Associazione Italiana dei Professori di Storia della Chiesa

Dizionario Storico Tematico La Chiesa in Italia
Dopo l'Unità Nazionale
Roma 2015
Copyright © 2015

Predicazione - vol. II


Autore: Roberto Rusconi

Le caratteristiche generali della predicazione in Italia nella seconda metà dell’Ottocento ricalcarono a lungo gli orientamenti delineatisi nella prima metà del secolo. Quando durante il pontificato di Pio IX si intensificò la riunione di sinodi diocesani in Italia, nelle loro delibere fu incluso un richiamo ai parroci a spiegare il Vangelo della liturgia del giorno durante la messa domenicale, all’interno di una prospettiva di attuazione delle indicazioni pastorali fornite dal Decretum de reformatione del concilio di Trento e più di recente dall’enciclica Qui pluribus del 9 settembre 1846: con l’invito a svolgere peraltro una predicazione di carattere catechistico.

Negli ultimi anni dell’Ottocento e agli inizi del Novecento prevaleva comunque una predicazione a carattere marcatamente devozionale, in stretto collegamento con la celebrazione di quarantore, tridui, ottavari, novene, e dei mesi dedicati a san Giuseppe (marzo), alla Madonna (maggio) e al Sacro Cuore (giugno). Tale pratica si protrasse anche nei decenni successivi.

Con il pontificato di Leone XIII aumentò l’attenzione per la formazione del clero e per le forme della sua predicazione. Il 31 luglio 1894 la Congregazione dei Vescovi e dei Regolari indirizzava una Istruzione sulla sacra predicazione ai vescovi italiani, con l’invito a far cessare «alcuni gravi abusi», legati all’inosservanza di quelle indicazioni sinodali. L’anno successivo, ad esempio, il cardinale di Milano, Andrea Carlo Ferrari, indirizzò ai sacerdoti della diocesi ambrosiana una circolare, in cui raccomandava che nella predicazione si spiegasse la dottrina cristiana, in una forma tradizionale.

Durante il pontificato di Pio X, nel contesto dell’introduzione di un’uniforme preparazione del clero, il 10 maggio 1907 la stessa Congregazione emanava un Programma generale di studi, che prevedeva un insegnamento di un’ora settimanale di «sacra eloquenza e patristica» per ogni anno di corso. In attuazione di quegli orientamenti nella Circolare sui seminari d’Italia, indirizzata ai vescovi il 16 luglio 1912 dalla S. Congregazione del Concistoro, un insegnamento di «sacra eloquenza» fu elencato fra le materie secondarie. Quanto all’Ordinamento dei seminari emanato dalla S. Congregazione dei Seminari e della Università il 26 aprile 1920, tale insegnamento fu inserito nelle attribuzioni del docente di teologia pastorale.

Nel frattempo il Codex iuris canonici, promulgato il 17 maggio1917 da Benedetto XV, aveva sancito la responsabilità del vescovo nei confronti di tutta la predicazione in diocesi, anche del clero regolare, l’obbligo della predicazione parrocchiale la domenica e le feste di precetto, l’esortazione a una predicazione quotidiana durante la Quaresima e l’Avvento, e l’indizione di missioni di decennio in decennio. Nel 1913 era uscita a Torino la prima annata di «Verbum Dei. Periodico settimanale di Sacra Predicazione», redatta in prevalenza da sacerdoti diocesani e rivolta a mettere a disposizioni materiali per ogni genere di predicazione: la sua pubblicazione si protrasse sino al secondo dopoguerra.

Al termine del secondo conflitto mondiale le forme della predicazione dovettero far fronte a una profonda trasformazione della società. Alla situazione volle rispondere l’enciclica Mediator Dei sul rinnovamento liturgico, emanata da Pio XII il 20 novembre 1947. Nel 1956 si tenne a Roma la sesta settimana di aggiornamento pastorale: «La parola di Dio nella comunità cristiana». Gli interventi oscillarono tra un semplice adattamento della predicazione, suggerito peraltro da un messaggio del pontefice, e più ampie prospettive di rinnovamento biblico-liturgico. In quella direzione si muoveva, in quello stesso anno, il primo Congresso Internazionale di Pastorale Liturgica, celebrato ad Assisi.

Alle nuove esigenze non corrispondeva un aggiornamento nell’insegnamento di sacra eloquenza nei seminari. Alla lacuna vollero supplire pubblicazioni periodiche come Orientamenti pastorali, apparsi in quello stesso anno, e la rivista dei domenicani napoletani Temi di predicazione, uscita l’anno successivo. Le indagini sociologiche registrarono impietosamente la perdita di influenza della predicazione, dovuta in primo luogo a una formazione sostanzialmente carente dei predicatori, cui non suppliva l’eventuale prescrizione di programma unitari di predicazione per diocesi e parrocchie.

Il decrescente successo della predicazione, connesso alla diminuita frequenza alla messa domenicale, registrava negli anni del concilio Vaticano II anche una crisi di identità, che aveva per oggetto sia le modalità sia i contenuti. I documenti conciliari hanno sottolineato a più riprese l’importanza della predicazione quale compito primario dei vescovi e dei sacerdoti (in particolare la costituzione sulla liturgia Sacrosanctum Concilium, promulgata il 4 dicembre 1963). Ne è risultata una maggiore accentuazione del suo riferimento al testo biblico, all’indomani dell’entrata in vigore della riforma liturgica (7 marzo 1965), seguita dalla pubblicazione anche in traduzione italiana del Messale Romano e del Lezionario. Non ne è derivata, al contrario, una specifica preparazione omiletica dei sacerdoti, trascurata nell’insegnamento ai seminaristi. A tale lacuna ha cercato di supplire l’editoria religiosa, moltiplicando i sussidi per le diverse forme e occasioni.  Il linguaggio dei predicatori ha comunque risentito delle innovazioni connesse alla crescente affermazione dei mezzi di comunicazione di massa, e in particolare della televisione.

Negli ultimi decenni, a cavallo del volgere del Novecento, l’accentuarsi delle preoccupazioni etiche da parte del magistero pontificio e dell’episcopato italiano ha incrementato in maniera significativa lo spazio assegnato nella predicazione a tematiche di carattere morale e sociale.

Dopo la esortazione apostolica postsinodale Verbum Domini di papa Benedetto XVI (30 settembre 2010), particolare attenzione alla predicazione è stata prestata da papa Francesco, in particolare nella sua esortazione apostolica Evangelii gaudium (24 novembre 2013), che ha ripreso molti temi presenti nella esortazione apostolica Evangelii nuntiandi di papa Paolo VI (8 dicembre 1975).

Fonti e Bibl. essenziale

A. Ellena [et al.], Ricerca interdisciplinare sulla predicazione, EDB, Bologna, 1973; R. Kaczynski (edd.), Enchiridion documentorum instaurationis liturgicae, C.L.V. – Edizioni liturgiche, Roma, 1976-1997; R. Rusconi, La predicazione, in Storia della Chiesa, vol. XXIII: M. Guasco – E. Guerriero – F. Traniello (edd.), I cattolici nel mondo contemporaneo (1922 1958), Edizioni Paoline, Milano, 1991, pp. 421 433; G. Tuninetti, Predicabili: nell’Otto-Novecento, e Predicazione: nell’Otto-Novecento, in M. Sodi – A. M. Triacca (edd.), Dizionario di omiletica, Elle Di Ci, Leumann (Torino) – Velar, Gorle (Bergamo), 1998, pp. 1172-1177 e pp. 1239-1246; G. Genero, Predicabili: dopo il Vaticano II, e Predicazione: dopo il Vaticano II, ivi, pp. 1177-1180 e pp. 1246-1249; A. Favale, Missioni popolari, ivi, pp. 961-972; AA.VV., L’omelia tra celebrazione liturgica e ministerialità, in «Rivista liturgica», n. 6 (2008), pp. 973-1097; F. Lomanto, La predicazione in Sicilia tra restaurazione, unità d’Italia e moti sociali, Pontificia Università Gregoriana, Roma, 2010.

Immagini

Il Cappuccino Mariano da Torino (†1972)


LEMMARIO




Prelatura personale - vol. II


Autore: Carlo Pioppi

L’unica prelatura personale sinora istituita è quella dell’Opus Dei, istituzione fondata a Madrid nel 1928 da don Josemaría Escrivá (canonizzato nel 2002), con lo scopo di ricordare a tutti i cristiani, uomini e donne, la chiamata universale alla santità insita nel battesimo, la possibilità della santificazione nel lavoro professionale e nelle circostanze normali della quotidianità, il dovere di ogni battezzato di esercitare un’azione apostolica personale attraverso l’amicizia e le relazioni offerte dalla vita professionale e sociale. L’Opus Dei ha a capo un prelato, ne fanno parte sacerdoti e laici (sia celibi che sposati), ed è stata eretta in prelatura dalla Santa Sede per porre in atto le sue particolari iniziative pastorali.

La presenza dell’Opus Dei in Italia risale agli anni della II Guerra Mondiale: nel 1942, infatti, due giovani membri spagnoli dell’istituzione giunsero a Roma per motivi di studio. Nel 1946, con il trasferimento definitivo nell’Urbe di don Josemaría Escrivá e di don Álvaro del Portillo – suo principale collaboratore –, si può considerare compiuto il radicamento in Italia.

Col tempo furono trasferiti a Roma gli organi di governo: nel 1953 l’Assessorato Centrale (femminile) e nel 1956 il Consiglio Generale (maschile). Tra i collaboratori italiani di mons. Escrivá nella direzione centrale dell’Opus Dei vanno ricordati don Giorgio de Filippi, don Giuseppe Molteni, Umberto Farri e Teresa Acerbis. Dopo la morte del fondatore (1975), l’Opus Dei è stata diretta da mons. del Portillo (1975-1994), da mons. Javier Echevarría (dal 1994 al 2016) e da mons. Fernando Ocáriz (dal 2017). L’impegno profuso da Escrivá e del Portillo per trovare la configurazione giuridica adeguata al carisma dell’Opus Dei, condusse nel 1950 all’approvazione pontificia come istituto secolare, e nel 1982 alla sua erezione, da parte della Santa Sede, in prelatura personale.

Nel 1948 mons. Escrivá fondò a Roma il Collegio Romano della Santa Croce, centro internazionale per la formazione spirituale e filosofico-teologica di giovani membri dell’Opus Dei: in questo centro vengono preparati i candidati al sacerdozio. Nel 1953 aprì il Collegio Romano di Santa Maria, un centro di studi internazionale per le donne. Ambedue i collegi hanno delle sedi estive, a San Felice d’Ocre (L’Aquila) e a Castelgandolfo.

Nel 1984 l’Opus Dei promosse la nascita del Centro Accademico Romano della Santa Croce, che si trasformò gradualmente in università pontificia (1998), attualmente frequentata da circa 1.400 studenti. Attorno all’università si sono andati sviluppando una serie di centri per professori, residenze per sacerdoti diocesani studenti presso l’ateneo, e il Collegio Ecclesiastico Internazionale Sedes Sapientiae (1991), che accoglie seminaristi diocesani frequentanti le aule della Pontificia Università della Santa Croce.

A partire dall’arrivo di mons. Escrivá a Roma, iniziarono anche le attività apostoliche in tutta la penisola, con l’apertura di centri nelle seguenti località: Palermo (1949), Milano (1949), Napoli (1952), Catania (1955), Bologna (1956), Verona (1961), Bari (1964), Genova (1971), Torino (1981), Trieste (1983), Firenze (1984); da queste città si sono irradiate iniziative che hanno poco a poco raggiunto molte provincie di quasi tutte le regioni italiane. Col tempo l’Opus Dei ha approntato anche una serie di centri di convegni e studi: a Carate Urio (Como) nel 1955, Ovindoli (Abruzzo) nel 1967, Terrasini (Palermo) nel 1969, Castelgandolfo (1981), Galleno (Brescia) nel 1988, presso Roma sulla via Nomentana nel 1991; in essi si tengono a ritmo costante attività culturali e di formazione spirituale.

I fedeli della prelatura, insieme con altre persone non appartenenti all’istituzione, hanno dato avvio ad attività educative e sociali, delle quali l’Opus Dei ha assunto la garanzia della formazione cristiana che vi si può ricevere: tra le iniziative di maggior rilievo si possono ricordare le residenze universitarie R.U.I. (1959), Porta Nevia (2001) e Celimontano (2003) a Roma, Viscontea (1954) e Torrescalla (1960) a Milano, Segesta (1956) e Rume (1966) a Palermo, Monterone (1980) a Napoli, Capodifaro a Genova (2000), Torleone a Bologna (1959); le scuole alberghiere Safi (1964) a Roma e Same (1967) a Palermo; il Centro Elis (1964), fulcro di attività sociali, sportive ed educative alla periferia di Roma; l’Università Campus Biomedico (1993), con il relativo ospedale,  nella capitale. Alla prelatura sono state anche affidate tre parrocchie romane: San Giovanni Battista al Collatino (1965), Sant’Eugenio a Valle Giulia (1981) e San Josemaría Escrivá a Roma (1994); a Milano quella di San Gioachimo (2013).

Va detto comunque che l’attività fondamentale della prelatura consiste nell’apostolato personale dei fedeli, difficile da quantificare e presentare. Nondimeno vi sono iniziative sorte dalla collaborazione dei membri, tra cui hanno un certo rilievo istituti scolastici promossi da genitori: i più importanti sono le scuole Argonne e Monforte a Milano (1974).

L’Opus Dei è divisa in circoscrizioni denominate “regioni”, governate da un vicario regionale con l’ausilio di una commissione regionale per le attività maschili, e di un assessorato regionale per quelle femminili. Nel 1958 la sede di tali organi della Regione Italiana (istituita nel 1948) fu trasferita da Roma a Milano. Nel 1968 e nel 1971 furono rispettivamente create le delegazioni (circoscrizioni inferiori alla regione) di Roma e di Palermo. I vicari regionali (chiamati consiglieri regionali prima del 1982) sono stati gli spagnoli Álvaro del Portillo (1948-1950), Salvador Moret (1950-1958) e Juan Bautista Torelló (1958-1964), e gli italiani Luigi Tirelli (1964-1970), Ugo Parroco (1970-1972), Mario Lantini (1972-1998), Lucio Norbedo (1998-2010) e Matteo Fabbri (dal 2010). Il numero dei fedeli presenti in Italia si aggira attualmente intorno ai 5.000.

Fonti e Bibl. essenziale

«Romana. Bollettino della Prelatura della Santa Croce e Opus Dei» (edito dal 1985); F. Gondrand, Cerco il tuo volto. Josemaría Escrivá fondatore dell’Opus Dei, Città Nuova, Roma 1986; P. Berglar, Opus Dei. La vita e l’opera del fondatore Josemaría Escrivá, Rusconi, Milano 1987; A. de Fuenmayor – V. Gómez-Iglesias – J.L. Illanes, L’itinerario giuridico dell’Opus Dei. Storia e difesa di un carisma, Giuffrè, Milano 1991; D. Le Tourneau, L’Opus Dei, E.S.I, Napoli 19922; C. Sorgi, Il Padre. Josemaría Escrivá de Balaguer, Piemme, Casale Monferrato 1992; J. Orlandis, Mis recuerdos. Primeros tiempos del Opus Dei en Roma, Rialp, Madrid 1995; V. Messori, Opus Dei. Un’indagine, Mondadori, Milano 19993; A. Vázquez de Prada, Il fondatore dell’Opus Dei. La biografia di san Josemaría Escrivá, Leonardo International, Milano 1999-2004, vol. III; J. Herranz, Mons. Álvaro del Portillo, protagonista del Concilio, in V. Bosch (a cura di), Servo buono e fedele. Scritti sulla figura di Mons. Álvaro del Portillo, L.E.V., Città del Vaticano 2001 [d’ora in avanti VBo], 73-90; J.L. Gutiérrez, S.E.R. Mons. Álvaro del Portillo fondatore e primo Gran Cancelliere della Pontificia Università della Santa Croce, in VBo, 91-111; G. Lo Castro, L’opera canonistica di Álvaro del Portillo, in VBo, 149-160; G. Romano, Opus Dei. Il messaggio, le opere, le persone, San Paolo, Cinisello Balsamo 2002; A. Tornielli, Escrivá fondatore dell’Opus Dei, Piemme, Casale Monferrato 2002; J. Herranz, Nei dintorni di Gerico. Ricordi degli anni con san Josemaría e con Giovanni Paolo II, Ares, Milano 2005; J. Orlandis, La prima Messa del fondatore dell’Opus Dei in Italia. Relazione di una ricerca, in «Studia et Documenta. Rivista dell’Istituto Storico San Josemaría Escrivá» [d’ora in avanti SetD] 1 (2007), 245-256; A. Scorpiniti, La Calabria di Escrivá. Viaggio sulle tracce del fondatore dell’Opus Dei, Progetto 2000, Cosenza 2007; F. Castells, Gli studi di teologia di san Josemaría Escrivá, in SetD 2 (2008), 105-144; P. Bartolomei, I ragazzi di via Sandri: maestri di strada e compagni di scuola, Ares, Milano 2008; P. Urbano, Roma nel cuore. Gli anni romani di san Josemaría, Il Pozzo di Giacobbe, Trapani 2010; A. Capucci, San Josemaría e il beato Ildefonso Schuster (1948-1954), in SetD 4 (2010), 215-254; Id., La memoria di san Josemaría Escrivá nello spazio urbano in Italia, in SetD 4 (2010), 439-451; L. Revojera, San Josemaría in terra lombarda. Con lo sguardo alla Madonnina, 1948-1973, Àncora, Milano 2011; C. Pioppi, Alcuni incontri di san Josemaría Escrivá con personalità ecclesiastiche durante gli anni del Concilio Vaticano II, in SetD 5 (2011), 165-228; J.-I. Saranyana, Ante Pio XII y Mons. Montini. Audiencias a miembros del Opus Dei, in SetD 5 (2011), 311-343; L. Cano, San Josemaría ante el Vaticano. Encuentros y trabajos durante el primer viaje a Roma: del 23 de junio al 31 de agosto de 1946, in SetD 6 (2012), 165-209; M.I. Montero Casado de Amezúa, L’avvio del Collegio Romano di Santa Maria, in SetD 7 (2013), 259-319; C. Pioppi, Introduzione, Id. (a cura di), Escrivá de Balaguer. Un’educazione cristiana alla professionalità, La Scuola, Brescia 2013, 5-40; C. di Fazio, Centros Elis y Safi, in J.L. Illanes et al. (coord.), Diccionario de San Josemaría Escrivá de Balaguer, Monte Carmelo, Burgos 2013 [d’ora in avanti DSJ], 230-231; A. Méndiz, Villa Tevere, in DSJ, 1274-1277;  L. Cano, Colegio Romano de la Santa Cruz, in DSJ, 235-241; G. Lutterbach, Colegio Romano de Santa María, in DSJ, 241-244; L. Luque, Villa delle Rose, in DSJ, 1273-1274; C. di Fazio, Italia, in DSJ, 658-662; A. Torresani, Roma (1946-1956), i DSJ, 1048-1055; C. Pioppi, Roma (1956-1965), in DSJ, 1055-1063; F.M. Requena, Roma (1965-1975), in DSJ, 1063-1071; C. Pioppi, Concilio Vaticano II, in DSJ, 255-259; C. di Fazio, Dell’Acqua, Angelo, in DSJ, 312-313; F. Castells, Palazzini, Pietro, in DSJ, 934-935; S. Bernal, Echevarría Rodríguez, Javier, in DSJ, 351-353; J. Grohe, Pío XII, in DSJ, 973-977; S. Casas, Juan XXIII, in DSJ, 703-704; J.I. Saranyana, Pablo VI, in DSJ, 929-934; A. Capucci, Juan Pablo I, in DSJ,  699-700; J. Alonso, Juan Pablo II, in DSJ, 700-703; J. Medina Bayo, Álvaro del Portillo. Il primo successore di san Josemaría alla guida dell’Opus Dei, Ares, Milano 2014; L. Clavell, Mons. Álvaro del Portillo e la Pontificia Università della Santa Croce, in in P. Gefaell (a cura di), Vir fidelis multum laudabitur. Nel centenario della nascita di Mons. Álvaro del Portillo, Edusc, Roma 2014 [d’ora in avanti PGe], vol. I, 133-142; M. del Pozzo, Il contributo documentale di Álvaro del Portillo al progetto della “Lex Ecclesiae Fundamentalis” (1966-1973), in PGe, vol. II, 501-516; L. Navarro, Álvaro del Portillo e la normativa sulle associazioni di fedeli, in PGe, vol. II, 547-558; M.E. Ossandón W., Un calendario de encuentros entre Álvaro del Portillo y Juan Pablo II, in SetD 9 (2015), 145-201; J. Gil Sáenz, La biblioteca de trabajo de san Josemaría Escrivá de Balaguer en Roma, Edusc, Roma 2015; C. Pioppi, Álvaro del Portillo e la redazione del decreto «Presbyterorum ordinis» sulla vita e il ministero dei presbiteri, in P. Chenaux – K.P. Kartaloff (a cura di), Il Concilio Vaticano II e i suoi protagonisti alla luce degli archivi, Pontificio Comitato di Scienze Storiche – L.E.V., Città del Vaticano 2017, 153-171; A. Mendiz, Orígenes y primera historia de Villa Tevere. Los edificios de la sede central del Opus Dei en Roma (1947-1960), in SetD 11 (2017), 153-225; F. Crovetto, Los primeros pasos del Opus Dei en Italia. Epistolario entre Roma y Madrid (noviembre 1942 – febrero 1943), in SetD 11 (2015), 267-314.

Immagine: Josemaría Escrivá (1902-1975), fondatore dell’Opus Dei

Sitografia: Istituto Storico San Josemaría Escrivá: http://www.isje.org/

Studia et Documenta. Rivista dell’Istituto Storico San Josemaría Escrivá: http://www.studiaetdocumenta.org/

Prelatura della Santa Croce e Opus Dei in Italia: http://opusdei.it

Bollettino della Prelatura della Santa Croce e Opus Dei: http://www.romana.org/


LEMMARIO




Prima Guerra Mondiale - vol. II


Autore: Sergio Tanzarella

Premessa. Il papa Benedetto XV pronunciò sin dai suoi primissimi discorsi parole tanto chiare e tempestive quanto inascoltate e vanamente ribadite di totale condanna della I guerra mondiale – compresa sempre però come punizione divina. Una posizione chiara e ribadita ufficialmente con l’enciclica Ad Beatissimi dell’1 novembre 1914: «Il tremendo fantasma della guerra domina dappertutto […] nessun limite alle rovine, nessun limite alle stragi» e ripresa con una intensa azione diplomatica per favorire la fine della guerra o almeno un armistizio, dall’Esortazione ai popoli belligeranti e ai loro capi del 28 luglio 1915: «Scongiuriamo Voi, che la Divina Provvidenza ha posto al governo delle Nazioni belligeranti, a porre termine finalmente a questa orrenda carneficina che ormai da un anno disonora l’Europa», fino alla Nota ai capi degli Stati in guerra del 1° agosto del 1917. Nonostante ciò i cattolici italiani assunsero nei confronti di quella guerra mondiale – sia prima dell’intervento, sia durante la guerra – una quantità di posizioni che mostrano una grande varietà di giudizi e di motivazioni complessivamente inconciliabili tra di loro e che è impossibile ridurre ad unità.

La Chiesa italiana appare, infatti, vivere un profondo travaglio nel quale, oltre alle isolate ed esemplari posizioni come quella pacifista del barnabita Alessandro Ghignoni, l’adesione, la sacralizzazione o il rifiuto della guerra sembrano poco condizionate dalle parole del papa, e appaiono ispirate non soltanto da un giudizio morale o da valutazioni concrete e contingenti, ma rispondono a motivi più profondi della storia nazionale come il perdurare della questione romana e delle sue conseguenze. Alla base quindi di quelle posizioni divergenti, fin dalla contrapposizione interventisti-neutralisti non vi fu soltanto un pacifismo evangelico o l’adesione ai principi della teoria della “guerra giusta”, quanto il riaffermarsi dell’intransigentismo ottocentesco in opposizione ad un patriottismo desideroso di riconoscimento ufficiale da parte della Stato unitario di modo da poter dimostrare quanto i cattolici italiani fossero ormai divenuti dei buoni cittadini. A queste posizioni si aggiunge quella del padre Rosa su La Civiltà Cattolica per il quale il conflitto in atto manca degli elementi per essere definito “guerra giusta”, ma tuttavia egli giustifica – in nome del “principio di presunzione” – l’obbligo dei cittadini a prendervi parte perché si presume che lo Stato abbia avuto giusti motivi per fare la guerra. Di altro tenore sono poi le posizioni filogovernative di Meda che dal neutralismo arriva alla giustificazione dell’interventismo e quella di Miglioli che manterrà la linea di totale rifiuto della guerra sia per motivazione religiosa sia perché convinto che la maggioranza dei cattolici italiani è ad essa contraria.

Tutti questi elementi che caratterizzarono le posizioni ufficiali di una componente di rilievo del mondo cattolico italiano come associazioni, giornali e riviste cattoliche a diffusione nazionale, e singoli cattolici come alti ufficiali, uomini politici, figure di rilievo della cultura, non esauriscono tuttavia la ricchezza e la frammentarietà di quello stesso mondo cattolico come una certa storiografia – evemenenziale e talvolta a servizio della propaganda del mito della “Vittoria” – ha semplicisticamente proposto affermando una unità di posizioni e di adesioni di fronte alla guerra che di fatto non c’è mai stata. Ma almeno a partire dal settembre del 1962, in occasione del fondamentale convegno di Spoleto, si comprese come fosse necessario abbandonare generalizzazioni ed esclusive attenzioni ai rappresentanti ufficiali del mondo e del pensiero cattolico italiano (spesso rappresentativi solo di se stessi) e quanta differenza di posizioni e di sensibilità emergeva appena ci si spostava sul terreno dell’indagine locale negli archivi diocesani e parrocchiali i quali possedevano una quantità di fonti che ancora oggi solo in parte sono state studiate, e quelle che lo sono state mostrano la ricchezza di quel patrimonio e la necessità che esso venga posto a disposizione della ricerca vincendo ancora diffuse resistenze. Si tratta di ciò che concretamente i vescovi delle tante piccole diocesi pensavano sulla guerra, posizioni diversificate, da quelle patriottiche, nazionaliste e lealiste nei confronti del governo a quelle di accettazione della guerra come castigo di Dio fino a quelle, certo più rare, di neutralismo. Ci sono poi i diari di parroci, gli epistolari di preti e parrocchiani soldati, di cappellani militari cui si deve aggiungere la stampa diocesana e quella parrocchiale. Era dunque necessario contrapporre alla celebrazione retorica di quella esperienza bellica – direttamente promossa in ambito storiografico dai vertici militari e governativi dell’immediato dopoguerra e poi su larga scala prima dal fascismo e poi nei primi anni dall’Italia repubblicana – una considerazione attenta allo studio di tutte le fonti disponibili. Così i cinquant’anni trascorsi da quel convegno hanno prodotto una messe di studi che ha confermato – da parte dei cattolici italiani – un ventaglio di grande varietà di posizioni e di giudizi su quella guerra che conoscono tra l’altro evoluzioni e sviluppi tra i mesi della neutralità e all’interno degli anni di guerra dalle “radiose giornate di maggio” – con l’illusione di un successo militare sicuro e immediato e con costi limitatissimi – alla guerra combattuta e continuata con armamenti di nuova e inaudita capacità mortifera, da Caporetto fino al 4 novembre del 1918, alla sua successiva celebrazione e al processo di giustificazione dei costi della guerra nonostante la crisi economica da essa provocata fino all’inchiesta insabbiata sulla ormai certa corruzione per le spese di guerra. Non è un caso che, negli anni della guerra, nelle relazioni di prefetti e procuratori diversi vescovi e non pochi parroci sono descritti come promotori di proteste e di disfattismo anche quando si erano limitati soltanto ad invitare a pregare per la pace o avevano manifestato preoccupazione per le misere condizioni del popolo e dei soldati –anche per non lasciare campo libero alla propaganda socialista – o avevano citato gli interventi di Benedetto XV.

Preti in guerra. Il perdurare della questione romana e quindi l’assenza di riconoscimenti ufficiali da parte dello stato italiano nei confronti della Chiesa espose seminaristi, preti e religiosi alla chiamata alle armi in tempo di guerra. Dei circa 15.000 preti coinvolti solo un 2500 poterono essere arruolati come cappellani militari, altri riuscirono a trovare spazio nel servizio sanitario e in vari compiti non di combattimento, tuttavia la maggioranza del clero fu costretta a prestare servizio armato direttamente al fronte. Fu per molti, sia preti combattenti sia cappellani una esperienza durissima che non incrinò però i sentimenti patriottici, anche se solo una piccola – ma attivissima – minoranza, tra cui il domenicano Reginaldo Giuliani cappellano degli Arditi – continuò a sostenere, dinnanzi alle stragi della guerra, fortissimi entusiasmi bellici.

Complessivamente la posizione dei cappellani militari – ufficialmente inquadrati nell’esercito con il loro vescovo di campo Angelo Bartolomasi – fu lealista, con un invito alla rassegnazione e alla preghiera mentre si affermavano tra i soldati, anche contro talvolta la volontà dei cappellani, forme varie di devozioni con largo uso di immaginette, scapolari, medaglie, distintivi utilizzati spesso, nell’illusione di una speciale protezione, quasi come amuleti. Le immaginette sacre segnavano però due linee fortemente differenziate e se l’una sosteneva un intervento diretto di Dio per la vittoria e per la protezione del soldato – come facevano tra l’altro non poche preghiere, litanie e suppliche – un’altra tendeva ad affermare il valore assoluto della pace e della preghiera per impetrarla e per questo fu imputata di disfattismo e collaborazionismo col nemico.

Figura di primo piano tra i cappellani militari fu il barnabita Giovanni Semeria, cappellano del Comando Supremo, che testimonia una dolorosa evoluzione passando da posizioni pacifiste ad un convinto interventismo sostenitore del risveglio cattolico grazie alla guerra fino ad una profonda crisi di fronte all’orrore del conflitto.

Anche se non fu cappellano il frate francescano Agostino Gemelli – arruolato come capitano medico – svolse contemporaneamente quello di assiduo predicatore tra le truppe. Assegnato allo Stato maggiore Gemelli offrì al generale Cadorna, che fu per lui prodigo di sostegni, la personale competenza di psicologo per motivare le truppe ad andare incontro alla morte senza particolari resistenze e per realizzare su larga scala un condizionamento di massa fino alla elaborazione della teoria della catechesi del cannone: «se vi ha dunque rinascita religiosa al fronte, questa si ha esclusivamente nell’ospedale. Ma la professione di fede cristiana non si realizza d’un tratto. L’educazione religiosa è stata compiuta dalla voce del cannone durante i mesi di trincea, e il soldato ha appreso questa lezione quasi senza avvedersene» (Gemelli, Il nostro soldato. Saggi di psicologia militare, Treves, Milano 1917, 137). L’attività di Gemelli negli anni della guerra fu frenetica: dalle messe da campo alle ricerche sperimentali – anche se scientificamente molto discutibili – all’iniziativa della devozione dei soldati al Sacro Cuore di Gesù, fino alla pubblicistica su Vita e Pensiero nella quale il sostegno alla guerra – una volta superata l’indecisione dell’intervento – fu pieno. La rivista ridonda di articoli di lealismo al Governo italiano, nazionalismo e convinta partecipazione alla guerra. Nonostante quella guerra abbia visto su una popolazione di circa 28 milioni di italiani poco meno di 5 milioni di combattenti – di cui la metà contadini – e con una età media di poco più di 25 anni. Si trattò – fuor di retorica e di celebrazioni – di una ecatombe che segnò la società e la Chiesa italiana: 700.000 morti, 500.000 reduci invalidi gravi, 100.000 soldati morti nei campi di prigionia.

I cattolici italiani dall’interventismo alla condanna della guerra. Tutti questi elementi della realtà della guerra aiutano a comprendere le trasformazioni di giudizio di interventisti come don Primo Mazzolari o don Luigi Sturzo. Il primo molti anni dopo la fine della guerra prenderà apertamente e amaramente le distanze dalle personali illusioni patriottiche con un passaggio doloroso ed estremo da interventista ad oppositore totale della guerra considerata il suo “secondo seminario”. La testimonianza di quell’esperienza dolorosissima è raccolta nel romanzo autobiografico dove egli ripercorre il cammino della propria conversione attraverso le atrocità della guerra. Un guerra accolta ingenuamente come soluzione ai problemi sociali della società italiana ed esperienza di catarsi attraverso la catastrofe. Una guerra per la quale i giovani sacerdoti avrebbero dovuto sentirsi dire: «Se invece di dirci che ci sono guerre giuste e guerre ingiuste i nostri teologi ci avessero insegnato che non si deve ammazzare per nessuna ragione, che la strage è inutile sempre, e ci avessero formati ad una opposizione cristiana chiara, precisa e audace, invece di partire per il fronte saremmo discesi sulle piazze. … e siamo partiti come per una crociata. Perché a noi non importava né Trento, né Trieste, né questa, né quella revisione di confini» (La Pieve sull’argine 1952, 66). Sturzo, dopo avere assunto più volte pubblicamente una posizione interventista, già nel 1911 per la guerra libica, la ribadirà alla vigilia e durante tutta la I guerra mondiale. Ciò è dimostrato dalla sua firma all’Appello dell’Unione Popolare dell’8 maggio 1915 per l’ingresso dell’Italia in guerra, sebbene la sua posizione non avesse nulla dello spirito nazionalista dei Governi dell’epoca. L’idea di Sturzo è quella di sostenere un principio antimperialista che intravede nella guerra una possibilità di trasformazione dell’Europa attraverso nuovi equilibri e l’affermazione di libertà per le nazioni. Egli mantiene questa idea nonostante il tragico svilupparsi della guerra e i ripetuti interventi di condanna della stessa guerra da parte di Benedetto XV. Ad essi Sturzo dedicò sempre grande attenzione sottolineando il ruolo pacificatore della Chiesa e la sua equidistanza da tutte le fazioni in lotta. Tuttavia, ancora all’inizio del 1918 egli contrastava apertamente ogni tentazione disfattista. Nel rileggere la storia italiana dall’unificazione in poi come occasione mancata dalle classi dirigenti, la guerra viene da lui ancora considerata un elemento di coesione sociale e una fattore per la costituzione di una memoria nazionale del giovane Stato italiano, non differenziandosi quindi dalla linea della propaganda bellica del tempo. Una posizione imbevuta dei tradizionali elementi patriottici. Sturzo riafferma la grave necessità dell’esecuzione degli ordini che scaturisce dal dovere morale dell’ubbidienza assoluta. Su questa visione celebrativa della guerra e sulla sua valutazione positiva Sturzo rimase fermo ancora all’indomani del 4 novembre del 1918. Ma bastarono alcuni mesi successivi alla cosiddetta vittoria per indurlo progressivamente a cambiare idea e a riconsiderare la follia e le contraddizioni di quegli anni [cf. L. Sturzo, I Discorsi Politici, Istituto L. Sturzo, Roma 1951, 55-56], l’inconsistenza di quelle aspettative con il gravissimo peso economico conseguente [cf. I Discorsi Politici, 44] e la devastante crisi agraria e quella economica nella quale si intravedevano anche le ruberie realizzate dagli stati maggiori dell’Esercito e dagli industriali attraverso le forniture di guerra. Ma soprattutto Sturzo intravide, progressivamente, le insidie che quella guerra avrebbe prodotto a breve distanza e sulle quali ritornerà a parlare già nei primi mesi di esilio e sintetizzate nella considerazione che «il fascismo italiano è figlio della guerra» [I Discorsi Politici, 415].

Fonti e Bibl. essenziale

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LEMMARIO




Probabilismo - vol. I


Autore: Amarante Alfonso
  1. I primordi del probabilismo

Il Probabilismo è un sistema morale codificato come tale solo nel XVI secolo dal domenicano Bartolomé de Medina (1527-1580), uno dei maggiori esponenti della cosiddetta “scuola teologica di Salamanca e della seconda scolastica”.

Per capire cosa è il probabilismo e come si diffuse in teologia morale, attraverso la casistica, bisogna puntualizzare alcuni concetti.

Il problema della coscienza rettamente formata, e come essa debba comportarsi davanti al dubbio di liceità di un’azione, è presente come questione teologica dagli albori della Chiesa. Ad esempio su tale tema i padri della chiesa più che offrire una riflessione speculativa e sistematica, hanno indicato sempre soluzioni riferite a casi particolari.

San Tommaso (ca 1225-1274) cerca di puntualizzarne i termini e scrive «Nullus enim ligatur ad aliqua faciendum nisi aliqua lege. Sed homo non facit sibi ipsi legem. Ergo, cum conscientia sit ex actu hominis, conscientia non ligat». (De Veritate, 17, 3, 1). Tommaso sostiene che nessun uomo è vincolato moralmente da una legge se non ne ha conoscenza.

Nel periodo medievale, specialmente con la scolastica, si inizia a porre in modo sistemico la domanda intorno alla questione della formazione della coscienza, e quindi del suo agire, davanti a un dubbio. La soluzione che i teologici scolastici propongono può essere così riassunta: nel dubbio stretto o davanti ad un’opinione poco probabile non è lecito agire perché si è esposti al peccato.

La maggior parte delle soluzioni che vengono offerte dai teologici del XIV e XV secolo rimandano ai principi tuzioristi. La conoscenza probabile nell’azione deve corrispondere alla conoscenza scientifica. In questo senso, probabile non è altro che “la certezza pratica nelle cose contingenti e non necessarie”.

Per le cose necessarie la verità deve essere certa. La verità in materia contingente deve essere retta da un’opinione probabile nelle argomentazioni. Questo discorso entra in crisi quando la coscienza davanti a un dubbio non sa a cosa deve aderire perché la verità speculativa non è chiara. Per uscire dall’impasse, i teologici medievali proposero che davanti ad una situazione dubbiosa bisognava sempre scegliere l’opinione più severa in quanto oggettivamente più sicura dell’opinione opposta.

  1. La nascita ufficiale del probabilismo

Presso l’università di Salamanca, uno dei grandi centri della riflessione pre e post tridentina, si diede nuovo impulso alla scolastica tomista per offrire risposte al nuovo ordine sociale ed economico che si andava configurando in seguito alla scoperta del continente americano e al grande evento ecclesiale del Concilio di Trento (1545-1563). Il probabilismo come sistema morale, così come oggi è conosciuto, nasce in questa università grazie ad alcuni grandi maestri come Francisco de Vitoria (c. 1483-1546), Melchior Cano (1509-1560) e Domingo de Soto (1494-1560). Prima che il de Medina formulasse il principio del “probabilismo”, già altri docenti di questa università insegnavano la probabilità positiva. Essi sostenevano comunemente che davanti a due opinioni probabili si poteva scegliere quella che si voleva. Ma nel caso di giudizio in cui fosse coinvolta una terza persona si doveva scegliere la sentenza più probabile.

Nella diciannovesima questione della sua Expositiones in primam secundae Divi Thomae (1577), B. de Medina affronta il problema se la coscienza erronea obbliga oppure no. Nella stessa, egli discute anche il problema del dubbio della coscienza. Medina arriva ad una distinzione tra l’incertezza speculativa e quella pratica. Se si dubita speculativamente su qualcosa, non è automatico che si sbagli in una situazione di decisione pratica.

Il modo di Medina di presentare la questione, in quest’opera, è nuova. Egli perviene ad una sostanziale distinzione tra due modi di costruire le opinioni morali: 1. quelle che sono probabili; 2. e quelle che sono improbabili.

Riferendosi ad Aristotele, Medina stabilisce che le opinioni probabili sono quelle confermate da molti argomenti come anche dall’autorità della prudenza. Le opinioni improbabili trovano il supporto degli argomenti e delle autorità. Formula il principio del probabilismo in questi termini “Mi sembra che se un’opinione è probabile, allora, ad uno è permesso di seguire questa opinione anche se l’opposta è più probabile”.

Il primo argomento di Medina a favore di questo punto di vista è che, poiché ci è concesso di seguire le opinioni probabili a livello speculativo senza pericolo di errore, possiamo seguire le opinioni probabili a livello pratico senza il pericolo di peccare.

Il secondo argomento è che la nozione di opinione probabile implica che un’opinione probabile potrebbe essere seguita senza rimprovero. Utilizza il concetto di opinione probabile come sinonimo di opinione approvabile da parte delle autorità qualificate.

Il terzo argomento di Medina ha qualche somiglianza con il secondo. Dichiara che, nel seguire un’opinione probabile, nessuno è compromesso con il peccato perché un’opinione probabile è in accordo sia con la retta ragione sia con l’opinione degli uomini prudenti. Se un’opinione particolare è contro ragione allora, per definizione, essa non rappresenta un’opinione probabile.

Dopo questa premessa, de Medina cerca di rispondere a due questioni: 1. È peccato agire contro la coscienza dubbia? 2. È lecito agire contro la propria opinione?

La coscienza dubbia è quella che non ha né assenso, né dissenso, ma rimane nel dubbio (q. 19, a.6, ad.4).

In questo caso, egli si chiede: come dobbiamo agire nel dubbio grave? A tale domanda offre una serie di argomentazioni teologiche che scaturiscono dalla recta ratio per giungere ad affermare che nel dubbio si deve giudicare sempre secondo sicurezza.

Allo stesso tempo Medina si domanda se è lecito agire contro la propria opinione. Afferma che l’opinione probabile è l’opinione confermata da grandi ragioni e dall’autorità degli studiosi. Di conseguenza se l’opinione è probabile, è lecito seguirla, anche lasciando la propria opinione che potrebbe essere più sicura. Questo suo ragionamento lo porta ad affermare che “L’opinione probabile è quella che possiamo seguire senza pericolo di errore e di inganno”. La condizioni necessaria per stabilire una opinione come probabile, è che si abbiano buone ragioni e argomenti e che questi siano difesi dai maestri saggi.

Il probabilismo formulato in questo modo sembrava capace di rispondere con certezza alla sua domanda di partenza. In realtà la speculazione teologica segnalò nel corso dei secoli alcuni limiti. Ad esempio l’accontentarsi della sola opinione probabile apriva al lassismo più bieco facendolo diventare vero sistema morale per giustificare l’ingiustificabile.

Gli stessi domenicani contrapposero al probabilismo il probabiliorismo. Questo sistema morale sostiene che si può seguire l’opinione favorevole alla libertà solo nel caso in cui questa opinione sia sicuramente “più” probabile dell’opinione favorevole alla legge.

  1. La discussione sul probabilismo

Se fin qui si era nel campo della speculazione teologica, ben presto il probabilismo – come altri sistemi morali nati per indicare soluzioni davanti a situazioni dubbiose –, venne applicato nella pratica pastorale e particolarmente nel campo del sacramento della riconciliazione.

Per tutto il medioevo il peccato corrispondeva – secondo la definizione di sant’Agostino – ad ogni azione, parola o desiderio contro la legge eterna. Con l’affermarsi del concetto di coscienza individuale – chiamata a rispondere nella complessità della vita in fedeltà alla norma morale –, la soluzione offerta da Medina non rendeva schiavi del più sicuro davanti al dubbio ma lasciava delle possibilità di poter scegliere diversamente grazie a delle opinioni probabili sostenute da teologi dotti. Ai probabilisti interessa riaffermare che la libertà è il bene proprio ed originario dell’uomo. L’uomo è creato libero, pertanto gode del “principio del possesso” che difende la libertà davanti ad una norma non chiara. In pratica questo nuovo modo di porre questioni delicate di morale, svincolava i fedeli da norme non scritte, su costumi o riti tipici del medioevo o dell’età moderna. All’improvviso l’uomo faceva l’esperienza di autodeterminarsi in tante piccole scelte quotidiane che fino ad allora erano vincolate da norme universali non scritte ma seguite da tutti.

Questo nuovo modo di usare in teologia morale il concetto di opinione probabile portò alla raccolta delle tesi e dei “casi di coscienza”, proposti dai teologici probabilisti, che diventarono un vademecum da applicare durante la celebrazione del sacramento della riconciliazione.

Il probabilismo, però, apriva a vari problemi di carattere teologico che poi si riversarono nella pratica pastorale. Il principale problema era il rapporto tra legge e coscienza. Secondo gli autori probabilisti, fedeli all’occamismo, la legge è estrinseca all’uomo. È adesione alla volontà di Dio che comanda all’uomo di fare questo o evitare quello. Tommaso d’Aquino invece aveva insegnato che la legge è un comandamento della ragione e quindi interiore.

I probabilisti, esasperando l’aspetto della norma estrinseca, riportarono la morale nel campo del legalismo o dell’obbligo. La norma doveva vietare o acconsentire una determinata azione. Davanti al dubbio di legge, la coscienza poteva agire come credeva più opportuno.

La reazione più violenta al probabilismo venne dagli ambienti giansenisti che caddero ben presto nel rigorismo più assoluto. Ricercando sempre il più sicuro, portano le coscienze verso l’esasperazione della legge. Il bene da solo non bastava se non era perfetto.

Il probabilismo venne corretto da Alfonso de Liguori (1697-1787) con il suo sistema detto equiprobabilista. Alfonso assunse il principio del possesso per affermare che davanti a due opinioni probabili, ma opposte, la coscienza è obbligata solo davanti ad una legge certa. La legge cessa di vincolare solo nel momento in cui si è alla presenza di un’opinione più probabile e in favore della libertà. Il sistema alfonsiano sistema si regge su tre principi: sulla ricerca costante della verità, sul primato della coscienza e le esigenze della libertà.

L’Equiprobabilismo, così come lo conosciamo oggi, venne formulato dai redentoristi intorno al 1870 dopo una lunga disputa con il gesuita Antonio Ballerini (1805-1881) il quale accusava il de Liguori di seguire il probabilismo semplice.

Conclusione

Il probabilismo come sistema morale ha formato intere generazioni di sacerdoti attraverso le Institutiones morales. Con il rinnovamento proposto dalla scuola di Tubinga questi manuali iniziarono ad andare in crisi per scomparire quasi del tutto alla vigilia del Concilio Vaticano II.

Il successo del probabilismo, e quindi della casistica e dei sistemi morali, più in generale, è dovuto certamente all’imporsi dell’individualismo tipico dell’era moderna. Mentre il medioevo aveva proposto l’ideale dell’unità organica, finalizzato al bene comune della cristianità, con il Rinascimento si è esalto l’individuo estrapolandolo come centro del proprio agire, senza riferimento all’altro. Dal teocentrismo siamo passati all’individualismo. Questa svolta era stata preparata dall’impostazione nominalistica operata da Gugliemo da Ockham (1285-1347). Nella sua teoria, negando la realtà dell’universale, ha messo al centro il solo individuo. Di conseguenza la morale ha posto la sua attenzione sulla sola coscienza individuale e sugli atti singoli.

Il Concilio di Trento aveva affidato al clero la cura particolare del sacramento della penitenza come formazione e controllo delle coscienze. Esaltando la coscienza individuale, tutta la morale si è concentrata sulla casistica e sui sistemi morali per rispondere a problemi individuali e non connessi con la coscienza comunitaria.

Il probabilismo in questo modo ha facilitato la casistica rendendo il sacramento della confessione una pura tecnica dove il penitente si accusava e il sacerdote come giudice era chiamato ad assolvere o punire. Tutto ciò ha portato la morale cattolica a non sapere rispondere nel XIX secolo ai nuovi problemi agitati dall’industrializzazione e dalla nascita del nuovo senso sociale.

Fonti e Bibl. essenziale

A. V. Amarante, «Probabilismo, attrizionismo e contrizionismo» in Chiesa e Storia 1 (2011), 239-258; Id. «Prudenza e prudenzialità in sant’Alfonso» in Studia Moralia 43 (2005) 2, 469-492; J. M. Aubert «Probabilisme» in Catholicisme hier aujourd’hui demain. Encyclopédie publiéee sous la patrogne de l’Instiuti catholique de Lille, vol. XI, Letouzey et Ané, Paris 1988, 1064-1076; Th. Deman, «Probabilisme» in Dictionnaire de théologie catholique contenant l’exposé des doctrines de la théologie catholique leurs preuves et leur histoire, vol. 3, Letouzey et Ané, Paris 1936, 417-619; J. Delumeau, La confessione e il perdono, Ed. Paoline, Cinisello Balsamo (MI) 1992; R. Gerardi, Storia della Morale, EDB, Bologna 2003; B. Petrà, «Teologia morale», in La teologia del XX secolo. Un bilancio, III, G. Canobbio – P. Coda (edd.), Città Nuova, Roma 2003, 97-193; S. Pinkaers, Le fonti della morale cristiana: metodo, contenuto, storia, Ed. Ares, Milano 1985. L. Vereecke, Da Guglielmo d’Ockham a S. Alfonso de Liguori, Ed. San Paolo, Cinisello Balsamo 1990; M. Vidal, Historia de la teologia moral. De Trento al Vaticano II. Tomo 1: Crisis de la razón y rigorismo moral en el Barroco (s. XVII), Ed. Perpetuo Socorro, Madrid 2014; Id., Historia de la teologia moral. De Trento al Vaticano II. Tomo 2: El siglo de la Illustracón y la moral católica (s. XVIII), Ed. Perpetuo Socorro, Madrid 2017.

LEMMARIO




Proprietà ecclesiastica - vol. I


Autore: Fiorenzo Landi

All’inizio del ’200 il canonico Guglielmo di Sant’Amore sintetizzò con particolare efficacia quale era la funzione della proprietà ecclesiastica: la Chiesa non è fondata, se non è dotata. In altri termini la Chiesa ha bisogno di risorse economiche senza le quali mancano le fondamenta della sua presenza nella società. Quindi l’esigenza di risorse economiche particolarmente rilevanti è legata a una delle caratteristiche peculiari della strategia pastorale della chiesa cattolica incentrata sulla creazione di una fitta rete territoriale di istituzioni finalizzate all’esercizio delle attività di culto, al proselitismo, al disciplinamento e al controllo sociale. Per questo il significato della proprietà non si esaurisce sul piano puramente economico ma coinvolge nella forma e nella sostanza la quantità e la qualità dei “servizi” erogati e la tipologia dell’esperienza religiosa che viene proposta.

Nel corso dei secoli il clero secolare, il clero regolare e le altre istituzioni ecclesiastiche in un processo di stratificazione progressiva hanno realizzato sul territorio una delle più complesse e articolate costruzioni istituzionali della storia moderna, differenziata per obiettivi specifici, ma unitaria nello sforzo comune di sostegno e di affermazione della propria missione pastorale in una dialettica continua con le istituzioni laiche. Il territorio italiano in questo contesto ha almeno due particolarità: la prima è costituita dalla presenza del papato e di uno Stato della Chiesa, la seconda dal frazionamento in numerosi Stati, ognuno dei quali si distingue anche per la posizione specifica nei confronti della Chiesa.

In generale la proprietà ecclesiastica aveva la funzione di produrre una rendita che doveva consentire il mantenimento del personale religioso nello svolgimento delle sue funzioni. In questo modo le istituzioni del clero secolare e regolare dovevano farsi carico del reperimento delle risorse che servivano al loro funzionamento. Il clero regolare è la componente che ha assorbito maggiori risorse patrimoniali e che ha sperimentato le strategie patrimoniali più complesse e variegate in virtù delle sua particolari forme di diffusione e di insediamento.

Dalle origini fino alla metà dell’Ottocento si possono individuare almeno tre fasi evolutive che corrispondono all’affermazione di differenti concezioni del ruolo dei regolari all’interno della Chiesa e della società.

La prima fase vede come protagonisti gli ordini monastici tradizionali che si prefiggono come compito quello di fornire esempi di perfezione religiosa da proporre come modello alla società laica. Dal punto di vista del funzionamento economico i monasteri e le abbazie che accolgono i monaci hanno come elemento comune una dotazione iniziale che serve per la costruzione degli edifici e la creazione di un’entrata annuale. I beni di prima erezione sono in genere donati da imperatori, sovrani e nobili. In base alla rendita che consentono, si individua un costo procapite di mantenimento che determina il numero dei religiosi prefissati. In questo caso l’unica fonte di rendita è costituita dal patrimonio e il modello economico di funzionamento è molto statico.

Ciononostante esistono diverse possibilità di intervenire per correggere eventuali squilibri. In caso di crisi economiche si può ridurre il numero dei religiosi presenti coprendo solo una parte dei posti prefissati. In questo modo, stabilmente o limitatamente allo stato di necessità, diminuisce l’entità della rendita di funzionamento in proporzione della entità della riduzione dei membri della famiglia dei religiosi. In secondo luogo si possono fare investimenti orientati a rendere temporaneamente più produttivi beni sottoutilizzati: ad esempio si possono bonificare aree soggette a disordini idraulici, oppure disboscare e appoderare aree boschive.

Infine, a partire dal ’500, con l’istituzione di congregazioni che raccolgono e coordinano l’attività di monasteri e di abbazie appartenenti a una stessa famiglia, come ad esempio i Cassinesi o i Camaldolesi, si possono creare meccanismi di compensazione che consentono alle strutture in difficoltà di superare periodi congiunturali negativi o eventi traumatici di carattere bellico, attraverso prestiti di denaro o accensione di piani di accumulo.

In questo modo i monasteri e le abbazie hanno una vita lunghissima che viene generalmente interrotta solo da confische e soppressioni. Il modello economico di funzionamento garantisce una sopravvivenza senza particolari difficoltà anche in considerazione della dimensione mediamente molto vasta della ricchezza patrimoniale. Nell’economia preindustriale la dimensione dei beni immobili è un requisito di particolare stabilità soprattutto perché lo sfruttamento effettivo ha margini elevati di ampliamento che vengono dilatati solo in caso di necessità.

Nella sottoutilizzazione delle potenzialità patrimoniali e nei rapporti di solidarietà tra istituzioni della stessa congregazione sta il limite dinamico della gestione economica degli ordini tradizionali. I beni sono ben gestiti e la solidarietà tra i monasteri consente di superare le difficoltà contingenti, ma da una parte l’obbligo di ricambiare l’aiuto e dall’altro il ricorso a interventi di potenziamento della rendita solo in caso di emergenza non produce accumulazione se non finalizzata all’accrescimento dei membri della famiglia dei religiosi che comporta evidentemente l’assorbimento delle quote di rendita eccedenti.

Il tipo di esperienza religiosa che è legato a questa modalità economica e organizzativa ha soprattutto la funzione di proporre un modello di perfezione che dovrebbe servire alla società nel suo complesso per seguire un percorso elitario di elevazione spirituale.

Agli inizi del ’200, quando il modello economico fondato sulla rendita patrimoniale dei beni di prima erezione ha perso gran parte del suo slancio, si afferma una nuova strategia di funzionamento economico legata agli ordini mendicanti. In questo caso l’avvio dell’iniziativa di fondazione prescinde da un patrimonio iniziale e dalla rendita conseguente per affidarsi alla ricerca della carità quotidiana. I frutti dell’elemosina devono servire per i bisogni essenziali dei religiosi e, in caso di un’eccedenza rispetto a tali bisogni , devono essere re-distribuiti ai poveri.

In base a questa strategia si ipotizza una “rendita” senza patrimonio frutto della carità dei fedeli che ha una sua logica funzionale in due direzioni: da una parte si inserisce all’interno del mondo dell’autoconsumo e dello scambio in natura e dall’altro funziona come uno strumento di redistribuzione delle risorse. Nel dualismo della società preindustriale esistono due mondi paralleli, quello dell’autoconsumo e dello scambio in natura e quello del mercato e del denaro che ha un ruolo dominante. Gli ordini mendicanti si collocano nell’area della povertà e dell’autoconsumo con una funzione particolarmente importante dal punto di vista sia sociale sia religiosa. Essi, infatti, assorbono attraverso la cerca il superfluo di cui il donatore si priva, ne utilizzano una parte per il funzionamento del convento e re-distribuiscono quanto resta per aiutare chi non ha il necessario per vivere. Questa funzione di cerniera e di riequilibrio delle risorse assume un ruolo particolarmente rilevante sia dal punto di vista sociale, sia dal punto di vista dell’esperienza religiosa,che da esempio elitario di perfezione diventa fenomeno di massa vissuto collettivamente a contatto diretto con i fedeli .

Per la rapidità e l’entità della diffusione gli ordini mendicanti in pochi decenni diventano la componente quantitativamente di gran lunga dominante del clero regolare.

I Francescani e i Domenicani, i Carmelitani scalzi e gli Agostiniani scalzi iniziano la loro attività quasi contemporaneamente e partono con lo stesso obiettivo: quello della povertà non solo individuale, ma anche collettiva. Ma la loro evoluzione li trasforma progressivamente in una alternanza tra adattamenti e radicalizzazione della regola che caratterizza soprattutto la componente francescana.

Il punto cruciale sul quale avviene il cambiamento è costituito dal concetto stesso di elemosina. Essa consiste in un atto solidale senza contropartita, asimmetrico rispetto al dono che caratterizza le società primitive. Nelle società primitive, infatti, il dono tra i protagonisti dello scambio implica reciprocità sia pure differita nel tempo e diversa nei contenuti. Nel caso dell’elemosina, invece, il donatore concede il suo contributo in nome della carità cristiana, per essere ricompensato da Dio e non dal beneficiario.

Ma l’elemosina facilmente può assumere dimensioni e caratteri che ne modificano le implicazioni: invece di ottenere un pezzo di pane, si può ricevere un sacco di grano, oppure un appezzamento di terra che produce dieci sacchi di grano. È vero che l’obbligo morale imporrebbe sempre e in ogni caso di re-distribuire ai poveri tutto ciò che eccede i bisogni minimi del convento, ma la donazione di terre o di edifici non si presta a una redistribuzione immediata. In questo modo diventa un patrimonio che può produrre rendita per i poveri, ma il passaggio non è più diretto e immediato e snatura il senso della scelta iniziale di povertà assoluta. Così dal punto di vista della proprietà il convento rischia di assomigliare sempre di più ai monasteri che vivono della rendita patrimoniale e paradossalmente le potenzialità di arricchimento possono anche diventare maggiori ,perché si sommano insieme le forme di patrimonializzazione tradizionale con i proventi di una ricerca di pubblica carità.

A questo punto chi ha fatto la scelta drastica e irrevocabile della povertà assoluta , si stacca dal proprio ordine e rilancia l’ iniziativa osservante come accade – ad esempio – per i Cappuccini, mentre i Francescani osservanti si adeguano al compromesso tra esigenze di povertà e gestione delle rendite.

Quello che in ogni caso merita di essere sottolineato è che , così come i mendicanti si sono aggiunti agli ordini monastici tradizionali e non si sono sostituiti ad essi, allo stesso modo i mendicanti conventuali e quelli osservanti non si avvicendano, ma si sommano allargando la loro presenza e assorbendo sempre maggiori risorse.

Con il concilio di Trento e la Controriforma si verifica un’altra ondata di insediamenti di regolari. Si tratta dei Chierici Regolari, una variante rispetto ai monaci tradizionali e ai frati mendicanti, che si caratterizza per la mancanza di una regola vera e propria, sostituita da una formula vitae, cioè da una serie di norme di comportamento e di vita comune che in particolare non comportano coabitazione e abito distintivo.

Questi nuovi ordini, finalizzati in primo luogo a contrastare la Riforma protestante e a promuovere l’educazione scolastica godono di una particolare autonomia operativa dal punto di vista economico che consente loro di mettere a frutto la lunga tradizione gestionale di monasteri e conventi. In particolare i Gesuiti apportano nell’acquisizione, nella gestione e nella valorizzazione di patrimoni e rendite una nuova attitudine orientata in modo speciale verso l’aspetto finanziario .Nella loro disponibilità patrimoniale e di rendita le somme in denaro sono particolarmente elevate e vengono utilizzate in maniera molto più dinamica con uso di strumenti del credito e una velocità di riallocazione delle risorse fino ad allora sconosciuta.

Dal punto di vista dell’esperienza religiosa i chierici regolari introducono ulteriori elementi di coinvolgimento collettivo con un’attenzione particolare alla spettacolarizzazione, e alla catechizzazione di massa attraverso le missioni e le scuole .

Ognuno degli ordini e delle congregazioni era nato per rispondere a bisogni specifici di carattere pastorale, assistenziale, sociale, culturale e aveva coniugato la sua specializzazione con una o più delle strategie economiche finalizzate al reperimento delle risorse necessarie al proprio funzionamento. All’interno della società questa rete di insediamenti era diventata uno dei pilastri della stabilità d’antico regime , perché orientata a una funzione caritativa e assistenziale generatrice di obblighi e, pertanto,efficace strumento di controllo sociale oltre che religioso. In positivo la fitta rete dei Regolari, integrata da quella delle parrocchie e delle confraternite, era il fondamento di una coesione sociale e un tipo di religiosità vissuta collettivamente. In negativo la proprietà inalienabile e diffusa dei religiosi trasferiva anche sul piano economico gli stessi effetti di stabilità e di immobilismo.

La causa era legata prevalentemente alla natura del possesso e in speciale modo alla sua dimensione .Per quanto riguarda il primo aspetto, trattandosi di beni finalizzati a particolari funzioni religiose e sociali, godevano di privilegi fiscali e soprattutto erano inalienabili. Per quanto riguarda il secondo aspetto, il processo plurisecolare di stratificazione aveva dilatato la dimensione soprattutto della proprietà fondiaria fino a raggiungere livelli locali talmente vistosi da diventare oggetto di polemica e di scandalo.

La quantificazione dei beni posseduti dalla Chiesa in Italia nella seconda metà del settecento , quando inizia il processo di confisca, è impossibile da definire con precisione sia in termini assoluti che in termini relativi. Infatti non si può calcolare il significato economico della proprietà immobiliare, che costituiva il settore patrimoniale assolutamente dominante , in termini di pura e semplice estensione , perché il valore effettivo dipendeva evidentemente dalla qualità dei beni, piuttosto che dalla loro quantità. In secondo luogo il contesto polemico all’interno del quale avvennero le soppressioni toglie gran parte del significato alle valutazioni dei contemporanei sui quali si sono basate generalmente le valutazioni storiografiche.

In termini di larga approssimazione e sottolineando l’esistenza di differenze sostanziali a seconda degli Stati e delle aree regionali, possiamo comunque ricavare dai dati emersi dalle ricerche locali un ordine di grandezza dell’incidenza media relativa della proprietà ecclesiastica dell’ordine di almeno un 10-15 per cento del totale che , però, non esclude concentrazioni molto più elevate nelle aree soprattutto urbane ad alta densità demografica. Si tratta di una valutazione di molto inferiore a quella prodotta dalle polemiche del periodo illuminista, ma in ogni caso dal significato economico rilevante soprattutto in ragione della quantità elevata di diritti d’uso aggiuntivi goduti dagli enti ecclesiastici su beni di uso comune, che si sommano alla proprietà esclusiva, e soprattutto grazie della qualità degli edifici posseduti.

Fonti e Bibl. essenziale

Negli ultimi decenni si sono moltiplicati gli studi sulla proprietà ecclesiastica soprattutto per quanto riguarda il clero regolare. In questa sede ci limitiamo a segnalare i contributi di carattere generale che possono essere utilizzati per ogni eventuale ulteriore approfondimento. Per un orientamento bibliografico: DIP. Dizionario degli Istituti di perfezione religiosa , a cura di G. Pelliccia – G. Rocca, Roma (1974-2003); E. Stumpo, Il capitale finanziario a Roma fra Cinque e Seicento Milano 1985; Storia d’Italia, Einaudi (1986), Annali , IX, La Chiesa e il potere politico, Torino 1986; F. Landi, Storia economica del clero in Europa (secoli XV-XIX), Roma 2005; M. Rosa, Clero cattolico e società europea, Bari 2006. Per approfondimenti a livello nazionale e regionale: G. Borelli, Aspetti e forma della ricchezza negli enti ecclesiastici e monastici di Verona tra secc. XVI e XVIII, Verona 1980; A. Placanica, La Calabria nell’età moderna , Vol. II, Chiesa e società, Napoli 1988; M. Spedicato, Redditi e patrimoni degli enti ecclesiastici nella Puglia del XVIII secolo , Galatina 1990; F. Landi, Il paradiso dei monaci .Accumulazione e dissoluzione dei patrimoni del clero regolare in età moderna, Roma, 1996; M. Taccolini, L’esenzione oltre il catasto: beni ecclesiastici e politica fiscale dello Stato di Milano nell’età delle Riforme, Milano 1998; G. Poidomani, Gli ordini religiosi nella Sicilia moderna. Patrimonio e rendite nel Seicento, Milano 2001; M. Giannini, L’oro e la tiara :la costruzione dello spazio fiscale italiano della Santa Sede, 1560-1620, Bologna 2003.


LEMMARIO




Proprietà ecclesiastica - vol. II


Autore: Fiorenzo Landi

La nascita dello Stato unitario coincide con due avvenimenti che segnarono in maniera radicale la vicenda della proprietà ecclesiastica. Da una parte scomparve lo Stato temporale della Chiesa e dall’altra avvenne l’ultima confisca della proprietà ecclesiastica. Le drammatiche difficoltà economiche dello Stato italiano determinate dai costi delle guerre d’indipendenza e dalle esigenze del nuovo apparato istituzionale, furono superate attraverso la confisca dei beni del clero. Dopo le soppressioni settecentesche e quelle napoleoniche, durante la Restaurazione, la Chiesa cattolica aveva ripristinato gran parte del proprio patrimonio immobiliare. Ma dal 1866 all’incirca 2 milioni di ettari di terra e una grande quantità di immobili furono ancora una volta confiscati e messi sul mercato. Gran parte degli immobili diventarono le scuole, i tribunali, le sedi delle istituzioni del nuovo Stato. Mentre il debito ormai insostenibile di sei milioni e mezzo di lire dello Stato fu almeno in parte ripianato con la requisizione e la messa in vendita di un capitale di oltre nove milioni di lire. In questo modo paradossalmente la Chiesa diede un contributo decisivo, anche se del tutto involontario, alla riuscita dell’unificazione nazionale, ma questa esperienza traumatica determinò un cambiamento radicale di strategie economiche.

Infatti, i primi decenni post unitari furono dominati dal timore diffuso e persistente che si verificasse l’ennesima ulteriore confisca dei beni rimasti o riacquistati e tutto questo determinò la ricerca affannosa di strumenti che fossero in grado di impedirne il successo. Le diverse ondate di confische subite dalla Chiesa in Italia e negli altri paesi cattolici erano state rese agevoli dalla natura immobiliare del patrimonio ecclesiastico. La proprietà terriera e gli immobili urbani, che erano la fonte essenziale della rendita, si potevano individuare senza alcuna difficoltà attraverso i catasti e confiscare con un semplice atto amministrativo. Perciò la Chiesa modificò la sua strategia: da una parte cercò di inserirsi nelle ambiguità della legge del 1866 sulle soppressioni per cogliere le possibilità di limitare le restrizioni normative fissate per le istituzioni “religiose” e dall’altro intensificò il trasferimento degli investimenti dal settore immobiliare a quello finanziario, agevolata in questa scelta anche dalla sua dimensione transnazionale. Nel primo caso agì su due fronti: cercò di salvare dalla soppressione il maggior numero possibile di istituzioni religiose che svolgevano attività sociali e, in secondo luogo utilizzò tutti gli strumenti legali per consolidare e allargare  i diritti giuridici della Chiesa come ente proprietario. In effetti l’attenzione della Chiesa verso gli investimenti finanziari godeva di una lunga tradizione consolidata soprattutto nell’ambito del clero regolare, ma il settore mobiliare era stato considerato sempre più un completamento e un’occasione di diversificazione degli investimenti, che un obiettivo strategico primario.

La smaterializzazione della ricchezza e la naturale globalizzazione della istituzione ecclesiastica resero molto meno vulnerabili gli interessi economici della Chiesa, anche se l’ingresso nella opacità delle transazioni finanziarie la espose, da allora in poi, ai rischi e agli inconvenienti di un’economia in gran parte autonoma da preoccupazioni etiche.

Il concordato del 1929 e il successivo aggiornamento del 1984 con l’introduzione del finanziamento della chiesa attraverso l’8 per mille, hanno comportato un definitivo assestamento delle attività economiche della Chiesa, introducendo un meccanismo di compartecipazione di massa aiutato da su una sorta di silenzio assenso dei contribuenti, ma non ha modificato l’orientamento verso investimenti e impieghi di risorse di carattere finanziario, più che immobiliare.

Si può comunque sottolineare che, dal punto di vista del monitoraggio della proprietà ecclesiastica e della relativa tassazione, l’ambiguità delle norme concordatarie nella definizione della funzione e dell’uso degli immobili e la difficoltà di accesso alle fonti dirette, creano difficoltà oggettive e a volte insormontabili nella ricostruzione della dinamica della proprietà ecclesiastica a livello nazionale e internazionale. Tanto che, per il periodo che va dalla Unificazione a oggi, almeno per l’Italia, non esistono contributi di storia economica che siano in grado di definire vicende e protagonisti dei nuovi sistemi di accumulazione e di utilizzazione delle risorse finanziarie della Chiesa cattolica nel suo insieme.

Dal punto di vista dell’esperienza religiosa la trasformazione radicale del rapporto tra Chiesa e proprietà ha cambiato profondamente atteggiamenti e sensibilità individuali e collettive. Il sistema dell’autofinanziamento delle iniziative di rilevanza sociale ha continuato ad essere legato all’utilizzazione di lasciti e donazioni , ma l’obiettivo è stato ridefinito sulla base di obiettivi di carattere umanitario e di promozione sociale oltre che religioso .Questo è avvenuto, in particolare, attraverso il volontariato e la rete capillare di istituzioni religiose e di apostolato laico che svolgono un ruolo di assistenza religiosa e sociale nei confronti di categorie e di bisogni che restano fuori dalle tutele dello Stato laico.

Fonti e Bibl. essenziale

Sulla proprietà ecclesiastica in Italia negli anni dell’unificazione nazionale: G. Montroni, Società e mercato della terra, Napoli 1983 A. Bogge e M. Sibona, La vendita dell’Asse ecclesiastico in Piemonte dal 1867 al 1916, Milano, 1987; S. Cucinotta, Sicilia e siciliani: dalle riforme borboniche al “Rivolgimento” piemontese: soppressioni, Messina 1996.Sulla riconversione delle strategie della proprietà ecclesiastica volte a evitare confische G. Rocca, Le strategie anticonfisca degli istituti religiosi in Italia dall’Unità al concordato del 1929:appunti per una storia, in R. Di Pietra – F. Landi, Clero, economia e contabilità in Europa, Roma 2006. Sulle finanze papali J.F. Pollard, L’ obolo di Pietro. Le finanze del papato moderno: 1850-1950, Milano 2006.


LEMMARIO




Protestantesimo - vol. I


Autore: Stefano Cavallotto

Il termine “protestante” è nato alla II Dieta di Spira del 1529, quando gli Stati evangelici elevarono una solenne protesta contro la decisione di imporre un’interpretazione rigida dell’Editto di Worms (1521), sostenuta dalla maggioranza dei principi cattolici con l’intento di bloccare sino a futuro concilio ogni processo di rinnovamento già avviato peraltro nei territori passati alla Riforma.

In Italia il protestantesimo si è diffuso già nel XVI secolo in forme diverse a seconda delle personalità coinvolte, dei luoghi (Repubblica Veneta, Stato di Milano, Napoli, Sicilia, Lucca, ducato di Ferrara, Piemonte, Calabria, Puglia) e delle fasi storiche del suo processo. Qui interessa partire dagli inizi dell’Ottocento quando, dopo il lungo periodo della Controriforma e la fine dell’Ancien Régime (1798), all’isolata presenza dei [→] valdesi nelle valli piemontesi cominciano ad aggiungersi nuovi arrivi: i «Liberi», i «Fratelli», i metodisti, i battisti, i pentecostali; una galassia di chiese che nel «grande Risveglio» e nella lotta patriottica per l’unificazione trovano un’occasione storica per un rilancio missionario in Italia. In effetti, dopo l’epoca dell’Ortodossia, fonte di aspre dispute interne e di un esasperato confessionalismo, e del Puritanesimo di stampo calvinista inglese e americano, e dopo l’ondata di rinnovamento spirituale del Pietismo tedesco e l’opera evangelizzatrice e di “rinascita” portata avanti in Inghilterra dalle «società metodiste», si diffonde tra i protestanti d’Europa e del Nuovo Mondo un movimento di ispirazione pietista tendente a «risvegliare» la testimonianza degli evangelici attraverso una maggior consapevolezza ed entusiasmo verso la fede, la conversione personale e il rinnovamento della vita. Così, in Gran Bretagna nasce e si spande all’interno dell’anglicanesimo la corrente «evangelical», mentre tra i circoli «awakened» si costituisce nel 1804 la British and Foreign Bible Society e nel 1812 la Church Missionary Society per la diffusione della Scrittura e sorgono nuovi movimenti come quello dei «Fratelli di Plymouth», guidato da John Nelson Darby (†1882), e dell’ «Esercito della Salvezza» a sostegno degli emarginati dalla società urbana. Dal «Reveil» svizzero prende vita la «Società degli Amici» ad opera di Ami Bost (†1874) e di Robert Haldane (†1842) in polemica con la “razionalistica” chiesa ufficiale e la Compagnia dei Pastori di Ginevra; inizia altresì la predicazione carismatica di Felix Neff (†1829), capace di coinvolgere nel rinnovamento della vita protestante europea le comunità valdesi delle valli del Pinerolese, e ancora ne rimane profondamente influenzato, seppure con posizione critica, il magistero del grande teologo Alexandre Vinet (†1847), teorico della separazione della chiesa dallo stato ed ispiratore della «chiesa libera» in alternativa a quella di Stato e difensore appassionato della libertà religiosa e della superiorità dell’individuo sulla collettività. In Germania dalla «Erweckung», dominata dalle prestigiose figure del teologo August Tholuk (†1887) e del predicatore guaritore Johann Christoph Blumhardt (†1880), prende slancio il movimento della Missione interna, volta a congiungere evangelizzazione ed azione sociale a favore delle masse povere.

In Italia il «Risveglio», introdotto sostanzialmente da esuli, viene a connettersi profondamente col grande moto risorgimentale, marcando però diversità e rotture tra le varie componenti dell’evangelismo italiano. I membri della «Chiesa libera», militanti fra le truppe garibaldine e politicamente radicali e repubblicani, coltivano un anticlericalismo così acceso da giungere a collaborare con la massoneria del tempo per abbattere la Roma papale. Personaggio di spicco ne è l’ex-barnabita Alessandro Gavazzi (†1889), predicatore appassionato, patriota e più tardi esponente della Sinistra, che propugna una chiesa evangelica nazionale alternativa a quella cattolico-romana e nel 1852 organizza una «Chiesa Cristiana Libera in Italia» con una forma di tipo presbiteriano (ad imitazione della Free Church of Scottland), staccandosi anche per questo dalla «Chiesa dei Fratelli», e destinata a sciogliersi nel 1905 per confluire nelle comunità metodiste. In effetti, gli appartenenti alle «Assemblee dei Fratelli», introdotte dal conte fiorentino Piero Guicciardini (†1886) con una struttura “congregazionalista” sul modello della «Fratellanza di Plymouth» (senza pastori specializzati, ma dove tutti i fedeli possono prendere la parola per formulare preghiere, leggere la bibbia, cantare inni, ecc.) considerano il moto risorgimentale come un’occasione provvidenziale di evangelizzazione dei territori del papa, in attesa della venuta del Regno. E pertanto, pur ritenendosi profondamente italiani, preferiscono rimanere missionari e propagatori della bibbia piuttosto che impegnarsi attivamente nella politica.

Calviniste e Cavouriane sono invece le comunità valdesi, e per questo accusate dai «Fratelli» di scarsa “italianità” e di autoritarismo interno e dai «Liberi» di conservatorismo e legami stretti con lo Stato sabaudo. Dopo le “Lettere Patenti”, concesse da Carlo Alberto nel 1848 col riconoscimento dei diritti civili, i valdesi sull’onda del cammino risorgimentale e sollecitati dagli impulsi evangelizzatori dell’anglicano e «risvegliato» Charles Beckwith (†1863) non solo avviano un’opera di alfabetizzazione capillare (le «scuolette Beckwith») e di rinascita religiosa tra i valligiani, ma allargano la loro presenza al di là delle Valli, abbandonando così una certa connotazione etnico-regionale (la Facoltà teologica nel 1860 viene spostata da Torre Pellice a Firenze e nel 1922 a Roma e nascono in tutta Italia numerose comunità e una fitta rete di scuole), e a partire dalla fine degli anni Cinquanta del XIX secolo si spingono persino oltreoceano, fondando “colonie” e chiese tra le pianure uruguaiane e argentine del Rio de la Plata.

Fonti e Bibl. essenziale

G. Bouchard, Chiese e movimenti evangelici del nostro tempo, Claudiana, Torino 32006; F. Chiarini, Storia delle chiese metodiste in Italia, 1895-1915, Claudiana, Torino 1999; F. Chiarini – L. Giorgi (a cura di), Movimenti evangelici in Italia dall’Unità ad oggi. Studi e ricerche, Claudiana, Torino 1990; F. Ferrario, Il protestantesimo dalla fine del XVI secolo ai giorni nostri, in G. Filoramo (a cura di), Cristianesimo, Laterza, Roma 1995, 377-456 (con bibl.); Ferrario-P. Gajewski, Il protestantesimo contemporaneo. Storia e attualità, Carocci, Roma 2007; P. Ricca, Le chiese protestanti, in G. Filoramo – D. Menozzi (a cura di), Storia del Cristianesimo, vol. IV: L’età contemporanea, Laterza, Roma 1997, 5-128 (con bibl.); U. Gastaldi, I movimenti di risveglio nel mondo protestante. Dal «Great Awakening» ai «revivals» del nostro secolo, Claudiana, Torino 1989; P. Bolognesi (a cura di), Dichiarazioni evangeliche. Il movimento evangelicale 1966-1996, Edizioni Dehoniane, Bologna 1997; G. Lesignoli, L’Esercito della Salvezza. Una introduzione, Claudiana. Torino 2007; S. Maghenzani – G. Platone (a cura di), Riforma, Risorgimento e Risveglio, Claudiana, Torino 2011; D. Maselli, Storia dei battisti italiani (1873-1923), Claudiana, Torino 2003; D. Maselli, Libertà della Parola. Storia delle chiese cristiane dei Fratelli. 1886-1946, Claudiana, Torino 1978; G. de Meo, Granel di sale. Un secolo di storia della chiesa cristiana avventista del 7° giorno in Italia. 1864-1964, Claudiana, Torino 1980; A. Olivieri, La riforma in Italia. Strutture e simboli, classi e poteri, Mursia, Milano 1979; G. Spini, L’evangelo e il berretto frigio. Storia della Chiesa cristiana libera in Italia. 1870-1904, Claudiana, Torino 1971; P. Spanu-F. Scaramuccia, I battisti. Libertà – tolleranza – democrazia, Claudiana, Torino 1998.

 

 

 

 

 


LEMMARIO




Protestantesimo - vol. II


Autore: Stefano Cavallotto

Nella seconda metà dell’Ottocento giungono in Italia le missioni battiste e metodiste, inglesi e americane, che trovano terreno fertile soprattutto fra gli strati popolari, e agli inizi del Novecento per iniziativa dell’italo-americano Giacomo Lombardi (†1934) si espande specialmente nel Mezzogiorno agricolo il movimento pentecostale; un movimento destinato a svilupparsi rapidamente soprattutto dopo la seconda guerra mondiale, costituendo oggi in Italia la comunità evangelica più nutrita. Le chiese pentecostali più importanti numericamente troveranno una casa comune nelle «Assemblee di Dio in Italia», riconosciute dalla Stato italiano nel 1988 con l’approvazione della stipula dell’Intesa. Occorre ricordare pure l’azione coraggiosa della Società biblica inglese che a partire dai primi decenni dell’Ottocento a costo di enormi difficoltà e sacrifici opera per la diffusione della bibbia in volgare, dando così un importante contributo all’evangelismo italiano. La svolta ecumenica del protestantesimo missionario europeo degli inizi del ‘900 incoraggia diverse chiese evangeliche presenti in Italia ad avviare un cammino di unificazione, che seppure lentamente e in modo parziale ottiene risultati importanti. Le chiese libere si uniscono alla chiesa metodista, e questa a sua volta, dopo una lunga consuetudine di buoni rapporti, raggiunge nel 1975-1979 la piena integrazione con la chiesa valdese in una comune struttura amministrativa (“Chiesa Evangelica Valdese-Unione delle Chiese Valdesi e Metodiste”) con un unico organo esecutivo (la “Tavola valdese”) e un Sinodo annuale “unito”. Anche i battisti intrattengono con valdesi e metodisti uno stretto dialogo che nel 1990 porta al riconoscimento tra Chiesa Evangelica Valdese e l’Unione Cristiana Evangelica Battista d’Italia e ad una sempre più feconda collaborazione in molte iniziative di apostolato (pubblicazione del settimanale “Riforma”). Da questo processo di ricongiungimento si tengono lontani viceversa le «Assemblee dei Fratelli» e le chiese pentecostali, adducendo nei confronti di metodisti, valdesi e battisti riserve sul piano della teologia (la loro esegesi sarebbe eccessivamente sottomessa alla moderna critica biblica), dell’etica (sarebbero troppo politicizzati ed eccessivamente aperti nei confronti della società e della cultura moderna) e dell’ecumenismo (si porrebbero in maniera oltremodo irenica nei confronti della chiesa cattolico-romana).

Nel 1967 si costituisce a Milano la «Federazione delle Chiese Evangeliche in Italia», a cui aderiscono oggi quasi tutte le denominazioni protestanti storiche (valdese, luterana, riformata, battista e metodista) e il cui scopo, come afferma l’art. 2 dello Statuto, è di manifestare l’unità della fede e ricercare una comune linea di testimonianza, fondata sullo studio della Parola di Dio, vigilando ad un tempo sul rispetto dell’esercizio dei diritti di libertà in ambito religioso, promuovendo la conoscenza delle chiese evangeliche e “l’attività di istruzione ed educazione” e svolgendo assistenza a favore degli svantaggiati, dei rifugiati e dei migranti. Il protestantesimo italiano conta oggi un numero di fedeli che oscilla tra 800.000 e un 1.000.000 e si suddivide in molteplici denominazioni, in cui la componente più numerosa è costituita dall’ “evangelicalismo” (70-80% dei protestanti italiani); una corrente, questa, che si distingue, certo, dai movimenti religiosi come il Mormonismo, la Scienza Cristiana, i Testimoni di Geova ecc., ma che prende le distanze anche dal protestantesimo storico, caratterizzandosi come conservatrice dal punto di vista teologico (avversa alla teologica accademica) e con una forte identità “evangelico-popolare”.

Occorre dire che, pur nella varietà delle posizioni in particolare sul piano ecclesiologico, sacramentale e liturgico, la maggior parte delle confessioni protestanti “storiche” si riconoscono unite nell’unico Simbolo niceno-costantinopolitano, oltre che nei tradizionali principi della Riforma: solus Christus, sola Scriptura, sola gratia, sola fide.

Le relazioni con la chiesa cattolica italiana di questa galassia di chiese evangeliche si istituzionalizzano in varie forme soprattutto a partire dal Concilio Vaticano II. E nel cammino ecumenico post-conciliare si inseriscono, oltre a normali collaborazioni tra cattolici e protestanti nei vari ambiti della cultura (ad es. il mensile “Confronti”) e dell’evangelizzazione (come la comune traduzione della Bibbia in lingua corrente, promossa dalla Società Biblica in Italia), periodici incontri ufficiali su problemi comuni tra il Segretariato per l’ecumenismo e il dialogo della C.E.I. e i vari organismi rappresentativi delle comunità evangeliche in Italia, i cui risultati sono confluiti anche in documenti importanti per la vita pastorale delle rispettive comunità, basti ricordare il Testo comune per un indirizzo pastorale dei matrimoni tra cattolici e valdesi o metodisti del 1997 e il suo Testo applicativo del 2000 o quello sullo stesso tema con i Battisti del 2009.

Fonti e Bibl. essenziale

Vedi la voce corrispondente al Vol. I


LEMMARIO




Questione meridionale - vol. II


Autore: Gennaro Cassiani

L’espressione “questione meridionale” ebbe la sua prima formulazione nel 1873, ad opera del deputato radicale lombardo Antonio Billia.

All’inizio degli anni Settanta dell’Ottocento, la situazione socio-economica del Mezzogiorno che segnalava miseria, analfabetismo, criminalità, disuguaglianza, disoccupazione, corruzione dei costumi e difetto di infrastrutture s’impose come “questione”, ovvero come ricerca degli strumenti più idonei a portarla a soluzione e abbattere quella sorta di frontiera interna all’Italia unificata già misurata con il fenomeno del brigantaggio. Un florido dibattito su riviste, le inchieste private di Leopoldo Franchetti e Sidney Sonnino, quelle parlamentari coordinate da Romualdo Bonfadini, Stefano Jacini e Claudio Faina e numerose statistiche ministeriali misero a nudo le dimensioni del problema, favorendo la definitiva presa di coscienza collettiva che al riscatto e all’unificazione della patria non corrispondesse pari unificazione socioeconomica.

Rispetto alle cause della “questione meridionale”, l’impegno della critica più avvertita fu in primo luogo di liberare il campo dalle tesi peregrine che insistevano sulla connaturata infertilità dei suoli agricoli meridionali o che imputavano la depressa condizione del Sud all’eccessiva prolificità delle popolazioni locali o, ancora, che l’ascrivevano alla nativa feracità dei suoi abitanti. A seguire, l’indagine storica delle vicende politiche, economiche e sociali del Mezzogiorno saggiò con varietà di prospettive e di approdi interpretativi l’intreccio dei fattori responsabili del sottosviluppo di quelle regioni. Almeno nella prima fase, la chiave interpretativa della loro arretratezza venne rintracciata univocamente nei residui del sistema feudale, negli effetti del protratto malgoverno, specie borbonico. In breve, tuttavia, cominciarono a emergere anche le responsabilità della nuova Italia, incapace di risolvere gli antichi problemi del meridione e, al contempo, apportatrice di nuovi gravami al fragile tessuto socioeconomico di quelle aree del Paese.

Alla stagione del primo meridionalismo postunitario, nella quale si distinsero i contributi di Pasquale Villari e Leopoldo Franchetti, seguì quella assai più disillusa circa il ruolo equilibratore dello Stato liberale ben rappresentata dalle ricerche di Giustino Fortunato.

Con il nuovo secolo, si farà strada un nuovo meridionalismo caratterizzato da un afflato di rinnovamento politico in senso autonomistico (Luigi Sturzo, Gaetano Salvemini) e di emancipazione dal ritardo economico, ora di ispirazione liberista (Antonio De Viti De Marco), ora statalista e protezionista (Napoleone Colajanni e Francesco Saverio Nitti). Al definitivo superamento del meridionalismo postunitario contribuirono gli scritti di Antonio Gramsci, il quale lesse il ritardo del Sud attraverso il prisma della lotta di classe e all’interno di un progetto rivoluzionario. Non meno significativo concorso all’apertura della nuova stagione di studi conferirono i contributi del cattolico don Luigi Sturzo e del laico Guido Dorso, accomunati nella polemica contro il trasformismo, l’opportunismo e l’inerzia del ceto politico tradizionale che aveva vanificato le speranze di emancipazione socioeconomica, civile e culturale del Mezzogiorno.

Con il secondo dopoguerra e l’avvio del corso democratico, gli studi meridionalistici si alimentarono della speranza, coltivata tanto dagli intellettuali di sinistra quando da quelli laici, che il sollevamento delle condizioni del Sud, sensibilmente peggiorate durante ventennio fascista, potesse maturare nel quadro del processo di ricostruzione del Paese uscito dal disastro bellico. Agli argomenti del meridionalismo classico (riforma agraria, lotta all’analfabetismo, bonifica delle terre malariche, scorporo del latifondo), vennero affiancandosi nuove istanze incentrate sul ruolo di sostegno e di stimolo dello Stato in funzione dello sviluppo del Mezzogiorno. Il tema della riforma agraria si impose con forza come nodo decisivo della “questione meridionale”.

La legge stralcio n° 841 e la nascita della Cassa del Mezzogiorno (1950) conferirono stimolo al lavorio storiografico. Altro impulso esso ricevette dalle sensibili trasformazioni intervenute nell’economia e nella società italiana nel corso del decennio 1950-60. A seguire, in seno al cantiere della ricerca meridionalistica si sono fatte strada novità di rilievo come lo spostamento della prospettiva di indagine dalle campagne alle città e la dilatazione dei termini cronologici ereditati dalla tradizione degli studi. Non è poi mancata, oltre alla problematizzazione di molte tesi consolidate, la rimodulazione della “questione meridionale” sui tempi lunghi della storia socio-econonomica e del territorio e in relazione al tema dello sviluppo dello stesso Mezzogiorno e di altre regioni europee.

Le prime risonanti prese di posizione dei presuli meridionali rispetto alla condizione di arretratezza del Sud si ebbero da parte dei presuli pugliesi (27-28 aprile 1944) e della Calabria (19 giugno 1945). Risale invece al 25 gennaio 1948 la lettera collettiva dell’episcopato meridionale (non firmata però dai vescovi siciliani) su I problemi del Mezzogiorno, distesa dal vescovo di Reggio Calabria Antonio Lanza.

Ispirato dalla dottrina sociale della Chiesa e dalla lezione dei meridionalisti otto-novecenteschi, ai quali si doveva l’identificazione della “questione meridionale” con una questione agraria (immediato riferimento della lettera su I problemi del Mezzogiorno fu non a caso la XXI Settimana sociale dei cattolici tenuta a Napoli, nel settembre del 1947, con in tema I problemi della terra e del lavoro nella dottrina della Chiesa), il documento del 1948 traspira viva preoccupazione per la persistente condizione di miseria di larghi strati popolari; per la precarietà di vita del bracciantato; per i bassissimi livelli di reddito dei coloni e l’iniquità di talune forme contrattuali; per l’insufficienza delle strutture economiche e i gravi problemi connessi al persistere del latifondo.

La lucida analisi dei presuli, di timbro sociale e insieme pastorale, non si limitò a richiamare i doveri dello Stato. Sollecitò altresì l’impegno dei cattolici e l’iniziativa privata, l’associazione dei lavoratori e la cooperazione. Nel concerto delle speranze indotte dalla riforma agraria e dall’avvio delle nuove politiche per il Mezzogiorno, i vescovi lucani e pugliesi, con l’intento di dare concreta attuazione alla pastorale collettiva del 1948, fondarono nel 1952 la Charitas socialis, una sorta di comitato votato all’assistenza socio-religiosa delle popolazioni. Nel complesso, la lettera del 1948 mancò di avere un impatto decisivo sulla realtà ecclesiale meridionale. In ciò si è riconosciuto il segno dell’insuccesso delle istanze sociali più aperte e democratiche durante la fase finale del pontificato di Pio XII, allorché si puntò piuttosto sulla modernizzazione di morfologie devote tradizionali mentre, di concerto al “miracolo economico italiano”, anche la società del Sud avviava la sua profonda trasformazione.

Dalla fine degli anni Sessanta e durante il corso del decennio successivo, più vescovi del Sud tornarono sulla questione sociale nel Mezzogiorno che, all’epoca, conosceva un vasto fenomeno migratorio verso il Nord del Paese e così pure una grave crisi del settore agricolo.

Sull’onda del Vaticano II, il filo interrotto della discussione avviata nel 1948 venne ripreso. Nel 1969, alcuni vescovi, in margine alla quarta assemblea generale della Cei, ricordando il ventesimo anniversario della lettera del 1948, rilanciarono la questione sociale meridionale. Il documento fu approvato all’unanimità dall’assemblea, ma non ebbe un vero seguito.

Nel 1972, in seno all’episcopato pugliese, si fece strada l’idea di celebrare il 25° della lettera del 1948 mediante un nuovo testo. Il progetto venne fatto proprio dalla presidenza della Cei, ma l’atteso pronunciamento dell’intero episcopato italiano venne infine a mancare. Frattanto, l’arcivescovo allora di Potenza e Marsico Aurelio Sorrentino, nella propria lettera pastorale del 19 ottobre 1973, denunciò la “questione meridionale” come un’emergenza dell’intero Paese. Sollecitando una riflessione sulla consapevolezza ecclesiale dell’acutezza del problema, Sorrentino rilanciò altresì il tema della maturazione della coscienza nazionale della Chiesa italiana avvenuta con una leadership settentrionale che, almeno fino al concilio Vaticano II, aveva egemonizzato il personale ecclesiastico, i paradigmi pastorali, le forme organizzative laicali e finanche i modelli di santità del Mezzogiorno. Lo stesso Sorrentino, passato alla guida della diocesi di Reggio Calabria, tornerà in più occasioni sulla cosiddetta “questione meridionale ecclesiale”. Al tempo stesso, si moltiplicarono gli interventi di altri presuli (come monsignor Guglielmo Motolese, vescovo di Taranto) e di conferenze episcopali regionali come quelle dell’Abruzzo e della Sicilia, della Lucania e della Calabria.

Nel 1976, nel corso del primo convegno ecclesiale nazionale Evangelizzazione e promozione umana, la questione del Mezzogiorno si impose nei dibattiti, pur non trovando spazio nelle relazioni. L’attuazione del concilio Vaticano II ispirava un nuovo modello pastorale fungibile sul piano nazionale: un modello pastorale meridionale incentrato sulla parrocchia, come comunità ministeriale e missionaria, e su un’istanza di liberazione dalla cultura padronale e da quella mafiosa. All’avvio degli anni Ottanta, aperti dal tragico evento tellurico in Campania e in Basilicata, siffatto modello pastorale riscosse un effettivo ascolto su larga scala. Ebbe risonanza, nel 1985, nella cornice del convegno ecclesiale di Loreto dedicato al tema Riconciliazione cristiana e comunità degli uomini e concorse all’approvazione da parte di tutti i vescovi italiani del primo documento organico della Cei sul Mezzogiorno, intitolato Chiesa italiana e Mezzogiorno. Sviluppo nella solidarietà ed edito il 18 ottobre 1989. Ivi l’episcopato, misurandosi in forma corale con la “questione meridionale” (che Giovanni Paolo II, sin dal discorso ai vescovi campani del 21 novembre 1981, aveva posto al centro del suo magistero), ne colse le matrici nelle perduranti distorsioni vigenti in seno ai processi economici e all’esercizio dei poteri politici locali. Vibrante fu inoltre la denuncia del fenomeno della criminalità organizzata.

A valle della profonda trasformazione, non priva però di elementi vischiosità, di tendenze trasformistiche e anche di derive localistiche ed etniciste, maturata in seno al sistema politico italiano nel corso degli anni Novanta del Novecento, si è fatto strada un diffuso sentimento della necessità di un cambio di passo nella pastorale della Chiesa italiana e quest’ultimo ha riportato l’attenzione alla questione del Mezzogiorno. Ne è espressione, nel 2010, il documento della Cei intitolato Per un Paese solidale. Chiesa italiana e Mezzogiorno, frutto dell’incontro di studio di Napoli, nel 2009, nel ventennale di Chiesa italiana e Mezzogiorno. Sviluppo nella solidarietà.

Fonti e Bibl. essenziale

Si segnalano con ulteriori richiami: S. Tramontin, Ad un trentennio dalla lettera collettiva dell’episcopato meridionale (1948): riflessione sugli aspetti religiosi e pastorali, in Id., Società, religiosità e movimento cattolico in Italia meridionale, Roma 1977, 321-354; G. Galasso, Passato e presente del meridionalismo, Napoli, 1978; Il Sud nella storia d’Italia, a cura di R. Villari, Roma-Bari, 1984; M.L. Salvadori, Il mito del buongoverno. La questione meridionale da Cavour a Gramsci, Torino, 1989; P. Bevilacqua, Breve storia dell’Italia meridionale dall’Ottocento a oggi, Roma, 1993; A. Sorrentino, Esiste una questione meridionale in senso ecclesiale?, in P. Borzomati, La questione meridionale. Studi e testi, Torino, 1996, 197-203; P. Borzomati, Chiesa e società meridionale dalla Restaurazione al secondo dopoguerra, Roma, 1982; Id., La Chiesa nel Mezzogiorno dopo il 1948: progetti e vicende di un quarantennio, in La Chiesa e i problemi del Mezzogiorno. 1948-1988, a cura di P. Borzomati, D. Pizzuti, M. Giordano, Roma, 1988, 32-34; Id., La questione meridionale ecclesiale nel pontificato di Pio X, in Pio X e il suo tempo, Atti del Convegno (Treviso, 22-24 novembre 2000), a cura di G. La Bella, Bologna, 2003, 789-799; G. Rumi, Questione meridionale e questione settentrionale nella riflessione dei vescovi italiani, in La Chiesa e l’Italia. Per una storia dei loro rapporti negli ultimi due secoli, a cura di A. Acerbi, Milano, 2003, 423-432; R. Violi, La Chiesa e il Mezzogiorno, in L’Italia repubblicana nella crisi degli anni Settanta, II, Culture, nuovi soggetti, identità, a cura di F. Lussana e G. Marramao, Soveria Mannelli, 2003, 497-520; G.M. Viscardi, Tra Europa e “Indie di quaggiù”. Chiesa, religiosità e cultura popolare nel Mezzogiorno: secoli XV-XIX, Roma, 2005, 24-30; F. De Giorgi, La questione del “Mezzogiorno”: società e potere, in Cristiani d’Italia. Chiese, società, Stato, 1861-2011, direz. scient. di A. Melloni, Roma, 2011, 551-562; V. De Marco, La Chiesa italiana tra fine Ottocento ed avvento del fascismo, in Chiesa del Nord e Chiesa del Sud a confronto. Le diocesi di Mantova e Potenza e il vescovo Augusto Bertazzoni (1930-1966), Atti del Convegno nazionale di studio (Potenza, 13-14 maggio 2011), a cura di G. Messina e G. D’Andrea, Galatina, 2013, 21-39; Id., Vescovi del Sud per i problemi del Sud nel secondo dopoguerra, in Società, politica e religione in Basilicata nel secondo dopoguerra. Il contributo dei fratelli Rocco e mons. Angelo Mazzarone di Tricarico, Atti del Convegno di studio (Matera-Tricarico, 25-26 settembre 2009), a cura di A. Cestaro e C. Biscaglia, Galatina, 2013, 119-149.


LEMMARIO




Questione romana - vol. II


Autore: Andrea Ciampani

Nel corso del XIX secolo la proposta politica di porre Roma capitale dello Stato nazionale italiano come compimento del Risorgimento, in concomitanza o in sostituzione della sovranità che in essa vi esercitava il papa governando la Chiesa universale e lo Stato pontificio, provocò nell’opinione pubblica europea un vasto dibattito dai molteplici profili e il formarsi di numerosi orientamenti per conseguire gli obiettivi delineati. Nel suo insieme, tale vasto movimento di idee e di conflitti in ordine al potere temporale della Chiesa e alle soluzioni prospettate per conseguire l’unificazione italiana viene sinteticamente richiamato come “questione romana”. Per comprenderne le dinamiche costitutive, dunque, occorre considerare non solo le problematiche giuridiche e diplomatiche relative ai rapporti tra la S. Sede e gli Stati, ma anche i percorsi interni al governo della Chiesa e le culture politiche che si affermarono nell’Europa dell’Ottocento.

Processi storici di lungo respiro hanno lasciato tracce sulla formazione della questione romana, come eredità del confronto tra Papato e Stati nazionali nella “prima modernità”. Le sue radici, tuttavia, vanno rintracciate nel periodo storico in cui, muovendo dalla fine dell’avventura napoleonica attraverso la Restaurazione, prende forma la drammatica crisi risorgimentale del 1849 e le sue ripercussioni sul cattolicesimo politico italiano. La questione romana, peraltro, assume i suoi tratti distintivi soltanto negli anni successivi, durante due fasi principali che si caratterizzano per un singolare rovesciamento di significato: se dal 1861 l’espressione riguarda propriamente le iniziative per “congiungere” Roma al Regno d’Italia, dopo il 1870 essa si riferisce alla rivendicazione d’indipendenza del governo pontificio in Roma capitale italiana e alla possibilità di assicurargli nella Città eterna una pur ridotta sovranità territoriale.

La Chiesa cattolica e le classi dirigenti nazionali erano ben consapevoli della complessa trama che compose fin dall’inizio la questione romana. Al suo interno, infatti, era possibile individuare tre profili principali, distinti ma interdipendenti: la “questione pontificia”, relativa alla posizione della S. Sede e della sovranità del papa nel sistema internazionale; la “questione di Roma”, connessa all’esercizio della libertà del papa (e del suo magistero universale) nella capitale del regno d’Italia; la “questione cattolica”, legata alla politica ecclesiastica del governo italiano e allo sviluppo del movimento cattolico nella vita amministrativa e politica italiana.

La “protesta” pontificia, peraltro, puntò presto al sostegno delle popolazioni cattoliche piuttosto che all’intervento militare o diplomatico delle Potenze europee; dopo il 1882, nei governi italiani essa venne progressivamente considerata un problema di politica interna, piuttosto che di politica estera. I tentativi di sciogliere la questione romana in una prospettiva bilaterale, che si avviarono negli anni successivi a più riprese e con diversa intensità, incontrarono gravi ostacoli nell’articolata lotta politica italiana e nell’evoluzione del movimento sociale cattolico. Ancora nel 1919 non fu possibile concretizzare accordi come quelli che posero fine alla questione romana con la stipula dei Patti Lateranensi nel 1929, richiamati nella Costituzione della Repubblica italiana nel 1948.

Per comprendere i differenti nodi dell’inserzione della questione romana nella storia della Chiesa in Italia, dunque, è opportuno ripercorrere i passaggi principali della sua parabola, dal suo punto d’avvio nel XIX secolo attraverso le sue due fasi principali, fino al suo esaurimento novecentesco.

In effetti gli “Stati romani” durante la Restaurazione non erano usciti dalla debolezza politica seguenti al trattato di Tolentino del 1797 e all’abolizione del dominio temporale per le armi francesi nel 1798 e nel 1809. La “Santa Alleanza” tra il cattolico Impero austriaco, l’ortodosso l’Impero russo e il protestante regno di Prussia fin dal 1814 evidenziava le gravi difficoltà della S. Sede nel contesto internazionale. Per preservare la sua integrità statuale e ribadire la sua indipendenza, nel 1821 la S. Sede invano giunse a dissociarsi, unico Stato della penisola, dall’intervento militare austriaco rivolto a reprimere nel Regno delle Due Sicilie le libertà costituzionali. Nel momento di avvio del Risorgimento, dunque, lo Stato della Chiesa appariva una realtà sotto tutela della diplomazia internazionale. Nel 1831, quando i moti carbonari si estesero ai territori pontifici della Romagna, delle Marche e all’Umbria, sostenuti da ambienti borghesi desiderosi di una maggiore partecipazione al governo civile, una conferenza delle Potenze europee delineò un Memorandum sulle riforme da farsi nel governo pontificio, mentre truppe austriache occupavano le Legazioni e armi francesi Ancona. Fu in tale contesto che, negli anni Trenta, il destino Roma assunse nell’elaborazione mazziniana una centrale dimensione simbolica; d’altra parte, tra le élites cattoliche che partecipavano al dibattito pubblico sulla nazione italiana, personalità come Rosmini e Gioberti, Manzoni e D’Azeglio, invitavano il moderatismo italiano a coniugare causa nazionale e centralità del papato, aprendo un confronto sul cattolicesimo liberale e sulle teorie del neoguelfismo. Aspetti politici e culturali, così, favorirono l’orientamento vaticano, ancora sotto Gregorio XVI, a una maggiore distinzione tra la gestione dei domini temporali del pontefice e il governo della Chiesa universale.

Con l’elezione di Pio IX, comunque, alcune moderate riforme nello Stato pontificio apparvero all’opinione pubblica italiana testimonianza di una possibile connessione tra la volontà di rafforzamento politico-diplomatico dello Stato pontificio e le aspirazioni nazional-costituzionali. La creazione della Consulta di Stato e le trattative per la Lega doganale nell’autunno 1847, così, precorsero i moti risorgimentali dell’inverno seguente negli Stati italiani e la concessione dello “Statuto fondamentale pel Governo temporale degli Stati di Santa Chiesa” nel marzo 1848. Il papato, tuttavia, non intendeva condurre il suo Stato in guerre nazionali, che avrebbero anche facilitato una ripresa di quelle spinte verso l’affermarsi di chiese nazionali che da tempo contrastava. Mentre si minacciava uno scisma nei territori asburgici, l’allocuzione del 29 aprile 1848 espresse la volontà pontificia di astenersi dal partecipare alla guerra d’indipendenza avviata dal Regno di Sardegna. Ciò non impedì a Pio IX di esplorare le vie di un governo laico e moderato per il proprio Stato, chiamando a governarlo figure come Terenzio Mamiani e Pellegrino Rossi, giurista di fama europea.

Proprio l’assassinio politico del Rossi, il 15 novembre 1848, costituì un cruciale crinale; presero forma, da allora, le dinamiche fondamentali della “questione romana”, che si delinearono nel decennio seguente e si imposero negli anni Sessanta. Rifugiatosi il papa a Gaeta, nel 1849 fu proclamata la Repubblica romana e la decadenza del potere temporale; Pio IX poté tornare a Roma solo grazie alla vittoria delle armi della Repubblica francese sulla resistenza garibaldina. Ancora una volta le Potenze europee sembravano consentire l’esistenza di quella sovranità temporale in cui il pontefice ricercava garanzie d’indipendenza per il suo governo spirituale. Il papa, d’altra parte, era ormai disilluso circa il percorso politico della pubblica opinione romana collegata alle élites liberal-nazionali. Fallito il progetto dell’unione delle “piccole patrie”, il movimento risorgimentale si presentava polarizzato tra la componente democratica-insurrezionale e quella liberal-costituzionale facente capo al Regno di Sardegna. E mentre la prima si proclamava garante della libertà spirituale del papa una volta abbattuta la sua sovranità temporale, il governo sabaudo avviava al suo interno un conflittuale rapporto tra Chiesa e Stato che condusse alle leggi Siccardi e alla rottura delle relazioni diplomatica con la S. Sede.

La stessa politica estera del conte Cavour, volta a introdurre la questione italiana nella diplomazia internazionale, evidenziò le condizioni di instabilità della Stato pontificio al congresso di Parigi del 1856. Gli accordi negoziati a Plombières tra il presidente del Consiglio sabaudo e lo stesso Napoleone III, che allora proteggeva con le sue armi i domini pontifici, prevedevano nel 1858 una spartizione dello Stato Pontificio, ridotto al solo territorio romano. Allo scoppio della II Guerra d’indipendenza nel 1859 il cardinal Antonelli invano dichiarò la neutralità dello Stato pontificio, ricordando il “suo speciale carattere”; l’esito della campagna militare franco – piemontese provocò la sollevazione e l’annessione delle Romagne al regno di Sardegna, tollerata dall’imperatore francese in cambio dei territori di Nizza e della Savoia. Mentre poi la spedizione dei Mille conduceva Garibaldi a Napoli, minacciando un conflitto con la Francia per occupare Roma, l’esercito di Vittorio Emanuele II penetrava nei territori pontifici dell’Italia centrale e occupandoli li annetteva allo Stato sabaudo nel novembre 1860.

Con la nascita del regno d’Italia nel marzo 1861, dunque, la situazione del “giardino” del papa (come l’imperatore francese chiamava Roma e il suo territorio) entrava nel dibattito politico del nuovo Stato accompagnata dalle proteste vaticane per l’usurpazione dei territori pontifici e per i permanenti conflitti di politica ecclesiastica con la monarchia sabauda. Nel nuovo parlamento nazionale, intanto, si poneva il tema della rappresentanza politica di un popolazione italiana che si dichiarava nel suo complesso cattolica, come emerse anche dal censimento del 1861. Le stesse classi dirigenti cattoliche, di fronte all’accelerato processo di unificazione, manifestavano una pluralità di opzioni sul piano dell’agire politico, impegnate ugualmente a non essere escluse dalla guida nazionale e a mantenersi fedeli al magistero pontificio. Di tali dinamiche erano consapevoli tanto il governo italiano, quanto la curia romana.

Cavour nel marzo 1861 pose solennemente nell’agenda politica la necessità di Roma capitale d’Italia: riconoscendo il valore simbolico di tale affermazione, egli fronteggiò tanto le resistenze degli “antiromani” per superare le gelosie municipali, quanto l’opposizione radicale che chiedeva la fine del dominio temporale. Mentre lavorava all’affermazione politica della formula «libera Chiesa in libero Stato», Cavour ebbe contatti informali con il Vaticano, tramite Diomede Pantaleoni e Carlo Passaglia, ricercando una composizione della “questione romana” che assicurasse indipendenza al papa e libertà alla Chiesa entro i limiti della sovranità dello Stato. Egli comprendeva, del resto, l’interesse degli Stati europei al riconoscimento di una sovranità pontificia perché i cattolici non obbedissero a un papa suddito di un’altra Potenza. La trattativa allora condotta non giunse in porto. In Vaticano, comunque, a fronte alla “mutabilità” della vita politica degli Stati, si stava affermando una sempre maggiore attenzione per i riflessi socio-politici dell’orientamento religioso dei loro popoli, alla cui mobilitazione affidare la protesta pontificia. In tal senso, la S. Sede si avviava ad evidenziare anche nella vita pubblica italiana le implicazioni morali dell’azione dei fedeli cattolici, promuovendone l’associazionismo ed evitando di aumentare il solco tra coscienza nazionale e coscienza religiosa. Occorreva, dunque, misurarsi con la → modernità, chiamata a riconciliarsi con la Chiesa, facendo leva sulla società civile piuttosto che su quella politica.

Dopo la morte di Cavour, i governi italiani sembrarono abbandonare la sua impostazione politica e andare oltre il principio della separazione dei poteri, quasi attribuendo ai propri atti l’avvio di un processo riformatore nella Chiesa. Nel 1862, tuttavia, l’esercito regio fu costretto ad arrestare Garibaldi in Aspromonte, impedendogli di marciare su Roma e scontrarsi con le truppe della Francia, alleata del giovane Stato italiano. Nello stesso anno, peraltro, l’allocuzione pontificia Maxima quidem laetitia confermava il principato civile della S. Sede come necessario al papa per il libero governo della Chiesa universale e condannava la politica ecclesiastica italiana, che si era spinta a impedire ad alcuni vescovi italiani di giungere a Roma. Ricordando tale episodio, l’assemblea dei cattolici belgi di Malines nel 1863, rilanciava la proposta della libertà della Chiesa fondata sulle libertà pubbliche, che richiamò la critica attenzione vaticana. In tale contesto, nel dicembre 1864 giunse la pubblicazione del Sillabo, che definiva gli ambiti filosofici, culturali e politici delle tesi liberali da condannare e riaffermava la potestà pontificia sull’indirizzo morale dei cattolici nel confronto con potere dello Stato moderno. Si rinnovavano, così, antiche frizioni con le Potenze europee; l’incerto orientamento della diplomazia internazionale circa il destino dello Stato pontificio, del resto, appariva confermata dalla firma della Convenzione italo-francese del settembre 1864, che prevedeva l’allontanamento delle truppe di Napoleone III da Roma per il contemporaneo impegno dei Savoia a impedire qualsiasi attacco al territorio pontificio, cui seguì lo spostamento della capitale italiana da Torino a Firenze.

Il dibattito sui rapporti tra società politica e Chiesa cattolica condusse il Vaticano ad affrontare nel 1864 la questione, sollevata da alcuni vescovi, sulla partecipazione dei cattolici italiani alle urne politiche; in tale contesto, fino all’autunno 1866 la curia romana ricordò “il dovere di fare tutto il possibile per impedire il male e promuovere il bene”. Il varo in Italia tra il 1866 e il 1867 delle leggi eversive dell’Asse ecclesiastico e la spedizione garibaldina nei domini pontifici, fermata a Mentana dal ritorno di un contingente francese a Roma, tuttavia, contribuirono a modificare scenario e valutazioni. Nel gennaio 1868, considerate le circostanze in cui si trovava allora la Chiesa nella Penisola, le congregazioni cardinalizie vaticane invitarono i cattolici italiani a non expedire la via politica. Questa formula era destinata ad assumere un più forte valore per gli avvenimenti seguenti. La guerra franco-prussiana, infatti, richiamò in patria le truppe francesi e offerse al governo italiano la possibilità considerare l’occupazione militare di Roma. Il → Concilio Vaticano I, apertosi nel 1869 senza la partecipazione delle Potenze cattoliche, giungeva a proclamare nell’estate 1870 l’infallibilità pontificia ex cathedra; la conquista di Roma da parte delle truppe italiane il 20 settembre 1870, dopo una simbolica, breve ma cruenta resistenza, ne interruppe lo svolgimento. Pio IX si ritirò nei Palazzi apostolici in Vaticano, nei quali si dichiarò “prigioniero” al corpo diplomatico della sua corte.

I “fatti compiuti” del 1870, condussero, così, a un rovesciamento della questione romana: era la S. Sede ora che protestava la mancanza di libertà e rivendicava una seppur ridotta sovranità in Roma. Il papa prendeva atto di una sorta di “apostasia” delle stesse Potenze, che non erano giunte in suo soccorso, e richiamava più risolutamente la solidarietà dei popoli cattolici. Anche per questa ragione, alcuni governi europei erano interessati a stabilizzare la Penisola attraverso una conciliazione tra moderatismo liberale e cattolicesimo. Le istituzioni politiche italiane, impegnate a radicarsi in Roma, del resto, ritennero prioritaria l’azione diplomatica per ridurre i rischi di instabilità del giovane Stato che potevano derivare dal conflitto con la S. Sede. In tale contesto, il parlamento italiano varò nel maggio 1871 la Legge delle Guarentigie; il carattere di concessione unilaterale dell’atto del Regno d’Italia, prima che le norme in essa stabilite (come l’attribuzione sovrana al papa di mantenere ed inviare ambasciatori senza una sovranità territoriale) non poteva essere accolto dalla S. Sede. Mentre erano aperti gravi contenziosi tra lo Stato e la Chiesa, come intorno all’exequatur regio o ai beni di Propaganda fide, nel settembre 1874 la Penitenzieria apostolica confermò l’invito ai cattolici a non expedire il voto politico. Peraltro, stava maturando un orientamento a superare immobilismo che sembrò caratterizzare l’iniziativa vaticana dopo il 20 settembre: la S. Sede compresse in Europa l’iniziativa politico-diplomatica di elitari gruppi di pressione cattolici riuniti e alimentò la mobilitazione sociale e religiosa del mondo cattolico, che spesso assunse un carattere di intransigente sostegno del pontefice. Mentre in Italia si promosse l’Opera dei congressi cattolici, dunque, già nel 1876 nella curia romana si prospettò un superamento del non expedit, lasciando cadere a poco a poco nella stampa lo slogan “né eletti né elettori”. Il Vaticano confidava ancora che i cattolici appartenenti ai gruppi dirigenti italiani potessero entrare come tali nella vita politica, posizionandosi sul versante moderato, ma distinguendosi dalle élites cattolico liberali.

Con l’elezione di Leone XIII per opera di un “centro cardinalizio” in grado di attrarre intorno al papa esponenti moderati degli schieramenti intransigente e transigente, si intensificarono le iniziative per sostenere l’impegno dell’opinione pubblica cattolica a fianco del pontefice e per affrontare i nodi che legavano la “questione di Roma” e la “questione cattolica”. Falliti nel 1879 primi contatti con la Destra liberale, che intendeva utilizzare come massa elettorale i cattolici organizzati per le elezioni amministrative, una prospettiva di riconciliazione sembrò maturare nei successivi governi del leader della Sinistra liberale, Agostino Depretis. Nel 1882, infatti, mentre questi guidava una “trasformazione dei partiti” per realizzare un’ampia maggioranza in parlamento con i moderati di Minghetti, in politica estera il suo governo condusse il Regno d’Italia all’interno di una Triplice Alleanza con gli imperi tedeschi e austriaci. Questo evento offrì una definitiva stabilità internazionale al regno e consentì un complessivo riesame della “questione pontificia” nella politica nazionale. La monarchia sabauda, peraltro, in apprensione per le iniziative repubblicane e le agitazioni sociali, rinnovava l’interesse a un riavvicinamento agli ambienti cattolici; anche nella prospettiva di sviluppo di una politica coloniale il governo italiano era ora interessato a sondare gli orientamenti vaticani.

Nello stesso tempo, mentre la S. Sede si riproponeva come forza morale nei rapporti internazionali e come fattore d’ordine sociale all’interno degli Stati, in Vaticano si riteneva un’illusione credere che sommosse o interventi militari stranieri nel Regno d’Italia potessero restituirle il dominio temporale. Nel 1882, così, si riavviò nella curia romana un dibattito sul ristabilimento della sovranità pontificia in Roma che, senza escludere la possibilità d’indirizzare atti diplomatici ai Governi, puntasse principalmente sul coinvolgimento dell’episcopato e delle associazioni cattoliche, sollecitati da pubblici pronunciamenti pontifici. Considerando il peculiare nesso che legava il papa alla città di cui è vescovo, la sua partenza da Roma era presa in considerazione solo in caso di attentati contro il pontefice o di impedimenti a comunicare con i pastori e con i fedeli. In effetti, la “minaccia” di lasciare la Città eterna, anche per la composizione degli organi collegiali costituiti per tale evenienza, aveva solo una valore di deterrenza ad un ulteriore inasprimento dei rapporti con lo Stato italiano. Senza abbandonare il profilo internazionale della questione romana, dunque, la S. Sede era orami interessata a predisporre il terreno per scioglierla nel confronto bilaterale con il Regno d’Italia. Nel 1882, così, in Vaticano maturò il disegno di affidare alla Penitenzieria apostolica o ai vescovi la possibilità di accordare dispense condizionate perché i cattolici italiani, “a lor grado e per fatto proprio”, potessero partecipare a promuovere il bene nelle elezioni politiche.

Nel convergere degli orientamenti maturati nella S. Sede e nel governo italiano a un reciproco sondaggio “la questione di Roma” diventò un primo terreno di verifica: nel 1883, infatti, venne consentita la presenza dei cattolici nel governo capitolino, a guida monarchico – costituzionale, ottenendo l’associazione elettorale cattolica dell’Unione romana un terzo degli eletti in Campiglio. Protratta fino al 1887, questa esperienza sembrò preparare il terreno a una proposta di conciliazione, che sembrò avvicinarsi nel primo semestre di quell’anno, perché cessato il “funesto dissidio” tra Italia e S. Sede, col riconoscimento di una pur piccola sovranità territoriale, si sciogliesse anche il problema di coscienza per l’elettore cattolico italiano. Nonostante i contatti del padre Tosti e dei fautori liberali di un “periodo di armistizio” per predisporre tale “pacificazione”, l’ingresso di Francesco Crispi al governo ostacolò il percorso avviato. L’enfasi anticlericale di Crispi, nominato presidente del Consiglio, travolse i primi cenni di riconciliazione tra Italia e S. Sede e condusse alla rimozione del sindaco di Roma nel dicembre 1887, simbolo degli equilibri fino allora raggiunti nella Capitale.

L’interruzione del percorso avviato negli anni Ottanta, accentuò la polemica sul contrapporsi di un Paese reale e un Paese “legale” in Italia, con rilevanti ricadute sull’evoluzione del → cattolicesimo politico. Il governo italiano intendeva limitarsi a negoziare con la S. Sede, come avveniva in altri Stati, qualche interesse religioso particolare, per minacciare o abrogare leggi ostili; il nodo tra Roma, l’Italia e la realtà delle cose, ricordato ancora nel 1889 dal conciliatorista vescovo di Cremona Geremia Bonomelli, tuttavia, non poteva essere sciolto senza affrontare la questione romana nel suo complesso. Accordi tra autorità civili e religiosa vennero ricercati nel 1894 dallo stesso Crispi, per conseguire determinati vantaggi in politica interna e nella politica coloniale; anche il conservatore conte Di Rudinì, che intendeva acquisire l’elettorato cattolico alla politica moderata, nel 1896 promosse contatti che non prevedevano risposte alle rivendicata sovranità del papa. Di fronte all’indisponibilità vaticana, che legava “questione pontificia” e “questione cattolica”, i governi liberali italiani accentuarono la politica repressiva nei confronti dell’associazionismo cattolico e della stampa intransigente, che toccò l’apice nel 1898, sviluppando anche iniziative volte a ridurre gli spazi d’azione della diplomazia della S. Sede, esclusa dalla Conferenza sulla pace dell’Aja nel 1899.

Proprio la crisi sociale e politica di fine secolo, comunque, impose un ripensamento alla politica del mondo liberale, così come la politicizzazione dell’azione sociale e la divisione tra i cattolici condusse la Chiesa in Italia a considerare diverse modalità per influire nella sfera pubblica (in cui vedeva prevalere una “secolarizzazione” che la separava da comportamenti della vita privata ancora ispirati alla morale cattolica). Si ripresero a percorrere i sentieri di preparazione di una pacificazione nazionale: il solenne Giubileo del 1900, svoltosi senza incidenti per i pellegrini, confermò quanto profondo fosse in Italia il nesso tra devozione religiosa e sentimento patriottico, rafforzato dopo l’assassinio del re Umberto I. Durante l’Italia giolittiana si sviluppò il movimento della democrazia cristiana, si organizzò l’Unione popolare, si favorì la partecipazione di personalità cattoliche nei governi locali con i liberali e talora in parlamento; tutti questi fenomeni evidenziavano l’orientamento del mondo cattolico a rafforzare lo Stato italiano ed orientarne l’evoluzione, in competizione con la cultura politica anticlericale e l’emergente proposta socialista. Nel pontificato di Pio X, ridimensionata la “questione di Roma” nella convivenza nella città del pontefice e delle istituzioni nazionali, la “questione pontificia” perse significato nella politica internazionale italiana e si collegò prevalentemente all’evoluzione degli equilibri di politica interna. In tale contesto si colloca l’impegno cattolico nazionale per la guerra di Libia nel 1911 e per il Patto Gentiloni del 1913, connesso alle prime elezioni a suffragio elettorale maschile.

L’entrata dell’Italia nella Guerra mondiale nel 1915 rinnovò sospetti e tensioni sul piano politico – diplomatico, per la neutralità della S. Sede e la condanna di Benedetto XV dell’ “inutile strage” nel 1917. Il drammatico svolgimento del conflitto, tuttavia, mentre rimotivava l’esigenza del governo di ottenere consensi allo sforzo bellico, evidenziò la religiosità delle popolazioni che affrontavano le sofferenza della guerra, affrontate anche con la presenza dei cappellani militari. Alla fine delle ostilità, dunque, i colloqui parigini tra il presidente del consiglio Vittorio Emanuele Orlando e mons. Bonaventura Cerretti nel 1919 delinearono i contorni di un negoziato per una sistemazione giuridica che riconoscesse una sia pur minima sovranità territoriale al pontefice, chiudendo la “questione pontificia” e contribuendo a riconciliare la società italiana. Le resistenze della monarchia e la caduta del governo impedirono l’approfondimento delle trattative.

Nonostante i rigurgiti anticlericali di parte del liberalismo italiano, esacerbato anche dai consensi elettorali del → Partito Popolare Italiano, non venne meno negli anni successivi l’aspirazione a una conciliazione tra S. Sede e governi italiani. Proprio la fine della “questione cattolica”, con la nascita del partito aconfessionale di don Luigi Sturzo, del resto, ora apriva complessi scenari sul ruolo di una autonoma responsabilità politica del laicato cattolico. In tale frangente si inserì la politica ecclesiastica dei governi italiani, dopo la “marcia su Roma” del 1922 guidati da Benito Mussolini, che contrastò il popolarismo democratico e ricercò contatti nel cattolicesimo conservatore. Distrutte le libertà politiche e sociali, il regime fascista da lui instaurato nel 1925 si trovò a misurarsi con l’influenza che nella vita italiana esercitava la Chiesa di Pio XI, anche tramite lo sviluppo organizzativo dell’Azione cattolica.

Alla ricerca di maggiori consensi al Fascismo sul piano nazionale e internazionale, nel 1926 Mussolini avviò ufficialmente con la S. Sede le trattative che si conclusero con la firma dei Patti Lateranensi dell’11 febbraio 1929. Gli accordi allora raggiunti prevedevano un Trattato (accompagnato da un Convenzione finanziaria) in cui l’Italia riconosceva la sovranità del papa sul costituito Stato della Città del Vaticano; con tale “Conciliazione” si chiudeva la “questione romana”. Contemporaneamente si siglava un Concordato circa le condizioni della religione e della Chiesa cattolica in Italia, col quale Mussolini confidava di ottenere l’adesione del cattolicesimo al Regime. A fronte del rispetto delle istituzioni nazionali da parte dei cattolici italiani, in realtà, il concordato servì alla Chiesa per affermare la sua presenza sul piano religioso-educativo, contrastando l’ambizione totalitaria del fascismo. Si alimentava, così, tra i cattolici una moralità alternativa alla cultura fascista, consentendo una formazione civile del laicato cattolico che manifestò la sua importanza alla ripresa delle libertà politiche dopo il 1943.

I Patti Lateranensi furono discussi dall’Assemblea costituente e esplicitamente richiamati nell’art.7 della Costituzione dell’Italia repubblicana nel regolare i rapporti tra lo Stato e la Chiesa, “ciascuno nel proprio ordine, indipendenti e sovrani”. Dopo il successo elettorale del 1948 che assegnò alla Democrazia cristiana il governo del Paese, le problematiche della conclusa questione romana venero spesso rilette e riconsiderate dai cattolici all’interno del dibattito pubblico e in quello politico dell’Italia repubblicana (il Concordato fu sottoposto, infine, a consensuale revisione nel 1984). Già alla vigilia del Concilio Vaticano II, l’allora cardinale Giovan Battista Montini prese la parola in Campidoglio il 10 ottobre 1962, per evidenziare come dopo il 1870 il papato avesse riprese “le sue funzioni di Maestro di vita e di testimonio del Vangelo, così da salire a tanta altezza nel governo spirituale della Chiesa e nell’irradiazione morale sul mondo come non mai.” Il tragico periodo della II Guerra mondiale, egli continuava, aveva messo a dura prova la “formula giuridica” della conciliazione del 1929, “mostrandone sì la validità, ma sotto alcuni aspetti i limiti ed i pericoli, e sotto altri la provvidenzialità che valse a Roma la salvezza”. Ora il Concilio avrebbe offerto “un nuovo collaudo di quella formula […] per quanto riguarda la possibilità del Papa di avere rapporti con la Chiesa e con il mondo […]; in altri termini, la sua indipendenza, la sua libertà, la sua funzionalità, che è quanto costituì il nucleo essenziale della questione romana.”

Fonti e Bibl. essenziale

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LEMMARIO