Associazione Italiana dei Professori di Storia della Chiesa

Dizionario Storico Tematico La Chiesa in Italia
Dopo l'Unità Nazionale
Roma 2015
Copyright © 2015

Patria, Nazione - vol. II


Autore: Guido Formigoni

Come già nell’epoca risorgimentale, i cattolici italiani anche dopo l’unificazione del paese coltivarono un forte senso della nazione e una spiccata coscienza di italianità. Ne fu carattere largamente prevalente l’amplissima diffusione del mito dell’Italia come “nazione cattolica” per eccellenza. Tale visione “guelfa” della nazione, sedimentata già nelle vicende del primo ‘800, codificata in opera molto influenti come quella di Gioberti, attraversò il periodo del Risorgimento e poi fu continuativamente coltivata e sviluppata nel mondo cattolico. Naturalmente si trattava di una visione mitica e retorica che poteva avere applicazioni anche molto diverse e condurre a esiti del tutto pluralistici.

La rottura consumatasi tra la Chiesa di Pio IX e il moto risorgimentale, definitivamente cristallizzata con le vicende del 1870 e la presa di Roma da parte dello Stato italiano, non spazzò via affatto questo mito diffusissimo. Il nascente cattolicesimo intransigente (v.) sviluppò un discorso di questo tipo, in cui contrapponeva la “vera nazione” cattolica al nuovo Stato, la cui legittimità non venne riconosciuta per molti anni. I cattolici papalini e intransigenti si sentivano quindi i “veri” italiani, contrapposti all’élite deviata che aveva condotto il moto politico unitario. Il simbolo di questa opposizione fu la lunga stagione del non expedit, cioè del rifiuto ufficiale di partecipare alle elezioni politiche, codificato nel 1874 e continuato formalmente fino al 1919, anche se ammorbidito all’inizio del secolo XX. L’armamentario concettuale della nazione serviva in modo precipuo a difendere l’idea dell’esistenza di una “Italia cattolica”, tradizionale e profonda, che costituisse propriamente il «paese reale», contro quella ristretta élite, fuorviata dalle ideologie moderne, atea e anticlericale, che aveva realizzato contro il papa e contro la Chiesa il fragile “paese legale”, lo Stato unitario. Lo stesso rifiuto da parte del movimento cattolico di definirsi come un «partito» era frutto di una rivendicazione nazionale orgogliosa: i cattolici non si percepivano come una «parte» nella nazione, bensì in via di principio coincidevano con essa, in quanto ne esprimevano l’essenza più vera. Naturalmente sostenere questa visione delle cose non era affatto incompatibile con un comportamento pratico che assumeva tutti gli aspetti battaglieri della moderna concezione del partito, esclusa la partecipazione elettorale. L’assenza sostanziale di resistenze cattolico-legittimiste, ad eccezione di qualche frangia meridionale, non rendeva meno duro il conflitto con le istituzioni, ma inseriva comunque in una nuova dimensione i cattolici e le chiese italiane. Proprio in questo orizzonte mentale, quindi, si svolsero capillari ancorché peculiari processi di nazionalizzazione delle masse popolari cattoliche. Fu possibile l’integrazione di strati popolari consistenti, che uscirono attraverso le iniziative dell’Opera dalle angustie della dimensione locale e regionale, dalla condanna della marginalità e della periferia, impegnandosi su cause e orizzonti definitivamente nazionali. La nascita di un movimento cattolico nazionale diede spunto e concretezza al rilancio di questa visione guelfa dell’Italia, quando ancora non esisteva nessuna esperienza nazionale sul terreno delle strutture ecclesiastiche: le chiese italiane per molti decenni ancora guardarono sostanzialmente al papato come elemento di integrazione.

Ma la stessa visione dell’”Italia cattolica” ispirò altre logiche, e in particolare i tentativi di riconciliazione con il corso degli eventi messi in atto dai cattolici moderati e conservatori che si sentivano “cattolici con il papa e liberali con lo Statuto” (il motto fu usato sulla rivista conciliatorista «Rivista universale» fin dal 1873). Era lo sviluppo di una coscienza nazionale pacificata con la guida sabauda del processo di unificazione, già mostrata da una generazione di credenti nelle vicende risorgimentali. Molti credenti assunsero quindi senza difficoltà ruoli civili e anche istituzionali di rilievo nello Stato monarchico e liberale, giungendo a formare una quota significativa della sua classe dirigente, che sviluppò un patriottismo segnato da una forte anche se spesso implicita dimensione religiosa. Ancor più evidentemente e chiaramente, passato qualche decennio, il guelfismo ispirò le iniziative di quei giovani che alla fine del secolo e all’inizio del ‘900 si sentivano ormai «democratici e cristiani» (Meda, Murri, Sturzo). Per costoro, accompagnare le masse popolari all’emancipazione, nel quadro del nuovo contesto statuale che veniva sostanzialmente accettato, era un’applicazione innovativa del vecchio mito guelfo. Il patrimonio dell’intransigentismo diveniva fattore di battaglia politica e culturale per modificare la cornice dello Stato unitario, anziché strumento di una sua contestazione radicale.

Anzi, in questa stagione, soprattutto dopo il 1904, si verificò una consistente diffusione di temi, sensibilità e opinioni nazionaliste nel cattolicesimo italiano. Ci furono episodi di vicinanza di giovani cattolici rispetto al nascente movimento nazionalista italiano, che predicava la grandezza nazionale e il riscatto della patria, in chiave spiritualista e antidemocratica. Una parte del movimento sostenne una politica estera coloniale, come il occasione della guerra di Libia. Per la verità, la gran parte del cattolicesimo ufficiale e anche i più influenti “cattolici deputati” dell’inizio del secolo criticarono il nazionalismo assoluto e imperialista. Il cattolicesimo italiano aveva elaborato alcuni potenti anticorpi nei confronti della terribile possibilità dell’assolutizzazione dell’idea nazionale, che spesso era storicamente giunta ad assumere i caratteri di vera e propria religione secolare. Del culto della patria, dei suoi eroi, dei suoi sacrifici e dei suoi martiri sono infatti piene le pagine della letteratura nazionale. La modalità più consueta di questo approccio prudente consisteva nell’utilizzare il continuo richiamo equilibrante a un’idea organica di convivenza internazionale, secondo forme «comunitarie» e giuridicamente organizzate, capaci di stemperare la contrapposizione potenziale tra le nazioni in un quadro garantito dall’unica verità universale. Giocava poi sempre la limitazione tipicamente religiosa, che impediva al mito nazionale l’assolutizzazione che l’avrebbe portato ad assumere tratti concorrenziali all’universo della fede.

La prima guerra mondiale costituì però un grande crogiolo in cui anche la coscienza nazionale dei cattolici si fuse con le istanze del paese in guerra: anche se nel dibattito del 1914-’15 tra le file cattoliche fu prevalente il neutralismo, ben presto ci fu una forte dislocazione, che condusse molti ambienti e protagonisti del movimento cattolico ufficiale all’approvazione delle ragioni del conflitto. La decisione del governo di permettere ad alcuni preti di assumere la funzione di cappellani militari, dopo decenni di polemiche, aiutò questa saldatura. Le correnti interventiste di segno democratico dei giovani d.c., che avevano inizialmente sostenuto l’idea di una guerra contro l’autoritarismo austro-tedesco per affermare il principio di nazionalità, condivisero peraltro progressivamente le sorti dell’interventismo tutto, che fu alla fine egemonizzato dalle posizioni imperialiste ed espansioniste. Posizioni sostanzialmente fatte proprie dal governo e condizionanti tutta la diplomazia nazionale. Non fu un caso, comunque, che si creassero tensioni tra la prevalente corrente “nazionale” cattolica e le linee del magistero di Benedetto XV, che avevano indicato nella guerra una tragedia europea e una “inutile strage”. Il papa e le istanze di governo centrali stentarono a controllare l’enfasi nazionale che si sviluppò in molti ambienti del movimento cattolico.

Dopo il conflitto, la coscienza nazionale cattolica si trovò comunque molto più a suo agio nel contesto statuale e civile italiano. Non a caso, il Partito popolare di Sturzo scelse una linea patriottica molto netta, attingendo all’iconografia dei comuni medievali (si pensi al simbolo dello scudo crociato), per sottolineare un’alleanza tra libertà, religione e nazione che diventava definitivamente chiave riformatrice dello Stato liberale, non più strumento di irriducibile alterità nei suoi confronti. Un patriottismo forte, anche se aperto alla collaborazione tra le patrie, ad esempio in un’ottica di rifiuto dell’imperialismo e di collaborazione con i giovani Stati mediterranei e balcanici. Non a caso, il culto dei caduti cattolici nella guerra fu al centro dell’esperienza aggregativa dei giovani cattolici. Non a caso, anche alla luce delle riflessioni magisteriali di Benedetto XV sulla pace e di Pio XI sulla nazione (favorevoli al patriottismo ma critiche del “nazionalismo esagerato”), si sviluppò tutta una ricerca giuridica e anche teologica che tentava di ricucire l’idea di una “comunità internazionale” cooperativa con la valorizzazione delle singole esperienze nazionali.

Il ventennio fascista vide ancora all’opera intorno al mito dell’Italia cattolica una complessa vicenda di utilizzazioni e strumentalizzazioni reciproche. Lo Stato totalitario fascista tentava di far proprio – particolarmente dopo la Conciliazione del 1929 – lo strumento di una religione “nazionale” come sostegno del potere. La linea prevalente nel fascismo tentò infatti di “assimilare”, piuttosto che sostituire il cattolicesimo, ai fini di rafforzare la concezione totalitaria. Avendo concesso molto con il Concordato che riconosceva uno spazio di libertà alla Chiesa, Mussolini e i fascisti si aspettavano acquiescenza (cosa che ebbero, con le falangi dell’Ac chiamate disciplinatamente a votare i plebisciti), ma anche un cordiale sostegno alle mete nazionalistiche del regime. Pio XI e il movimento cattolico ufficiale, dal canto loro, lavoravano invece per rendere il “totalitarismo cattolico” l’anima di una riconquista sociale che era apparentemente allineata al regime nazionale, ma conservava un’anima e una forma mentale sostanzialmente alternativa all’ideologia fascista. La discussione attorno alla nazione e al rapporto con le altre nazioni fu una straordinaria cartina di tornasole di queste tensioni. Un vero e proprio “nazionalcattolicesimo” sembrò potersi definire, soprattutto nel periodo 1929-1936, attorno a eventi come la Conciliazione, la risposta alla grande crisi economica, la guerra di Spagna e la conquista dell’Etiopia. Si giunse quindi a manifestazioni anche simbolicamente pregnanti di sovrapposizione tra sentire religioso e religione della patria. Si pensi al conferimento delle fedi nuziali delle madri cattoliche, ma anche delle suppellettili religiose e degli anelli episcopali, nella raccolta dell’«oro per la patria» avviata con l’autarchia. Alla fine, però, tale mentalità non giunse a saldarsi come ideologia ufficiale del regime, per una serie di resistenze speculari, diffuse sia tra i fascisti che tra i cattolici. Anche in questo caso comunque, all’ombra di tale braccio di ferro “istituzionale”, si videro singoli, riviste e gruppi cattolici schierati su fronti diversi. Da coloro che più si illusero sulla possibile utilizzazione del fascismo per ricattolicizzare la nazione, fino addirittura ai nuclei antifascisti che si ispiravano al «guelfismo» di una nuova alleanza tra «Cristo re» e il popolo (si pensi al gruppetto milanese di cospiratori antifascisti scoperti e condannati nei primi anni Trenta, guidato da Malvestiti e Malavasi).

La Resistenza fu vissuta da una ristretta ma non poco influente élite cattolica, nell’ottica di un grande riscatto nazionale nella libertà. Tale esperienza drammatica forgiò un’originale e stabile sintesi fra la propria identità religiosa e culturale e una nuova idea di patria, cementata dall’antifascismo e dalla lotta contro lo straniero e collegata decisamente a ipotesi di superamento democratico di tutti i nazionalismi. Visione condivisa da figure e personalità di formazione cattolico-moderata, che avevano trovato nuove sintesi tra patria e nazione proprio all’ombra della Conciliazione, e che dopo l’8 settembre seguirono con tranquilla coscienza la monarchia e la legittimità della continuità statale del Regno del Sud piuttosto che la nuova avventura mussoliniana di Salò. Non a caso si diffuse infatti allora ampiamente anche tra i cattolici la tematica del «secondo Risorgimento»: l’idea rappresentava in parte la nuova e più tranquilla acquisizione dell’eredità patriottica del passato, ma innestava su quel riferimento un’esigenza di compimento (o in qualche caso addirittura di superamento e sostanziale sostituzione), i cui motivi erano scoperti proprio nella nuova dimensione popolare del moto resistenziale e – soprattutto – nella partecipazione cattolica al comune riscatto nazionale.

Nel dopoguerra, il sottile equilibrio del senso nazionale dei cattolici mutò ancora. L’emergere della mediazione democristiana fu vincente in molte direzioni: sia perché dimostrò la capacità di ricostruire un sobrio ma convinto senso nazionale dopo la sconfitta dell’ultra-nazionalismo fascista e il fallimento del totalitarismo, sia nel senso democratico di riuscire a creare una piattaforma avanzata di tipo costituzionale e civile, scongiurando pericolose fratture rivoluzionarie. Ma anche nel senso di essere in grado di ricucire un paese piuttosto frammentato, pieno di campanilismi e di rivalità, in cui le drammatiche vicende belliche avevano accentuato le divergenze. Tale posizione permise al mondo cattolico di scoprire un inatteso ruolo centrale nelle vicende del paese, definitivamente realizzatosi con la straordinaria affermazione elettorale della Dc nel 1948. Naturalmente, per la classe dirigente democristiana, continuare a utilizzare il mito guelfo poteva servire in diverse direzioni. Permetteva di rivolgersi ai vincitori della guerra, rivendicando un’Italia diversa, come fece De Gasperi nella drammatica congiuntura del trattato di pace. L’Italia doveva rinunciare definitivamente a ogni velleità di occupare un ruolo di «grande potenza» e a declinare aggressivamente il suo senso nazionale. Ma tutto il percorso di inserimento nelle istituzioni del “mondo libero” occidentale della guerra fredda, oppure nella nascente integrazione europea, fu gestito dai democristiani senza sconfessare l’idea nazionale, anzi, con una decisa volontà di salvaguardarla. Lo stesso mito guelfo legittimava anche la ricerca di un terreno interno unificante, ispirato dai valori cristiani ma potenzialmente presentabile come comune a tutte le componenti democratiche del paese (come avvenne nella congiuntura costituente, attorno alla cultura del personalismo). In questo senso, De Gasperi nel 1947 poteva presentare la Dc come “partito nazionale”, che interpretava l’anima profonda del paese e quindi era capace di costruire efficaci mediazioni tra le sue diverse componenti, sociali e territoriali.

Per altri ambienti, all’ombra del pontificato di Pio XII, lo stesso richiamo aveva invece un senso più rigido e chiuso: padre Lombardi nella sua focosa predicazione sosteneva che era arrivato il momento di una grande palingenesi in cui fosse chiaro che chi non era cattolico non era nemmeno un “vero italiano”. Un pericoloso “esclusivismo cattolico” venne a pesare sulle sorti stesse della democrazia, con pressioni confessionalizzanti, che vennero a stento mitigate da De Gasperi. In un paese cattolico non si poteva ad esempio tollerare la libertà per l’errore, per la stampa anticlericale o per i pericolosi avversati ideologici della fede. Per contrapporsi al comunismo o alla deriva verso sinistra del paese, in questa visione occorreva fondere le forze cattoliche con tutte le destre, in una visione di “fronte cattolico nazionale”.

La successiva rapida e sostanzialmente poco guidata modernizzazione del paese, condusse a sbiadire l’idea stessa di nazione, anche per la presa del mondo bipolare della guerra fredda, in cui il tema cruciale divenne la difesa della “civiltà occidentale” contro il comunismo e non quella di una particolare coscienza nazionale. Intanto, nel paese, con la crescita economica e la modernizzazione venne ad affermarsi una forte secolarizzazione di massa dei costumi, e quindi vennero a crescere prepotentemente le pulsioni individualistiche: queste dinamiche – inattese quanto pesanti – condussero a mutare ancora una volta il quadro, rispetto alle antiche certezze. La battaglia attorno alla legge che introduceva il divorzio in Italia, nei primi anni Settanta, fu un discrimine decisivo. La Dc veniva isolata politicamente dai partiti cosiddetti «laici». Falliva traumaticamente nel referendum del 1974 l’appello, voluto da una forte maggioranza della Chiesa, al popolo concreto dell’”Italia cattolica”, contro il nuovo presunto tradimento delle élite laiciste. Dal canto suo, Aldo Moro propose in quel frangente una riflessione diversa, sulla necessità di affidare la difesa dei valori cattolici non più allo schermo legislativo, ma alla coscienza diffusa nel paese. La Chiesa che viveva in Italia ebbe occasione di affrontare queste novità con una iniziale struttura di rappresentanza: la Conferenza episcopale italiana aveva preso forma timidamente negli anni ’50, ma fu nel postconcilio che assunse un ruolo sempre più importante. Occorreva adattarsi alla nuova consapevolezza di essere minoranza nel paese: si parlava anzi, nell’ambito della cosiddetta “scelta religiosa” di quegli anni di una Italia divenuta «paese da evangelizzare» (e la stagione dei piani pastorali Cei su “Evangelizzazione e sacramenti” sviluppava proprio questa intuizione). Anche le nuove correnti «neointransigenti» sviluppatesi proprio in quel periodo (si pensi al movimento di Comunione e liberazione), non si ispiravano più a un mito dell’Italia cattolica passata da ricostruire, ma preferivano organizzare una presenza a modo di lobby o di «contromondo sociale», concependo il pluralismo come un accostamento di mondi istituzionali e ideologie distinte, più che non come una convivenza ispirata al dialogo e al mutuo riconoscimento. Insomma, in modi certamente differenti, il nuovo problema sembrava come essere “cattolici in Italia”, non come rifare una mitica “Italia cattolica”.

Solo dopo la crisi del sistema politico repubblicano degli anni Novanta e la scomparsa definitiva della Dc, si ebbe una nuova evoluzione. La nascita di una inedita minaccia all’unità nazionale e statuale con lo sviluppo di particolarismi e localismi (si pensi al lancio da parte della Lega Nord della parola d’ordine della “secessione” del Nord operoso e ricco), si collegava alla complessa dinamica della globalizzazione e dei suoi risvolti insicuri. Questo contesto favorì un’inattesa ripresa delle radici del mito guelfo nel mondo cattolico. Per i vescovi, rivendicare la tradizione cattolica nazionale è servito negli ultimi anni primariamente a giustificare una difesa aperta e non scontata dell’unità nazionale, intesa come un bene per il paese. Giovanni Paolo II, dal canto suo, ha rilanciato accenti guelfi nella sua «grande preghiera per l’Italia» del 1994. Il riferimento alla tradizione cattolica italiana – pur magari interpretata soprattutto come retaggio culturale secondo i canoni della «legge naturale», piuttosto che come dato confessionale esclusivo – è stato sfruttato, soprattutto nell’epoca della presidenza Ruini della Cei, per un rilancio del ruolo della Chiesa istituzionale e dei suoi vertici. La gerarchia guidava un’immagine di Chiesa come minoranza organizzata, mediaticamente e socialmente visibile e quindi portatrice di una possibilità di influsso diretto nella storia civile e anche politica. Del resto, l’Italia appariva in quest’ottica un paese bisognoso almeno di una “unificazione antropologica”, se non di un impossibile uniformità confessionale. Su questo terreno, la gerarchia ecclesiastica offriva la propria capacità di guida e convinzione.

Dopo il 2000, abbiamo assistito anche ad un ulteriore fenomeno: il recupero del concetto di tradizione cattolica nazionale italiana al di fuori degli ambienti religiosi, da parte di intellettuali e politici di estrazione magari laicista (i cosiddetti teo-con) o della stessa Lega Nord (che ha abbandonato disinvoltamente i miti e i riti pagani del decennio passato). Naturalmente, in queste elaborazioni non si vuol riferirsi tanto al cristianesimo come fede, ma a un lascito culturale tradizionale abbastanza indistinto, quanto simbolicamente pregnante e immediatamente identificabile (il crocifisso, il presepe). Un lascito utilizzabile quindi come strumento identitario da far valere in una battaglia mediatica attorno al bisogno di rassicurazione delle popolazioni moderne – ma culturalmente e civilmente spiantate – dell’Italia di inizio millennio. Tale discorso appare portatore di una specifica istanza conflittuale nel quadro del crescente pluralismo religioso e culturale del paese. Rispetto a queste dinamiche, il mondo cattolico ha dovuto ricollocarsi, in modo non sempre facile e scontato.

In sede di valutazione sintetica, dopo questo profilo suoneranno certamente fuori luogo le generalizzazioni astratte, che mettano sul banco degli imputati un presunto sovrannazionalismo (o anti-nazionalismo) cattolico «di principio», individuato spesso come il fattore (o uno dei maggiori fattori) che avrebbe impedito il dispiegamento in Italia di una coesa identità nazionale.

Fonti e Bibl. essenziale

G. Formigoni, L’Italia dei cattolici. Fede e nazione dal Risorgimento ad oggi, Bologna 20102; M. Impagliazzo (a cura di), La nazione cattolica. Chiesa e società dal 1958 a oggi, Milano 2004; F. Traniello, Religione cattolica e Stato nazionale, Bologna 2007.


LEMMARIO




Pavone Sabina


 





Pelaja Margherita


 





Pellegrinaggio - vol. I


Autore: Giovanni Liccardo1

Storia e definizione. Il pellegrinaggio costituisce un momento rilevante nell’esperienza religiosa collettiva e individuale dell’uomo; quello cristiano ha origini ebraiche e greco-romane (con templi o monti o fiumi sacri a determinate divinità taumaturgiche presso i quali i fedeli si recavano in pellegrinaggio per ottenere favori e risoluzioni ai loro problemi). Solitamente si differenziano due tipi di pellegrinaggio: quello devozionale e quello penitenziale. Il primo, più antico, ha come mete la Palestina, ossia i luoghi in cui Cristo visse e operò con i suoi discepoli; tuttavia, la novità del culto cristiano ne trasformò presto il fine rispetto a quello veterotestamentario. Se, infatti, nell’AT si trattava di raggiungere il luogo della presenza di Dio, nel NT – che ha spostato il centro del culto nell’eucaristia, celebrata in ogni momento e in ogni punto della terra, e ha proclamato tempio di Dio il corpo di ogni battezzato – aspirazione di ogni pellegrino era di mettere realmente i propri passi sulle orme di Gesù nei luoghi della vita nascosta e pubblica e in particolare della Passione. Per tale ragione, le prime e naturali destinazioni del pellegrino sono state, in particolare, le due “pietre sacre”: quella del Calvario, su cui fu innalzata la croce, e quella del Sepolcro, rimasto vuoto dopo la risurrezione.

I palmieri, come erano chiamati i pellegrini che si recavano a Gerusalemme e il cui nome deriva dalla pratica di raccogliere e riportare in patria le palme di Gerico, si trovarono in difficoltà nell’adempiere il proprio pellegrinaggio con la conquista islamica di Gerusalemme del 637; nondimeno, dal IV secolo si erano già andate precisando altre mete, per l’Italia Roma principalmente, con le sue memoriae apostolorum e dei martiri, e il santuario rupestre di San Michele al Monte Gargano, dove si ricordava la manifestazione dell’arcangelo. Per altre destinazioni i presupposti del pellegrinaggio erano il culto delle reliquie di santi e martiri, che per tutto il medioevo ebbe dimensioni significative: è raro che una città non abbia i resti di un santo, di un confessore o della Vergine che venera e rivendica come propri.

Invece, il pellegrinaggio penitenziale, o espiatorio, ha origini più tarde legate a consuetudini anglosassoni e soprattutto irlandesi, poi estese nel resto dell’Europa a partire dal VI secolo. All’inizio fu una forma di riprovazione verso una colpa grave (dall’omicidio all’incesto), nella quale incorrevano particolarmente gli ecclesiastici; il colpevole era condannato a peregrinare senza interruzione vivendo di elemosine e portando ben visibili i segni del suo peccato.2

I pellegrinaggi si sono intensificati specie negli anni prossimi al Mille, quando la leggendaria opinione di una vicina fine del mondo trasformò la salvezza della pro­pria anima in un problema assai sentito; paura e angoscia atta­nagliarono allora la cristianità occidentale e si mol­tiplicarono le manife­stazioni di fede. Ma ancor di più nei secoli successivi, quando l’intera cristianità visse un indubbio fervore devozionale e si palesò una certa ripresa economica, si risvegliarono la religiosità e il desiderio di peregrinare. Figure quali Pietro l’Eremita, l’abate di Cluny Pietro il Venerabile e Bernardo di Clairvaux rappresentano il rinnovamento spirituale e la rinascita religiosa ed ecclesiastica dell’XI secolo, con un rilevante aumento dei voti di pellegrinaggio. Anche il XII secolo fu teatro di un forte dinamismo spirituale, però a seguito della distinzione tra voto di crociata (che prevede l’indulgenza, solo successivamente plenaria) e voto di pellegrinaggio, la prima diviene una vera e propria istituzione all’interno della Chiesa cattolica: la crociata è un pellegrinaggio armato con lo scopo di liberare Gerusalemme e può essere indetta solo ed esclusivamente dal pontefice. A piedi o a cavallo si raggiungevano per fare peni­tenza, oltre a Roma naturalmente, soprattutto Assisi, che aveva conosciuto le gesta di San Francesco, e Loreto, dove era stata ritrovata nei boschi di lauro (lauretum) la Santa Casa di Nazareth.

Alle soglie del 1300 ai romei, come erano denominati coloro che andavano a Roma, verrà offerta un’altra fondamentale motivazione al loro peregrinare: il Giubileo. Come «anno di remissione», antecedente all’indulgenza plenaria e differente, era prassi in qualche modo già diffusa nel cristianesimo altomedievale (ad esempio, l’indulgenza concessa ai visitatori della Porziuncola da Onorio III nel 1216). Tuttavia, il cardinale Stefaneschi, autore del De centesimo seu iubileo anno, fonte primaria per lo studio del giubileo romano, scrivendo di una folla smisurata di pellegrini venuti a Roma tra la fine del 1299 e l’inizio del 1300, spingerà papa Bonifacio VIII il 22 febbraio dell’anno 1300 a pubblicare la bolla con la quale venne indetto il primo Giubileo della storia, che avrebbe dovuto concludersi nel Natale dello stesso anno; ai romei era concessa l’indulgenza plenaria con l’obbligo di visitare in pellegrinaggio le basiliche di S. Pietro e di S. Paolo fuori le mura.3

Nel corso del Cinquecento le critiche luterane al pellegrinaggio ne ridimensionarono l’importanza e il flusso; molti pellegrini cominciarono a dimostrare interessi nuovi oltre a quelli religiosi, prestando attenzione a quello che la strada gli offriva. Alcuni diari di viaggio mostrano una nuova attrazione verso le città, monumenti, i costumi e gli usi delle popolazioni incontrate. Il cammino si trasformò da “travaglio” a piacere per la conoscenza e amore per la cultura e cominciarono i viaggi oltreoceano. Nel 1670 Richard Lassels nel suo The Voyage of Italy usa per primo l’espressione Grand Tour per descrivere la moda che si era diffusa tra i giovani aristocratici del nord Europa; si trattava di viaggi molto lunghi, grazie ai quali intellettuali e rampolli delle ricche famiglie entravano in contatto con il vasto patrimonio storico-artistico della classicità. Questa tipologia di viaggio aristocratico e romantico si conclude alle soglie del Novecento, quando nuovi strati sociali iniziano ad accedere a quella particolare forma di impiego del tempo libero che è il turismo.

L’esperienza del pellegrinaggio è un fenomeno di rilievo anche del nostro tempo, basti pensare alle migliaia di presenze annuali negli albergues lungo il cammino di Santiago de Compostela, ai pellegrini che a piedi raggiungono santuari tradizionali, ai giovani della Gmg, ai giovani dell’annuale pellegrinaggio promosso dalla comunità di Taizé, ecc. E il Grande Giubileo del Duemila non è stato un punto di arrivo, ma di partenza per i fedeli che annualmente raggiungono Roma, trovando accoglienza soprattutto in parrocchie e comunità religiose.

Strade, guide e arte del pellegrinaggio. Quantunque non sia mai esistito un cammino stereotipato, dalla tarda antichità si sono definite vere e proprie vie di pellegrinaggio. I viaggi si svolgevano lungo la rete delle antiche strade romane, che ci si sforzava di preservare curandone come si poteva la manutenzione. E non erano certo viaggi agevoli; le strade erano per lo più semplici piste ricoperte di fango o di ghiaccio ed era necessario fare i conti, specie d’inverno, con gli ostacoli naturali quasi insormontabili, come le Alpi. Di solito, i viaggi comportavano percorsi compositi: un tratto di strada, il traghettamento di un corso d’acqua, un sentiero attraverso una foresta, un tratto di navigazione fluviale. In ogni caso, la coscienza dei rischi da affrontare era tale che chi doveva partire per un lungo viaggio vi si preparava (per esempio facendo testamento) sapendo che sarebbe potuto non tornare. Prima di partire erano necessarie la confessione e la benedizione da parte del prete o del vescovo. La benedizione era impartita anche agli oggetti essenziali del buon pellegrino con una preghiera apposita che però poteva variare a seconda della meta scelta: il bordone; la bisaccia contenente cibo e denaro; il mantello; il petaso (il cappello a larghe falde per proteggersi dal sole e dalla pioggia). Il pellegrino, solo con la sua fede e le sue preghiere mentre cammina, non segue però solo le antiche e solitarie strade romane, ma anche le vie parallele lungo le quali sorgono villaggi, xenodochia (strutture di assistenza e sosta poi chiamate hospitium), locande, chiese e abbazie. E ancora oggi, l’Ufficio Nazionale per la pastorale del turismo, sport e tempo libero della Conferenza episcopale italiana, non manca di sottolineare l’obbligo dei vescovi di accogliere i pellegrini nelle chiese locali ed assicurare loro l’ospitalità.

Ma i movimenti dei pellegrini non aprirono strade nuove, fruirono di quelle convergenti su Roma da gran parte della penisola. Ne è un esempio quella con il nome di “Francigena”; il suo percorso varcava le Alpi in valle d’Aosta (passo del Gran S. Bernardo) scendeva dal Piemonte e dalla Lombardia nella pianura Padana, attraversava l’Appennino verso Berceto, scorreva lungo la Toscana e il Lazio per raggiungere Roma. Un tragitto alternativo che in passato si collegava al cammino di Santiago arrivava in Italia al Monginevro e le due strade si congiungevano a Vercelli. Altra via di grande importanza è la via Postumia, la strada che metteva in comunicazione Aquileia con Genova passando per Verona, Cremona, Piacenza, Tortona. La diffusione, dalla fine del V secolo, del culto dell’arcangelo Michele, venerato nei santuari del monte Gargano, del Mons Aureus presso Olevano sul Tusciano, presso Larino e a Potenza, e l’assestamento politico del Mezzogiorno, tra VI e VII secolo, sotto i bizantini e i longobardi di Benevento, resero più sicuro il transito e favorirono varie forme di pellegrinaggio, di laici e religiosi, per le strade più importanti del meridione d’Italia: la vita di Santa Artellaide consente di cogliere l’importanza dell’itinerario “Benevento-Siponto” nei collegamenti tra il settentrione d’Italia e le sponde adriatiche nella dinamica dei pellegrinaggi verso la Terrasanta, che, da Roma sino a Benevento, scendevano lungo la via Latina e la via Appia. La rilevanza raggiunta dai porti pugliesi oltre che dalle testimonianze itinerarie è attestata anche dalle mansioni fondate dai Templari a Bari, Barletta, Trani, Brindisi e lungo il percorso dell’Appia antica e dell’Appia Traiana.4

Lungo queste vie vennero costruite grandi chiese strettamente apparentate fra loro per pianta, alzato, caratteri costruttivi e decorazione; pure temi iconografici specifici, dal luogo in cui erano sorti, si ripetevano a distanza di migliaia di chilometri, a testimonianza della volontà dei pellegrini di conservare e diffondere il ricordo della loro santa impresa. È il caso del Volto Santo, che si credeva scolpito da Nicodemo, venerato a Lucca, città crocevia dei pellegrinaggi, la cui riproduzione e devozione è attestata dall’XI secolo in Francia, Germania, fino all’Inghilterra e a Perelló, in Catalogna, dove l’ordine cavalleresco toscano di San Giacomo di Altopascio possedeva un ospedale per pellegrini. Elementi distintivi comuni si codificarono anche nelle sculture, come dimostrano specialmente le chiese lungo i cammini nella parte iberica (Jaca, Loarre, Frómista, San Isidro di León, Santiago de Compostela) e in quella francese (Sainte-Foy, Saint-Sernin, Saint-Gaudens, Saint-Sever).

L’importanza culturale del pellegrinaggio si riscontra con chiarezza anche nella letteratura cosiddetta di pellegrinaggio. Dagli storici gli itinerari, i diari e altri resoconti di pellegrini più o meno illustri sono considerati un vero e proprio genere letterario, distinto dalla grande letteratura che pure tratta e mostra il ruolo significativo di questo inesauribile fenomeno sociale (I racconti di Canterbury di Chaucer o le descrizioni dei diversi pellegrini nella Vita nuova di Dante). In ogni caso tra gli itinerari e le guide specifiche occorre distinguere le descrizioni puramente geografiche (come la Tavola di Peutinger o il Cronografo di Ravenna), e le composizioni il cui carattere è piuttosto agiografico (come sono certe opere di Prudenzio, Paolino di Nola e Venanzio Fortunato), in cui le informazioni a carattere topografico sono secondarie rispetto ad altri scopi. I diari di viaggio a Roma apparvero verso il VI secolo, tra i più importanti sono l’Itinerario del prete Giovanni alla ricerca dell’olio santo dei martiri, su incarico della regina Teodolinda, durante il pontificato di Gregorio Magno (590-604, il papiro è conservato nella cattedrale di Monza); la Notitia ecclesiarium urbis Romae, composta tra il 625 e il 629, che riporta informazioni sulle chiese suburbane dei martiri classificate secondo le vie sulle quali si affacciavano; l’Itinerario di Malmesbury, scritto nel periodo compreso tra il 648 e il 682 (inserito da Guglielmo di Malmesbury, da cui deriva il nome, nelle sue Gesta dei re d’Inghilterra); l’Itinerario di Einsiedeln, dal monastero svizzero dove venne trovato, il cui autore dimostra di aver personalmente visitato Roma al tempo di Carlo Magno, di avere studiato i monumenti e di aver partecipato anche a cerimonie pagane, che sollecitamente ricorda.

Fonti e Bibl. essenziale

P. Brezzi, Storia degli anni santi, Mursia, Milano 1975; R. Brooke – C. Brooke, La religione popolare nell’Europa me­dievale, Il Mulino, Bologna 1988; J. Chélini – H. Branthomme, Le vie di Dio. Storia dei pellegrinaggi cristiani dalle origini al Medioevo, Jaca Book, Milano 2004; Il Giubileo. Storia e pratiche dell’anno santo, prefa­zione di S. Quinzio, Vallecchi, Firenze 1995; Il mondo dei pellegrinaggi. Roma, Santiago, Gerusalemme, a cura di P. Caucci von Saucken, Jaca Book, Milano 1999; E.R. Labande, Pauper et peregrinus. Problèmes, comportements et mentalités du pèlerin chrétien, Turnhout, Brepols 2004; M. Marrocchi, I Giubilei. Origini e prospettive, San Paolo, Cinisello Balsamo, 1997; M. G. Muzzarelli, Penitenze nel Medioevo. Uomini e modelli a confronto, Pàtron, Bologna 1994; T. Natalizi, Il pellegrinaggio. Cammino spirituale. Gerusalemme Roma Santiago de Compostela, San Paolo, Casale Monferrato 1999; R. Oursel, Pellegrini del Medioevo. Gli uomini, le strade, i santuari, Jaca Book, Milano 20012a; J. Richard, Il santo viaggio. Pellegrini e viaggiatori nel Medioevo, Jouvence, Roma 2003; D. Scotto (a cura di), Del visibile credere. Pellegrinaggi, santuari, miracoli, reliquie, Olschki, Firenze 2011; F. Sisini, In viaggio. Pellegrinaggi e giubilei del popolo di Dio, Città Nuova, Roma 1998; R. Stopani, Le vie di pellegrinaggio del Medioevo, gli itinerari per Roma, Gerusalemme, Compostela, Le Lettere, Firenze 1995; A. Vauchez, La spiritualità dell’Occidente medioevale, Jaca Book, Milano 2006.

Immagini:

1) Pellegrini del Giubileo del 1300, da una Miniatura della “Cronica” di G. Sercambi. Archivio di Stato di Lucca, Biblioteca; 2) Fidenza (Pr), Duomo, sculture sulla torre destra, scene di pellegrinaggio (XII-XIII secolo); 3) Pellegrini che arrivano a Roma in una medaglia del papa Clemente X, 1675; 4) Melfi, Chiesa rupestre di Santa Margherita (XI secolo).

Sitografia:

http://www.centrostudiromei.eu/ (sito per lo studio del pellegrinaggio medioevale); http://www.viestoriche.net/ (sito dedicato alle vie e ai luoghi di pellegrinaggio antichi e moderni); http://www.luoghi-sacri.it/ (sito dedicato alla scoperta di chiese, basiliche e monumenti mete di pellegrinaggi antichi e medioevali); http://www.rm.unina.it/ (sito dedicato alla pubblicazione in internet, ad accesso aperto, di studi scientifici medioevali); http://www.santuariosanmichele.it/index.php?option=com_content&view=category&layout=blog&id=15&Itemid=102&lang=it (sito del santuario di San Michele con notizie storiche e liturgiche generali).


LEMMARIO




Pellegrinaggio - vol. II


Autore: Giovanni Liccardo1

Pellegrinaggio e turismo. L’istituzione del giubileo ha dato impulso alla dimensione più autentica del pellegrinaggio; il giubileo è l’anno della remissione dei peccati e delle pene per i peccati, è l’anno della riconciliazione con gli avversari, della conversione e della penitenza sacramentale e, di conseguenza, della solidarietà, della speranza, della giustizia, dell’impegno al servizio di Dio nella gioia e nella pace con i fratelli. Soprattutto è l’anno di Cristo, portatore di vita e di grazia all’umanità. Il giubileo può essere ordinario, se legato a scadenze prestabilite; straordinario, se viene indetto per qualche avvenimento di particolare importanza. Gli anni santi ordinari, celebrati fino ad oggi, sono 26; quelli straordinari sono stati molti di più: l’ultimo è stato indetto da Giovanni Paolo II per i 1950 anni della Redenzione.2

Nondimeno, nel corso del Novecento, alle celebrazioni dei giubilei è andato gradualmente sovrapponendosi il nascente turismo di massa: già nel 1925, durante la stagione estiva, piccoli gruppi di semplici turisti alla scoperta delle bellezze sacre e profane di Roma si mescolarono ai veri e propri pellegrini in visita ai luoghi santi. La stampa cattolica recepì allora con preoccupazione questo snaturamento della fisionomia del pellegrinaggio, preoccupata di salvaguardare i luoghi sacri dalla profanazione fuggevole e mondana di persone spesso vestite in modo inappropriato e offensivo rispetto alla solennità dell’atmosfera giubilare. Non mancarono inoltre notizie su furti e raggiri compiuti ai danni di esercizi commerciali da truffatori mimetizzati tra i pellegrini. Questa tendenza si è andata poi rafforzandosi nei giubilei seguenti; così, in quello del 1950 al tradizionale pellegrinaggio si è aggiunto un vero e proprio turismo di massa, sempre meno legato al culto religioso. Interessati solo in parte alle dimensioni religiose, maggiormente all’arte e alla cultura italiana, i turisti-pellegrini passeggiavano per Roma dedicandosi all’acquisto dei più vari souvenir religiosi, il cui mercato si accrebbe enormemente. Anche la graduale diffusione dei mezzi di comunicazione di massa nel corso del Novecento ha contribuito a trasformare la fisionomia dei giubilei. Se infatti il 1925 era stato qualificato dagli “Avvisi a stampa” pubblicati sull’“Osservatore romano” per tutta la durata dell’anno santo, nel 1933 il giubileo straordinario della Redenzione fu proclamato da Pio XI alla radio, impiegata anche per diffondere le sue udienze, i comunicati e le circolari di informazione mediante l’istituzione di un’apposita trasmissione radiofonica con promozione settimanale, diffusa da Radio Vaticana. Nel 1975 il giubileo di Paolo VI fu il primo a essere trasmesso in mondovisione ed è stato calcolato che un miliardo di spettatori abbiano assistito in diretta all’evento. Il giubileo promosso da Giovanni Paolo II nel 2000, da ultimo, è stato uno dei più importanti avvenimenti mediatici del secolo: la notte del 24 dicembre 1999, la porta santa venne aperta davanti a oltre 60 paesi collegati via satellite con il Vaticano.3

Il significato attuale del pellegrinaggio. Nell’ultimo trentennio si è registrata un’attenzione crescente intorno al fenomeno dei pellegrinaggi e si sono moltiplicate riflessioni di grande autorevolezza, come quella espressa nella bolla di indizione del giubileo del 2000 Incarnationis Mysterium: «Il pellegrinaggio è sempre stato un momento significativo della vita dei credenti, rivestendo nelle varie epoche espressioni culturali diverse. Esso evoca il cammino personale del credente sulle orme del Redentore» (n. 2). Lo stesso Giovanni Paolo II, con il suo ministero itinerante per il mondo, ha dato rilievo mediatico a questo atto del credente, punteggiando la sua missione di innumerevoli visite ai più celebri santuari. Soprattutto, la Chiesa ha attribuito una particolare valenza al turismo religioso, specialmente quella di favorire la pace tra i popoli: «La Chiesa, senza minimizzarne gli aspetti meno positivi, ravvisa nel turismo, considerato in se stesso, certi valori, che si prestano ad essere sviluppati dal punto di vista umano e spirituale. Il turismo infatti favorisce l’unità della comunità umana, la solidarietà dell’uomo con l’universo, la trasformazione ed elevazione del livello sociale di vita» (Pontificia Commissione per la Pastorale delle Migrazioni e del Turismo, Riflessioni e Istruzioni sui singoli fenomeni, di seguito alla Lettera circolare alle Conferenze Episcopali Chiesa e mobilità umana (4.5.1978), in particolare sotto il titolo Pastorale del turismo, n. 2, ibidem, 165).4

Nella Chiesa italiana, in particolare, al tradizionale pellegrinaggio parrocchiale, si sono aggiunte altre forme, individuali, familiari, di gruppo, animate da famiglie religiose, associazioni e movimenti ecclesialmente riconosciuti. Particolare rilievo assume sempre il pellegrinaggio a Roma, alle tombe degli apostoli Pietro e Paolo e degli altri martiri, e verso i santuari della Vergine Maria di Loreto e Pompei. Un notevole flusso di pellegrinaggi, infine, è diretto verso i santuari che custodiscono la memoria dei grandi santi, specialmente quella dei santi patroni Francesco d’Assisi e Caterina da Siena.

Questo nuovo tipo di “viaggio”, collocato in una posizione intermedia tra il pellegrinaggio religioso e il turismo, svolto con i mezzi tipici dell’escursionismo moderno, rende possibile a un maggior numero di persone di frequentare santuari o di compiere visite di preghiera a luoghi cari alla pietà cristiana. Spesso i santuari si trovano così al centro di un fenomeno più vasto, costituito da semplici visitatori ai quali il luogo sacro offre di per sé una testimonianza: implicitamente il turista fa appello al santuario, alla stessa maniera del pellegrino, sebbene per diversa motivazione. Certamente, quello del turismo religioso è solo un aspetto del mondo più ampio del turismo quale “fenomeno” culturale; per questo la specifica pastorale esegue questo compito, mentre cerca spazi e forme, suggerimenti e declinazioni teologiche, per approfondire la propria identità teoretica nel concerto dell’azione pastorale globale delle comunità cristiane cui è chiamata ad offrire il proprio specifico contributo.

Fonti e Bibl. essenziale

M. Augé, Non luoghi, introduzione a una antropologia della surmodernità, Elèuthera, Parigi 1992; C.C. Canta, Sfondare la notte. Religiosità, modernità e cultura nel pellegrinaggio notturno alla Madonna del Divino Amore, Franco Angeli, Milano 2004; Enchiridion della Chiesa per le migrazioni. Documenti magisteriali ed ecumenici sulla pastorale della mobilità umana (1887-2000), ed. EDB, Bologna 2001; F. Ferrarotti, Partire, tornare. Viaggiatori e pellegrini alla fine del millennio, Donzelli, Roma 1999; F. Glicora – B. Catanzaro, Anni Santi. I Giubilei dal 1300 al 2000, LEV, Città del Vaticano 1996; La sacra città. Itinerari antropologico-religiosi nella Roma di fine millennio, a cura di L.M. Lombardi Satriani, Meltemi, Roma 1999; M.I. Maciotti, Pellegrinaggi e giubilei. I luoghi del culto, Laterza, Roma-Bari 2000; E. Stumpo, Il viaggio del perdono, Edizioni cultura della Pace, Roma 1997; J. Urry, Lo sguardo del turista. Il tempo libero e il viaggio nelle società contemporanee, Seam, Formello (RM) 2000; M. Zucca, Antropologia pratica e applicata. La punizione di Dio: lo scandalo delle differenze, Esselibri, Napoli 2001.

Immagini:

1) Annuale pellegrinaggio a piedi Macerata-Loreto; 2) Assisi, Basilica superiore di San Francesco; 3) Medaglia commemorativa del Giubileo Eucaristico straordinario nel 750° anniversario della bolla  Transiturus con la quale Urbano IV istituì da Orvieto la festività del Corpus Domini in tutta la cristianità; 4) I partecipanti alla veglia di Tor Vergata della Giornata Mondiale della Gioventù ripresi dall’alto, 19 agosto 2000.

Sitografia:

http://www.chiesacattolica.it/turismo/ (sito della Chiesa dell’Ufficio Nazionale per la pastorale del tempo libero, turismo e sport, istituito dal Consiglio Permanente della C.E.I.); http://www.viefrancigene.org/it/ (sito dell’associazione europea delle vie francigene); http://www.operaromanapellegrinaggi.org/viewpage.php?page_id=7 (sito dell’Opera Romana Pellegrinaggi); http://www.pellegriniaroma.org/ (sito dedicato al pellegrinaggio moderno); http://www.hospites.it (sito dedicato a coloro che cercano indirizzi di abbazie, conventi e monasteri in Italia dove soggiornare e/o dove ritirarsi spiritualmente).


LEMMARIO




Pereira Sergio


Dottorando della Facoltà di Storia e Beni Culturali della Chiesa della Pontificia Università Gregoriana




Persecuzioni - vol. I


Autore: Paolo Siniscalco

In senso lato con il termine ‘persecuzione’ si intende ogni attività vessatoria, violenta, repressiva esercitata da chi detiene il potere per stroncare un movimento politico, religioso etnico, di opinione contraria a quello dominante. Essa assume varie modalità: dalla condanna a morte, alla pena detentiva alla condanna dell’esilio fino alle molestie o alle minacce continuate. In questa sede la parola richiama le traversie subite dai cristiani nei primi tre secoli della nostra per opera del potere romano e da quelle subite da ebrei, pagani ed eretici a cominciare dal IV secolo per opera delle autorità romane ormai divenute cristiane.

La prima persecuzione contro i discepoli di Gesù ha luogo a Gerusalemme. L’episodio è narrato nel cap. 5 (1-22) degli Atti degli apostoli. Il discorso compiuto di Pietro nel Tempio che insegna al popolo e annuncia in Gesù la resurrezione dei morti irrita i sacerdoti, il prefetto e i sadducei, i quali gli mettono le mani addosso e lo pongono in prigione, intimando a lui e a Giovanni di non più insegnare nel nome di Gesù. Successivamente (cf. Atti 5, 17-41), sorte analoga è riservata agli Apostoli condotti dinanzi al Sinedrio e al Sommo Sacerdote dove si proibisce loro di nuovo di parlare nel nome di Gesù e dove sono percossi e infine lasciati liberi. Un terzo racconto di persecuzione riguarda Stefano, uno dei Sette diaconi, che accusato di parlare contro il Tempio e contro la Legge e non più solamente minacciato, ma messo a morte mediante la lapidazione (cf. Atti 6,8-8,1).

Un quarto episodio, che ha ancora per cornice la comunità di Gerusalemme, riguarda Giacomo, fratello di Giovanni che è giustiziato nel 42 d.C. per ordine di Erode Agrippa (cf. Atti 12, 1-23). Due decenni dopo, nel 62, anche Giacomo il Minore, responsabile della comunità di Gerusalemme, è ucciso (cf. Eusebio di Cesarea, Hist.eccles. II, 23, 1-25). Sono queste le prime persecuzioni che subiscono i discepoli di Cristo per la testimonianza che recano alla messianicità di Gesù. Ma ben presto lo scenario muta. Già prima della presa di Gerusalemme da parte dei romani e della dispersione di molti dei suoi abitanti (i quali vi erano certamente dei giudei-cristiani), si sa che luglio del 64 scoppia a Roma un incendio di ingenti proporzioni che reca alla città grandissimi danni. Un’autorevole fonte di parte pagana, lo storico Tacito, all’inizio della seconda decade del II secolo, in un passo ben noto dei suoi Annali 15, 44, 2-5), ci informa che l’imperatore Nerone, per soffocare le voci che lo accusavano di essere stato l’autore del disastro, colpisce con castighi crudeli i cristiani, che divengono un capro espiatorio in grado di dirottare l’ira e lo sconcerto dei cittadini. L’imperatore lo può fare perché i fedeli di colui che sotto Tiberio era stato messo a morte per ordine del procuratore Ponzio Pilato erano comunemente ritenuti odiosi per le nefandezze che erano loro attribuite. A loro carico dovevano infatti circolare accuse di incesto, omicidio e di cene tiestee, che gli scrittori cristiani del II secolo si adoperano a smentire decisamente. Il quadro tacitiano suggerisce che si trattò di una repressione occasionale, non provocata in primo luogo da motivi religiosi. Sta di fatto che in quegli anni la comunità cristiana di Roma veniva messa a dura prova: tra le vittime si annoverarono due “colonne” della Chiesa, quali Pietro e Paolo.

Non deve sorprendere che le persecuzioni abbiano luogo nei grandi centri ove di concentrano i poteri politici, civili e religiosi che, più che altrove, esigono siano rispettate le regole dettate dalla res publica e dunque anche l’osservanza del culto della dea Roma e dell’imperatore. In tal senso la capitale dell’Impero è il punto di massima importanza, si intende, non il solo, data l’estensione dell’immenso organismo romano disseminato di grandi città. Anche i riti celebrati in occasione di anniversari imperiali o di altre feste analoghe sono occasioni che favoriscono le repressioni.

Alla fine del I secolo sotto Domiziano (81-96) ha luogo, a quanto sembra, una nuova persecuzione (anche se taluni storici discutono circa la sua stessa esistenza). Tuttavia alcuni indizi sembrano confermarla: nella lettera di Clemente di Roma (cf. 1, 1) della fine del I secolo, si parla di improvvise calamità e avversità sopravvenute una dopo l’altra: i personaggi perseguitati dovevano fare parte della opposizione politica senatoria, e in pari tempo essere simpatizzanti, se non adepti della comunità cristiana. È certo che Domiziano in contrasto con il tradizionalismo senatorio di marca stoica d’improvviso, in base a tenui sospetti, mette a morte Flavio Clemente, suo cugino, avente allora la funzione di console, e ordina che sua nipote, Flavia Domitilla – il cui nome è legato alle catacombe della Via Ardeatina – sia deportata nell’isola di Ponza, per il fatto di essersi dichiarata cristiana (cf. Girolamo, Chron., ad Olymp. 218).

Nei primi anni del II secolo Ignazio, vescovo di Antiochia, era condotto a Roma per essere gettato in pasto alle fiere. Poco più tardi è l’imperatore Adriano (117-138) a interessarsi dei cristiani in seguito a denunce anonime avanzate contro di loro. Intorno al 165, a Roma, è condannato a morte Giustino, filosofo e apologeta, nato Nablus in Palestina e venuto nella capitale per insegnare. Negli stessi anni muore martire il vescovo di Smirne, Policarpo. Poco dopo, nel 177, avviene un grave episodio persecutorio a Lione e a Vienne, nella Gallia: nei giorni delle grandi feste in onore di Roma e dell’imperatore, un folto gruppo di cristiani è denunciato al governatore e fatto morire dinanzi alla folla nell’anfiteatro lionese. E si potrebbero menzionare altri episodi analoghi, testimoniati dagli Atti dei martiri, molti di quali hanno un serio fondamento storico.

Una fonte antica, precisamente un passo della Historia Augusta (Spaziano, Septimius Severus (17,1) dà notizia di un provvedimento legislativo che avrebbe preso l’imperatore Settimio Severo (193-211) contro i cristiani proibendo, loro ogni proselitismo. Anche Eusebio di Cesarea nella Historia ecclesiastica (VI, 1) sostiene l’intento anticristiano dell’imperatore. Occorre tuttavia osservare che intorno a queste notizie si è aperto una discussione serrata, per cui appare sempre più problematica accettare la storicità dell’editto Severiano. Senza potere entrare in questa sede nel merito della questione, non è possibile negare che episodi persecutori si siano verificati in vari centri dell’impero durante il suo regno, in particolare in coincidenza i decennalia e i vota et gaudia Caesarum celebrati nel 202: fonti attendibili lo attestano con sicurezza.

Con la metà del III secolo la situazione si aggrava. L’imperatore Decio (249-251) promulga un edito generale – il primo di cui si abbia notizia certa – di persecuzione da applicare in tutto l’Impero. Esso obbliga tutti cristiani a prestare il culto tradizionale e detta norme severe per coloro che non lo vogliano praticare e aggiunge che, in questo ultimo caso, i vescovi, i presbiteri, i diaconi siano giustiziati sul posto e i senatori e i cavalieri romani privati della loro dignità, dei loro beni e mandati in esilio (Cipriano, vescovo ci ragguaglia (cf.Epist. 80, 2 e passim) sulla situazione di Cartagine. Di fronte all’imposizione di sacrificare e quindi di ottenere il certificato che li avrebbe liberati i cittadini da ogni obbligo religioso, alcuni cristiani si presentano spontaneamente al magistrato; altri ottengono il certificato, pagando un compenso, altri ancora, pur non abiurando, si comportano con tracotanza, suscitando liti o gesti di insubordinazione verso il clero. Non pochi invece sono i “confessori” che non rinnegano la propria fede. Il vescovo stesso, dopo essersi allontanato volontariamente dalla propria sede, vi fa ritorno per essere martirizzato. Qui importa, in particolare porre in luce quanto le persecuzioni avvenute intorno alla metà del III secolo colpiscano anche la Chiesa di Roma nelle sua massime autorità.

Papa Fabiano (236-250) è una delle prime vittime dell’Editto deciano (cf. Eusebio di Cesarea, Historia ecclesiastica VI, 39,1). Anche Valeriano (253-260) nell’ultimo periodo del suo regno, si accanisce contro i cristiani. Con il secondo editto che ordina la esecuzione immediata di vescovi, presbiteri e diaconi e prescrive gravi provvedimenti per senatori, cavalieri, ufficiali e matrone, Sisto II, vescovo (257-258) di Roma, è messo a morte (257-258), insieme a 4 diaconi (cf. Cipriano, Epist. 80, 1, 4). Ma successivamente sotto Gallieno (260-268), la Chiesa gode di anni di pace. Un editto di tolleranza restituisce alle comunità i luoghi di culto e ordina di fare cessare ogni azione penale a carico dei suoi fedeli. Anni di pace che durano per circa 40 anni, fino all’inizio della grande persecuzione di Diocleziano (284-305). Di fronte alla grave crisi dell’Impero che si fa più forte nelle ultime decadi del III secolo, l’imperatore propone e in parte attua una serie di riforme nel campo istituzionale (ne è un esempio l’ordinamento tetrarchico), monetario, religioso. In questo ultimo campo egli irrigidisce la politica contro i culti stranieri con l’intento di promuovere i culti pagani tradizionali e quindi di dare rafforzare i vincoli dei cittadini verso l’Impero. Nel 297 rende pubblico un editto contro i manichei. Nel febbraio del 303 emana un altro editto in cui si ordina di radere al suolo le chiese e di bruciare le Scritture cristiane; ad esso seguono altri provvedimenti che impongono di imprigionare i capi delle chiese, di costringerli a sacrificare con ogni mezzo, promettendo la libertà a quanti avessero abiurato e il supplizio a quanti non lo avessero fatto. Nel 304, stando a ciò che scrive Eusebio di Cesarea (cf. Mart.Pales. 3,1), sono date disposizioni perché tutti sacrifichino e di facciano libagioni agli idoli. Queste misure provocano episodi sanguinari, morti violente, specialmente nella parte orientale dell’Impero. Ma anche l’Occidente (che pure trova in Costanzo Cloro e, a Roma, in Massenzio, maggiore tolleranza) ha le sue vittime. E, ancora una volta il cuore della Chiesa di Roma, nella figura del suo vescovo, ne soffre. Sempre Eusebio (cf. Historia ecclesiastica 7, 32, 1) scrive che Marcellino (296-304) è una delle vittime della persecuzione. Ma proprio Galerio, che era stato tra i più decisi persecutori dei cristiani, il 30 aprile del 311 rende pubblico a Serdica, l’attuale Sofia, un editto di tolleranza secondo il quale i cristiani erano autorizzati a celebrare pubblicamente il culto e a ricostruire i luoghi di riunione, a condizione che non turbassero l’ordine stabilito. Si sa che Galerio emise quel provvedimento mentre soffriva di una grave malattia che lo avrebbe condotto ben presto alla morte Difficile dire che cosa abbia provocato un mutamento tanto deciso della sua politica religiosa. Non di meno appare chiaro il fallimento dell’opposizione fatta dalle massime autorità romane al cristianesimo. Ma un elemento va sottolineato: l’editto l’imperatore riconosce come ciascun cittadino abbia il diritto di render culto al proprio Dio e quindi anche i cristiani al loro. Un’affermazione fondamentale: ma non è questo il luogo per darne conto. Due anni dopo, nel 313, le decisioni prese nel loro incontro di Milano da Costantino e Licinio e le lettere che nel medesimo anno sono diramate da Licinio, accordano piena libertà ai cristiani, come a tutti, di seguire la religione e praticare il culto da ciascuno scelto. Comincia una nuova era in cui gli imperatori romani favoriscono con diversi atteggiamenti e a prescindere dal breve regno di Giuliano (361-363). il movimento iniziato in Palestina dalla parola e dagli atti di Gesù Cristo.

Fin qui qualche cenno ai fatti. Ma l’argomento induce a fare due riflessioni: una prima relativa all’Impero romano e al motivo per cui ha perseguitato i cristiani e una seconda relativa alla Chiesa e all’esperienza che ha vissuto, subendo le persecuzioni. Inizialmente, al livello del popolino, i cristiani erano accusati di compiere delitti nefandi, lo si è visto, e degni quindi di essere puniti. A livello dei responsabili della res publica il cristianesimo non era religio licita (a differenza dell’ebraismo) e bastava la confessio nominis, vale a dire la professione del nomen christianum, per essere processati e condannati. Essa non poteva rivendicare alcuna ascendenza, alcuna tradizione nazionale. Anzi l’ecumenicità in cui credeva era considerata un elemento minaccioso per l’universalismo romano; di qui l’accusa di ‘ateismo’. I comportamenti dei cristiani non avevano nulla di disonesto o di empio, per chi li avesse conosciuti. Ma il fatto di rifiutare tradizioni venerande, garanti del patto sociale, era un comportamento incomprensibile per i pagani della Roma imperiale dei primi te secoli. Espressione pubblica di tale patto era rappresentato dal culto della dea Roma e dei divi imperatores. Il rifiutare tale culto costituiva un gesto gravissimo, giacché quell’atto di devozione aveva il valore di una dichiarazione di lealismo verso la comunità, anche se non supponeva esplicita proclamazione di una qualsiasi fede religiosa. Perciò lo scopo più vero dei responsabili della cosa pubblica che vessavano i cristiani sembra essere stato in primo luogo quello non di eliminarli, ma piuttosto di fare loro mutare opinione perché rientrassero nell’alveo della grande tradizione romana costituita dal mos maiorum e dai veterum instituta. Come ha osservato Theodor Mommsen per il cittadino romano la religiosità era una forma di patriottismo che si manifestava sacralmente, perché l’ordine della romanità esigeva la piena adesione al nomos e richiedeva un comportamento corrispondente. Si comprende allora, al di là delle accuse mosse in special modo dal popolino ai discepoli del Signore, l’irritazione e, in certo modo, l‘incomprensione del comportamento che essi tenevano. Il non giurare per il genius dell’imperatore, il non bruciare qualche granello di incenso ai piedi della statua della Vittoria era ritenuto segno di pura e gratuita ostinazione, segno di pazzia (dementia) tanto più che, compiendo quel gesto, essi avrebbero potuto tornare liberi e rispettati (→ Paganesimo). Occorrerà la lenta disgregazione del mondo istituzionale, politico e religioso a cui concorse, oltre al cristianesimo la pressione sempre più minacciosa dei popoli dell’Est e del Nord europeo, perché i cristiani fossero riconosciuti quale a forza positiva e viva da cui non si poteva più prescindere per la vita stessa dell’Impero. Dopo le prime manifestazioni di un tale atteggiamento avvenute nella seconda parte del III secolo – per esempio, con Filippo l’Arabo e con Gallieno – dapprima Galerio e poi compiutamente Costantino, presero decisioni da ritenere rivoluzionarie.

Una seconda riflessione, come si diceva, riguarda la Chiesa e il significato che ha attribuito alla confessione della fede e, non di rado, al martirio (o all’abiura). È interessante innanzitutto notare che il termine ‘testimone’ (martys) fin dal II secolo designi chi muore a causa della sua fede, mentre colui che testimonia la medesima fede è definito ‘confessore‘ (omologos). Non solo, lo ‘spettacolo’ del martirio è considerato una ‘testimonianza, e colui che dona la propria vita è assimilato a Cristo stesso, il ‘testimone fedele’ (ho martys ho pistos), il ‘primogenito dei morti’, come il libro dell’Apocalisse definisce Cristo (cf. 1, 5); il martire è un suo imitatore che, soffrendo, vince la morte. All’opposto per chi abiura, in quanto tradisce con se stesso, anche Cristo. E ancora, con il suo atto il martire non riproduce solamente le vicissitudini del Signore, ma ne attualizza la presenza. È Cristo che soffre con lui, che con lui si misura con la morte. D’altra parte i suoi gesti supremi rappresentano una forma di testimonianza pubblica che riveste un forte impatto comunicativo, provocando una reazione che scuote profondamente i pagani che vi assistono (tanto che si può parlare di un effetto missionario esercitato dal martirio) e che conferma i correligionari nella fede. Di qui derivano i doni di cui godono i martiri e di cui anche la comunità profitta: essi hanno visioni, operano miracoli, respingono le potenze demoniache, intercedono per i vivi. possono riconciliare i penitenti e, soprattutto, richiamano fortemente la dimensione escatologica propria dell’esistenza cristiana. Non stupisce dunque che la comunità accompagni durante il processo e fino all’istante supremo i ‘testimoni’, che stanno per divenire ‘martiri’; e neppure stupisce che, dopo la morte li ricordi, rendendo loro un culto specifico. Quanto detto si desume dalla letteratura agiografica che si compone di lettere, di Acta e di Passiones martyrum (→ Storiografia) e pure di iscrizioni: un insieme ricchissimo di documenti che hanno un differente grado di affidabilità storica, ma che, nell’insieme, delineano un quadro, delle figure dei martiri e delle vicende a cui si sottopongono, assai omogeneo e coerente. Anche questo è un esito di quel fenomeno ben presente nella prima epoca della Chiesa di cui si è fin qui parlato. Dopo Costantino vi saranno martiri di cristiani in paesi esterni al mondo romano, per esempio in Persia in particolare sotto i Sasanidi.

Infine non si può dimenticare un’ulteriore capitolo riguardante le persecuzioni nel Tardo Antico. Da una parte si devono ricordare le persecuzioni condotte dal potere civile contro i donatisti e dall’altra quelle condotte dal medesimo potere, ormai cristianizzato, contro i pagani, gli eretici e i giudei. In proposito si hanno notizie assai abbondanti circa la legislazione antipagana. Essa comincia con Costantino e si fa molto più esplicita e dura con i successivi imperatori. Il codice Teodosiano ha conservato, tra l’altro, 5 costituzioni che proibiscono i sacrifici, il culto degli idoli, condannano ogni superstitio, ordinano di chiudere i templi, ecc., comminando gravissime pene. Momento decisivo è rappresentato dall’editto di Tessalonica (380) con il quale Teodosio dichiara di volere che tutti i popoli da lui governati seguano la religione trasmessa da Pietro ai romani. Si è parlato in questo caso della “religione di stato”, ma l’espressione è fuorviante in quanto si vale di concetti moderni applicandoli al tempo antico. Si può ben dire, tuttavia, che da quel tempo comincia il difficile rapporto tra l’Impero e la Chiesa, in una situazione nuova rispetto alla precedente, in quanto la seconda non si distingue con sufficiente fermezza e chiarezza dal primo. Anzi, non di rado, ne asseconda le decisioni dal secondo. Dal 381 al 435 si moltiplicano le leggi antipagane, mentre successivamente si vanno più rare. Esse intendono abbattere il paganesimo mirando alle pratiche cultuali, al patrimonio e alle persone, prevedono la chiusura dei templi, la confisca dei beni e il loro trasferimento ai cristiani, la soppressione dei privilegi ai sacerdoti pagani. Con i pagani sono presi di mira anche gli eretici, i giudei e gli apostati, in altre forme, soprattutto con la limitazione di diritti. La situazione precedente all’inizio del IV secolo si è capovolta. Lo scopo sembra essere stato quello indurre quanti fossero lontani o si fossero allontanati ad una conversione, o ad un ritorno, al cristianesimo da ottenere con la costrizione e l’intolleranza, in uno spirito ben lontano da quello predicato e vissuto da Gesù Cristo, anzi opposto ad esso. Come nei primi secoli, certamente, sono le autorità pubbliche, ormai cristiane, che dettano le regole, non è la Chiesa, in quanto tale. Pure molti vescovi sono presenti e influenti sulla scena: la politica ecclesiastica, molto spesso si intreccia con la politica imperiale.

Fonti e Bibl. essenziale

P. Allard, Histoire des persécutions, I-IV, L’Erma di Bretschneider, Roma, 1971 (rist. anastatica); J. Moreau, La persecuzione del cristianesimo nell’Impero romano, Brescia, Paideia, 1977; G. Lanata, Gli Atti dei martiri come documenti processuali, Giuffré, Milano, 1973; J. Gaudemet, “La legislazione antipagana da Costantino a Giustiniano”, in L’intolleranza dei cristiani nei confronti dei pagani, Edizioni Dehoniane, Bologna, 1993; T. Baumeister, La teologia del martirio nella Chiesa antica, trad. ital., ‘Traditio Christiana’, 7, SEI, Torino 1995, 15-36; G. Rossé, Atti degli Apostoli. Commento esegetico e teologico, Città Nuova, 1998 Roma; C. Lepelley, I cristiani e l’Impero Romano, in Storia del cristianesimo, L. Pietri (ed.), I, Borla-Città Nuova, Roma, 2000, 227 -265; L. Pietri, Le resistenze: dalla polemica antipagana alla persecuzione di Diocleziano, in Storia del cristianesimo, cit., Ch. e L. Pietri (edd.), II, Roma, 2000, 156-183; La comunità di Roma. La sua vita e la sua cultura dalle origini all’Alto Medio Evo, L. Pani Ermini e P. Siniscalco (edd.), Città del Vaticano, Libreria Editrice Vaticana, 2000, 17-36; P. Siniscalco, “Gli imperatori romani e il cristianesimo nel IV secolo”, in J. Gaudemet – P. Siniscalco – G.L. Falchi, Legislazione imperiale e religione nel IV secolo, Istituto Patristico “Augustinianum”, Roma 2000, 67-120; M. Sordi, I cristiani e l’Impero romano, Jaca Book, 2004; A. Carfora, I cristiani al leone. I martiri cristiani nel contesto mediatico dei giochi gladiatori, Il pozzo di Giacobbe, Trapani, 2009.


LEMMARIO




Persecuzioni - vol. II


Autore: Caterina Ciriello

In ogni epoca della storia ritroviamo modi di agire, volti a far estinguere ciò che si presenta ai nostri occhi come “diverso” e, dunque, pericoloso per il nostro spazio vitale. Il termine in questione, pur riferendosi con frequenza, anche attuale, a questioni di natura religiosa – e dal punto di vista cristiano le persecuzioni sono e saranno sempre necessarie per la storia della salvezza, anche se dolorose – in realtà si estende a campi più vasti ove gli individui possono svolgere sistematiche azioni di forza progettate allo scopo di soffocare ideologie, movimenti politici o religiosi, o addirittura eliminare una minoranza etnica. Per quanto concerne l’Italia contemporanea (1930-1945) ci è parso opportuno segnalare tre momenti storici legati alla prassi delle persecuzioni: la campagna dei fascisti contro l’Azione Cattolica Italiana, quella dei nazi-fascisti contro gli ebrei italiani, infine le stragi degli italiani dell’Istria uccisi dai partigiani titini e gettati nelle Foibe.

I fascisti contro l’Azione Cattolica. Agli inizi degli anni ’20 la salita al potere di Mussolini si annunciava piena di buoni auspici per la Chiesa cattolica. Il Duce, infatti, dichiarava apertamente di essere assolutamente rispettoso dei valori religiosi e di voler avere una intesa con la Santa Sede. Nel gennaio 1923 un incontro tra Mussolini ed il card. Gasparri sancì, infatti, “la buona disposizione delle due parti”. In realtà, almeno fino al 1929, Mussolini e la Santa Sede ebbero non poche occasioni di contrasto per via delle violenze che i fascisti, soprattutto nelle province del nord Italia, perpetravano ai danni delle associazioni cattoliche. Nel 1923, all’indomani del Congresso torinese del PPI, Mussolini maturò il fermo convincimento di non voler avere nessun tipo di opposizione nel governo. Ciò autorizzò i fascisti ad attaccare duramente don Sturzo ed il Partito Popolare, facendo pressioni sulla Santa Sede perché il PPI non ponesse veti all’approvazione di una nuova legge elettorale. Il clima si inasprì e fece le prime vittime: Don Giovanni Minzoni, arciprete di Argenta (Fe), fu ucciso con una bastonata alla testa (Cf. M. Tagliaferri, L’unità cattolica. Studio di una mentalità , 284-286). Don Sturzo, obbedendo ad un chiaro desiderio della Segreteria di Stato, si dimise e, suo malgrado, abbandonò il paese, in esilio. I sovversivi, a questo punto, non erano più i comunisti, ma i popolari di Sturzo. Dopo il delitto Matteotti del giugno del 1924, la violenza fascista ebbe una pericolosa impennata. Nell’aprile del 1925 si verificarono maltrattamenti e soprusi nei confronti di diverse istituzioni cattoliche, prima nell’Italia del nord e successivamente nel resto della penisola. Sedi di circoli cattolici venivano devastate; a La Spezia ed a Parma i fascisti incendiarono le sedi bruciando crocifissi ed immagini sacre; si arrivò persino a disturbare le processioni. A Firenze e Roma le incursioni fasciste furono tanto gravi da attirare l’attenzione dei vertici del partito, preoccupati del fatto che tali eccessi, alla fine, avrebbero potuto nuocere alla stessa autorità statale. Gli atti di violenza vennero condannati non solo dalle autorità cattoliche, ma anche da esponenti “cattolici” del Partito fascista. Lo scontro avveniva su un terreno molto chiaro e noto a tutti: la necessità del regime di essere l’unico ad educare la gioventù, poiché il credo fascista doveva diventare il “dogma” della gioventù. Nel 1926 in seguito ad una serie di attentati a Mussolini la legge n° 2008 del 25 novembre decreta lo scioglimento di tutte le associazioni ed organizzazioni che svolgessero azioni contrarie al regime. Vi rientravano anche quelle cattoliche. Uno degli episodii più gravi è la chiusura dell’Oratorio dei Salesiani di Varazze. Ma ad Udine ben cinque sacerdoti sono arrestati e condannati al confino. Nel 1929 i Patti Lateranensi vennero accolti con speranze ed entusiasmo: sembrò che tra cattolici e fascismo si stabilisse, finalmente, un clima di comprensione. In realtà la crisi del 1931 era alle porte. Il governo fascista aveva intenzione di sopprimere l’ultimo baluardo della Chiesa, l’AC, notevolmente rafforzatasi, proprio grazie al concordato. I controlli del regime su parrocchie, oratori e circoli giovanili portano alla luce un solido attivismo cattolico e antifascista. Nel secondo anniversario dei Patti Lateranensi la crisi si acuisce; i fascisti attaccano i cattolici dapprima a mezzo stampa, successivamente con una vera e propria repressione: in diverse università gli studenti fucini sono picchiati dagli squadristi fascisti. Riprendono le violenze nei confronti dei circoli cattolici in tutta Italia: incendi, pestaggi, intimidazioni volte a «far scomparire le altre forme del laicato cattolico a vantaggio delle organizzazioni fasciste» (L. Ceci, L’interesse superiore, 149). Si procedette pure ad una “epurazione” della stampa cattolica, e all’allontanamento di coloro che erano stati coinvolti nel PPI. Il responsabile della federazione romana della GCI, Emilio Traglia, è accusato di svolgere attività antifascista e deve rifugiarsi in Vaticano. Il 29 maggio del 1931, in seguito – tra l’altro – alla lettera che Pio XI indirizza al card. Schuster, arcivescovo di Milano, nella quale il pontefice non solo sottolineava con enfasi che il Regime aveva il dovere di seguire il Magistero della Chiesa, ma dichiarava pure che i giovani venivano esposti a «ispirazioni di odio ed irriverenza» [AAS 23 (1931), 146], vengono chiusi tutti i circoli giovanili di AC: sequestrati tutti i documenti e gli elenchi dei membri, molti dei quali subiscono violenze. Persino la sede della “Civiltà Cattolica” in via di Ripetta è assaltata da un gruppo di facinorosi studenti. In molte località vengono chiuse finanche le pie associazioni delle Figlie di Maria e delle “Zelatrici del Sacro Cuore”, l’apostolato della preghiera, il Terz’ordine Francescano e un asilo delle suore. La presa di posizione della Chiesa è energica. Pio XI sospende la processione del Corpus Domini, ed in segno di lutto volle che nell’intero paese la popolazione si astenesse da fare pubbliche processioni. Infine per proteggere, l’AC, sua creatura scrive, il 29 giugno, l’enciclica “Non abbiamo bisogno” nella quale difende i Patti Lateranensi e l’accordo riguardante l’AC, condannando esplicitamente il fascismo come totalitarismo. Gravissimo è l’episodio del ritrovamento di una bomba nella basilica di san Pietro due giorni prima della celebrazione della beatificazione di Caterina Labouré il 19 luglio 1931. Tale gesto segna la fine di ogni possibile dialogo tra cattolici e il nuovo regime. Di fatto il governo fascista continua la sua opera di ostilità verso la chiesa cattolica, anche se non con la forza degli anni precedenti, poiché si tratta di episodi di violenza isolati e di controlli su istituzioni e persone a livello locale. È verso la fine del 1937che si tocca nuovamente un punto critico nelle relazioni tra Stato e Chiesa, e cioè quando viene sollevata «la questione della incompatibilità tra iscrizione al Pnf e all’Azione cattolica»(L. Ceci, L’interesse superiore, 218). A questo punto Pio XI reagisce con la minaccia della scomunica, dapprima riservata, poi resa pubblica in un discorso al Collegio Urbano del 28 luglio 1938. La reazione di Mussolini non si fa attendere: si provvede ad allontanare dai quadri dirigenziali fascisti gli iscritti all’AC, ma pensando pure di eliminare definitivamente da posti di responsabilità i membri di AC. Alla fine il papa a malincuore deve cedere per salvare la situazione: accetta di non parlare più del razzismo e dell’ebraismo per salvaguardare l’intesa del 1931, anche se continua fermamente a condannare il totalitarismo ed il nazionalismo.

Persecuzione nazi-fascista degli ebrei. La persecuzione nazi-fascista degli ebrei in Italia si svolse senza particolari difficoltà grazie all’appoggio di Mussolini, che ebbe un ruolo essenziale. Le leggi razziali del 1938 diedero, infatti, il via libera a quell’antisemitismo esasperato che, fino ad allora, il Duce era riuscito a dominare, assicurando addirittura l’anno precedente, che non ci sarebbe stata alcuna politica antiebraica in Italia. Ma dal 14 luglio 1938 «l’antisemitismo divenne ideologia e prassi ufficiali del fascismo italiano» (Storia della Shoah in Italia, v. I, 283), atteggiamento che potrebbe trovare una spiegazione, se non in una libera scelta dell’Italia fascista, in una sorta di “imposizione” compiuta dalla Germania nazista – all’epoca alleata dell’Italia – la quale già dal 1933 aveva varato una intensa legislazione antiebraiaca. Pio XI in questa circostanza volle precisare che le idee fasciste sulla razza non potevano assolutamente trovare spazio nell’ambito del cattolicesimo. In particolare il papa proprio dal 1938 aveva deciso di opporsi fortemente all’antisemitismo fascista, discostandosi pure dalla concezione antiebraica propria del cattolicesimo. Dalle semplici indagini della polizia fascista – volte ad accertare la presenza, il numero ed il ruolo sociale dei singoli ebrei in Italia – il passo alla discriminazione e poi alla persecuzione fu breve. In un primo momento la popolazione ebraica non sembrò emotivamente coinvolta dai fatti, quasi a volersi rifiutare di credere che si potesse arrivare alle conseguenze più estreme e che la svolta razzista di Mussolini fosse solo temporanea; poi, però, di fronte alle pressanti discriminazioni e vessazioni delle autorità, che con provvedimenti legislativi ed amministrativi avevano privato la popolazione ebrea dei diritti più elementari, si verificò la presa di coscienza e la decisione – per molti ebrei italiani – di lasciare il paese per rifugiarsi all’estero. Tra il 1938 ed il 1941 emigrarono circa 6000 ebrei. Dal 15 giugno 1940, però, la fuga divenne più difficile: uno specifico decreto impose l’internamento di quegli ebrei ritenuti “pericolosi” per l’ordine pubblico nei campi di prigionia, tra i quali va ricordato quello di Ferramonti Tarsia (CS), dove, secondo il piano fascista, sarebbero dovuti rimanere fino alla fine della guerra per essere trasferiti «nei paesi disposti a riceverli» (M. Sarfatti, Gli ebrei nell’Italia fascista,172). Nel maggio del 1942, con provvedimento amministrativo, gli ebrei maschi tra i 18 e 55 anni vennero avviati al “lavoro obbligatorio”. Fino al 1943 gli ebrei italiani furono duramente perseguitati dal regime fascista, che aveva come obbiettivo la loro eliminazione dal paese. Nel settembre 1941 i nazisti cominciarono la prassi dello sterminio. Dopo l’8 settembre 1943 essi diedero inizio a quella feroce persecuzione che portò allo sterminio di migliaia di ebrei italiani da nord al centro e fino a Roma. Ma la deportazione degli ebrei del ghetto di Roma, la comunità più numerosa, fu l’atto più vergognoso in assoluto: gli ebrei, infatti, furono illusi sul fatto che si sarebbero potuti salvare pagando 50 Kg di oro. Alla raccolta parteciparono anche comunità cattoliche, le quali contribuirono con ben 15 kg di oro. La Santa Sede, da parte sua, diede la sua disponibilità ad aggiungere, eventualmente, la parte mancante. Ma, nonostante il pagamento fosse avvenuto il 28 settembre, un reparto specializzato, nei giorni successivi, mise in atto uno scrupoloso saccheggio, alla fine del quale, furono deportati tutti gli ebrei del ghetto – 2091 – senza nessuna distinzione. Era l’alba del 16 ottobre 1943. La Santa Sede si adoperò con tutti i mezzi possibili per fermare lo sterminio degli ebrei, in particolare quelli del ghetto di Roma. Molti di loro fuggendo trovarono rifugio presso istituti religiosi, parrocchie e proprietà del Vaticano, di fatto extraterritoriali. Un cappuccino francese, p. Benoît Marie assisteva clandestinamente i fuggiaschi e forniva loro documenti di identità falsi. Ma va anche ricordata l’opera dell’allora mons. Ottaviani, il quale oltre ad accogliere gli ebrei rilasciava loro certificati di battesimo (Cf. G. Sale, Hitler, la Santa Sede e gli ebrei, 192-208). I nazisti erano a conoscenza di questa attività e nel febbraio del 1944 entrarono in San Paolo fuori le mura arrestando tutti coloro che vi si trovavano. A nulla valse la protesta del papa. Gli ebrei deportati ed uccisi in Italia furono circa 7900. Il 27 gennaio 2000 è stato istituito “Il giorno della memoria” per non dimenticare questo terribile olocausto.

Le foibe dimenticate. Le foibe (fovea=fossa) si presentano come profonde cavità rocciose naturali a forma di imbuto, ma al rovescio, che si formano a causa dell’erosione delle acque e sono tipiche del paesaggio carsico. Normalmente venivano usate dalle popolazioni locali come discariche naturali per ogni tipo di rifiuto. Tra il 1943 ed il 1945, in due ondate, esse si trasformano in veri e propri depositi di cadaveri, nel tentativo di nascondere le vittime della persecuzione comunista avvenuta nell’Istria settentrionale, tra le zone di Gorizia, Pola, Trieste e Fiume. Il primo momento ha luogo nell’autunno del 1943, dopo l’armistizio dell’8 settembre, quando il vuoto di potere sbaraglia l’esercito italiano e spinge i tedeschi ad effettuare feroci rappresaglie contro i traditori. Nell’Istria del nord, il movimento di liberazione croato-jugoslavo, d’accordo con molte delle autorità del luogo, inizia un processo di “epurazione” consistente nella cattura di tutti quegli italiani che, in qualche modo, simboleggiavano con la loro presenza quel potere statale “italiano” – in realtà si trattava del regime fascista – considerato oppressivo dalla popolazione croata. Al fattore politico si somma quello etnico e sociale: quest’ultimo provoca un’ondata persecutoria anche nei confronti dei possidenti italiani. I prigionieri, ammassati in particolar modo a Pisino e Pinguente, dopo essere stati torturati, seviziati e – nel caso di donne – molto spesso stuprate, subivano uno sbrigativo e simbolico processo che si concludeva con una sistematica condanna a morte. I cadaveri scomparivano nelle viscere della terra, come semplici “rifiuti” (G. Oliva, Profughi. Dalle foibe all’esodo: la tragedia degli italiani d’Istria, Fiume e Dalmazia, 61). L’avanzata dei tedeschi verso i territori istriani acutizza le uccisioni perché i partigiani comunisti, costretti a ritirarsi velocemente e disordinatamente, uccidono e gettano nelle foibe il resto degli italiani catturati. Nel 1945, mentre nel resto d’Italia si celebrava l’avvenuta liberazione, la Venezia Giulia, secondo i piani delle autorità di Belgrado, sottostava ad un violento processo di “jugoslavizzazione” a tolleranza “zero”. Nelle città tra Trieste e Gorizia il processo di “infoibazione” raggiunse l’apice massimo ed il limite della disumanità. Nelle cronache si parla di almeno 150 finanzieri catturati e “fatti a pezzi” dai partigiani. Non mancano vittime gettate ancora vive nelle foibe, o perché solamente ferite o per precisa volontà degli esecutori: messi in fila sull’orlo della foiba e legati tra loro, i primi prigionieri venivano fucilati trascinando via anche quelli vivi. Tra i prigionieri e le vittime anche sacerdoti, almeno quindici. Don Wagenhanger, tedesco, viene internato nel campo di Capodistria e vive in condizioni pietose insieme ad altri suoi connazionali. Una sorte peggiore tocca a don Angelo Tardicchio, giovane parroco di Villa Rovigno, catturato ed infoibato nella notte tra il 21 ed il 22 settembre del 1943. Viene ritrovato nella Foiba di Gallignana completamente nudo e con una corona di filo spinato sulla testa. Don Francesco Bonifacio scompare nel settembre del 1946. Solo anni più tardi si conosce la sua sorte: anche lui torturato, ucciso e gettato in una foiba. Tra questi vi sono anche sacerdoti croati, come il giovane don Miro Bulesic, della diocesi di Parenzo-Pola, sgozzato nel 1947 dai «titini» e beatificato a Pola nel settembre 2013. In totale, tra il 1943 ed il 1945 si possono contare tra le 4000 e le 5000 vittime delle foibe. Le foibe più conosciute sono quella di Basovizza, vicino Trieste, che raccolse un grandissimo numero di cadaveri e la foiba detta “dei colombi” a Vines (oggi territorio croato); da quest’ultima vennero estratti circa 84 corpi. Di questo massacro si venne a sapere solo a cose fatte per via della cortina di ferro alzata dai partigiani titini. La stessa Segreteria di Stato Vaticana ricevette una richiesta di aiuto solo nel mese di luglio del 1945, quando già gli alleati erano arrivati in quella che si chiamerà la “zona A”. Dunque non potè compiere nessun tipo di azione volta a fermare questa immane strage. La tragedia delle foibe va ricollegata a due puntuali momenti di quel travagliato periodo storico, la Seconda guerra mondiale, dalla quale l’Italia – che con la Germania in primo luogo, ha contribuito allo scoppio del conflitto – esce sconfitta . Per molto tempo delle foibe si è scritto e detto poco, negando alle migliaia di vittime, secondo quanto affermano diversi studiosi, il diritto ad una memoria storica “nazionale”, che rimane per un lungo periodo patrimonio locale ed esclusivo di chi ha vissuto direttamente questo evento doloroso. Solo verso la fine degli anni ’80, con i contributi di storici quali Miccoli, Fogar, Pupo, Spazzali, Sala, si è pervenuti ad una storicizzazione dell’evento in grado di metterne in luce le diverse cause di un fatto storico che «non riuscì mai a raggiungere la coscienza collettiva degli italiani, sia perché veniva letto entro la logica delle contrapposizioni ideologiche, anzi partitiche, tipiche degli anni del dopoguerra […] sia perché si intrecciavano con scelte di politica strategico-internazionale che non si voleva in nessun modo mettere in pericolo» ( G. Sale, L’occupazione di Trieste e il cosiddetto «genocidio degli italiani», 542). Nel 2004 la legge 92 del 30 marzo ha proclamato il 10 febbraio “Giorno del Ricordo delle foibe”.

Fonti e Bibl. essenziale

I fascisti contro l’Azione Cattolica: P. Scoppola, La Chiesa e il fascismo. Documenti e interpretazioni, Laterza, Bari 1971; G. Sale, Fascismo e Vaticano prima della conciliazione. Popolari, chierici e camerati, v. 2, Jaca Book, Milano 2007; M. Tagliaferri, L’unità cattolica. Studio di una mentalità, Ed. Gregoriana, Roma 1993, 284-286; M. Casella, L’Azione cattolica nell’Italia contemporanea, AVE, Roma 1992. E. Fattorini (a cura di), Diplomazia senza eserciti. Le relazioni internazionali della Chiesa di Pio XI, Carocci, Roma 2013; L. Ceci, L’interesse superiore. Il Vaticano e l’Italia di Mussolini, Laterza, Bari 2013; A. Acerbi (a cura di), La Chiesa e l’Italia. Per una storia dei loro rapporti negli ultimi due secoli, Vita e Pensiero, Milano 2003. R. Pertici, Chiesa e Stato in Italia. Dalla Grande guerra al nuovo concordato (1914-1984), Il Mulino, Bologna 2009; S. Rogari, Azione cattolica e fascismo, II, La crisi del 1938 e il distacco dal regime, in «Nuova Antologia», CXIII, 1978, 534, 340ss; P. Pennacchini, La santa Sede e il Fascismo in conflitto per l’Azione Cattolica, LEV, Città del Vaticano, 2012. Persecuzione nazi-fascista degli ebrei: Storia della Shoah in Italia, a cura di M Flores (et al.), 2voll., Utet, Torino 2010, v. 1, 146-147; A. Riccardi, L’inverno più lungo. 1943-44: Pio XII, gli ebrei e i nazisti a Roma, Laterza, Roma-Bari 2008; G. Sale, Hitler, la Santa Sede e gli ebrei, Jaca Book, Milano 2004, pp.192-208; R. Moro, La Chiesa e lo sterminio degli ebrei, Il Mulino, Bologna 2002; E. Fattorini, Pio XI, Hitler e Mussolini. La solitudine di un papa, Torino, Einaudi, 2007. M.A. Matard-Bonucci, L’Italia fascista e la persecuzione degli ebrei, trad. it. Bologna, il Mulino, 2008. G. Sale, Le leggi razziali in Italia e il Vaticano, Milano, Jaca Book, 2009; M. Sarfatti, Gli ebrei nell’Italia fascista. Vicende, identità e persecuzione, Einaudi, Torino 2000; R. Ascarelli (a cura di), Oltre la persecuzione. Donne, ebraismo, memoria, Carocci, Roma 2004; A. Foà, Diaspora, Laterza, Bari 2009; A. Chiappano, Memorialistica della deportazione e della Shoah, Milano, Unicopli 2009. Le foibe dimenticate: G. Sale, L’occupazione di Trieste e il cosiddetto «genocidio degli italiani», in Civ. Catt., 2004 I, 532-543; G. Oliva, Profughi. Dalle foibe all’esodo: la tragedia degli italiani d’Istria, Fiume e Dalmazia, Mondadori, Milano 2005; G. Valdevit, Foibe: l’eredità della sconfitta, in G. Valdevit (a cura di), Foibe. Il peso del passato. Venezia Giulia 1943-1945, Marsilio, Venezia 1997, 16; R. Pupo, Violenza politica tra guerra e dopoguerra, in G. Valdevit (a cura di), Foibe. Il peso del passato. Venezia Giulia 1943-1945, Marsilio, Venezia 1997. B. Coceani, Mussolini, Hitler e Tito alle porte orientali d’Italia, Istituto Giuliano di storia e documentazione, 2002; R. Pupo, La foiba di Basovizza, in Irsml, Un percorso tra le violenze del Novecento nella provincia di Trieste, Istituto regionale per la storia del movimento di liberazione nel Friuli Venezia Giulia, Trieste 2006; G. Barral, Borovnica 1945, al confine orientale d’Italia. Memorie di un ufficiale italiano, a cura di R. Timay, Paoline, Milano, 2007; R. Pupo, Foibe ed esodo: un’eredità del fascismo?, in R. Pupo, Il confine scomparso. Saggi sulla storia dell’Adriatico orientale, Istituto regionale per la storia del movimento di liberazione nel Friuli Venezia Giulia, Trieste, 2007.


LEMMARIO




Picardi Paola


 





Pietà - vol. II


Autore: Domenico Rocciolo

Nel linguaggio religioso dell’Ottocento il termine pietà voleva dire intensa unione con Dio, dalla quale scaturivano l’amore per il prossimo e tutte le virtù cristiane. Essa non si identificava con la devozione, né era equivalente al concetto di spiritualità. Nutrita da una tradizione plurisecolare di manifestazioni di fede, si rinnovava all’interno di un esteso movimento di associazioni, di fondazioni religiose e di strutture ecclesiastiche, che raccogliendo la ricca eredità spirituale del passato, operava con appassionato dinamismo caritativo e un denso attivismo pastorale. Spiritualità e apostolato, vie della pietà, attingevano alla vita di preghiera, alla meditazione, alla comunione frequente e alle devozioni soprattutto eucaristica e mariana. L’impegno di testimonianza di fede profuso dalla Chiesa italiana sullo scorcio del secolo si esprimeva in un clima mosso da pressioni del mondo culturale laicista e dalla diffusione degli ideali anticlericali. All’indomani dell’Unità d’Italia, al processo di espansione capitalistica, che progressivamente si radicava nella Penisola trascinando con sé sacche di mali sociali profondi e altrettante miserie morali, molti uomini e donne di Chiesa opponevano esperienze forti di spiritualità e di carità, inducendo non pochi a definirle forme alte e modelli di pietà. Il termine pietà fletteva così verso il concetto di santità declinata come espressione di una vocazione evangelica fondata sull’orazione, sulla vita sacramentale, sulla devozione, ma anche sul conforto e sul sostegno dei più deboli, degli emarginati e dei sofferenti. Non vi erano inflessioni sentimentali di religiosità, ma riflessi profondi dell’intimo rapporto esistente tra Dio e gli uomini. Questa accezione del termine pietà veniva ripresa nel Novecento e diveniva cara allo storico lucano don Giuseppe De Luca, che documentava nei suoi studi come il mistero della pietà si rinnovasse sistematicamente nella relazione d’amore che univa l’uomo a Dio. Se alla fine dell’Ottocento gli ambienti cattolici saldavano il concetto di pietà alle battaglie ideologiche per difendere la Chiesa e legavano l’esperienza religiosa alla vita di una comunità, dove era possibile sperimentare la consolazione, la fraternità e la carità, nei primi decenni del secolo successivo faceva breccia una prospettiva più aperta e di più ampio respiro, per la quale la pietà appariva sganciata da ancoraggi istituzionali e si caratterizzava per la profondità della coscienza, dalla quale proveniva l’autentica testimonianza cristiana. In sostanza, l’esperienza religiosa dei credenti si distingueva per lo sforzo di essere testimoni della fede nella consapevolezza di dover vivere la contingenza temporale al fine di innestarvi la radice eterna. Nel rapporto bipolare tra intimità della coscienza e impegno di carità, si misurava la pietà, la quale poteva assumere accenti fortemente marcati dalle responsabilità verso i bisognosi. Nel 1943, di fronte agli orrori della guerra e ai dolorosi gemiti delle popolazioni, Pio XII rivolgeva al mondo cristiano «un grido di invocazione di aiuto e di pietà». Solo la conoscenza del Padre celeste e l’offerta di conforto e di aiuto potevano sanare le ferite inferte dalle terribili devastazioni in corso.

Il Concilio Vaticano II riproponeva l’esercizio della fede, della speranza e della carità e la propensione alla santità in una prospettiva di rinvigorimento dell’attività missionaria e dell’apostolato. Nel frattempo, cultori di storia, teologia, sociologia, psicologia e antropologia culturale, manifestavano un crescente interesse per la religione popolare. La storiografia tardo ottocentesca aveva proposto il recupero delle memorie locali in un’ottica di storia patria, ma anche aveva contribuito a svalutare la pietà popolare ritenendola un groviglio di superstizioni, un’espressione minima dello spirito, un relitto di tempi tramontati. Il Concilio ribaltava questo giudizio e apriva la strada ad un profondo ripensamento sulla religione popolare. In particolare, a proposito del culto della Beata Vergine, esortava i fedeli ad avere in grande stima le pratiche e gli esercizi di pietà, raccomandati costantemente dal magistero nel corso dei secoli, restando consapevoli che la vera devozione non consisteva in uno sterile e passeggero sentimentalismo, né in una vana credulità, bensì procedeva dalla fede autentica, dalla quale si era portati a riconoscere la preminenza della Madre di Dio. Sulla base di questi fondamenti, la Chiesa prendeva maggiormente in considerazione il fenomeno della religione popolare e liberandola dalle modulazioni antropologiche e sociologiche tipiche della cultura coeva, la riproponeva come preziosa forma di pietà, che purificata, interiorizzata, maturata e vissuta quotidianamente nel rapporto con Dio, era capace di evangelizzare e di curare le piaghe della sofferenza, sia esteriore che interiore. La distanza tra i termini religiosità popolare e pietà popolare veniva pressoché annullata, laddove entrambe erano considerate espressioni di fede adulta e esternazioni del senso profondo del divino.

Nel 1975, con l’esortazione apostolica Evangelii nuntiandi, Paolo VI invitava la Chiesa a guardare con favore alle forme particolari della ricerca di Dio e della fede manifestate dal popolo. Per lungo tempo le espressioni della fede popolare erano state considerate contaminate dal profano e talvolta erano state disprezzate, ma era il momento di riscoprirle e di valorizzarle. Il Papa apprezzava la pietà dei semplici e dei poveri, che se ben orientata mediante un’adeguata pedagogia di evangelizzazione, era ricca di valori e generava atteggiamenti spirituali autentici. Per questa ragione la definiva pietà popolare, nel senso di religione del popolo, piuttosto che religiosità. Il Papa confermava la linea di pensiero che aveva già enunciato nel 1967 con l’esortazione apostolica Signum Magnum e nel 1974 con la Marialis Cultus, ambedue dedicate alla pietà mariana. Soprattutto con quest’ultima aveva sostenuto che le devozioni erano una preziosa ricchezza per la Chiesa e che bisognasse rinnovarle, depurandole degli elementi caduchi per dar valore a quelli perenni, incorporando i dati dottrinali acquisiti dalla riflessione teologica e proposti dal magistero ecclesiastico. Alle Conferenze episcopali, alle Chiese locali, alle famiglie religiose e alle comunità dei fedeli, rivolgeva l’invito a generare una genuina attività creatrice e a procedere ad una revisione degli esercizi di pietà verso la Beatissima Vergine. Alcuni anni più tardi, nel 1979, anche Giovanni Paolo II interveniva sull’argomento e parlava della pietà popolare come espressione non di un sentimento vago e carente di solida base dottrinale, ma come rivelazione dell’anima di un popolo, in quanto toccata dalla grazia e forgiata dall’incontro tra l’opera di evangelizzazione e la cultura locale. Guidata, sostenuta e se necessario purificata dall’azione dei pastori ed esercitata ogni giorno, questa forma di pietà apparteneva ai poveri e ai semplici, i quali, prediletti da Dio, traducevano nei loro atteggiamenti umani il mistero della fede che avevano ricevuto. Pochi anni più tardi il Codice di diritto canonico statuiva che nei santuari si offrissero i mezzi della salvezza annunziando la parola di Dio, incrementando la vita liturgica e coltivando le forme sane della fede popolare. Nel 1992, il Catechismo della Chiesa cattolica definiva le forme di pietà popolare radicate nelle diverse culture, circa le quali pur vigilando per illuminarle con la luce della fede, la Chiesa le favoriva, perché esprimevano un istinto evangelico e una saggezza umana e arricchivano la vita cristiana. Quindi, nel 2002, la Congregazione per il Culto Divino e la Disciplina dei Sacramenti pubblicava un Direttorio su pietà popolare e liturgia, nel quale qualificava la pietà popolare come forma e manifestazione cultuale di carattere privato o comunitario, che nell’ambito della fede cristiana si esprimeva con i moduli della liturgia, ma con le peculiarità derivanti dal genio e dalla cultura di un popolo. Considerata un vero tesoro spirituale della Chiesa, la pietà popolare era congiunta alla liturgia e mostrava pienamente la sete di Dio che solo i semplici e i poveri potevano conoscere, rendeva capaci di generosità e di sacrificio fino all’eroismo e comportava non solo il senso della paternità, della provvidenza e della presenza amorosa e costante di Dio, ma l’insorgere di genuini atteggiamenti interiori come la pazienza, il senso della croce, il distacco dai beni materiali, l’apertura agli altri e la devozione. I sinodi diocesani raccoglievano le istruzioni della Congregazione e ascoltate le relazioni delle commissioni liturgiche e della pietà popolare, intervenivano per accrescere e regolare le manifestazioni di fede del popolo legate all’anno liturgico.

Nel 2007, il Santo Padre Benedetto XVI, con l’esortazione apostolica Sacramentum Caritatis, interveniva su un aspetto centrale della pietà del popolo di Dio, raccomandando ai pastori della Chiesa e ai fedeli di vivere intensamente l’adorazione eucaristica: una consuetudine di preghiera e di raccoglimento, che si aggiungeva ad altre forme di venerazione del SS.mo Sacramento, quali la processione del Corpus Domini, le Quarant’ore e i congressi eucaristici locali, nazionali e internazionali.

Fonti e Bibl. essenziale

Discorsi e radiomessaggi di Sua Santità Pio XII, vol. V, Città del Vaticano, Tipografia Poliglotta Vaticana, 1955, 160; G. De Luca, Introduzione alla storia della pietà, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 1962; I documenti del Concilio Vaticano II, Roma, Edizioni Paoline, 1966, 142-144; S.S. Paolo VI, Encicliche e discorsi, vol. XXVI, Alba, Edizioni Paoline, 1976, 651-652; Insegnamenti di Giovanni Paolo II, vol. II, Città del Vaticano, Libreria Editrice Vaticana, 1979, 293-294; G. De Rosa, La religione popolare. Storia, teologia, pastorale, Roma, Edizioni Paoline, 1981; Codice di diritto canonico. Testo ufficiale e versione italiana, Roma, Unione Editori Cattolici Italiani, 1983, can. 1234 § 1; Catechismo della Chiesa cattolica, Città del Vaticano, Libreria Editrice Vaticana, 1992, n. 1679, 429; A. Prosperi, Storia della pietà, oggi, in «Archivio italiano per la storia della pietà», IX (1996) 3-29; Congregazione per il Culto Divino e la Disciplina dei Sacramenti, Direttorio su pietà popolare e liturgia. Principi e orientamenti, Città del Vaticano, Libreria Editrice Vaticana, 2002, 21; Insegnamenti di Benedetto XVI, III, 1-2007, Città del Vaticano, Libreria Editrice Vaticana, 2008, 292-375.


LEMMARIO