Associazione Italiana dei Professori di Storia della Chiesa

Dizionario Storico Tematico La Chiesa in Italia
Dalle origini all'Unità Nazionale
Roma 2015
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Ospedali - vol. I


Autore: Marina Garbellotti

Il significato del termine ospedale è cambiato nel corso delle epoche. Mentre attualmente in­dica un centro di cura, in origine designava un luogo prevalentemente riservato all’accoglienza di pellegrini e di bisognosi con una valenza segnatamente caritativa e non terapeutica. In linea generale questo orientamento si riscontra sino alle soglie dell’età moderna – in alcuni casi anche oltre – e frequentemente le fonti e la letteratura indicano con la parola ospedale istituti con finalità caritative, quali orfanotrofi, conservatori per fanciulle povere, ospizi per mendicanti. Nel delineare la storia e i mutamenti che investirono gli ospedali si concentrerà l’attenzione, almeno a partire dall’età moderna, su quelli che si specializzarono nella cura degli ammalati rinviando alla voce assistenza un quadro di insieme delle attività caritative.

Numerosi nell’antichità, gli ospedali, sovente chiamati ospizi dal latino hospes, conobbero una particolare diffusione in epoca cri­stiana in virtù del dovere dell’ospitalità presente nell’insegnamento ecclesiastico e si diffusero nell’Europa occidentale come istituzioni indipen­denti o annesse alle residenze vescovili e ai monasteri. A partire dal secolo XII, di fronte all’incremento demografico, alla crescita delle città, all’intensificarsi dei commerci e degli spostamenti, ai frequenti pellegrinaggi e non da ultimo al ‘risveglio evangelico’ che caratterizzò la vita religiosa dell’epoca basso medievale, gli ospedali esistenti si rivelarono insufficienti a soddisfare le esigenze di viandanti, pellegrini e bisognosi in crescente aumento e movimento.

In questo contesto assai articolato si collocano gli ospedali promossi dagli ordini ospedalieri (Roncisvalle, Aubrac, Antoniani, S. Spirito, San Giacomo di Altopascio, Gerosolimitani, S. Lazzaro, San Giovanni di Gerusalemme, i Crociferi, Cavalieri Teutonici, Templari). Essi praticavano un ampio spettro di forme di soccorso come dimostra l’ordine di San Giovanni in Gerusalemme. Riconosciuto ufficialmente come ordine religioso nel 1153 da papa Eugenio III, l’attività assistenziale dell’ordine giovannita ricalca quella di altri gruppi aderenti alla medesima spiritualità agostiniana, che contemplava l’aiuto ai poveri, ai pellegrini, alle vedove, ai vecchi, agli esposti, nonché interventi manutentivi alle strutture riservate all’ospitalità e alla viabilità. Finalità più circoscritte, almeno originariamente, qualificarono l’ordine di San Giacomo d’Altopascio, sorto intorno al 1080 ad Altopascio, non lontano da Lucca sulla via Francigena. Via obbligata per i numerosi pellegrini desiderosi di raggiungere Roma per visitare la tomba di San Pietro, l’ordine garantiva ospitalità e protezione a chi si avventurava lungo questo impervio cammino. Attenti prevalentemente agli aspetto medico-sanitari furono gli Antoniani, impegnati nella cura dell’ergotismo, affezione meglio conosciuta col nome di fuoco di Sant’Antonio, e i Lazzariti, specializzati nella cura della lebbra. Per la precoce attenzione all’infanzia abbandonata merita di essere menzionato l’ordine di Santo Spirito, al quale papa Innocenzo III affidò la direzione del celebre ospedale romano di Santa Maria in Sassia. La fondazione e la gestione di questi istituti non furono sempre pacifiche. Sovente si scatenarono tensioni tra i rettori degli stessi e i poteri locali, religiosi e civili, che vedevano in questi luoghi strumenti di affermazione territoriale e di preminenza sociale.

La presenza femminile negli ospedali non è un elemento trascurabile. Furono numerose le donne che operarono individualmente a favore dei luoghi pii, come pure le comunità femminili, tra cui si possono ricordare a titolo meramente esemplificativo le Oblate ospedaliere terziarie francescane di Santa Chiara al servizio dell’ospedale di Santa Chiara di Pisa, e le Oblate ospedaliere di Santa Maria Nuova di Firenze, sorte per assistere gratuitamente le inferme povere. Le donne, però, religiose o laiche che fossero, secondo un tratto che caratterizzerà il loro operato almeno sino all’Ottocento, non ricoprivano ruoli direttivi, bensì di servizio.

La moltiplicazione degli ospedali fu indotta anche e principalmente da quel rinnovato sentimento religioso, storiograficamente definito ‘rivoluzione della carità’, che incoraggiò uomini e donne a consacrare se stessi e i propri beni alle opere di beneficenza. Tra le espressioni peculiari di questa devotio laicale, che caratterizzò l’Europa medioevale, vanno menzionate le comunità miste, formate da chierici, conversi e laici di entrambi i sessi, e dedite alla conduzione di luoghi di ospitalità. La peculiarità di queste comunità risiede nell’ampia presenza di laici, uomini e donne celibi o coniugati. Essi consacravano se stessi e i propri beni alle opere di carità e partecipavano direttamente alla vita religiosa mutuandone alcune pratiche come la penitenza, il voto di povertà e di castità, senza tuttavia abbracciare completamente lo stato ecclesiastico. L’esperienza che tuttavia più connota questo periodo è quella confraternale. Sebbene il panorama medievale contempli ospizi promossi da istituzioni comunali, vescovi, uomini comuni, monasteri, corporazioni di arte e di mestiere, quelli fondati da confraternite conobbero una particolare proliferazione. Oltre agli aspetti devozionali tali associazioni accordarono particolare rilevanza alla carità delle opere colmando profonde lacune sociali che si condensavano nell’aiutare le frange più marginali della popolazioni. Questa diffusa propensione ad aiutare i poveri si manifestava nella distribuzione di viveri e di elemosine e nella fondazione di ospedali. Fatta eccezione per i lebbrosari, gli ospedali accoglievano nella medesima struttura poveri e infermi colpiti da diverse affezioni e dispensavano elemosine e beni di prima necessità agli indigenti, svolgendo una significativa funzione semipubblica in un settore assente o debole della società quale quello assistenziale. Tali interventi li resero rapidamente luoghi strategici e irrinunciabili per le autorità civili, sempre più interessate a regolarne l’attività e a impiegarli nel programma politico-caritativo.

Gli studi sul grado di medicalizzazione degli ospedali medievali sono alquanto carenti, tuttavia di rado viandanti e bisognosi potevano contare su cure mediche. Le ragioni della scarsa rilevanza attribuita alla pratica terapeutica vanno prevalentemente ricercate nell’idéologie du salut che permeava la cultura dell’epoca e si traduceva nell’assicurare agli ospiti anche e soprattutto assistenza spirituale. Solitamente, infatti, al momento dell’ingresso essi venivano obbligatoriamente confessati e comunicati.

Da un punto di vista giurisdizionale i loca pia ricadevano sotto la tutela episcopale, come aveva stabilito il concilio di Vienne del Delfinato (1311). Riaffermando antecedenti norme canoniche, l’assise aveva legittimato il vescovo a controllare la gestione patrimoniale degli ospedali e la condotta del personale ivi operante, con l’eccezione di quelli gestiti dagli ordini ospedalieri sottoposti alla vigilanza del loro capo spirituale e giuridico. Di fatto questi controlli avvenivano in occasione delle visite pastorali, in età medievale rare, lasciando dunque agli amministratori dei loca pia ampi spazi di azione.

Questa situazione rimase pressoché invariata sino alla seconda metà del Quattrocento, allorché l’espansione demografica, il rialzo dei prezzi, il susseguirsi di carestie e di epidemie provocarono un notevole aumento del numero degli indigenti. La povertà divenne un grave problema sociale che le autorità di governo tentarono di risolvere regolando il fenomeno della mendicità e rinnovando la rete ospedaliera esistente formata da ospizi generici e privi di una regia che li coordinasse. Allo scopo di razionalizzare il sistema assistenziale, a partire dalla seconda metà del XV secolo, fu avviata la cosiddetta riforma ospedaliera, che seguì percorsi differenti e non ebbe gli stessi esiti.

In alcuni centri, soprattutto nel territorio lombardo e nell’area toscana si procedette all’unificazione degli istituti in un unico grande ospedale, chiamato maggiore. In sostanza, molti piccoli ospedali vennero soppressi e i loro patrimoni utilizzati per costruire una più ampia struttura e per sostenerne le attività. L’esempio più noto di questo modello è l’ospedale maggiore di Milano, fondato nel 1456 da Francesco Sforza, ma ospedali maggiori furono realizzati anche a Brescia, Siena, Firenze, Pavia. È tuttavia opportuno precisare che non tutti gli ospedali maggiori erano chiamati a coordinare gli altri istituti assistenziali cittadini, come avvenne ad esempio per quello di Milano; inoltre, la loro presenza non impediva la nascita di nuovi enti caritativi. In altre città come Verona, Venezia, Padova, Bologna, non sorse alcun ospedale maggiore e fu riorganizzato il sistema caritativo esistente: alcuni enti furono soppressi, altri convertiti in ospedali o in istituti specializzati, altri ancora fondati ex novo. Entrambe le soluzioni miravano a formare una rete assistenziale articolata in grado di accogliere in enti distinti ammalati generici, infermi incurabili, esposti, fanciulle bisognose, ragazzi abbandonati a se stessi, poveri inabili, donne dall’onore compromesso e sole.

Con la riforma ospedaliera si profilò un deciso intervento da parte delle autorità civili nel settore dell’assistenza che non di rado creò conflitti sia con le autorità ecclesiastiche, intenzionate a mantenere la giurisdizione sui luoghi pii, sia con i rettori degli ospedali, identificabili con le oligarchie locali, restii a rinunciare ai vantaggi politici derivanti dalla direzione di questi enti. Il patrimonio accumulato grazie a donazioni e lasciti, i molti affittuari e creditori dipendenti dagli ospedali conferivano, infatti, ai rettori degli stessi visibilità e potere economico. Furono queste motivazioni a indurre alcune Compagnie d’arte della città di Modena a ostacolare l’unione delle Opere Pie e degli Ospedali caldeggiata dalle autorità amministrative e attuata a fatica nel 1541. I progetti di unificazione e di riorganizzazione della rete assistenziale furono osteggiati altresì dalle autorità ecclesiastiche, contrarie alla soppressione di enti appartenenti alla propria sfera giurisdizionale, come accadde a Milano a seguito del disegno messo in atto da Francesco Sforza per unificare gli ospedali. Nonostante queste vicende, prevalse la via della collaborazione, del compromesso, e le autorità ecclesiastiche appoggiarono e parteciparono attivamente alla riforma ospedaliera.

Da parte sua la Chiesa cercò di riaffermare la giurisdizione sulle istituzioni ospedaliere riconfermando con il Concilio di Trento il diritto di visita dell’ordinario sui luoghi pii (Sess. XXII c. 8 de ref.), e attribuendogli la facoltà di controllare annualmente la contabilità (Sess. XXII c. 9 de ref.). I controlli vescovili non sempre poterono svolgersi pacificamente, essi incontrarono resistenze, a volte forti opposizioni da parte dei rettori ospedalieri, pienamente appoggiati dalle autorità laiche, e furono tendenzialmente circoscritti agli aspetti spirituali.

Benché il potere laico avesse compreso nella propria sfera giurisdizionale le strutture assistenziali, le finalità perseguite dagli ospedali continuarono a mantenere una forte valenza religiosa. Le cure prestate al corpo non potevano essere disgiunte da un’assistenza religiosa che si preoccupava di garantire la salute dell’anima. Questa commistione tra sfera laica e religiosa, tipica dell’antico regime, venne meno sul piano giurisdizionale: autorità civili ed ecclesiastiche, infatti, cercarono progressivamente di separare le rispettive sfere di competenza.

In questa cornice offrirono una risposta convincente le numerose congregazioni religiose, nate nel corso del Cinquecento e distintesi per il dinamismo nell’ambito caritativo e sanitario, fra le quali è opportuno segnalare quella dei Teatini, dei Camilliani, dei Fatebenefratelli.

L’attività sociale dei Chierici Regolari Teatini si esprimeva, oltre che nel conforto ai condannati a morte e ai carcerati, nell’assistenza agli ammalati incurabili, proseguendo l’opera dei membri dell’Oratorio del Divino Amore. Tra le iniziative assistenziali sostenute da questa società vi fu la fondazione in varie città italiane – la prima esperienza fu quella genovese del 1499, replicata poi a Roma e a Napoli – di ospedali per gli incurabili, cioè per le persone colpite dalla sifilide. Tra gli affiliati del Divino Amore molti afferirono alla congregazione dei Teatini, il cui co-fondatore Gaetano Thiene, contribuì a riorganizzare l’ospedale della Misericordia di Vicenza e nel 1522 promosse a Venezia la fondazione dell’ospedale degli incurabili, grazie anche alla sollecitudine di alcune nobildonne veneziane.

Altrettanto incisiva nel settore ospedaliero fu l’opera dei Chierici regolari Ministri degli Infermi, meglio noti come Camilliani dal nome del fondatore Camillo de Lellis, e l’attività degli Ospedalieri di San Giovanni di Dio o Fatebenefratelli, tutt’oggi attivi in Europa e in altri continenti. Accanto ai tre voti sostanziali della vita religiosa (povertà, castità ed obbedienza), questi ultimi ne pronunciavano un quarto con il quale si impegnavano a soccorrere i bisognosi e gli infermi.

I Camilliani, nati come congregazione di secolari dediti all’assistenza degli ammalati ricoverati nel San Giacomo, l’ospedale romano riservato agli incurabili, si configuravano come una sorta di corpo infermieristico specializzato nella cura degli infermi, soprattutto di quelli colpiti da malattie gravi e pericolose come la sifilide e la peste, nonché nell’organizzazione dell’assistenza all’interno degli ospedali. La voce di questo impegno si diffuse rapidamente e le loro prestazioni furono richieste, a fianco o in sostituzione del personale laico, a Genova, a Napoli, a Firenze, a Mantova, a Bologna e a Milano, presso il prestigioso Ospedale Maggiore, che negli anni Novanta del Cinquecento mostrava considerevoli inefficienze sul piano organizzativo.

Ugualmente rilevante fu l’opera dell’Ordine regolare laicale degli ospedalieri di San Giovanni di Dio – detti popolarmente Fatebenefratelli – organizzatisi per proseguire l’opera del portoghese Giovanni Ciudad (1495-1550), che pure professavano un quarto voto di servire gli infermi. A un secolo dalla sua morte nella penisola italiana esistevano sei province (romana, siciliana, napoletana, milanese, barese e sarda) e gli ospedali fondati o amministrati dai Fatebenefratelli in Europa erano circa 300.

Il reclutamento di tali religiosi negli ospedali dipendeva dalle loro competenze sanitarie e soprattutto dalla possibilità di risparmiare sulle spese di gestione, ma non fu privo di frizioni. La loro presenza infatti poteva interferire, persino rompere, gli equilibri instauratisi tra i diversi attori politici, come accadde ai Camilliani in servizio dagli anni Novanta del Cinquecento presso l’Ospedale Maggiore di Milano. Nel corso del tempo essi divennero invisi a più ambienti: a quello diocesano che si era visto sottrarre un importante campo di intervento, nonché ai rettori dell’ospedale milanese, voce del patriziato cittadino, che temevano di vedere compromessa la direzione dell’istituto. L’esito di questi attriti fu dapprima la riduzione del numero dei religiosi, per giungere nel 1632 all’interruzione della collaborazione.

Leggendo le direttive sulla preparazione medica di questi religiosi si ricava l’impressione di una particolare attenzione alla formazione. Le costituzioni dei Fatebenefratelli risalenti al 1596, ad esempio, prevedevano che prima di essere ammessi al noviziato i candidati dovessero essere esaminati dal ‘fratello maggiore’ e inviati in un ospedale della congregazione per imparare a servire e assistere i degenti. Si tratta di proposte importanti per l’epoca, se si tiene presente che sovente negli ospedali gli infermieri non possedevano specifiche competenze mediche. Trattandosi però di testi normativi si rende necessario verificare se queste direttive fossero un manifesto di intenti oppure se e in che misura venissero messe in pratica. Contribuisce ad ampliare le conoscenze sull’argomento l’esperienza dell’ospedale fiorentino intitolato a San Giovanni di Dio amministrato dai Fatebenefratelli. I ricoverati, per lo più affetti da febbri, erano assistiti e curati dai religiosi infermieri, i quali possedevano solide conoscenze nell’arte della spezieria e competenze di bassa chirurgia.

Per quanto concerne l’attività delle congregazioni religiose femminili, almeno in età moderna, esse privilegiarono l’istruzione e l’aiuto alle fanciulle povere. Tra le poche dedite all’assistenza degli infermi si possono menzionare le Figlie di Carità. Istituite in Francia da Vincenzo de’ Paoli nel 1633 per il soccorso a domicilio dei poveri e degli infermi, esse si diffusero rapidamente in altri paesi, giungendo anche in Italia.

Dalla seconda metà del Settecento per gli ordini religiosi si aprì un periodo cruciale, destinato a protrarsi anche nel secolo successivo. Le soppressioni attuate dai sovrani nell’ambito del riformismo assolutistico e con azioni più radicali nella Francia rivoluzionaria e nelle repubbliche sorelle, li investirono in maniera talora anche molto incisiva, condizionandone l’operato. Con la Restaurazione i governi degli antichi Stati si affrettarono a istituire commissioni o congregazioni con il compito di amministrare gli enti caritativi e ospedalieri e di coordinarne le attività. Nei decenni che precedettero l’Unità si manifestarono tentativi più o meno decisi per ridurre il numero dei religiosi e per controllare le attività della Chiesa. Tuttavia, anche laddove questa politica assunse forme radicali – come accadde nel Regno di Sardegna, ove una legge del 1855 si propose di sopprimere gli ordini non dediti alla predicazione, all’istruzione e alla cura dei malati –, proprio in virtù dell’opera prestata nel settore assistenziale i religiosi riuscirono a proseguire la loro attività, come fecero i Camilliani e i Fatebenefratelli.

Non mancarono nuove iniziative, alcune delle quali accesero un intenso dibattito. Tra queste vale la pena di menzionare quella promossa dal sacerdote piemontese san Giuseppe Benedetto Cottolengo, che nel 1832 aprì la Piccola Casa della Divina Provvidenza, comunemente chiamata Cottolengo, e per assicurare adeguata assistenza ai malati cronici, alle persone affette da malformazioni fisiche e da ritardi mentali diede vita alla congregazione dei Fratelli di San Giuseppe Benedetto Cottolengo. Le perplessità nei confronti di simili istituti riguardano prevalentemente l’isolamento degli ospiti che finisce quasi per occultarli alla società, anziché favorirne l’integrazione nella stessa.

Nonostante la complessità delle opere descritte, a contrassegnare l’Ottocento fu soprattutto il proliferare di congregazioni ospedaliere femminili vocate all’assistenza degli ammalati a domicilio e a quelli ricoverati negli ospedali. Accanto alle Figlie di Carità, alle cui regole si ispirarono e si modellarono molte famiglie religiose, iniziarono a prestare la propria opera negli enti ospedalieri le Suore Ministre degli Infermi di San Camillo, nate a Lucca per volontà di Maria Domenica Brun Barbantini, le Sorelle della Misericordia, fondate da don Carlo Steeb a Verona nel 1840, le Ancelle di Carità, istituite nel 1840 da Paola di Rosa, per menzionarne soltanto alcune. Le religiose divennero una presenza abituale nei reparti ospedalieri consentendo alla Chiesa di riguadagnare nell’ambito assistenziale un significativo spazio e ruolo sociale.

Fonti e Bibl. essenziale

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LEMMARIO




Ospedali - vol. II


Autore: Marina Garbellotti

Chi intenda ripercorrere la storia ospedaliera italiana non può esimersi dal considerare il rilevante contributo apportato dagli uomini e dalle donne di Chiesa. Essi scrissero un capitolo significativo di questa storia promuovendo la fondazione di ospedali, prestando servizio nelle strutture sanitarie civili e attivando corsi per la formazione del personale sanitario di base. A questa ragguardevole presenza, però, non corrispondono altrettante ricerche. Molti degli studi esistenti si concentrano sulle questioni istituzionali, in particolare sui secolari contrasti tra Stato e Chiesa, che hanno connotato la storia ospedaliera e quella assistenziale italiana, mentre tendono a soffermarsi marginalmente sull’organizzazione e sul grado di medicalizzazione degli ospedali religiosi, sulla preparazione del personale sanitario ivi operante, rendendo la descrizione di un quadro d’insieme parziale. Quanto segue non può non riflettere tale indirizzo storiografico.

Proseguendo l’orientamento dei governi della Restaurazione, negli anni immediatamente successivi all’Unità la politica sociale promossa dallo Stato è dominata dall’obiettivo di realizzare l’accentramento amministrativo degli ospedali. Tale processo, destinato a protrarsi sino all’entrata in vigore della legge ospedaliera del 1968, è segnato da non poche contraddizioni. Se per un verso lo Stato cercò di estendere il controllo sul sistema assistenziale, per l’altro non riuscì, o meglio non intese, sottrarre la gestione delle opere pie ai tradizionali amministratori. Questa tendenza emerge chiaramente dalla legge sulle opere pie del 1862: si tratta della legge Rattazzi varata in Piemonte nel 1859 e ripresa dopo l’Unificazione. La norma, che prevedeva l’istituzione delle Congregazioni di Carità in ogni comune del Regno d’Italia col compito di coordinare gli interventi a favore dei bisognosi, non intervenne sull’organizzazione delle opere pie e sul loro ambito di azione lasciando ai notabili locali e agli ecclesiastici la gestione degli istituti ospedalieri e caritativi. Beninteso, tale scelta fu dettata dal proposito di salvaguardare le reti clientelari e i profitti economici derivanti dalla direzione degli enti caritativi, mentre lo Stato assumeva esclusivamente il ruolo di garante mediante un’attenta sorveglianza sull’operato degli istituti assistenziali e di beneficienza. Poco prima dell’approvazione della legge sulle opere pie il governo avviò un’inchiesta per censire e per conoscere la situazione delle opere pie attive nel territorio nazionale al 1861 in relazione al numero, alle finalità, alla natura giuridica e all’aspetto patrimoniale. Secondo i dati raccolti, pubblicati tra gli anni 1868-1873 in 15 volumi – uno per regione, ai quali ne venne aggiunto uno per il Lazio –, le opere pie erano 20.123, di cui 955 ospedaliere (pari al 5% del totale) e nello specifico 897 erano ospedali per infermi, 23 ospizi di maternità e 35 manicomi. Massiccia era presenza delle Opere miste di beneficenza e di culto in tutto 8.744.

Come è noto, le tensioni tra Stato e Chiesa culminarono con la legge eversiva del 1866 (estesa alla Provincia Romana nel 1873), che decretava la soppressione degli «Ordini, Corporazioni e Congregazioni religiose regolari e secolari, Conservatori e Ritiri, i quali importino vita comune ed abbiano carattere ecclesiastico». Di fatto, però, nessun ordine religioso fu soppresso o scomparve. Non era questo l’intento del legislatore, il quale si proponeva di togliere il riconoscimento giuridico agli istituti religiosi e di trasferirne i beni nelle casse statali. Inoltre, la disposizione non fu applicata ovunque con rigore e soprattutto le amministrazioni locali non erano in grado di rinunciare al servizio prestato dai religiosi e dalle religiose negli ospedali, nelle scuole e nel settore assistenziale. Ciò non significa che il provvedimento fu inefficace. In questo contesto merita di essere menzionato quanto accadde a Roma, dove, dopo il 1873, furono chiuse o vendute 134 case religiose abitate da circa 3000 mila persone. Per effetto della legge, poi, le cui ripercussioni si avvertirono anche dopo qualche decennio, alcuni ospedali diretti dagli ordini ospedalieri dovettero cessare la loro attività – così accadde a Padova e a Cremona per i nosocomi dei Fatebenefratelli – e molti religiosi furono estromessi dai luoghi di cura. Sintomatico il caso del manicomio veneziano di San Servolo, dal quale i Fatebenefratelli dovettero ritirarsi dopo averlo gestito per più di un secolo. Nonostante lo Stato perseverasse nel progetto di ridurre la presenza degli istituti ecclesiastici, i religiosi si riorganizzarono. I Camilliani, ad esempio, continuarono a prestare la loro opera nelle case private offrendo soccorso materiale e spirituale agli infermi, e promossero la fondazione delle cosiddette Case della Salute, cliniche private dipendenti dall’ordine dei Ministri degli Infermi, presso le quali i religiosi potevano professare il quarto voto di assistenza agli ammalati.

Nel 1890 con l’approvazione della legge Crispi, invano contrastata da cattolici e conservatori, fu compiuto un ulteriore passo nella direzione intrapresa dallo Stato di assoggettare le istituzioni assistenziali. Nell’intento, raggiunto parzialmente, di migliorare e di laicizzare il servizio assistenziale e sanitario, essa trasformava le opere pie in istituzioni pubbliche di beneficenza (IPB), dove per opere pie si dovevano intendere gli enti riservati ai poveri, «tanto in stato di sanità quanto di malattia», finalizzati a favorirne «il miglioramento economico e morale» mediante l’istruzione, l’avviamento al lavoro o altre modalità. Definendo enti pubblici le opere pie, il legislatore intendeva sottoporre al medesimo regime giuridico istituti di natura diversa, in particolare quelli rientranti nel sistema caritativo privato ed ecclesiastico, al fine di inserirli nell’organizzazione amministrativa dello Stato. Anche in questo caso il principio fondamentale dell’autonomia delle opere pie fu rispettato, ma venne accentuato il controllo sulla conservazione e sulla gestione dei patrimoni. Il prevalere di interessi localistici e l’importanza delle attività assistenziali e sanitarie sostenute dai religiosi, però, allentarono la rigida osservanza della norma. La sua importanza, tuttavia, risiede nell’introduzione di un principio fondamentale di politica assistenziale, e cioè nell’obbligo di soccorrere chiunque almeno nei casi di urgenza. Cominciava a maturare l’idea che l’ospedale dovesse svolgere un servizio pubblico.

Durante il periodo fascista la politica assistenziale mirò a proseguire e a rafforzare il programma di centralizzare la vigilanza sulle istituzioni benefiche e nel contempo favorì la nascita di enti assistenziali nati in seno al partito. Tra gli esiti di questo disegno va annoverata la legge del 1923 che tra i vari provvedimenti estese le attività di controllo sulla gestione amministrativa degli enti di assistenza e di beneficienza (ora denominate IPAB, non più IPB), pur non intaccandone l’autonomia. Fu inoltre ribadito con maggiore rigore il principio che l’assistenza ospedaliera era un diritto pubblico stabilendo la prestazione ospedaliera erga omnes nei casi di urgenza. Seppure lentamente l’ospedale si avviava ad assumere la funzione di luogo di cura dotato di personale specializzato e a servizio di tutti i cittadini. Occorrerà, infatti, arrivare alla legge ospedaliera del 1968 per assistere a una riforma radicale in questa direzione.

Prima di illustrare gli elementi salienti di questa norma, è opportuno ricordare che l’orientamento laicista, tratto peculiare della storia dell’assistenza, subì un forte ridimensionamento durante il periodo fascista, allorché, per ragioni di natura esclusivamente politiche, fu concesso alla Chiesa di riguadagnare spazio nell’ambito sanitario e assistenziale. Esempio di questa politica è la legge Ferderzoni del 1926, che riammise gli ecclesiastici nei consigli amministrativi delle istituzioni assistenziali e pochi anni dopo riconobbe agli ordini e alle congregazioni religiose personalità giuridica permettendo, quindi, agli stessi la capacità di acquistare e di possedere. L’attività assistenziale e sanitaria promossa dalle istituzioni religiose riprese dunque vigore. Sempre in questa fase storica, nel 1937 le Congregazioni di Carità furono sciolte e trasformate in Enti comunali di assistenza (ECA) allo scopo di coordinare tutti gli istituti finalizzati all’assistenza generica. Nonostante queste alterne vicende la Chiesa continuò a vigilare sui numerosi ospedali di pertinenza degli Ordini religiosi ospedalieri, quali i Fatebenefratelli, i Camilliani, l’Ordine di Malta. Relativamente a questa tipologia di ospedali un significativo cambiamento avvenne con la già menzionata legge ospedaliera del 1968. In attuazione a quanto disposto dall’art. 32 della nostra Costituzione, che afferma la tutela del diritto alla salute e riconosce tale diritto a tutti, la legge considera l’assistenza ospedaliera un servizio sanitario pubblico destinato all’intera collettività, superando la precedente legislazione in cui il concetto di assistenza era legato a quello di beneficienza. Essa, inoltre, intese conferire un assetto unitario all’organizzazione dell’assistenza ospedaliera, avviando un processo di ‘statalizzazione’ della sanità. Nell’intento di proporre un’organica disciplina in materia, gli ospedali ecclesiastici, al pari degli altri, purché dotati dei requisiti richiesti, potevano essere classificati nell’ambito di una delle categorie di ospedali stabiliti dalla legge per essere inseriti nella programmazione ospedaliera. A seguito di questa norma molti ospedali di pertinenza degli ordini religiosi hanno ottenuto la «classificazione» e di conseguenza assunto valenza pubblicistica. Con l’istituzione del Servizio Sanitario Nazionale, avvenuta nel 1978, non fu introdotta alcuna novità in ordine al regime giuridico-amministrativo degli ospedali ecclesiastici. In Italia il peso della Chiesa nel campo sanitario è diminuito notevolmente rispetto ai secoli passati, nonostante gli ospedali religiosi, privati e classificati, continuino a operare. Diversamente, esso è divenuto incisivo e rilevante in quei paesi extraeuropei dove è carente o inesistente il sistema sanitario pubblico.

In questo breve excursus storico corre l’obbligo di affrontare il tema delle suore infermiere per l’imponente ruolo che svolsero nel campo dell’assistenza sanitaria a domicilio e negli ospedali sino alla prima metà del Novecento. Sono innumerevoli le congregazioni femminile, molte delle quali nate nel corso dell’Ottocento, dedite all’assistenza degli infermi, tra le quali si possono menzionare le Figlie della Carità di san Vincenzo de Paoli, le Suore della Carità della Thouret, le Figlie di san Camillo, le Sorelle della Misericordia, le Suore di Maria Bambina, e l’elenco potrebbe continuare.

L’infermiera religiosa divenne una presenza abituale e non facilmente sostituibile nei luoghi di cura. Pronunciando il quarto di assistenza agli infermi, le suore soccorrevano anche gli ammalati contagiosi ed erano sempre disponibili a prestare servizio. Nel 1902, ad esempio, i religiosi impiegati negli ospedali risultavano 4.313 (70 maschi e 4.243 femmine), e le suore rappresentavano il 40% del personale sanitario, una cifra destinata a crescere nei decenni successivi. La cura degli infermi era vissuta come una missione alla quale votarsi pienamente, caratteristiche queste che plasmarono il profilo di tale figura professionale. Sino agli Settanta del secolo scorso, infatti, essa era associata alla donna preferibilmente nubile e, almeno in Italia, gli uomini furono ammessi alle scuole per infermiere professionali dal 1971. Prima dell’apertura delle scuole infermieristiche laiche, la cui nascita in Italia si colloca solo nel primo decennio del Novecento, in ritardo rispetto alla Gran Bretagna e agli Stati Uniti, erano dunque le suore ad occuparsi della formazione del personale infermieristico e a prevalere nel corpo infermieristico offrendo un servizio qualificato e a costi ridotti. Ragioni etiche e di decoro proibivano alle suore infermiere di prestare cure agli ammalati uomini e di assistere nei reparti di maternità, tuttavia queste limitazioni furono sovente risolte con l’introduzione di una figura-ponte tra la religiosa e l’ammalato e nel corso del tempo alcuni istituti religiosi ridussero le proibizioni in tal senso.

Pur privilegiando altri settori di intervento, la presenza delle religiose infermiere negli ospedali è stata determinante. Secondo i dati raccolti nel 1950 dalla Sacra Congregazione dei Religiosi, ad esempio, il 26,4%, pari a 34.796 religiose italiane, prestava la propria opera nei servizi sanitari ospedalieri, mentre la maggior parte era impegnata nei servizi scolastici (43,3%) e il 30,3% si dedicava a quelli educativi assistenziali. Dagli anni Cinquanta del Novecento si registra il calo numerico delle religiose infermiere: dal 1975 al 1992 esse passarono da 15.234 a poco più di 10.000 con una flessione tutt’oggi in corso che ha prodotto una inversione di tendenza. Mentre in passato gli ospedali laici assumevano numerose religiose per assolvere compiti sanitari e organizzativi, negli ultimi decenni sono gli ospedali religiosi a ricorrere al personale laico. La curva decrescente delle religiose infermiere si spiega sia con la diminuzione delle vocazioni avvenuta negli ultimi decenni, che ovviamente si ripercuote sulle attività sociali praticate dai religiosi e dalle religiose, sia, e forse soprattutto, con i mutamenti avvenuti nella società civile. Il maggiore spazio conferito all’occupazione femminile ha indotto le religiose a rinunciare all’assunzione dei tradizionali ruoli di infermiera e di insegnante, largamente assunti da persone laiche, per votarsi all’attività sanitaria, assistenziale ed educativa in ambiti più ricettivi tra i quali primeggiano le missioni.

Fonti e Bibl. essenziale

S. Andreoni, Da Porta Pia agli anni Trenta, in S. Andreoni, C.M. Fiorentino, M.C. Giannini, Storia dell’Ordine di San Camillo. La provincia Romana, Rubbettino, Soveria Mannelli 2012, parte terza, 175-262; P. Battilani, I protagonisti dello Stato sociale italiano prima e dopo la legge Crispi, in V. Zamagni (ed.), Povertà e innovazioni istituzionali in Italia. Dal Medioevo a oggi, il Mulino, Bologna 2000, 639-670; A. Brusco, L. Biondo (edd.), Religiose nel mondo della salute, Edizioni Camilliane, Torino 1992; P. Carucci, Gli archivi ospedalieri: normativa, censimento, conservazione, in Studi in memoria di Giovanni Cassandro, I, Ministero per i beni culturali e ambientali, Roma 1991, 109-137; E. Colagiovanni, Le religiose italiane: ricerca sociografica, Centro Studi U.S.M.I, Roma 1976; A. Ciuffetti, Difesa sociale. Povertà, assistenza e controllo in Italia, XVI-XX secolo, Morlacchi, Perugia 2004; P. Frascani, Ospedale e società in età liberale, il Mulino, Bologna 1986; G. Gozzini, Povertà e Stato sociale: una proposta interpretativa in chiave di path dependence, in V. Zamagni (ed.), Povertà e innovazioni istituzionali in Italia. Dal Medioevo a oggi, il Mulino, Bologna 2000, 587-610; A. Madera, Gli ospedali cattolici. I modelli statunitensi e l’esperienza giuridica italiana: profili comparatistici. II: Gli enti ospedalieri cattolici (prospettiva comparatistica), Giuffré, Milano 2007; G. Martina, La situazione degli istituti religiosi in Italia intorno al 1870, in Chiesa e religiosità in Italia dopo l’Unità d’Italia (1861-1878), III/1, Vita e Pensiero, Milano, 194-335; M. Piccialuti Caprioli, Il patrimonio del povero. L’inchiesta sulle opere pie del 1861, in “Quaderni storici”, 45 (1980), 918-941; G. Rocca, Donne religiose. Contributo a una storia della condizione femminile in Italia nei secoli XIX-XX, Edizioni Paoline, Roma 1992; G. Rocca, Le strategie anticonfisca degli istituti religiosi in Italia dall’Unità al Concordato del 1929: appunti per una storia, in R. Di Pietra, F. Landi (edd.), Clero, economia e contabilità in Europa. Tra medioevo ed età contemporanea, Carocci, Roma 2007, 226-247; D. Preti, La questione ospedaliera nell’Italia fascista, in F. Della Peruta (ed.), Malattia e medicina (Storia d’Italia. Annali n. 7), Einaudi, Torino 1984, 335-389; C. Sironi, Storia dell’assistenza infermieristica, La Nuova Italia Scientifica, Roma 1991; C. Sironi, L’infermiere in Italia: storia di una professione, Carocci, Roma 2012; M.I. Venzo, Gli ospedali romani dopo l’Unificazione, in “Chiesa e Storia”, 2 (2012), 297-309; G. Vicarelli, Alle radici della politica sanitaria in Italia. Società e salute da Crispi al fascismo, il Mulino, Bologna 1997.


LEMMARIO




Padovan Gianluca


 





Paganesimo - vol. I


Autore: Paolo Siniscalco

Con questo termine ci si riferisce generalmente all’insieme delle religioni e delle manifestazioni politeistiche dinnanzi alle quali si è trovato il cristianesimo al suo sorgere ed alle quali si è opposto. La designazione è generica comprendendo i diversi culti nazionali (si parla di paganesimo greco e di paganesimo romano), i misteri, i culti astrali e altre espressioni religiose diffuse nei primi secoli della nostra era, ma si estende anche agli usi, ai costumi, ai sistemi morali connessi a quella visione del mondo. Il sostantivo deriva dall’aggettivo latino paganus, la cui etimologia non è chiara. Una prima ipotesi vede una stretta connessione con pagus, che significa ‘villaggio di campagna’, ma anche ‘distretto’, ‘cantone’, ‘provincia’, quindi un territorio in cui vi risiede l’autoctono, che è fedele alle tradizioni sacre del luogo e si limita a rendere omaggio agli dei locali, a differenza di chi abita i centri urbani e pratica i culti che vi sono diffusi. Quindi ‘pagani’ sarebbero stati denominati gli abitanti dei villaggi di campagna, nei quali il cristianesimo si diffuse tardivamente e con lentezza. Ma in questo caso la designazione non potrebbe essere anteriore al IV secolo, al tempo cioè in cui in cui l’Impero romano va cristianizzandosi (come attestano due iscrizioni C.I.L. X2, 7112 e C.I.L. VI, 30463 e successivamente altre testimonianze fino a che diviene d’uso corrente).

È noto che, per esempio, nell’Alta Italia e in Romagna ancora nei primi decenni del IV secolo, le tracce cristiane sono scarse e ancora decrescono guardando verso Occidente. Una seconda ipotesi valorizza un significato secondario che ha l’aggettivo paganus nel latino classico, ove vuol dire anche ‘civile’ ‘borghese’, ‘non soldato’. In un passo di uno scritto di Tertulliano, risalente ai primi anni del III secolo (De corona 11,5) si legge: «Apud hunc [scilicet Christum] tam miles est paganus fidelis quam paganus est miles fidelis». Ivi lo scrittore vuole dire che il Signore non fa differenza quanto alle condizioni degli uomini e il gioco di parole verte su fidelis, mentre paganus non ha il senso di ‘pagano’ nella accezione tecnica cristiana, ma, nel passo citato, continua a significare ‘civile’, ‘non soldato’. Lo prova un altro luogo tertullianeo del De pallio (4,8): «paganos in militaribus (uestibus). Una terza ipotesi suppone che la parola sia stata adottata nella lingua comune con il senso più largo di ‘particolare’, ‘profano’, di chi non appartiene a un gruppo definito, di chi insomma non è membro di una comunità.

I pagani sarebbero stati dunque coloro che non appartenevano al gruppo dei cristiani gli alieni a civitate Dei (cf. Orosio, Hist., Prol 1,9) Mohrmann). Queste le ipotesi che lasciano aperto il problema, pur tentando di giustificare un così deciso trapasso semantico del termine paganus, da un senso profano a un senso religioso. A mio credere, ritengo plausibile la prima ipotesi in quanto è sostenuta da varie ragioni. Nel tempo più antico il significato dei paganus non ha a che fare con il senso religioso assunto successivamente. Inoltre i ‘pagani’, negli scritti degli autori cristiani antichi erano denominati con altri termini. Ancora Tertulliano, intorno al 200, quando scrive un’opera contro di loro, la intitola Adversus nationes, come più tardi farà Arnobio, mentre solamente all’inizio del V secolo Paolo Orosio intitolerà Adverus paganos i suoi Historiarum libri VII (però, come si sa, i titoli delle opere antiche vanno presi con cautela per la tradizione manoscritta che ce li fa conoscere). Il termine nationes (o gentes) traduce il greco ethne, che nella traduzione dell’A.T. dei LXX si contrappone a laos, riferito al popolo santo di Israele (presso gli Ebrei specialmente il termine goyim – plurale di goy – designa i popoli stranieri, i ‘pagani’ in contrapposizione a Israele). A sua volta il N.T. riprende il vocabolo ethne, con il suo derivato, cioè ethnikoi. Infine l’uso dell’aggettivo paganus e del sostantivo paganismus, con riferimento a chi praticava i culti antichi, sono usati, per quanto mi consta, da autori del IV secolo o di secoli successivi. Come si può notare il cristiano definisce il paganesimo a partire da se stesso, in funzione della propria coscienza.

Un cenno va fatto a gruppi di persone che rivendicano anche oggi la definizione di ‘pagani’e che esprimono sentimenti di ‘simpatia culturale’ o praticano forme di culti pagani (non solo greco-romani, ma anche germanici o celtici). Essi hanno voce anche in Italia e trovano ispirazione, tra gli altri, in Nietzsche, che ha rivalutato e reinterpretato l’antico movimento. La visione del mondo proposta è, come ben si può capire, profondamente diversa da quella cristiana: per esempio, rivaluta il ‘sacro’, rifiuta la creazione e la storia, esalta i tradizionalismo, respinge l’idea di colpa.

Fonti e Bibl. essenziale

A von Harnack, Missione e propagazione del cristianesimo nei primi tre secoli, trad. ital., Lionello Giordano Editore, Cosenza 1986, 513 ss.; A. Pincherle, in Enciclopedia Italiana, Roma 1949, 922, s.v ‘Paganesimo’; H. Maurier, Teologia del paganesimo, trad. ital., Gribaudi, Torino 1968; Id., in Dizionario delle Religioni diretto da P. Poupard, vol 3, Milano 2007, 1652-1654, s.v. Paganesimo; P. Siniscalco, in NDPAC, A. Di Berardino (ed.), Marietti, Casale Monferrato 2008, 3747-3749, s.v. Pagano-paganesimo; Chr.Mohmann, “Encore une fois: paganus”, in Eadem, Études sur le latin des Chrétiens, t. III, Storia e Letteratura. Raccolta di studi e testi, Roma 1979, 277-289 (ivi si sono dati i riferimenti dei contributi di autori moderni che hanno proposte le varie ipotesi citate); L. Padovese, Lo scandalo della croce. La polemica anticristiana nei primi secoli, Dehoniane, Roma 1988; F. Ruggiero, La follia dei cristiani. La reazione pagana al cristianesimo nei secoli I-V, Città Nuova, Roma 2002 (alle pp. 335 ss. ampia bibliografia). L. Lugaresi, “Perché non possiamo più dirci pagani. Spunti patristici per una critica del neopoliteismo contemporaneo,” in Verità e mistero nel pluralismo culturale della tarda antichità, a cura di A.M. Mazzanti, Edizioni Studio Domenicano, Bologna 2009, 282-347.


LEMMARIO




Paganesimo - vol. II


Autore: Angelo G. Dibisceglia

Con la libertà religiosa introdotta dalla Rivoluzione Francese, l’antico concetto di paganesimo – fino a quel momento utilizzato per indicare forme religiose altre ed estranee rispetto al cristianesimo ufficiale, oppure espressioni di religiosità popolare identificate con proiezioni magiche e, per questo, ritenute poco ortodosse dalla religione ufficiale – assunse un inedito significato. Se fino alla fine del XVIII secolo, la tradizionale alleanza fra trono e altare aveva rappresentato l’unica condizione in grado di assicurare al cristianesimo di Roma di vivere influente e libero da ogni persecuzione e, quindi, di compiere la sua missione evangelizzatrice, il secolo dell’Illuminismo – di fatto – favorì lo sgretolamento di quel rapporto, determinando la secolarizzazione dello Stato e, con essa, la nascita della laicità che, nei confronti della Chiesa, attraverso una riduzione degli spazi gestiti fino a quel momento dal cattolicesimo, assunse il volto della libertà religiosa. A partire da quel momento, la Chiesa non doveva più soltanto fare i conti con i movimenti religiosi alternativi alla fede cristiana e il paganesimo non era più soltanto ciò che si contrapponeva alla Chiesa, ma cominciò a simboleggiare – anche – l’insieme dei fenomeni che, strumentalizzando la Chiesa, avrebbero mirato al raggiungimento dei propri obiettivi. In quel contesto, un ventaglio più ampio offriva percorsi di salvezza, in alcuni casi paralleli a quelli proposti dalla Chiesa cattolica, in altri opposti alla fede di Roma.

In alcuni Paesi europei quei processi, a partire dalla metà del XIX secolo, con la pubblicazione nel 1848 del Manifesto del Partito Comunista di Carlo Marx e Federico Engels, assunsero il volto del socialismo la cui diffusione sfociò, in breve, nella lotta di classe. In Italia, la definitiva affermazione della politica liberale sancita dal principio cavouriano di una “libera Chiesa in libero Stato”, nonché la velata diffusione delle logge massoniche, definirono ulteriormente l’estraneità della Chiesa cattolica da una società caratterizzata da notevoli progressi umani, ma anche e soprattutto da profondi turbamenti sociali. Il processo di laicità e di liberalizzazione innescato dalla rivoluzione francese e sancito dalla rivoluzione industriale diventava, quindi, un ineludibile percorso in grado di guidare la società verso ambiti sempre più estranei – perchè lontani – alla Chiesa. Di fronte a quella situazione, la Chiesa subì un senso di emarginazione, affidandosi in un primo tempo all’arma della condanna con la pubblicazione del Sillabo nel 1864, in una fase successiva al proporre una via alternativa alla lotta di classe con la pubblicazione della Rerum novarum di Leone XIII nel 1891.

I primi anni del Novecento registrarono il diffondersi del modernismo, che minò alla base l’infallibilità del pontefice, e della conseguente “guerra al prete”, ufficialmente condannato il 3 luglio 1907 con il decreto Lamentabili del Sant’Uffizio e, di lì a poco, con l’enciclica Pascendi (8 settembre 1907). Nuove forme di paganesimo si svilupparono in Italia in concomitanza con lo scoppio della Prima Guerra Mondiale, quando il conflitto generò la “sacralizzazione della guerra”, impegnando vescovi e clero – animati da spirito nazionalistico su diversi fronti – a benedire truppe e armi. Anche il primo dopoguerra registrò fenomeni pagani come l’accentuarsi dei particolarismi e degli egoismi nazionali, la sopraffazione dei vinti, la mancanza di qualsiasi solidarietà fra le nazioni, favorendo la nascita di miti – come la “vittoria mutilata” in Italia – che, nonostante tutto, continuarono a seminare odio. Quei miti non solo rafforzarono il nazionalismo, ma lo resero irrazionale, favorendo l’esigenza di un totalitarismo che, in una società scristianizzata, rappresentò il tentativo di colmare il vuoto causato dalla mancanza di valori assoluti. Fu la sacralizzazione della politica che, come valore assoluto ed unico, annullò qualsiasi libertà, anche quella di pensiero.

Nacquero e si svilupparono da quelle premesse, nelle nazioni dove più debole fu il senso della democrazia, i regimi totalitari: Mussolini in Italia, Salazar in Portogallo, Franco in Spagna, Hitler in Germania. Sistemi di vita che individuarono nella religione uno dei punti di appoggio per la propria affermazione ma che, alla fine, non si lasciarono cristianizzare. Quei sistemi, nel tentativo di assolutizzare la politica, cercarono di sostituirsi all’esperienza religiosa, tentando di confinare la religione in un ambito secondario della società italiana. In quelle stesse nazioni, la Chiesa cattolica svolse un ruolo da protagonista, se non proprio primario. In quegli stessi anni, infatti, si passò da una fase di dialogo fra Stato e Chiesa a delle importanti concessioni ricevute dalla Chiesa cattolica. Fu l’epoca dei concordati che non significarono soltanto riconoscimento di un ruolo, ma talvolta rappresentarono un vero ricatto e una sofferta e silenziosa strumentalizzazione.

Dopo la Seconda Guerra Mondiale – e la condanna di papa Pio XI quasi simultanea dei totalitarismi nazista pagano (enciclica Mit brennender Sorge – 1937) e comunismo ateo (Divini Redemptoris – 1937) – la Chiesa di Pio XII dimostrò che la democrazia non era più percepita semplicemente come un sistema di governo tra gli altri, ma piuttosto come un sistema di valori conforme ai postulati della legge naturale e – per tale ragione – in perfetta consonanza con lo spirito del Vangelo. Furono i principi ispiratori dell’impegno dei cattolici nell’Italia del secondo dopoguerra, quando la Chiesa, attraverso la Democrazia Cristiana di Alcide De Gasperi e la scomunica dei comunisti decretata nel luglio 1949, riconquistò il monopolio per la cristianizzazione della società. In quel contesto, papa Pio XII ribadì la posizione equidistante della Chiesa dagli schieramenti che, nel clima della Guerra Fredda, stavano regolando l’assetto della geopolitica internazionale, e richiamò l’autorità ecclesiale – in quanto realtà “sovranazionale” – a contribuire alla realizzazione di un nuovo modello di società, diversa al comunismo di origine sovietica e dal capitalismo di matrice americana.

Di fronte alla inedita diffusione dei processi di secolarizzazione – come il pericolo di una nuova propaganda protestante frutto della presenza alleata in Italia durante il più recente conflitto – e gli effetti di una società ormai caratterizzata dagli effetti del boom economico, gli strumenti a disposizione della Chiesa per individuare e dare risposte mostrarono la loro inadeguatezza. Erano i primi segni di un paganesimo che ritornava sotto le allettanti prospettive del progresso. In Italia non mancarono i timori dell’avvento di un società senza Dio determinata e affrettata anche dalla disattenzione e dalla negligenza degli stessi credenti. In quegli anni, auspicando un profondo rinnovamento morale della nazione, la Chiesa italiana richiamò il Paese a una unità duratura e affermò la propria prerogativa a intervenire per la determinazione, secondo un progetto di matrice pacelliana, di una società fondata sui principi della “restaurazione cristiana”. In quel contesto fu l’episcopato a farsi promotore di una concezione della quotidianità basata sulla diffusione di corretti costumi cristiani, sul ritorno alla moralità della esistenza degli individui, sulla cura della gioventù e su un corretto uso dei mezzi di comunicazione. Era il progetto verso la cui realizzazione la Chiesa in Italia aveva puntato fin dalla fine del secondo conflitto mondiale, ispirato dalla figura e dal magistero di Pio XII. In quel clima fu chiaro che la contemporaneità esigeva un approccio diverso alle diverse problematiche prospettate da una società diversa perché nuova. Era necessaria una fase di aggiornamento, assicurata dalle conclusioni del Concilio Vaticano II.

La mondializzazione registrata a più livelli – sviluppo economico, demografico, sociale – tra gli Anni Sessanta e Settanta impose una ridefinizione dell’atteggiamento della Chiesa nei confronti delle diverse forme di modernizzazione. In quel contesto si svilupparono nuove forme di secolarizzazione che, conseguenza dei nuovi stili di vita introdotti dal benessere sociale, finirono per innescare forme di neopaganesimo, all’interno delle quali, ancora oggi, secolarismo, scristianizzazione e relativismo continuano a impegnare l’etica e la morale cattolica.

Fonti e Bibl. essenziale

A. Acerbi, La Chiesa nel tempo. Sguardi sui progetti di relazioni tra Chiesa e società civile negli ultimi cento anni, Vita e Pensiero, Milano 1979; G. De Rosa, Vescovi, popolo e magia nel Sud. Ricerche di storia socio-religiosa dal XVII al XIX secolo, Guida Editore, Napoli 1983; G. Fiocco, L’Italia prima del miracolo economico. L’inchiesta parlamentare sulla miseria, 1951-1954; P. Lacaita Editore, Manduria-Bari-Roma 2004; A. Giovagnoli, La cultura democristiana. Tra Chiesa cattolica e identità italiana 1918-1948, Editori Laterza, Roma-Bari 1991; F. Malgeri, La stagione del centrismo. Politica e società nell’Italia del secondo dopoguerra (1945-1960), Rubbettino, Soveria Mannelli 2002; A. Riccardi, Intransigenza e modernità. La Chiesa Cattolica verso il terzo millennio, Editori Laterza, Roma-Bari, 1996; F. Traniello, Religione cattolica e Stato nazionale. Dal Risorgimento al secondo dopoguerra, Il Mulino, Bologna 2007.


LEMMARIO




Parrocchie - vol. I


Autore: Gaetano Greco

Nei primi secoli la diffusione del Cristianesimo in Italia, come in altre aree occidentali dell’Impero Romano, è stata un fenomeno quasi esclusivamente urbano, soprattutto in area settentrionale, e solo a partire del IV secolo si verificò quell’espansione della cristianizzazione nelle campagne, nei pagi, che a lungo incontrò una tenace resistenza da parte delle popolazioni locali. Per rispettare la tradizione urbana dell’Impero romano (una tradizione che si perpetuò anche dopo la sua fine), invece di procedere alla creazione di piccole diocesi incentrate sui villaggi con a capo i cosiddetti “corepiscopi”, come pure avvenne in alcune aree dell’Italia Meridionale (per es., in Puglia), i territori rurali delle diocesi furono mantenuti sotto il controllo ecclesiastico delle chiese cittadine e, per la loro amministrazione, furono suddivisi in distretti di dimensioni ridotte. Solo con il passare del tempo questi stessi distretti (o altri con caratteristiche simili), intesi nel senso di popoli di fedeli, ma talora anche di territori (come in seguito si affermerà sempre più spesso) e di chiese con un proprio patrimonio, hanno preso il nome di “parrocchie”. Questo termine, infatti, in lingua greca significava vicinato ed era usato nel diritto pubblico romano del III-V secolo per indicare un gruppo di province governate da un alto funzionario (il vicario): nel linguaggio ecclesiastico occidentale era stato usato inizialmente per indicare il territorio governato da un vescovo, cioè l’intera diocesi (che per lungo tempo coincideva di fatto con il territorio urbano), mentre proprio quest’ultima parola indicava la parrocchia rurale. Quindi, anche il nome di “parroco”, che oggi usiamo normalmente, ha sostituito solo assai lentamente quello giuridicamente più corretto di sacerdos proprius, che designa il sacerdote del distretto ecclesiastico, al quale il fedele è obbligatoriamente soggetto per l’amministrazione dei sacramenti (in particolare il battesimo), per i funerali, per il controllo dei comportamenti ecc.

Le chiese di questi distretti dipendevano da un vescovo e godevano di proprie entrate, che gestivano autonomamente e che derivavano sia dal possesso di propri beni fondiari (talvolta provenienti dallo stesso patrimonio episcopale), sia dalla porzione della “decima” vescovile spettante al clero. A queste entrate si aggiungevano offerte ed elemosine dovute dai fedeli per l’amministrazione di alcuni sacramenti, in particolare quelli connessi alle tappe principali dell’esistenza umana, come la nascita, il matrimonio e la morte (in seguito saranno chiamati “diritti di stola”). Non si può escludere, però, che già nella tarda antichità romana alcune di queste chiese rurali dispensatrici di sacramenti siano sorte per iniziativa e a spese non solo dei vescovi cittadini, ma anche degli stessi abitanti dei vici oppure dei proprietari dei grandi patrimoni fondiari, nelle loro villae, assumendo denominazioni come oratoria, martyria, memoriae, oracula, basilicae, capellae. Nelle città, invece, l’unicità del distretto ecclesiastico si mantenne più a lungo, sotto la guida e la cura del vescovo, coadiuvato dal suo clero: questa “parrocchialità” urbana esclusiva del vescovo si protrasse nel tempo, in qualche caso fu persino ristabilita dopo la rifondazione delle diocesi (come nella Sicilia dopo la conquista normanna) ed è arrivata fin quasi ai nostri giorni (in una città popolosa come Catania, per es.). Ciò non esclude, però, che nelle città demicamente più ricche – a partire dalla stessa Roma – fossero presenti altre chiese (come i tituli e i cemeteria nel caso romano), nelle quali i sacerdoti del presbiterio episcopale potevano svolgere per i fedeli alcune funzioni liturgiche e talora anche sacramentali su mandato del loro vescovo: la crescita e la trasformazione di queste succursali in vere parrocchie urbane fu un processo lento, disomogeneo, con risultati variabili da luogo a luogo. Anzi, dobbiamo ritenere che anche all’interno di ciascuna Chiesa locale la costruzione di un reticolo distrettuale ben definito sia stata l’esito di processi storici differenti e complessi nei tempi e nei modi: il frutto non già di programmi lineari e predeterminati, quanto piuttosto delle risposte adottate volta per volta di fronte all’emersione di problemi, alla presentazione di richieste da parte dei fedeli o degli ecclesiastici stessi.

I tempi e le modalità della genesi e della diffusione di queste strutture intermedie fra vescovo e fedeli sono tuttora in parte oscuri, anche perché dopo la fine dell’Impero Romano d’Occidente si sono abbattuti sulla nostra penisola due lunghe fasi di sconvolgimenti politici, che ne hanno devastato le strutture materiali e gli insediamenti umani, frantumandone l’assetto unitario risalente al I secolo a. C.: prima l’invasione longobarda e, dopo, le incursioni di Saraceni, di Ungari e di Normanni. Le conseguenze di questi eventi politico-militari furono pesantissime anche sulle Chiese locali, sia per le distruzioni e le perdite arrecate ai luoghi culto e alla loro documentazione, sia per la diversità delle dinamiche istituzionali innestate in quei tempi, divenute nel secolo scorso oggetto di studi e dibattiti da parte degli storici. La storiografia, infatti, si è posta il problema se il primo inquadramento istituzionale del cristianesimo nelle campagne sia avvenuto solo sulla base delle precedenti circoscrizioni civili (i pagi romani) o se talora abbia percorso nuove strade, rispondenti a esigenze specifiche della tarda antichità (come la maggiore o minore accessibilità dei luoghi, la permanenza di vie di comunicazione ecc.), costituendo così le premesse per la successiva fondazione di nuovi agglomerati umani, destinati talora a un solido successo, talora invece a un rapido declino, secondo il sopravvenire di ulteriori eventi e processi, fortunati o sfortunati. In altri termini, sin dalle sue origini e fino ai nostri giorni compresi l’istituto parrocchiale ha conosciuto una storia segnata dal paradigma della “continuità-discontinuità”, variabile nei tempi e nei luoghi, da studiare con pazienza caso per caso. Una dialettica simile si trascina da secoli fra la dimensione territoriale e la dimensione antropica della parrocchia. Se, infatti, con il trascorrere dei secoli i distretti parrocchiali hanno assunto confini geografici sempre più definiti e precisi, l’aspetto “personale” dell’adesione-subordinazione di individui e famiglie alla singola parrocchia, che ne caratterizzava le origini, è riemerso vistosamente lungo tutto il secondo millennio sotto la forma dell’“esenzione” di singoli e di comunità rispetto alla giurisdizione spirituale ordinaria su base territoriale.

Definendo sinteticamente e con approssimazione un modello generale, nell’Italia medioevale, e in particolare nelle sue regioni centro-settentrionali (ma l’appellativo e la struttura della pieve è attestato anche nell’Italia meridionale), le diocesi si articolavano al loro interno in distretti minori, chiamati “pievanati” (→ pieve), comprendenti un popolo di fedeli e il territorio in cui viveva. Questo nome riguardava anche lo spazio urbano (generalmente, ma non sempre e necessariamente, compreso – insieme con i suoi sobborghi – in un unico pievanato, chiamato “pievanato maggiore”), ma questa distrettuazione circoscrizionale segnava con maggiore evidenza l’organizzazione ecclesiastica delle campagne. La “pieve” o “pievania” (dal latino plebs) era una chiesa battesimale (cioè dotata di un proprio fonte battesimale) con un suo proprio territorio ed un suo popolo, e con “cappelle” o “titoli”. Queste altre chiese minori, di fondazione e proprietà talvolta della stessa pieve, talvolta di privati o anche di piccole comunità di contadini, dipendevano dalla pieve – anche quando erano fornite di clero proprio – ed erano prive del diritto di amministrare i sacramenti, poiché il diritto di amministrazione sacra spettava alla pieve in quanto chiesa pubblica, dipendente dal vescovo della diocesi. Da alcune di queste cappelle in seguito si svilupparono le “chiese curate”, tanto nelle campagne quanto nelle città: ad esse era demandata, in stretta subordinazione nei confronti delle pievi, l’amministrazione di alcuni sacramenti tranne il battesimo, che in genere rimaneva di prerogativa della pieve. Da queste chiese, o meglio, anche da un certo numero di queste chiese curate si svilupparono in seguito le chiese e i distretti parrocchiali anche all’interno del sistema pievanale. Quindi, il tipo di chiesa parrocchiale si distingue generalmente dalla chiesa pievanale, perché si presenta come una chiesa spesso di privati e/o di particolari, solo talora pubblica, con un suo territorio ed un popolo più limitati, e, anche quando era dotata di fonte battesimale, non aveva alle sue dipendenze altre chiese curate.

Le origini del sistema parrocchiale si confondono per lungo tempo con le origini del sistema pievanale: molte parrocchie dell’età moderna erano il residuo di precedenti pievanati, privati di chiese minori sacramentali a causa dello spopolamento dei villaggi, mentre altre pievi sono nate anche in epoca assai tarda, per smembramento di pievanati troppo estesi oppure in seguito ad interventi di riorganizzazione degli insediamenti umani, sulla base di progetti politici tesi a fondare nuove “terre” (borghi rurali o “quasi-città”) con la conseguente eliminazione o subordinazione di villaggi sparsi, e di altri programmi consimili. Inoltre, come non mancano casi di centri murati che hanno introcluso al loro interno pievi preesistenti, trasformandole di fatto in parrocchie per distretti territoriali più limitati, nel corso dei secoli alcune chiese battesimali sono state trasferite dalle zone più aperte ed indifese all’interno degli insediamenti più protetti: si tratta di fenomeni ricorrenti, corrispondenti sia al cosiddetto “incastellamento” medievale, sia alla nascita di nuovi centri con valenza economica in età moderna. D’altronde, fra la metà del X secolo e la metà dell’XI secolo il sistema pievanale fu coinvolto nella crisi dell’autorità episcopale, che subì la duplice pressione dei monasteri (in nome dell’“esenzione” dalla giurisdizione episcopale) e dei laici. Come appare dal Concilio di Pavia dell’855 quest’ultimi erano più interessati alla fondazione a proprie spese di chiese private (le “eigenkirche”) presso le loro abitazioni: chiese e cappelle, nelle quali, senza correre i rischi connessi ad un percorso esterno pur breve, potevano ascoltare la messa officiata da un sacerdote di propria scelta. La cura d’anime cominciò così a sgretolarsi, a parcellizzarsi, con effetti negativi tanto sul personale ecclesiastico, quanto sulle strutture istituzionali: si perse il carattere collegiale dell’antico presbyterium pievanale e fu intaccato lo stesso carattere pubblico della cura d’anime, privatizzata e sottratta alla vigilanza dei vescovi.

A partire dalla metà dell’XI secolo, in conseguenza della lotta per le investiture, della riforma gregoriana, dei movimenti laicali di riforma e della vigorosa ripresa dei diritti episcopali, sostenuti dal centro della Chiesa cattolica, iniziò il recupero dei diritti episcopali sulle pievi, sia nei confronti dei laici, sia nei confronti dei monasteri; anzi si giunse a condannare e vietare le donazioni di pievi in favore dei monasteri, imponendo la loro restituzione ai vescovi. Inoltre, per rafforzare il ruolo pubblico delle chiese parrocchiali – dipendenti dai vescovi diocesani – nei confronti degli istituti esenti e dei privilegi dei particolari, papa Leone IX (1049-1054) inviò una lettera ai vescovi dell’Italia, nella quale stabiliva che ogni laico, che intendesse entrare in un monastero, dovesse prima disporre della metà dei suoi beni in favore della parrocchia nella quale fino ad allora era vissuto. Per l’epoca successiva, pur correndo il rischio di generalizzare, si può ipotizzare una scansione cronologica della diffusione, anche in ambito urbano, del sistema parrocchiale in rapporto al sistema pievanale secondo due diverse fasi. Il primo periodo, fra il 1140 c. e il 1378, va dall’inserimento delle parrocchie, che si erano diffuse pure in Italia con la nascita delle signorie territoriali e dei comuni rurali, all’interno dei pievanati ancora con limitate funzioni e alle dipendenze delle chiese pievanali, nel quadro dell’organizzazione ecclesiastica della cura d’anime sino all’accentuarsi della crisi del sistema di tipo pievano. Il secondo periodo si protrae dagli inizi dello Scisma d’Occidente fino all’apertura del Concilio di Trento e presenta non poche difficoltà per ricostruire come un processo unitario una pluralità di situazioni assai differenziate. In effetti, per quanto riguarda l’Italia delle pievi, si possono fare almeno tre considerazioni. Pare assodato che in molte regioni ed aree italiane si sia verificata una diffusa promozione di fatto, anche se non sul piano del diritto, delle cappelle (signorili, private, comunitarie ecc.) al rango di parrocchie, con il riconoscimento del diritto di dotarsi di un proprio fonte battesimale. Poi, fra il XIII ed il XIV secolo mentre in molte aree della penisola italiana entrò in crisi l’istituzione pievanale quale unica struttura della cura d’anime delle campagne, in altre zone – o perché poste in località più periferiche, o perché facilmente percorribili dai fedeli – le pievi mostrarono una maggior resistenza, se non altro conservando l’esclusività di alcune funzioni sacramentali e di culto (come le processioni delle rogazioni). Per esempio, nel Trentino le pievi, anche mutando la terminologia, sono sopravvissute fino ai nostri giorni semplicemente adottando il nome di parrocchie. Più in generale, però, è certo che a partire dalla metà del Trecento, forse anche in relazione agli effetti della terribile crisi demografica che colpì l’Europa occidentale, un gran numero di chiese precedentemente destinate alla cura d’anime furono private dei loro sacerdoti titolari e vennero annesse ed incorporate con tutti i loro beni (“ammensate”) ad enti e uffici ecclesiastici anche lontani: monasteri maschili o femminili, altre chiese curate, capitoli canonicali o singole prebende canonicali delle cattedrali, collegi o benefici ecclesiastici, seminari, ecc. In questa direzione, però, il caso più radicale si ebbe in Sardegna, in seguito a una catastrofe non naturale, bensì politica: le rendite delle chiese rurali, ancora gestite dal clero nativo, furono incorporate alle chiese cittadine, divenute di esclusivo appannaggio dei chierici catalani e aragonesi, del clero degli invasori. Su un altro versante, poi, altri colpi furono inferti all’istituto parrocchiale dalla destrutturazione del sistema beneficiale, in seguito al cumulo dei benefici, delle resignazioni, delle provvisioni e delle dispense pontificie, delle pensioni sulle rendite, in violazione dei diritti dei patroni e dei collatori ordinari, cioè dei vescovi o dei capitoli canonicali. In tutti questi casi, i fedeli furono privati del sacerdos proprius e con esso vennero meno la garanzia delle funzioni liturgiche e la regolarità nell’amministrazione dei sacramenti, nonché l’esercizio di quei compiti di vigilanza sull’ortodossia religiosa, che il canone 21, Omnis utriusque sexus del Concilio Lateranense IV aveva attribuito ai parroci imponendo a tutti i fedeli di comunicarsi a Pasqua nella propria chiesa parrocchiale. Né la situazione della cura d’anime migliorava, quando gli amministratori dei benefici parrocchiali o gli stessi parrocchiani assoldavano qualche sacerdote per supplire all’assenza del rettore titolare: questi cappellani erano religiosi fuggiti dai propri conventi per insofferenza della disciplina claustrale o, assai peggio, erano chierici ignoranti (al limite dell’analfabetismo), emigrati dai loro paesi per sfuggire alla miseria o alla giustizia, violenti e rissosi, ma soprattutto “mercenari” e precari. Ancora alla metà del Cinquecento, l’assenza dei curati titolari dalle chiese dei villaggi rurali pare essere un fenomeno diffusissimo e comune in tutta la penisola, ma probabilmente raggiunse l’apice nella Sardegna asservita alla corona aragonese.

Dopo il grande disordine istituzionale e disciplinare, che colpì la Chiesa nel Rinascimento, e per rispondere ai problemi emersi con la diffusione delle dottrine della Riforma, la Chiesa cattolica adottò nel Concilio di Trento una normativa disciplinare specifica per i parroci. Questa normativa può essere riassunta in alcuni punti chiave. In primo luogo, tanto nei benefici parrocchiali di giuspatronato quanto in quelli di libera collazione, prima di assumere l’ufficio curato il nuovo parroco doveva sottoporsi ad un esame davanti ad una commissione di giudici nominati dal vescovo locale (gli “esaminatori sinodali”), dimostrando di possedere la preparazione culturale e teologica sufficiente per ottenere l’indispensabile approvazione alla cura d’anime. Inoltre, fu confermato che l’ufficio del parroco dovesse annoverarsi fra gli uffici “residenziali”: il suo rettore doveva obbligatoriamente risiedere di persona nel distretto della sua parrocchia, possibilmente in un’abitazione posta nei pressi della stessa chiesa. Infine, per meglio disciplinare i fedeli, verificando il loro regolare adempimento agli obblighi sacramentali imposti dai Concili e dalle altre norme canoniche, i parroci dovevano redigere e conservare con cura scrupolosa alcuni registri, nei quali segnare con precisione questi comportamenti dei fedeli. Qualche decennio più tardi, con il Rituale Romanum del 1614 papa Paolo V, specificando in dettaglio anche le formule da usare, definì con precisione i “cinque libri”, cioè questi registri nei quali i parroci dovevano annotare i battesimi, le cresime, i morti, i matrimoni e gli “stati di famiglia”, aggiornati annualmente, con i nomi degli adulti e degli infanti di ogni nucleo familiare. Fino all’Unità d’Italia, questi cinque libri hanno costituito il fondamento testimoniale pubblico dello stato civile dei singoli individui, escludendo dal godimento dei diritti civili (la proprietà, per esempio) chi ne era escluso (come gli ebrei). Anche se ci vollero almeno alcuni decenni per realizzare la riforma, nelle regioni centro-settentrionali la nuova disciplina riuscì a imporsi almeno nei suoi principi fondamentali, sia per l’opera dei vescovi e dei visitatori apostolici, sia grazie al rafforzamento del controllo governativo sul possesso dei benefici ecclesiastici locali contro le ingerenze della Curia romana. Anzi, la progressiva applicazione dell’obbligo di residenza costituì un forte disincentivo per i chierici cittadini ad occupare pievi e parrocchie rurali, favorendo così la formazione di un clero di campagna e di estrazione contadina (piccoli proprietari, fittavoli, artigiani), certo meno preparato culturalmente (ancora nel Settecento, per testimonianza dello stesso Benedetto XIV), ma sicuramente più presente sul territorio e più coinvolto nella vita reale dei parrocchiani.

Nell’Italia meridionale il discorso appare più complesso. La massiccia presenza di chiese a struttura collegiale (quelle “ricettizie”, “estaurite”, “comunie” etc., che raccolsero e continuarono l’eredità delle pievi) comportava l’attribuzione delle funzioni parrocchiali non già a un singolo ecclesiastico, titolare dell’ufficio a tempo indeterminato, bensì all’intero corpo collegiale, che in qualche modo spacchettava le singole mansioni, incaricandone ora questo ora quello dei suoi membri per un tempo più o meno lungo. In queste situazioni la parrocchialità risiedeva presso il corpo, e non presso un singolo rettore, e di fronte a un simile sistema a ben poco servivano le stesse funzioni di verifica delle competenze e dei costumi da parte degli esaminatori sinodali dei vescovi. Soprattutto nella porzione continentale del Regno di Napoli il fenomeno delle ricettizie con cura d’anime raggiungeva proporzioni massicce: ancora nella prima metà dell’Ottocento su 3.697 chiese parrocchiali, collegiate e cattedrali ben 1.118 (il 30,24 %) erano ricettizie. La loro distribuzione, però, non era uniforme: fra le chiese parrocchiali le ricettizie costituivano l’1,52 % nell’Abruzzo Ulteriore II, il 3,65 % a Napoli, il 46,20 % nel Molise, il 49,68 % nel Principato Citeriore, il 50,00 % in Capitanata, il 69,07 % in terra di Bari (con una punta del 96,00 % delle chiese parrocchiali della diocesi di Bari), l’85,86 % in Terra d’Otranto e il 93,42 % in Basilicata. Questa situazione, che contrastava apertamente con il modello beneficiale, egemonico nella Chiesa d’Occidente, e limitava le possibilità dei vescovi di esercitare il proprio controllo sul clero in cura d’anime, non fu colpita da significativi interventi correttivi da parte della gerarchia, almeno per tutta l’età moderna: la realtà ecclesiastica delle “nostre Indie” non godeva fra i canonisti e i teologi quell’attenzione e quella cura, che meritavano le regioni caratterizzate dal sistema beneficiale a prebenda individuale.

Eppure, anche il sistema beneficiale della cura d’anime presentava vistose carenze a livello delle risorse materiali impiegate e della disomogeneità dl personale addetto (in particolare fra le realtà urbane e quelle rurali), ma soprattutto continuò a scontrarsi per tutta l’età moderna contro potenti concorrenti proprio nell’esercizio della parrocchialità. A parte il perpetuarsi del retaggio pievanale in particolari situazioni locali, non soltanto in aree periferiche, per quasi tutta l’età moderna gli enti e corpi ecclesiastici, i titolari di commende, i monasteri maschili e monasteri femminili si opposero con successo all’imposizione tridentina della figura del vicario inamovibile nelle chiese curate di loro pertinenza: in queste chiese, quindi, fino ad oltre la metà del Settecento le funzioni parrocchiali rimasero affidate a sacerdoti secolari mercenari, percettori di miseri salari e impiegati a titolo precario. Del resto, gli ordini religiosi maschili riuscirono a difendere la stessa tenporaneità dell’incarico parrocchiale anche nelle chiese curate annesse ai rispettivi chiostri e gestite dagli stessi regolari: in questi casi il curato era scelto dal superiore della casa e l’ordinario diocesano si limitava ad approvarlo, volta per volta. E poi, anche quando non erano sedi parrocchiali, le case dei regolari esercitavano una potente forza d’attrazione nei confronti dei fedeli, in città come nelle campagne: una concorrenza costante e continua nell’amministrazione del sacramento della penitenza, nella predicazione e nell’insegnamento della dottrina, nella celebrazione delle messe e di altre funzioni religiose, deviando a proprio favore flussi rilevanti di legati pii e di offerte a discapito della chiesa parrocchiale. Non solo: anche se il Tridentino aveva garantito ai parroci la “quarta funeraria” (le offerte dovute per la celebrazione dei funerali), i religiosi continuarono a presenziare alle cerimonie funebri, pretendendo una parte delle elemosine e della cera impiegata. Su questo stesso terreno, poi, i parroci subivano la concorrenza delle confraternite laicali, che potevano garantire ai loro iscritti la “veglia” nelle loro cappelle e un corteo funebre di qualità superiore, con l’accompagnamento dei confratelli con tanto di cappe, cappucci, croci e ceri. Infine, soprattutto nella seconda età moderna visite pastorali e decreti vescovili documentano l’emergere di una nuova situazione concorrenziale nei confronti della centralità dell’ufficio parrocchiale: il proliferare di oratori particolari, soprattutto nelle ville di campagna dei proprietari terrieri, nei presso delle loro fattorie e delle loro ville. Il riordinamento delle strutture produttive in ambito agrario divenne così l’occasione per un’ulteriore spinta centrifuga: i padroni e i fattori imponevano ai loro contadini di assistere alla Messa negli oratori privati, disertando la messa domenicale parrocchiale, con la conseguenza che i fedeli delle campagne da una parte ricevevano una più ridotta istruzione religiosa e, dall’altra parte, si sfaldava il controllo che il parroco avrebbe dovuto esercitare sui comportamenti e le credenze delle proprie “pecorelle”.

Proprio quest’ultimo aspetto evidenziava le funzioni attribuite ormai al parroco da parte dei poteri pubblici. Considerato non solo un “mediatore culturale” fra la gerarchia ecclesiastica e i fedeli per l’importanza attribuita alla predica domenicale, all’esposizione della dottrina cristiana e alla presenza nel confessionale, il parroco era anche un piccolo burocrate al servizio sia della Chiesa, sia dello Stato moderno, al quale era tenuto a fornire i dati necessari per l’imposizione fiscale e l’amministrazione della giustizia, a partire dalla composizione delle famiglie della parrocchia. Una funzione burocratica così importante, da rendere la figura del parroco sempre ben accetta a tutti i poteri e come tale meritevole di una certa protezione e di un pur modesto sostegno economico. Si comprendono, perciò, le ragioni che indussero anche i governi riformatori del Settecento a imporre ai grandi enti ecclesiastici – secolari e regolari – e agli abati commendatari l’onere di sostituire nelle chiese poste alle loro dipendenze gli uffici di vicari curati “amovibili ad nutum” con posti ben remunerati di vicari curati “inamovibili”, proprio come aveva chiesto il Tridentino. Ma, soprattutto, le funzioni civili attribuite ai parroci spiegano l’interesse particolare dimostrato dai sovrani illuministi per accrescere il numero e migliorare la qualità dei loro “presidi”, mettendo in atto una politica di soppressione degli enti ecclesiastici e d’esproprio dei loro patrimoni, sfoltendo l’eccessiva densità di distretti curati in talune situazioni urbane (per es., la cinquantina di “cappelle” della Pisa medievale). In buona misura i beni così incamerati dallo Stato furono utilizzati proprio per fondare nuove chiese curate nei centri rurali o nei quartieri cittadini in via d’espansione, tenendo conto anche delle esigenze di particolari categorie sociali, come i minatori o i lavoratori delle manifatture, e per accrescere i redditi dei parroci e degli altri curati, dotandoli di una “congrua” rendita (intorno ai cento scudi), che li liberasse anche da quei contrasti e da quelle liti giudiziarie nei confronti dei propri fedeli, che spesso nascevano per la riscossione della tradizionale “decima”. L’adozione, poi, del modello muratoriano delle “compagnie di carità” (→ confraternite) da parte dei governi asburgo-lorenesi e la soppressione delle antiche confraternite laicali rafforzò ulteriormente la figura del parroco all’interno del suo gregge: da allora i laici dediti ad attività assistenziali e devozionali all’interno della parrocchia sarebbero stati alle dipendenze dirette del parroco.

Nel frattempo, anche in Italia giunse l’eco del «parrochismo» ultramontano: la concezione ecclesiologica che definiva i parroci come “pastori” (appellativo tradizionalmente riservato ai vescovi), successori diretti dei discepoli di Cristo. Difficile stabilire l’effettiva diffusione in Italia del “richerismo” (dal nome del teologo gallicano Edmond Richer, autore del De ecclesiastica et politica potestate libellus, 1611) e delle sue istanze di democrazia ecclesiastica di stampo presbiteriano. Se ne avverte la presenza nel Sinodo pistoiese del vescovo Scipione de’ Ricci e in taluni punti del programma riformatore del granduca di Toscana Pietro Leopoldo, che però ha un impianto sostanzialmente episcopalista. Certo è che la pubblicazione di opere controversiste contro tali opzioni ancora nell’Ottocento (come il libro di don Luigi Nardi, Dei Parrochi) induce a immaginare una circolazione sotterranea di idee e aspirazioni nelle fila del clero parrocchiale in contrasto con il conformismo obbediente di questi sacerdoti, anche se probabilmente si trattò di un’adesione minoritaria, favorita dalle riforme napoleoniche. Infatti, se nel complesso l’occupazione militare francese prima e il governo napoleonico dopo inflissero gravi perdite in termini di uomini e di risorse materiali alle Chiese locali, il sistema parrocchiale uscì pressoché indenne da quel periodo, e sotto taluni aspetti persino rafforzato: da una parte furono colpiti i tradizionali concorrenti dei parroci (monaci e frati in testa) e, dall’altra, l’assunzione obbligatoria di funzioni di portavoce della volontà governativa in un contesto di evidente soggezione a un sovrano straniero non spezzò il legame fra i parroci e i loro fedeli.

Durante la Restaurazione, emarginate le istanze parrochiste, in un contesto di rinnovato accordo fra trono e altare i governi secolari ripresero ad utilizzare i parroci come portavoci del potere e per le funzioni civili (atti di nascita, di matrimonio, ecc.), che potevano espletare grazie alla loro diffusione capillare sul territorio. Allo stesso tempo, però, la rinascita degli ordini regolari e delle confraternite laicali riproponeva la presenza dei tradizionali antagonisti, che oscuravano la visibilità e la preminenza dei parroci nella gestione locale del sacro. Una svolta decisiva avvenne con il compimento della rivoluzione nazione e la formazione di uno Stato nazionale unitario d’ispirazione liberale, perché le strutture parrocchiali delle diocesi italiane non subirono danni sul piano materiale, almeno dove era egemonico il modello del beneficio ecclesiastico individuale. I dispositivi delle leggi eversive del 7 luglio 1866, del 15 agosto 1867 e dell’11 agosto 1870 esclusero espressamente dai loro colpi i patrimoni dei benefici parrocchiali, anche se non esentarono gli altri beni ascrivibili alle chiese parrocchiali. Ben diversi, invece, furono gli effetti delle stesse leggi sulle chiese curate ricettizie, che furono colpite alla stessa stregua dei capitoli collegiati (→ capitoli cattedrali): anche nel Sud lo Stato imponeva il modello beneficiale e personale dell’ufficio parrocchiale, decretando la fine di quel modello comunitario, che, probabilmente, aveva risposto con maggiore aderenza alle esigenze religiose di una società economicamente meno frammentata e più statica rispetto alle regioni centro-settentrionali. Scontando ritardi e carenze nella formazione culturale anche in ambito teologico, pur lentamente e in condizioni economico-sociali difficili il parroco si avviava a diventare il «vescovo e re del suo popolo», assumendo nei confronti dei suoi fedeli un comportamento duplice, solo apparentemente contraddittorio: comprensione per i loro reali disagi, rigorosa opposizione ai peccati, alla «perdizione» ormai dilagante nella società italiana (Miccoli).

Fonti e Bibl. essenziale

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LEMMARIO




Parrocchie - vol. II


Autore: Antonio Mastantuono

La parrocchia agli inizi dello Stato unitario. La ricerca storica sulla parrocchia in Italia – relativamente a quest’ultimo secolo e mezzo – non conta molti studi, a differenza di quanto è stato prodotto per altre epoche. Una disat­tenzione che appare evidente se si prendono in considerazione la manualistica teologica o i dizionari teologici che si interessano di eccle­siologia e di pastorale, dove il riferimento storico alla par­rocchia – quando c’è – di norma si arresta alla riforma tri­dentina e alle sue conseguenze, sintetizzando i secoli successivi e soprattutto gli ultimi due con poche generiche parole.

Una storia che non può essere , in realtà, compresa attraverso generalizzazioni, sia per la grande quantità delle parrocchie italiane, sia per le profonde differenze esistenti in esse nei vari stati preunitari, sia per la forte dipendenza delle parrocchie non solo dalla linea pastorale del vescovo, ma soprattutto dalla figura fondamentale del parroco, figura in grado di determinare non solo la linea pastorale (catechesi, liturgia, sacramenti) ma anche gli impegni sociali, assistenziali, formativi della parrocchia all’interno della comunità civile locale.

«Ad appena dieci anni di distanza dall’unificazione nazionale – scriveva G.Penco – l’unità reale della Nazione doveva infatti compiere ancora molta strada e lo stesso va detto circa l’unità della vita cattolica ed ecclesiastica. Le situazioni locali rimanevano ancora troppo diverse e il peso delle singole tradizioni troppo forte perché una unificazione potesse avere luogo entro breve tempo» (G. Penco, Storia della Chiesa,II, Milano 1978, 335)

Incrociando i dati pubblicati nei primi anni dello Stato unitario, emergono non poche disparità tra Nord e Sud quanto a numero di parrocchie presenti nelle 320 diocesi, rispetto all’estensione territoriale e alla popola­zione. Complessivamente, la rete parrocchiale nel Settentrione era più fitta e inserita in un numero di diocesi nettamente inferiore rispetto al Meridione. Le diocesi del Nord contavano tutte poco meno di mezzo milione di abitanti, a fronte dei circa 700.000, ad esempio, di quella di Napoli. Quanto alle parrocchie, se Brescia ne contava 382, Bologna 396, Firenze 479, Padova 325, Palermo ne sommava 47 e Napoli 85.

La disomogeneità non era solo nell’ordine dei numeri e delle percentuali, ma riguardava anche le ricchezze sovrab­bondanti di alcune e la miseria totale di molte altre. Vi erano identità secolari che prevedevano per le parrocchie ruoli, compiti e relazioni con il potere politico e con la stessa realtà diocesana molto distanti tra loro. E anche se molte parrocchie avevano conosciuto nella prima parte del secolo XIX – nel periodo napoleonico e successivamente nella Restaurazione – profonde modificazioni, le differenze restavano partico­larmente rilevanti. Non potendo dar qui conto di tutta la realtà italiana, si prendono in considerazione due aspetti signi­ficativi delle differenze, uno per il Settentrione e uno per il Meridione.

Al Nord, un caso rilevante per la storia della parrocchia, è costituito dal Veneto. Nonostante, infatti, l’impegno dei vescovi a promuovere per essa il modello tridentino, questo trovò per lungo tempo le resistenze del giuspadronato che continuò ad esercitare un diretto controllo sulla Chiesa: dalla nomina dei vescovi alla gestione amministrativa delle parrocchie. La svolta del periodo napoleonico ebbe il merito di far superare, seppur parzialmente, questa dipendenza, ma con la Restaurazione la parrocchia conobbe nuove trasformazioni a seguito del tentativo governativo di adeguarla alle previsioni del diritto ecclesiastico austriaco. I vescovi cercarono con ogni mezzo di contrastare sia l’idea di una religione funzionale al dominio politico imperiale che la pretesa di poter esercitare tale dominio sulla formazione del clero e sulla teologia. L’opposizione si estese anche alla statalizzazione della parrocchia intesa come ente di sostegno dell’ortodossia imperiale, fino ad ottenere, con il concordato del 1855, la cessazione del controllo diretto austriaco e, col concilio provinciale veneto del 1859, un completo adeguamento alla parrocchia tridentina, facendola diventare un elemento fon­damentale di centralizzazione diocesana. La parrocchia veneta – che aveva comunque ereditato le qualità di efficienza amministrativa dei decenni precedenti – da lì in poi acquisterà sempre di più una relazione stretta con il vescovo e una dimensione pastorale tale da farne punto di riferimento – spesso unico – delle emergenze sociali vissute dalle sin­gole comunità. L’eredità austriaca nella dimensione organizzativa della parrocchia e nella serietà della formazione dei futuri parroci lascerà un segno e una caratterizzazione originale che continuerà per lungo tempo all’interno del nuovo Stato unitario, nel quale la parroc­chia veneta aumenterà ancor di più la propria incidenza religiosa e sociale, grazie sia ai parroci che a un laicato combattivo e intransigente.

Nel Meridione la struttura ecclesiale non era costituita dalle sole parrocchie, ma poggiava prevalentemente sulla capillare presenza di conventi, monasteri e chiese ricettizie. Queste ultime, presenti in gran numero nel regno bor­bonico, erano istituti di fondazione laicale (Università o famiglie possidenti), caratterizzati da autono­mia corporativa e dal possesso di beni di provenienza non eccle­siastica. Questo patrimonio era amministrato dal clero ‘partecipante’ che ne godeva anche i benefici. Non tutte le ricettizie erano parrocchie – e non tutte le parrocchie erano ricettizie – ed esse erano distribuite – all’inizio del secolo XIX – secondo una linea appenninico-adriatica meridio­nale in modo non uniforme, rappresentando circa un terzo di tutte le Chiese del regno, con uguale percentuale di clero, ma con ben superiore quota di reddito. Tuttavia il loro grande numero costituì un notevole freno alla diffusione delle parrocchie non ricettizie specialmente in molte diocesi delle province napoletane a causa dell’opposizione del clero ricettizio. Questo spiega, per esempio, il ridotto numero di parrocchie nelle diocesi pugliesi e in altre aree dove le chiese ricettizie rappresentavano addirittura la mag­gioranza.

La struttura reticolare – densa di una varietà di istituzioni religiose – della Chiesa meri­dionale conobbe un primo tentativo di modifica con la poli­tica napoleonica di inizio secolo XIX e con la conseguente soppressione degli ordini religiosi. Successivamente, il Con­cordato di Terracina del 16 febbraio 1818, sottoscritto da Fernando I di Borbone e da Pio VII, inaugura di fatto il processo di Restaurazione che pone vescovi e clero – in cambio di protezione e di significativi benefici di ordine amministrativo ed economico – al totale servizio del potere borbonico di cui divengono stretti collaboratori, dall’organizzazione del consenso popolare fino al controllo dell’ordine pubblico e degli interventi sanitari. Si avviava, inoltre, un significativo riassetto territoriale attraverso una riduzione di diocesi e una rinnovata coincidenza di obiettivi tra il trono e l’altare.

Ciò spiega le resistenze all’unificazione italiana della maggior parte dei vescovi meridio­nali definiti comunemente ‘borbonici’ e ‘reazionari’.

Il nuovo Stato unitario – nonostante la dichia­rata ispirazione al pensiero liberale, la successiva approva­zione delle leggi eversive dell’asse ecclesiastico e una poli­tica complessivamente anticlericale e non confessionale – mostrò in tutta Italia un vivo interesse per controllare e ottenere riconoscimenti pubblici da parte di quella realtà fondamentale – capillare e periferica – della Chiesa catto­lica che erano le parrocchie, alle quali fu riconosciuto un regime di privilegi fiscali. Di questo interesse per la par­rocchia è prova la quantità di testi, soprattutto di carattere giuridico, che cercano di definire la parrocchia stessa ten­tando di dare unità alle disparate legislazioni degli stati preunitari in materia, alla dottrina e alle sentenze delle varie corti. Un processo di unificazione assai lento e ancora oggetto di dibattito alla fine del secolo XX, con un ventaglio di pro­blemi ancora aperti riguardo alla stessa parola parrocchia la quale era «adoperata negli scritti del diritto ecclesiastico e del diritto comune, nonché nelle fonti del diritto parti­colare dei diversi stati, nella loro giurisprudenza e nella loro letteratura, con una grande promiscuità di significati» (F. Ruffini, La rappresentanza giuridica delle parrocchie, Torino 1896, 3).

Tra Ottocento e Novecento. L’irrompere a fine Ottocento della società di massa e di una nuova cultura politica; la nascita delle organizzazioni sindacali; l’affermarsi di una borghesia indifferente o più spesso ostile al dato religioso non è ininfluente sulla struttura ecclesiale. La risposta culturale e sociale della Chiesa è la Rerum novarum, è un’orizzontalizzazione della parrocchia che cerca di allargare la sua presenza e la sua incisività in una società che, a differenza dell’anti­co regime, non è più tutta cristiana. Da qui l’incremento dell’azione sociale dell’Opera dei congressi, la trasformazione della parrocchia in ‘parrocchia sociale’ e l’interesse dif­fuso per i problemi economici vissuti da contadini e arti­giani e la conseguente creazione di una rete di attività eco­nomiche promosse direttamente dalle parrocchie attraverso le casse rurali. Anche grazie a queste attività eco­nomiche e sociali – autorevolmente ispirate dalla Rerum novarum – la parrocchia continuò ad essere il centro delle comunità, specie di quelle rurali e peri­feriche, la cui vita, comunque ispirata al modello tridentino continuava ad essere scandita e ordi­nata dal suono delle campane.

Funzioni della parrocchia come oratori, biblioteche, asili, cooperative, società di mutuo soccorso, casse rurali, ispirate ad una vocazione sociale, si proponevano, tuttavia, più la protezione e la difesa della Chiesa, assediata dal persistente liberalismo e dal nascente socialismo, entrambi con una caratterizzazione spiccatamente laicista e spesso anticlericale, che non la riconquista apostolica. È evidente che in questa linea difensiva, al laicato parrocchiale si cominciava a riconoscere, per necessità, un ruolo seppure soltanto esecutivo e sotto il diretto controllo del parroco, la cui figura, grazie a questo proliferare di attività, acquistava ancora più forte centralità nella vita della parrocchia. Questo aumento di responsabilità e competenze rese più evidenti i limiti culturali di un clero impreparato a tener testa alle novità (politiche e sociali) che era chiamato a fronteggiare e rispetto alle quali la for­mazione ricevuta appariva totalmente inadeguata.

Ma anche sul versante ecclesiastico la parrocchia neces­sitava di ridefinizione, come dimostra l’intervento ad essa dedicato dal Codice di diritto canonico del 1917. Il codice in realtà ribadì alcuni principi del concilio di Trento che avevano avuto solo parziale attuazione rivedendoli alla luce delle emergenze e delle necessità di quel tempo pre­sente, stabilendo quindi i doveri del parroco, i rapporti tra parroco e vescovo e il superamento delle parrocchie per­sonali.

Il burrascoso periodo della prima guerra mondiale e quello ad esso successivo non sembrano intaccare il ruolo della parrocchia che resta co­me forza aggregatrice della realtà locale: le masse restano strette intorno ad essa. Certamente nel Novecento siamo di fronte a parro­ci più preparati, provenienti – ormai dagli anni ’30 – dai seminari regio­nali, più sensibili agli eventi culturali esterni, più inclini a coinvolgere la parrocchia in attività allargate perché la società è culturalmente cresciuta ed è diventata più complessa. Sorge o si rafforza, dove già esiste, una parrocchia polivalente, impegnata in diversi settori. Pur ri­manendo ancora come sostrato il modello tridentino, si allarga il campo della catechesi, si coinvolgono in nuove missioni gli ordini religiosi, si interagisce con le organizzazioni, soprattutto con l’Azione Cattolica.

Questo cambiamento è testimoniato dall’intensa pubblicistica dedicata alla parrocchia. Si tratta di volumi di larga diffusione dove vengono presentati compiti e funzioni dell’istituzione parrocchiale. E’ il caso di quello celebrativo ed essenziale di Tito Casini che si limitava a ripercorre lo schema delle funzioni tridentine della parrocchia (cfr. T. Casini, La parrocchia, Firenze 1937), e di quello di particolare rilievo di Giuseppe Cavagna, La parrocchia e la vita cristiana (Torino 1935), vademecum completo della struttura e della vita parrocchiale: dalle funzioni liturgiche a quelle sacramentali, dagli aspetti organizzativi a quelli di arredo e murari, dall’archivio fino all’associazionismo e alle opere parrocchiali. Con un interessante capitolo dedicato ai nemici della parrocchia dove sono descritti, secondo l’autore, i pericoli e le difficoltà emergenti in quegli anni: individualismo e indifferentismo nei confronti dello spirito parrocchiale, rispetto umano e ignoranza della liturgia come condizioni devianti rispetto all’ordine parrocchiale, alla sua organizzazione gerarchica, ad un sistema perfettamente funzionante e rigido che non ammetteva né eccezioni né critiche.

La cultura del periodo fascista non influenza granché la parroc­chia, se non forse nelle forme esteriori di os­sequio, che appartengono alla vetrina politica del ventennio. E tutta­via nell’opera di bonifica integrale, che porta alla nascita di vere e proprie città e piccoli paesi, la parrocchia sarà sempre compresa nei piani urbanistici e ne diventerà da subito il centro di riferimento per tutte le nuove famiglie. Il populismo imperante, che ha il suo culmi­ne nelle guerre di Spagna e d’Etiopia del ‘35-’36, rende probabil­mente le omelie dei parroci piene di retorica e metafore imperial-nazional-religiose, in una fase di massimo consenso al fascismo anche da parte delle gerarchie ecclesiastiche.

Ma qualche spirito più acuto, già intravede negli anni ’30, un divario tra la parrocchia e la società, interessata, seppure non in tutti i suoi settori, da un pro­cesso di modernizzazione che sarà interrotto – ma solo interrotto – dall’entrata in guerra e ripreso alla fine degli anni ’40.

È del ‘37 la Lettera sulla parrocchia di don Primo Mazzolari (Id., Lettera sulla parrocchia. Invito alla discussione, Brescia 1937, Bologna 20084), uscita però anoni­ma per il clima di diffidenza che circondava l’autore, e nella quale erano indicati alcuni limiti della parrocchia e accennati alcuni rime­di. Dal modesto osservatorio di una parrocchia rurale del mantovano, Mazzolari maturava – dopo anni di sofferto servizio parrocchiale che coincidevano quasi con l’avvento e l’affermazione del fascismo con il quale non erano mancati scontri duri anche a costo di aperti dissensi con la linea collaborazionista della Chiesa italiana – una profonda e originale riflessione dedicata alla parrocchia di cui egli denunciava limiti e carenze a partire dal bisogno di «ritrovare il coraggio di porsi in con­creto i veri problemi dell’apostolato parrocchiale» (Ib., 66). Un apostolato per il quale ancor prima degli aspetti organiz­zativi – spesso ritenuti in quell’epoca prioritari – occorre che la parrocchia stessa sia viva, cioè posta «su un piano vitale col mondo presente, organizzata in funzione del compito che deve svolgere su questo piano vitale» (Ib.,43). Mazzolari denuncia quindi un’inadeguatezza della parrocchia a collocarsi nella dimensione del presente, nell’accettare le nuove condizioni del suo ruolo in seguito alle trasformazioni sociali. Certo vi era stato un tempo in cui la parrocchia aveva svolto meritoriamente una quantità di funzioni sociali che però progressivamente e opportuna­mente erano state assorbite dall’istituzione pubblica. Questa attività di supplenza aveva creato erronee convin­zioni di dover assumere ruoli sociali in realtà impropri e difficoltà a riconoscerli di competenza dello Stato. Ne erano sorti dissidi, conflitti e nostalgie che Mazzolari, nel suo scritto, ricomponeva, individuando le vere emergenze che non erano la semplice difesa o riaffermazione dei principi dottrinali, quanto un lento e fecondo lavoro d’ispirazione della società che la parrocchia era chiamata a compiere gra­zie al ruolo e ai nuovi compiti che andavano riconosciuti a un laicato autonomo e adulto. Si trattava quindi di spe­rimentare nuovi metodi di apostolato che superassero sia le tentazioni di restaurazione di una parrocchia ormai inattuale sia i metodi del lasciar fare, dell’attivismo separatista e del soprannaturalismo disu­manizzato. A queste tentazioni occorreva, secondo Maz­zolari, contrapporre un’opera che abbattesse le barriere di cui si era circondata la parrocchia, che rompesse il regime di separazione con coloro che erano – ed erano lasciati ‘lon­tani’ – e restituisse ai laici le proprie responsabilità. Una voce che resta isolata.

Tra la fine della guerra e i primi anni ‘50 la parrocchia sembra vivere, infatti, in una logica di concorrenza con altre realtà del territorio – so­prattutto le sedi dei partiti – nell’organizzare situazioni – sale cinematografiche, televisione negli oratori, teatri, campi sportivi – che pos­sano attirare i fedeli. In Esperienze pastorali (Firenze 1958) don Lorenzo Milani, mettendo insieme ricerca storica e “sociologia religiosa”, non solo prende atto del fallimento della cultura religiosa , ma collega questa al fallimento della vita civile ed intuì che la mancanza di cultura era un ostacolo all’evangelizzazione e all’elevazione sociale e civile del suo popolo.

Ma nel secondo dopoguerra il mutamento culturale più significativo in Italia è legato al cosiddetto «boom economico»; è un mutamento complesso che registra una cre­scita tumultuosa ma anche vitale della società italiana: diffuso be­nessere, automobile, televisione, elettrodomestici ecc. La parrocchia si adatta con difficoltà, proprio perché, comunque sia, il suo modello cultuale e liturgico è Trento.

La parrocchia sente ostile una gran parte della cultura italiana, soprattutto quella che attinge a modelli laico-radicali e di sinistra. Tutta la società diventa più distratta; si velocizza la mobilità sociale, si velocizzano gli spostamenti da un’area a un’altra, così che alcune parrocchie tendo­no a spopolarsi, altre a crescere a dismisura.

Se molte parrocchie del nord negli anni ‘50 e successivi devono porsi il problema di una pa­storale per gli emigrati del sud, molti paesi in quel sud si spopolano, così come le relative parrocchie. Se il modello tridentino può ancora te­nere in una società rurale, le realtà urbane del nord co­me del sud, a loro volta, possono anche tenere, a scapito però di un coinvolgimento più responsabile dei propri parrocchiani, in un so­stanziale clima d’involuzione. I cambiamenti premono e le parrocchie ur­bane delle realtà industriali devono fare i conti con una dispersione dei vari obblighi del cristiano, soprattutto la messa domenicale e la catechesi; tengono i riti di passaggio, ma anche per un diffuso e radi­cato conformismo. Un fiorire di indagini di carattere sociologico intorno alla par­rocchia indica un nuovo interesse verso un’istituzione che molti considerano essere già in crisi. Se ne studia l’evoluzione sociologico-religiosa in determinate aree, il comportamento religioso dei parrocchiani, le strutture collaterali e la lo­ro valenza sociale (cf. G.B. Guzzetti,«La parrocchia nelle recenti discussioni», in La Scuola Cattolica 81 (1953), 415-438).

«Con la fine degli anni ‘50 – ha osservato Mario Rosa – si pongono le premesse di un superamento della struttura – quale si era venuta sviluppando soprattutto durante i pontificati di Pio X, Pio XI e Pio XII – della parrocchia come nucleo religioso-sociale, con cospicui risvolti attivistico-organizzativi e politici» (M. Rosa, «Le parrocchie italiane nell’età moderna e contemporanea», 172-173)

Il post Concilio. Le innovazioni conciliari si intersecano, nei primi an­ni dalla chiusura dell’assise ecumenica, con la cultura e il movimen­to del ’68, che, delineando un’alternativa culturale negli stili di vita e nei costumi, rifiuta ogni aspetto istituzionale della società, dunque anche le strutture della Chiesa, parrocchia compresa. Se ne contestava l’identità, sia ecclesiale che sociale, perché povera di risorse e di strumenti e lontana dai problemi posti dalla complessa situazione sociale e culturale. Come insoddisfacente ne appariva la struttura, fortemente centrata sulla figura del parroco, incapace di dare valore e ruolo attivo a tutti quei cristiani che ne abitavano il territorio. Lo schema feudale parroco-fedeli, così ben radicato nella mentalità parrocchiale, risultava essere un vincolo troppo rigido e opprimente, destinato a soffocare qualsiasi tentativo di dare un’anima alla comunità cristiana cui era rivolto. La sua identità appariva inoltre inefficace nel modo con cui impostava il suo rapporto con la società in cui era collocata: un rapporto troppo ossequioso e debole, incapace di momenti di critica.

Le prospettive teologiche e pastorali del concilio convinsero un certo numero di parroci a porre l’accento sulla qualità della proposta di fede, sulla dimensione comunitaria, su una liturgia incarnata nella vita e sulla dimensione politica della fede. Nacquero così parrocchie a carattere assembleare in cui l’intuizione comunitaria si realizzava attraverso liturgie dialogate.

Nello stesso spirito, si realizzò l’ingresso del mondo giovanile nelle sale parrocchiali. Molte di queste esperienze maturarono verso l’istituzione ecclesiale un atteggiamento molto critico, che, al termine dei loro percorsi, ne determinò l’allontanamento dalla chiesa e l’ingresso in gruppi di impegno politico o sociale. Alcune realtà presero la via delle cosiddette “Comunità di base” (cf. R.J. Kleiner, Gruppi di base nella chiesa italiana. Obiettivi e metodi di lavoro, Assisi 1978). L’esplorazione di nuove forme di vita ecclesiale, capaci di dare soluzione alle difficoltà pastorali, prese, invece, la direzione della “complessizzazione” della organizzazione parrocchiale: la parrocchia si struttura secondo le attività e l’organigramma parrocchiale.

Si afferma così urgente – nel dibattito di quegli anni e fino al presente – una ridefinizione dello statuto della parrocchia e del suo ruolo in rela­zione alla diocesi, secondo un profilo di similitudine (rap­presenta la Chiesa e la rende visibile) e di subordinazione (cellula e parte della Chiesa particolare), mentre si sostiene ripetutamente il nuovo ruolo della parrocchia come sog­getto evangelizzatore, attivo nell’azione pastorale. Saranno questi elementi che caratterizzeranno sia i lavori di alcune Settimane nazionali di aggiornamento pastorale, sia i ripetuti interventi della Conferenza Episcopale Italiana sulla parrocchia. Interventi destinati a ridefinire ruoli e impegni attraverso conti­nue messe a punto a riprova delle difficoltà del compito, percepite dagli stessi vescovi, fino al documento Il volto missionario della parrocchia in un mondo che cambia (2004). In esso si registrano i cambiamenti sociali e culturali e la fatica per la parrocchia di seguire le trasfor­mazioni. Emerge dal contesto l’aspettativa di una parrocchia che si impegni sempre più nel campo della carità e della solidarietà e nella costruzione di relazioni vitali. In una società sempre più anonima e spersonalizzante, gli ambienti religiosi sono invitati non soltanto ad impegnarsi per ridurre le condizioni di disagio, ma anche a rappresentare un “luogo” di integrazione e di socializzazione

L’identità religiosa della parrocchia non viene negata, ma diviene oggetto di una diversa considerazione rispetto al passato. L’uomo di oggi sembra preferire un cammino religioso più libero e più riflessivo, rispetto ad un’osservanza giudicata costringente o a “sacramenti” e rapporti con gli uomini del sacro il cui significato non rappresenta più un’evidenza collettiva.

La parrocchia non viene sconfessata nelle sue funzioni religiose, ma il suo capitale simbolico e sacramentale si sta erodendo.

Il moltiplicarsi delle attività pastorali a raggio interparrocchiale, l’affacciarsi di nuove ministerialità, l’attenzione più diversificata ai momenti della società civile, l’intreccio dell’azione pastorale della comunità con altre forme di aggregazione ecclesiale (movimenti, associazioni, volontariato), le forme della comunicazione che esigono di superare il regime campanilistico, richiedono di rendere più elastica la modalità degli interventi pastorali, senza perdere il vincolo con il territorio che costituisce la dimensione fondamentale della parrocchia tradizionale. Di qui il tentativo di pensare a nuove forme di presenza della Chiesa sul territorio. Esperimenti che vanno comunemente sotto il nome di unità pastorali: una riorganizzazione delle comunità sparse sul territorio che senza annullare la soggettività e l’identità della singola comunità parrocchiale, «… l’ha valorizzata e rivitalizzata aprendola alla collaborazione e alla pastorale d’insieme, intaccando il muro di campanilismo e l’orientamento individualistico» (A. Toniolo (ed.), Unità pastorali, Padova 2003, 7-8)

La parrocchia nel nuovo Codice di Diritto Canonico. Nel nuovo codice del 1983, radicalmente diverso dal Codice del 1917 soprattutto per l’impianto decisamente improntato ai documenti conciliari, la parrocchia viene definita come «comunità di fedeli, stabile e definita, sotto la guida di un pastore proprio in comunione con il vescovo» (can. 515). La parrocchia conosce figure che si diversificano. Il can.517 par. 2 parla di parrocchie affidate ai laici, sia pure con il riferimento al presbitero. Si prospetta la possibilità di collaborazioni molto ampie fra sacerdoti e fra parrocchie fino a prevedere la conduzione da parte di un gruppo di preti di una vasta parrocchia o di più parrocchie (parrocchie in solidum, can. 517 par.1). La parrocchia mantiene certamente tutta la sua caratteristica tradizionale di ancoraggio al territorio e di legame alla vita dei fedeli, dal nascere al morire: basterebbe la necessità ribadita dell’anagrafe parrocchiale a dire il solido segno di appartenenza e di visibilità, di storia e di tradizione.

Attenzione meritano anche gli accordi di Villa Madama del 1984 che aggiornano il concordato lateranense del 1929. In essi la “parrocchia” viene ad essere riconosciuta come titolare di personalità giuridica. Non si parla più di “beneficio parrocchiale” o di “chiesa parrocchiale”. Ciò facilita l’accorpamento di diocesi e di parrocchie, perché esse siano realmente corrispondenti a entità umane capaci di “fare comunità”, senza coperture giuridiche di realtà ormai inesistenti, valide solo davanti all’autorità statale. Finisce l’istituto del beneficio parrocchiale e si stabilisce una sorta di uguaglianza nella retribuzione per ogni servizio ministeriale dei preti.

Fonti e Bibl. essenziale

AA.VV., Trasformazione delle parrocchie, Brescia 1972; AA.VV., La parrocchia nel Mezzogiorno dal medioevo all’età moderna. Atti I incontro seminariale (Maratea 1977), Napoli 1980; AA.VV., La parrocchia in Italia nell’età contemporanea. Atti del II incontro seminariale (Maratea 1979), Napoli-Roma 1982; AA.VV., Parrocchia e pastorale parrocchiale. Storia, teologia e linee pastorali, Bologna 1986; AA.VV., La parrocchia come chiesa locale, Quaderni teologici del Seminario di Brescia, Brescia 1993; G. Berthelet, Dizionario delle Parrocchie italiane con le indicazioni del Comune, della Diocesi, della Provincia, della Popolazione e delle Congrue Parrocchiali, Roma 1901; G. Bertolotti, Statistica ecclesiastica d’Italia, Savona 1885; V. Bo, Parrocchia tra passato e futuro, Assisi 1977; V. Bo, Storia della parrocchia, 4 voll., Roma 1992; M. Boarotto, La parrocchia fra pastorale e diritto in Italia: sua iden­tità e cammino alla luce delle norme canoniche concordatarie, Roma 1991; L. Bressan – L. Diotallevi, Tra le case degli uomini. Presente e “possibilità” della parrocchia italiana, Assisi 2006; L. Bressan, «La rivincita della parrocchia», in F. Garelli (ed.), Sfide per Chiesa nel nuovo secolo. Indagine sul clero in Italia, Bologna 2003, 101-145; V. De Marco, «L’influsso del mutamento culturale nell’evoluzione delle forme della parrocchia dal modello tridentino ad oggi», in Servizio Nazionale per il progetto culturale della Cei, Ripensare la parrocchia, Bologna 2004, 19-52; G. De Rosa, Chiesa e religione popolare nel Mezzogiorno, Bari 1978; M. Guasco, Storia del clero in Italia dall’Ottocento ad oggi, Roma-Bari 1997; M. Isnenghi (ed.), I luoghi della memoria. Strutture ed eventi dell’Italia unita, Roma-Bari 1977; A. Longhitano, «La parrocchia fra storia, teologia e diritto», in AA.VV., La parrocchia e le sue strutture, Bologna 1987, 5-27; L. Nanni, «L’evoluzione storica della parrocchia», in La Scuola Cattolica 81 (1953), 475-544; E. Pin, «Dalla parrocchia rurale alla parrocchia urbana», in H. Carrier-E. Pin, Saggi di sociologia religiosa, Roma 1967, 333-346; F.R. Romersa, Il rinnovamento della parrocchia nella Chiesa italiana dal Concilio ad oggi, Roma 2000; M. Rosa, «Le parrocchie italiane nell’età moderna e contemporanea. Bilancio di studi e linee di ricerca», in Id., Religione e società nel Mezzogiorno tra Cinque e Seicento, Bari 1976, 157-181; G. Scarvaglieri, «Trasformazioni della parrocchia nel contesto sociale attuale», in N. Ciola (ed.), La parrocchia in un’ecclesiologia di comunione, Bologna 1996, 19-41; S. Tanzarella, «La parrocchia: vita, morte e miracoli», in Istituto della Enciclopedia Italiana (ed.), Cristiani d’Italia. Chiesa, società, Stato, 1861-2011, I, Roma 2011, 359-376.


LEMMARIO




Partito Popolare - vol. II


Autore: Andrea Ciampani

La costituzione del Partito Popolare Italiano (Ppi) rappresenta un evento di assoluto rilievo nella storia italiana, nonostante il breve periodo in cui si concentrò la sua vita politica (1919-1926). Molti cattolici videro nella sua nascita il compiersi del percorso avviato negli ultimi decenni dell’Ottocento per esercitare un ruolo pubblico nell’Italia unita. All’inizio del XX secolo, infatti, era maturata l’idea che, per contrastare l’affermarsi di uno Stato invadente nell’organizzazione sociale e nella vita ecclesiale, fosse necessario costituire un partito in cui far convivere le diverse culture politiche del mondo cattolico italiano. La presenza del Ppi nel sistema politico, peraltro, poteva rappresentare un rafforzamento delle libertà parlamentari e degli istituti nazionali, sia per l’implicito superamento degli steccati tra Chiesa e Stato, sia per l’adesione democratica di larghe fasce popolari a quell’equilibrato processo riformatore che il partito intendeva rappresentare.

Ripensando l’esperienza del movimento democratico cristiano, in alcuni incontri svoltisi tra il novembre e il dicembre 1918 don Luigi Sturzo pose le fondamenta del nuovo partito. Mentre il sacerdote di Caltagirone lasciava la carica di segretario generale → dell’Azione Cattolica Italiana, la segreteria di Stato vaticana consentiva la proposta di un partito “ispirato ai principi cristiani”, che non coinvolgesse la Chiesa cattolica nell’arena politica. Il 18 gennaio 1919, infine, una Commissione provvisoria diffuse l’Appello a tutti gli uomini liberi e forti perché cooperassero “ai fini superiori della Patria, senza pregiudizi né preconcetti”, concorrendo alla nascita del Ppi. Il partito avrebbe avuto un carattere nazionale, interclassista e programmatico, favorevole al voto alle donne e al sistema elettorale proporzionale; rivolto ad attuare ideali di giustizia sociale e di miglioramento delle condizioni generali del lavoro in politica interna, avrebbe promosso in politica estera la pace tra le nazioni, favorendo lo sviluppo delle “energie spirituali e materiali di tutti i Paesi”. Intorno al simbolo della “libertas” si raccoglievano motivi vecchi e nuovi del cattolicesimo politico per le libertà personali e collettive: la libertà religiosa, anche in riferimento all’esplicazione della missione spirituale della Chiesa nel mondo; la libertà di insegnamento; la libertà per le organizzazioni sociali; la libertà comunale.

Intorno a Sturzo si raccolsero, in effetti, alcuni cattolici deputati ed esponenti delle molteplici culture e generazioni del movimento cattolico in Italia: da Filippo Meda a Carlo Santucci, da Giuseppe Micheli a Giovanni Bertini, da Achille Grandi a Guido Miglioli, da Carlo De Cardona a Salvatore Aldisio. L’adesione al Ppi, peraltro, fu vissuta localmente in modo differente anche in relazione alla composita tradizione di rappresentanza pubblica della presenza religiosa all’interno delle diocesi della Penisola. Confermata la scelta aconfessionale nel suo primo congresso, svoltosi in giugno a Bologna, sostenuto dal moderatismo cattolico e dai circoli della gioventù militante, comunque, il Partito popolare italiano ebbe consensi nella stampa, nel movimento cooperativo e nel sindacato promossi dai cattolici. Alle elezioni politiche del novembre del 1919, infine, il Ppi ottenne il 20,5% dei voti e 100 deputati.

La scelta di una politica autonoma del Ppi suscitò diffidenza nella classe dirigente giolittiana, che doveva ora riconoscere ai popolari non solo una posizione “centrista” in Parlamento, ma anche un ruolo essenziale per la formazione dei governi tra il 1919 e il 1922. In concorrenza con i socialisti, il “collaborazionismo” del Ppi nei gabinetti Nitti e Giolitti aveva un suo limite proprio nell’aspirazione ad assumere la guida del Paese dopo la fase emergenziale post bellica. Con il positivo esito elettorale del maggio 1921, l’intransigenza della politica sturziana nei confronti dei liberali portò alla nomina di tre ministri popolari nel governo Bonomi; durante il III congresso del partito, tenutosi in ottobre a Venezia, si riproposero le riforme dei popolari, e quella regionalista in particolare. Nel febbraio 1922 il Ppi impedì il ritorno al governo di Giolitti e partecipò al gabinetto Facta. Nel luglio seguente, tuttavia, il fallimento del tentativo di condurre il popolare Meda alla presidenza del Consiglio minò la credibilità della strategia di Sturzo, aumentò la tensione tra direzione del partito e gruppo parlamentare, evidenziò i timori di chi temeva una divisione col moderatismo liberale e irritò chi denunciava un immobilismo del partito nella crisi socio-politica.

Mentre la S. Sede ribadiva di essere “totalmente estranea al Partito popolare come a ogni altro partito politico”, il centrismo popolare di Sturzo doveva subire un nuovo colpo dopo la marcia su Roma dell’ottobre 1922, cui seguirono nuove tensioni con Giolitti e la partecipazione di due ministri popolari al primo governo di coalizione formato da Mussolini. Sturzo dissentiva dalle “compromissioni” filofasciste e al IV congresso del Ppi, svoltosi a Torino nell’aprile del 1923, egli portò il partito all’opposizione. L’iniziativa sturziana scatenò la violenza fascista contro il Ppi e le minacce contro la gioventù cattolica (nel pieno della riforma statutaria dell’Aci). Inascoltato politicamente dallo schieramento liberale, sotto le pressioni vaticane Sturzo si dimise da segretario del partito nel luglio seguente. La direzione del Ppi fu affidata alla gestione collegiale di Giulio Rodinò, Giovanni Gronchi e Giuseppe Spataro.

La modifica in senso maggioritario del sistema elettorale, approvata con la legge Acerbo, suscitò nuove divisioni tra i popolari che alle votazioni politiche dell’aprile 1924, alterate dallo squadrismo e dai brogli fascisti, ottennero solo il 9% dei voti. Dopo il rapimento e l’uccisione di Matteotti, il Ppi condusse i suoi deputati fuori dall’aula parlamentare partecipando alla protesta dell’Aventino. Dal maggio 1924 guidato da Alcide De Gasperi, il partito vide riemergere nei suoi confronti il pregiudizio anticlericale dei liberali; fallì anche un avvicinamento tra popolari e socialisti nel luglio 1924. Contemporaneamente, tuttavia, si rafforzava l’identificazione della presenza dei popolari (e dei cattolici in politica) con le istituzioni liberali e democratiche.

La progressiva caduta delle libertà politiche e la crescente minaccia fascista spinse la segreteria di Stato ad invitare Sturzo a lasciare l’Italia: il 25 ottobre 1924 il sacerdote partiva per un lungo esilio. Avviatosi nel gennaio 1925 il tentativo totalitario fascista il Ppi, ormai privo dell’agibilità politica, volle tenere comunque il suo ultimo congresso nazionale. La S. Sede, intanto, si stava preparando a un lungo confronto col regime di Mussolini, che avrebbe condotto ai Patti Lateranensi e alla permanente lotta per mantenere, al di fuori dall’azione politica, spazi pubblici di formazione religiosa per i cattolici italiani. Il 9 novembre 1926, infine, il prefetto di Roma scioglieva il Ppi. Molti militanti popolari furono accolti nei differenti rami dell’Azione cattolica, alcuni andarono in esilio, tutti furono ridotti all’inattività pubblica; De Gasperi, dopo l’arresto del marzo 1927, dall’aprile 1929 iniziò a lavorare nella Biblioteca Vaticana. L’esperienza popolare rimase viva nell’aspirazione antifascista alla partecipazione politica democratica, riferimento importante per coloro che nel 1943 promossero il partito della Democrazia cristiana.

Fonti e Bibl. essenziale

F. Malgeri (a cura di), Gli atti dei congressi del Partito popolare italiano, Morcelliana, Brescia, 1969; G. De Rosa, Il Partito Popolare Italiano, Laterza, Bari, 1988; G. Campanini, Popolarismo, in Enrico Berti, Giorgio Campanini (a cura di), Dizionario delle idee politiche Editrice AVE, Roma 1993, 643-651; M. Casella, Nuovi documenti sull’Azione cattolica all’inizio del pontificato di Pio XI, in A. Ciampani, C.M. Fiorentino, V.G. Pacifici (a cura di), La moralità dello storico. Indagine storica e libertà di ricerca. Saggi in onore di Fausto Fonzi, Rubbettino, Soveria Mannelli 2004, 273-321; F. Malgeri, L. Sturzo, A. De Gasperi, Carteggio (1920-1953), Rubbettino, Soveria Mannelli 2006; A. Scornajenghi, L’alleanza difficile. Liberali e popolari tra massimalismo socialista e reazione fascista (1919-1921), Edizioni Studium, Roma 2006.


LEMMARIO




Pataria – vol. I


Autore: Belluomini Flavio

Il movimento che prese il nome “Pataria” – sul significato del termine che di fatto rimane oscuro ci soffermeremo alla fine – ebbe origine con la predicazione del diacono Arialdo da Cuggiago (1010 ca- 1066), tra la fine del 1056 e gli inizi dell’anno seguente. Egli, rivolgendosi ai chierici della zona di Varese, criticava lo stile di vita opulento e mondano del clero e chiedeva per i chierici degli ordini maggiori la rinuncia alla pratica sessuale e alla vita matrimoniale. Fallito il tentativo di sensibilizzare quei chierici, nella primavera del 1057, Arialdo si rivolse al clero della città di Milano che, complessivamente, ebbe un atteggiamento di rifiuto verso le sue proposte, anche se non mancarono alcune adesioni. Tra queste, quella di Landolfo, notaio della cattedrale e proveniente da una famiglia capitaneale, che una fonte tardiva indica in quella dei Cotta, il quale strinse con Arialdo un giuramento e divenne con lui guida del movimento, contribuendone all’espansione grazie alle sue capacità oratorie.

Coloro che aderirono alle proposte di Arialdo erano prevalentemente laici sensibili alle tematiche inerenti alla riforma della Chiesa. La composizione del movimento risultava eterogenea. Infatti, se la povertà evangelica richiesta per il clero era gradita alle classi umili, la critica rivolta ad una gerarchia ecclesiastica legata all’alta feudalità interessava anche i ceti medi. Questi, esclusi da un’alleanza realizzatasi intorno all’arcivescovo Guido da Velate tra il clero cittadino, l’aristocrazia e altri pochi cives benestanti, nutrivano il desiderio di emergere nella vita cittadina. La loro presenza nel movimento è testimoniata dalle fonti che ricordano, tra i primi aderenti alla pataria, il monetiere Nazario. Sono altresì attestate, comunque, adesioni da parte di nobili, tra i quali il già menzionato Landolfo e il fratello di questi Erlembaldo. Da tali testimonianze deduciamo che sarebbe un errore identificare il movimento patarino con la classe popolare o interpretarlo puramente come un fatto di rivincita sociale. Inoltre, sebbene risentisse dei mutamenti sociali dell’XI secolo e della realtà socio economica milanese, esso affondava le sue radici in una dimensione religiosa. Dobbiamo considerare che i secoli X e XI, se conobbero ampi mutamenti socio-culturali, in pari tempo furono pervasi da un’esigenza spirituale nuova che si diffuse nei differenti ceti della societas christiana. Tale esigenza si declinò nei vari movimenti religiosi tendenti ad una riforma della Chiesa e questi ultimi, a loro volta, contribuirono ad alimentala. Arialdo risentiva di questa esigenza. Egli, proveniente da una famiglia di possessori del contado, grazie alle risorse familiari, non solo aveva studiato, ma aveva avuto modo di viaggiare, probabilmente entrando in contatto con le correnti spirituali riformatrici d’oltralpe. La pataria va collocata in tale contesto religioso-riformatore; essa riuscì a far breccia perché interpretava in una modalità propria l’anelito spirituale diffuso in Occidente, che auspicava un rinnovamento della Chiesa e della vita ecclesiastica.

La predicazione di Arialdo e di Landolfo, anche se non prevedeva un approfondimento di tematiche teologiche, si basava su una dimensione cristologica: Cristo aveva portato la luce della verità che sola poteva sottrarre l’uomo dalle tenebre dell’errore e condurlo alla vita eterna. Su questo fondamento Arialdo costruiva la sua ecclesiologia. Per il diacono, come ricorda la Vita Sancti Arialdi di Andrea di Strumi, affinché la «lux veritatis» continuasse a splendere, Cristo aveva lasciato «verbum scilicet Dei et doctorum vita».

I doctores, lo si comprende dal prosieguo del testo dell’agiografo, sono i ministri della Chiesa che, dice Arialdo ai laici, hanno ricevuto il loro ufficio «ut eorum vita esset vestra lectio, qui litteras nescitis». Nella concezione patarina i ministri della Chiesa attingono la lux veritatis dal testo sacro, il popolo invece la riceve dalla vita dei ministri. La vita dei chierici, particolarmente quella dei preti, non è però automaticamente lectio, lo diventa solo se essi sono irreprensibilmente conformi a Cristo. A fronte di questo alto compito, i patarini constatano che i chierici vivono mondanamente, comprano le cariche ecclesiastiche, conducono una vita dissoluta con concubine. Ciò fa sì che essi non solo siano di cattivo esempio, ma diventino una barriera alla luce. Inoltre, per i patarini è inaccettabile che i preti si sposino. Arialdo, in linea con la mentalità medievale, pensa la società suddivisa in ordines. Per lui la Chiesa si compone di tre ordini ben distinti: dei predicatori, dei continenti e dei coniugati. Il diacono riformatore esige una vita moralmente corretta, non solo dai chierici (ordo praedicatorum), ma anche dai laici (ordo coniugatorum) e dai monaci (ordo continentium), ognuno in fedeltà all’ordo di appartenenza. Proprio per tale fedeltà, Arialdo sostiene che, se i preti si sposano, vivono come i laici, cioè come i membri di un altro ordine. Egli tende ad esasperare la divisione tra gli ordines e prevede l’identificazione del ministero ecclesiastico con lo stato di vita del clero. Così facendo, giunge a dire che il prete che si sposa non adempie il proprio ufficio. A ciò va aggiunto che Arialdo, come altri riformatori del suo tempo, ha in mente per i chierici la vita canonicale; inoltre, il suo pensiero potrebbe aver ricevuto influssi da idee dualistiche coeve che esaltavano la verginità e tendevano a svalutare il matrimonio.

La preoccupazione di avere preclusa la via che conduce alla salvezza eterna, a causa di un clero indegno, condusse molti laici ed anche alcuni chierici ad aderire alle proposte di Arialdo e di Landolfo. Coloro che le accolsero, inizialmente, cominciarono a disertare le celebrazioni officiate dai preti da essi ritenuti indegni.

Il 10 maggio del 1057, giorno della festa della traslazione del corpo di S. Nazaro, dopo uno scontro oratorio che Arialdo e Landolfo ebbero con alcuni preti, una folla numerosa, influenzata dai suddetti capi patarini, entrò nella cattedrale di Milano e cacciò dal coro i chierici ordinari perché stimati indegni del loro ufficio. Questo fatto appare come l’inizio della fase cruenta, quando i patarini, unitisi con giuramento, iniziarono a fare uso della forza contro i preti e i chierici considerati indegni. In particolare, presero di mira i preti sposati e concubinari, imponendo loro di lasciare le donne, fossero anche le mogli o, in caso contrario, proibendo ad essi di accedere all’altare. È probabile comunque che anche prima di quella data ci siano state azioni violente.

Prima di considerare meglio cosa accadde in quel 10 maggio 1057, vogliamo cercar di capire perché il clero facesse fatica ad accogliere le proposte di Arialdo. Alla base c’è una concezione della Chiesa e della stessa Tradizione diversa da quella che avevano maturato i patarini. Innanzitutto, la questione del celibato obbligatorio non trovava accoglienza perché, secondo la tradizione ambrosiana e non solo, i preti potevano sposarsi; il fatto che i patarini ponessero sullo stesso piano matrimonio e concubinato, proibendo entrambi, era inconcepibile per i chierici ambrosiani. Anche a proposito della gestione dei beni e dell’assegnamento delle cariche ecclesiastiche, le posizioni erano differenti. Fin dall’epoca carolingia, la Chiesa milanese non solo era stata dotata di ricchezze ma anche di diritti feudali; ciò aveva creato un legame tra la gerarchia ecclesiastica e l’alta feudalità che appariva naturale e sembrava una garanzia di stabilità. Gli uffici ecclesiastici, però, con i loro relativi beneficia erano appetibili e, col passare del tempo, cominciarono ad essere elargiti sulla base di un tariffario. Quella prassi veniva sempre più ad essere criticata come simoniaca e i patarini si fecero interpreti del malcontento. Il clero di Milano non era comunque un clero corrotto, esso presentava sicuramente casi di indegnità sia nella sfera sessuale che patrimoniale ma, se si escludevano questi, lo stile di vita del clero ambrosiano era adeguato ai canoni della Chiesa del tempo. I patarini, invece, non solo stigmatizzavano gli eccessi, ma esigevano un cambiamento o, se vogliamo, uno stravolgimento della vita ecclesiastica. Per loro infatti la lux veritatis stava oltre la tradizione fissata dai canoni della Chiesa. Ciò era particolarmente significativo riguardo al matrimonio dei preti: i padri della Chiesa lo avevano consentito, lo stesso San Paolo non lo proibiva ma, a coloro che ricordavano ai patarini queste alte testimonianze, essi dicevano che ormai la situazione richiedeva altro. L’agiografo Andrea nella Vita Sancti Ariladi faceva dire ad Arialdo parole inequivocabili a tale proposito: “Vetera transierunt, et facta sunt omnia nova. Quod olim in primitiva ecclesia a Patribus sanctis concessum est, modo indubitanter prohibetur”».

Di fatto, in occasione del tumulto del 10 maggio, i patarini presero il sopravvento e costrinsero il clero degli ordini maggiori a sottoscrivere, sotto giuramento, il Phytacium de castitate servanda, ossia un documento che prevedeva l’impegno del clero di mantenersi casto e costringeva i chierici degli ordini maggiori al celibato. Tale documento pare facesse riferimento ad un sinodo celebrato in Pavia, nel 1022, con la presenza di Benedetto VIII e dell’imperatore Enrico II. Gli atti sinodali venivano aperti dal papa che citava arbitrariamente una legge giustinianea, la quale minacciava di gravi sanzioni i suddiaconi, i diaconi e i preti che avessero contratto matrimonio. L’arbitrio stava nel fatto che Benedetto VIII non ricordava che tale legislazione era riferita ai chierici, i quali si fossero sposati “dopo l’ordinazione”. Il phytacium comportò ricadute giuridico-patrimoniali sulla vita del clero, in quanto la presunta indegnità del chierico faceva sì che egli, con l’ufficio, perdesse il beneficio. A ciò seguirono, sia in città che nel contando, separazioni forzate dalle famiglie e allontanamenti dalle chiese di preti ritenuti indegni, inoltre, non mancarono saccheggi e incendi ai beni dei preti e di altri chierici. In questa agitazione, i motivi religiosi e quelli economico-sociali si venivano a mischiare; non mancarono, sotto il pretesto del phytacium, azioni che nascevano dal risentimento personale. Quello che apparve come un fatto sovversivo era che il giudizio sul clero venisse dato a prescindere dalla gerarchia ecclesiastica e, soprattutto, che laici si facessero giudici dei chierici. La Sede Apostolica, come vedremo, cercherà sempre di proibire o, perlomeno, di gestire questa azione laicale. In ogni modo, i patarini non volevano una Chiesa senza clero, anzi, era proprio l’immenso valore che essi davano ai ministri dell’altare che li faceva agire, anche con la forza, per un rinnovamento della vita ecclesiastica.

Davanti a tale situazione che si protraeva e coinvolgeva tutta la città, il clero e la nobiltà si rivolsero prima ai suffraganei dell’arcivescovo di Milano Guido da Velate (assente perché in visita presso la corte tedesca) e poi inviarono dei rappresentati a Stefano IX, che dal 2 agosto sedeva sulla cattedra di Pietro. Stefano IX con una lettera invitò i milanesi a placare gli animi e, trattandosi di una questione locale, chiese all’arcivescovo di riunire un sinodo provinciale per trattare i problemi sollevati dai patarini. Guido convocò in sinodo i suoi suffraganei nel monastero di Fontaneto nel novarese, pare tra la fine di ottobre o i primi di novembre, e invitò anche Arialdo e Landolfo, i quali, però, non si presentarono. Essi consideravano Guido indegno e simoniaco e sapevano che i vescovi presenti li avrebbero giudicati secondo i canoni vigenti che consentivano il matrimonio dei preti, proibivano di sciogliere i matrimoni religionis causa e vietavano l’abbandono della partecipazione alle celebrazioni dei preti coniugati. Nell’assise, comunque, non si condannarono le idee dei patarini ma, poiché Arialdo e Landolfo non si erano presentati, essi furono condannati per contumacia che, nel caso di un sinodo, prevedeva la scomunica. Il fossato tra i patarini e la gerarchia locale era ormai scavato.

A seguito della condanna, i patarini inviarono Landolfo da Stefano IX, ma il fidato collaboratore di Arialdo venne aggredito e gravemente ferito nei pressi di Piacenza. Fu Arialdo, allora, intorno alla prima metà di novembre, ad andare a Roma.

Stefano IX, sensibile alle tematiche inerenti alla riforma della Chiesa, non sconfessò il capo patarino, ma neppure prese posizione contro Guido. Chiese poi a Ildebrando di Soana e al milanese Anselmo da Baggio, vescovo di Lucca, diretti per suo conto presso la corte tedesca, di sostare in Milano per una missione esplorativa e per placare gli animi.

Al ritorno di Arialdo da Roma le fonti mettono in evidenza, come prima conseguenza, un cambiamento nella sua predicazione che si spostò decisamente contro il clero simoniaco. Anche se i patarini resteranno convinti della necessità di un clero celibe, in questo periodo, cade in secondo piano la presa di posizione contro i chierici uxorati. Possiamo supporre che il papa abbia ricordato ad Arialdo la distinzione tra matrimonio e concubinato presente nei canoni della Chiesa. Del resto, un riformatore del taglio di Leone IX, nel 1049, in un sinodo, aveva preso provvedimenti severi contro i chierici concubinari, ma non aveva imposto ai preti sposati di lasciare le mogli. La questione simoniaca, poi, era piuttosto intensa nel dibattito teologico del tempo. In alcuni ambiti si pensava che i sacramenti celebrati dai simoniaci fossero opera di un’anti-chiesa e quindi invalidi. C’era, inoltre, chi percepiva la simonia come un morbo contagioso, per cui anche il chierico ordinato gratuitamente da un simoniaco o chi intratteneva rapporti con i simoniaci risultava contaminato. I patarini erano portatori di queste istanze. L’insistenza sulla simonia, nel momento contingente, era poi negli interessi dei patarini, in quanto era considerata un’eresia contro lo Spirito Santo. Arialdo e Landolfo reputavano simoniaci Guido e i suoi suffraganei e tali volevano che apparissero. Che valore aveva allora la condanna inflitta ai capi patarini al sinodo di Fontaneto se quel sinodo era stato un’assise di eretici?

L’istituzione di una canonica, probabilmente già dalla seconda metà del 1057, (Fonseca, Arialdo, p. 137) dove Arialdo risiedeva con altri chierici, pare una risposta concreta alla simonia, al fine di avere un clero idoneo per celebrare i sacramenti. I chierici ivi residenti erano chiamati alla vita comune con povertà individuale e liturgia oraria. Le strutture architettoniche della chiesa, tra queste l’erezione dello jubé, rimandavano allo stile della riforma canonicale.

L’altra conseguenza del viaggio di Arialdo presso Stefano IX fu il rapporto decisivo che venne ad instaurarsi con il vescovo di Roma. Il papa diventava il referente del movimento: la veritas di cui i patarini erano i difensori era ora interpretata dall’auctoritas romana. È chiaro che questo allontanava i patarini dal rischio di derive ereticali e da conseguenti condanne, ma, nello stesso tempo, faceva crescere ancor più verso di loro l’animosità da parte dei difensori delle prerogative ambrosiane. Intanto, il 29 marzo 1058, Stefano IX moriva. Niccolò II, eletto nel dicembre dello stesso anno, inviò, pare su richiesta degli stessi patarini, una nuova legazione, nell’inverno 1059/1060, composta da Anselmo da Baggio e da Pier Damiani. I legati faticarono a farsi accettare dai milanesi, sobillati contro di loro sulla base delle prerogative ambrosiane. La conclusione della legazione condusse alla decisa condanna di ogni forma di simonia e, soprattutto per l’intervento di Pier Damiani che come altri contemporanei riteneva il celibato utile per una riforma del clero, portò ad una sorta di abbinamento tra concubinato e matrimonio del clero. Giudo, infine, accettò tali disposizioni ed emanò un documento di condanna della simonia e del nicolaismo, sottoscritto dagli ordinari della cattedrale. Seguì un giuramento contro la simonia, una penitenza e una cerimonia riconciliatoria per i chierici pentiti; infine tutto il popolo giurò contro la simonia e il nicolaismo. Le conclusioni della legazione, immediatamente, davano ai patarini motivo di soddisfazione, ma il fatto che i legati, in linea con l’atteggiamento romano, ponessero come custodi della nuova impostazione l’arcivescovo e la gerarchia locale, non li lasciava sereni. Arialdo allora si recò a Roma per presentare l’accusa di simonia contro Guido. Niccolò II convocò un sinodo che si svolse nell’aprile 1060, ma Guido ne risultò assolto.

Le cose tornarono a modificarsi con l’ascesa al soglio pontificio, nel 1061, di Anselmo da Baggio che prese il nome di Alessandro II. Il papa milanese, che conosceva il movimento e capiva come esso potesse contribuire alla riforma della Chiesa concepita in termini romani, incrementò i rapporti di Roma con i patarini. Alessandro, intorno al 1064, concesse il Vexillum Sancti Petri a Erlembaldo: ciò creò un legame di tipo feudale tra il pontefice e il movimento, finalizzato alla repressione degli eccessi di coloro che erano ritenuti i nemici di Dio. (Violante, I Laici nel movimento patarino, p. 201. I patarini, sotto la guida di Erlembaldo che, come laico, poteva dedicarsi alle armi, avrebbero combattuto una vera battaglia armata contro gli avversari della riforma in obbedienza al vescovo di Roma. A partire dalla fine del 1063, gli scontri tra i patarini e i loro avversari furono aspri. Arialdo contestò l’elezione di alcuni abati che avevano assunto la carica senza passare da una regolare vita monastica. Sempre a quel periodo pare che possiamo ascrivere una lettera pontificia che chiedeva ad Arialdo di non riammettere nel loro ufficio i chierici recidivi. Un motivo di scontro acceso fu la critica che Arialdo mosse ad alcune usanze liturgiche di Milano. Egli non concepiva come la liturgia ambrosiana potesse imporre il digiuno nel periodo delle rogazioni che prendevano luogo nella settimana dopo l’Ascensione. Il capo patarino, che non mancava certo di fare digiuni, non voleva che, nel tempo gioioso della pasqua, i cristiani assumessero uno stile penitente. La sua predicazione contro quell’usanza fece sì che sorgesse un tumulto che portò al saccheggio della canonica di Arialdo, liberata dall’intervento di Erlembaldo.

L’anno seguente, a seguito della proibizione imposta da Guido ad alcuni preti della canonica di Arialdo di officiare, intervenne Alessandro II riammettendoli nell’ufficio. La tensione era alta e ormai Alessandro II si era schierato apertamente contro Guido. Un ulteriore momento di tensione avvenne quando due preti monzesi aderenti alla pataria vennero imprigionati per ordine dell’arcivescovo, al fine di impedirne l’attività di predicazione e furono liberati con le armi dai patarini.

Alessandro II, infine, scomunicò Guido perché accusato di non essere fedele agli impegni presi, consegnando ad Erlembaldo la bolla di scomunica da presentare a Milano. L’arcivescovo allora radunò i milanesi in cattedrale il 4 giugno 1066, domenica di Pentecoste e, facendo ancora leva sul sentimento ambrosiano, presentò la bolla come un’ingerenza romana. Scoppiò un tumulto, nel quale lo stesso Arialdo rimase ferito; dopo essersi nascosto, fu tradito da un prete e rintracciato dai soldati dell’arcivescovo fu da questi ucciso: era il 28 giugno 1066. Con la sua morte, la pataria subì una crisi, ma il 3 maggio dell’anno seguente il ritrovamento del suo corpo, portato solennemente in Sant’Ambrogio, rinvigorì il movimento.

In questa nuova situazione il capo della pataria appare sempre più Erlembaldo, anche se la guida spirituale è assunta da un prete, Liprando.

Intanto il papa, nell’estate del 1067, inviava i cardinali Giovanni Minuto e Mainardo di Silva Candida per una terza legazione.  Il primo agosto i legati emanarono le Constitutiones che ribadirono le decisioni della legazione precedente: i simoniaci e nicolaiti erano condannati, ma altresì la gerarchia ecclesiastica locale era ristabilita per guidare la riforma morale e disciplinare del clero. I legati, facendo presente che i patarini avevano ecceduto nella violenza contro i chierici, chiarivano che ciò era da stigmatizzare; inoltre, veniva espressamente proibito ai laici di giudicare i membri del clero «quia cuncta ecclesiastica officia in status sui dignitate consistere volumus», questo imponevano le Constitutiones. Roma, che con Alessandro II vedeva crescere la sua influenza assumendo sempre più i caratteri di una “monarchia papale”, si faceva garante dell’ordinamento canonico. Il papa, al vertice della gerarchia – e questo nella parte introduttiva del testo delle Constitutiones era messo in chiaro – sarebbe potuto intervenire, anche passando oltre l’arcivescovo, nelle questioni disciplinari del clero e controllare i laici perché non cadessero in derive ereticali o in eccessi di comportamento.

I patarini, dovendo accettare le disposizioni romane, pensarono di intervenire a monte, con la sostituzione di Guido. È piuttosto probabile che Alessandro II condividesse le proposte dei patarini a tale proposito. In questo frangente, siamo nel 1068, la pataria conobbe una crescita, al punto che Guido, non più in grado di contrastare la sua azione, decise di restituire le insegne episcopali al re di Germania Enrico IV. I patarini erano finalmente riusciti a far dimettere Guido dalla cattedra ambrosiana, ma non era facile assicurargli un successore che rispondesse alle loro attese.

Fu inviata da Milano una terna ad Enrico IV, ma egli, di arbitrio, designò arcivescovo Gotofredo da Castiglione, suddiacono del clero ordinario. Lo scontento generale per la modalità di tale nomina che non considerava le richieste locali, oltre a compattare i patarini, li unì, in un accordo momentaneo, con altri settori della città. Fino al 1071 l’influenza della pataria in città fu forte. Dopo la morte di Guido, avvenuta il 23 agosto 1071, Erlembaldo, che non considerava valida la nomina di Gotofredo, riuscì ad imporre Attone, un giovane chierico ordinario. Gli aristocratici e altri settori cittadini si ribellarono e, dopo aver attaccato il palazzo arcivescovile, costrinsero Attone a rinunciare all’ufficio. A seguito di questi fatti, la pataria cominciò a perdere consensi.

Gregorio VII, divenuto papa nell’aprile del 1073, fin dall’inizio del suo pontificato, guardò con attenzione alla situazione di Milano e ribadì il rifiuto di Roma a Gotofredo, mentre Enrico IV ne confermava l’appoggio. Siamo ormai nel tempo della lotta per le investiture.

In questa situazione istituzionale opaca, Erlembaldo fece dei passi falsi che crearono ulteriore sdegno nei suoi confronti. In occasione della pasqua del 1074, proibì al clero della cattedrale di amministrare i battesimi, in mancanza di un crisma consacrato da un vescovo considerato degno. Nella pasqua dell’anno seguente, fece amministrare i battesimi a Liprando, in sostituzione del clero della cattedrale. Nella primavera del 1075, poi, circolarono voci che i patarini avevano calpestato il crisma consacrato dai suffraganei e, per questo, vennero ritenuti da molti colpevoli dell’incendio che aveva colpito Milano, interpretato come una punizione divina. Dopo la pasqua del 1075, mentre il dissenso contro i patarini cresceva, Erlembaldo fu ucciso in uno scontro armato. Pochi patarini restavano a Milano, la maggior parte si ritirava nelle più sicure Cremona e Piacenza.

Enrico IV, messo da parte Gotofredo, intervenne di nuovo d’autorità e affidò l’episcopato a Tedaldo, un chierico della sua cappella, consacrato il 4 febbraio 1076 contro la volontà di Gregorio VII e da questi scomunicato. In tale frangente, come testimoniano le lettere inviate dal pontefice al prete Liprando e ad alcuni laici, il papa cercò di promuovere la riorganizzazione dei patarini per portare avanti la riforma e contrastare Tedaldo. Intanto, nei primi mesi del 1077, una delegazione di milanesi, contrari alle ultime decisioni di Enrico IV, incontrò il pontefice a Canossa e chiese il perdono per i rapporti intrattenuti con Tedaldo.  Gregorio allora, nell’aprile del 1077, inviò a Milano Gerardo di Ostia e Anselmo da Baggio, quest’ultimo era l’omonimo nipote di Alessandro II e suo successore a Lucca, i quali vi rimasero tre giorni in segno di riconciliazione.

Negli anni seguenti, con il declino dell’influenza di Enrico IV in Italia, i milanesi dimostrarono la loro avversione a Tedaldo che, per questo, non poté risiedere a Milano. Egli morì il 25 maggio 1085. Lo stesso giorno lasciava questo mondo Gregorio VII in esilio a Salerno.

Gregorio, che ancor più dei suoi predecessori aveva cercato di porre i movimenti riformatori sotto la tutela papale, aveva comunque dato ai patarini un margine di movimento, in quanto essi, in quel frangente, erano una risorsa nella sua lotta contro l’imperatore a proposito delle investiture. Dopo la sua morte le cose cambiarono per il mutato contesto politico ed ecclesiale. Urbano II, divenuto papa nel 1088, a seguito di Vittore III, mietendo i frutti dell’opera dei suoi predecessori, proponeva il papato come suprema autorità e garante della riforma della Chiesa. Il papa poteva intervenire nella vita delle chiese locali e altresì interpretare e moderare i canoni. Su questa base di legame e fedeltà a Roma, Urbano II voleva altresì che la riforma fosse assunta dai vescovi nelle rispettive chiese locali.

Egli intervenne nei confronti di Anselmo III da Rho, nominato arcivescovo di Milano dal re di Germania e imperatore Enrico IV e consacrato il 10 luglio 1086 contro il volere del papa. Dopo che l’influenza dell’imperatore sulla città era cessata, Anselmo era stato deposto. Urbano II, derogando ai canoni, lo richiamò alla guida dell’arcidiocesi in cambio della sua fedeltà, sancita con la consegna del pallio. Le scelte dal papa sarebbero andate però contro le idee dei patarini. Non solo Urbano reintegrava nell’ufficio gli antichi avversari della pataria, come Anselmo III, ma abbandonava anche l’idea che la validità dei sacramenti dipendesse dalla degnità dell’officiante. I patarini che volevano rimanere fedeli alla loro originaria identità dimostrarono disappunto. Si era così infranto quel legame tra Roma e i patarini; essi, a questo punto, non riuscivano più a vedere nel papa l’auctoritas garante della veritas. La linea tracciata da Urbano sarebbe continuata: la riforma della Chiesa, concepita in termini romani, doveva essere portata avanti a livello locale e i vescovi avevano in ciò un alto compito.

Le visite di Urbano II a Milano, nel maggio 1095 e nel settembre/ottobre 1096, suggellarono il legame tra Roma e Milano. Soprattutto, con la solenne tumulazione del corpo di Erlembaldo in un nuovo sepolcro nel monastero di S. Dionigi, compiuta congiuntamente da Urbano II e Arnolfo III (succeduto alla fine del 1093 ad Anselmo da Rho), l’autorità/istituzione veniva ad appropriarsi del carisma della pataria, facendo sì, definitivamente, che la gerarchia locale, in unione ormai con Roma, si ponesse alla guida della riforma contro le pretese dei patarini intransigenti. La pataria, anche se lasciava i suoi segni nella diocesi di Milano, entrava in un lungo processo di declino. I patarini rimasti, infatti, si dovevano adeguare alla nuova situazione, altrimenti sarebbero stati visti come disobbedienti a Roma, nemici dell’auctoritas che sola poteva portare avanti la riforma della Chiesa e dei costumi del clero.

A questo punto, ci soffermiamo sull’uso e sul significato del termine “pataria” e, di conseguenza, “patarino”. Non è casuale farlo dopo l’excursus storico e l’analisi di alcune tematiche decisive per il movimento religioso, perché detti termini hanno conosciuto varie interpretazioni e subito mutamenti semantici lungo la storia.

Dagli scritti coevi emerge piuttosto chiaramente l’uso originario del termine, mentre resta incerto il suo significato. Andrea di Strumi, discepolo di Arialdo, nella Vita Sancti Arialdi, scritta nel 1075, chiama fideles e non patarini coloro che avevano aderito al movimento di cui lui stesso era stato membro. Dei termini pataria e patarino non c’è traccia nelle Lettere del prete Siro, che troviamo accluse alla suddetta opera di Andrea, né nelle fonti ufficiali, come le lettere papali e i documenti delle legazioni romane. Nei Gesta Archiepiscoporum Mediolanensium, opera conclusasi nel 1077, Arnolfo, membro dell’alta feudalità e nemico dei patarini, nel III libro sostiene che il temine veniva usato hyronice dagli avversari dei seguaci di Arialdo. Il termine poi, egli chiarisce nel libro IV, non sarebbe nato da una volontà specifica, ma spontaneamente. Ma che significato aveva il lemma pataria? Arnolfo, ancora nel IV libro, dice di aver trovato in un libro di etimologie che esso deriva dal greco pathos, corrispondente al latino perturbatio. Di conseguenza, pataria significa agitazione, disordine e patarino sobillatore. È interessante osservare come, quasi nello stesso periodo, l’agiografo Andrea e il cronista Arnolfo, in base alla loro esperienza e alla loro ideologia, presentino i discepoli di Arialdo come fedeli (alla verità) o perturbatori dell’ordine costituito.

Bonizone di Sutri, ferreo gregoriano e sostenitore del movimento, nel Liber ad Amicum, scritto nella seconda metà degli anni Ottanta, riportava che i simoniaci, «improperantes paupertatem» ai discepoli di Arialdo, «paterinos, id est pannosos vocabant». I simoniaci, dunque, biasimandone la povertà, li chiamavano patarini e ciò significava appellarli “straccioni”. Anche Bonizone, dopo la suddetta definizione, cerca di interpretare il termine. Egli sostiene che la traduzione del latino pannus in greco è rachos che, a sua volta, ha un’assonanza con l’aramaico racha, epiteto ingiurioso che Gesù proibisce nel vangelo: «qui autem dixerit fratri suo: “Racha”, reus erit concilio» (Mt 5,22). Di conseguenza, chi chiama “patarino” qualcuno lo ingiuria dandogli del “racha” e merita la condanna indicata dal vangelo; nello stesso tempo, chi riceve questa offesa, poiché la subisce in quanto fedele a Cristo, risulta meritevole davanti a Dio. È sulla base di tale ragionamento che Bonizone può parlare di «gloriosum genus Paterinorum». A dieci anni dagli scritti di Andrea e Arnolfo, la situazione era mutata e il termine, precedentemente usato dagli avversari, poteva ora essere utilizzato come un vanto da parte dei sostenitori del movimento (Lucioni, Gli altri protagonisti, p. 283). Non mancarono, tuttavia, coloro che indicavano i patarini come esseri negativi e addirittura demoniaci, come Benzone d’Alba che nel suo Ad Heinricum IV imperatorem parla di «nova monstra, patarini, famuli perfidię», i quali come altri eretici «ab inferno prodierunt».

Landolfo Seniore, difensore delle prerogative ambrosiane e del clero uxorato contro i patarini, nella sua Historia Mediolanensis, scritta nei primi anni del XII secolo, parla di patalia e dice che tale termine significa placitum Dei, cioè giudizio di Dio. I patarini, per Landolfo, si sentivano i portatori del placitum Dei, emanando sentenze «super sacerdotes», ma il loro agire era arbitrario e pretestuoso per cui giungevano ad un «placitum sine vero».

Le suggestive interpretazioni prese in esame sono fatte a posteriori, in uno spirito polemico, e si connotano come un artificio retorico, è quindi impossibile giungere ad un’etimologia condivisa attraverso di esse. Anche le connotazioni che il lemma giunge ad assumere lungo i secoli non ci aiutano in questo, visto che esse mutano in base ai contesti, fino a quando nel concilio Lateranense III il termine diviene sinonimo di eretico, molto probabilmente ciò trova la sua genesi nei fatti accaduti dopo il 1088.

Quello che sembra interessante da un punto di vista etimologico è comunque la testimonianza di Bonizone. Il vescovo di Sutri, sostenendo in prima battuta (cioè prima di entrare nell’interpretazione), che patarino significa straccione, pare voler offrire, lui lombardo che scrive a chi non è di quell’area linguistica, una traduzione del termine. Il lemma patarino potrebbe allora avere a che fare con un’espressione dialettale la cui radice è pattée, da cui deriva anche il termine “pattaro”, straccivendolo (questa era la strada percorsa nel Settecento dal Muratori che peraltro non conosceva l’opera di Bonizone). Se accogliamo la possibilità che i patarini siano coloro che erano appellati “straccioni”, da quanto abbiamo detto precedentemente sulla composizione del movimento, non possiamo pensare che quegli “straccioni” possano essere identificati con una massa di miserabili. Si torna quindi nell’interpretazione e si aprono alcune possibilità. Il termine potrebbe aver indicato genericamente le masse popolari che oscillavano tra la sequela dei capi patarini o della parte avversa (Violante, La Pataria milanese, p. 198). Tale termine potrebbe invece essere stato rivolto a quei ceti emergenti di cui abbiamo detto che, attraverso il sostegno economico al movimento, esprimevano la loro affermazione. I nobili, sprezzantemente, avrebbero diffuso il termine per bollare come straccioni questi nuovi ricchi che pretendevano di cambiare la società milanese (Golinelli, La Pataria, p. 57). Se invece respingiamo completamente la lettura che vede nei patarini una realtà sociale – in questo caso sarebbe opportuno mettere l’attenzione sulla stessa interpretazione di Bonizone – straccione potrebbe significare umile, in opposizione a quella Chiesa ambrosiana che, ricca di sé, non accettava la guida di Roma, cosa che facevano invece gli umili patarini, per questo trattati da pannosi, straccioni (Cracco, Pataria: opus e nomen, p. 377-378).

Il significato del temine resta comunque incerto e a livello storiografico la questione rimane aperta.

Bibliografia

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Patria, Nazione - vol. I


Autore: Guido Formigoni

I due concetti di patria e di nazione hanno radici comuni e infinite sfumature semantiche nella loro complessa storia. Nel latino medievale, ambedue rappresentavano l’idea della comunanza di origine di un gruppo umano (per paternità o per nascita). La loro utilizzazione fu per secoli variegata, sovrapposta e spesso pluriforme. Ad esempio, gli studenti che affluivano nelle università italiane da tutta Europa erano di norma raggruppati per nationes, identificate su base linguistica (o dialettale, nel caso delle province italiane). Al Concilio di Costanza del 1419 sorse un’animata discussione sul senso della divisione dei delegati ecclesiastici in nationes: in questo caso il processo era parallelo alla frammentazione dell’unità cristiana medievale in regni, i cui sovrani non intendevano riconoscere autorità superiori. Ma il linguaggio era oscillante, per cui si poteva parlare comunemente anche di una «nazione europea». Nella nostra penisola, fin dal sec. XIII la riflessione sulla lingua volgare comune aveva iniziato a far parlare di una nazione italiana. Che peraltro conviveva con la varietà dei linguaggi, delle genti e delle istituzioni statuali. La patria poteva così essere la città di origine, anche se ci si poteva sentire italiani, pur condividendo una lealtà per gli ordinamenti monarchici locali. Per un cristiano, cioè per la grandissima parte della popolazione, la coscienza religiosa si collocava senza difficoltà in questa gamma di appartenenze, diverse ma non contraddittorie. Se il tema della disunità e della servitù dell’Italia era ampiamente diffuso e discusso, in contrapposizione alla nascita di potenti monarchie “nazionali” in Europa, questo non significava che si potesse automaticamente tradurre la nazione e la patria in linguaggio politico.

Le cose cambiarono con l’esperienza rivoluzionaria e la sua diffusione anche italiana nel triennio giacobino e nell’età napoleonica. A partire dall’Assemblea nazionale francese del 1789, la nazione diveniva il corpo politico individuato che stava di fronte al sovrano: “sovranità nazionale” era l’espressione rivoluzionaria opposta alla tradizione dell’assolutismo dinastico. In più, la cultura romantica cominciava a elaborare miti nazionali in ogni esperienza locale europea, recuperando nella tradizione storica anche lontana ogni elemento culturale e linguistico utile.

Di fronte a queste evoluzioni, la cultura religiosa e l’esperienza ecclesiale italiana furono fortemente sollecitate dal confronto con i “principi dell’89”. Una piccola minoranza, seppure culturalmente non trascurabile, si trovò in sintonia con le ipotesi rivoluzionarie, cogliendo le nuove opportunità di libertà della Chiesa dal giogo del dispotismo illuminato e sviluppando le istanze evangeliche presenti nelle parole d’ordine nuove. Prevalse però una linea antimoderna e antirivoluzionaria, tesa a interpretare il cattolicesimo come ideologia reazionaria a base di massa. Nell’età della Restaurazione, questa linea si sviluppò ampiamente, alla luce della rinnovata fiducia nella capacità della fede cristiana di animare lo spirito dei tempi. La versione reazionaria del nesso «guelfo» tra religione e civiltà si imperniava così su un universalismo rigidamente chiuso a sviluppi liberali o nazionali. La Santa alleanza dei sovrani cristiani era ritenuta l’unico strumento per agganciare ancora lo ius publicum europaeum all’eredità minacciata della christianitas. Il cattolicesimo reazionario italiano tipico dell’età della Restaurazione, dal principe di Canosa a Monaldo Leopardi, era quindi decisamente negativo sull’idea di una nazionalità italiana, radicandosi piuttosto nella difesa del legittimismo dei principi. Del resto, su questa linea si schierò papa Gregorio XVI (1831-1846), pur proveniente da una esperienza di zelantismo innovatore, ma eletto papa proprio nel turbine di una grave crisi politica europea (con le rivoluzioni nazionali aperte in Belgio e in Polonia). Le preoccupazioni lo fecero irrigidire attorno alla difesa del principio di autorità, il che impediva di riconoscere le ragioni di qualsiasi ribellione ai sovrani legittimi (fosse anche nazionalmente giustificata).

Nasceva però anche in Italia, parallelamente a queste posizioni, una versione diversa del guelfismo, ispirata a una maggior istanza di conciliazione con la modernità, e quindi portata a incrociarsi con la nascente questione nazionale. La cristianità, mediatrice tra vecchio mondo e nuovo, si scopriva in questa linea punto d’incontro fra tradizione e libertà, e quindi anche tra la profonda unità spirituale del continente europeo e le individualità delle diverse nazioni. L’acclimatamento dell’idea di nazione nella cultura cattolica italiana è peraltro un processo che resta da spiegare analiticamente. Fu favorito senz’altro dalla pregnanza del concetto immediato di «popolo cristiano», inteso come realtà vivente individualizzata, potenzialmente identificabile secondo caratteri nazionali. Rinasceva così un mito guelfo dell’alleanza tra Papa e popolo, idealizzando le vicende medievali dei Comuni italiani. Influiva nello stesso senso l’esigenza di collegare il riscoperto nesso tra religione e civiltà a tradizioni antiche, a identità storiche specifiche e originali, reagendo in questo modo all’appiattimento del cosmopolitismo razionalista settecentesco.

Su questa lunghezza d’onda, si mossero parecchi intellettuali cattolici. Il patriottismo risorgimentale di un Manzoni univa ad esempio una generale esigenza morale di libertà a un fortissimo sentimento universalistico. Criticando l’esito giacobino delle rivoluzione francese, egli studiava l’evoluzione della libertà nella storia di un popolo individuo, cercando le radici dell’italianità nella vicenda dei latini, oppressi dagli invasori longobardi. Nell’ode Marzo 1821 (scritta in occasione dei moti carbonari di quell’anno, ma pubblicata nel 1848), egli diede una definizione poetica forte della nazione : «Una d’arme, di lingua, d’altare / di memorie, di sangue e di cor». Il discorso sulle comunanze oggettive di lingua e ascendenza (il sangue), si intrecciava con la dimensione volontaristica delle memorie storiche e con la sanzione religiosa.

Anche Antonio Rosmini, nella linea di un «illuminismo cristiano» settecentesco, era giunto ad apprezzare gli ideali delle rivoluzioni (diritti dell’uomo, libertà, eguaglianza), distaccandosi dai suoi esiti autoritari e violenti, mentre si apriva alla valorizzazione degli esiti liberali della fede cristiana. La nazione era per lui un ideale religioso e letterario, convergenza spontanea di diverse appartenenze, che dalle patrie locali andavano fino alla universale res publica christiana. Nel quadro dell’idea romantica della religione cristiana come culla della civiltà europea, si collocava l’immagine dell’Italia «nazione cattolica», che avrebbe dovuto essere ispirata e coltivata da una Chiesa capace di autoriforma (si pensi al volume sulle Cinque piaghe, scritto fin dal 1832 e rinviato per la pubblicazione fino al 1848). A proposito della politica italiana, con un cauto gradualismo, sposava l’idea di costituire una confederazione italiana, fino a partecipare attivamente, su basi liberal-nazionali, al grande sconvolgimento del 1848.

Già il dalmata Niccolò Tommaseo si era spinto avanti su questa linea negli anni Trenta, puntando a saldare l’idea nazionale e la tradizione religiosa cattolica, fino a proporre una versione radicale, unitaria e repubblicana della rinascita nazionale italiana. Fu però il neoguelfismo (v.) nella versione datagli dall’opera Del primato morale e civile degli italiani (1843) di Gioberti, a saldare molte di queste riflessioni con un progetto politico originale quanto abile, quello di collegare tra loro gli Stati italiani – riformati, ma senza scosse rivoluzionarie – in una confederazione sotto l’autorità morale del papa. Del resto, nella visione forte della nazione italiana proposta dall’abate piemontese, l’identità stessa dell’Italia andava fatta risalire al suo stretto legame con la sede di Pietro.

Contro questi sviluppi politici dell’idea di nazione altre voci resistevano. Ne Le speranze d’Italia di Cesare Balbo (che apparve nel 1844), l’idea di nazione rimaneva nettamente al di qua del problema statuale: la visione cattolica e moderata dell’aristocratico piemontese lo conduceva a ritenere l’indipendenza dall’Austria il primo problema per le genti della penisola, ma ciò non comportava necessariamente perseguire la loro unificazione politica. Nella stessa linea, con maggior vigore teorico, si mosse un autorevole intellettuale gesuita, come Luigi Taparelli d’Azeglio. La sua riflessione sulla nazionalità si collegava a una visione del rapporto organico tra i popoli nell’orizzonte della civiltà cristiana, esposta nel Saggio teoretico di diritto naturale appoggiato sul fatto (1840-43). Taparelli riprendeva su questi argomenti le suggestioni scolastiche disseminate nella cultura giuridica europea, ma impostava la sua concezione organica dell’ordine internazionale sulla critica alla funzione disgregatrice della modernità. Nello spirito moderno – secondo Taparelli – si era decisamente dimenticato l’equilibrio cristiano, facendo divenire la patria un «centro fazioso e settario», oggetto addirittura di «idolatria». Tornare a una visione cooperativa sarebbe stato possibile solo con un ruolo guida del papato, almeno come “arbitro” ultimo delle controversie. La nazionalità in questa logica era un elemento accettabile ma in fondo secondario, come spiegava analiticamente in una Nota apparsa nel 1847 e poi ripubblicata come appendice al Saggio nella seconda edizione. Egli la riteneva un carattere collettivo delle civiltà, tipico del piano della società, che non doveva necessariamente coinvolgere la politica e le istituzioni. La nazione poteva sentirsi unita, anche se politicamente divisa sotto diversi sovrani. Soprattutto, non si poteva perseguire lo sviluppo dell’idea nazionale contro il sistema dei diritti universali e naturali: ciò negava ogni via rivoluzionaria e ogni ricerca dell’indipendenza italiana contro l’assetto internazionale legittimato dai trattati e dal diritto.

Gioberti criticò invece decisamente Taparelli su questo punto: la nazione per lui aveva un principio unitario sostanziale (un’anima) e anche una base naturale, costituita dal territorio e dal popolo unificati da una storia comune. Proprio affermandosi politicamente, la nazione avrebbe contribuito al dispiegamento del cosmopolitismo cristiano, realizzando un gradino necessario dell’ampliamento della società, dagli individui singoli fino al genere umano. Taparelli replicava a questo proposito che, al contrario, era solo la Chiesa cattolica a poter tutelare le nazioni, inserendole in un ordine universale immutabile, a carattere giuridico e religioso. Erano le radici di approcci sensibilmente diversi al problema.

Non dimentichiamo comunque che non esisteva propriamente niente di nazionale in una struttura ecclesiastica italiana singolarmente frammentata. L’episcopato era caratterizzato da un orizzonte regionale ristretto (parliamo di regioni in senso storico, anche se in quell’epoca erano cadute in desuetudine le antiche forme di coordinamento locale), più angusto anche rispetto ai diversi Stati del pluralismo italico. Parecchi vescovi erano eletti con l’appoggio o l’indicazione dei governi, nell’ambito degli accordi concordatari e quindi è naturale che tenessero posizioni piuttosto lealiste, in tutti i sommovimenti rivoluzionari successivi. Come è anche naturale che i vescovi piemontesi e liguri criticassero magari il governo sabaudo ma sempre con abbondanti profferte di fedeltà dinastica.

Le vicende del 1846-1848 furono senz’altro uno spartiacque decisivo. Lo sviluppo della stagione riformatrice e costituzionale in quasi tutti gli Stati, le vociferazioni su una Lega italiana, la precipitazione delle rivoluzioni nel Lombardo-Veneto, con l’invocazione conseguente di una guerra “nazionale” all’Austria, coinvolsero profondamente il mondo cattolico e la chiesa italiana, lacerandola in svariate posizioni e scelte diverse. Ci furono parecchi preti patrioti, che si confrontarono con resistenze durissime alle novità nazionali. Il neoguelfismo sembrò improvvisamente trovare la sua possibile realizzazione, ma cadde presto nel fallimento, con la dissoluzione dell’equivoco nato attorno a Pio IX “papa liberale” e la crisi del suo oggettivo sentimento nazionale italiano, di fronte alle prospettive di far partecipare lo Stato pontificio alla guerra contro l’Austria. La radicalizzazione delle rivoluzioni in senso repubblicano e anticlericale scavò un solco rispetto ad ogni ipotesi riformista nella visione del papa, e chiuse per molte coscienze la finestra della cooperazione tra religione e nazionalità.

La stagione del neoguelfismo e del cattolicesimo risorgimentale si chiuse con una sconfitta, se considerata come esperienza politica, ma per molti protagonisti maturava anche uno scacco sotto il profilo spirituale. Il movimento nazionale italiano nel suo complesso approfondiva il suo distacco dal problema religioso, addensandosi attorno alla guida sabauda e ritenendo sempre più impossibile compiere l’Unità in accordo con la Chiesa. Non a caso dopo il 1848 in Piemonte prese ampiamente piede una legislazione laicizzatrice (dapprima moderata, poi piuttosto radicale), che rese ostile il cattolicesimo ultramontano. Parallelamente la stessa Chiesa che viveva in Italia perdeva uno stimolo importante al confronto con la modernità, rinchiudendosi in un ostile arroccamento. Papa Pio IX si concentrò nella difesa del potere temporale, che non rappresentava solo un problema diplomatico attorno ai destini di Roma (e alle sorti della libertà del pontefice), ma simboleggiava l’ancoraggio a una visione di dipendenza strutturale delle istituzioni civili dal potere religioso, incompatibile con la saldatura tra nazione e liberalismo.

La stagione cattolico-risorgimentale, nonostante questi problemi, lasciò un’eredità culturale profonda e largamente irraggiata. Un’eredità capace di diffondersi fuori dei confini della Chiesa e dell’organizzazione cattolica più o meno ufficiale. Si inaugurò ad esempio una versione laicizzata di tali istanze, che seguiva una logica separatista, ma ispirata a logiche di positiva convivenza tra Stato e Chiesa. Non senza significato, quindi, tracce di questa impostazione furono sviluppate nel decennio dell’unificazione, nella stessa complessa crisi del 1859-’61, e poi nello sviluppo politico dell’Italia unita, da figure come Bettino Ricasoli, Marco Minghetti o Stefano Jacini. Un ampio spezzone della classe dirigente liberale, soprattutto moderata, si era abbeverato alle pagine rosminiane o manzoniane e ora esprimeva una convinta partecipazione al moto unitario.

Anche i cattolici che si schierarono in modo critico rispetto al nuovo percorso risorgimentale, avevano peraltro ormai interiorizzato un’idea di nazione italiana. Il mito nazionale individuava un terreno nuovo a cui collegare il loro attaccamento alla tradizione. Lo stesso Taparelli, apocalitticamente negativo rispetto al futuro dell’Italia politica, contribuì con altri scrittori gesuiti alla nascita della «Civiltà cattolica», che in apertura dichiarò significativamente di voler scrivere «non per questa o quella parte della penisola, ma per tutte», e di voler quindi «rendere un grande, forse il più necessario servigio, alla patria comune», con le «idee di una stampa periodica temperata e cristiana» (Il giornalismo moderno e il nostro programma, CC, 1 (1850), I, p. 16). Il magistero papale, nel frattempo, insisteva in modo crescente a mettere in guardia dall’assolutizzazione dell’idea di nazione, come nell’allocuzione Quibus quantisque, del 1849, senza però negarne gli originali significati.

Fonti e Bibl. essenziale

G. Aliberti, Nazione e Stato nei federalisti cattolici del Risorgimento: Balbo, Taparelli, D’Ondes Reggio, in «Ricerche di storia sociale e religiosa», 23 (1994), 1, 127-145; F. De Giorgi, Rosmini e il suo tempo. L’educazione dell’uomo moderno, tra riforma della filosofia e rinnovamento della Chiesa (1797-1833), Morcelliana, Brescia 2003; G. De Rosa – F. Traniello (a cura di), Cesare Balbo alle origini del cattolicesimo liberale, Laterza, Bari-Roma 1996; E. Francia, «Il nuovo Cesare è la patria». Clero e religione nel lungo Quarantotto italiano, in A.M. Banti e P. Ginsborg (a cura di), Storia d’Italia, «Annali» 22, Il Risorgimento, Einaudi, Torino 2007, 423-450; E. Passerin d’Entrèves, Religione e politica nell’Ottocento europeo, a cura di F. Traniello, Istituto per la storia del Risorgimento, Roma 1993; N. Raponi, Cattolicesimo liberale e modernità. Figure e aspetti di storia della cultura dal Risorgimento all’età giolittiana, Morcelliana, Brescia 2002; F. Traniello, Religione, nazione e sovranità nel Risorgimento italiano, ora in Id., Religione cattolica e Stato nazionale. Dal Risorgimento al secondo dopoguerra, Il Mulino, Bologna 2007, 59-112; Id., La polemica Gioberti-Taparelli sull’idea di nazione, ora in Id., Da Gioberti a Moro. Per­corsi di una cultura politica, Franco Angeli, Milano 1989, 43-62.


LEMMARIO