetana, che possedeva monasteri e santuari, spesso abitati da monaci illustri per virtù e dottrina, in tutte le principali città italiane. Segni del prestigio di cui godeva la congregazione di Monte Oliveto sono alcuni tentativi, non accolti, di unione ad essa da parte della congregazione di Montevergine nel 1580 e nel 1629. Ugualmente non coronata da successo fu lʼunione tra Vallombrosani e Silvestrini, disposta nel 1662 da papa Alessandro VII, e dopo appena cinque anni revocata da Clemente IX. La generale tendenza alla divisione in province raggiunge anche i Cistercensi d’Italia: nasce così la congregazione cistercense romana, approvata da papa Gregorio XV nel 1623. Le costituzioni furono ratificate solo nel 1643, ma dopo un decennio, forse a causa dell’esiguo numero dei monaci, la nuova congregazione fu soppressa il 5 marzo 1660 da Alessandro VII che la unì a quella toscana, mentre trascorso un secolo nel 1762 Clemente XII separava ulteriormente le due province. Altra congregazione cistercense è quella calabro-lucana, sorta nel 1605, raggruppante i monasteri della Calabria e della Lucania, tra cui la fondazione di Corazzo, celebre per la memoria di Gioacchino da Fiore. Nel 1630 inoltre papa Urbano VIII ratifica la decisione della congregazione cistercense dei Foglianti di dividersi in due rami autonomi: la Congregatio Beatae Mariae Fuliensis Ordinis Cisterciensis per la Francia, facente capo allʼabbazia di Feuillant, e per l’Italia la Congregatio monachorum reformatorum sancti Bernardi Ordinis Cisterciensis, la cui sede rappresentativa fu lʼabbazia di S. Pudenziana a Roma. Paolo V nel 1607 distribuì i cenobiti camaldolesi nelle quattro province romana, toscana, veneta e marchigiana. Poco dopo nel 1629 Urbano VIII, riconoscendo lʼimpossibilità di una pacifica coesistenza tra eremiti e cenobiti, dispose il distacco dei monasteri di tipo cenobitico dal Sacro Eremo di Camaldoli: a partire da questo momento fino alla loro soppressione, decretata dalla costituzione apostolica Inter religiosos coetus del 2 luglio 1935, i cenobiti restarono così distinti dagli eremiti.

Il Settecento. Tra le novità più rilevanti del sec. XVIII è la nascita di una nuova congregazione di provenienza orientale, detta dei Mechitaristi, fondata da Pietro Manouk (Mechitar), originario di Sebaste in Armenia (1676-1749), che si impiantò a Venezia sull’isola di S. Lazzaro nel 1715, dopo che trasferitasi da Costantinopoli a Modone in Morea nei domini veneziani del Peloponneso, ottenne l’approvazione da Roma avendo adottato la Regola di s. Benedetto (1711). In questo secolo il 1789, anno della rivoluzione francese, rappresenta un vero spartiacque, una data epocale che segna una svolta decisiva nella storia d’Europa e delle relazioni Stato-Chiesa, con conseguenze notevoli anche sulla vita religiosa, su quella monastica in particolare. Tra il 1806 e il 1810 una serie di provvedimenti eversivi conducono in Italia alla totale soppressione di Ordini e case religiose: dal regno d’Italia alla Toscana, allo Stato pontificio (quest’ultimo annesso nel 1809 all’Impero francese), fu praticata una politica e di conseguenza emanata una legislazione antimonastica; ugualmente nel regno di Napoli, con Giuseppe Bonaparte fratello di Napoleone, il colpo definitivo fu inferto il 13 febbraio 1807, allorché venne promulgata la legge di soppressione degli Ordini monastici. —

L’Ottocento. I mali denunziati da una commissione di cinque abati istituita da papa Pio IX nel 1850 con lo scopo di indagare circa le cause della debolezza della vita monastica e porvi rimedio, non erano lievi, e con radici profonde specialmente nei monasteri siciliani, ove, in un clima pressoché ancora feudale, esisteva da tempo una serie di abusi, di interferenze, di fazioni, che impedivano ogni serio tentativo di riforma. L’elezione di Pietro Casaretto, decisamente appoggiato da Pio IX, ad abate presidente della congregazione cassinese nel 1852, non costituì di fatto il rimedio tanto atteso, favorendo anzi gradualmente il distacco del ramo sublacense dal tronco dell’antica congregazione, che rimase tradizionalmente legata al solo territorio della penisola, mentre il 9 marzo 1872 veniva eretta la nuova congregazione cassinese della Primitiva Osservanza, sotto il governo di un abate generale residente nel monastero di S. Scolastica di Subiaco, sin dall’inizio comprendente anche monasteri fuori d’Italia, oltre che animata da uno spirito missionario. Anche per gli Olivetani si registra un declino tra i primi decenni e la metà del secolo, con una ripresa verso la fine, e ugualmente per i Vallombrosani. Infine per Silvestrini e Camaldolesi non è un segno di vitalità bensì di difficoltà il tentativo di unione, poi fallito, tra le due rispettive congregazioni, le cui trattative si protrassero dal 1818 al 1827. Intanto completatosi il processo di unificazione dell’Italia, tra il 1860 e il 1861 furono promulgati nelle diverse regioni e province annesse – esclusa la Sicilia – vari decreti, sia pure occasionali e disorganici, di abolizione di questo o di quell’Ordine. Infine la legge del 7 luglio 1866 soppressiva di tutti gli Ordini religiosi, estesa al territorio di Roma con altra del 19 giugno 1873, provocava ingenti danni morali e materiali, pur prevedendo speciali riguardi per alcune sedi monastiche più prestigiose, quali Montecassino, la SS. Trinità di Cava dei Tirreni, S. Martino delle Scale nell’arcidiocesi di Palermo, Monreale, La Certosa di Pavia.

Fonti e Bibl. essenziale

P. Lugano (ed.), L’Italia benedettina, F. Ferrari Ed., Roma 1929; G. Penco, Storia del monachesimo in Italia. Dalle origini alla fine del medioevo, Jaca Book, Milano 19832; G. Penco, Storia del monachesimo in Italia nell’epoca moderna, Paoline, Roma 1968; Dall’eremo al cenobio. La civilta monastica in Italia dalle origini all’età di Dante, Scheiwiller, Milano 1987; G. Andenna (ed.), Dove va la storiografia monastica in Europa? Temi e metodi di ricerca per lo studio della vita monastica e regolare in età medievale alle soglie del terzo millennio. Atti del Convegno internazionale, Brescia-Rodengo, 23-25 marzo 2000, Vita e Pensiero, Milano 2001; F. Salvestrini, La più recente storiografia sul monachesimo italiano medievale (ca. 1984-2004), Benedictina, 53 (2006), 435-515; G. Spinelli, Le congregazioni monastiche del Medioevo italiano (secoli XI-XIV), in R. Cassanelli – E. Lopez-Tello Garcia (edd.), Benedetto. L’eredita artistica, Jaca Book, Milano 2007, 279-288; M. Dell’Omo, Storia del monachesimo occidentale dal medioevo all’età contemporanea. Il carisma di san Benedetto tra VI e XX secolo (Complementi alla Storia della Chiesa diretta da Hubert Jedin), Jaca Book, Milano 2011; A. Rapetti, Storia del monachesimo medievale, Il Mulino, Bologna 2013.


LEMMARIO