Associazione Italiana dei Professori di Storia della Chiesa

Dizionario Storico Tematico La Chiesa in Italia
Dalle origini all'Unità Nazionale
Roma 2015
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Pietà illuminata - vol. I


Autore: Belluomini Flavio

Per comprendere il concetto di “pietà illuminata” è necessario individuarne le radici e tracciarne lo sviluppo. Cercheremo per questo di ripercorrere le tappe principali di codesta realtà della seconda metà del XVIII secolo realizzatasi soprattutto nei domini asburgici. Presenteremo poi come in Italia il granducato di Toscana e la Lombardia, territori soggetti alla Casa d’Austria, siano stati i luoghi principali della sua realizzazione.

È opportuno porre previamente l’attenzione sul fatto che, già nella prima metà del secolo, le molte devozioni che caratterizzavano la pietà del popolo (tra le quali spiccava il culto alla Madonna, ai santi, alle anime del purgatorio e alle reliquie) avevano sollevato la reazione delle élites religiose e culturali. A tale proposito non mancarono opere scritte, di cui il trattato Della regolata devozione dei cristiani (scritto nel 1742 e pubblicato nel 1747) di Ludovico Antonio Muratori si presentava come una sintesi programmatica. Muratori, che coniugava l’esperienza di studioso con quella di parroco, era sensibile alle esigenze della pietà popolare, ma nello stesso tempo sosteneva che la devozione doveva conformarsi alla fede professata dalla Chiesa stessa, che era fede trinitaria e cristologica. Per esercitare questa devozione egli proponeva la liturgia ufficiale della Chiesa di cui fondamento era la messa. Dalla liturgia e dalla stessa celebrazione della messa dovevano essere eliminate quelle superfetazioni introdottesi nel tempo, che ne potevano mettere in ombra la portata trinitaria. La messa doveva poi essere partecipata e compresa dal popolo perché fosse veramente per tutti il fondamento di ogni devozione, «la devozione delle devozioni». A questo si deve aggiungere che per il Muratori il vero culto non poteva essere scisso da una dimensione caritativa; era quindi necessario semplificare quegli apparati liturgici barocchi che tanto coinvolgevano il popolo e stornare le offerte verso i poveri. Tale impostazione apriva nuove piste da percorrere e invitava a porre l’attenzione sul culto della Chiesa antica; ciò, se accolto, avrebbero inevitabilmente inciso sulla pietà del popolo e sulle sue forme espressive.

Le proposte muratoriane non riuscirono a far breccia nella religiosità barocca di cui erano imbevuti i contemporanei, anche se le esigenze di una pietà fondata su una “regolata devozione” non vennero meno. Queste continuarono non solo in ambito religioso e culturale, ma si allargarono alla realtà politica. Le tematiche religiose infatti e, non da ultimo, quelle legate alle espressioni della pietà avevano delle ricadute sulla vita degli Stati. Come mostra la polemica intercorsa sulla proposta di riduzione delle feste di precetto, la pluralità di tali celebrazioni non poteva non interessare ai sovrani, in quanto l’astensione richiesta dal lavoro nei giorni festivi infrasettimanali incideva sull’economia. Tale questione, ampiamente e spesso aspramente discussa, fece emergere la divisione tra i vescovi sulla materia, ma soprattutto mostrò come la parte vincente nella gerarchia cattolica fosse quella che mirava allo status quo. Negli anni Quaranta e Cinquanta lo scarto tra la pietà popolare e le esigenze politiche e sociali del tempo crebbe e divenne più forte dopo la morte di Benedetto XIV, nel 1758, che si era dimostrato sensibile a queste tematiche.

 A partire dagli anni Sessanta le indicazioni muratoriane vennero progressivamente fatte proprie dal riformismo illuminato di stampo asburgico nel suo crescente giurisdizionalismo.

Sotto l’influsso dell’Aufklärung cattolica, che perseguiva, nella pluralità delle sue espressioni, l’elaborazione di una filosofia cristiana aperta allo spirito dei lumi, i sovrani furono portati a sviluppare una visione razionalistica e utilitaristico-civilizzatrice della religione. Gli orientamenti dell’Aufklärung richiedevano, nella logica del “rischiaramento”, di procedere ad una razionalizzazione del culto e di conseguenza ad una lotta contro ogni espressione della pietà che potesse essere interpretata come irrazionale e superstiziosa. La religione e lo stesso culto dovevano inoltre contribuire a formare buoni cristiani che fossero contemporaneamente buoni sudditi, utili per la crescita dello Stato. La politica giurisdizionalistica sarebbe così intervenuta non solo riguardo alle esenzioni delle proprietà ecclesiastiche e all’ingerenza della Curia romana nella realtà statale, ma anche riguardo alla pietà del popolo. La molteplicità dei luoghi di culto, le confraternite con le loro attività devozionali e di suffragio, le chiese dei regolari con le devozioni ai propri santi dovevano rientrare effettivamente sotto l’autorità del sovrano illuminato.

La prospettiva politico-utilitaristica del dispotismo illuminato, alimentata dagli influssi culturali, non avrebbe trovato ovviamente accoglienza nella Sede di Roma; essa venne invece ad incontrarsi con le esigenze di una religiosità rigorista spesso collegata all’austera spiritualità giansenista.

A metà degli anni Sessanta nei gruppi del tardo giansenismo si insisteva sull’“oscuramento” della vera dottrina della Chiesa antica procurato non solo dalla “scolastica” medievale, ma anche da motivi più recenti. Nei tempi moderni l’oscuramento sarebbe stato ampliato dall’attività dei gesuiti, per la loro morale lassista, la loro immagine di Chiesa monarchico-papale e per una pietà di impronta popolare ritenuta superficiale, esteriore e senza fondamento teologico. I rigoristi e i giansenisti contestavano decisamente la popolarizzazione del messaggio cristiano portata avanti dalle missioni al popolo, soprattutto quelle gesuitiche, molto incisive nella spiritualità del tempo, apprezzate e incentivate dalla Chiesa di Roma e una spiritualità benigna che trovava riferimento negli scritti di Alfonso Maria de’ Liguori. Tale dimensione popolare della pietà era ritenuta il risultato dell’oscuramento: un insieme di pratiche esteriori, vuote, non esigenti. Emergeva così con forza, da parte dei rigoristi, la necessità di riforme concrete che combattessero quello che veniva definito “fariseismo”, richiedessero la conversione e permettessero la comprensione e adesione ai misteri divini celebrati.

A partire dagli anni Settanta, anche a causa delle chiusure di Pio VI, salito sul soglio pontificio nel 1775, di fronte alle istanze riformatrici suddette, i motivi culturali legati ad una religiosità razionale e utilitaristica che rispondesse alle esigenze del tempo dei lumi, quelli più religiosi scaturiti dalla visione rigorista e giansenista e quelli politico-economici del dispotismo illuminato asburgico vennero ad unirsi e trovarono nella pietà un punto di accordo. Tra la fine degli anni Settanta, quindi, e il decennio seguente la pietà illuminata veniva a presentarsi come la realtà principale per porre mano alle riforme. In questi anni, il periodico francese Nouvelles ecclésiastiques avrebbe dato voce alla critica giansenista toccando queste tematiche, mentre in Italia gli Annali ecclesiastici di Firenze e la Raccolta di opuscoli interessanti la religione, patrocinata dal vescovo Scipione de’ Ricci, tra il 1783 e il 1790, contenevano temi inerenti alla pietà, alla superstizione e proposte di riforma, ormai viste realizzabili con il sostegno dei sovrani.

Sulla base del processo storico presentato, possiamo comprendere meglio cosa si intenda per “pietà illuminata”. Le esigenze di una “regolata devozione” venivano radicalizzate al punto che le manifestazioni esteriori della pietà popolare erano individuate come il frutto dell’oscuramento a cui esse stesse contribuivano. La pietà, attraverso le riforme liturgiche e l’istruzione, doveva essere illuminata affinché divenisse autentica. Solo in questo modo essa avrebbe condotto i credenti alla conoscenza dei misteri divini e all’adesione ad essi. Tutto ciò si sarebbe realizzato, non come ai tempi del Muratori, avendo la Chiesa di Roma come il referente ultimo, ma attraverso le Chiese locali e con il sostegno/intervento dei principi cattolici i quali, dalle riforme stesse, avrebbero avuto utilità per lo Stato.

Si aprì una stagione di lotta al trionfalismo barocco delle confraternite, alla predicazione dei regolari e a ogni forma di pietà che potesse essere giudicata superstiziosa. Vennero prese di mira devozioni care al sentimento popolare come quella al Sacro Cuore (considerata “devozione tenera” e senza fondamento teologico) e la pratica della Via Crucis. Ma accanto alla parte combattiva e potremmo dire distruttiva, si sviluppò la parte costruttiva della pietà illuminata, tra cui spiccava l’insistenza sull’istruzione, con ampio uso di catechismi di matrice giansenista, al fine di “illuminare” il popolo sul significato del culto e della dottrina. Tale istruzione – e questo è un altro aspetto degno di nota – doveva essere fatta da parroci ben preparati, nelle chiese parrocchiali, nel rispetto dei tempi liturgici e della centralità della domenica.

All’interno del suddetto processo, si passò dal culto a questioni più ampie ponendo l’attenzione su quelle che erano definite le alterazioni intervenute col passare dei secoli nelle strutture della Chiesa. Si criticava l’ampliamento dell’autorità del pontefice romano e della sua curia a discapito delle Chiese locali, l’eccessiva proliferazione degli Ordini religiosi e la loro esenzione dall’autorità dei vescovi; si chiedeva inoltre di ristabilire la prassi sinodale. Questo conduceva verso una Chiesa episcopalista. Inoltre il sempre maggiore intervento dei sovrani circa sacra accrebbe la possibilità di una Chiesa di impronta nazionale.

Questi ultimi aspetti produssero l’inevitabile scontro con Roma. Nello stesso tempo la battaglia che i sostenitori di una pietà illuminata dovevano condurre era quella con il sentimento religioso del popolo che si sentì limitato e spesso offeso nelle manifestazioni della sua religiosità.

Come accennato, la Lombardia austriaca e il granducato di Toscana, da cui furono influenzati in parte anche altri territori italiani, furono i luoghi dove trovò sviluppo la pietà illuminata.

È interessante notare come nella seconda metà del secolo si respiri, in un crescendo, il nuovo clima. In una memoria sulle confraternite, nel 1767, un membro della Giunta economale di Milano sosteneva che queste indebolivano la società con atti superstiziosi e inutili, mentre nel governo austriaco si percepivano i missionari itineranti come persone animate da fanatismo religioso. Dopo il 1780, morta Maria Teresa d’Austria, il figlio Giuseppe II si pose nell’ottica di azioni più concrete, di cui fu segno eloquente l’espunzione della festa di Gregorio VII dai calendari liturgici dei domini asburgici, nel 1783. L’imperatore, tra il 1783 e il 1786, emanò veri e propri regolamenti sulle cerimonie e sulle pubbliche devozioni. La soppressione delle molte corporazioni religiose (istituzioni di riferimento per le pratiche devozionali e per l’aggregazione sociale, attorno alle quali gravitavano risorse economiche), ridotte ad una sola a partire dal 1783, gli interventi per limitare le spese per suffragi e feste religiose rientravano in un quadro di intervento diretto da parte dell’autorità sovrana. Nel 1784 Giuseppe II tornò sulla questione della diminuzione delle feste di precetto per i territori asburgici; il 17 marzo 1786 Pio VI finì per accondiscendere alle richieste dell’imperatore. Davanti agli interventi del sovrano, spesso, le reazioni popolari furono negative e, in certi casi, violente.

Per quello che riguarda la Toscana, il rapporto tra il granduca Pietro Leopoldo di Asburgo-Lorena e alcuni vescovi di diocesi toscane minori ed altri ecclesiastici dette origine a una seria riflessione sulla pietà illuminata, contribuendo al suo sviluppo. Fu con il fiorentino Scipione de’ Ricci, divenuto vescovo di Pistoia e Prato nel 1780, che si ebbero incisive riforme, molte delle quali sanzionate nei canoni del Sinodo di Pistoia del 1786.

Il de Ricci aveva sensibilizzato le diocesi con istruzioni pastorali, tra cui l’Istruzione pastorale sulla nuova devozione al Cuor di Gesù del 1781 e l’Istruzione sulla necessità e sul modo di studiare la religione del 1782 (quest’ultima si rifaceva ad un’istruzione del 1776 dell’arcivescovo di Lione Antoine de Malvin de Montazet, di impronta giansenista). Negli scritti del de’ Ricci, come nelle sue omelie, si può rintracciare un chiaro progetto che mira non solo ad eliminare devozioni ritenute errate, superstiziose e fuorvianti, ma a porre l’attenzione sulla necessità di “comprendere”, tramite l’istruzione fatta dai parroci, la lettura del vangelo e le preghiere liturgiche in volgare, i misteri della fede. Emerge poi la sua idea di Chiesa fortemente comunitaria, incentrata sulla figura del vescovo e sulla vita delle parrocchie, ritenute i luoghi per vivere una religiosità non individualistica. Con due motuproprio granducali del 1783 era stata stabilita la centralità della parrocchia per le due diocesi, a detrimento degli altri centri di culto. Sempre col sostegno del granduca il de’ Ricci aveva realizzato altre riforme concrete come la proibizione della predicazione dei regolari senza il permesso del vescovo e stabilito un regolamento uniforme delle celebrazioni liturgiche. Nel 1783 aveva presentato, su richiesta del granduca, un’istruzione pastorale dell’arcivescovo Girolamo di Colloredo che nella sua arcidiocesi di Salisburgo, ove egli deteneva anche i poteri sovrani, aveva realizzato quell’epurazione del culto al fine di renderlo edificante per il popolo ed utile per lo Stato. Da questa istruzione il de’ Ricci avrebbe preso ispirazione per molte riforme tra cui la necessità dell’unicità dell’altare nelle chiese, procedendo alla proibizione di celebrazioni di più messe in contemporanea e, in alcuni casi, alla demolizione degli altari laterali nelle Chiese.

Sovrano e vescovo andarono all’unisono fino alla celebrazione del sinodo, preceduto dai Cinquantasette punti ecclesiastici elaborati dal granduca e inviati nel gennaio 1786 all’episcopato toscano. In essi Pietro Leopoldo insisteva sulla necessità di riforme inerenti al culto nello spirito di una pietà illuminata ed esortava a fare sinodi diocesani.

Il sinodo di Pistoia dette disposizioni concrete come quella della comunione dei fedeli durante la messa con particole consacrate durante la celebrazione, respinse la devozione “carnea” al Cuore di Gesù, regolò l’esercizio della via Crucis, raccomandò una devozione regolata alla Vergine (disponendo che ad essa si dessero solo i titoli menzionati nelle Scritture), ai santi e alle reliquie. Chiese inoltre di far cessare l’usanza di tenere velate le immagini sacre, nonché le pitture nei luoghi di culto dovevano rappresentare solo episodi edificanti menzionati nell’Antico e Nuovo Testamento. In quest’ottica rigoristica avrebbero dovuto realizzarsi le riforme del breviario e del messale ad uso delle due diocesi.

Detto sinodo si realizzò con la protezione dell’autorità laica e sotto l’influsso e la collaborazione effettiva dei giansenisti di Pavia, in uno spirito richerista. Nelle intenzioni di Pietro Leopoldo l’assise pistoiese era la premessa per altri sinodi diocesani che dovevano culminare in un sinodo nazionale toscano al fine di sostenere le riforme. L’assemblea dei vescovi della Toscana, convocata dal granduca nel 1787, che sostituì il progettato sinodo nazionale, mostrò però che la maggioranza dei presuli era contro le proposte che emergevano dall’alleanza del granduca e del vescovo de’ Ricci. I vescovi delle diocesi del granducato, tra cui i tre metropoliti, si posero a favore della pietà popolare e a sostegno delle prerogative del papa. Inoltre le disposizioni del vescovo de’ Ricci, che divenivano sempre più concrete, provocarono, come era da immaginarsi, violente reazioni nella popolazione e critiche da parte del clero. La partenza di Pietro Leopoldo per Vienna, dove sarebbe andato per cingere la corona imperiale, lasciando sul trono di Toscana il figlio Ferdinando III, e soprattutto gli eventi rivoluzionari, che si sarebbero estesi ai territori italiani, cambiarono gli scenari politici, lasciando il de’ Ricci isolato. Il sinodo sarebbe stato condannato nel 1794 con la bolla di Pio VI Auctorem fidei. Tale condanna trascinò con sé le proposte della pietà illuminata e di conseguenza anche ciò che quest’ultima aveva assunto dalla regolata devozione.

Dopo gli anni rivoluzionari e la sconfitta ricciana, il devozionismo ottocentesco, popolare o anche quello praticato dalle élites, non fu all’insegna della pietà illuminata né di una regolata devozione, ma piuttosto di una “normativizzazione” da parte dell’autorità ecclesiastica in una attenzione alla dimensione popolare e nella fedeltà a Roma.

Fonti e Bibl. essenziale

K.O.F. von Aretin, Cattolicesimo riformatore, illuminismo cattolico e assolutismo illuminato, in Il Sinodo di Pistoia del 1786. Atti del Convegno internazionale per il secondo centenario, 1-9; B. Pilkington, La liturgia nel sinodo ricciano di Pistoia, «Ephemerides liturgicae», 43 (1929), 410-424; F. Venturi, Settecento riformatore. I, Da Muratori a Beccaria, Torino, Einaudi, 1969; Donati C., Dalla “regolata devozione” al “giuseppinismo” nell’Italia del Settecento, in Cattolicesimo e lumi nel Settecento italiano, a cura di M. Rosa, Roma, Herder, 1981, 77-98; M. Rosa, Politica ecclesiastica e riformismo religioso in Italia, «Cristianesimo nella storia» 10/2 (1989), 227-249; A. Burlini Calapaj, Devozioni e “Regolata Divozione” nell’opera di Ludovico Antonio Muratori, Roma, C.L.V.-Edizioni Liturgiche, 1997, (Bibliotheca “Ephemerides liturgicae”, “Subsidia”); E. Cattaneo, Il culto cristiano in occidente. Note storiche, Roma, C.L.V.-Edizioni Liturgiche, 1992, (Bibliotheca “Ephemerides liturgicae”, “Subsidia”), 352-451; M. Rosa, Settecento religioso. Politica della Ragione e religione del cuore, Venezia, Marsilio, 1999; M. Rosa, Dalla «religione civica» alla «pietà illuminata»: la Cintola della Vergine di Prato, «Rivista di storia e letteratura religiosa» 38/2 (2002), 235-269; M. Rosa, Il giansenismo nell’Italia del Settecento: dalla riforma della Chiesa alla democrazia rivoluzionaria, Roma, Carocci, 2014, 135-196.

Immagini:

1) Ludovico Antonio Muratori
2) I fratelli Giuseppe II e Pietro Leopoldo d’Asburgo-Lorena
3) Il vescovo di Pistoia e Prato Scipione de’ Ricci
4) Il sinodo di Pistoia del 1786

LEMMARIO




Pietroforte Stefania


 





Pieve - vol. I


Autore: Tommaso di Carpegna

Derivato dal latino plebs (popolo), il termine ha tre significati correlati: una comunità di battezzati, un edificio di culto provvisto di fonte battesimale, il distretto di pertinenza questa chiesa. Durante l’evangelizzazione fra tarda antichità e alto medioevo, si svilupparono comunità periferiche di credenti che avevano come nodi le chiese battesimali sparse nelle campagne. Queste ebbero in genere il nome di parrocchie, ma in Italia centrosettentrionale e in Corsica furono chiamate pievi. Il limite meridionale della loro presenza, già ritenuto corrispondente all’asse Viterbo-Chieti, è stato spostato dalla ricerca contemporanea fino a comprendere anche l’area salernitana e beneventana. Il resto d’Italia meridionale e insulare non conobbe invece questa forma di organizzazione del territorio.

Le prime pievi sono attestate in Toscana – almeno come termine impiegato nella documentazione – alla fine del VII secolo e si diffondono in tutta l’Italia centrosettentrionale nel corso dei tre secoli seguenti, costituendo i gangli fondamentali, soprattutto a partire dalle riforme del periodo carolingio, di un articolato sistema di gestione e controllo del territorio rurale. Differentemente dalle numerose chiese e cappelle fondate da privati, la pieve era una chiesa pubblica, sottoposta – almeno in termini di diritto – direttamente al vescovo e affidata a un collegio di chierici retto da un arciprete. Essa aveva una propria circoscrizione ricavata all’interno della diocesi, entro la quale esercitava le prerogative di chiesa matrice sul popolo abitante nell’area, che doveva ricevervi il battesimo, corrispondere le decime e le primizie e accorrere in occasione delle festività maggiori. All’interno del distretto plebano (detto anche piviere e pievania), le cappelle, gli oratori e gli altri edifici di culto (qualora non fossero stati resi esenti) dipendevano dalla pieve e dal suo clero e non godevano dei diritti parrocchiali. Esistevano anche pievi cittadine, con funzioni di matrice, distinte rispetto a quelle della cattedrale: per esempio ad Arezzo.

Questa organizzazione fu tipica dell’alto medioevo, fino al secolo XI compreso, quando erano pienamente in essere i sistemi abitativi e gestionali delle curtes (in area franco-longobarda) e dei fundi (in area bizantina), nei quali le grandi proprietà fondiarie erano spesso non compatte e in cui la principale forma di insediamento nelle campagne era ancora l’abitato sparso, cosicché le cappelle private non erano in grado di acquisire ampie funzioni pastorali e di cura d’anime. La pieve, al contrario, funzionava proprio come centro di raccordo e di raccolta di una popolazione che, sparpagliata in villaggi e case isolate, vi confluiva per ricevere il battesimo: per questa ragione, l’edificio sacro si trovava spesso lungo una importante via di comunicazione, o sulle sponde di un fiume, o nel fondovalle. Da ciò scaturisce la questione, molto dibattuta dalla storiografia, se le pievi siano o meno da considerarsi come prosecuzione diretta, in senso istituzionale e finanche topografico, degli antichi pagi romani. La risposta che è stata data è articolata, occorrendo distinguere tra l’area bizantina, dove la continuità è riconoscibile, e l’area franco-longobarda, dove le cesure sono più evidenti (Castagnetti); ma in effetti tale correlazione va sottolineata, almeno dal punto di vista tipologico, in quanto sia il pagus che la pieve rispondevano ad esigenze insediative analoghe.

Il sistema per pievi cominciò a entrare in crisi nel corso del secolo XI, quando la formazione delle signorie territoriali di banno e l’incastellamento sempre più diffuso mutarono profondamente i sistemi abitativi, che divennero sempre più accentrati. Dall’inizio del XII secolo le chiese castrali, a volte sostenute dal signore del luogo, presero a rivendicare con sempre maggior determinazione alcuni diritti parrocchiali (messa pubblica festiva, penitenza privata, decime, cimitero e diritti di sepoltura), dando vita a conflitti molto accesi con i collegi dei chierici della pieve. In alcune zone, come nel Lazio, l’incastellamento provocò la definitiva scomparsa del sistema plebano e l’attribuzione di tutti i diritti parrocchiali alle chiese di castello. Nel resto dell’Italia centrosettentrionale, invece, il fenomeno della rivendicazione dei diritti parrocchiali complicò il quadro gerarchico, comportando la creazione delle parrocchie come elemento intermedio tra la sede cattedrale e la pieve. Quest’ultima non fu peraltro esautorata, continuando invece a mantenere la funzione di chiesa battesimale e di centro di raccordo, ora non più di cappelle, ma di parrocchie. Il sistema fu reso ancora più complesso dal fatto che i comuni cittadini, nella fase di conquista del contado operata spesso ai danni del vescovo e dei signori rurali, assunsero come proprio il reticolo delle pievi: soprattutto in Toscana e nella Pianura Padana, i pivieri divennero circoscrizioni amministrative con le quali la città si proiettava nel distretto. La crisi, dovuta alle nuove forme di insediamento (borghi franchi e “ville nove”), ai nuovi indirizzi della pastorale, che insistevano sulla necessità di un frequente accesso ai sacramenti, e soprattutto alle nuove forme di devozione popolare, indirizzata verso altri luoghi di culto, portarono al tramonto del sistema delle pievi. Durante i secoli XIII e XIV il sistema per parrocchie – detentrici di tutti i diritti legati alla cura d’anime e provviste di un clero stabile e residente – si andò sostituendo un po’ dovunque. Ciononostante, in alcune aree periferiche – come per esempio nel Montefeltro – il sistema più antico sopravvisse durante tutta l’età moderna.

La storiografia sulle pievi nasce dal principio del secolo XX. Oltre alle robuste indagini in campo storico-artistico (essendo spesso le pievi edifici di notevole importanza), fu inizialmente privilegiata la storia del diritto, cui nel corso dei decenni si è andato affiancando l’interesse per la storia economica, istituzionale, ecclesiologica e devozionale. Numerosissimi sono inoltre gli studi di storia regionale e locale.

Fonti e Bibl. essenziale

Le istituzioni ecclesiastiche della «Societas Christiana» dei secoli XII-XIII. Diocesi, pievi, parrocchie, Atti della Sesta settimana internazionale di studio, Milano 1-7 settembre 1974, Vita e Pensiero, Milano 1977; A. Castagnetti, L’organizzazione del territorio rurale nel medioevo: circoscrizioni ecclesiastiche e civili nella Langobardia e nella Romania, Patron, Bologna 1979 Pievi e parrocchie in Italia nel basso medioevo (sec. XIII-XV), Atti del VI Convegno di storia della Chiesa in Italia, Firenze 21-25 settembre 1981, Herder, Roma 1984; L. Mascanzoni, Pievi e parrocchie in Italia. Saggio di bibliografia storica, 2 voll., Dipartimento di Paleografia e Medievistica dell’Università di Bologna, Bologna 1988-1989; R. Salvarani, Pievi del Nord Italia: cristianesimo, istituzioni, territorio, Banco Popolare – Gruppo Bancario, Verona 2009; E. Curzel (ed.), L’organizzazione ecclesiastica nelle campagne, in Reti medievali. Repertorio, 2010, http://fermi.univr.it/rm/repertorio/rm_curzel_organizzazione_ecclesiastica_nelle_campagne.html (cons. aprile 2012).


LEMMARIO




Pinna Diego


 





Pioppi Carlo


Nato a Roma nel 1964, si è laureato in scienze politiche presso l’Università Cattolica di Milano, e ha poi intrapreso gli studi di teologia a Roma, ottenendo la licenza in teologia dogmatica e il dottorato con una tesi sulla teologia del sec. XII; ha conseguito inoltre il diploma di archivista-paleografo presso la Scuola Vaticana di Paleografia, e si è specializzato in storia religiosa a Lione. È professore presso l’Università della Santa Croce, dove insegna storia della Chiesa, storia della teologia, paleografia e diplomatica. Dal 2001 lavora nell’Istituto Storico San Josemaría Escrivá. Le sue ricerche vertono principalmente sulla teologia del sec. XII, sulla storia dei concili, sulla storia dell’Opus Dei, sull’episcopato del card. Ferrari a Milano, sui rapporti fra Stato e Chiesa.





Pittura - vol. I


Autore: Giovanni Liccardo1

Sostanza e natura delle immagini cristiane. Da sempre, ha detto Giovanni Paolo II, «la fede tende per sua natura ad esprimersi in forme artistiche e in testimonianze storiche aventi un’intrinseca forza evangelizzatrice e valenza culturale di fronte alle quali la Chiesa è chiamata a prestare la massima attenzione» (Motu Proprio Inde a Pontificatus Nostri initio, 25 marzo 1993, Proemio, in “LOsservatore Romano”, 5 maggio 1993, 5) e il Catechismo della Chiesa cattolica ha chiarito che la simbolica cristiana «trascrive attraverso l’immagine il messaggio evangelico che la Sacra Scrittura trasmette attraverso la Parola. Immagine e Parola s’illuminano a vicenda» (2, 1, 2, n. 1160). Di conseguenza, lo studio delle raffigurazioni cristiane non può essere affidato soltanto agli storici dell’arte; essi approfondiscono il monumento come espressione artistica, quindi considerano le differenze di stile: in al­tri termini, studiano come l’opera umana si inserisce nel flusso vitale dell’evoluzione stilistica. L’immagine cristiana, invece, deve essere studiata anche come espressione di fede della comunità, con la quale la Chiesa si è servita per dare “condimento” alla comuni­cazione verbale del messaggio. Architettura, costruzioni, spazi e luoghi, scultura, pittura, utensili: le immagini nella Chiesa hanno trovato i mezzi per espri­mersi in tutti i modi e con tutti gli strumenti.

Non a caso, il felice vincolo tra Chiesa e arte, oggi così difficile da riannodare, ha avuto nei vescovi, oltre che nei pontefici, dei formidabili e spesso assai generosi promotori: alla loro volontà di educare e catechizzare per mezzo della bellezza si deve gran parte del patrimonio artistico e culturale, un lascito che in questa temperie di profondo disorientamento tutti sono chiamati a tutelare e a conservare. Già le prime pitture cristiane, seguendo l’arco di gestazione del potere episcopale ed espressioni di una Chiesa che comincia a godere di una reale autonomia economica, unirono l’esigenza di intendere la parola di Dio alla sua conserva­zione; legarono la memoria a un riferimento obiettivo, che, data la cultura del tempo, non poteva essere il libro, ma diventava l’affresco, il mosaico, la scultura.2

Allora lex orandi e lex credendi erano un’istruzione lasciata alla libera interpretazione iconografica dell’artista; Paolino di Nola, tra i più sensibili al tema, giustifica la pittura cristiana auspicando che «la figura rivestita di colori attragga con questi spettacoli l’interesse delle menti attonite dei contadini; essa è spiegata dalle iscrizioni, affinché lo scritto mostri ciò che la mano dell’artista ha eseguito» (Poema 27, vv. 511 e ss.), mentre Nilo di Ancira chiarisce che «la mano del migliore pittore ricopra la chiesa di immagini dell’Antico Testamento e del Nuovo Testamento, affinché gli illetterati, che non possono leggere le Scritture, si istruiscano guardando le gesta gloriose di coloro, che hanno fedelmente servito il vero Dio e siano invitati ad imitare sì nobile condotta» (Lettera, 79, 578-579). Nondimeno, soprattutto nei primi secoli della sua storia la Chiesa ha esplo­rato e vissuto dolorosamente tutte le possibilità favorevoli e contrarie alla fabbrica­zione delle immagini, la quale, accolta nella prassi, ha sofferto delle drammatiche di­scussioni all’interno del dibattito dottrinale. Infatti, prima del Concilio di Nicea del 325 alcuni autori (tra essi Tertulliano, Clemente Alessandrino, Origene, Minucio Felice, Lattanzio) non sembrano troppo favorevoli ad accettare l’uso e meno ancora il culto delle immagini, pure se le loro posizioni sono espresse nella lotta contro l’idolatria e sono basate sui testi anti-iconici dell’Antico Testamento.3

Evoluzione dottrinale e pragmatica. Per tutto il medioevo la direzione ecclesiastica (committenza, ma anche regolamentazioni, pronunciamenti ufficiali di natura teorica e pratica, ad esempio in occasione dei concili) sulla natura, l’uso e la forma delle immagini fu assai forte; l’artista non era libero di agire secondo una personale intenzione figurativa, dal momento che non produceva immagini per sé, ma per un ambito specifico e per destinatari con determinate attese. Il pittore doveva trovare solo il sistema più efficace per veicolare dei contenuti che gli venivano forniti. La diversificazione tra gli artisti, specie in occidente, si fece allora sulle invenzioni compositive, sullo stile, chiamato a riformare e portare a maggiore verità formule iconografiche note e correnti, senza però contraddirne il senso, né spiazzare troppo lo spettatore; il pittore poteva, per un certo tema/soggetto richiestogli dal committente, presentargli più di una soluzione tra cui scegliere. Nondimeno, i committenti ecclesiastici (vescovi, abati e monaci, canonici) non si limitarono solo a ordinare opere d’arte convenzionali e conformi ai rispettivi ruoli, ma le influenzarono secondo la loro sensibilità, servendosi dell’arte come strumento di autolegittimazione e come mezzo per manifestare rivendicazioni, desideri e tendenze ideologiche personali. Il committente interveniva nella concezione dell’opera d’arte definendone la tematica e soprattutto il programma e talvolta anche lo stile. In alcuni casi, come nelle sculture dei portali e nelle vetrate delle cattedrali, stabiliva il programma in totale autonomia dagli stessi finanziatori dell’opera. La scelta di un definito programma si attuava nelle relazioni e nelle accentuazioni degli elementi di un ciclo figurativo, nel cui protagonista il committente cercava un’identificazione. Espressione di un dato programma era anche la scelta di chiare tipologie di Cristo o della Vergine, così come di santi, eroi o di particolari temi. La stessa rappresentazione del committente nell’opera d’arte poteva seguire formule di una certa diffusione o costituire un’elaborazione del tutto individuale, ricca pertanto di significati.

Limite invalicabile nell’opera del pittore era però stabilito dall’ortodossia e dal decoro. Fondamentali i pronunciamenti ultimi del Concilio di Trento che disciplinò la produzione di immagini sacre, tendendo a correggere o eliminare dettagli o impostazioni fuorvianti (esemplificativi furono il processo a Paolo Veronese per un’Ultima Cena, convertita in una Cena in casa di Levi, e l’eliminazione di alcune iconografie non più accettabili sul piano teologico o formale, come l’immagine trifronte o tricefala del Cristo per la Trinità, la Madonna del Latte, ecc.).4

L’importanza del decoro, invece, fu intesa come attinenza di una forma a un contenuto o dell’immagine al contesto cui fu destinata, ad esempio un dipinto da porre sopra un altare (caso emblematico dei dipinti rifiutati di Caravaggio per la Cappella Cerasi e per la Cappella Contarelli). Infatti, la collocazione di un’immagine, specie se si trattava di uno spazio ecclesiastico o monastico, non fu mai casuale (l’Annunciazione sull’arco trionfale, il Giudizio universale in controfacciata, il Battesimo di Gesù in corrispondenza del fonte battesimale, immagini penitenziali legate alla Passione all’ingresso dei refettori monastici, ecc.) e rispettò sempre un rapporto con ciò che in quel luogo o in quel punto dello spazio si faceva in termini di culto e liturgia e con il percorso, fisico e percettivo, compiuto dallo spettatore e a lui suggerito proprio attraverso le immagini. Rapporto diretto e speciale le immagini ebbero ovviamente con la liturgia (in prossimità dei vari gesti liturgici, sui vari supporti: tabernacolo, predella, calice, ostensorio, paliotto, stendardo, reliquiario, anta d’organo, ecc.), anche in allestimenti temporanei (cicli di teli quaresimali dipinti, “macchine” di altari fatte di ante fisse ed ante rimovibili, che potevano assumere diverse configurazioni, ecc.).

Gli orientamenti attuali. La ricezione del decreto tridentino nei secoli dell’età moderna provocò un atteggiamento centralista della Chiesa con un dirigismo in tema di forme devozionali e iconografiche; la pittura venne depurata da qualsiasi forma di ostentazione e di virtuosismo formale: doveva essere semplice, facilmente comprensibile dal fedele, in modo da non disturbare la concentrazione delle sue preghiere. Si riaffermarono i temi della Chiesa come intermediaria fra l’uomo e Dio e del riconoscimento salvifico delle buone opere; si esaltò il valore dei sacramenti e ribadì l’esistenza del purgatorio. Il controllo ecclesiastico sulle immagini proseguì anche nella fase dell’illuminismo cattolico, che disciplinò le immagini per una vita cristiana in chiave biblica e cristocentrica; ancora tra la fine del XVIII e l’inizio del XIX secolo, sullo sfondo della decadenza delle immagini, la Chiesa si limitò solo a una funzione legislativa di conservazione e restaurazione del patrimonio artistico.

Nell’età moderna, ha più volte detto Giovanni Paolo II, nell’arte si è progressivamente affermata «una forma di umanesimo caratterizzato dall’assenza di Dio e spesso dall’opposizione a lui. Questo clima ha portato talvolta a un certo distacco tra il mondo dell’arte e quello della fede, almeno nel senso di un diminuito interesse di molti artisti per i temi religiosi». Eppure, la Chiesa ha continuato a tenere l’arte in grande considerazione, «infatti, anche al di là delle sue espressioni più tipicamente religiose, quando è autentica, ha un’intima affinità con il mondo della fede, sicché, persino nelle condizioni di maggior distacco della cultura dalla Chiesa, proprio l’arte continua a costituire una sorta di ponte gettato verso l’esperienza religiosa» (Lettera agli artisti, 10). Tra le cause del dialogo interrotto è da annoverare la difficoltà della Chiesa a comprendere le nuove forme di comunicazione artistica sviluppatesi soprattutto nel Novecento; se con la Sacrosanctum Concilium (1963), i vescovi si aprirono alle tendenze estetiche contemporanee, auspicando un pluralismo di stili, pur riconfermando che esistevano dei limiti alla creatività dell’artista (cap. 7) e nel 1964 Paolo VI nell’Incontro con gli artisti espresse il desiderio di riconciliazione, con la Gaudium et Spes (1965) la Chiesa ha recuperato valori, prima contrastati: «Bisogna perciò impegnarsi affinché gli artisti si sentano compresi dalla Chiesa nella loro attività e, godendo di un’ordinata libertà, stabiliscano più facili rapporti con la comunità cristiana. Siano riconosciute dalla Chiesa le nuove tendenze artistiche adatte ai nostri tempi secondo l’indole delle diverse nazioni e regioni» (cap. II, 62).5

L’eccezionale sviluppo dei media determina oggi l’onnipresenza delle immagini, per questo la sfida della comunicazione impone anche alla Chiesa un rinnovato uso, rendendo così sempre più sentita l’esigenza di ricercare le vie di incontro del vangelo con i modelli figurativi attuali. L’immagine infatti può diventare “Parola”, ma solo quando arriva a coniugare le due fonti costitutive del kerigma, che sono l’esperienza da una parte e il testo biblico dall’altra. Eppure, di fronte allo smarrimento che si prova verso l’arte cosiddetta «sacra», la Chiesa deve re-imparare a «commissionare». Ciò comporta scegliere veri artisti, saperli accompagnare, avere stima del loro lavoro. In questa direzione, in diverse diocesi italiane vi sono segni di grandi, intelligenti e importanti committenze, dovute specialmente alla ripresa della pastorale dell’arte, con notevole impegno finanziario, dato dalla Conferenza Episcopale Italiana, nella fattispecie, dall’Ufficio Nazionale per i Beni culturali ecclesiastici e dall’Ufficio per il Progetto Culturale; si possono citare, a titolo esemplificativo, l’armonizzazione del manifesto iconografico antico con un programma contemporaneo nella Cattedrale di Cefalù, il piano della Cappella Redemptoris Mater nel Palazzo Apostolico Vaticano e il progetto dei restauri della Cattedrale di Santa Maria Assunta a Terni. Risoluzioni meno efficaci, principalmente causati da esigenze di adeguamento liturgico, sono state compiute per le cattedrali di Catania, di Vicenza, di Noto e per le chiese del Gesù e di Santa Maria del Popolo a Roma. Infine, l’intervento recente nella cattedrale di Reggio Emilia, inaugurato nel 2012, che ha visto la commissione di opere a Jannis Kounellis, Ettore Spalletti, Hidetoshi Nagaswa e Claudio Parmiggiani, scardinando le modalità con le quali si pensa ad un adeguamento liturgico e ai criteri di scelta degli artisti, ha suscitato molte discussioni.

Fonti e Bibl. essenziale

M. Catto, La Compagnia divisa. Il dissenso nell’ordine gesuitico, Morcelliana, Brescia 2009; Ead., The Jesuit Memoirists: Bellezza e vita. La spiritualità nell’arte contemporanea, a cura di T. Verdon, San Paolo, Milano 2011; H. Belting, Il culto delle immagini. Storia dell’icona dall’età imperiale al tardo Medioevo, Carocci, Roma 2001; C. Chenis, Il programma iconografico della chiesa-edificio, in «Rivista Liturgica» 88 (2001), 541-558; A. Dall’Asta, Quale committenza per l’arte sacra? Un dialogo tra arte e fede, in «Rivista Liturgica», 100(2013), 69-83; J. Danielou, I simboli cristiani primitivi, Edizioni Arkeios, Roma 1990; G. Didi-Huberman, L’immagine aperta. Motivi dell’incarnazione nelle arti visive, Bruno Mondadori, Milano 2008; T. Ghirelli, Ierotipi cristiani. Le chiese secondo il magistero, LEV, Città del Vaticano 2012; A. Grabar, Le vie della creazione nell’iconografia cristiana, Jaca Book, Milano 1983; C. Lapucci, Estetica e trascendenza, Cantagalli Edizioni, Siena 2011; R. Mastacchi – R. Knapinski, Credo. La raffigurazione del Simbolo Apostolico nell’Arte europea, Cantagalli Edizioni, Siena 2011; Romana pictura. La pittura romana dalle origini all’età bizantina, a cura di A. Donati, Electa-Mondadori, Milano 1998; R. Tagliaferri, Liturgia e immagine, EMP – Abbazia S. Giustina, Padova 2009; Temi di iconografia paleocristiana, cura e introduzione di F. Bisconti, Città del Vaticano 2000; J. Van Larhoven, Storia dell’arte cristiana, Bruno Mondadori, Milano 1999; T. Verdon, L’arte cristiana in Italia, 3 voll., San Paolo, Milano 2005-2008.

Immagini:

1) Albenga (Sv), Volta mosaicata del battistero paleocristiano (VI secolo); 2) Sant’Angelo in Formis (Ce), palinsesti figurativi della basilica benedettina di San Michele Arcangelo (X secolo); 3) Giotto, Adorazione dei Magi, Cappella degli Scrovegni, Padova (XIV secolo); 4) Raffaello Sanzio, La disputa del Sacramento, Musei Vaticani, Città del Vaticano (1509 ca.); 5) Jacopo Bassano, Adorazione dei Magi, The Barber Institute of Fine Arts, University of Birmingham, Birmingham (1555).

Sitografia:

http://www.storiadellarte.com (sito dedicato alla storia dell’arte italiana, dalle origini a oggi); http://www.arslab.it/ (sito di ricerca e documentazione sull’arte contemporanea); http://www.amei.biz/repertorio.htm (sito che offre il repertorio di tutti i musei ecclesiastici italiani, regione per regione, con indirizzi e informazioni varie); http://www.alinari.it/it/archivi-online.asp (sito con la più ricca collezione fotografica del mondo, parzialmente a pagamento); http://www.icongrafia.com/ (sito di iconografia cristiana, spiritualità e teologia dell’icona).


LEMMARIO




Pittura, Scultura - vol. II


Autore: Yvonne zu Dohna

129 - pittura scultura pasqua23-04

Si ritiene opportuno trattare unitamente pittura e scultura perché le innovazioni artistiche dei secoli XIX e XX mettono in discussione la definizione delle due arti. Le riflessioni che seguono vogliono offrire un excursus della particolare vivacità delle produzioni artistiche e artigianali dell’epoca contemporanea con un occhio rivolto al panorama internazionale e alla Chiesa nei diversi ambiti e livelli di produzione artistica (strettamente locale, devozionale, minore, privata e autonoma). Si ritiene altresì necessario limitare questa analisi alle espressioni più rilevanti e significative per la storia dell’arte, alle committenze ecclesiastiche e alle iniziative dei Papi.

Dopo il 1850. Panoramica internazionale

Nel 1860 nacque in Francia un’arte rivoluzionaria: il Manifesto di Courbet fu l’atto fondativo del Realismo. Al Realismo seguirono l’arte di Manet e l’Impressionismo francese, che influì sui tre grandi padri dell’arte moderna: Van Gogh, Gauguin e Cezanne. Il nuovo movimento artistico non rifiutava la tradizione, ma la rileggeva con un nuovo linguaggio figurativo e alla luce di uno stretto legame con la spiritualità. Scomparsa la tensione tra i classici, che guardavano all’antichità e i romantici, che guardavano “altrove” (Medioevo), gli artisti, evitando l’evasione immaginativa, rivolsero la propria attenzione alla storia presente, pervasa da cambiamenti politici e sociali. La religione cristiana non era più l’unica fonte dei contenuti dell’arte. Uno dei più frequenti leitmotiv delle rappresentazioni artistiche della seconda metà del XIX scolo è il paradiso terrestre, da realizzare sulle tele, nel marmo e nella creta. La natura del paesaggio e la nudità del corpo diventarono i motivi simbolici di questa tendenza. Il Realismo e l’Impressionismo determinarono una frattura con l’arte precedente. Manet costituì invece l’anello di congiunzione tra le due correnti artistiche, che interpretavano la realtà nella direzione dell’esperienza sensoriale. La sensazione diventò pura percezione visiva attraverso lo studio del colore.

Italia

Firenze, prima capitale del Regno d’Italia (1865-70), mantenne il suo ruolo di capitale “spirituale” e artistica della nuova arte anche quando il centro del potere politico si trasferì a Roma. Il Duomo (S. Maria del Fiore) con la sua facciata neogotica, divenne “tempio della Nazione”. In Italia nacque il Verismo, una corrente letteraria e artistica in discontinuità con la pittura religiosa precedente. Gli esponenti più noti furono Domenico Morelli, sostenitore dello spirito nazionalistico e Filippo Palizzi, un artista che operò prevalentemente a Napoli.

Iniziative pontificie

Il Syllabus (1864) si oppose ai linguaggi e alle concezioni moderne. Al bavarese Alexander Maximilian Seitz, allievo del nazareno Cornelius, fu commissionato nel 1867 un dipinto allegorico neo- nazareno, che celebrava il XVIII centenario del martirio di San Pietro e che raffigurava Pio IX ai piedi del Principe degli Apostoli. Pio IX valorizzò in particolare il dogma dell’Immacolata Concezione con la committenza della pala di Federico Faruffini nel duomo di Pavia (1857) e della proclamazione del dogma dell’Immacolata Concezione (1859-61) a Francesco Podesti nela Sala dell’Immacolata dei Musei Vaticani. Fu ancora Pio IX a dover gestire il momento storico della nascita in Italia di un moderno stato nazionale unitario e, in occasione della sua ultima visita nel 1857 in veste di Papa-Re, donò alla Cattedrale di Forlì un nuovo altare tuttora in uso.

Primo Novecento

Panoramica internazionale

In Europa nacquero diversi movimenti culturali, che esercitarono un profondo influsso sull’arte e sull’architettura liturgica: Cubismo, Fauvismo, Espressionismo, Astrattismo, Futurismo e Metafisica. Il Cavaliere blu (Der Blauer Reiter, 1910) di Kandinskij, opera da cui prese il nome un gruppo di artisti tedeschi che operarono a Monaco negli anni precedenti alla Prima Guerra Mondiale, fu il manifesto dell’arte astratta, del Suprematismo, dello Stijl e dell’architettura funzionale. Il primo acquarello dell’arte astratta è di Wasilij Kandinskij: nell’irregolare tratteggio dell’artista di origine russa i colori e le linee dell’opera non si propongono più di raffigurare o di rappresentare, ma si caratterizzano come linguaggio puro, come lessico creativo e non imitativo. Questa tendenza sarà poi seguita da nuovi movimenti artistici, come il ready made di Marcel Duchamp e il Dadaismo, che, con Man Ray e Kurt Schwitters, rivoluzionò la concezione della produzione artistica, introducendo nuovi materiali e innovative scelte produttive. Ugualmente il Surrealismo con Juan Mirò, Salvador Dalì, René Magritte, Max Ernst e Yves Tanguy, e anche Walter Gropius con il Bauhaus introdussero un nuovo concetto di arte. La problematica centrale fu la totale autonomia e indipendenza della creazione artistica da ogni indicazione e committenza restrittive. Il paesaggio ambientale e il clima culturale furono segnati sempre più dall’industrializzazione, da nuovi sistemi di comunicazione e dal pluralismo culturale e religioso. Già con le sculture di Henri Laurens e Jacques Lipchitz, ispirate al Cubismo, l’osservatore perse ogni distanza da esse, dovendo quasi realizzare ancora una volta esteticamente, cioè nella sensibilità, il processo produttivo e creativo dell’opera d’arte per avere una percezione completa e per entrare attraverso di essa in una nuova dimensione. In questo periodo si assistette anche a un rinnovato interesse verso l’arte sacra: in Francia tra il 1857 e il 1914 nacque la Revue de l’Art chrétien, fondata da J. Corblet. Altre riviste videro la luce in Germania a Colonia: Organ für christliche Kunst (1851-1873), Archiv für christliche Kunst (1888-1921); a Düsseldorf, Zeitschrift für christliche Kunst e a Monaco Die Christliche Kunst (1904-1938). In Svizzera nacque l’associazione di artisti e cultori dell’arte St. Lukasgesellschaft con la rivista Ars Sacra. Intorno al 1917 in Austria J. Pichard fondò la rivista Kunst und Kirche e nel 1935 uscì il primo numero della rivista L’Art Sacré. Alcuni artisti indipendenti lavorarono per la Chiesa: le vetrate di Braques per la Cappella di Saint Dominque a Varengeville Sur Mer (1952-54) e L’arbre de Jessé, vetrata per la chiesa parrocchiale di Saint Valery a Varengeville sur Mer (1955-1960). Maurice Denis completò le vetrate nella chiesa di S. Paolo a Ginevra (1916) di Notre Dame a Raincy e di S. Luigi a Vicennes (1917).

Italia

Nel 1913 mons. Celso Costantini, Filippo Crispolti e Giuseppe Polvara, sacerdote, pittore e architetto, costituirono la Società degli Amici dell’Arte Cristiana e pubblicarono la rivista Arte Cristiana. Mons. Polvara fondò la “Famiglia del Beato Angelico” con la Scuola superiore di arte cristiana, che Pio XI propose di intitolare al Beato Angelico con lo scopo di favorire la formazione e la produzione delle arti. Nel 1921 sorse a Milano l’Università Cattolica del Sacro Cuore: l’idea iniziale, che non ebbe alcun seguito, ventilava l’ipotesi di una università delle arti. In quegli stessi anni vide la luce anche la rivista Valori plastici, promossa dai futuristi cc.dd. “pentiti” (Italo Tavolato e Carlo Carrà), che vollero respingere l’aura atea e rivoluzionaria del Futurismo e promuovere una visione nostalgica della pittura classica e arcaica. Sulla scia di una rinnovata lettura delle fonti liturgiche e degli studi del benedettino Odo Casel si assistette a un risveglio dell’interesse per la liturgia, per la formazione della pietà dei fedeli e per la ministerialità liturgica dell’arte. Nel santuario di Loreto, nella cappella di S. Giuseppe, Modesto Faustini dipinse La Santa Famiglia (1886-1890). Sempre a Loreto Cesare Maccari eseguì gli affreschi della cupola del santuario (1890-1895) e Ludovico Seitz dipinse nella Cappella Tedesca La nascità di Gesù. Augusto Mussini completò gli affreschi della volta del Santuario di S. Serafino da Montegranaro ad Ascoli Piceno (1903-1907). La porta centrale del duomo di Milano venne decorata da Ludovico Pogliaghi con la Madonna col Cristo morto in pietà (1908). Gerardo Dottori nel 1909 realizzò gli affreschi e la decorazione murale delle chiesa S. Maria Assunta a Monte Vibiano Vecchio. Con la tecnica divisionista e una particolare luminosità operarono artisti del calibro di Vanno Rossi, Ernesto Bergagna, Salvatore Cascone, Piero Clerici, Eliodoro Coccoli, Antonio Martinotti, Giovanni Garavaglia, Angelo Julita, insieme agli scultori Angelo Righetti, Beppe Rossi, Cornelio Turelli, Nicola Sebastio, Marco Melizi, Gino Casanova. Per la decorazione delle suppellettili liturgiche si distinsero Fortunato De Angeli, Carlo Gadda, Renato Valcavi e per le vesti liturgiche e le nuove iconografie Piero Clerici con la realizzazione di Una icona che insegna a pregare. A Montecassino l’influsso dell’arte della scuola di Beuron prese forma nell’opera di Desiderius Lenz e dei suoi confratelli e nelle realizzazioni nella cripta dell’abbazia (1899-1913). Gli artisti di questa fase non disdegnarono i temi cristiani. Negli anni ‘30 si sviluppò un’arte “riconciliata con Dio” con Edoardo Persico, basata sulle idee di J. Maritain, che nel 1920 con Art et Scolastique rivalutò i principi dell’estetica di Tommaso d’Aquino. Anche la collana Le roseau d’or promosse una “mimesi” che non solo imita, ma interpreta il reale. Inoltre intellettuali come Stanislas Fumet con il saggio dal titolo Il processo all’arte (1929) affermò: «l’arte non serve Dio, ma lo imita», abbracciando un cattolicesimo integrale in dialogo con i cambiamenti della società. Altri artisti, come Del Bon, De Rocchi, Lilloni e Spilimbergo De Amicis crearono un movimento detto “Chiarismo Lombardo”, seguito anche da Fontana e Broggini con opere a soggetto biblico, conseguenza del rinnovato fervore cattolico destato dal Concordato tra lo Stato italiano e la Santa Sede (1929). Furono allestite la Biennale d’Arte Decorativa di Monza, la Mostra internazionale d’Arte Sacra a Padova (1931) e la Triennale di Milano (1933), aventi il tema del sacro. Gli artisti presenti furono Pancheri, Tullio Garbari, autore de Il Trionfo di San Tommaso (1931), Il Giudizio finale, Il Miracolo della mula. Né si devono dimenticare: Renato Birolli con il suo San Zeno pescatore (1931), Aligi Sassu con L’ultima cena (1930) e la Deposizione (1943). Alla difesa della religione nell’arte essi ne opposero l’apologia. Dopo la morte di Garbari il movimento pittorico auspicato da Persico ebbe scarsa fortuna. In Italia, come altrove, si parlò di un necessario “ritorno all’ordine”. Alberto Savinio partecipò a questo nuovo movimento con il recupero degli schemi della classicità. Carlo Carrà, nell’ambito futurista, si allontanò dalla metafisica, sviluppando un lirico primitivismo privo di alcun influsso archeologico o classico e pervaso da una rinnovata ricerca della spiritualità (Pietà, 1948). Martini, nel suo Buon Pastore del 1925, adottò invece uno stile espressivista. Mario Sironi, di formazione futurista e legato al fascismo, nel 1938 realizzò la vetrata di una Annunciazione e alla fine della sua vita si dedicò all’arte sacra, partecipando alla II Biennale di Arte Sacra di Novara. Achille Funi affrescò la cupola della chiesa di S. Giorgio al Palazzo a Milano. Nel 1934 affrescò la chiesa di Cristo Re a Roma, costruita da Marcello Piacentini. Gino Severini compose cicli pittorici nelle chiese della Svizzera (1924-48), una Crocifissione (1925-26), una Via Crucis a Cortona e i Santi Nicola e Sebastiano e Trinità (1925-26). Nel 1921 pubblicò il saggio dal titolo Dal Cubismo al Classicismo. E Ancora: Achille Funi realizzò il Giudizio e martirio di S. Giorgio nella Chiesa milanese di S. Giorgio al Palazzo (1931-33), e Ferruccio Ferrazzi, completò Le cinque storie della vita di San Benedetto nella chiesa romana di San Benedetto (1949). In quegli stessi anni Ernesto Bergagna realizzò gli affreschi della cappella dei Teologi nel Seminario di Venegono Inferiore (1942-1944). Fortunato De Angeli nel 1940 curò l’altare della chiesa di Predappio. Artisti come Vanni Rossi, Salvatore Cascone, Piero Clerici, Eliodoro Coccoli, Antonio Martinotti, Giovanni Garavaglia e Angelo Julita eseguirono cicli iconografici con i misteri cristiani in diverse chiese. Un’attenzione particolare fu rivolta alla scultura per la decorazione degli altari e altri arredi, sempre con motivi biblici e liturgici: in particolare le opere di Angelo Righetti, Beppe Rossi, Cornelio Turelli, Nicola Sebastio, Marco Melzi, Gino Casanova. Troviamo un moderno design nella decorazione con Fortunato De Angeli, Carlo Gadda e Renato Valcavi.

 

129 - pittura scultura chiesarossa23-02Iniziative pontificie

Il Codex Iuris Canonici del 1917 introdusse alcune norme sull’arte sacra e furono create nuove importanti istituzioni. Pio XI fondò nel 1923 la “Pontificia Commissione Permanente per la Tutela dei Monumenti Storici e Artistici della santa Sede” e nel 1924 la “Pontificia Commissione Centrale per l’Arte Sacra in Italia”; nel 1928 istituì la “Pontificia Insigne Accademia di Belle Arti e Letteratura dei Virtuosi al Pantheon”. Inaugurò la Pinacoteca Vaticana con il memorabile discorso “Abbiamo poco” il 27 ottobre 1932. Pio XI inserì nella collezione d’Arte moderna nei Musei Vaticani una scultura di Adolfo Wildt.

Gli anni del rinnovamento conciliare

Panoramica internazionale

L’arte di questi anni rifletté la difficile situazione seguita alla Seconda Guerra Mondiale, che costrinse gli artisti a rileggere il volto della modernità. La pittura in America fu caratterizzata dall’espressionismo “astratto” di Jackson Pollock, Mark Rothko, Barnett Newman e degli artisti Robert Motherwell, Ad Reinhardt e Frank Stella. Questi movimenti furono seguiti dal New Dada in America con Cy Twombly, Jasper Johns, Claes Oldenburg, Roy Lichtenstein e Andy Warhol. Alcuni celebri artisti, noti al panorama culturale internazionale, realizzarono opere destinate Chiesa, come nel caso de La passione di Jackson Pollock, ove fece un largo uso di pittura nera, per il progetto di una chiesa di Tony Smith (1951-53).

Italia

Nel 1956 Lucio Fontana realizzò l’Apparizione del S. Cuore a S. Margherita Alacoque, pala d’altare con ceramica riflessata policroma, nella Chiesa di S. Fedele a Milano. Sempre a S. Fedele Enrico Manfrini realizzò il coperchio del fonte battesimale.

In Francia le esperienze artistiche, con il domenicano Couturier e con Matisse, e teoriche, con Maritain e Bernanos, stimolarono l’intraprendenza dell’arcivescovo di Milano G. B. Montini, che insieme al padre Giulio Bevilacqua promosse diverse iniziative: la valorizzazione dei santi Ambrogio e Agostino e diverse committenze, finanziate dal gruppo ENI di Enrico Mattei, al designer Marcello Nizzoli e a Giuseppe Mario Oliveri; gli artisti Pietro e Andrea Cascella realizzarono la decorazione del soffitto di S. Barbara a Metanopoli (1955). Di quegli anni anche lo Spazialismo di Lucio Fontana e le Viae Crucis di Gino Cosentino (1958) e Alessandro Nastasio (1962). Di Emilio Greco sono la porta centrale e le due porte laterali in bronzo del Duomo di Orvieto (1961-64). Di Pericle Fazzini è la scultura in bronzo della chiesa di S. Giovanni Battista sull’Autostrada del sole (Firenze, 1959-60), espressione di un nuovo modo di vivere il paesaggio italiano, con il duplice scopo di onorare chi perse la vita nella realizzazione dell’autostrada e di facilitare ai viaggiatori la partecipazione alle funzione religiose. Pericle Fazzini realizzò anche la porta principale della chiesa di S. Giovanni Battista a Campi Bisenzio (1963). Di Emilio Greco e Venanzo Crocetti sono i pannelli dei santi patroni delle città collegate dall’autostrada (1960-63). Altre realizzazioni di artisti cristiani furono: Pietro Annigoni con l’Immacolato Cuore di Maria per la Chiesa dei Claretiani di S. Giuseppe Lavoratore. Mario Ceroli realizzò gli arredi nella navata di S. Lorenzo di Porto Rotondo (1971-75). Ritroviamo movimenti importanti come la “Nuova Secessione Italiana” e il “Fronte Nuovo delle Arti” con Guttuso, Birolli, Pizzinato e Vedova e con il già menzionato “Spazialismo” di Lucio Fontana. Nacque poi a Milano il Movimento Arte Concreta (MAC) e “Le Plastiche” con Alberto Burri. In questo ambiente vennero affidati progetti ad artisti non legati all’ambito ecclesiale: di Bruno Saetti è il mosaico Il Sacro cuore di Gesù nella Chiesa di S. Eugenio a Roma (1950); di Libero Andreotti è La Pietà nella Cappella Capponi della Basilica di Santa Croce a Firenze.

Iniziative pontificie

Alcuni interventi di Pio XI interessarono direttamente le arti: il 27 ottobre 1932 veniva inaugurata la nuova Pinacoteca Vaticana e nel 1939 erano emanate le Disposizioni per la custodia e conservazione degli oggetti di Storia ed Arte Sacra in Italia. Pio XII nell’enciclica Mediator Dei (1947) parlò dell’arte contemporanea, richiamandosi agli aspetti di “decoro” e “modestia” della classicità e nel 1952 all’essenza della vera arte. Una commissione pontificia continuò la promozione dell’arte moderna nei Musei Vaticani con la destinazione di uno spazio apposito nel 1956 e procedendo l’anno successivo a un’accurata opera di classificazione e catalogazione divise in tre importanti aree: Francia, Italia e Nord Europa. Tra gli artisti del cosiddetto “gruppo storico” si incontrano autori come: Van Gogh, Gauguin, Degas, Renoir, Manet, Daumier, Corot, Ingres, Delacroix, Scipione, Mancini, Gemito, Spadini, Fattori, Lega, Signorini, Segantini e Favaretto. La Commissione preparatoria non si limitò a questo primo gruppo e preparò una lettera da inviare agli artisti più celebri, sollecitandoli a donare una delle loro opere da esporre nella collezione. Il risultato fu un effetto “plurale” con l’esposizione delle opere di un gran numero di artisti che rappresentavano diversi stili. Tra gli artisti che donarono le loro opere, i grandi nomi di Utrillo, Rouault, Matisse, Bonnard, Dufy, Derain, Vlaminck, Braque, Villon, Valadon, Chagall, Carrà, Tosi, De Pisis, Sironi, Casorati, Morandi, Severini, Viani, Gino Rossi e Carena, Kokoschka, Nolde, Ensor, Peckstein e Rufino Tamayo. A questa prima iniziativa si uniranno di poi altri artisti per la sezione storica o per quella contemporanea. Tra i più importanti è necessario ricordare: Fontanesi, Picci, Ranzoni, Sernesi e Toma per l’Ottocento italiano; per il Novecento italiano: Balla, Boccioni, Campigli, De Chirico, Guidi, Messina, Modigliani, Semeghini, Soffici, Spadini, Manzù, Martini. Per la Francia: Cézanne, Courbet, Monet, Pissarro, Rousseau, Seurat, Sisley, Soutine, Despiau, Maillol, Zadkine, Rodin. Dal Nord Europa (Olanda e Germania): Beckmann, Kandinsky, Klee, Liebermann, Mare, Schmidt-Rottluff, Munch, Permeke. Per la sezione inglese: Constable, Turner, Moore e il belga Wouters. La collezione dei Musei Vaticani è ancora oggi un contributo storico e uno spazio per il dialogo, con una serie di circa ottiocento opere, attualmente disposte in 55 sale. Pio XII commissionò anche a Francesco Messina un monumento in bronzo per la cappella di S. Sebastiano nella Basilica San Pietro in Vaticano (1963-64).129 - pittura scultura doorofdeath23-03

Dal 1960 a oggi

Panoramica internazionale

Accostarsi ai movimenti artistici più importanti dagli anni cinquanta sino a oggi significa osservare gli atteggiamenti espressivi che si affermarono dopo le poetiche dell’informale e dell’Action Painting con Jackson Pollock nel contesto dell’esaltazione dell’individuo. L’opera d’arte diventò sempre più un luogo di comunicazione conoscitiva e di partecipazione tra artista e osservatore. Nacquero forme artistiche capaci di guidare nuovi comportamenti di fruizione estetica. Ecco l’elenco delle tendenze: i movimenti di “arte programmata” con François Morellet, Alberto Biasi, Enzo Mari; la “poesia visiva” con George Brecht ed Eugenio Miccini; il “Minimalismo” e la “Land Art” con Christo, Donald Judd e Sol Le Witt; “l’arte povera” con Jannis Kounellis, Mario Merz e Pistoletti; l’“iperrealismo” di Domenico Gnoli; l’“arte concettuale” e la “Body Art” con Joseph Beuys, Joseph Kosuth, Gilbert George; la “video art” con Bill Viola e le tendenze di Keith Haring, Enzo Cucchi e Anselm Kiefer sulla scia delle utopie tecnologiche. Sono da evidenziare alcuni recenti progetti per la Chiesa: le vetrate della Cattedrale di Colonia di Gerhard Richter (2007) e le realizzazioni di Imi Knoebel nella Cattedrale di Reims (2009). Tra i pittori e gli scultori segnaliamo il georgiano Irakli Parjiani e Aleksandr Zvjagin. In Brasile l’artista Cláudio Pastro, in Messico il benedettino Fray Gabriel Chavez de la Mora.

Italia

Alcuni degli artisti italiani di livello internazionale lavorarono per la Chiesa: Mario Botta e Enzo Cucchi ne La Cappella del Monte Tamaro e Allemandi a Torino con opere del 1994. Anche alcune correnti stilistiche indipendenti ispirarono opere ecclesiastiche: l’“iper-realismo” di Severini, un certo “primitivismo” con Andrea e Pietro Cascella, l’“espressionismo” con Lello Scorzelli e Francesco Somaini, il “minimalismo” con David Tremlett, Ettore Spaletti e Dan Flavin, il “neometafisico” e il “surrealismo” con Stefano Di Stasio, il “neobizantismo” con Virginio Ciminaghi, Aligi Sassu e Valentino Vaga, che realizzò un intervento pittorico nella Chiesa dei SS. Pietro e Paolo a Rovello Porto (2001-2002); l’“informale” con Michele Canzonieri e le sue vetrate del duomo di Cefalù (1985-2001). Infine la Pop Art con Warhol e Mario Ceroli e l’“espressionismo astratto” con Ettore Spalletti. Segnaliamo inoltre le seguenti realizzazioni: la Via Crucis di Gino Cosentino presso la parrocchia di Nostra Signora della Misericordia di Bollate (1957), realizzata dagli architetti Angelo Mangiarotti e Bruno Morassutti; nel 1958 la chiesa di S. Marcellina alla Cagnola (Milano) di Mario Tedeschi con facciata scultorea di Carlo Ramus; la Via Crucis di Alessandro Nastasio per la chiesa di Cesate. Trento Longaretti, Silvio Consadori, Lorenzo Pepe e Angelo Biancini lavorarono sempre a Milano nella chiesa di S. Giovanni Battista alla Creta; Minguzzi realizzò una porta del Duomo di Milano; P. Tito Amodei, passionista, lavorò nell’ambito artistico e realizzò anche una Pietà (1964). Aligi Sassu realizzò il grande mosaico della chiesa di Nostra Signora del Carmine a Cagliari (1966); l’abside di S. Barbara in Colleferro a Roma è di Marino Mazzacurati. Francesco Somaini completò la Discesa dello Spirito sull’antica facciata della chiesa di S. Spirito a Bergamo (1972); gli scultori Andrea Cascella e Mario Ceroli operarono all’esterno e all’interno della cappella di S. Lorenzo a Porto Rotondo (1971-75). Andy Warhol, l’artista della Pop Art, interpretò l’Ultima Cena di Leonardo nel refettorio del Palazzo delle Stelline a Milano (1986). Costantino Ruggeri inserì le finestre monumentali blu nella chiesa di S. Maria della Gioia (1974-77) a Varese; nel duomo di Cefalù, Michele Canzoneri progettò le vetrate ispirandosi a Pierre Soulage (1985-2001). Nel medesimo duomo Virginio Ciminaghi realizzò nel 1991 l’altare e Arnaldo Pomodoro la Porta dei Re nel 1997. Realizzazione con protagonista la luce è la cura di Valentino Vago per la cupola di Giulio di Barlassina nella chiesa dei SS. Pietro e Paolo a Rovello Porro (1982), con gli elementi del presbiterio (sede, ambone, altare) scolpiti da Floriano Bodini, mentre Dan Flavin inserì installazioni di neon a S. Maria in Chiesa Rossa a Milano (1996). La scultrice Marie Michèle Poncet realizzò l’altaredella Chiesa di S. Paolo Apostolo a Brugherio e Marco Bagnoli l’installazione nel battistero della Basilica di S. Miniato al Monte di Firenze (1994). In seguito ai fermenti giubilari diocesani, Bruno Ceccobelli completò nella Cattedrale di Terni le porte in ferro battuto e bronzo (2000) e Paolo Borghi ne realizzò il presbiterio. Questi operò anche nella Basilica di S. Francesco di Paola. Paolo Portoghesi, nella chiesa di Santa Maria della Pace a Valenza, realizzò il trittico neometafisico della Madonna della Pace (2003). Stefano Di Stasio decorò le pareti con un ciclo franscescano in stile surrealista. L’altare marmoreo fu opera di Oliviero Rainaldi, con una rivisitazione del tema trinitario. Sono da considerare diverse realizzazioni artistiche legate a una committenza non ecclesiale, laica e/o privata, e quindi a scelte stilistiche ed estetiche particolari. Ecco il minimalismo nel disegno murale di Soll Le Witt e David Tremlett nella Cappella Barolo a Brunate (La Morra, Cuneo); l’installazione di Ettore Spalletti nella chiesa S. Maria ad Nives a Rimini (1998), con un pavimento rosso sangue. Legate alla pittura e scultura contemporanee sono le iniziative delle “Gallerie d’arte cattolica” come quella del S. Fedele a Milano e la Galleria Lercaro a Bologna. A queste stesse iniziative sono da ascrivere i numerosi “Musei Diocesani” e l’organizzazione di Biennali di Arte Sacra, tra le quali ricordiamo quelle di Venezia “Monte sacro” (2001), con Markus Lüpertz e “Sotto la croce” (2003) con opere di Arnulf Rainer. La Fondazione “Stauròs”, come luogo di promozione dell’arte contemporanea, di corsi e di un museo,opera a partire dal 1984 con la Biennale di Pescara e con quella di S. Gabriele in provincia di Teramo. Giuliano Vangi e l’architetto Botta hanno realizzato l’oratorio funerario di Azzano di Serravezza (2000-2001). Sempre Vangi ha curato il presbiterio della Cattedrale di Padova (2000). Una grande serie di commissioni pittoriche ha interessato la nuova edizione del Lezionario della CEI (2008) e dell’Evangelario Ambrosiano (2012). Le oltre duecento tele, opere di artisti italiani contemporanei, ispirate a testi biblici, hanno decorato e riprodotto i libri liturgici e attualmente sono custodite dalla Collezione Paolo VI di Arte Contemporanea con sede a Brescia. La spinta del Concilio stimolò la nascita di nuovi soggetti attivi anche nell’ambito artistico, come i movimenti ecclesiali: Neocatecumenali, Rinnovamento nello Spirito, Focolarini, ecc.. Una realizzazione legata al cammino neocatecumenale è quella realizzata nella chiesa di S. Bartolo in Tutto a Scandicci, presso Firenze. Il “Centro Ave”, legato al movimento dei Focolarini, arrivò a realizzare la chiesa per la Cittadella di Loppiano a Incisa Valdarno. In questo centro opera la scultrice Ave Cerquetti (1930-). Tra le realizzazioni italiane del Centro Aletti segnaliamo i mosaici per la Chiesa a S. Giovanni Rotondo (2009).129 - pittura scultura23-01

Iniziative pontificie

Giovanni XXIII commissionò a Giacomo Manzù un suo Monumento in bronzo nella Basilica di S. Pietro in Vaticano (1965-67), le Decorazioni per la chiesa S. Maria in Chiesa Rossa a Milano (1935-1937) e le porte della Basilica di S. Pietro in Vaticano (1952-1964). Manzù cercò con le sue figure una morbidezza e una quasi sensualità della forma plastica del corpo umano. Paolo VI (1963-1978) promosse con energia il dialogo con gli artisti, che tradusse in diverse iniziative. Ricordiamo l’omelia pronunciata in occasione della “Messa degli Artisti” il 7 maggio 1964 e l’inaugurazione della Collezione di Arte moderna nei Musei Vaticani il 23 giugno 1973, espressione della continuazione di un dialogo all’insegna della conoscenza del mistero dell’uomo. Proseguirono da parte della Collezione molte iniziative di promozione artistica: la mostra Evangelization and Art (1974), il seminario Religious inspiration in American Art, un’esposizione delle opere in magazzino e la mostra A mirror of creation: 150 years of natural American painting. Per Papa Paolo VI l’artista Lello Scorzelli realizzò il pastorale (1963). L’aula Paolo VI di Pierluigi Nervi inaugurato nel 1971 contiene il Cristo in bronzo dello scultore Pericle Fazzini (1970-75). Giovanni Paolo II (1978-2005), artista egli stesso, commediografo e poeta, intervenne più volte con discorsi e iniziative. Ricordiamo la Lettera agli artisti (1999) e il Giubileo degli artisti (2000), feconde iniziative per un dialogo tra Chiesa e arte. Alcune realizzazioni significative durante questo pontificato furono il Volto di Cristo Eucaristico (1996), un’icona di Charlotte Lauzon e le sculture dell’artista Czeslaw Dzwigaj di Cracovia, esposte in occasione della beatificazione del Papa polacco; il monumento scultoreo di Oliviero Rainaldi, donato alla città di Roma dalla fondazione Silvana Paolini Angelucci (2011); la Chiesa della Compassione del Padre a Roma di Richard Meier (2000); il gesuita M. I. Rupnik, dal 1992 direttore del Centro Aletti di Roma, realizzò nel 2000, in Vaticano, la Cappella Redemptoris Mater. Joseph Ratzinger (Benedetto XVI, 2005-2013) si è mostrato molto attento alla dimensione artistica, in particolare alla bellezza della liturgia in Introduzione allo spirito della liturgia, pubblicato nel 2009. Gli interventi in questo ambito sono assai precisi come l’Incontro con gli artisti del 21 novembre 2009 e altri discorsi. È infine da segnalare la dedicazione della Sagrada Familia a Barcellona il 7 novembre 2010. Attraverso il Pontificio Consiglio per la cultura, guidato dal Card. Gianfranco Ravasi, ha promosso iniziative di incontro e tra queste la possibilità di uno spazio espositivo vaticano presso la Biennale di Venezia. Inoltre, per il suo 60° di sacerdozio, è stata allestita in Vaticano con opere di pittori contemporanei l’esposizione “Lo splendore della verità, la bellezza della carità”.

Fonti e Bibl. essenziale

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Immagini

Pittura: P. Marko Ivan Rupnik SJ, Mosaico, Cappella Redemptoris Mater 1999, Città del Vaticano;
Pittura: Dan Flavin, Installazione luminosa per Santa Maria in Chiesa Rossa 1996, Milano;
Scultura: Giacomo Manzù, Porta della Morte, 1961-1964, Basilica di S. Pietro, Città del Vaticano.
Scultura: Virginio Ciminaghi, Altare, 1991, Duomo di Cefalù (Pa).


LEMMARIO




Pizzorusso Giovanni


 





Poli Paolo


Dottorando della Facoltà di Storia e Beni Culturali della Chiesa della Pontificia Università Gregoriana




Predicazione - vol. I


Autore: Roberto Rusconi

La prima predicazione dell’evangelo del Cristo in Italia rimanda alla venuta a Roma dell’apostolo Pietro e anche dell’apostolo Paolo. Per il primo se ne ha un riflesso nel Vangelo redatto da Marco, per il secondo nell’Epistola ai Romani. Dopo gli editti degli imperatori Costantino, nel 313, e Teodosio, nel 380, nella predicazione cristiana emersero figure episcopali di spicco, come Ambrogio di Milano, Zeno di Verona, Cromazio di Aquileia, Gaudenzio di Brescia, Massimo di Torino, Pietro Crisologo, tra IV e V secolo. Alla stregua di quella di Leone Magno († 461), la loro produzione omiletica fu tramandata nei secoli dell’alto medioevo in raccolte di sermoni latini. Particolarmente influente fu la Regula pastoralis di Gregorio Magno (590-604).

Nell’ambito dell’organizzazione dell’impero carolingio, e del ruolo assegnato al suo interno alle istituzioni ecclesiastiche, agli inizi del IX secolo diversi capitolari dettarono norme per assicurare una predicazione elementare nelle lingue volgari, il cui esito è attestato da una raccolta di quattordici omelie provenienti dall’Italia settentrionale: vi si prendeva occasione per trasmettere i fondamenti essenziali della fede cristiana. Nei secoli del medioevo centrale la predicazione, scarsa e modesta, fu supportata da omeliari che riadattavano i sermoni latini allo svolgimento dell’anno liturgico, come quelli di Gaudenzio di Brescia e di Paolo Diacono († 799): i loro contenuti dovevano essere volgarizzati ai fedeli, come documenta una raccolta di sermoni di area subalpina.

Dopo l’affermazione dei riformatori monastici nella lotta per la libertas ecclesiae, sancita dal concordato di Worms nel 1122, le disposizioni dei primi quattro concili ecumenici della Chiesa latina, celebrati a Roma tra 1123 e 1215, ebbero concrete ricadute sulla pastorale ecclesiastica, in particolare con il canone Omnis utriusque sexus del IV concilio del Laterano, che prevedeva per tutti i fedeli l’obbligo della confessione annuale dei peccati e della comunione pasquale, e con il canone Inter caetera, che prospettava un ministero della predicazione in quanto delegato da parte dei vescovi.

L’esigenza di un rinnovamento della predicazione, incentivato anche dai decreti conciliari, non era peraltro stata soddisfatta dalle limitate esperienze che avevano avuto luogo tra i monaci, che come i Vallombrosani avevano predicato a favore della riforma, e soprattutto tra i canonici regolari. La loro prassi omiletica non rispondeva alla diffusa richiesta di una predicazione di carattere più aderente al messaggio evangelico.

Anche se il Decretum di Graziano, sin dalla metà del secolo XII, aveva frapposto un impedimento alla predicazione dei laici, ribadito nel 1184 dalla decretale Ad abolendam hereticam pravitatem, negli ultimi decenni del secolo XII e agli inizi del secolo XIII essa fu praticata in diversi ambienti, in particolare tra gli Umiliati di Lombardia e tra i seguaci italiani di Valdesio di Lione. La loro riconciliazione con la gerarchia ecclesiastica ne provocò l’adeguamento alla predicazione dei chierici. Diversamente avvenne per la predicazione dei Catari, aderenti a una Chiesa di origine balcanica, che si pose in potenziale alternativa alla Chiesa romana: malgrado un ampio favore di cui godette nell’Italia centro-settentrionale, entro la fine del secolo XIII essa fu stroncata con il ricorso allo strumento dell’inquisizione. Insieme agli eretici furono messi sul rogo i manoscritti che  documentavano le dottrine iniziatiche predicate dai perfecti ai loro fedeli.

Un rinnovamento delle forme e dei modi della predicazione nella società italiana degli ultimi secoli del medioevo si ebbe con l’avvento dei frati degli Ordini mendicanti, in primo luogo i frati Minori, seguaci di Francesco d’Assisi († 1226), e i frati Predicatori, seguaci del canonico spagnolo Domingo di Caleruega († 1221). I “domenicani” sin dall’inizio formularono un curriculum studiorum per i frati destinati a predicare, volgarizzando ai fedeli i testi latini redatti sulla base della retorica del sermo modernus, elaborata nelle scuole parigine sin dalla fine del secolo XII: la cui formalizzazione agevolava la preparazione dei predicatori e l’apprendimento degli ascoltatori. A tale indirizzo si adeguarono anche i “francescani”. Soprattutto nei centri urbani, grazie a una capillare diffusione di conventi dei diversi Ordini mendicanti (a francescani e domenicani nel corso del secolo XIII si aggiunsero agostiniani, carmelitani e serviti), la predicazione in volgare divenne una prassi regolare nelle loro chiese, per lo più nelle domeniche e nei numerosi giorni festivi. In particolare a un frate Minore di origine portoghese, Antonio di Padova († 1231), si dovette l’introduzione di una predicazione quotidiana nel periodo quaresimale, in preparazione alla confessione annuale e alla comunione pasquale. Gradualmente con il tempo si affermò, sia pure su scala minore, anche una predicazione quotidiana durante il periodo liturgico dell’Avvento prima della celebrazione del Natale.

La predicazione dei frati debordò nelle piazze, in occasioni dei movimenti di rinnovamento religioso (cui non erano estranee intromissioni nella politica dei comuni italiani), come quello detto dell’Alleluja nel 1233, e due secoli più tardi con i predicatori di grande richiamo, come il frate Minore dell’Osservanza Bernardino da Siena († 1444) e i suoi seguaci e imitatori, tra cui spiccano i nomi di Giovanni da Capestrano († 1456), a Giacomo della Marca († 1476) e Roberto da Lecce († 1495).

La restaurazione religiosa ed ecclesiastica, che ebbe luogo in Italia dopo la conclusione del grande scisma d’Occidente (1378-1417), e il consolidamento del potere papale negli Stati della Chiesa ebbero tra i protagonisti predicatori dei diversi Ordini mendicanti, al cui interno si erano affermati movimenti di riforma per l’osservanza della regola. Anche per effetto di una semplificazione della retorica del sermo modernus, essi divennero estremamente popolari, esercitando una grande influenza: cui non furono insensibili i poteri cittadini e statuali, che sovente a essi fecero ricorso per supportare le proprie iniziative. Significativo fu l’impegno di molti predicatori dell’Osservanza minoritica, come Bernardino da Feltre († 1494), nell’appoggiare e nel promuovere l’erezione di un’istituzione di credito su pegno, i Monti di Pietà (e nella costituzione di confraternite laicali che ne supportassero il finanziamento). Ciò peraltro comportò nella predicazione alcune intonazioni decisamente antiebraiche, in particolare in relazione al presunto martirio di un bambino, Simone di Trento (†1475). La predicazione degli Osservanti assicurava inoltre il perseguimento di un conformismo religioso dalle forti valenze civiche.

La portata politica della predicazione tardo medievale ebbe un epilogo singolare nella vicenda fiorentina di cui fu protagonista Girolamo Savonarola, prima di essere giustiziato nel 1498. Il frate domenicano ferrarese fece ampio ricorso alla stampa a caratteri mobili per diffondere il contenuto delle proprie prediche, “riportate” da un fervido seguace (la pratica della reportatio, attestata sin dagli inizi del secolo XIV per le prediche del domenicano Giordano da Pisa, si era affermata a un secolo di distanza con il domenicano aragonese Vicent Ferrer [† 1419], e con Bernardino da Siena).  Sin dall’introduzione in Italia dell’ars artificialiter scribendi alcuni frati vi avevano già fatto ricorso per diffondere il testo dei loro sermoni.

L’instabilità politica e militare, a partire dall’ultimo decennio del secolo XV e sino all’affermazione del predominio spagnolo durante i primi decenni del secolo XVI, favorirono la presenza di numerosi predicatori irregolari, la cui predicazione profetico-apocalittica si richiamava all’esempio savonaroliano, salvo incorrere nelle severe sanzioni delle autorità ecclesiastiche e del potere civile. Tra di essi si confuse anche frate Matteo da Bascio, agli inizi della riforma cappuccina.

Dopo quel periodo si mischiarono profondamente, in un diffuso richiamo a una predicazione a fondamento evangelico, spinte al rinnovamento religioso e infiltrazione delle “idee d’Oltralpe”, dopo le prime prese di posizione pubbliche di un frate agostiniano della provincia di Sassonia, Martin Lutero. Non valsero a fermare i predicatori sospetti le norme adottate (ad esempio dal V Concilio Lateranense nel 1517) per reprimere gli epigoni di Girolamo Savonarola. Con l’istituzione del S. Ufficio dell’Inquisizione nel 1542 si arrivò a un forzato chiarimento, che indusse molti predicatori dei diversi Ordini, che dal pulpito avevano propugnato le nuove idee, a rientrare forzatamente nei ranghi oppure a emigrare rapidamente: Bernardino Ochino da Siena, esponente di spicco del nuovo ramo riformato all’interno del francescanesimo, i Cappuccini, e più rinomato predicatore dell’epoca, lasciò in quello stesso anno l’Italia, perché accusato di aver trasformato una predicazione evangelica incentrata sul Cristo in una coperta diffusione di dottrine ritenute eretiche.

Nel corso del secolo XVI si verificò un generale mutamento nell’ambito degli Ordini religiosi, in cui al rinnovamento di istituzioni secolari si era aggiunto il diffondersi di una nuova forma istituzionale, le congregazioni di chierici regolari, come Gesuiti, Barnabiti, Teatini, Somaschi ed Oratoriani. Coinvolti nel ministero della predicazione in quanto sacerdoti, almeno in una fase iniziale essi non lo considerarono un proprio compito primario. Nel periodo successivo alla conclusione del Concilio di Trento (1545-1563) la prospettiva di una predicazione ordinaria del clero curato, affacciata già dal vescovo di Verona, Gian Matteo Giberti († 1543), e sulla sua scia dal cardinale arcivescovo di Milano, Carlo Borromeo († 1584), non trovò significativa attuazione per l’inadeguata preparazione dei sacerdoti. I protagonisti della predicazione a partire dalla fine del Cinquecento furono di conseguenza innumerevoli religiosi dei diversi Ordini, come il francescano conventuale Cornelio Musso († 1574), il francescano osservante Francesco Panigarola († 1594), il cappuccino Mattia Bellintani da Salò († 1611). La pubblicazione a stampa dei loro sermonari in lingua italiana aprì la strada a una contaminazione fra oratoria sacra e letteratura, che caratterizzò per l’intero Seicento la predicazione “a concetti”, soprattutto per personaggi come il cappuccino Emanuele Orchi († 1649) e i gesuiti Luigi Giuglaris († 1653), Emanuele Tesauro († 1675), Daniello Bartoli († 1685).

Tra la fine del Cinquecento e ben oltre la metà del Settecento alcuni ordini religiosi, in particolare Cappuccini e Gesuiti, e poi Passionisti e Redentoristi, si impegnarono nelle missionari popolari, vale a dire cicli straordinari di predicazione rivolti inizialmente a combattere la diffusione delle dottrine eterodosse e le credenze superstiziose: indirizzati soprattutto alle popolazioni rurali, e più tardi estesi anche ai centri urbani. Figure emblematiche furono il gesuita Paolo Segneri († 1694) e il francescano Leonardo da Porto Maurizio († 1751).

Nel corso del Settecento la critica contro una predicazione artificiosa si fece particolarmente serrata, in particolare tra gli esponenti del cattolicesimo riformatore, come il prelato modenese Ludovico Antonio Muratori (1672-1750). Verso la fine del secolo, nel contesto degli interventi dei governi riformatori degli stati italiani nei confronti delle istituzioni ecclesiastiche e degli ordini regolari, si assistette alla riproposizione di un ruolo primario della predicazione parrocchiale, da parte di Scipione de’ Ricci, vescovo di Pistoia e Prato dal 1780 al 1791, e del sinodo giansenista di Pistoia del 1786.

A partire dagli ultimi anni del secolo XVIII, l’arrivo in Italia delle armate francesi sull’onda della Rivoluzione del 1789, con l’instaurazione dei regimi repubblicani prima e del potere napoleonico poi, portarono a una massiccia soppressione degli Ordini religiosi, di portata assai più ampia rispetto agli effetti delle disposizioni dei governi riformatori nei diversi Stati durante quel secolo, mettendone in discussione la tradizionale attività di predicazione. Nel corso della Restaurazione succeduta alla caduta del regime napoleonico nel 1814 molti predicatori non rientrarono nei rispettivi Ordini e rimasero nei ranghi del clero secolare, dove erano nel frattempo confluiti. Ripresero la propria attività ordini come Cappuccini, Gesuiti, Preti della Missione e Passionisti, ma ne sorsero anche nuovi, come nel 1815 i Missionari del Preziosissimo Sangue di Gaspare Del Bufalo († 1837). La prima metà dell’Ottocento fu il periodo di maggiore vigore ed efficacia della missioni popolari, significativamente configuratesi come missioni parrocchiali.

Per fronteggiare la crescente secolarizzazione della società, in particolare urbana, nel frattempo sorsero congregazioni sacerdotali in ambito locale, come gli Oblati di Maria Vergine di Pio Brunone Lanteri (†1830) in Piemonte. A queste associazioni di sacerdoti diocesani si dovette un crescente intervento nella predicazione ordinaria e straordinaria, anche perché, nella prospettiva di dare attuazione alle disposizioni del Concilio di Trento, sia le lettere pastorali dei vescovi e gli statuti sinodali sia le encicliche papali e le disposizioni delle congregazioni romane ribadirono il dovere dei parroci di spiegare il Vangelo durante la predica nel corso della messa festiva. Nei seminari si istituirono di conseguenza insegnamenti di eloquenza, nell’ambito della teologia morale pratica. Nella predicazione si tendeva peraltro a privilegiare la forma, come dimostravano i numerosi trattati che furono pubblicati. Un particolare successo in Italia ebbero le Lezioni di eloquenza sacra del sacerdote Guglielmo Audisio, stampate a Torino nel 1842 (con almeno otto edizioni fino al 1882).

Fonti e Bibl. essenziale

C. Delcorno, La predicazione nell’età comunale, Sansoni, Firenze, 1974; R. Rusconi Predicazione e vita religiosa nella società italiana da Carlo Magno alla Controriforma, Loescher, Torino, 1981; R. Rusconi, Predicatori e predicazione, in Annali della Storia d’Italia, IV: Intellettuali e potere, a cura di C. Vivanti, Einaudi, Torino, 1981, pp. 951-1035; AA.VV., Predicazione, in Dizionario degli istituti di perfezione, VII (1983), coll. 513-550; C. Casagrande – S. Vecchio, I peccati della lingua. Disciplina ed etica della parola nella cultura medievale, Istituto della Enciclopedia Italiana, Roma, 1987; La predicazione dei frati dalla metà del ‘200 alla fine del ‘300. Atti del XXII Convegno della Società internazionale di studi francescani, CISAM, Spoleto, 1995; La predicazione in Italia dopo il Concilio di Trento tra Cinquecento e Settecento (Atti del X Convegno di Studio dell’Associazione Italiana dei Professori di Storia della Chiesa. Napoli, 6-9 settembre 1994), Edizioni Dehoniane, Roma, 1996; Missioni Popolari, Predicabili, Predicazione (…), in M. Sodi – A. M. Triacca (edd.), Dizionario di omiletica, Elle Di Ci, Leumann (Torino) – Velar, Gorle (Bergamo), 1998, pp. 961-972, 1159-1177, 1201-1246; L. Pellegrini, I manoscritti dei predicatori. I domenicani dell’Italia mediana e i codici della loro predicazione (secc. XIII – XV ), Istituto storico domenicano, Roma, 1999; A. Rigon, Dal Libro alla folla. Antonio di Padova e il francescanesimo medievale, Viella, Roma, 2002; G. Auzzas – G. Baffetti – C. Delcorno (edd.), Letteratura in forma di sermone. I rapporti tra predicazione e letteratura nei secoli XIII-XVI, L. S. Olschki, Firenze, 2003; M. G. Muzzarelli, Pescatori di uomini. Predicatori e piazze alla fine del Medioevo, Il mulino, Bologna, 2005; C. Delcorno, «Quasi quidam cantus». Studi sulla predicazione medievale, a cura di G. Baffetti et alii, L. S. Olschki, Firenze, 2009; M. L. Doglio – C. Delcorno (edd.), La predicazione nel Seicento, Il mulino, Bologna, 2009; A. Turchini, Parole di Dio, parroci e popolo. Prove di predicazione del clero lombardo (in collaborazione con E. Marchetti), Il ponte vecchio, Cesena, 2011; M. L. Doglio – C. Delcorno (edd.), Predicare nel Seicento, Il mulino, Bologna, 2011; R. Rusconi, Immagini dei predicatori e della predicazione in Italia alla fine del Medioevo, CISAM, Spoleto 2016; P. Delcorno, Late Medieval Preaching, in P.E. Szarmach (ed.), Oxford Bibliographies in Medieval Studies. Oxford Bibliographies. Oxford University Press , New York (NY), 2017.

Immagini:

Sano di Pietro, Bernardino da Siena predica nella Piazza del Campo


LEMMARIO