Associazione Italiana dei Professori di Storia della Chiesa

Dizionario Storico Tematico La Chiesa in Italia
Dalle origini all'Unità Nazionale
Roma 2015
Copyright © 2015

Archeologia - vol. I


 

Autore: Giovanni Liccardo1

L’archeologia cristiana ha logiche comuni a tutte le altre archeologie; nello specifico, offre fonti per la ricostruzione integrale e obiettiva della vita cristiana nell’antichità e nell’alto medioevo e si impegna a determinare come l’idea religiosa sia stata compresa dall’artista e quali forme gli abbia suggerito. Tralasciando la problematica della definizione dei confini cronologici precisi, il suo campo di riflessione è rappresentato dal graduale passaggio dagli orizzonti del mondo classico e pagano a quelli dell’affermazione del cristianesimo; per questo in vari studi si preferisce definire la materia come “archeologia tardoantica” o “archeologia postclassica” e talvolta “archeologia altomedioevale”. Per l’Italia si indica in Roma il suo centro più importante, per chiese e catacombe, epigrafi e pitture, collezioni e raccolte; presentano monumenti di grande interesse anche Aquileia, Cagliari, Milano, Napoli, Ravenna e Siracusa.

Riguardo alle fonti, le dirette o principali sono gli edifici di culto, i monumenti funerari, gli oggetti di uso domestico e quelli di uso liturgico. Di essi si studia soprattutto la topografia, l’architettura, l’iconografia, l’epigrafia. Dalle fonti indirette o letterarie, invece, l’archeologo ricava tutte le informazioni, indispensabili o integrative, che danno vita al bagaglio di acquisizioni storiche basilari all’indagine scientifica del monumento. Di norma vengono divise in tre classi: fonti che documentano l’ambiente nel quale si pongono i monumenti; fonti desunte dal culto dei martiri o destinate al rituale liturgico; fonti medioevali a carattere archivistico, espositivo e antologico.

Oltre agli autori cristiani, particolarmente importanti si rivelano gli Atti e le Passiones dei martiri; anche se queste ultime confondono le leggende con la storia, contengono sempre qualche indizio attendibile e utile all’archeologo: il nome del martire, la data approssimativa degli avvenimenti, talvolta il nome del prefetto o del giudice o del governatore. Particolarmente accolgono notizie preziose sul luogo del sepolcro (ubicazione, distanza dalla strada, composizione ecc.), poiché all’epoca in cui sono state composte molti dei monumenti che descrivono erano ancora visitabili e frequentati.2

Lo stesso interesse meritano i calendari e vari documenti affini che confluirono nella vasta compilazione del Martirologio geronimiano, spesso forniti di utili indicazioni topografiche. Assai peculiare è il calendario di Napoli, inciso sopra due lastre di marmo verso la metà dell’VIII secolo, ma risalente nel suo nucleo primitivo ad un’età molto più antica; è conservato oggi in alcuni locali attigui al Duomo. Anche gli itineraria e le biografie dei papi e dei vescovi sono fonti notevoli di notizie sulle chiese e sui cimiteri delle varie città. La più famosa compilazione del genere è il Liber Pontificalis di Roma, che raccoglie le biografie dei pontefici da S. Pietro a Martino V (1431). Tra le altre raccolte sono il Chronicon (o Gesta) Episcoporum di Napoli e il Liber Pontificalis ecclesiae di Ravenna.

I diari di viaggio a Roma, infine, apparvero verso il VI secolo; tra i più importanti sono l’Itinerario del prete Giovanni alla ricerca dell’olio santo dei martiri, su incarico della regina Teodolinda, durante il pontificato di Gregorio Magno (590-604); la Notitia ecclesiarium urbis Romae, composta tra il 625 e il 629, che riporta informazioni sulle chiese suburbane dei martiri classificate secondo le vie sulle quali si affacciavano; l’Itinerario di Malmesbury, scritto nel periodo compreso tra il 648 e il 682; l’Itinerario di Einsiedeln, dal monastero svizzero dove venne trovato, il cui autore dimostra di aver personalmente visitato Roma al tempo di Carlo Magno, di avere studiato i monumenti e di aver partecipato anche a cerimonie pagane, che sollecitamente ricorda.

Metodo e compiti. L’archeologia cristiana al tempo delle prime esplorazioni nel XVI secolo aveva la funzione celebrativa di servire alla storia della Chiesa e costituiva un ausilio apologetico della teologia storica; oggi non può prescindere dai risultati conseguiti nell’ambito dell’archeologia classica, della storia del primo cristianesimo, delle scienze bibliche, della liturgia, dell’agiografia e della patristica. A sua volta offre allo studio di queste materie i risultati delle sue indagini.3

Uno dei suoi compiti principali è quello di preparare il materiale scientifico con un metodo che prevede la ricerca e la catalogazione dei monumenti, ciascuno corredato di tutti gli elementi topografici, analitici e bibliografici, capaci di formare una “scheda” del monumento stesso. L’archeologo, in base ai prodotti acquisiti, vaglia l’autenticità del manufatto, accerta la sua funzione, stabilisce l’epoca cui appartiene, in modo che possa determinare la vera origine del monumento, vale a dire ricercare i fattori psicologici (concetti religiosi), sociali, fisici e ambientali che agirono in germe nell’attività creatrice dell’artista. La diligenza e la cura di questa procedura permette la ricostruzione sintetica della vita cristiana in tutte le sue manifestazioni, con la ricerca del vero nesso causale delle espressioni religiose, appunto con il sostegno dei monumenti e dei resti storici in tutto il loro insieme. Ovviamente, l’indagine archeologica non ha termine, come per ogni scienza, e le ricerche anche limitate a un solo “argomento” appaiono continuamente integrate dalle nuove; si arricchisce il materiale documentario, si rafforza la capacità di comprensione attraverso nuovi studi o ultime tecniche d’indagine. Tenuto conto della molteplice tipologia dei resti archeologici cristiani, solitamente si distinguono tre insiemi di monumenti:

  1. Gruppo architettonico, che comprende i monumenti del culto cristiano (dalle prime domus ecclesiae alle basiliche più tarde) e i complessi funerari (cimiteri subdiali, catacombe e tutte le varie forme di sepoltura);
  2. Gruppo iconografico, che considera le raffigurazioni pittoriche (affreschi e mosaici), le sculture e le arti minori (vetri dorati, lucerne, medaglie, pietre preziose, anelli, ecc.);
  3. Gruppo epigrafico, che include tutte le iscrizioni incise o dipinte su qualunque materia (ad esclusione della pergamena e del papiro) e in qualsiasi luogo si trovino, nei cimiteri, nelle basiliche, nei battisteri, ecc.

Topografia cimiteriale. I cristiani preferirono per varie ragioni l’inumazione all’incinerazione; i cimiteri furono in origine delle tombe di famiglia, pro­tette dal diritto privato romano, che dichiarava la tomba un locus sacer, un locus religiosus, e come tale protetto. All’inizio la sepoltura fu eseguita da privati, o dai servi, nelle aree usate dai pagani, come avvenne nel caso di S. Pietro e S. Paolo; nel IV e V secolo le aree cimiteriali si estesero notevolmente. Molti cimiteri si svilupparono particolarmente intorno alle tombe dei martiri sostanzialmente secondo una duplice forma: cimiteri sopra terra (subdiali) e cimiteri ipogei, chiamati catacombe. Le aree subdiali erano contenute in zone circoscritte, chiuse con muretti di recinzione e talvolta sorvegliate da un custode. Qui l’aspetto delle tombe era corrispondente alle sepolture pagane, con tombe singole e familiari: fosse nel terreno (formae), tombe “a cappuccina” o “ad enchytrismòs” (con pezzi di anfore rotte), memoriae o cellae. In Italia un esempio di grande interesse è a Roma, presso la necropoli vaticana, scoperta nelle esplorazioni degli anni ’50 del Novecento; di notevole importanza sono anche le aree di Iulia Concordia Sagittaria, presso l’odierna città del Friuli, di Ravenna, nella zona di Classe, e di Milano, vicino alla basilica di S. Ambrogio.

La seconda forma di cimiteri fu quella delle catacombe; a Roma sono i complessi più antichi e famosi, ma anche in altre città, come a Napoli e a Siracusa, le catacombe presentano caratteristiche di grande rilevanza. Il modello comune di sepoltura nei cimiteri sotterranei consisteva in una cavità scavata (loculo) nella parete di un ambulacro, parallela alla galleria; vi erano poi i cubicula (camere funerarie), riservati di solito a famiglie o ad associazioni. Per quanto riguarda la toponomastica, le catacombe presentano una varietà di nomi piuttosto articolata; alcuni cimiteri esibiscono denominazioni di persone (Bassilla, Massimo, Trasone, Priscilla, Pretestato, ecc.), per altre il nome deriva dalla posizione topografica legata alla strada o aggiunta ad altre indicazioni (ad duas lauros, ad septem palumbas, ad clivium cucumeris ecc.). Ma il gruppo più nutrito di cimiteri è conosciuto con nomi di santi: a Roma, Panfilo, Agnese, Ippolito, Tecla, ecc.; a Napoli, Gennaro, Gaudioso, Severo ecc.; a Siracusa, Lucia, Giovanni ecc.; a Cagliari, Bonaria e Saturno.4

Epigrafia. Definita metodologicamente da Giovanni Battista De Rossi, l’epigrafia considera le antiche iscrizioni specificamente cristiane (scritte su ogni tipo di materiale, tranne i manoscritti e le monete), ossia quelle che offrono un segno del loro cristianesimo, oppure si trovano in un luogo (chiese, battisteri, cimiteri, ecc.) dove non possono esserci epigrafi pagane. I segni di cristianesimo sono generalmente o la professione di qualche dogma cristiano o l’uso di simboli e segni particolari (pesce, colomba, ancora, croce, monogramma ecc.) o di terminologia sicuramente cristiana (depositio, specifici nomi propri, l’acclamazione pax, riferimenti a usi e costumi cristiani ecc.).

Le iscrizioni rappresentano le testimonianze più spontanee per la conoscenza delle antiche comunità cristiane, le quali pure in maniera vaga, attraverso la memoria fune­raria, e non solo, hanno lasciato traccia delle loro idee, della loro mentalità, della loro cultura, dei loro atteggiamenti di fronte ai grandi problemi esistenziali e a quelli del vi­vere quotidiano. Tra i vari tipi sono quelle ufficiali, d’appara­to, le dedicatorie, le votive, le didascaliche, però la stragrande percentuale dei testi è fune­raria, avendo origine dai cimiteri subdiali e dalle catacombe. Si tratta di un insieme di enorme interesse, il cui studio conduce all’acquisizione di una quantità di dati preziosi: oltre a quelli specificamente epigrafici, anche storici, linguistici e filologici, agiografici, liturgici e cultuali.5

Tra le iscrizioni più caratteristiche sono quelle legate al pontificato di Damaso (366-384), mentre assai comuni sono quelle che si riferiscono al culto dei martiri. Oltre al frequente ricordo delle feste dei santi, nelle iscrizioni i dedicanti si rivolgono ai beati per raccomandarsi alla loro intercessione o manifestano il desiderio di essere seppelliti accanto alle loro tombe. Le varie formule epigrafiche esprimono la serena speranza che i santi renderanno testimonianza a favore di chi è vissuto bene; manifestano la certezza che colui che ha onorato i martiri in questo mondo li troverà accanto a sé come avvocati nell’altro. Infine, i graffiti furono generalmente o sepolcrali (incisi al momento della chiusura della tomba, sulla calce fresca) o dei pellegrini (scritti sull’intonaco delle pareti, solitamente presso le tombe dei martiri).

Fonti e Bibl. essenziale

G. Bovini, Gli studi di archeologia cristiana dalle origini alla meta del secolo XIX, Patron, Bologna 1968; G. Cantino Wataghin, Problemi di archeologia cristiana: lezioni di archeologia cristiana (con appendice raccolta da C. Caprotti), G. Giappichelli, Torino 1970; C. Carletti, Epigrafia dei cristiani in Occidente dal III al VI secolo. Ideologia e prassi [Inscriptiones Christianae Italiae (= ICI). Subsidia VI], Bari 2008; L. Cervellin, L’arte cristiana delle origini. Introduzione all’archeologia cristiana, SEI, Torino 1998; A. Chavarria Arnau, Archeologia delle chiese: dalle origini all’anno mille, Carocci, Roma 2009; E. Conde Guerri, Los “fossores” de Roma paleocristiana. Estudio iconografico, epigrafico y social (Studi di antichità cristiana 33), Città del Vaticano 1979; F.D. Deichmann, Archeologia cristiana, L’Erma di Bretschneider, Roma 2002; A. Felle, L’uso dei testi biblici nella comunicazione epigrafica in età tardoantica, in La comunicazione nella storia antica: fantasie e realtà. III Incontro Internazionale di Storia Antica (Genova, 23-24 novembre 2006) (Colloqui AIEGL – Borghesi 2006 = Epigrafia e Antichità, 26), Bologna 2008, 209-220, tavv. VIII-XIII; V. Fiocchi Nicolai – J. Guyon (a cura di), Origine delle catacombe romane. Atti della giornata tematica dei Seminari di Archeologia Cristiana (Roma-21 marzo 2005) (Sussidi allo studio delle antichità cristiane 18), Città del Vaticano 2006; S. Gelichi, Introduzione all’archeologia medievale. Storia e ricerca in Italia, Carrocci, Roma 1998; A.J. Iniguez Herrero, Archeologia cristiana, Edizioni San Paolo, Cinisello Balsamo 2003; G. Liccardo, Introduzione allo studio dell’archeologia cristiana. Storia, metodo, tecnica, Edizioni San Paolo, Cinisello Balsamo (MI), 2004; S. Marchesini, Seriazione ed epigrafia: l’impiego di BASP (The Bonn Archaeological software package) nello studio di iscrizioni, «Archeologia e Calcolatori» 15 (2004), 257-266; A. Petrucci, s.v. Graffito, in EAM, VII, 1996, 64-66 (con bibliografia ulteriore); P. Testini, Archeologia cristiana, EdiPuglia, Bari 19802a.

Immagini:

1) Aquileia, Museo Paleocristiano Nazionale: resti della basilica cristiana; 2) Roma, Catacombe dei SS. Marcellino e Pietro, volta del cubicolo del Buon Pastore (IV secolo); 3) Napoli, Catacombe di San Gennaro, ambulacro del piano superiore; 4) Ravenna, Basilica di Sant’Apollinare in Classe, sarcofago della Traditio Legis (VI secolo); 5) Siracusa, Catacomba di S. Giovanni, iscrizione di Euschia (IV secolo).

Sitografia:

http://www.aiac.org/ (sito dell’Associazione Internazionale di Archeologia Classica); http://www.unioneinternazionale.it/ (sito dell’Unione Internazionale degli Istituti di Archeologia, Storia e Storia dell’Arte in Roma); http://irfrome.org/language/it/dove-antichita-e-moderno-si-incontrano/ (sito dell’Institutum Romanum Finlandiae); http://www.icomos.org/fr/ (sito dell’ICOMOS, International Council on Monuments and Sites); http://www.edr-edr.it/Italiano/index_it.php (sito dell’Epigraphic Database Roma, EDR, parte costitutiva della Federazione internazionale di banche dati epigrafiche, denominata Electronic Archive of Greek and Latin Epigraphy, EAGLE); http://www.archeologiamedievale.it/ (sito per studiosi e appassionati di archeologia tardoantica e medievale).


LEMMARIO




Archeologia - vol. II


 

Autore: Giovanni Liccardo1

Tra apologia e ricerca scientifica. La preoccupazione dei teologi cattolici (tra i primi Onofrio Panvinio, Alfonso Ciacconio, Filippo De Winghe e S. Filippo Neri) di opporre la prova degli antichi monumenti cristiani alle argomentazioni dei Pro­testanti, diede il primo impulso agli studi di archeologia cristiana. Ma sul finire del ‘500 le esplorazioni di Antonio Bosio (copiò iscrizioni, riprodusse con disegni pitture e sculture) furono in parte già condotte con metodo scientifico; nondimeno, l’interesse verso le catacombe fu orientata generalmente a ricercare “corpi santi” e “segni” di martirio: palme, corone, pettini, conchiglie, anelli di osso, lucerne, ampolle di vetro e vasi di creta. Fu l’azione di papa Benedetto XIV, più attento al significato scientifico dell’archeologia, ad iniziare la collezione dei monumenti delle catacombe nel Museo cristiano della Biblioteca Vaticana, dove riunì vetri dorati e diverse iscrizioni. Più tardi, su suggerimento di Gaetano Marini, Pio VII ampliò la raccolta, da cui Pio IX prese poi alcune delle principali epigrafi cristiane per il Museo che egli istituì nel Laterano. Giuseppe Marchi guidò, invece, gli studi Giovanni B. de Rossi (1822-1894), considerato il fondatore della moderna archeologia cristiana. Le tante opere da lui pubblicate compongono un prodotto scientifico di primaria rilevanza e attestano la validità del suo metodo. Dai primi del Novecento gli specialisti di archeologia cristiana si sono poi moltiplicati e sono fiorite vere e proprie scuole, oltre che in Italia, in varie altre parti del mondo.

Studi e scoperte. Negli ultimi decenni il quadro dell’archeologia cristiana è andato sempre più trasformandosi, grazie agli scavi che spesso hanno riportato alla luce testimo­nianze delle chiese primitive e le hanno inserite in un più ampio contesto storico-culturale. Per quanto riguarda l’Italia, di notevole rilievo sono stati i lavori eseguiti negli anni quaranta-cinquanta del Novecento sotto la basilica di S. Pietro alla ricerca del suo sepolcro. Le esplorazioni, eseguite in quel particolare frangente storico con notevole accortezza e superando grandi ostacoli, hanno confortato le testimonianze di una tradizione cultuale bimillenaria: sono stati scoperti parti di una necropoli romana con ricchi edifici sepolcrali e in mezzo ad essi una modesta edicola, risalente al 160 d. C., che presumibilmente fu costruita sulla tomba di S. Pietro.2

Sempre a Roma, negli ultimi decenni del Novecento sono stati eseguiti importanti scavi presso la basilica di S. Cecilia in Trastevere, nella basilica di S. Clemente, nei pressi del Colosseo, e nella basilica di S. Lorenzo in Lucina, mentre un edificio chiesastico è stato rinvenuto lungo la Via Ardeatina, nel complesso di S. Callisto. La chiesa, di carattere funerario, è purtroppo ridotta al livello delle fondazioni, ma si sono identificate la navata centrale, le absidi e il deambulatorio. L’intero pavimento era coperto da tombe, tra le quali una è collocata proprio al centro dell’abside, purtroppo depredata già nell’antichità: gli studiosi ritengono che questa chiesa fu costruita da papa Marco nel 336 e in quella tomba “privilegiata” era deposto proprio il suo corpo. Infine, in un cubicolo delle catacombe romane di santa Tecla, in via Ostiense, vicino alla basilica di San Paolo fuori le mura, recentemente sono state identificate le più antiche icone degli apostoli Pietro, Paolo, Andrea e Giovanni.

Importanti scoperte di archeologia cristiana sono state realizzate negli ultimi decenni anche in diversi siti italiani; degni di nota sono i ritrovamenti fatti nel 1975 nelle catacombe di S. Gennaro a Napoli (con la scoperta della tomba del martire e di una ricchissima serie di mosaici) e quelli realizzati nel complesso di basiliche di Cimitile (Nola), sempre in Campania, dove è stata meglio chiarita l’intricata sequenza di strutture cristiane e pagane: ha trovato conferma l’ipotesi che vede nella cittadina campana uno dei centri di spiritualità più attivi e frequentati dell’Italia meridionale per l’età antica. In Liguria notevole è il ritrovamento di un secondo fonte battesimale, a pianta ottagonale, nel suburbium meridionale di Albingaunum; ma rilevanti risultati hanno conseguito anche i molti scavi nelle catacombe (per esempio, in quella di Villagrazia di Carini) e nelle chiese siciliane (edificio della Pirrera). A Taranto e a Classe le indagini hanno consentito di rileggere la topografia delle città nella tarda antichità, mentre consistenti recuperi sono stati fatti nel sito archeologico della cappella di San Cerbone nel Golfo di Baratti a Populonia (LI), nel cimitero medievale della cappella di San Cerbone, sempre nel Golfo di Baratti a Populonia, nell’abbazia di S. Secondo all’isola Polvese del lago Trasimeno, nell’area di S. Giovanni a Canosa di Puglia, e a Siponto, dove è stato studiato un nuovo edificio religioso presso il tratto settentrionale delle mura. Molti risultati hanno conseguito anche le ricerche sugli insediamenti religiosi nelle Marche meridionali e in diversi contesti della Sardegna, come quello di S. Giulia a Padria (SS).

Istituzioni pontificie e scientifiche. Dell’attenzione dedicata all’archeologia cristiana dai papi e tra i loro interventi più concreti, oltre alla Pontificia Accademia Romana di Archeologia, sono l’istituzione, da parte di Pio IX su suggerimento di de Rossi, della Commissione di Archeologia Sacra il 6 gennaio del 1852 e la fondazione da parte di Pio XI l’11 dicembre del 1925 del Pontificio Istituto di Archeologia Cristiana. La prima struttura nel 1925 fu dichiarata Pontificia e ne vennero particolarmente definite le competenze, ribadite, ancora di recente, nelle convenzioni tra la Santa Sede e lo Stato Italiano, nel 18 febbraio 1984; secondo questi accordi spettano alla Commissione esclusivamente l’esplorazione, lo scavo e la custodia delle catacombe ubicate a Roma e nelle altre città d’Italia. Con le funzioni direttive e operative del Presidente e del Segretario, con la Commissione collaborano l’èquipe dei suoi membri, i commissari corrispondenti, i diversi officiali e i vari ispettori locali (per il Lazio, la Campania, la Sicilia orientale, la Sicilia occidentale, la Toscana e l’Umbria). Nei luoghi affidati alla Pontificia Commissione nulla si può modificare senza il suo permesso; inoltre, essa ha la direzione di qualunque lavoro da praticarsi e ne pubblica i risultati, stabilisce le norme per l’accesso del pubblico e degli studiosi nelle catacombe e, infine, indica quali ambienti e con quali cautele possono essere adibiti per le eventuali liturgie. In questi ultimi anni la Pontificia Commissione ha ricevuto un grande impulso, sia per quanto riguarda le operazioni archeologiche e conservative, realizzate secondo i più recenti criteri di scavo e di restauro, sia per quanto attiene l’organizzazione tecnica, documentaria ed operativa, per avanzare un sempre più valido ed efficace supporto alla conoscenza ed alla tutela del patrimonio monumentale ad essa affidato.3

Il Pontificio Istituto di Archeologia Cristiana, invece, fin dalla sua fondazione affiancò la Pontificia Accademia Romana di Archeologia e la Pontificia Commissione di Archeologia Sacra. Attualmente l’Istituto accoglie studenti che abbiano ultimato gli studi universitari per il corso di specializzazione di durata triennale. Inoltre, l’Istituto cura la pubblicazione della “Rivista di Archeologia Cristiana” e di varie collane di monografie riguardanti i tipici campi d’indagine della disciplina. Infine, è sede del Comitato Promotore Permanente dei Congressi Internazionali di Archeologia Cristiana, del quale i docenti sono membri di diritto e a cui sono aggregati i Direttori delle Scuole e Accademie straniere a Roma e studiosi di fama internazionale, come pure i rappresentati dei Comitati nazionali organizzatori dei più recenti congressi.

Riguardo alla Pontificia Accademia, essa si richiama all’Accademia delle Romane Antichità, istituita nel 1740 da Benedetto XIV, e all’Accademia Romana creata da Pomponio Leto nel secolo XV. Per concessione di Pio VIII ebbe il titolo di Pontificia nel 1829; l’Accademia ha il fine di promuovere lo studio dell’archeologia e della storia dell’arte antica e medievale. Cura in maniera particolare l’illustrazione dei monumenti archeologici ed artistici di spettanza della Santa Sede; svolge la sua azione, per il progresso del sapere e lo sviluppo della cultura, attraverso comunicazioni scientifiche, conferenze, pubblicazioni, concorsi e ogni altra forma di indagine e di studio. L’Accademia ha per suo Protettore il Cardinale Segretario di Stato; oggi è costituita da 140 soci, di cui 20 onorari, 40 effettivi e 80 corrispondenti. Sotto gli auspici dell’Accademia sono stati pubblicati dalla Direzione Generale dei Musei e Gallerie Pontificie i Monumenti Vaticani di Archeologia e d’Arte, dal 1922 al 1957 (volumi 10). Nel 2011, infine, ha ottenuto quale riconoscimento della sua azione il I Premio Internazionale “Terras sem sombras”, nella sezione del “Patrimonio Culturale”.4

La cura pastorale della Chiesa. Grande sollecitudine per l’archeologia cristiana hanno dimostrato anche i pontefici Giovanni XXIII, Paolo VI e soprattutto Giovanni Paolo II. Il documento di quest’ultimo La formazione liturgica nei seminari del 1979 raccomanda, per esempio, che «l’archeologia delle antichità cristiane» contribuisca «efficacemente a illustrare la vita liturgica e la fede della Chiesa primitiva». Questa medesima sollecitazione è ripetuta nella Costituzione Apostolica Sapientia Christiana, sempre del 1979, dove l’archeologia cristiana è additata tra le materie indispensabili negli studi di teologia. L’importanza del patrimonio artistico come espressione della fede e come strumento per il dialogo con l’umanità ha diretto anche le strategie della Pontificia Commissione per i Beni Culturali della Chiesa, la cui responsabilità fu indicata da Giovanni Paolo II nella Pastor Bonus. La Chiesa, quindi, si è sempre prodigata in iniziative pastorali adattandosi all’indole di culture assai diverse tra loro con l’unico scopo di annunziare il vangelo; in questi anni ha mostrato quanto la considerazione dell’antichità cristiana impegni tutti coloro che hanno a cuore i valori della cultura umana e religiosa. «I vescovi, personalmente o per mezzo di delegati», si legge nel Catechismo della Chiesa Cattolica, «devono prender­si cura di promuovere l’arte sacra, antica e moderna, in tutte le sue forme, e di tenere lontano con il medesimo zelo, dalla Liturgia e dagli edifici del culto, tutto ciò che non è conforme alla verità della fede e all’autentica bellezza dell’arte sacra» (n. 2503). Secondo Giovanni Paolo II il cristiano che entra nello spirito della tradizione artistica non impoverisce, ma arricchisce il suo pensiero, perché ogni primavera che sorride nel mondo è una cosa vecchia e nuova; vecchia di millenni, nuova come le foglie e i fiori freschi: è la vita. Come la vita è bellezza e «la bellezza è cifra del mistero e richiamo al trascendente. E’ invito a gustare la vita e a sognare il futuro. Per questo la bellezza delle cose create non può appagare, e suscita quell’arcana nostalgia di Dio» (Lettera agli artisti, 16).

Fonti e Bibl. Essenziale

 1852-2002. Centocinquanta anni di tutela delle catacombe cristiane d’Italia, Città del Vaticano 2002; C. Angelelli, La basilica titolare di S. Pudenziana. Nuove ricerche (Monumenti di Antichità Cristiana 21), Città del Vaticano 2010; O. Brandt, Il cerimoniere, l’epigrafista e la fondazione del Pontificio Istituto di Archeologia Cristiana, in Rivista di Archeologia Cristiana, 83 (2007), 193-221; B. Vinci, Intorno alla Rinascita dell’Accademia Romana di Archeologia, (4 ottobre 1810), in Rendiconti dell’Accademia d’Archeologia, XLIV 1971-1972, 329-341; T.T. Chmielecki, La protezione internazionale dei Beni Culturali e la Chiesa Cattolica, LEV, Città del Vaticano 1996. Dieci anni di restauro nelle catacombe romane. Bilancio, esperienze e interventi conservativi delle pitture catacombali, Città del Vaticano 2000; Giovanni Battista de Rossi e le catacombe romane. Mostra fotografica e documentaria in occasione del 1° Centenario della morte di Giovanni Battista de Rossi (1894-1994), Città del Vaticano 1994; L’Archéologie Chrétienne. Allocution de Sa Sainteté Pie XII, in Bulletin des Amis des Catacombes Romaines 12 (1939), 358-360; G. Ferretto, Note storico-bibliografiche di archeologia cristiana, Città del Vaticano 1942; F. Magi, Per la storia della Pontificia Accademia Romana di Archeologia, in Rendiconti dell’Accademia d’Archeologia, XVI 1940, 113-130; S. Heid – M. Dennert (Hrsg.), Personenlexikon zur Christlichen Archäologie. Forscher und Persönlichkeiten vom 16. bis zum 21. Jahrhundert. 2 Bände. Schnell & Steiner, Regensburg 2012; G. Mancini, Il Pontificato romano e l’archeologia sacra, in Studiosi e artisti italiani a Sua Santità Pio XII nel XXV anniversario della sua consacrazione episcopale, Città del Vaticano 1943, 296-303; N. Parmegiani – A. Pronti, S. Cecilia in Trastevere. Nuovi scavi e ricerche (Monumenti di antichità cristiana 16), Città del Vaticano 2004; Ph. Pergola, I settantacinque anni del Pontificio Istituto di Archeologia Cristiana, in Annuario. Unione Internazionale degli Istituti di Archeologia, Storia e Storia dell’Arte in Roma 42 (2000), 211-213; V. Saxer, Cent ans d’archéologie chrétienne. La contribution des archéologues romains à l’élaboration d’une science autonome, in Acta XIII congressus internationalis archaeologiae Christianae. Split-Porec (25.9-1.10.1994) (Studi di antichità cristiana pubblicati a cura del Pontificio Istituto di Archeologia Cristiana 54), Città del Vaticano-Split 1998, 115-162.

Immagini:

1) Roma, Scavi archeologici del Castrum Sancti Pauli; 2) Firenze, Scavi nei pressi del Duomo (24 Agosto 1895); 3)Giovanni Paolo II e P. Antonio Ferrua sj, tra i massimi promotori dell’archeologia cristiana; 4) Roma, Lo stemma pontificio all’ingresso del Pontificio Istituto di Archeologia Cristiana.

Sitografia:

www.catacombe.roma.it/indice.html (sito di informazioni sulle catacombe e sulla Chiesa delle origini); http://www.piac.it/ (sito del Pontificio Istituto di Archeologia Cristiana); http://www.lettere.unige.it/dipartimenti/darficlet/sezi_arch.html (sito dell’Università degli studi di Genova. Dipartimento di Archeologia, Filologia Classica e loro tradizioni in epoca cristiana, medievale e umanistica “Francesco Della Corte “); http://www.arcadria.eu/ (sito del Centro di Studi per l’Archeologia dell’Adriatico); http://rmcisadu.let.uniroma1.it/ (sito dell’Università di Roma “La Sapienza”. CISADU, Centro interdipartimentale di servizi per l’automazione nelle discipline umanistiche); http://soi.cnr.it/iscima/ (sito dell’Istituto di Studi sulle Civiltà Italiche e del Mediterraneo Antico, ISCIMA).


LEMMARIO




Architettura - vol. I


 

Autore: Giovanni Liccardo1

Presto anche per i cristiani si rese inevitabile la costruzione di un edificio destinato alle manifestazioni del rituale liturgico. Per quanto riguarda l’età più antica, le fonti offrono elementi generici e contraddittori; nei vangeli di Marco (14, 15) e di Luca (22, 12) si fa allusione ad un “cenacolo” dove si riunirono inizialmente gli apostoli (Atti 1, 13-14), mentre Paolo accenna alle stanze della casa di Aquila e Prisca (Rm 16, 5 e 1 Cor 16, 19). Queste ecclesiae domesticae sono segnalate anche da Giustino alla metà del II secolo (1 Apologia, 65-67); Minucio Felice impiega il termine sacraria per indicare i luoghi dove avvenivano le cerimonie (Ottavio, 9, 1 e 10, 2). I cenni dei testi si riferiscono certamente a locali privati, più o meno predisposti; questi ambienti servivano comunità di piccole dimensioni, ma dal III secolo con le esigenze di un’organizzazione sempre più articolata, si stabilì l’impiego costante di alcuni edifici, le domus ecclesiae (uno degli esempi superstiti è a Dura Europos, in Siria). In questo periodo prevale una diversità terminologica: ecclesia, basilica, aula, aula regia; la discriminante non è sempre chiara e alcuni autori distinguono ecclesia e basilica; Gregorio di Tours, ad esempio, nel VI secolo chiama basilica l’edificio di culto ricavato nel cimitero, ecclesia la chiesa del vescovo in città. All’indomani del provvedimento costantiniano si avvia, invece, la grande fioritura degli edifici di culto. Nell’ambito dell’architettura ecclesiastica sono da ascrivere anche i cosiddetti centri di formazione del clero (collegi ecclesia­stici, seminari, facoltà teologiche, ecc) e i luoghi di ritiro (come le abbazie, i monasteri, conventi).

Evoluzione e primo sviluppo edificativi. La basilica è certamente l’edificio esemplare della religione cristiana, determinata dalle necessità liturgiche e dall’esigenza di un ambiente in cui tutti i fedeli potessero riunirsi e partecipare ai riti. Sull’origine della basilica sono state avanzate diverse teorie, delle quali oggi si accetta quella che ne riconosce l’indiscussa novità nell’elaborazione profonda di modelli architettonici preesistenti, innanzitutto di quelli relativi alle strutture imperiali romane (palazzi, ville, terme, basiliche forensi). La prima forma di basilica a semplice sala rettangolare allungata, con struttura muraria continua e volta a concrezione, si accrebbe successivamente di colonnati paralleli all’interno e di absidi nelle parti terminali.2

Tra le prime basiliche di Roma fu quella sorta sulla tomba di S. Pietro, a cinque navate, con transetto e ampio atrio (ricostruita nel Rinascimento) e S. Paolo fuori le Mura (rimaneggiata dopo l’incendio del 1823). Al IV secolo risalgono anche le basiliche di S. Giovanni in Laterano, S. Lorenzo, S. Agnese sulla Via Nomentana e altre, tutte trasformate o ricostruite nel corso dei secoli. Quelle che meglio preservano i primitivi caratteri sono le chiese di S. Maria Maggiore e di S. Sabina, entrambe costruite verso la metà del V secolo. Costantino fece costruire basiliche anche a Capua e a Napoli, mentre a Cimitile (Nola) è lo straordinario complesso basilicale sorto intorno alla tomba di S. Felice per l’opera di Paolino di Nola. Anche Ravenna fu un centro di primaria importanza; tra le basiliche più importanti sono S. Apollinare Nuovo, costruita da Teodorico, ma oggi molto rimaneggiata, e S. Apollinare in Classe, consacrata nel 549. Seguirono in modo sostanziale i modelli costruttivi di Ravenna le basiliche di S. Maria a Pomposa e di S. Maria delle Grazie a Grado, tutte edificate tra il VI-VII secolo. Viceversa, ai primi decenni del IV secolo risalgono le aule teodoriane di Aquileia e forse anche la basilica di S. Salvatore a Spoleto, che della costruzione primitiva conserva solo la parte absidale con alcune colonne. Per Milano, infine, si registrano la basilica di S. Maria (eretta nella prima metà del IV secolo), e di poco successiva la grande costruzione a cinque navate dedicata al Salvatore e detta poi di S. Tecla.

Accanto alle basiliche a sviluppo longitudinale non mancarono edifici a pianta centrale, adibiti a battistero, a mausoleo, a martyrium, con struttura interna ripresa dallo schema di architetture imperiali o orientali (battistero napoletano di S. Giovanni in Fonte), molte volte con nicchie e ambulacro a colonne (mausoleo di S. Costanza a Roma, chiesa di S. Lorenzo a Milano, basiliche rotonde di S. Stefano a Roma e di S. Angelo a Perugina); questi edifici, tra l’altro, pur facendo riferimento a temi orientali, li negano utilizzando materiali possenti come le strutture murarie, a differenza dell’oriente che legava gli ambienti attraverso effetti cromatici e creava spesso un’architettura illusoria con la stesura di materiali facilitanti la fluidità di un ambiente dentro l’altro.3

Dal romanico al gotico. A cavallo dei secoli X-XI l’immobilismo circoscritto altomedievale esaurì il suo ciclo: un impulso creativo di uguale intensità e di analogo carattere sorse e si affermò ovunque in Europa dalla Normandia alla Sicilia, determi­nando un’indubbia rinascita artistica. L’architettura romanica è arte di chiese, anche se le poche testimonianze degli edifici civili di questi due secoli non dimostrano ancora una coerente qualità strut­turale. Nelle campagne e nei borghi gli ordini monastici rinnovano e costrui­scono ex novo abbazie attraverso elargizioni di re e di feudatari; nelle città sempre più vive e organizzate, all’attività edilizia del ve­scovo si affianca in gara quella della comunità, né mancano donativi di re e di conti alle erigende chiese cittadine. Nell’arte romanica la pietra è il mezzo vivo con cui si edifica e il peso è la componente che più carat­terizza l’edificio religioso; in nessun tempo dell’arte cristiana, infatti, l’uo­mo ha proiettato tanto tangibilmente la sua realtà fisica nella chiesa, sotto­ponendo la materia-peso, come l’anima fa per il corpo, ad una disciplina che la controlla perché abbia valore entro i suoi limiti e il suo posto nell’ordine voluto da Dio. In nessun’altra attività di questo tempo si può trovare un prin­cipio coordinatore della materia, sia es­sa umana o concettuale o legislativa o letteraria, così efficace, coerente e com­piuta, pur nella sua varietà tipologica, quanto quello che presiede l’arte dell’edificare. La chiesa è un raggiungimento e una necessità al di sopra di ogni differenza di condi­zione. Essa rappresenta la rude forza del popolo, la saggezza dell’abate, la maestà del vescovo e del conte fedelmente unite. L’equilibrio fra gli uo­mini è raggiunto ora e qui: luogo d’incontro nella preghiera, severo tribunale delle anime dove siede in eterno Cristo giudice, rifugio e fortezza con­tro ogni pericolo esterno che il Mali­gno tenacemente materializza ai suoi fini.

La più importante scuola romanica in Italia fu quella lombarda: oltre al prototipo milanese di S. Ambrogio, si ricordano le chiese pavesi di S. Michele e S. Pietro in Ciel d’Oro, quelle comasche di S. Abbondio e S. Fedele. A cavallo dei secoli XII-XIII le chiese cistercensi (Chiaravalle Milanese, Cerreto Lodigiano) e i broletti comunali (Milano, Pavia, Como, Brescia) pongono invece le premesse dell’architettura gotica lombarda. Altri regioni notevoli impianti sono rappresentati dal Duomo di Parma e dal Duomo di Modena, dagli edifici che compongono la piazza dei Miracoli a Pisa (la cattedrale, il campanile, il battistero e il camposanto), la basilica di S. Miniato al Monte e il battistero di S. Giovanni a Firenze, la Basilica di S. Marco a Venezia. Elementi distintivi ebbe anche il romanico pugliese, che si manifestò con la traduzione di un linguaggio architettonico composto da diversi elementi culturali provenienti per lo più dall’Oriente adattati al gusto occidentale, e si diffonde l’uso di includere le cupole all’interno di tiburi piramidali, rivestiti all’esterno da elementi strutturali messi di taglio. Le cupole sono inserite sull’asse principale dell’edificio di culto ad una o tre navate, dove quelle laterali sono spesso coperte da volte a mezza botte che hanno la funzione di contraffortare il peso delle cupole stesse, come mostrano la chiesa di Santa Maria di Siponto, la chiesa di Santa Maria a Mare di San Nicola alle Tremiti, la cattedrale di Otranto, quella di Bari, quella di Troia e la straordinaria cattedrale di Trani: tutti edifici accomunati da uno slancio ascetico e spirituale che si riflette nella essenzialità delle forme e nella assenza di orpelli decorativi.4

L’architettura gotica, partendo dalle premesse definite nell’età pre­cedente, arrivò alla formulazione coe­rente di uno stile unitario con vastissi­mo raggio d’azione nel tempo e nello spazio. La cattedrale gotica è un mon­do costruito, scolpito, dipinto, dove il divino e l’umano si fondono, dove le tre arti divengono ben presto inscin­dibilmente unite e valori plastici, pitto­rici, linearistici concorrono a rendere lo spazio sempre più indefinito offrendo al fedele non un ambiente di pura con­templazione, ma piuttosto di stimolo a perenne ascesi nel dinamico fremito verso l’alto, nella tensione che sublima la materia. In Italia le costruzioni gotiche mantengono l’equilibrio tra altezza e larghezza, la sobrietà e l’essenzialità nelle decorazioni. Accanto alle cattedrali, i cui cantieri di costruzione si mantengono spesso per lunghi periodi nel cuore della città, vanno considerate anche le architetture monastiche. Mentre l’ordine dei Cister­censi elabora ancora nelle campagne una sintassi architettonica semplificata al massimo, i nuovi ordini religiosi france­scani e domenicani partecipano alla rinnovata vita cittadina. Essi edificano le loro chiese a monte e a valle dei cen­tri urbani, dove più fervida era l’opero­sità artigiana, quasi a stringere la città in un abbraccio protettivo; adottano metodi costruttivi gotici, pur mante­nendo come costante la chiarezza della pianta e la sua semplicità in armonia anche con le esigenze stilistiche locali. Esemplificazioni monumentali sono rappresentate dalla Basilica di San Francesco ad Assisi, la Basilica di Sant’Antonio a Padova, la Chiesa di San Francesco a Bologna, la Chiesa di Santa Maria Novella a Firenze, la Cattedrale di Siena, il Duomo di Orvieto.

L’età moderna. Tra il ’400 e ’500, tempo di grande rinnovamento in ogni campo e nelle arti figurative prima di tutto, il fenomeno più interessante è la trasformazione e l’ampliamento di antiche fondazioni monastiche. Nelle antiche abbazie si innestano costruzioni che applicano nuove formule decorative agli schemi distributivi tradizionali. Così a Camaldoli, oltre le prime celle e il primo oratorio di S. Romualdo, si aggiungono le fabbriche per albergo, e, nel ’500, si rinnova la chiesa e si costruisce il chiostro. La semplicità fondamentale delle forme quattro­centesche si adatta all’espressione del tema religioso; così nel nuovo centro domenicano di S. Marco che l’arte di Michelozzo e del Beato Angelico compone e anima; così negli annessi della chiesa di S. Maddalena de’ Pazzi con l’arte di Giuliano da Sangallo. In altre regioni, dove più forte è la tradizione de­corativa, gli edifici religiosi si ornano di intagli e di colore, sia nelle terrecotte, sia negli intarsi marmorei.

Viceversa, ai moduli della nuova concezione architettonica si rifanno le chiese fatte erigere dal cardinale Carlo Borromeo di Milano, che diverranno i modelli dell’architettura della controriforma. Questi edifici mantengono la tradizionale pianta basilicale, un linguaggio classico negli alzati e la cupola all’incrocio del transetto. Questo modello si diffonde in tutta Europa e diventa quasi il linguaggio ufficiale del cattolicesimo, influenzando anche l’architettura dei paesi riformati, che però adottano inizialmente un linguaggio meno monumentale e talvolta con persistenze della tradizione gotica.5

L’architettura ecclesiastica del Settecento ebbe come punto di partenza sia la tradizionale basilica longitudinale, sia la chiesa a pianta centrale del Rinascimento. La prima era preferita dal clero perché rispondeva all’esigenza controriformistica di uno spazio per la riunione dei fedeli; la seconda aveva il favore dei teorici dell’architettura in virtù della sua forma “perfetta”, in cui vedeva rappresentata l’astratta armonia del cosmo. Come risultato i due modelli mostrarono la tendenza a fondersi. Si sperimentarono soluzioni di compromesso soprattutto negli edifici di piccole dimensioni, che diedero luogo a piante centrali allungate dove gli elementi spaziali risultano reciprocamente interdipendenti, fattore che accentua la continuità della parete avvolgente. Esemplificative le opere del Bor­romini e in quelle che seguono la sua impronta, che svolgono in Roma il tema degli edifici religiosi, dalle riquadrate fronti dell’oratorio dei Filippini all’ala del convento di S. Carlino, dalla mole del collegio di Propaganda Fide alla rude orditura del convento di S. Maria dei Sette Dolori.

Dal punto di vista funzionale le chiese ottocentesche rispettano la distinzione fra navata riservata ai fedeli e presbiterio con l’altare maggiore, mentre il coro di solito si sposta dietro l’altare; la sistemazione interna spinge la concentrazione dei fedeli verso il centro dell’altare. Infine, con il romanticismo l’architettura sacra conosce un grande sviluppo, riprendendo il linguaggio degli stili storici, dapprima con il neogotico e in seguito recuperando anche le altre epoche. Negli anni successivi l’edilizia delle chiese subirà l’influenza di quella più generale dell’architettura civile, ma non si stravolgono le funzioni tradizionali dell’edificio sacro.

Fonti e Bibl. essenziale

M. Braghi – A. Ferlenga (a cura di ),  Architettura del Novecento. I. Teorie, scuole, eventi, Einaudi, Torino 2012; C. Brandi, Disegno dell’architettura italiana, Einaudi, Torino 1985; C. de Seta, Architettura della fede in Italia, Bruno Mondadori, Milano 2003; O. Brandt, Battisteri oltre la pianta. Gli alzati di nove battisteri paleocristiani in Italia, PIAC, Città del Vaticano 2012; S. Dianich La Chiesa e le sue chiese, San Paolo, Druento (TO) 2009; V. Gatti, Liturgia e arte. I luoghi della celebrazione, EDB, Bologna 2001; J. Hani, Il simbolismo del tempio cristiano, Arkejos, Roma 1996; R. Krautheimer, Architettura paleocristiana e bizantina, Einaudi, Torino 1986; R. Krautheimer, Corpus Basilicarum Christianarum Romae. Le basiliche cristiane antiche di Roma dal sec. IV al IX, 5 voll., Città del Vaticano 1936-1980; M. Gargano, Forma e materia (“Ratiocinatio” e “fabrica” nell’architettura dell’età moderna), Officina Edizioni, Roma 2006; V. Giordano, Immagini e figure della metropoli, Mimesis, Milano 2013; G. Liccardo, Architettura e liturgia nella Chiesa antica, Skira, Milano-Ginevra 2005; C. Militello, Gli spazi della celebrazione rituale, Edizioni O.R., Milano 1984; M. Mirabella Roberti, Milano romana, Rusconi, Milano 1986; S. Tavano, Aquileia e Grado, Lint Editoriale Associati, Trieste 1986; A. Venditti, Architettura bizantina nell’Italia meridionale, 2 voll., SEI, Napoli 1967.

Immagini:

1) Cimitile (Nola), La tomba di San Felice nell’aula ad corpus (V secolo); 2) Pieve rurale di Bagnasco (IX secolo), nei pressi di Montafia (At); 3) Il rosone della chiesa di San Pietro (XIII secolo),Tuscania; 4) Orvieto, Il Duomo; 5) Treviso, Chiesa di San Nicolò.

Sitografia:

http://architetturapaleocristiana.blogspot.it/ (sito dedicato allo studio di tutte le più importanti architetture paleocristiane); http://biblio.sns.it/it/risorseonline (sito della Biblioteca della Scuola Normale di Pisa con l’elenco di risorse on line ad accesso libero); http://www.beniculturali.it/ (sito del Ministero per i Beni e le Attività Culturali); http://www.thais.it/architettura/romanica/indici/indxsog.htm (sito dedicato all’architettura romanica europea e italiana).


LEMMARIO




Architettura - vol. II


 

Autore: Giovanni Liccardo1

La svolta moderna. Tra la fine dell’Ottocento e la prima metà del Novecento l’architettura di chiese propone nuovi temi legati essenzialmente alle innovazioni della tecnica edilizia, all’impiego di moderni mezzi costruttivi (strutture di am­pio respiro in cemento armato, acciaio e vetro, ecc.) e all’approfondimento di soluzioni tecniche e impiantistiche (visibilità, illuminazione, acustica, ecc.). In Italia tra le prime interessanti esperienze di strutture in ferro e muratura fu quella della chiesa di San Leopoldo nel centro di Follonica, consacrata nel 1838 su progetto degli architetti Alessandro Manetti e Carlo Reishammer, con molteplici elementi in ghisa, come il pronao, il rosone della facciata e l’abside, identificabili nell’esterno della struttura; in ghisa sono anche la punta del campanile e alcuni arredi interni. Più in generale, gli architetti che ora svolgono il tema dell’edificio di culto, pur applicando largamente i nuovi mezzi, tendono di preferenza ad una libera utilizzazione delle strutture e dei tipici effetti che da questi derivano, piegandoli ad un deciso intento espressivo, sia nelle proporzioni, sia nell’uso promiscuo di ma­teriali diversi, a seconda dei fini e delle condizioni ambientali.

Inoltre, anche nell’abbondante produzione di edi­fici chiesastici, in Italia non si evidenzia un indirizzo sti­listico deciso, essendo ancora gli architetti incerti tra forme nostalgiche inutilmente perseguite con nuove semplificazioni e i più vivaci apporti dell’architettura contemporanea. Eppure appare evidente che l’edificio a carattere religioso, in quanto luogo a vocazione sociale e destinato al pubblico, si palesa bisognoso di una nuova veste formale, così come le altre destinazioni d’uso, mentre le città stesse si trasformano sotto la guida dei piani urbanistici e delle capacità tecniche dei nuovi materiali da costruzione. Però le forti resistenze in Italia all’avvento del moderno per l’architettura degli spazi religiosi condizionano notevolmente i prodotti artistici creando una certa frattura tra chi (architetto, sacerdote, teologo, artista) si prodiga per un cambiamento formale e fruitivo e chi si schiera nettamente contro un totale rinnovamento. La discussione si rispecchia frequentemente nei bandi di concorso e negli esiti delle gare per le competizioni più popolari dell’inizio del XX secolo che vedono la partecipazione di un centinaio di architetti e ingegneri attivi a vario titolo in tutta la nazione; esemplificativo, per esempio, è l’ampio salto progettuale tra le proposte presentate per il concorso della cattedrale della Spezia (1929) e i disegni delle chiese per la diocesi di Messina (1931), balzo che non è paragonabile al breve lasso temporale di appena 36 mesi che divide i due eventi.

https://www.ivermectina-comprar.com

Ovviamente, anche in Italia – come nel resto dell’Europa – la Chiesa ha strenuamente bisogno degli artisti d’avanguardia, certamente i più abili nel saper dare una forma coeva e coerente al cemento armato, al vetro e all’acciaio. Si può dire, in generale, che agli inizi del XX secolo l’edificio-chiesa perde la sua riconoscibilità tipologica e questo non è solo consequenziale alla caduta degli stili, al rifiuto dei neo- e all’avvento degli –ismi, ovvero al disdegno delle riproposizioni formali di precedenti epoche nella disperata ricerca di riprodurre la condizione dei tempi gloriosi del cristianesimo, o all’entrata in scena delle avanguardie architettoniche imponenti le loro sperimentazioni. Questo esito non è esclusivamente figlio degli architettonici esercizi di stile promossi dai gruppi avanguardistici, bensì proviene da altre esigenze: queste si individueranno sempre più nella centrale necessità di comunicazione con il fruitore dello spazio sacro, ovvero il fedele, che deve partecipare del rito religioso che vi si svolge.

Di un certo interesse sono in questo periodo, fra le altre, le opere dell’architetto Giovanni Muzio per la chiesa di S. Maria della Rossa in Milano (consacrata dal cardinale Ildefonso Schuster nel 1932); il santuario di S. Antonio a Cremona (ultimato nel 1937); i progetti per la chiesa Regina Pacis a Milano e per quella di S. Ambrogio a Cremona; la basilica del Sacro Cuore di Cristo Re, a Roma, realizzata a cavallo degli anni ‘20 e ‘30 su progetto dell’architetto Marcello Piacentini, considerata la prima applicazione dei canoni moderni nel panorama dell’architettura sacra romana; ancora a Roma, infine, la basilica dei SS. Pie­tro e Paolo all’EUR, chiesa progettata da Arnaldo Foschini (con pianta centrale a croce greca), costruita tra il ‘38 e il ‘43, ma inaugurata solo nel giugno del ’55.2

Dal Concilio Vaticani II ad oggi. Il tema di una nuova liturgia, una questione da principio vaga poi sempre più interessante e convincente negli anni che precedono il Concilio Vati­cano II, confluisce necessariamente in quello di una nuova architettura di chiese. La questione aveva trovato indicazioni teoriche, tra gli altri, nel domenicano Marie Alain Couturier, direttore della rivista francese Art Sacré, favorevole ad un’architettura sacra non accademica e ripetitiva, ma che coinvolgesse gli artisti, senza considerare il loro singolo atteggiamento verso la fede, tuttavia facendo appello al loro “genio”. La questione in Italia ebbe echi interessanti specialmente grazie ai circoli cattolici che facevano ca­po al cardinale Montini della diocesi ambrosiana, al sindaco di Firenze Giorgio La Pira e al padre scolopio Ernesto Bal­ducci, al bolognese Giuseppe Dossetti, al cardinale Lercaro sotto la cui egida nasce nel 1955 la rivista “Chiesa e Quartiere”: quarantotto numeri il cui ultimo uscirà nel fatidico 1968, in coincidenza con la morte di Lercaro e con i sommovimenti del maggio studen­tesco. Un fervore di idee che investe la Chiesa ambrosiana, quella bolognese e quella fiorentina, da cui sortiranno frutti molto interessanti che offriranno l’occasione di realizzare chiese necessarie sia per il loro intrinseco valore propria­mente architettonico, sia per il nuovo messaggio di fede che rappresentano. In questo caso l’architettura appare come uno degli strumenti di apostolato della “Chiesa militante”, che, tra l’altro, negli anni successivi alla guerra deve rendere evidente il proprio ruolo nella ricostruzione morale e civile del Paese attraverso l’edificazione di opere assistenziali e di apostolato. A titolo esemplificativo può essere citata la chiesa della Madonna dei Poveri a Milano, progettata e costruita dal 1952 al 1954 dagli architetti Luigi Figini e Gino Pollini. La chiesa, dall’aspetto esteriore disadorno e quasi rude e dal linguaggio architettonico interno essenziale e brutale, lascia alla sincerità dei materiali e al gioco della luce naturale il compito di coinvolgere il fedele emozionalmente. Allo stesso tempo, si tratta di una modulazione vibrante che parla il linguaggio di una spiritualità intensa e universale che coglie il credente così come l’ateo, quasi di sorpresa, dopo il primo diffidente incontro nel tessuto urbano con un volume indifferente, quasi inquietante per l’inespressività violenta del linguaggio industriale. A questo clima ideativo risalgono anche, tra le altre, la chiesa di Le Corbusier sulle colline di Bologna e la chiesa di Alvar Aalto a Riola di Vergato (in provincia di Bologna).

L’avanzare del movi­mento liturgico e la pubblicazione dell’enciclica Mediator Dei (20 novembre 1947), traduce un’indubbia determinazione teorica; così Pio XII poteva affermare che le forme e le imma­gini recenti non si dovevano ripudiare gene­ricamente per partito preso, ma era assolu­tamente necessario dar libero campo all’arte moderna, se serve, con la dovuta ri­verenza ed il dovuto onore, ai sacri edifici ed ai riti sacri. In luogo dello scetticismo e delle timorose censure che ancora vive, Giovanni XXIII apre la Chiesa alla speranza, dimostra di accettare il dialo­go e la mentalità sperimentale del mondo moderno; si arriva di nuovo a parlare di domus ecclesiae in senso ana­logo a quello usato nei primi secoli.3

Il passo seguente che pone le basi dei principi biblico-liturgici di una nuova ar­chitettura di chiese è la costituzione conciliare sulla liturgia (SC 122-129); essa rappresenta il ri­ferimento fondamentale per un’architet­tura che voglia concretare nelle forme il carattere comunitario delle celebrazioni. In essa, infatti, si esprime la volontà della Chiesa di accettare la collaborazione dell’arte con­temporanea, precisando tra l’altro, per i nuovi edifici sacri, due obiettivi principa­li: la funzionalità in ordine alla celebrazio­ne liturgica e la partecipazione attiva dei fe­deli alla liturgia (ma appare sorprendente che passarono più di trent’anni prima della pubblicazione della Nota pastorale L’adeguamento delle chiese secondo la riforma liturgica, il 31 maggio 1996). La maggioranza delle chiese costruite fino a quel momento era piuttosto tradizionale: l’altare maggiore addossato all’abside spesso orientata ad est e incastonato in composizioni monumentali e riccamente decorate (con tabernacoli di marmo all’esterno e oro all’interno); un crocifisso realistico e a grandezza reale; una balaustra fra navata e presbiterio; un gran numero di quadri, statue e vetrate raffiguranti santi e angeli; file diritte di banchi in legno. I cambiamenti successivi al concilio sono stati praticamente universali, con due effetti principali: in molte chiese l’altare è stato spostato a metà del presbiterio – o posto a cerniera con la navata – cosicché la Messa si possa celebrare versus populum; il tabernacolo è stato spostato in qualche cappella laterale e, al suo posto, prima centrale, ora sta la sede del celebrante.

Di sicuro, nell’età post-conciliare (e almeno fino agli inizi degli anni ’80) la costruzione delle chiese è stata caratterizzata da modelli architettonici e soluzioni tipologiche discontinue, specchio del rapporto chiesa/comunità, Chiesa universale/comunità locali. Ma nel percorso architettonico italiano di questo trentennio è stata notata una dispersione conoscitiva legata alle troppe esperienze realizzate dal dopoguerra ad oggi; una pluralità di modelli che rende difficile il lavoro storico, pure se è possibile tipizzare come esemplificativi gli anni della ricostruzione, attraverso il rapporto Chiesa/Stato, il laboratorio milanese con il passaggio dalla tradizione all’esclusione esornativa, il modello di chiesa paupere spiritu, prodotto della crisi della società rurale. La novità apportata dal concilio, seppur fattore nodale della metamorfosi dell’edificio-chiesa, tuttora in una fase di ricezione, scarta a priori dei prototipi architettonici per prediligere i temi della pastorale; lo spazio della celebrazione diventa indispensabile per la partecipazione consapevole, attiva e fruttuosa dei fedeli.

Questa tendenza esprime, per esempio, la chiesa di S. Giovanni Battista (allo svincolo del casello autostradale di Firenze-Nord, proprio a ridosso della banchina) dell’architetto Giovanni Michelucci. L’opera, che risente di una profonda espressività, non sembra esibire un mero compiacimento stilistico, ma è caratterizzata da una di serie percorsi e di spazi realizzati dalla contrapposizione di pieni e vuoti, nei quali il fedele può rintracciare una corrispondenza di ciò che più si addice al suo stato d’animo; essa è chiesa del “dialogo” e del “silenzio”, o di entrambe le cose: di un silenzioso monologo con l’Assoluto. Concezioni teoriche altrettante profonde, sia pure a livelli diversi, esprimono anche le più recenti architetture chiesastiche di Mario Botta (come la chiesa di S. Maria degli Angeli sul monte Tamaro) e la chiesa per il Giubileo a Roma (progettata da Richard Meier).4

Oggi, infine, si auspicano ambienti progettati per la comunità dove per l’architetto demiurgo è previsto l’accompagnamento di un’artista e di un liturgista per evitare la semplice o astratta applicazione di nuovi stilemi. Una situazione progettuale che ogni volta deve mediare tra due posizioni estreme: lasciare al tecnico/artista ogni decisione o preordi­nare, da parte delle commissioni ecclesia­stiche competenti, dei modelli univoci. Si avverte l’opportunità, di conseguenza, di riconsiderare la dottrina teo­logica sulla chiesa sia per le comunità locali sia per gli artisti, come mo­mento di crescita della comunità e di co­scientizzazione dell’artista.

È indispensabile, da ultimo, l’in­dividuazione non di spazi e di forme, ma di contenuti, di significati delle “presenze” e delle specifiche esigenze locali; questo impegno può costituire il substrato del “program­ma edilizio”, alla cui realizzazione concor­rono allo stesso modo l’intuizione, la creatività, la sen­sibilità dell’artista – correlate ai vincoli in­terni ed esterni del programma stesso – in un processo unitario formativo dell’opera. La comunità locale, le commissioni dioce­sane e quella centrale per l’arte sacra potranno poi verificare in questo corretto rap­porto la pertinenza e la qualità della risposta artistica.

Fonti e Bibl. Essenziale

C. Barucci (a cura di), I progetti per le chiese della diocesi di Messina nel concorso del 1932, Gangemi, Roma 2002; L. Benevolo, Storia dell’architettura moderna, GLF editori Laterza, Roma 2003; G. Cappellato (a cura di), Mario Botta. Architetture del sacro. Preghiere di pietra, catalogo della mostra (Firenze), Editrice Compositori, Bologna 2005; P. Culotta – G. Gresleri – Gl. Gresleri, Città di fondazione e plantatio ecclesiae, Compositori, Bologna 2007; F. Debuyst, Chiese: arte, architettura, liturgia dal 1920 al 2000, Silvana, Cinisello Balsamo 2003; G. Della Longa – A. Marchesi – V. Valdinoci (a cura di), Architettura e liturgia nel ‘900, Nicolodi Editori, Marano d’Isera (TN) 2004; Innovazione liturgica e sperimentazione progettuale: esperienze europee a confronto. Atti del convegno internazionale del Master di II livello in Progettazione Architettonica degli Edifici per il Culto, marzo – aprile 2006, TEMI, Trento 2006; G. Lercaro, La chiesa nella città: discorsi e interventi sull’architettura sacra, San Paolo, Cinisello Balsamo 1996; A. Longhi – C. Tosco, Architettura Chiesa e società in Italia (1948-1978), Edizioni Studium, Roma 2010; S. Mavilio,Guida all’architettura sacra. Roma 1945-2005, Electa, Milano 2006, G. Montanari, “Tra sacro e moderno. La committenza della chiesa nel periodo delle avanguardie”, in V. Franchetti Pardo (a cura di), L’architettura nelle città italiane del XX secolo: dagli anni venti agli anni ottanta, Jaca Book, Milano 2003, 418-424; V. Sanson,Architettura sacra nel Novecento. Esperienze, ricerche e dibattiti, Messaggero, Padova 2008; G. Santi, Architettura e teologia. La Chiesa committente di architettura, Il Pozzo di Giacobbe, Trapani 2011; R. Schwarz, Costruire la chiesa: il senso liturgico nell’architettura sacra, Morcelliana, Brescia 1999; C. Valenziano, Architetti di chiese, L’Epos, Palermo 1995.

Immagini:

1) Novoli (Le), Chiesa di Sant’Antonio Abate; 2) Bettona, Chiesa parrocchiale della Madonna del Ponte; 3) Torino, Interno della chiesa del Santo Volto; 4) Roma, Esterno della chiesa Dives in Misericordia.

Sitografia:

www.vatican.va/holy_father/john_paul_ii/letters/documents/hf_jp-ii_let_23041999_artists_it.html (sito dove è riportata la Lettera agli artisti di Giovanni Paolo II, 1999); http://www.greatbuildings.com (sito inglese sull’architettura, completo e ben strutturato); http://www.treccani.it/enciclopedia/l-edilizia-sacra-dalla-restaurazione-al-xxi-secolo-architettura-delle-nostalgie_%28Cristiani_d%27Italia%29/ (sito per una essenziale storia dell’edilizia ‘sacra’, dalla Restaurazione al XXI secolo); www.artemotore.com/storia.html (sito dove sono sviluppati contenuti artistici relativi a diversi periodi fin dalle origini).


LEMMARIO




Archivi ecclesiastici - vol. I


Autore: Emanuele Boaga †

Origine e sviluppi degli archivi ecclesiastici in Italia. Gli archivi della Chiesa nascono nei secoli I-III con la formazione e lo sviluppo delle strutture delle comunità cristiane, fin dalle loro origini. Detti archivi si venivano formando dietro varie necessità liturgiche, pastorali e amministrative, quali: la conservazione oltre che dei testi sacri della Bibbia, quelli delle memorie dei martiri o Gesta martyrum e delle loro Passiones, le matricole del clero e dei poveri, l’amministrazione del patrimonio costituito dai luoghi di culto, cimiteri. Un’idea di cosa contenessero questi archivi è fornita da Eusebio di Cesarea, nella sua Historia Ecclesiastica: particolarmente ricchi erano quelli di Roma. Con l’applicazione del I editto della persecuzione di Diocleziano vennero distrutti gran parte di questi archivi.

Dopo l’editto costantiniano di Milano (313), si ebbe, nel corso del IV secolo, la riorganizzazione delle chiese locali, il che portava a rinnovare gli archivi e ad adeguarli alla nuova situazione. Così in Roma esisteva già nel secolo IV un archivio, chiamato “Chartarium Ecclesiae Romanae” da San Girolamo e trasportato verso la metà del VII secolo nel palazzo lateranense. Contemporaneamente venne istituito un altro archivio presso la Confessione della basilica di S. Pietro, dove furono gelosamente custoditi importanti documenti tra i quali la “cautio” prestata dall’arcivescovo di Ravenna Felice, le donazioni di Pipino e di Carlomagno, e il “pactum” di Ottone I. Un terzo archivio sorse a Roma intorno al 1083 alle pendici del Palatino, in prossimità dell’arco di Tito, nella cosiddetta “Turris chartularia” che raccolse soprattutto documenti relativi alla amministrazione dei beni della S. Sede. Questa torre, venuta in possesso dei Frangipane, fu da essi distrutta nel 1197 con quanto eravi dentro, archivio compreso. L’attuale Archivio Segreto Vaticano – che raccoglie la documentazione prodotta dai papi e dai vari uffici della Curia pontificia – è però più recente rispetto i casi presentati, perché istituito da Paolo V nel 1612.

Negli archivi delle varie chiese locali o diocesi, diffuse dal IV secolo in poi, si rifletteva man mano la loro funzione non solo nel campo strettamente spirituale e di culto, ma anche in quello cittadino con il ruolo importante svolto in esso a lungo dal vescovo, specialmente in materia di foro misto. La varietà degli sviluppi del patrimonio ecclesiastico (mensa vescovile) ne introduceva in detti archivi anche i documenti relativi (inventari di beni, di beneficiari, ecc.).

Superati i tempi duri dell’invasioni barbariche e un periodo di grande decadenza degli archivi, essi ripresero in epoca medievale e ancor più nell’età moderna moderna. Oltre agli archivi vescovili si svilupparono così altri tipi di archivi ecclesiastici legati alle collegiate, ai capitoli cattedrali, alle parrocchie, alle confraternite, alle varie associazioni caritative ed educative, e a tutta la variegata gamma degli archivi monastici, di quelli dei mendicanti e delle case degli istituti religiosi moderni maschili e femminili, con la documentazione tipica delle loro attività, anche fuori i confini d’Italia (come ad esempio nelle missioni nei vari continenti). In detti archivi anche oggi si conservano preziose raccolte di pergamene, cartulari, codici, cronache, matricole, registri contabili, inventari patrimoniali, registri anagrafici e meticolose e puntuali segnalazioni sulla prassi sacramentale. Purtroppo molto materiale documentario è andato perduto per le alterne vicende storiche di ogni istituzione ecclesiastica, e le alienazioni avvenute con le soppressioni, soprattutto del Settecento e dell’Ottocento.

Gli archivi ecclesiastici presentano quindi una duplice valenza: da una parte sono espressione e mezzo a servizio delle attività proprie di ciascuna istituzione ecclesiastica, dall’altra possono essere considerati come sedimentazione storica e documentaria della vita e delle vicende della predicazione, dell’esperienza religiosa cristiana, delle peculiarità ed esigenze proprie delle popolazioni cristiane nei vari territori e degli sviluppi organizzativi della prassi pastorale e delle istituzioni ecclesiastiche, con apporto pure alla conoscenza di trasformazioni e condizioni sociali delle varie località.

Prassi e normativa ecclesiastica. Anche se si conosce l’esistenza degli archivi ecclesiastici fin dai primi tempi del cristianesimo, tuttavia poco si conosce sui metodi di ordinamento e di conservazione dei documenti. Certamente agli inizi si seguiva il metodo usato negli archivi degli uffici dell’Impero Romano, da cui la Chiesa imparò a formare gli archivi. Si sa poi della disposizione data da Giulio I (341-352) di raccogliere nell’archivio della Chiesa Romana tutti gli atti riguardanti le donazioni alla Chiesa. Però, per lungo tempo non si hanno in merito ai metodi di ordinamento e di conservazione dei documenti né indicazioni, né leggi che obbligassero a conservare certi tipi di documenti; facilmente si seguiva le prassi usate dalle cancellerie regie, o il proprio buon senso.

Le prime prescrizioni conosciute intorno agli inventari dei beni della Chiesa per conservarne la proprietà sono del secolo XIV e appaiono in concili provinciali e in sinodi diocesi di quel tempo. Ad esempio può essere citato il concilio provinciale di Padova del 1350. Ma praticamente fino al concilio di Trento non si conosce nessuna legge generale intorno agli archivi ecclesiastici, anche se nel caso degli ordini monastici e medicanti, si trovano nelle rispettive costituzioni norme e disposizioni sui loro archivi e rispettivi contenuti.

Il concilio Tridentino (1545-1563) incluse tra i suoi decreti anche l’obbligo per i parroci di redigere e conservare i libri appositi per i battesimi, e per i matrimoni. Ciò costituì l’occasione di una elaborazione delle leggi ecclesiastiche intorno agli archivi, come è accaduto soprattutto nei sinodi diocesani e nei concili provinciali, che hanno discusso e tradotto in pratica le decisioni tridentine stabilendo norme più o meno esaurienti intorno all’ordinamento e alla conservazione degli archivi ecclesiastici dei loro territori.

A questo riguardo è da segnalare l’opera di S. Carlo Borromeo, arcivescovo di Milano. Egli, in diversi sinodi, fin dal 1565-1572 si interessò accuratamente degli archivi ecclesiastici, stabilendo prima di tutto la loro istituzione in quelle chiese che ancora non li avessero. Poi indicò il modo di compilare gli inventari dei beni e dei diritti delle singole chiese, di cui una copia doveva essere tenuta in archivio e l’altra in quello della diocesi. Elencò pure le serie archivistiche da tener presenti nell’ordinamento degli archivi e diede infine una serie di norme precise sulla custodia degli stessi archivi.

Nei secoli XVI-XVII appaiono i primi manuali di archivistica o sul modo di tenere gli archivi. Tra di essi, per l’Italia, si possono ricordare in modo specifico quelli dovuti a Baldassare Bonifacio (1584-1659, vescovo di Capodistria) e al sacerdote milanese Nicolò Giussani. Bonifacio pubblicò nel 1632 a Venezia il De archivis liber singularis, in cui trattava degli archivi sotto gli aspetti giuridico, storico e letterario; un testo che ebbe un grande successo e diverse edizioni, mentre Giussani con il suo Methodus archivorum (Milano 1684) offriva una trattazione tecnica di maggior respiro. Nel secolo XVIII esercitò influenza anche il De’ pubblici archivi e notai (Lucca 1749) di Ludovico Antonio Muratori.

Disposizioni pontificie per gli archivi ecclesiastici in Italia. Poco dopo i decreti del sinodo provinciale milanese del 1565, approvati ed estesi a tutta la Chiesa da Pio V il 6 giugno 1566, si ha un’altra sua disposizione in data 1 marzo 1571 con cui prescriveva ai vescovi siciliani di redigere ogni anno l’inventario degli atti criminali e custodirli nei loro archivi. Pochi anni dopo Sisto V, con il Motu proprio Provida Romani Pontificis del 29 aprile 1587, ordinava che entro un anno fossero depositati tutti gli inventari degli archivi ecclesiastici d’Italia nell’appena istituito “Archivum generale ecclesiasticum” con sede nel Palazzo Apostolico.

Altre disposizioni rilevanti per gli archivi ecclesiastici d’Italia si trovano tra i decreti del Concilio Romano del 1725, celebrato sotto Benedetto XIII (detto “il papa archivista”). Infatti tra questi decreti si trova l’ingiunzione ad ogni vescovado, capitolo di canonici, chiesa, ospedale, confraternita, congregazione ecc. di confezionare, entro un anno, un inventario dei beni e delle relative scritture dei titoli di proprietà, in duplice copia, di cui una da rimanere presso l’istituzione o ente ecclesiastico medesimo, e l’altra da depositare nell’archivio diocesano o in quello generale apostolico a Roma.

Lo stesso Benedetto XIII – che quand’era arcivescovo di Benevento aveva seguito l’esempio di S. Carlo Borromeo e aveva raccolto tra altro nella sua diocesi 13.837 pergamene, restaurandole e ordinandole per una facile consultazione – continuò la sua attività a vantaggio degli archivi ecclesiastici e per questo suo interessamento giunse a pubblicare il 14 giugno del 1727 la famosa costituzione Maxima vigilantia. Questa costituzione emanata per l’Italia e le isola adiacenti, servì poi d’esempio per le altre nazioni cristiane sparse nel mondo e servirà di base per l’elaborazione della legislazione archivistica ecclesiastica riportata nel Codice di Diritto canonico del 1917.

Nella Maxima vigilantia si stabiliva, ove già non esistesse, la istituzione entro sei mesi dell’archivio proprio delle diocesi, dei capitoli delle cattedrali o delle collegiate, delle parrocchie, dei religiosi, ecc. Di ogni archivio si doveva redigere l’inventario generale in duplice copia, i vescovi e i visitatori ordinari o apostolici erano tenuti ad ispezionare gli archivi nelle loro visite canoniche; ogni archivio doveva avere il suo archivista. Alla costituzione erano poi allegata, in lingua italiana, le norme sull’ordinamento e la custodia degli archivi.

Per Roma e per gli Stati Pontifici si registrano anche alcuni interventi pontifici specifici. Urbano VIII il 16 nov. 1625 istituiva in Roma l’Archivio Generale detto Urbano, come archivio notarile, e il 15 dicembre 1625 costituiva l’archivio del collegio dei Cardinali; mentre, a completare l’organizzazione archivistica papale in Roma, Clemente XI erigeva l’11 gennaio 1671 l’archivio della Dataria Apostolica.

Per tutti gli Stati Pontifici si ebbero poi due interventi del Cardinale Camerlengo sotto Clemente XI, il 30 sett. 1704 e il 14 maggio 1712, con norme per la conservazione dei documenti e sul controllo da parte del clero secolare e regolare sulla loro vendita per evitare dispersioni. Sotto Innocenzo XIII ancora un editto del 25 agosto 1721 dell’allora Cardinale Camerlengo riportava istruzioni e norme per gli archivi notarili riguardo alla conservazione dei contratti in modo da prevenire frodi e ingiuste occupazioni. Al tempo di Benedetto XIII, il 1 giugno 1748, ancora un editto del Cardinale Camerlengo confermava i bandi precedenti e completava le norme riguardo alla istituzione degli archivi e alla dovuta conservazione dei documenti.

Fonti e Bibl. Essenziale

Enchiridion Archivorum Ecclesiasticorum. Documenta potiora Sanctae Sedis de archivis ecclesiasticis a Concilio Tridentino usque ad nostros dies, quae collegerunt Rev.dus Dom. Simeon Duca et P. Simeon a S. Familia, O.C.D., Archivio Segreto Vaticano, Città del Vaticano, 1966; E. Boaga – S. Palese – G. Zito, Consegnare la memoria. Manuale di archivistica ecclesiastica, Giunti, Firenze, 2003, 13-104, 203-238; E. Boaga, La tutela e la gestione degli archivi religiosi dalle esperienze storiche alle esigenze attuali, in Archiva Ecclesiae, 42 (1999), 25-62; E. Casanova, Archivistica, Arti Grafiche Lazzeri Siena, 1928 (ed. anastatica: Torino Bottega d’Erasmo, 1966), 291-388 (storia degli archivi e dell’archivistica); S. Duca – B. Pandzic, Archivistica ecclesiastica, presso Archivio Segreto Vaticano, Città del Vaticano, 1967, 135-150 (storia degli archivi); H. L. Hoffman, De influxu Concilii Tridentini in archivis ecclesiasticis, in Apollinaris, XX (1967), 242-263; H.L. Hoffman, De Sancto Carolo Borromeo qua archivorum ecclesiasticorum sanctificatore, Romae, 1961; E. Lodolini, Storia dell’archivistica italiana. Dal mondo antico alla metà del secolo XX, Angeli, Milano, 2001; E. Loewinson, La costituzione di papa Benedetto XIII sugli archivi: un papa archivista, in Gli archivi italiani, III (1916), 157-207; A. Palestra – A. Ciceri, Lineamenti di Archivistica Ecclesiastica, Edikon, Milano, 1965 (cf. all’indice storia degli archivi eccl.); Simeone della Sacra Famiglia, Brevi appunti di archivistica generale ed ecclesiastica, Postulazione Generale OCD, Roma, 1986 (3ª ed. riveduta e aggiornata), 18-21, 59-69 (storia degli archivi). Si segnala inoltre la rivista Archiva Ecclesiae, edita dal 1958 dall’Associazione Archivistica Ecclesiastica, in cui appaiono numerosi articoli riguardo alla storia di archivi ecclesiastici e religiosi.


LEMMARIO




Archivi ecclesiastici - vol. II


Autore: Emanuele Boaga †

Gli archivi ecclesiastici e le leggi eversive. La sorte toccata alle 4.474 case religiose, colpite dalle leggi “italiane” della soppressione delle corporazioni religiose portò i loro archivi ad alterne vicende. Dal punto di vista giuridico si vennero a verificare tre situazioni diverse: gli archivi divenuti proprietà dello Stato, quelli appartenenti a complessi “monumentali d’importanza”, e quelli che rimasero di assoluta proprietà ecclesiastica.

Per gli archivi incamerati dallo Stato – oltre a provvedimenti legislativi per regolare la vendita dei beni ex-conventuali e anche per la loro tutela – si ebbe il passaggio dagli uffici del Demanio, delle Intendenze di Finanza, del Registro e del Fondo per il culto fino a giungere, per la maggioranza di essi, agli Archivi di Stato. Alcuni archivi ex-conventuali andarono però dispersi o rimasero spezzettati tra gli enti statali. Si ebbe anche casi in cui detti archivi finirono sul mercato e acquistati all’asta da privati e anche da benefattori di ex-conventi e poi dati da essi ai rispettivi religiosi. Non mancarono anche acquisti fatti per i religiosi da alcuni prestanome.

Tra gli archivi rimasti presso i complessi monumentali, in base all’art. 30 del Concordato del 1929 tra la S. Sede e l’Italia, alcuni hanno continuato ad essere proprietà ecclesiastica, mentre altri, perché annessi a monumenti nazionali, furono posti sotto la dipendenza del Ministero della Pubblica Istruzione e soggetti alla vigilanza delle Sovrintendenze.

Per gli archivi di assoluta proprietà ecclesiastica, quali quelli diocesani, capitolari, seminarili, parrocchiali, religiosi, confraternali, ecc., sono stati oggetto di attenzione da parte delle competenti autorità ecclesiastiche a partire soprattutto dopo l’apertura agli studiosi dell’Archivio Segreto Vaticano nel 1880, i cui regolamenti influenzarono in gran parte detti interventi e gli orientamenti seguiti soprattutto negli archivi diocesani e in quelli più rilevanti di altri enti ecclesiastici.

Gli archivi ecclesiastici fino alla seconda guerra mondiale. Già nell’agosto 1898 la S. Congregazione del Concilio promosse un’inchiesta sugli archivi diocesani d’Italia. Seguì il 30 settembre del 1902 una lettera circolare del Segretario di Stato di Pio X, Rafael Merry del Val, con la quale veniva trasmesso ai vescovi diocesani d’Italia una serie di istruzioni in forma di regolamento per l’ordinamento, l’inventario, la custodia e l’uso degli archivi e biblioteche ecclesiastiche. Ancora lo stesso Segretario di Stato di Pio X inviò una circolare del 12 dicembre 1907 alle diocesi italiane ordinando l’istituzione di un commissario permanente per l’inventario e la tutela dei documenti, monumenti e oggetti artistici custoditi dal clero diocesano. A questi provvedimenti si aggiunsero, con forte incisione, alcuni canoni del Codice di Diritto Canonico del 1917, con precise prescrizioni sugli archivi diocesani e sulla tenuta dei libri parrocchiali. In seguito, con lettera del 15 aprile 1923, Pietro Gasparri, Segretario di Stato di Pio XI, inviava agli ordinari diocesani una circolare molto dettagliata, nella quale, richiamata l’osservanza delle precedenti disposizioni, indicava suggerimenti e istruzioni per il restauro di codici con l’aiuto della S. Sede, per la formazione di commissari e direttori di archivio idonei, per la compilazione e stampa dei cataloghi, e per il servizio degli studi e degli studiosi; e nella stessa circolare si sottolineava con un certo rigore di nominare il personale veramente idoneo.

Tutti questi interventi ebbero l’effetto di promuovere la preparazione degli archivisti mediante adeguati corsi presso le locali università e specialmente presso la Scuola Vaticana istituita nel 1884 a questo scopo da Leone XIII. E così non pochi archivi ecclesiastici, specialmente quelli diocesani, ebbero un proficuo riordinamento e conseguente valorizzazione da parte degli studiosi. Però, nonostante gli interventi dell’autorità ecclesiastiche, alcuni archivi giacevano in stato di abbandono e subivano in vario tempo manomissioni e deterioramenti.

Gli archivi ecclesiastici dopo la seconda guerra mondiale. Tra questi interventi della S. Sede e i successivi si ebbero le vicende del secondo conflitto mondiale, e anche gli archivi ecclesiastici subirono gravissime distruzioni o danneggiamenti di locali e di materiale. In questo contesto nel 1941 maturò l’idea di un censimento degli archivi ecclesiastici italiani per affrontare gli inevitabili danni e prevenire possibili nuove dispersioni e anche per evitare possibili attriti con lo Stato in conseguenza delle leggi nel 1939 su il “nuovo ordinamento degli archivi del Regno”. Fu così che dopo il lavoro svolto da apposita commissione, tale censimento – noto anche come “Censimento Mercati” dal card. Giovanni Mercati che ne era l’anima – prendeva il via nel novembre del 1942. Si ebbe però una drastica interruzione l’anno seguente a causa degli eventi politici e bellici. Nel frattempo vari archivi e biblioteche ecclesiastiche e statali furono salvati con il trasporto in Vaticano.

Al termine della guerra, la S. Sede fece un’inchiesta per conoscere, almeno in parte, i danni subiti dagli archivi ecclesiastici: si ebbe così una lista di ben 779 archivi, e il loro stato e quello di molti altri archivi risultava poco consolante a seguito anche del loro trasferimento in altre sedi, in locali spesso inadatti, e del disordine in cui si trovava il materiale documentario, del personale impreparato o addirittura mancante. Piuttosto pochi erano gli archivi ben ordinati e funzionanti, mentre diffusa era la poca cura verso altri archivi da parte delle autorità competenti.

Fu così che prese forma ed ebbe attuazione l’attenzione dello Stato Italiano per aiuti notevoli per il consolidamento e ripristino dei locali di vari archivi ecclesiastici, e del restauro del loro materiale documentario. Maturò anche da parte della S. Sede la necessità di intervenire mediante una istituzione adeguata e così nell’aprile del 1955 Pio XII istituì la Pontificia Commissione per gli Archivi ecclesiastici d’Italia, con il compito di accertare i singoli casi e proporre i provvedimenti necessari. In seguito, con Giovanni XXIII, questa Commissione fu in parte modificata e dotata di un nuovo statuto nel 1960, e nel dicembre dello stesso anno seguiva una Istruzione agli Ordinari diocesani e ai Superiori religiosi d’Italia sull’amministrazione degli archivi. Purtroppo per varie cause la Commissione praticamente smise di funzionare.

In questo clima nacque nel 1956 l’Associazione Archivistica Ecclesiastica, con sede in Vaticano e con membri provenienti non solo dall’Italia ma anche da altre nazioni d’Europa. Questa Associazione, tuttora funzionante, ha svolto un notevole ruolo per inculcare l’attenzione e la cura degli archivi ecclesiastici, per sviluppare una più attenta coscienza archivistica attraverso una visione dell’archivistica ecclesiastica rinnovata e aperta, anche di fronte ai nuovi mezzi informatici. Gran parte di questo lavoro è stato svolto nei 24 convegni di studio finora celebrati dal 1957 al 2014 su temi specifici, e con due conferenze europee delle associazioni archivistiche ecclesiastiche (2002 e 2013). Inoltre la stessa Associazione ha promosso numerosi saggi e monografie; ha aiutato l’adeguata formazione degli archivisti, tenendo anche conto del ruolo, per certi aspetti nuovo, che essi devono compiere di fronte alle esigenze odierne. Inoltre ha curato la pubblicazione della Guida degli archivi diocesani d’Italia (3 vol., Città del Vaticano, 1990-1998) e della Guida degli archivi capitolari d’Italia (3 vol., Roma, 2000-2006) e di altre pubblicazioni utili al lavoro degli archivisti, e ha offerto collaborazione alla Conferenza Episcopale Italiana per il Regolamento degli archivi ecclesiastici proposto ai vescovi diocesani (Roma 1998). Ha anche promosso la realizzazione e la pubblicazione di un manuale di archivistica ecclesiastica, intitolato Consegnare la memoria (a cura di S. Palese, E. Boaga, G. Zito, Giunti, Firenze, 2003), che riflette lo sviluppo di una nuova cultura archivistica ecclesiastica, colmando una lacuna dopo le opere edite da Ambrogio Palestra e Angelo Ciceri nel 1965, da Simeone Duca e Basilio Pandizc nel 1967, da Simeone della S. Famiglia (T. Fernández) nel 1978, e da Gino Badini nel 1984.

Odierna situazione degli archivi ecclesiastici in Italia. L’Associazione Archivistica Ecclesiastica è rimasta per vario tempo in materia di archivi ecclesiastici l’interlocutore principale con il Ministero per i Beni Culturali e Ambientali, svolgendo una proficua opera di collaborazione reciproca.

Tra gli organismi ecclesiastici ufficiali, sorti per i beni culturali in genere e per le biblioteche e archivi ecclesiastici in particolare, si possono ricordare il Pontificio Consiglio per i Beni Culturali della Chiesa, istituito da Giovanni Paolo II con il Motu Proprio “Inde a pontificatus nostri initio” del 25 marzo 1993, e avente competenza per impartire direttive a tutti gli Ordinari diocesani e ai Superiori religiosi dell’intera Chiesa; e la Consulta nazionale dei Beni culturali ecclesiastici in seno alla Conferenza Episcopale Italiana e anche l’Ufficio specifico per i Beni Culturali della Chiesa Italiana.

I rapporti della Conferenza Episcopale Italiana con il Ministero per i Beni Culturali e Ambientali nel settore archivistico hanno portato nel 1996 ad un accordo per regolare meglio la reciproca collaborazione per la salvaguardia, inventariazione, valorizzazione e godimento dei beni culturali della Chiesa, prevista dall’art. 12 del testo di revisione del Concordato Lateranense (1984). Una collaborazione già ben consolidata specialmente in alcune aree regionali, e anche favorita della legge statale 253/86 nei confronti degli archivi ecclesiastici. Infine l’intesa del 18 aprile del 2000 tra la Conferenza Episcopale Italiana e il Ministero dei Beni Culturali e Ambientali dello Stato Italiano ha fissato i principi in base ai quali si realizza la suindicata collaborazione ai fini dell’ordinamento, conservazione e consultazione degli archivi ecclesiastici italiani.

È bene ricordare che in ogni diocesi italiana esistono un archivio della Curia Vescovile, un archivio o biblioteca capitolare della cattedrale, gli archivi delle parrocchie, delle confraternite, associazioni, movimenti ecc, di diritto vescovile o solo operanti di fatto e con dipendenza da quale autorità ecclesiastica, e gli archivi della case religiose maschili e femminili.

In questi ultimi anni si registra un notevole sviluppo di centri di studio, spesso con sede presso gli archivi diocesani, che pongono la loro attenzione specialmente su questi archivi e su quelli parrocchiali e del mondo confraternale. Dal 2004 l’Ufficio Nazionale per i Beni Culturali della Conferenza Episcopale Italiana promuove e offre una serie di strumenti informatici per gli archivi ecclesiastici che partecipano al progetto CeiAr, con l’intento di facilitare la loro fruizione e accesso.

Inoltre si registra un sottolineatura sulla valenza del materiale archivistico vedendo in esso, secondo un’espressione di Paolo VI, le tracce del “transitus Domini” nella storia degli uomini. In questa linea si pone oggi la funzione pastorale che gli archivi ecclesiastici nella “mens” della Chiesa hanno come luoghi della memoria delle comunità cristiane e come fattori di cultura per la nuova evangelizzazione. A questo riguardo è notevole l’illustrazione di questa funzione pastorale fatta dalla Pontificia Commissione per i Beni Culturali della Chiesa con circolare del 1997.

Fonti e Bibl. essenziale

Enchiridion Archivorum Ecclesiasticorum. Documenta potiora Sanctae Sedis de archivis ecclesiasticis a Concilio Tridentino usque ad nostros dies, quae collegerunt Rev.dus Dom. Simeon Duca et P. Simeon a S. Familia, O.C.D., Archivio Segreto Vaticano, Città del Vaticano, 1966; Per gli archivi ecclesiastici d’Italia. Strumenti giuridici e culturali, a cura di G. Zito, Associazione Archivistica Ecclesiastica, Città del Vaticano, 2002 (Quaderni di “Archiva ecclesiae”, 8); Le conseguenze sugli archivi ecclesiastici dal processo di unificazione nazionale: soppressioni, concentrazioni, dispersioni, Atti del Convegno di Modena (19 ottobre 2011), a cura di G. Zacchè, Mucchi Esditore, Modena, 2012. (Centro nazionale sugli archivi ecclesiastici di Fiorano e Ravenna, Atti dei Convegni, 16); Il libro del centenario. L’Archivio Segreto Vaticano a un secolo dalla sua apertura 1880/82 – 1980/82), Città del Vaticano, 1981-1982; Pagano S., Il censimento degli archivi ecclesiastici d’Italia del 1942. Introduzione, Archivio Segreto Vaticano, Città del Vaticano, 2010 (Collectanea Archivi Vaticani, 73). F. Bartoloni, Gli archivi ecclesiastici, in Notizie degli Archivi di Stato, 12 (1952), 10-14; G. Battelli, Gli archivi ecclesiastici d’Italia danneggiati dalla guerra, in Rivista di storia della Chiesa in Italia, 1 (1947), 306-308; M. Giusti, I compiti della Pontificia Commissione per gli Archivi ecclesiastici d’Italia, in Archiva Ecclesiae, 2 (1959), 149-157; V. Monachino, La “Associazione Archivistica Ecclesiastica” e l’odierna situazione degli archivi ecclesiastici in Italia, Associazione Archivistica Ecclesiastica, Città del Vaticano, 1993 (Quaderni di “Archiva Ecclesiae”, 1); Cinquant’anni di attività (1956-2006). Bilancio e prospettive, Associazione Archivistica Ecclesiastica, Città del Vaticano, 2007 (Quaderni di “Archiva ecclesiae”, 11); G. De Longis Cristaldi, Interventi e contributi dello Stato a favore degli Archivi ecclesiastici, in Archiva Ecclesiae, 34-35 (1991-192), 85-91; Le carte della Chiesa. Archivi e biblioteche nella normativa pattizia, a cura di A.G. Chizzoniti, Bologna, 2003, 65-105.


LEMMARIO




Archivi militari - vol. II


Autore: Cargnello Giulio

Gli archivi delle Forze armate contengono fondi utili per la storia della Chiesa, in particolar modo per l’indagine sul clero castrense, la cui presenza in Italia risale a tempi lontani, anche se in questa sede ci limiteremo a descrivere le opportunità di ricerca nello stato italiano unificato. La documentazione a disposizione, condizionata dal periodo storico o dalla stessa struttura dell’organizzazione militare, presenta delle caratteristiche peculiari, da tenere in considerazione per una corretta lettura delle fonti.

I parametri di queste carte saranno sovente lontani dalla misura della vocazione o del lavoro pastorale. Il mantenimento di un morale alto tra la truppa, ai fini della combattività, la naturale commistione tra il servizio, il potere e la missione (un costantinismo di fondo), saranno, ad esempio, interessi preminenti nella valutazione del superiore gerarchico di un cappellano militare.

La naturale caratteristica delle carte militari di fornire quantificazioni numeriche, porterà a descrivere, nelle relazioni dei Comandi ai superiori sull’attività dei cappellani, il numero di sacramenti impartiti e l’esternalità dell’efficacia in chiave motivazionale delle pratiche e delle cerimonie, piuttosto che la fede trasmessa, in ogni caso difficile da descrivere e da leggere.

Nell’enfasi risorgimentale il clero castrense fu fortemente limitato dopo l’unità d’Italia, anche se nella guerra di Libia e soprattutto nella Prima guerra mondiale, i cappellani militari furono presenti sui campi di battaglia. L’istituzione dell’Ordinariato militare, voluto dal governo Mussolini, con la legge 417 del 1926, previde per la prima volta una tabella organica in pianta stabile di cappellani assunti nelle Forze armate, anche in tempo di pace, con la loro assimilazione al grado di capitano. Tre anni prima della Conciliazione, il governo italiano designò unilateralmente un vescovo quale Ordinario militare. Il Pontefice avvallò tacitamente la legislazione del 1926, per quanto unilaterale, confermando la nomina dell’Ordinario (S.E. Mons. Angelo Bartolomasi). Non è privo di significato tale atto: i primi abboccamenti tra lo Stato e la Chiesa, in vista del Concordato, avvennero con il ripristino del clero castrense. Il duce, del resto, in un intervento al Senato, si dimostrò convinto dell’utilità dei servizi dei cappellani militari nelle Forze armate; in particolare nell’instillare senso del dovere ed obbedienza.

L’arcivescovo Ordinario militare, oggi come ieri, è immediatamente soggetto al Pontefice, essendo i cappellani militari sacerdoti in cura d’anime di una circoscrizione ecclesiastica, non determinata in base a criteri territoriali, come normalmente avviene, ma in base a un criterio personale, individuato dalla speciale professione militare del fedele e dalla sua frequente mobilità.

Il Concordato del 1929 sancì espressamente la presenza dell’Ordinariato militare, il cui arcivescovo, però, necessita una conferma da parte dello stato italiano, diversamente dagli ordinari territoriali, eletti solo canonicamente e privi di necessità d’approvazione statale. Durante il periodo fascista, l’Ordinariato fu rafforzato con successivi provvedimenti di legge e fornì pure il clero alle organizzazioni paramilitari e militari di regime.

 Le fonti archivistiche e loro caratteristiche

La documentazione archivistica a disposizione è composta principalmente dalle relazioni dei Comandanti di unità ai superiori, dai fogli matricolari dei cappellani e dai fascicoli personali, quali dipendenti dal Ministero della Difesa.

La lettura delle carte disponibili vorrebbe mirare alla comprensione intima dell’uomo cappellano, al di là del rigido burocratismo delle fonti archivistiche militari e di una certa impronta agiografica della memorialistica.

Questa operazione è parzialmente realizzabile, attraverso lo studio dei meccanismi sovrintendenti alla produzione della documentazione del personale militare, per intendere sigle, linguaggi specifici, codici comunicativi e gerarchici.

Il tentativo di estrarre dalla documentazione il lavoro pastorale è quindi faticoso, proprio perché le carte stesse sono per natura rivolte ad altri scopi.

Si farà una breve presentazione sui centri dove è possibile fare ricerca archivistica sui cappellani militari, con qualche cenno utile alla buona lettura delle carte, da considerarsi valido in generale, anche per i non cappellani. Quali Ufficiali delle Forze armate, militari a tutti gli effetti, i cappellani non risentono di specificità, rispetto a un militare non ecclesiastico, nell’impianto della documentazione archivistica.

La conservazione delle carte all’interno dei fascicoli e la creazione di quest’ultimi, avvengono di solito per sedimentazione.

Ministero della Difesa. Uffici storici di Forza armata. La documentazione storica- militare è conservata presso il Ministero della Difesa. Per espressa disposizione di legge (D.P.R. 37/2001, art.1), il Ministero della Difesa non versa all’Archivio Centrale dello Stato ma mantiene, presso i rispettivi Uffici storici di Forza armata (che sono anche centri di ricerca), le carte di valore storico. Le carte concernenti i cappellani rinvenibili presso gli archivi degli Uffici storici (Esercito, Marina, Aeronautica e Carabinieri), si riferiscono soprattutto agli aspetti dell’impiego operativo di questo personale, consistendo, il più delle volte, nelle relazioni del Capo dell’Unità operativa (caserma, nave ecc.), al superiore diretto o allo Stato Maggiore (il vertice di Comando di una Forza armata), circa l’attività del personale. Tali relazioni, ovviamente, sono volte a dimostrare il perfetto funzionamento del Comando e a segnalare soprattutto nuove necessità logistiche.

Citando l’azione dei cappellani, raramente si lamenterà la carenza di personale, tipica voce monocorde di qualsiasi comandante militare, ma piuttosto la concordanza dell’azione del cappellano con i fini della catena di comando della caserma, nave ecc. Il sistema militare tende naturalmente a giudicare meno utile tutto ciò che non concorre all’attività operativa o all’accrescimento di una posizione di potere. Il cappellano integra e fonde due aspetti, quello religioso e quello militare, in un connubio non sempre facile.

Di conseguenza l’attività del cappellano è spesso valutata in quest’ottica; altrimenti è giudicata secondaria o di minore interesse per l’unità. Si proferiranno giudizi lusinghieri per i cappellani non in conflitto con il Comando e collaborativi ai fini operativi militari, prescindendo, di solito, da notazioni che mettano in luce l’efficacia dell’azione evangelizzatrice. Le relazioni ai superiori militari, in linea generale, sono strutturate in modo da giustificare le proprie attività soprattutto in termini quantitativi e di efficienza di azione. Questa documentazione sarà quindi utile a misurare il numero di messe, comunioni, interventi ma non a stabilire la percezione di fede.

La stessa descrizione delle celebrazioni eucaristiche solenni risente dell’organizzazione dei riti militari: saranno quindi ben apprezzati lo schieramento composto, la marzialità, l’ordine, la presenza di autorità militari e civili, l’accento nella predicazione su: motivazione al combattimento, amore alla patria e senso del dovere del militare. Un’eventuale omelia di natura pacifica o di benevolenza verso il nemico, aderente ai principi evangelici, difficilmente avrebbe incontrato, almeno fino a ieri, il favore dei comandi. L’emersione di discordanze con il comando potrebbe essere indice di un accento troppo forte su queste tematiche. In particolare durante il periodo fascista, l’omiletica di un cappellano non avrebbe potuto affermare l’inutilità della guerra, riportando, ad esempio, le note parole di Benedetto XV concernenti la Grande guerra, o esprimere dubbi sulla bellicosità volta alla partecipazione a continui conflitti nell’ultimo decennio del regime.

Un cappellano siffatto sarebbe stato allontanato senza fallo dal suo ministero per insubordinazione o per spirito antipatriottico. Nella documentazione depositata presso gli Uffici storici si rinvengono esempi di cappellani che potrebbero ricadere in questa casistica. In questi termini le mancanze di un cappellano, nelle relazioni del comando, con poca probabilità, si esprimono in termini quantitativi (scarso numero di messe, sacramenti impartiti ecc.), ma nell’aderenza o meno all’etica militare, rispondente a valori gerarchici ben definiti.

Archivio Centrale dello Stato. Presso questo centro è conservata la stessa documentazione di cui al punto precedente, fino agli inizi del novecento, momento di istituzione degli Uffici storici di Forza armata, ai quali da quel momento furono conferite le carte.

 Archivio della Direzione Generale del Personale Militare (PERSOMIL). Ministero della Difesa. Presso la Direzione Generale del Personale Militare, organo interforze, è conservata la documentazione di gestione amministrativa del personale militare, nello specifico il foglio matricolare, uno dei due documenti, di cui si compone la documentazione personale di ogni militare. L’accessibilità dell’archivio della Direzione Generale è limitata e va preceduta da lettera di presentazione.

Il foglio matricolare, da pochi anni informatizzato, è una scheda sintetica contenente i dati di base di ogni militare: generalità anagrafiche, studi, condizione lavorativa (in servizio permanente, di leva ecc., promozioni), destinazioni di servizio con i relativi periodi, ricompense, onorificenze, notizie sanitarie ed economiche- amministrative. Documento non soggetto a scarto d’archivio, esibisce dati e non apprezzamenti o pareri di merito.

La consultazione di un foglio matricolare di un qualsiasi militare, quindi anche dei cosiddetti preti- soldato della Prima guerra mondiale, non avendo essi alcuna funzione ecclesiastica all’interno delle Forze armate, è possibile presso gli archivi della Direzione Generale (per gli Ufficiali e i Sottufficiali e la truppa di Marina) o per la truppa dell’Esercito, presso i Centri documentali regionali (ex-distretti). Le carte del solo personale di truppa dell’aeronautica si trovano nel deposito matricolare di Orvieto.

Prima della costituzione dell’Ordinariato, nel 1926, i fogli matricolari dei cappellani (e i loro fascicoli), non costituivano un’unità archivistica separata, ma erano inclusi in quelli del Corpo/Armata, nel quale il sacerdote era stato immesso come Ufficiale.

Costituisce eccezione il personale cappellano di lingua italiana proveniente dalle zone ex-austro ungariche annesse dopo la Prima guerra mondiale (Trieste, Gorizia, Istria, Dalmazia, Trentino e Alto Adige). Questo personale fu riassorbito nell’amministrazione pubblica italiana. Presso gli archivi della Direzione Generale del Personale Militare è conservato uno schedario anagrafico di questi elementi, facente riferimento ai fascicoli personali di questi cappellani, oggi integralmente trasferiti all’archivio dell’Ordinariato Militare.

Archivio dell’Ordinariato Militare

Si tratta di archivio con materiale adeguatamente ordinato, con inventario parziale. Qui sono conservati i fascicoli personali dei cappellani militari, documenti tra i più interessanti per la ricostruzione storica delle loro vicende. Il fascicolo personale è spesso serbato presso l’ufficio d’impiego del personale (in questo caso l’Ordinariato), oppure all’Ufficio storico della Forza armata di appartenenza ed eccezionalmente presso la Direzione Generale (PERSOMIL).

I fascicoli personali contengono tutti i carteggi, riguardanti un qualsiasi militare dall’arruolamento alla morte. Sono composti normalmente da alcuni sottofascicoli (non sempre presenti come unità archivistiche separate) che qui si descrivono:

Per il personale ricaduto sotto la giurisdizione della Repubblica Sociale Italiana, più che i certificati di appartenenza alle brigate partigiane, sono spia di resistenza passiva, almeno per i funzionari ministeriali di Roma, l’apparizione di certificati medici per “reumatismi” o malattie dovute al clima rigido, per opporsi al trasferimento a Salò e località circonvicine nel 1944. Chiaramente questa resistenza potrebbe anche essere stata dettata da semplici ragioni logistiche. Raramente i cappellani militari si trovarono nelle condizioni di utilizzare questi stratagemmi per evitare i trasferimenti: il loro senso del dovere pastorale abitualmente fece sì che il loro impiego, al momento dell’armistizio dell’otto settembre 1943, fosse dettato dalla necessità di seguire il contingente di militari assegnato alla loro cura, qualsiasi fosse il regime politico vigente. Alcuni cappellani vissero l’esperienza di fiancheggiare i loro uomini passati alle brigate partigiane. La sezione creata dall’Ordinariato a Verona, presso il governo della Repubblica Sociale Italiana, non fu in particolar modo collaborazionista, tanto che il suo direttore, il pro vicario mons. Casonato, fu congedato per mancata convinta aderenza ai principi fascisti.

La discriminazione dal fascismo fu avocata, nell’agosto 1945, allo stesso Ordinario militare. Pochissime furono le epurazioni tra i cappellani, comunque poi superate dalle amnistie.

Le relazioni di discriminazione contengono la cronistoria degli spostamenti, del servizio prestato dopo l’armistizio e l’atteggiamento, assunto dall’interessato, nei confronti delle autorità della RSI. I toni sono generalmente imperniati, qualsiasi fosse stata la scelta, all’attenersi al senso del dovere, giustificando così i propri atti e mirando normalmente a omettere ciò che di compromettente o presunto tale si sarebbe potuto rilevare. Da queste carte sono realizzabili delle deduzioni, chiaramente da soppesarsi con molta attenzione: la ricerca delle vere ragioni delle scelte o delle riflessioni del cuore, è diametralmente opposta alla natura burocratica delle carte.

Spesso il metro di valutazione è appiattito verso l’alto. Solo nel giudizio analitico finale, un occhio esperto o un militare possono rilevare, in mezzo a termini laudatori che seguono uno stereotipo ben codificato, una piega d’insoddisfazione del superiore. Il giudizio analitico pone comunemente la sua attenzione, in tre o quattro righe al massimo, sul senso del dovere, sull’ordine della tenuta (la divisa), sull’efficienza, sul rispetto gerarchico, sulla dedizione al Corpo ecc.

Il più delle volte la segnalazione è finalizzata non ad ottenere una condizione di privilegio, ma semplicemente ad assicurarsi una legittima aspettativa che tarda a venire. Al contrario degli altri sottofascicoli, questo contiene documentazione di più immediata ed efficace lettura sulle caratteristiche della persona in oggetto. Spesso sono descritte difficoltà personali, o di servizio, che per un cappellano potrebbero essere rappresentate dall’impedimento allo svolgimento di un lavoro pastorale, dallo sfinimento per il lavoro al fronte, dal desiderio di ritornare alla diocesi di provenienza e da altri motivi. Queste lettere di intermediazione sono utili per intendere la personalità umana del soggetto, le sue conoscenze e l’ambiente sociale nel quale è inserito.

Non mancano, in tali relazioni, accenni a difficoltà del cappellano: la più comune riportata è l’ostilità del Comando ad un’attività pastorale non svolta solo nel binario della motivazione e del benessere materiale del personale.

***

A differenza degli estratti matricolari, a conservazione perpetua, i fascicoli sono soggetti a procedura di scarto, anche se non vi è una norma che ne stabilisca le tempistiche di conservazione. Una copia integrale del solo fascicolo contenente le note di qualifica è trattenuta anche dalla Direzione Generale del Personale Militare, che lo scarta ad intervalli regolari. I fascicoli dei cappellani militari non sono stati sottoposti a scarto e sono conservati all’Ordinariato.

Conclusioni

Da questa breve disamina della documentazione militare si può intendere che essa è di complessa lettura se il nostro scopo si situa nella comprensione della pastoralità di un cappellano militare.

La presenza di un linguaggio specifico e di giudizi comprensibili a volte solo da un militare rende questa documentazione di difficile analisi, se non dopo un intenso impegno di ricerca continuato nello stesso ambiente e con lo stesso tipo di carte. Le informazioni rilasciate da questi archivi non sono concordanti con quelle che si aspetterebbe uno studioso dell’uomo sacerdote e della sua azione evangelizzatrice.

Lo scopo della documentazione personale e matricolare è la gestione del personale dal punto di vista burocratico. I controlli di funzionamento, che l’organizzazione delle Forze armate si prefigge, sono, di solito, mirati all’efficienza operativa dell’unità. La stessa presenza del cappellano è, a tutt’oggi, inquadrata nelle azioni per il benessere del personale, al pari dell’esistenza delle sale ricreazione nelle caserme, dei circoli Ufficiali, dei soggiorni marini e montani, del servizio medico psicologico, per garantire motivazione, riposo e rendimento operativo ottimali. La prospettiva evangelizzatrice, nella quale la presenza di Dio nella vita di una persona è spina dorsale della stessa, dal punto di vista del benessere, si riduce a uno dei corollari. In quest’ambito ristretto il cappellano si trova a dover agire, con delle limitazioni intrinseche all’ambiente.

Uno dei pregi universali della documentazione personale è il fornire in maniera massiva informazioni generali, utili poi per analisi statistiche (studi, condizioni fisiche, provenienza geografica ecc.) sulla popolazione maschile del paese. Solo l’archivio centrale di un ordine religioso e non un archivio diocesano, potrebbe avere uno spettro geografico così ampio.

Da queste poche annotazioni si potrà almeno giungere ad una sospensione di giudizio sul “cuore del cappellano”, se basato solo sulla documentazione qui descritta, in mancanza di altre testimonianze dirette. Le speculazioni ed interpretazioni fondate sull’esperienza di manipolazione di queste carte possono certamente mancare il bersaglio dell’identificazione dell’essenza della persona trattata.

La stessa lettura poi risente dell’epoca storica e della sua mentalità, dalla quale non è facile prescindere. La tensione postbellica dell’Ordinariato militare a dimostrare la sola opera pastorale dei propri sacerdoti è ugualmente una concezione problematica, quanto quella opposta, volta a dimostrare ideologicamente il sostanziale sostegno al regime fascista dei cappellani militari.

L’archivistica militare risente di questi contrasti e la sua visione, dopo le nostre analisi, non sembra così lineare, senza comprendere profondamente un linguaggio proprio di un mondo altamente ricco di simbolismo e di riti, quale è quello militare.

Fonti e Bibl. essenziale

Benedetto XV, Lettera ai capi dei popoli belligeranti, 1 agosto 1917, in: http://w2.vatican.va/content/benedictv/it/letters/1917/documents/hf_ben-xv_let_19170801_popoli-belligeranti.html; Cargnello G., «Gli impiegati civili delle Capitanerie di porto», in: Fiume, rivista di studi Adriatici, 1-6(2016), 93-100; Fontana F., Croce ed armi: l’assistenza spirituale alle Forze armate italiane in pace e in guerra, Torino 1956; Franzinelli M., – Balducci E., Il riarmo dello spirito: i cappellani militari nella seconda guerra mondiale, Paese 1991; Franzinelli M., I cappellani militari italiani nella Resistenza all’estero, Roma 1993; Greco L., Homo militaris, Milano 1999; La Racine, R. B., «Storia dei cappellani militari e della loro presenza in Marina dall’unità d’Italia alla liberazione, Roma 1945», in: Bollettino d’archivio dell’Ufficio storico della Marina militare, 24(2010); Lovison F., I Cattolici e la Santa Sede nella Prima guerra mondiale. I cappellani militari nell’Europa in guerra, Relazione al Convegno di giovedì 16 ottobre 2014 – Aula S. Pio X – h. 15.00, Pontificio Comitato di Scienze storiche, Roma 2014; Morozzo Della Rocca R.,- Monticone A., La fede e la guerra: cappellani militari e preti-soldati, 1915-1919, Roma 1980; Pugliese F. A., Storia e legislazione sulla cura pastorale alle Forze armate, Torino 1956; Rochat G., I cappellani valdesi, Torre Pellice 1996; Rossi A., Le guerre delle camicie nere, Pisa 2004; Sale G.M., La Chiesa di Mussolini: i rapporti tra fascismo e religione, Milano 2011.


LEMMARIO

 




Arianesimo - vol. I


Autore: Alessandra Costanzo

Nel 318 il vescovo Alessandro di Alessandria fa scomunicare da un sinodo, convocato nella sua stessa città, il prete Ario. La sentenza viene confermata all’inizio del 325 dal sinodo di Antiochia e, nel maggio – giugno dello stesso anno, dal concilio di Nicea. Ario viene condannato per una dottrina trinitaria troppo subordinazionista, che volendo salvaguardare l’originalità dell’unico vero Dio, il Padre, il solo ad essere non generato, considera il Figlio non coeterno rispetto al Padre, da cui riceve vita, e riduce così il Figlio al livello delle creature. Il concilio di Nicea, condannando Ario e i suoi seguaci, sottolinea la consustanzialità del Figlio rispetto al Padre (homousios) e la loro unità di ipostasi.

Ma la condanna non arresta l’eresia: Ario trova sostenitori non solo in Egitto, ma anche in Siria e in Palestina, e di lì a poco in Occidente, grazie all’appoggio di Costanzo, rimasto unico imperatore. Così, dopo la metà del IV secolo, i teologi occidentali affrontano la controversia ariana, che segna gran parte della loro attività.

In Italia, fra i primi che contrastano l’arianesimo sul piano dottrinale, troviamo Mario Vittorino, di origine africana, ma che fu retore a Roma intorno al 355. Interviene nella polemica con una serie di scritti che egli presenta in relazione a quelli di un amico ariano, Candido, probabilmente un personaggio fittizio introdotto da Vittorino per dare ai propri testi una parvenza di obiettività. Così, ad una lettera di Candido, che offre un’interpretazione filosofica della dottrina di Ario, segue la risposta di Mario Vittorino, che presenta la fede nicena con toni altrettanto filosofici; alla Professione di fede di Ario ad Alessandro, inviata da Candido, Mario Vittorino risponde con i tre libri Adversus Arrium e il breve De homousio recipiendo.

Ma Roma, dove è attivo Mario Vittorino, resta piuttosto a latere della controversia ariana. Altre città risultano maggiormente coinvolte: Rimini, nel 359, vede l’affermarsi di una formula – «Il Figlio è genericamente simile al Padre» – che, voluta da Costanzo e da una minoranza filoariana, si impone alla maggioranza dei vescovi, celando un effettivo arianesimo.

Ma è soprattutto Milano la città in cui si accende di più il contrasto tra ariani e cattolici. Qui, nel concilio del 355, la minoranza filoariana, sostenuta da Costanzo, spinge la maggioranza dei vescovi alla condanna di Atanasio, tenace avversario dell’arianesimo. Ed è ancora a Milano che si concentra l’attività di alcuni tra i più decisi difensori dell’ortodossia.

In questa città infatti nel 364 si trova Ilario di Poitiers, nel vano tentativo di allontanare il vescovo filoariano Aussenzio, di cui mette in rilievo la mala fede nell’opera scritta in questa occasione, il Contra Auxentium. Del resto, l’ostilità di Ilario nei confronti dell’arianesimo si era già manifestata negli anni precedenti: tra il 356 e il 359, avendo organizzato la resistenza dei vescovi della Gallia contro il metropolita Saturnino di Arles, fautore dell’arianesimo, Ilario era stato mandato in esilio nell’Asia Minore dall’imperatore Costanzo. In questa condizione aveva composto il De Trinitate, in 12 libri: nei primi tre, pur polemizzando con sabelliani e ariani, esponeva in forma positiva la dottrina cattolica, nei restanti libri confutava la Professione di fede di Ario ad Alessandro. Gli anni dell’esilio avevano dato modo ad Ilario di capire la complessità della situazione in Oriente, dove la dottrina nicena dell’homousios e dell’unità di ipostasi faticava ad essere unanimemente accettata perché sospetta di sabellianismo. Per evitare questo pericolo, gli orientali, inclini ad insistere più sulla distinzione delle persone divine che sulla loro unità, preferivano considerare il Figlio non homousios (uguale quanto alla sostanza) rispetto al Padre, ma homoiousios (simile quanto alla sostanza). Essere antiniceno non significava dunque necessariamente essere ariano.

Ilario lo aveva capito, e così, in preparazione del concilio di Rimini del 359, scrive il De synodis, in cui tenta di appianare le incomprensioni terminologiche tra gli antiariani d’Oriente e quelli d’Occidente perché possano collaborare più efficacemente tra loro in modo da fronteggiare insieme il comune “nemico”. L’opera si distingue in due parti: nella prima, indirizzata ai vescovi d’Occidente, Ilario chiarisce che i vescovi d’Oriente non devono essere ritenuti ariani solo perché restii ad accettare la dottrina nicena dell’homousios; nella seconda parte si rivolge ai vescovi d’Oriente, rassicurandoli sull’ortodossia dell’homousios e mettendoli in guardia rispetto all’homoiousios, che può prestarsi a false interpretazioni. Il tentativo conciliante di Ilario, in vista del concilio di Rimini, non trova, come abbiamo visto, un effettivo riscontro negli esiti di quel concilio. Ed anche la sua iniziativa di allontanare da Milano il vescovo filoariano Aussenzio non va a buon fine.

Ambrogio continua l’azione di Ilario. Compiuti gli studi a Roma, intorno al 370 lo troviamo a Milano come consularis con l’incarico di governare l’Italia settentrionale. Nel 374, quando muore il vescovo ariano Aussenzio, Ambrogio, ancora catecumeno, interviene per smorzare i contrasti tra cattolici e ariani per l’elezione del successore e, non ancora battezzato, si vede acclamato vescovo. Da quel momento combatte l’arianesimo, ancora resistente a Milano, avvalendosi dell’appoggio degli imperatori che, dopo Valentiniano (neutrale alle questioni religiose) e Valente (favorevole all’arianesimo) sono aperti sostenitori della Chiesa cattolica.

Come Ilario, Ambrogio affianca la sua attività pastorale con quella letteraria in difesa dell’ortodossia. Su invito dell’imperatore Graziano, tra il 378 e il 380 scrive il De fide, in cui, contro gli ariani, difende la divinità del Figlio. L’opera è articolata in cinque libri: i primi due vengono composti nel 378 e gli ultimi tre nel 380 per contrastare le obiezioni ariane. Ambrogio completa la trattazione trinitaria nel 381 con i tre libri De Spiritu Sancto, in cui sottolinea la piena divinità ed uguaglianza dello Spirito con le altre due Persone della Trinità.

Contro gli ariani è pure il De incarnationis Dominicae sacramento, dove Ambrogio ribadisce l’unità di umanità e divinità nella persona di Cristo. L’impegno a contrastare l’arianesimo si manifesta anche in un’orazione, il Sermo contra Auxentium de basilicis tradendis, relativa agli eventi del 385-386, quando Ambrogio, con il popolo di Milano, si oppose agli ariani che, sostenuti dall’imperatrice Giustina, madre di Valentiniano II, pretendevano la consegna di una chiesa per l’esercizio del loro culto. L’Aussenzio di cui si parla in quest’opera non è il vescovo ariano che Ilario aveva tentato di allontanare, ma un discepolo del goto Ulfilo, che gli ariani avevano eletto come successore di Aussenzio I in opposizione ad Ambrogio.

La controversia ariana in Italia, insieme ad Ilario e Ambrogio, vede coinvolte anche personalità di minor rilievo, attive in altre città al di fuori di Milano: Eusebio di Vercelli, Zenone di Verona, San Mercuriale di Forlì, San Rufillo di Forlimpopoli, San Leo di Montefeltro, San Gaudenzio di Rimini, San Pietro Crisologo di Ravenna, San Geminiano di Modena, Lucifero di Cagliari. Quest’ultimo in particolare è noto per essere stato il punto di riferimento di quanti, come lui, mostravano un attaccamento intransigente alla fede nicena, spesso organizzandosi, in Italia, ma anche in altre parti dell’impero, in conventicole separate dalla comunità cattolica: a Roma, intorno al 380, questi settari vengono chiamati “luciferiani” dal nome di Lucifero, malgrado non si possa dimostrare la sua partecipazione al movimento. Tra i luciferiani di Roma si ricorda il prete Faustino, autore di alcuni scritti: intorno al 380, su richiesta di Flaccilla, moglie di Teodosio, compone un breve De Trinitate, in cui, dopo aver presentato la dottrina ortodossa, discute alcuni passi scritturistici oggetto di controversa interpretazione nella polemica. Faustino scrive anche una Professio fidei e una supplica, il Libellus precum, che è fonte principale per la nostra conoscenza dello scisma luciferiano. L’autore infatti lamenta le angherie subite dagli intransigenti niceni in varie parti dell’impero e chiede per i luciferiani libertà di culto, che Teodosio, in un rescritto riportato in appendice, sembra accogliere favorevolmente.

Nel 381 il concilio di Aquileia sancisce la disfatta dell’arianesimo in Occidente, come il concilio di Costantinopoli, tenuto nello stesso anno, faceva in Oriente. Ma come spesso accade, la sentenza magisteriale non coincide con la fine dell’eresia. In Italia l’arianesimo rimane attivo almeno fino al VII secolo, sostenuto dagli invasori barbarici che, a partire dalla predicazione di Ulfila, traduttore della Bibbia in lingua gotica, diffusero l’eresia fra i popoli germanici, specialmente Goti, Vandali e Longobardi. Fu ariano il re ostrogoto Teodorico, che nel V secolo fece costruire a Ravenna il battistero degli ariani, vicino all’antica cattedrale ariana (oggi chiesa dello Spirito Santo) e solo con la regina Teodolinda i Longobardi si convertiranno al cattolicesimo.

Tra la fine del IV e l’inizio del V secolo è attivo dall’Illiria all’Africa il vescovo ariano Massimino, che ricordiamo perché, pur non trovandosi in Italia, scrive la Dissertatio Massimini contra Ambrosium, in cui commenta gli atti del concilio di Aquileia del 381, dove Ambrogio aveva fatto deporre alcuni vescovi ariani illirici, e riporta varie testimonianze di parte ariana, tra cui quella di Aussenzio di Durostorum (l’avversario di Ambrogio) sulla vita e l’insegnamento del goto Ulfila.

Nel VI secolo, nel convento di Bobbio, nell’Italia settentrionale, viene raccolta ampia documentazione ariana, tra cui più di venti frammenti di varie opere, presumibilmente di uno stesso autore, rilevanti dal punto di vista dottrinale in quanto spesso polemizzano con gli scrittori antiariani. Da Bobbio provengono anche il Tractatus in Lucae evangelium e il Sermo Arrianorum, una breve esposizione della dottrina ariana.

Ancora nel XIII secolo, a Genova, Jacopo da Varazze racconta nel suo Chronicon Ianuense, la leggenda del basilisco, ritenuto simbolo del male rappresentato dall’eresia ariana. Jacopo riferisce che in un pozzo, nei pressi della basilica dei XII Apostoli, dimorava un animale con la testa di gallo e il corpo di serpente. Il vescovo Siro, dopo aver calato nel pozzo un secchio, ingiunse al mostro di entrarvi per essere estratto. Il basilisco ubbidì e accettò anche di gettarsi in mare. Da quel momento la bestia non fu più veduta, a conferma della vittoria definitiva sull’eresia ariana.

Fonti e Bibl. Essenziale

B. Altaner, Patrologia, Marietti, Casale Monferrato 1981, 278-289; J. Danielou – H. Marrou, Nuova storia della Chiesa I. Dalle origini a S. Gregorio Magno, Marietti, Casale Monferrato 1984, 297-317; G. Filoramo (ed.), Storia delle religioni. Ebraismo e Cristianesimo, Laterza, Bari 1995, 233-269; A. Pincherle, Ancora sull’arianesimo e la chiesa africana nel IV secolo, Studi e materiali di storia delle religioni 1968, 169-184; M. Simonetti, Studi sull’arianesimo, Studium, Roma 1965; Id., Alcune considerazioni sul contributo di Atanasio alla lotta contro gli Ariani, in AA.VV., Studi in onore di A. Pincherle, Edizioni dell’Ateneo, Roma 1967, 512-535; Id., La letteratura cristiana antica greca e latina, Sansoni – Accademia, Milano 1969, 193-208; Id., Le origini dell’arianesimo, RSLR 7 (1971), 317-330; Id., La crisi ariana nel IV secolo, Studia Ephemeridis Augustinianum, Roma 1975; B. Studer, Dio Salvatore nei Padri della chiesa, Borla, Roma 1986, 147-166.


LEMMARIO




Arte cristiana - vol. I


Autore: Andrea Spiriti

Gesù di Nazareth, i suoi apostoli e i suoi discepoli sono vissuti all’interno di spazi architettonici e figurativi della tradizione ebraica post-esilica, ossia in un connubio di forme israelitiche classiche e di influssi ellenistici; ma la rapida diffusione del cristianesimo all’interno di strutture politiche consolidate (impero romano, impero partico, regno di Armenia) ha determinato il confronto fra le esigenze iconografiche della nuova religione e il patrimonio figurativo di quegli stati, oltretutto in un contesto di persecuzione sempre più estesa. A Oriente la tendenza all’astrazione simbolica e la difficoltà ad ammettere il realismo dell’incarnazione portano all’elaborazione precoce di una iconografia basata sugli animali (pesce, pavone, aquila…), sugli oggetti (trono vuoto, croce gemmata, evangeliario) e direttamente sulla metafora della luce (finestre d’alabastro, fondi oro). A Occidente le catacombe di Roma ci forniscono una tipologia completa delle alternative: utilizzo a fini cristiani di immagini mitologiche (Ercole e l’Idra del Lerna come Cristo che abbatte Lucifero, Ipogeo di Via Latina), di immagini classiche (Moscoforo come Buon Pastore, catacombe di Domitilla), di costumi romani con cui vengono resi episodi evangelici (Cristo e la Samaritana, catacombe di Priscilla). E’ parallela la lettura patristica degli episodi dell’Antico Testamento quali anticipazioni di quelli del Nuovo, con conseguente moltiplicazione iconografica. Nell’impero, i due secoli e mezzo di persecuzioni implicarono l’identificazione di spazi tipici: la domus ecclesiae, con decorazioni musive e pitture murali spesso allusive ai misteri cristiani in termini allegorici; la sepoltura extramuraria (singola, di gruppo o catacombale) condotta negli stessi termini. Un caso-limite è la domus di Doura Europos, con immagini esplicite, tollerata verso il 220 in quanto sede di una guarnigione di frontiera.

La progressiva legittimazione del cristianesimo (301 in Armenia, 312/313 nell’impero romano, 530 nell’impero sasanide) determinò la nascita di un’edilizia monumentale cristiana spesso di committenza statale: paradigmatici gli interventi di Costantino e di Elena in Terra Santa (basiliche di Gerusalemme, Betlemme, Nazareth), nella Roma cristianizzata (basiliche di San Pietro in Vaticano, San Paolo fuori le mura, San Giovanni in Laterano, Santa Croce in Gerusalemme, Sant’Agnese e mausoleo dei Costantinidi, Sant’Anastasia), Milano (basilica di San Lorenzo) e Costantinopoli (basilica della Divina Pace – Sant’Irene). Il tardo impero romano assistette quindi ad operazioni cristianizzanti di forte impatto urbano: esemplari quella episcopale di Ambrogio a Milano (374-397) e quella imperiale di Galla Placidia a Ravenna (423-450). L’età delle migrazioni dei poli germanici determinò un interessante dualismo valido per buona parte dell’alto medioevo: da un lato la forte influenza orientale, specie nel periodo della riconquista bizantina dell’Italia (535/562-568, che è anche il periodo di San Benedetto e della nascita dell’arte monastica benedettina), con il culmine delle committenze a Ravenna mediate dall’arcivescovo Massimiano (San Vitale, Sant’Apollinare Nuovo, Sant’Apollinare in Classe); dall’altro l’adozione di modelli germanici come la tendenza all’astrazione decorativa e all’ornamento a intreccio, di matrice ora germanica (continente europeo) ora celtica (isole britanniche). Un ciclo nodale come quello di Santa Maria foris Portas a Castelseprio (variamente datato fra l’inizio dell’VIII e l’inizio del IX secolo) dà la misura dell’influenza orientale a livello sia iconografico sia stilistico. L’impero carolingio (800-887) contribuì potentemente allo scambio di esperienze artistiche europee, codificando quell’Europa Christiana che per secoli avrebbe costituito un elemento-base dell’arte e dell’architettura. La produzione romanica, dipendente in parte non secondaria da modelli orientali, è però autonoma del realismo robusto, nella concretizzazione della narrazione sacra: e questo soprattutto in quelle aree (Lombardia storica, Borgogna, Catalogna, valle del Reno) dove la presenza di edifici sacri è fittissima. La seconda metà dell’XI secolo vide tre eventi decisivi: lo scisma d’Oriente del 1054 determinò al rottura con la chiesa bizantina (ricucita nel 1274 e nel 1439, ma in entrambi i casi per poco) e l’allentarsi della sua influenza artistica, sempre più autoreferente nel mondo delle icone e nella loro riduzione a stereotipi; la riforma gregoriana (epicentrata ma non esaurita nel papato di Gregorio VII, 1073-1085) riqualificò l’autopercezione della Chiesa Cattolica determinando sul momento un’arte a Roma dai tratti neopaleocristiani, ma ponendo le basi per un linguaggio autonomo; la prima crociata (1095-1099) si concluse con la riconquista di Gerusalemme e sull’immissione di ritorno in Europa di molti elementi della tradizione architettonica e figurativa orientale.

Solo nel XIII secolo gli sforzi paralleli lungo un secolo dei grandi stati (Regno di Francia; Sacro Romano Impero – Regno di Sicilia) e dei grandi Ordini religiosi riformati (benedettini cistercensi) o nuovi (francescani) determinarono la nascita del nuovo stile gotico, non privo di spunti orientali (a partire dall’arco a ogiva) e giocato su di una estetica della luce pura o mediata dalle vetrate policrome che implica un’accentuata verticalizzazione dello spazio architettonico. Il cammino si apre con la ricostruzione del coro (1140-1144) della basilica di Saint-Denis, alla porte di Parigi, opera dell’abate/ministro Suger e prosegue con tappe nodali come le cattedrali dell’Île-de-France, le abbazie cistercensi, San Francesco d’Assisi, le basiliche renane, i castelli federiciani in Puglia, per concludersi con la Sainte-Chapelle di Parigi (1246-1248). In pittura la rivoluzione ha inizio a Roma con l’anonimo ciclo del Sancta Sanctorum (1278) e si declina dal 1260 al 1350 (con culmine nell’ultimo quarto del secolo) ad Assisi con il rapido susseguirsi dei grandi maestri umbri (maestro di San Francesco), romani (Pietro Cavallini, Jacopo Torriti), fiorentini (Cimabue, Giotto) e senesi (Pietro e Ambrogio Lorenzetti). In scultura, il crogiuolo federiciano mette a confronto artisti pugliesi, renani e nord-francesi: lì si forma il genio di Nicola Pisano. Dal punto di vista iconografico, i secoli dal IX al XIII vedono molte evoluzioni iconiche: il Cristo che dalle astrazioni orientali passa al ruolo pure orientale di Pantocrator per subire in Europa occidentale progressive umanizzazioni, che puntano sulla dolcezza del Bambino e sulla sofferenza del Crocefisso; Maria che da Orante e Madre della Chiesa sempre più si umanizza nelle storie dell’Infanzia di Cristo e si drammaticizza ai piedi della Croce; i Santi che aumentano ampiamente di numero, spesso con larga diffusione devozionale (Gregorio Magno, Benedetto, Bernardo, Francesco, Domenico).

Delimitata dal primo Giubileo (1300) e dalla terribile pandemia della Peste Nera (epicentro nel 1348-1349), la prima metà del Trecento vede fiorire un gotico sempre più attento alla drammatica figura del Crocefisso, spesso deformato e sofferente ai limiti del verosimile; mentre il trasferimento della curia papale ad Avignone (convenzionalmente 1309-1377) determina la nascita di un gotico internazionale sempre più attento alle arti suntuarie e all’incontro fra pittura italiana (Simone Martini, Matteo Giovannetti) e francese. Il grande scisma d’Occidente (1378-1417) è lo sfondo del gotico internazionale, giocato su parametri di eleganza esasperata e di finezza disegnativa, ma anche di una presenza sempre più massiccia di produzione profana; si pensi, per significativa coincidenza, come alla filosofia “ufficiale” di Alberto Magno (1206-1280) e di Tommaso d’Aquino (1225-1274) succeda quella “moderna” di Guglielmo di Occam (1288-1349). Ma il grande scisma e la difficile età dei concili di Costanza (1414-1418), Basilea (1431-1449, canonico fino al 1438) e Ferrara-Firenze (1438-1439) vede anche la nascita, dapprima in ambiti ristretti poi più diffusi, di due espressioni del calibro dell’arte fiamminga e dell’umanesimo italiano. Per epicentri, a Bruges Roberto Campin, Hubert e Jan van Eyck, Rogier van der Weyden elaborano un’arte iperveristica, dove il microcosmo riassume il macrocosmo, di forte impatto affettivo secondo i dettami della devotio moderna; a Firenze Filippo Brunelleschi, Paolo Uccello, Donatello, Luca della Robbia e Masaccio danno la versione radicale di un antropocentrismo rigoroso nei rimandi classici e che applica la prospettiva come arma simbolica. La diffusione europea dell’arte fiamminga e la gemmazione dell’umanesimo italiano (Urbino, Milano, Genova, Venezia, Roma, Napoli) sono fenomeni ben noti del pieno e tardo Quattrocento, ma le numerose influenze reciproche si sommano (nel 1439 la riunificazione delle Chiesa Cattolica e Ortodossa è celebrata sotto la cupola brunelleschiana del Duomo fiorentino e accompagnata dal Nuper rosarum flores del sommo polifonista fiammingo Guillaume Dufay) alle differenze interne agli stessi filoni: si pensi a come il concorso per la porta Nord del battistero fiorentino (1399-1401) sul tema del Sacrificio di Isacco contrapponga il radicalismo umanistico ma anche i ricordi gotici del Brunelleschi all’umanesimo moderato del vincitore Ghiberti; o a come il Crocefisso “francescano” di Santa Croce contrapponga il vigore anatomico quasi brutale di Donatello alla dolcezza credibile di quello “domenicano” di Santa Maria Novella del Brunelleschi.

La scoperta dell’America (1492) e la formazione delle compagini internazionali spagnola e portoghese segnano l’inizio della mondializzazione dell’arte cristiana: e per secoli le tradizioni locali troveranno accordi geniali con la presenza dei modelli europei. L’inizio del Cinquecento vede l’affermazione, destinata a durare oltre un secolo e mezzo, della Roma pontificia quale capitale europea dell’arte. Il papato di Giulio II (1503-1513) promuove operazioni colossali come la ricostruzione della basilica vaticana, la prosecuzione della cappella sistina, la risistemazione dei palazzi pontifici con l’appartamento papale e le logge, la creazione del cortile del Belvedere, la musealizzazione del Belvedere che vedono attivi artisti come Michelangelo, Bramante, Raffaello; e che rappresentano il culmine della conciliazione ideale col mondo classico visto quale introduzione al cristianesimo. La prosecuzione di queste grandi imprese durante il pontificato di Leone X (1513-1522) coincide con l’inizio della rivoluzione protestante (1517), che nel giro di pochi decenni non solo strappa alla Chiesa gran parte del Nordeuropa ma determina un’architettura rigorosa, spesso iconoclasta, di grande austerità formale e con notevoli innovazioni liturgiche (basti l’assenza del tabernacolo). Di contro la riflessione cattolica del concilio di Trento (1545-1563) portò per tutto il secondo Cinquecento ad un’architettura classica e trionfale (chiesa romana del Gesù) ma anche sobria e capace dell’uso di materiali poveri; e ad un’arte figurativa chiara, comprensibile, capace di utilizzare il Manierismo come fonte inesausta di immagini. Il Giudizio di Michelangelo nella Cappella Sistina (1536-1541) e la sua “moralizzazione” (1564-1565) sono passaggi emblematici. A cavallo del Giubileo 1600 la coesistenza del primo Barocco (Rubens), dell’iperverismo di Caravaggio e del classicismo emiliano dei Carracci trova a Roma la propria sede naturale, e sotto il papato di Paolo V (1605-1621) l’ultimazione della fabbrica vaticana con la facciata del lacuale Carlo Maderno (1607-1614) apre una stagione Borghese culminante nel David e nell’Apollo e Dafne di Gianlorenzo Bernini (1622-1625), manifesti del nuovo corso. A Roma la prima metà del Seicento vede succedersi le grandi committenze di Urbano VIII, Innocenzo X e Alessandro VII, che codificano un modello barocco ormai diffuso in tutta l’Europa cattolica e non privo d’influenza su quella protestante, specie anglicana: un modello cioè nel quale l’enfasi teatralizzata, il metamorfismo, la grandiosità coesistevano in un linguaggio dai forti toni emotivi. Nel 1665 il viaggio fallimentare di Bernini in Francia segna la fine del primato artistico romano a vantaggio di Parigi-Versailles, ma anche una conseguenza perdita di peso dell’arte cristiana rispetto a produzioni sempre più spesso profane, nel quadro della “crisi della coscienza europea”. Ma al tempo stesso il Seicento vede l’affermarsi iconografico dei Santi controriformati (Ignazio di Loyola, Filippo Neri, Carlo Borromeo, Teresa d’Avila e infiniti altri); e la vittoria antiturca di Vienna nel 1683, patrocinata da Innocenzo XI, segna la codificazione dell’Immacolata con il Bambino che regge la croce-lancia. Si trattava di una geniale sintesi della Madonna della Vittoria con la Purísima, versione iberica dell’Immacolata che rielaborava a sua volta il paradigma lombardo della Madonna dell’Umiltà in veste bianca; il tutto spesso combinato con l’altra grande devozione mariana non ancora dogma, l’Assunta, ormai stabilizzata nella tipologia con veste rossa e manto blu; o con quella della Madonna del rosario, onnipresente coi Misteri nelle chiese europee.

La nascita del rococò (avvenuta nelle Terre Ereditarie austriache ad opera degli artisti dei laghi lombardi nel primo quinquennio del Settecento, non certo in Francia quindici anni dopo) segna anche un ulteriore passo verso un arte non fortemente caratterizzata in senso religioso, anzi sostanzialmente omogenea nel trattare le storie sacre e le “favole degli antichi”: in questo senso è esemplare la pittura di Giovanni Battista Tiepolo. Ma il Settecento rocaille vede anche la nascita di nuovi culti (si pensi solo al forte rilancio devozionale delle figura di San Giuseppe, che diviene patrono della buona morte), mentre l’antitetica cultura muratoriana punta (soprattutto a metà secolo, con il grande pontificato di Benedetto XIV) mira ad un modello di sobrietà, di “moderata devozione” ottenibile in spazi razionali e privi di emozioni spettacolari. Il dato più decisivo è comunque l’inizio delle soppressioni, inizialmente polarizzate sui Gesuiti (che verranno infine soppressi nel 1773 da Clemente XIV, per rinascere nel 1814 sotto Pio VII), poi articolate nella massima parte degli Ordini religiosi. Gli esiti furono terribili: dispersione di opere d’arte, distruzione di edifici, perdita di un ruolo di committenza che era stato decisivo per secoli, modifica radicale dell’immagine urbana. La contemporanea questione dei riti cinesi, conclusa in modo sfavorevole alla missionarietà acculturata dei Gesuiti, implicò la perdita di molte occasioni, a cominciare da quella cinese; e dal nostro punto di vista, la fine di episodi di meticciamento culturale dalle grandi anche se non sempre limpide potenzialità. La rivoluzione francese e l’impero napoleonico determinarono l’accentuazione di questi fenomeni: si pensi a Notre-Dame de Paris ridotta a tempio della Dea Ragione, o alla distruzione sistematica di luoghi-simbolo del monachesimo medioevale come Cluny, Cîteaux o la Grande Chartreuse. Di contro dal quarto decennio del Settecento lo stile neoclassico portava alla logiche conseguenze la sostanziale indifferenza ideologica rococò: stile dell’antico regime, della rivoluzione, di Napoleone, dell’Inghilterra antirivoluzionaria e antinapoleonica, della restaurazione, il neoclassicismo è in grado di incarnare ideologie diverse e contrapposte, come pure di essere stile della chiesa (si pensi al caso-limite del mausoleo vaticano di Pio VII, opera del luterano Thorwaldsen), stile della massoneria (si pensi alla pianta di Washington D.C. o all’Università della Virginia), stile dell’illuminismo (i cui filosofi peraltro erano vissuti in contesti rocaille).

La restaurazione non può quindi fare altro che accettare questo linguaggio polivalente ormai diffuso, recuperando semmai alcune iconografie classiciste (si pensi al Sacro Cuore di Batoni), ma anche dando inizio a devozioni nuove: si pensi, nel lungo e decisivo papato di Pio IX (1846-1878), alla diffusione di immaginette (con annesso ripensamento dell’intera tradizione iconografica), all’universalizzazione del culto del Sacro Cuore (1856), alla presenza sempre più massiccia di soluzioni architettoniche e figurative storiciste ed eclettiche, altro modo per ripensare il passato.

Fonti e Bibl. essenziale

Il tema è così sterminato da trovare riferimento generale nei soli repertori: Lexikon der Christlichen Ikonographie, L’iconographie de l’art crétienne del Reau, Le vie della creazione nell’iconografia cristiana di Grabar (tr. it. 1983), The iconography of Saints del Kaftal.


LEMMARIO




Arte cristiana - vol. II


Autore: Andrea Spiriti

La proclamazione dogmatica dell’infallibilità pontificia (1870) e la coeva fine dello Stato della Chiesa sono certamente due eventi simbolici del papato di Pio IX, ai quali si può aggiungere la proclamazione dogmatica dell’Immacolata Concezione (1854), con il conseguente impulso iconografico. Il tutto in un contesto di scontro duro col nascente stato italiano, prosecutore delle soppressioni di case religiose e conquistatore di Roma. Il papato di Leone XIII (1878-1903) appare per alcuni versi il prosecutore del precedente su alcuni temi-guida: l’uso dell’eclettismo e dello storicismo come strumenti di recupero del passato cristiano, compresi interventi massici (si pensi al Laterano o ai Musei Vaticani), in parallelo col recupero ideologico del tomismo. D’altro canto il rilancio missionario già iniziato con Pio IX aveva portato a singolari applicazioni di arte coloniale cristiana che grazie all’eclettismo riusciva a trovare punti importanti di contatto con le civiltà incontrate. Il Giubileo 1900 appare decisivo per la devozione al Sacro Cuore, oggetto di una sterminata iconografia e di grandi architetture a Roma come a Parigi. Appartiene al papato di Pio IX sia l’evento (1858) sia l’approvazione (1862) delle apparizioni di Lourdes; ma è col papato leonino che inizia un fenomeno esploso più tardi sotto Pio XI, la creazione presso chiese e luoghi sacri di grotte di Lourdes: uno dei fenomeni più tipici dell’arte cattolica del Novecento. Il contesto , tuttavia, è quello della perdita radicale non tanto di peso sociale in assoluto, quanto di possibilità concreta di incidere sull’edificato, in contesti di statalizzazione e musealizzazione sempre più accentuati in tutta Europa; e questo malgrado “riconquiste” come le tappe della piena acquisizione dei diritti civili e politici per i cattolici inglesi, con annessa possibilità di realizzare i luoghi di culto (si pensi al Brompton Oratory o alla Westminster Cathedral di Londra).

La sostanziale omogeneità stilistica dei papati di Pio X (1903-1914) e Benedetto XV (1914-1922) coesiste coi danni vistosi al patrimonio sacro nelle aree di fronte della prima guerra mondiale, fino al quasi mitizzato incendio alla cattedrale di Rheims. E tuttavia questa lunga fase 1846-1922 segna anche la perdita radicale di primato dell’arte cristiana, o meglio la biforcazione fra la presenza (in fondo importante) del mistero di Cristo nelle opere di pittori in sé indipendenti dalle chiese (oppure con netta divisione di ruoli: si pensi al pastore protestante Vincent Van Gogh); e le committenze dirette dei pontefici, dei vescovi, delle parrocchie, degli ordini religiosi, sempre più finalizzate a prodotti devozionali lontane dalla modernità. Un’arte da Sillabo, insomma; peraltro inserita in architetture spesso notevoli per aggiornamento (si pensi al Chiappetta o già allo stesso Viollet-le-Duc) anche se ancorate al paradigma eclettico.

Così opere come l’Erodiade di Moreau o il Cristo giallo di Gauguin o l’Entrata di Gesù a Gerusalemme di Ensor sono religiose solo in senso lato; e semmai la drammatica ricerca cristologica di Georges Rouault, iniziata nel 1917, può inserirsi meglio nella tipologia dell’itinerario verso la fede. All’opposto si hanno scelte devozionali spesso conservatrici, rese ancora più prudenti da traumi come la rivoluzione russa del 1917 con susseguenti distruzioni del patrimonio sacro ortodosso. Il papato di Pio XI (1922-1939) segna l’equilibrio fra architetture eclettiche (Pinacoteca Vaticana) e aperture razionaliste che nei vescovi più acuti giungeva a singolari forme neopaleocristiane: si pensi all’opera milanese di Alfredo Ildefonso Schuster, dalla spinta alla riqualificazione neopaleocristiana di San Lorenzo alla reinvenzione di Cassiciacum. In effetti il restauro, spesso la riscoperta o la reinvenzione del passato medioevale degli edifici sacri stava divenendo un ambito forte della cultura cattolica; fino però a scelte discutibili come il pauperismo francescanizzante iniziato con la reinvenzione della tomba di Francesco (1926) e ancora in corso. Il pontificato di Pio XII (1939-1958) è segnato dalle terribili distruzioni della seconda guerra mondiale, dall’annientamento di interi centri urbani (Varsavia, Berlino, Dresda), dalle distruzioni ideologiche prima delle guerre civili e poi delle invasioni sovietiche; ma anche da interventi che il papa fa condurre, con chiara valenza ideologica, nella stessa basilica vaticana, dalla reinvenzione della tomba di Pietro e della propria tomba, fino agli inizi, compiuti sotto il successore, della Porta della Morte, con una riproposizione ultima e alta del classico nesso fra committenti (Pacelli e Roncalli), iconografo (Giuseppe De Luca) e artista (Giacomo Manzù); e infine con la proclamazione dogmatica dell’Assunzione di Maria (1950), che codifica in realtà una tradizione figurativa precedente più che aprirne una nuova.

Gli anni di Giovanni XXIII (1958-1963) e di Paolo VI (1963-1978) vedono con il Vaticano II una rivoluzione liturgica che agisce in profondità sullo spazio sacro; ma che, negli edifici storici, dà origine a pochi interventi assennati e a molti vandalismi, con distruzioni e dispersioni imponenti. Più fecondo (anche se discusso) il tema della nuove strutture, con una rivoluzione architettonica che si serve dei più grandi architetti in Italia (Michelucci, Nervi), del resto preceduti fin dagli anni cinquanta dagli interventi francesi di Le Corbusier. L’uso sistematico di figurazioni astratte (potenti ma rischiose perché rompenti il nesso realistico durato millenni), l’adozione di nuovi rapporti spaziali, l’estetica della luce se per un verso hanno creato tensioni per un altro hanno prodotto decisi svecchiamenti: si pensi al gesto simbolico della Collezione di Arte Religiosa Moderna vaticana (1973), ma senza riuscire a cogliere appieno il significato delle proseguite ricerche individuali, per le quali bastino i Crocefissi di Salvador Dalì. Dopo il brevissimo papato di Giovanni Paolo I (1978), quello di Giovanni Paolo II (1978-2005) segna una linea proseguita in quello attuale di Benedetto XVI (2005 – a.m.a.): la coesistenza, non sempre armoniosa, fra una linea di moderato ripristino di spazi e usi (con susseguente recupero di quanto non disperso), un pauperismo suggestivo quanto astorico, rigori neoastratti e spunti da culture diverse. Emblematica, in questo senso, l’invasione di icone, viste come massimo portato di una cultura ortodossa spesso malintesa e comunque incompatibile con gli spazi storici del cristianesimo occidentale del secondo millennio.

Fonti e Bibl. essenziale

Mancano studi d’insieme. Notevole A. De Micheli, Le avanguardie artistiche del Novecento, Milano 1973. Importante il Catalogo della Collezione di Arte Religiosa Moderna, Città del Vaticano, 1980.


LEMMARIO