Associazione Italiana dei Professori di Storia della Chiesa

Dizionario Storico Tematico La Chiesa in Italia
Dopo l'Unità Nazionale
Roma 2015
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Questione sociale - vol. II


Autore: Andrea Ciampani

Nell’età contemporanea la “questione sociale” è stata suscitata dalla grande trasformazione socio-economica e politica collegata alla rivoluzione industriale e al conseguente processo d’industrializzazione che dalla Gran Bretagna si diffuse nel resto del mondo, con tempi e dinamiche differenti, tra la fine del XVIII secolo e la seconda metà del XX secolo. Durante la fase di avvio del capitalismo storico, infatti, alle nuove forme di produzione e di organizzazione del lavoro si accompagnò anche una peculiare posizione di subordinazione del lavoro dipendente; contemporaneamente, si affermarono forme di sfruttamento del proletariato creatosi nel passaggio dalla vita rurale a quella urbana e operaia. L’affermarsi nelle élites liberali di una visione economica–sociale che considerava il “lavoro” come merce, da ricondursi a una semplice variabile del costo del lavoro e ad uno degli elementi quantitativamente valutabili nella produzione, prescindendo dalla dignità della persona prestatrice d’opera e dal significato del suo apporto personale, accentuò il disequilibrio del potere sociale presente nei rapporti tra domanda e offerta di lavoro. Emerse progressivamente, così, un nuovo fenomeno sociale di disuguaglianza tra le classi borghesi e finanziarie, detentrici dei capitali e dei mezzi di produzione, ed i soggetti che vedevano la cessione delle loro energie fisiche e/o intellettuali ricompensata col minore salario possibile. In tale contesto si sviluppò, dunque, un movimento operaio e sociale di emancipazione materiale e culturale perché lavoratrici e lavoratori potessero uscire da condizioni di miseria e di degradazione individuale e familiare, in cui si sperimentava la precarietà della vita umana mercificata. Il formarsi di una “questione sociale”, perciò, trova alimento tanto nella cultura del lavoro della società contemporanea quanto nella struttura economica produttiva dei suoi processi di sviluppo.

Il diffondersi della rivoluzione industriale tra Ottocento e Novecento, inoltre, era accompagnato dal simultaneo affermarsi delle rivoluzioni politiche che rivendicarono le libertà costituzionali e la cittadinanza democratica. Nella prima metà del XIX secolo, peraltro, apparve evidente che l’esperienza di marginalità delle sempre più numerose classi lavoratrici coinvolte nel mutamento produttivo e sociale non trovava adeguata via di superamento all’interno del liberalismo politico che si sviluppava in tale periodo. Si promossero, così, importanti iniziative di riformismo sociale, concepite anche dai governi per ridurre od evitare il conflitto sociale, e rilevanti movimenti politici alimentati da ideologie che, facendo leva su quel conflitto, intendevano scardinare il sistema di potere politico borghese. Le dinamiche della “questione sociale”, tuttavia, non possono essere adeguatamente comprese all’interno di tale dimensione politica; esse, piuttosto, vanno ricondotte all’interdipendenza delle proposte avanzate da molteplici attori sociali ed istituzionali coinvolti nel processo d’industrializzazione, alla luce di diverse e contrastanti visioni dei rapporti economici, sociali e politici.

La “questione sociale”, infatti, s’impone all’opinione pubblica quando emerge nella vita sociale la consapevolezza della radicale trasformazione del vecchio ordine dei rapporti economici, dell’esigenza di operare efficacemente nel superamento dell’ingiustizia nei rapporti di lavoro e della possibilità di perseguire adeguate strategie per conseguire tali obiettivi. Al centro della “questione sociale”, dunque, si pone l’affermarsi di una rappresentanza sociale degli interessi delle lavoratrici e dei lavoratori attraverso associazioni fondate sulla libera adesione solidale delle persone che lavorano, come è stata storicamente realizzata dai sindacati costituiti per sviluppare sul piano privato-collettivo un’efficace azione contrattuale e negoziale. Dopo la fase più critica e conflittuale della “questione sociale” nei Paesi industrializzati, dunque, il progressivo affermarsi di un libero sindacalismo, indipendente dagli Stati e dai partiti, nella seconda metà del Novecento ha consentito di delineare con maggiore chiarezza il rapporto tra ampliamento del processo democratico e partecipazione sociale alla formazione delle decisioni socio-economiche. Alla fine del secondo millennio, lungi dall’essersi chiusa con l’evolversi della cultura del lavoro e delle dinamiche economiche della società globale, la “questione sociale” si caratterizza per la capacità degli attori della società civile di orientare l’economia di mercato alla giustizia e alla coesione sociale, concorrendo alla realizzazione di un welfare attivo e partecipando alla governance delle possibilità produttive sulla base della libertà e della solidarietà.

In tale profilo storico va collocata l’evoluzione dell’opera della Chiesa e dei cattolici in Italia. Dopo il 1861 le trasformazioni del mondo del lavoro nel lento processo d’industrializzazione italiano produssero i primi sintomi di malessere sociale in Piemonte, in Lombardia, in Toscana, in Emilia, nel Napoletano e in Sicilia, legati ai mutamenti introdotti nelle attività tessili, nello sviluppo dell’edilizia e nelle miniere di zolfo. Nello stesso tempo, nel settore tipografico e in quello serico emergevano associazioni professionali e leghe di “resistenza”, che alla fine degli anni Settanta già apparivano assumere caratteri sindacali. Nelle campagne, che occupano ancora nel 1881 più della metà dei lavoratori attivi in assai differenziate condizioni di lavoro, si manifesta la presenza di quella drammatica questione agraria che, con gravi riflessi socio-politici, caratterizzerà l’intera storia nazionale. Negli ultimi decenni del secolo, la “questione sociale” iniziò a imporsi nel dibattito pubblico anche in connessione ai moti ribellistici delle “boje” nelle campagne settentrionali durante la crisi del 1882, alla repressione dei fasci siciliani e dei movimenti anarchici in Lunigiana nel 1894, e all’esplosione di tumulti sociali nelle città del 1898, mentre si moltiplicavano gli scioperi e sorgevano accanto alle leghe di resistenza le prime Federazioni sindacali nazionali e le Camere del lavoro. In questi anni, peraltro, si incrementò l’inurbamento e si sviluppò il fenomeno migratorio verso l’Europa e le Americhe, destinato a toccare il suo apice nei primi anni del Novecento.

La presenza della Chiesa negli Stati preunitari e nel Regno d’Italia (il censimento nazionale del 1861 registrava una popolazione che si dichiarava cattolica nella sua generalità) aveva alimentato un profondo impiego delle Opere pie e delle attività di beneficienza per fronteggiare pauperismo e mendicità. Misurandosi con la trasformazione degli ordinamenti di Antico Regime e con la cultura liberale dei nuovi gruppi dirigenti nazionali, anche la Chiesa italiana fu chiamata a confrontarsi con l’affermazione della società moderna nel suo complesso; in tal senso, l’enciclica di Pio IX Quanta cura e l’accluso Sillabo del 1864 può essere considerata a buon diritto la prima enciclica sociale. Mentre la politica ecclesiastica dei governi sabaudi, prima e dopo la costituzione del Regno d’Italia, si rivolgeva contro la “manomorta”, imponendo la conversione dei beni immobili degli Enti morali ed ecclesiastici, l’indemaniamento delle confraternite, la pubblicizzazione delle Opere pie, si avviò un processo di aggregazione del laicato cattolico italiano intorno al magistero pontificio, come segnala la nascita nel 1868 della Società della Gioventù Cattolica, alle origini dell’Azione Cattolica.

Dopo la Breccia di Porta Pia nel 1870, in stretta connessione con la questione romana sollevata dalla protesta pontificia, nel 1874 si costituì l’Opera dei Congressi per sostenere una presenza pubblica dei cattolici nella società civile; al suo interno sorse una Sezione dell’economia sociale cristiana, volta a coordinare comitati parrocchiali, casse rurali e società operaie, che promosse nel 1889 un’Unione cattolica di studi sociali per formare la cultura degli operatori cattolici. Si organizzò l’impegno sociale cattolico nelle opere di assistenza e d’istruzione (col sostegno del clero diocesano e degli ordini religiosi, alcuni dei quali fioriti proprio nell’Ottocento), dell’assistenza mutualistica, della cooperazione e del credito. Le classi dirigenti cattoliche favorirono il passaggio dai monti frumentari alle Casse rurali, sostennero la diffusione delle Banche popolari e delle Casse di risparmio, non esitarono a dar vita propri istituti bancari (nel 1888 la Banca San Paolo di Brescia, nel 1895 il Banco Ambrosiano di Milano, nel 1896 il Piccolo Credito Romagnolo a Bologna). Anche l’impegno sociale del cattolicesimo italiano fu incoraggiato dalla promulgazione nel maggio 1891 dell’enciclica di Leone XIII Rerum Novarum, che denunciava i mutamenti che agitavano le popolazioni nella società moderna. In tale documento erano contenute le linee di sviluppo di un magistero sociale che si sviluppò, attraverso le encicliche di Pio XI, di Giovanni XXIII e di Paolo VI, fino alla Centesimus annus di Giovanni Paolo II nel 1991. Nell’enciclica leoniana, infatti, in relazione allo sviluppo della persona nelle comunità naturali della società civile, si delineavano l’opportuno dispiegamento dell’associazionismo professionale operaio e l’esigenza di ricomporre i conflitti di lavoro in una prospettiva di ordine sociale: nei differenti contesti e periodi del secolo seguente, personalità e correnti del movimento sociale cattolico enfatizzarono ora l’uno, ora l’altro aspetto.

In Italia, dopo i falliti tentavi degli anni Ottanta dell’Ottocento per superare il non expedit e reinserire il cattolicesimo politico negli istituti parlamentari, il movimento cattolico venne a caratterizzarsi sempre più per una politicizzazione della sua diffusa presenza sociale. In tal senso, anche i cattolici vennero coinvolti nel processo che vedeva il movimento socialista e l’approccio liberale dell’età giolittiana ricondurre l’esplosione della questione sociale, segnata da un aspro scontro di classe, alla semplice prospettiva politica di introdurre le masse nello Stato, mortificando il dinamismo dei soggetti sociali. Un riflesso di tale problematica si manifestò nelle divisioni che non tardarono a manifestarsi circa il senso della “benefica azione cristiana a favore del popolo” promossa dal movimento democratico cristiano d’inizio secolo e all’interno dell’Unione economico sociale istituita nel 1905 dopo lo scioglimento dell’Opera dei Congressi, mentre la riflessione sulle dinamiche economico- sociali, alimentate dal pensiero di Giuseppe Toniolo, trovarono sbocco nei convegni delle Settimane Sociali dei cattolici italiani, avviate nel 1907. Nelle trasformazioni produttive provocate della prima guerra mondiale e nel conflitto sociale dell’immediato dopoguerra (durante le occupazioni delle terre e le lotte operaie che culminarono alla fine del “biennio rosso” con l’occupazione delle fabbriche del 1920), restava aperto il problema del rapporto dell’azione sociale dei cattolici con la loro organizzazione confessionale e la loro azione politica, dal 1919 rappresentata dal Partito Popolare Italiano promosso da don Luigi Sturzo. L’associazionismo sociale “bianco” (che vide tra i suoi leader Achille Grandi, Guido Miglioli e don Carlo De Cardona) vide restringersi il campo d’azione durante la formazione del regime fascista, mentre si riducevano le libertà politiche e si tentava la costruzione dello stato totalitario. La tutela per l’azione religiosa derivante dai Patti Lateranensi del 1929 incentivò il carattere morale dell’azione sociale cattolica, che si concentrò in un’indipendente formazione culturale.

Alla caduta del fascismo e alla fine della guerra mondiale, così, la classe dirigente cattolica poteva elaborare un’azione di ricostruzione sociale del Paese, svolgendo un ruolo importante per far ottenere e gestire aiuti internazionali destinati all’assistenza delle popolazioni più misere e ad avviare la ripresa produttiva nazionale. Nell’Italia repubblicana, mentre i governi della Democrazia cristiana consentivano di misurare l’impegno riformatore di un cattolicesimo sempre più articolato sul piano sociale, come accadeva con la Confcooperative e con le Associazioni Cristiana dei Lavoratori Italiani; sul piano sindacale i cattolici italiani aderirono soprattutto alla Confederazione Italiana Sindacati dei Lavoratori, organizzazione non confessionale. Con le sue molteplici associazioni, laiche e religiose, il mondo cattolico accompagnò la trasformazione dell’Italia in un Paese industriale, con la conseguente emersione di nuovi disagi, favorendo l’istruzione e l’educazione delle classi popolari, condividendo le rivendicazioni sociali nelle grandi imprese e alleviando l’emigrazione meridionale verso le aree industrializzate del Nord. Nei conflitti industriali degli anni Sessanta si rinnovò l’impegno dei cattolici perché si riconoscesse dignità al lavoro, valorizzando l’azione dei soggetti sociali e l’autonomia della società civile organizzata dal collateralismo con i partiti politici. Il nuovo malessere provocato dalla società dei consumi e dai suoi limiti, riletto anche alla luce del magistero del Concilio Vaticano II, sollecitò un complessivo ripensamento dell’impegno cattolico a sostegno dei rapporti familiari e sociali, collegandosi con la Chiesa locale o sviluppando nuove forme associative. I sempre più rilevanti flussi d’immigrazione e le nuove marginalità nel nostro Paese, inoltre, hanno spinto il mondo cattolico a sottolineare una rinnovata azione sociale a sostegno delle categorie sociali più deboli. Negli ultimi decenni del ’900, così, i cattolici italiani hanno promosso forme responsabili di associazionismo e di rappresentanza sociale nella fase di ripensamento dello Stato assistenziale, sollecitato dalle nuove dinamiche del capitalismo contemporaneo, anche realizzando opere economico-sociali volte a contrastare il dirigismo con la sussidiarietà e ad orientare socialmente l’economia con la partecipazione degli attori sociali.

Fonti e Bibl. essenziale

I. Giordani (a cura di), Le encicliche sociali dei papi: da Pio IX a Pio XII, 1864-1956, Studium, Roma, 1956, 4 ed. corretta e aumentata; A. Gambasin, Il movimento sociale nell’Opera dei Congressi 1874- 1904; contributo per la storia del cattolicesimo sociale in Italia, Università Gregoriana, Roma, 1958; V. Saba, Le esperienze associative in Italia (1861-1922), Franco Angeli editore, Milano 1978; S. Zaninelli (a cura di), Il sindacalismo bianco tra guerra, dopoguerra e fascismo (1914-1926), Franco Angeli, Milano, 1980; Dizionario storico del movimento cattolico in Italia, a cura di F. Traniello – G. Campanini, vol. I, Tomi 1-2, Editrice Marietti, Torino, 1981; Aggiornamento 1980-1995, Marietti, Torino, 1997; F. Fonzi, I cattolici e la società italiana dopo l’unità, Roma, Studium, 1982 4 ed.; D. Veneruso, La questione sociale 1814- 1914, SEI, Torino 1985 6 ediz.; L. Trezzi, Sindacalismo e cooperazione dalla fine dell’Ottocento all’avvento del fascismo, Franco Angeli, Milano, 1982; I documenti sociali della Chiesa: da Leone XIII a Giovanni Paolo II, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano, 1991; P. Rosanvallon, La nouvelle question sociale: repenser l’etat-providence, Editions du Seuil, Paris, 1995; M. Fornasari – V. Zamagni, Il movimento cooperativo in Italia. Un profilo storico-economico (1854-1992), Vallecchi, Firenze 1997; M. Romani (a cura di), Appunti sull’evoluzione del sindacato, Edizioni Lavoro, Roma, 2006 5 ed.


LEMMARIO




Quietismo - vol. I


Autore: Pietro Zovatto

Per quietismo si intende quel movimento si spiritualità che si propone di raggiungere «velociter» la perfezione evangelica con un tipo di esperienza di carattere mistico. Storicamente compare nel XVII sec. particolarmente in Italia, Francia e Spagna. Esso ha interessato sotto il profilo dottrinale tutta l’Europa occidentale, ma più in generale ha riguardato anche l’Islam con il sufismo. La sua affermazione fondante va individuata attorno al principio di “passività”, che ha trovato collocazione presso i catari, i Fratelli del libero spirito, le beghine, i pelagini, e anche presso gli “alumbrados” spagnoli. Nel caso specifico in Italia compare con“l’oratione detta di pura quiete”, o “orazione degli affetti” (card. Francesco Albizzi, 1682), o ancora prima con il card. Caraffa, nunzio a Venezia, che denuncia un laico della diocesi di Brescia (Valcamonica), G.F. Milanese, che insegnava nel suo Oratorio di s. Pelagia non essere necessaria la recezione dei sacramenti, essendo sufficiente “l’orazione mentale”, mentre le altre devozioni popolari venivano disattese (Madonna e santi). Le tesi che gli venivano contestate riguardavano “l’unione sublime passiva, ed estatica, senza haver passato per i gradi della purgativa ed illuminativa”. La denuncia più significativa è quella del card. Innico Caracciolo (30-1-1682) al papa Innocenzo XI. In questa si descrivono le caratteristiche essenziali del quietismo, che non sempre trovano un corrispondente storico.

1). Il loro orare è “un sommo quieto e silenzio muti, come morti”, abbandonandosi “alle divine influenze”, snobbano quindi il meditare raziocinando, quello che rende scopribili i propri difetti. 2) Pensano così di raggiungere “quel sublime grado di orazione passiva di contemplazione, che Iddio per suo liberal dono concede a chi vuole, e quando vuole”.3)Ignorano che è necessaria la via purgativa e di purificazione prima di accedere al vertice della vita d’unione. 4) Non sanno che la contemplazione o “orazione passiva”, è dono di Dio, e che il demonio si riveste sotto la forma di “angelo della luce”. 5) Addirittura alcuni quietisti rinunciano alla “orazione vocale”, per buttarsi nella “orazione di pura fede e di quiete”, tralasciando il rosario, la preghiera vocale quotidiana, restando come “morti alla presenza di Dio”. 6) Muti davanti a Dio, rifiutano anche le immagini di Gesù Cristo, della Madonna e dei santi, poiché in questo stato di esperienza ritengono che ogni pensiero sia ispirato da Dio. 7) il card. Caracciolo non lo dice esplicitamente che essi snobbano la confessione, sottolinea però che si credono degni di ricevere la comunione quotidiana.

Storicamente i quietisti, o semiquietisti, rientrano nella categoria delle élites spirituali; sono meno frequenti, anche se non mancano, “gli idioti”, cioè gli illetterati, che obbediscono ciecamente al loro direttore spirituale. Come impazienti di fronte all’ideale della santità la vogliono raggiungere velocemente e con sicurezza per mezzo di una metodologia semplificata al massimo. La via è quella della opzione interiore radicale in un processo di interiorizzazione esperienziale che scavalca, o male se ne appropria, persino della tradizione consacrata dalla storia dei grandi maestri, come s.Giovanni della Croce. Per il quietismo l’attenzione più che sull’aspetto ascetico e della mortificazione si concentra nel riposo interiore di una vita, il cui protagonista è Dio stesso. Nella orazione passiva acquisita infatti è Dio che la elargisce a coloro che vi si dispongono. In tutto questo insieme l’anima di verità sembra consistere nel riflettere un tipo di spiritualità esperienziale, come l’orazione di silenzio interiore, di semplice fede, di contemplazione affettiva, coinvolgente tutte le facoltà umane. In polemica o per sfuggire al carico del devozionale e alla aridità spirituale di un tipo di teologia intellettualistica di derivazione tomistica. Purtuttavia, neanch’essi riescono sempre a sfuggire del tutto al devozionale.

Precursore del quietismo italiano si può considerare Isabella Cristina Berinzaga sotto la guida del gesuita Achille Gagliardi (d’origine padovana), autore del Breve Compendio della perfezione (1597) a inizio del Seicento a Milano. Con Angelo Elli l’uomo annientando radicalmente se stesso “si divinizza” a condizione di restare passivo. Questo minore osservante si spinge fino a negare la responsabilità morale e il valore delle opere in determinati stadi mistici. Insistendo sullo stato di amore puro, di amare cioè Dio per se stesso e non per paura dell’inferno. A Brescia presso i Preti della Pace, amalgamati attorno alle costituzioni di san Filippo Neri, emerge Giacomo Filippo Cosolo, che godeva fama di santo e di operare addirittura dei miracoli. I Pelagini della Valcamonica sostenevano che è necessaria l’orazione mentale per la salvezza, disprezzando la pratica sacramentale e il matrimonio. Al gruppo lombardo appartengono i fratelli Leoni, Simone e Andrea Maria; essi con una rozza psicologia delle strutture conoscitive “di parte superiore” e “di parte inferiore”, propugnavano una unione a Dio passiva in cui solo Dio agisce, diventando l’uomo impeccabile, poiché mette in opera solo la parte superiore.

A Vercelli il vescovo Vittorio Ripa aveva chiamato il padre barnabita La Combe (subito raggiunto da madame Guyon, di questi due aveva dato l’approvazione per la stampa delle loro opere) per dirigere i casi di coscienza da tenere al clero, portandoseli anche nelle visite pastorali. L’orazione del cuore (1686) del Ripa evidenzia un amore puro che si trasforma in passività annichilante per le facoltà sensibili al cuore. A Venezia Michele Cicogna, un sacerdote titolato della chiesa parrocchiale di sant’Agostino di Venezia, scrittore spirituale letterariamente seicentesco (Ambrosia divina, 1682), offrendo a Dio il libero arbitrio, è disposto a sopportare le più orribili sofferenze (anche l’inferno) per compiere un atto di carità totalmente disinteressato. Fecondo di opere di edificazione a più riprese l’Indice intervenne (1683; 1690;1691;1702).

Alla duchessa Laura di Modena, altro centro di spiritualità semiquietistica, il padre Giovanni Paolo Rocchi di Città di Castello (Umbria) le dedicava il libro Passi dell’anima per il cammino di pura fede (1677, posto all’Indice dieci anni dopo) dati dai tre gradi dell’orazione di pura fede, raccogliendo l’eredità di Ugo di san Vittore, santa Caterina da Genova, san Giovanni della Croce, sostenendo che l’anima opera sia nella contemplazione passiva che in quella acquisita; mantenendosi, tuttavia, in una posizione di un incerto equilibrio.

In Pietro Battista da Perugia, minore osservante, il mistico deve restare immobile, affinché “Dio dipinga nell’anime le misericordie”, senza cercare consolazioni, illuminazioni o sentimenti spirituali. La sua opera Scala dell’anima per arrivare in breve alla contemplazione, perfettione ed unione con Dio fu posta all’Indice nel 1689). Giovanni Antonio Solazzi, (all’Indice nel 1689 con Modo facile per far acquisto dell’oratione di quiete) operante a Roma, conosce le posizioni del Petrucci e del Molinos, e afferma che lo spirito “nell’orazione di quiete è assonnato” nell’essenza di Dio “con l’anima dell’anima”. Oltre ai due massimi rappresentanti del quietismo citati, sente l’influenza di santa Maria Maddalena de’ Pazzi, l’estatica carmelitana di Firenze.

Tommaso Menghini, domenicano di Albacina, insiste sulla “orazione degli affetti” (Opera della divina grazia, 1680) tanto da attenuare la fase ascetica del cammino spirituale, questa può determinare l’amor proprio. Questa “orazione degli affetti” consiste nell’elevare la mente a Dio in silenzio e lasciarlo parlare “nel fondo del cuore”. Così da eliminare la fase meditativa. Con il Menghini si spezza l’equilibrio tra abbandono fiducioso in Dio e la forza della natura sorretta dalla grazia (Indice, 1688). Si possono considerare petrucciani il marchigiano Benedetto Biscia dell’Oratorio che fa un lungo elenco delle difficoltà di pensieri, di distrazioni, di immaginazioni per attingere Dio che rimane inconoscibile, per cui altro non resta che la fede che crede e non conosce, esperienza intellettiva che sarà possibile nella dimensione eterna con il lume della beatitudine. Carlo Caldori di Fabriano, canonico, dedica un suo libro al Petrucci: Del sacro santo sacrificio della messa (1682), ma risulta più guardingo del suo maestro, poiché unisce l’ascetica alla mistica piena di slanci letterari con una vigile coscienza riflessa, non sfuggì, tuttavia, all’Indice (1690). Anche i Pii Operai di san Balbina a Roma risentono del clima generale, tanto che il loro Preposito Generale, padre Antonio Torres di Napoli (ammirato da G.B. Vico e poi anche nel Settecento da sant’Alfonso), convinto assertore della “orazione mentale” fu condannato e quindi riabilitato dalla sospensione, poiché non negava né l’orazione mentale né quella vocale.

In Sicilia suor Geltruda, benedettina, sosteneva i vari gradi di unione con Dio (unioni di matrimonio) negando la responsabilità in atti del “de sexsto”; e un fra’ Romualdo, suo compagno di sventura, non riconosceva l’efficacia oggettiva dei sacramenti se il sacerdote non era in stato di grazia nell’amministrarli, confondendo la liceità con la validità. Entrambi, dopo alterne vicende del processo finirono sul rogo.

Questa fenomenologia mistica con notevoli intemperanze dottrinali non rappresenta un organismo sistematico logico con un centro unitario interno. E mostra di non soddisfare le esigenze antropologiche delle singole persone in cammino di perfezione, indicando una inquietudine religiosa diffusa. Il quietismo del resto non rappresenta una dottrina teologica sistematica, ma piuttosto un insieme di insegnamenti di carattere pratico, collocandosi in un grado avanzato del percorso spirituale. Si potevano trovare dei quietisti che consideravano la contemplazione acquisita uno stato permanente dell’anima. Non esistevano singoli quietisti, poiché essi si presentano perlopiù organizzati in gruppi, “conventicole”, ove era quasi sempre un sacerdote che li dirigeva, o un laico. Le smagliature di condotta licenziosa attinenti il “de sexto”, là ove c’erano, si potevano trovare tra la gente di basso profilo culturale e quindi facilmente vittime della presunzione. Le polemiche insorte riguardavano le facili estasi, le visioni a richiesta e altre forme vistose della fenomenologia mistica. Di certo non si trattava di quietismo quando si parlava di “orazione degli affetti o di quiete”, come esigenza di coinvolgere la totalità della persona. Emergeva, tuttavia, questo, quando per affermarlo, si eludevano esplicitamente le orazioni vocali considerate inutili, dal momento che ci si collocava in uno stadio più elevato dello spirito. L’incapacità della teologia del tempo di considerare le tre età della vita interiore, purgativa, illuminativa e unitiva, fasi di un processo in un rapporto dialettico di flessibilità tra loro, secondo cui il momento prevalente non esclude, ma suppone gli altri. Basti vedere i punti qualificanti del quietismo come erano stati concepiti dal card. Girolamo Casanata (1682) quando la vertenza sul quietismo aveva raggiunto il suo apice (J. De Guibert, Documenta ecclesiastica Christianae perfectionis, 1931, n. 445-452; Id., Theologia spiritualis ascetica et Mystica, 1952, n 518). Storicamente la più grande querelle l’aveva scatenata Molinos (a Roma dal 1663 al 1693) con la sua Guida Spirituale (1675) qui uscita con l’approvazione dei censori ecclesiastici e del maestro dei Sacri Palazzi. La sua dottrina si dirige a chi ha superato la fase ascetica di purificazione e s’incammina alla contemplazione, facilmente raggiungibile attraverso la contemplazione appunto, ma possibile pure per via meditativa. Nell’unione con Dio l’anima fissa la volontà in Dio, ma con “ripulsa di pensieri e tentazioni” con la maggiore calma possibile. Questo percorso attinge molto dal magistero di s. Giovanni della Croce. Di lui lo specialista carmelitano­ E. Pacho (DSp., X, 1486-1514 e DM, s.v.)­ ha indicato la sua ortodossia e la sua assenza di turpitudini di cui fu accusato. Negli articoli (Denzinger n. 1221-1288) la condanna (1687) si concentra sulla “orazione di quiete” o passiva e sulla conciliazione di pensieri immorali senza responsabilità personale, poiché considerati violenza diabolica.

Per il citato card. Pier Matteo Petrucci (Jesi, 1636-1701), amico di Molinos, la meditazione non va trascurata, ma concentrandosi il cammino di perfezione sulla contemplazione di abbandono o di quiete, non ammette l’impeccabilità in questo stato, come altri pur sostenevano. Nell’opera Mistici enigmi, (1680), presa di mira dal Sant’ufficio, parla de “l’unione tutta perduta in Dio”, da cui non deriva un panteismo negatore della individualità personale, ma “la perfetta indifferenza” dal momento che l’anima “fissa” in Dio vive con la sola possibilità di “amare con tutta la totalità della sua volontà”. Anche il Petrucci si rifà alla dottrina sanjuanista, oltre che a F. Malaval, I. Berinzaga, A. Gagliardi, J. Falconi, A. Elli e P. Manassei. E ha come interlocutore chi è già avanzato nel cammino di perfezione e non il cristiano comune, che pur è chiamato alla santità. A Roma intanto fioccavano le denunce sul Petrucci, chiamato “begardo”, “calvinista”, “iconoclasta”, “giansenista”e insieme “quietista”. Anche nella denuncia del Caracciolo tra i quietisti si nominava il Petrucci. E la condanna non tardò ad arrivare, sulla scia del Molinos. Certo non si può considerare il Petrucci quietista, poiché risulta cristocentrico nell’organizzare la sua dottrina spirituale, mentre i quietisti sono fondamentalmente teocentrici; e inculca la necessità dell’ascesi quotidiana, senza frettolosi scavalcamenti dall’ascetica alla mistica. Il Petrucci domina la scena nel panorama quietistico o semiquietistico italiano con il suo innato senso della diplomazia. Quietisti o vicini al quietismo ormai sparsi alla macchia se ne trovavano in Italia in Angelo Elli, Sisto Cucchi e Paolo Manassei.

Dei due citati fratelli Leoni: Antonio Maria (n. 1639), laico, della diocesi di Como. Con le sue affermazioni bizzarre propugnava: la riforma della chiesa sotto il papa Alessandro VIII (1689-1691) in virtù di una cristologia antiatanasiana. Con la morte mistica si realizza l’impeccabilità e l’indifferenza totale dell’uomo con Dio, separandosi la parte inferiore dell’anima da quella superiore si acquista l’impeccabilità e l’indifferenza tra il sensibile e il visibile. In questo cristianesimo decurtato e semplificato i sacramenti non sono necessari, in particolare la confessione, anche se si incoraggia la comunione quotidiana. Questo quietismo eterodosso, che con varianti emerge nella penisola, è lungi da quello ben strutturato e colto di Petrucci; e di Molinos che tanta influenza ha esercitato anche al di là di Roma, ove operava, nel mondo protestante.

Il fratello Simone Leoni, sacerdote, rifiuta la meditazione, le invocazioni dei santi con la conseguente svalutazione dei sacramenti. Quello che è più inquietante in lui è l’affermazione secondo cui l’anima nello stato passivo è impeccabile e non deve opporsi alle tentazioni, poiché tutte le attività sono sospese (compreso il libero arbitrio) e la creatura divinizzata. Stranezze vengono proposte anche intorno alla Trinità, in cui il Figlio è inferiore al Padre; e nella incarnazione tutta l’essenza trinitaria si unisce alla carne, e la divinità di Cristo è creata. Lo stesso Cristo non fu esente dalla macchia originale. Tutti e due i fratelli furono condannati al carcere, oltre che all’Indice (1689; 1717).

In generale a questa dottrina quietista, non sempre con smagliature ereticali, s’opposero A. Regio, in particolare Gottardo Belluomo (gesuita †1690) ( con Il pregio e l’ordine dell’orationi ordinarie e mistiche, (Modena 1678) in maniera radicale, affermando, quest’ultimo, il valore previo della meditazione e delle virtù per via unitiva, a cui si perviene, tuttavia, “in modo perfetto” senza attingere la contemplazione. Contemplazione che non può concepirsi come “un addormire dello spirito”, ma piuttosto “un movimento della libertà”. Paolo Segneri con Concordia tra la fatica e la quiete nell’orazione (Firenze 1680) difende la meditazione senza attenuare il valore della contemplazione, anche se sospettoso della fenomenologia mistica, come rapimenti e visioni. L’opera fu posta all’Indice (1681) “donec corrigatur”. Tuttavia, Alessandro Regio con Clavis aurea assieme alla Concordia del Segneri contro i quietisti (Molinos compreso) furono messi all’Indice, poiché in quella fase storica il quietismo godeva di un particolare momento di favore. Al Segneri si affiancava Daniello Bartoli, pure gesuita, con l’opera Scrittura contro li quietisti, in cui si sottolineava la tradizione storica di quel movimento quietista con i Begardi, condannati da papa Clemente V al Concilio di Vienne (1312)

Altri antiquietisti furono, i vescovi Mercurio Maria Teresi e Nicolò Terzago nel XVIII sec., quando ormai la questione quietista era diventata un oggetto storico. E il Manzoni stesso si può collocare tra gli antiquietisti, non solo perché di atteggiamento “filogiansenista”, ma perché considerava il desiderio della felicità una legge universale del cuore umano (contro l’amore puro indifferente alla beatitudine). Così era stato condannato Molinos (1687) dapprima dal Sant’Ufficio e poi dalla costituzione di Innocenzo XI Coelestis pastor (1687), con conseguente incarcerazione perpetua. Nello stesso anno il card. Petrucci dovette emettere, in forma discreta, una ritrattazione di 54 proposizioni davanti al segretario del Sant’Ufficio, il card. Alderano Cybo.

Con la condanna di Molinos e del Petrucci il quietismo italiano si poteva considerare sconfitto e con quella di Fénelon (1689), che ebbe la peggio nel duello con Bossuet sulla vertenza del “puro amore”, la mistica stessa veniva considerata virtualmente messa sotto accusa. Sotto il profilo storico il suo insistere sulla contemplazione acquisita mostra l’importanza accordata alla presenza silenziosa davanti a Dio, al di là di ogni formulazione, in adorazione dello spirito; segna l’inizio di un’era di crisi della mistica, o perlomeno di un guardarla con sospetto per favorire ogni metodologia alla perfezione, con la preponderanza ascetica; lascia libero spazio alla spiritualità gesuita che nelle mani dei suoi figli andava progressivamente rafforzandosi con “l’asceticismo” (Bremond), oscurando la radice mistica delle sue origini; poneva il problema della possibilità di considerare la contemplazione sì uno spazio riservato ai vertici, ma a portata di mano anche dei “semplici” o degli “idioti”, per rendere possibile la vocazione universale alla santità; nella ricerca dell’affettività nel porsi presso Dio in contemplazione, il quietismo affermava inconsapevolmente una antropologia molinista, cioè la definizione egologica nel vertice dell’itinerario a Dio, al di là d’ogni intellettualismo dottrinario elevato a sistema. Senza avvedersene si scopriva così l’esigenza ineludibile dell’esperienza cristiana profonda, per viverla con radicale impegno. I quietisti anche se elitari (quelli che lo erano) come i giansenisti, proprio questi essi sembrano controbattere, senza nominarli, per il loro rigorismo etico e aprirsi così la strada per rendere accessibile i più alti gradi di perfezione a ogni uomo. Il principio di passività quietistico di fronte alla preponderante grazia di Dio veniva interpretato come una svalutazione delle opere presso il mondo protestante e un argomento apologetico anticattolico (una negazione pericolosa, se non ereticale, dell’economia sacramentale presso quello cattolico), per cui la Guida spirituale di Molinos, formulata nel cuore della cristianità, ha goduto di una notevole fortuna nelle molteplici traduzioni in tedesco.

Fonti e Bibl. essenziale

A. Baldini, La lotta contro il quietismo in Italia, “Il Diritto ecclesiastico” (1947/58) 26-50; M. Petrocchi, Il quietismo italiano del Seicento, Ed. di Storia e Letteratura, Roma 1948 (v. i doc. di appendice, 147-205 e bibl.), su cui R. Guarnieri “Rivista di Storia della Chiesa in Italia” (1949/3), 95-119; Id., Il quietismo in otto mss. chigiani: polemiche e condanne tra il 1681-1703, in ib., 5 (1951), 381-412; G. De Luca, Un nuovo documento per la storia del quietismo italiano da un ms. vallicelliano (R.112), “Rivista di Storia della Chiesa in Italia”, (1949/3) 410-429; F. Nicolini, Su Miguel de Molinos e taluni quietisti italiani, Napoli 1959; Id., Su Miguel de Molinos, P. Petrucci e altri quietisti segnatamente napoletani, “Bollettino Storico del Banco di Napoli” (1951/39), 88-201; e (1959/15) 223-349; G. Cacciatore, Due scritti inediti di s.Alfonso intorno al quietismo, “Spicilegium Historicum C.S.S.R.” (1953/1) 169-197 (s. Alfonso lettore di Petrucci); M. Bendiscioli, Der Quietismus zwischen Haeresie und Ortodoxie, F. Steiner, Wiesbaden 1964; R. Guarnieri (a cura), Il movimento del libero spirito, testi e documenti, Ed. di Storia e Letteratura, Roma 1965; P. Zovatto, Fénelon e il quietismo, Del Bianco, Udine 1968; v. Petrucci, in DSp., XII, Paris 1986, 1217-1227 e ivi, Id. altre voci minori; Id., Manzoni e il quietismo, “La Scuola Cattolica” (1969/1), 55-66; G. Biasutti, Echi di quietismo in Friuli, Arti Grafiche Friulane, Udine 1971; R. Maio, Il problema del quietismo napoletano, Ed. Scientifiche, Napoli 1969; D. Vizzari, sui Pii operai e Antonio Torres, in DIP, V, (1978) 1089-1090; e Ib., VI, (1980), p. 1718; F. Molinari, F.Borromeo e il quietismo, in Problemi di storia della Chiesa, II, Dehoniane, Napoli 1982, 333-351; G. Orlandi, Il quietismo nella Modena di L.A. Muratori, ivi, 151-297; Id., La fede al vaglio: quietismo, satanismo, e massoneria nel Ducato di Modena tra Sette e Ottocento, Aedes Muratoniana, Modena 1988; M. Marcocchi, La spiritualità tra giansenismo e quietismo nella Francia del Seicento, Studium, Roma 1983; C. Urieli, Il card. Petrucci.., in Ascetica cristiana e ascetica giansenista e quietista nelle regioni di influenza avellanita (Atti Convegno Centro Studi Avellaniti), Fonte Avellana 1977, 127-188; A. Sampers, Appunti di s. Alfonso tratti da un’opera del card. Petrucci, “Spicilegium Historicum C.S.S.C.” (1978/26), 249-290; J.-R. Armogathe, s.v. in Catholicisme, XII, Paris 1990, 370-377; E. Pacho – J. Le Brun, s.v. in DSp., XII-2, Paris 1980, 2756-2842, per l’Italia E. Pacho, 2756-2789; E. Pacho, s.v., in Dizionario di mistica, Libreria Ed. Vaticana, Città del Vaticano 1998, 1053-1055; M. Modica, Infetta dottrina: Inquisizione e quietismo nel Seicento, Viella, Roma 2009.


LEMMARIO




Regoli Roberto


Professore di storia contemporanea della Chiesa presso la Pontificia Università Gregoriana ed ivi Direttore del Dipartimento di storia della Chiesa, si occupa particolarmente di storia del Papato, della Curia Romana e della diplomazia pontificia per i secoli XIX-XXI. I suoi saggi e le sue monografie si soffermano soprattutto sul periodo dell’epoca napoleonica, della Restaurazione e sugli anni Venti e Trenta del Novecento. È membro del Consiglio di Presidenza dell’Associazione Italiana dei Professori di Storia della Chiesa, socio corrispondente della Società romana di storia patria e socio dell’Association française d’histoire religieuse contemporaine. È anche membro del Comitato scientifico del Tribunale della Penitenzieria Apostolica per l’organizzazione dei convegni storici e del Comitato di redazione della Rivista Chiesa e Storia.





Religiosità popolare - vol. II


Autore: Pietro Zovatto

 

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Solo di recente la storiografia ha fatto oggetto di ricerca la religiosità popolare, faticando non poco ad individuare un suo spazio di attenzione accanto alla religione ufficiale. Incerta nel trovare il suo metodo di procedere, di volta in volta con una andatura vicino alla sociologia, alla antropologia, alla filosofia e, magari, avvicinandosi alla teologia cristiana, o ad una filosofia della religione “laica”, mutuata dall’idealismo materialistico o dal razionalismo agnostico.

In Italia uno dei primi studiosi della religione popolare è stato Antonio Gramsci, secondo cui la religione si stratifica al suo interno, anche se tutte le religioni non sono che “folklore” in rapporto al “pensiero moderno”. In particolare questa distinzione vale per la “la religione del popolo”, che è molto diversa da quella degli intellettuali. È difficile ridurre la religiosità popolare a folklore, se essa rivendica un culto il cui destino detiene una intenzionalità trascendente

Dello storicismo ideologico gramsciano uno dei più coerenti discepoli fu certamente Ernesto De Martino, particolarmente con le due opere Sud e magia (1959) e Il mondo magico (1967) con una nuova impostazione della scienza etnologica, con cui esplora la sopravvivenza delle più rozze pratiche di magia cerimoniale in terra lucana (Basilicata). La chiave di interpretazione è data dalla alternativa tra “magia” capillarmente diffusa nel mondo contadino, di fronte alla “razionalità”. Il pensiero meridionale si adagiò a questa temperie senza optare in maniera determinante alla razionalità illuministica.

Alfonso di Nola dopo la lezione di Ernesto de Martino, inserisce la sua premessa marxisteggiante nella antropologia delle forme religiose popolari. Ha tuttavia il merito di recepire l’istanza empirica nello studiare le feste e i culti popolari delle regioni meridionali, negli anni Settanta, con la ricerca: Gli aspetti magicoreligiosi di una cultura subalterna italiana (1976).Egli si presenta con un’ opera significativa sotto il profilo storico-antropologico sulle forme della “cultura subalterna” in Italia. Sono infatti presentati i risultati di due ricerche effettuate sul territorio in terre abruzzesi, di antica civiltà rurale in riferimento ai culti riguardanti san Domenico a Cucullo e di san Antonio Abate nella Marsica, nonché di san Zopito. E indica il ricupero di questo materiale indigeno e ancestrale da parte della religione ufficiale, che si mostra così egemone su una cultura che deve restare subordinata rispetto a quella dominante e canonica.

Questa doppia interpretazione degli stessi dati, una “subalterna” del popolo e una “ufficiale”, avanzata dal Di Nola, richiede il passaggio dall’esegesi antropologica di carattere puramente “culturale” su un fatto di natura ostile all’uomo (il serpente) in una società di pastori e di cacciatori. Nonostante il passaggio alla industrializzazione del sistema capitalistico, la persistenza storica di diversi riti locali abruzzesi può essere considerata come resistenza delle culture locali subordinate ai modelli unificanti.

L’intervento di Carlo Ginsburg: Folklore, magia, religione (in Storia d’Italia, I, 1972) per certi aspetti risente l’influenza di Gramsci avvicinando la religione popolare al “folklore” sacrale, o al magismo, dal momento che per Gramsci la religione è folklore. Prendendo il filo dall’Umanesimo non dà che un giudizio negativo su tutto il Rinascimento fino ad arrivare ad un indistinto coacervo di scongiuri e di giaculatorie espresso da l’Alfabeto dei villani (del Seicento), secondo Ginsburg. In questo particolare momento storico si avverte lo spostamento della strategia della presenza storica controriformista dalla città alla campagna, che diventa il centro della conservazione del patrimonio religioso. Anche i gesuiti, gli strateghi moderni dopo il Concilio di Trento, seguono questo indirizzo e adattano il loro messaggio con le immagini per il loro valore emotivo e di immediata percezione. Di qui il diffondersi di preghiere, di vite di santi, di narrazioni di miracoli, di litanie e almanacchi e cantari con diffusione capillare di questo “opuscolame devozionale”.

Anche altre opere di nomi prestigiosi del Settecento – secondo le ricerche di Ginsburg come sant’Alfonso, oppure del Pastorini e del Muzzarelli esprimevano una religiosità minore “idilliaca e dolciastra”, sia con le sentimentali canzoncine mariane, sia con la devozione a Gesù Bambino, dal carattere ingenuamente carammelloso. E i parroci nelle loro omelie non predicano certo “né il Dio corrucciato del Vecchio Testamento, né il Cristo giudice, ma il Cristo zuccheroso ed effeminato delle immaginette sacre”. Immaginette che sono, tuttavia, state studiate come una mediazione dimessa ed immediata che partendo da un supporto cartaceo discutibile sotto il profilo artistico, possiedono la virtualità di sollecitare esigenze elementari del popolo verso le sublimi verità del dogma cristiano, fino ad attingere la Trinità, con un sentire autenticamente religioso (P. Zovatto, Il santinio tra metafisica e religiosità, 1988 ).

Un indirizzo tutto nuovo ha impresso a questo genere di ricerche Gabriele De Rosa che in vario modo ha assimilato la lezione della pietà di don Giuseppe De Luca, di Gabriel Le Bras e di Lucien Febvre. Si tratta della pietà delucana quale presenza di Dio amato per consuetudine d’amore. Per una ricostruzione storica della complessa situazione meridionale, egli ha fatto lungo ricorso al materiale documentario ecclesiastico proveniente dalle relazioni delle visite pastorali dei vescovi, dalle relazioni “ad limina” degli episcopati, dalle pastorali e dai sinodi. Compulsando infatti gli archivi della Calabria e della Basilicata (Lucania), ha potuto esordire con un saggio Nicola Monterisi (1867-1944): “Pensieri e appunti”. Magia popolo nelle esperienze di un vescovo meridionale (“Archivio Italiano per la Storia delle Pietà” 1970, VI, 403-491). Oltre che alla mediazione di “pietas” delucana si avvale dell’apporto sociologico delle “Annales” e “mostra come quelle due regioni del Sud, la religiosità popolare, trovava in continuazione un vigilante controllo dei vescovi per mantenerla ancorata alla ortodossia cattolica secondo i canoni della Controriforma. Parte quindi con una metodologia meno ideologizzata di un Gramsci e muovendo dall’interno della istituzione ecclesiastica con i suoi organi di governo (vescovi, sinodi, pastorali, visite “ad limina”), sistematicamente sottoposte ad analisi. E la magia viene colta nei suoi aspetti sociali quando diventa spia d’una condizione sociale e delle aspirazioni delle popolazioni rurali onde “garantirsi dall’ignoto”, assumendo sì un aspetto irrazionale, ma per sfuggire da una crisi economica senza sbocchi.

Al De Martino De Rosa replica che allargando la ricerca sulla vita interna della chiesa controriformista, in cui si scopre che la storia religiosa del Sud Italia fu anche storia di sinodi e di visite pastorali, atti ufficiali delle curie vescovili che non vanno sottovalutati. Questi fenomeni di ibridismo magico-religioso rimasero, tuttavia, sempre fenomeni circoscritti e ben individuati da parte della gerarchia. Il vescovo Angelo Anzani nella Basilicata infatti deplorava nel suo clero il compromesso con le pratiche magiche e distingueva un esorcismo extracanonico, stigmatizzato, da un esorcismo previsto dal diritto canonico. E richiamava il senso agostiniano del peccato ( che magari poteva avere smagliature gianseniste) e la volontà di spezzare ogni nesso tra religione e magia. Per Gabriele De Rosa “c’è insomma una storia del sincretismo pagano-cattolico del Sud, che appartiene al folklore, e una storia istituzionale della pietà”, che muove da una concezione religiosa e cristiana dell’uomo, che è “storia di liberazione dalla magia” (Vescovi, popolo e magia nel Sud, 1971).

Sotto questo aspetto si profila la tesi di Gramsci secondo cui la religione è “la più grande utopia”, cioè la più “gigantesca metafisica” apparsa nella storia. Essa infatti si configura come il tentativo di conciliare le contraddizioni della mitologia della religione popolare con la vita reale della storia, ed è questa la religione del popolo; quella degli intellettuali (gesuiti), invece, è tutt’altra cosa. E lo sforzo di questi è stato sempre quello di unire le due religioni in una unità superiore per sottrarre quella popolare dal frammentarismo e dalla superstizione per portarla ad un grado di maggiore organicità e coerenza unitaria. Ma quello che per Gramsci costituisce un’esigenza ideologica, per De Rosa diventa dato storico, poiché i sinodi, le visite pastorali dei vescovi dell’Italia meridionali sono intervenuti per riportare quelle credenze ambigue ad un livello di consapevolezza dottrinale di ortodossia, secondo le direttive del Concilio di Trento. Del resto, rileva De Rosa, la scarsa stima di Gramsci nei riguardi della cultura popolare, “la religione dei semplici”, corredo della classe subalterna, mostra una pregiudiziale diffidenza verso il popolino che dovrebbe diventare, alleato della classe operaia, protagonista della dialettica marxista per raggiungere il potere.

Con il Concilio Vaticano II “i pii esercizi”, “gli esercizi di pietà” (Sacrosanctum Concilium 13; Optatam Totius, 89) e le devozioni antiche acquistano la loro dignità essendo aperto ad essi uno spazio para-liturgico, ma pur percorso da una devozione più elevata ­non ancora liturgia con cui la chiesa offre a Dio, per il tramite di Gesù Cristo, il culto ufficiale adeguato­. Il più recente Direttorio su pietà popolare e liturgia. Principi e orientamenti (2002) sospinge la ritualità delle credenze popolari di lunga tradizione (la Madonna, i santi, i pellegrinaggi, le novene) verso la purificazione dei contenuti, accostati con una strategia pastorale più congrua al credo cattolico.

Anche se quella religiosità popolare è “alternativa o parallela” alla liturgia, non sempre nata da “l’ispirazione liturgica”, riporta “forme di sensibilità naturalistica di credenze e pratiche popolari paleocristiane”. Questo “excursus” dei maggiori studi della critica sulla religiosità popolare mostra la tendenza ad accentuare il lato irrazionale, magico, primitivo della religione popolare e dall’altro lato se ne sottolinea l’arcaicità che assicura gli elementi di lunga durata, nonostante gli interventi dell’autorità ecclesiastica. Pur evidenziando gli aspetti di sincretismo tra sacro e profano – spesso interpretati con una metodologia ideologizzata ­– si rintracciano sì bisogni primordiali di sicurezza psicologica e materiale, ma solo pochi hanno sottolineato gli interventi vigilanti dell’autorità ecclesiastica per convogliare questo fenomeno complesso e debordante del vissuto popolare alle fonti dell’intuizione cristiana. Tendenza del sentire religioso diffuso che pur brillava nella compassata e giuridica chiesa controriformista.

Ancora ­ha notato Philippe Ariès (Religion populaire et réforme religieuse, (“Maison Dieu” (1975/ 122) in questa storiografia “laica” si rileva nei riguardi della religiosità popolare un atteggiamento di critica non dissimile a quella del XVII e XVIII secolo illuministico, quasi fossero questi intellettuali detentori di un cristianesimo puro delle origini (posizione giansenizzante). Egli rileva che anche in quei secoli la religione popolare e quella delle élites credenti non erano in contraddizione. La collettività e l’intelligenza cattolica avevano in comune (e tuttora hanno), l’apprezzamento positivo per la pratica dei sacramenti e delle devozioni popolari

Se confrontiamo la religiosità del sud Italia con quella del nord, essa non sembra assumere connotazioni di differenziazione specifica; possiedono ambedue una uniformità di fondo abbastanza simile. Si diversificano piuttosto nella fenomenologia della espressione esteriore. Più vistosa, più mossa al sud, ma insieme anche più corale e totalizzante e più esteriormente sacrale. Tutte le classi sociali vi sono coinvolte, da quelle pubbliche (autorità civili) a quelle borghesi con il popolo minuto. È festa di tutti nella visibilità di una civiltà mediterranea anche nella esternazione del sentire sacro, come avviene a Catania per il patrono sant’Agata. Nel nord l’espressione del religioso popolare sembra coinvolgere di più la persona-individuo nella consapevolezza di una venerazione contenuta, che sa ancora del tradizionale controriformista, specie nelle piccole borgate paesane. In queste va assottigliandosi la partecipazione delle pubbliche autorità, in particolare dopo la dissoluzione del partito d’ispirazione cristiana. Talune sopravvivenze paganeggianti sembrano più appariscenti nel sud che nel nord, dove l’influenza dell’autorità ecclesiastica e la secolare formazione sacerdotale dei seminari è stata più incisiva per incanalarla alla sostanza del dogma cattolico, come nella diocesi di Milano con la cerchia dei santuari mariani (i Sacri Monti) posti a baluardo del mondo protestante, o come a Padova con il Santo (san Antonio). Mentre nel sud la forza del tradizionale regge con più pervasività e vischiosità nel sentimento religioso collettivo, non del tutto immune dalla arcaica “pietas” paganeggiante. Implicitamente lo suggeriva il De Luca nella sua Introduzione… e Gabriele De Rosa in parallelo con la religiosità prescritta dall’autorità ecclesiastica ( che nel sud Tirolo, diocesi di Bressanone e Trento, riusciva determinante, per es. per i santuari à répit diffusi nell’arco alpino di tutto il nord). Senza dire del De Martino che faceva dell’elemento pagano (magia e superstizione) la chiave di comprensione della religiosità popolare. Dal mondo pagano al cristianesimo la religiosità popolare ha segnato un processo di purificazione innegabile, ma il percorso non è ancora arrivato al termine di attingere in pienezza il Cristo e il mistero trinitario (valore e limiti della religiosità popolare in “Evangelii nuntiandi, 1975).

Fonti e Bibl. essenziale

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LEMMARIO




Reliquie - vol. I


Autore: Mario L. Grignani

Etimologia. In latino reliquiae e in greco λείψανα, con il significato generale di “ciò che resta”, riferito al corpo umano o parte di esso. La voce r. « fu usata nell’antichità, secondo il senso etimologico (illa quae ex aliqua re relicta sunt) anche per designare resti dei corpi dei defunti o le ceneri dei corpi inceneriti » (Kirsch). Il significato in ambiente cristiano si riferisce, in particolare, ai resti mortali di coloro che sono riconosciuti come martiri e santi e, più in generale, a quegli oggetti che sono stati a contatto della loro persona, e che, per la virtus divina in loro presente ed operante, ne sono stati consacrati. Nel caso in cui le r. si riferiscano all’intero corpo, vengono chiamate reliquiae insignes, se si riferiscono a una parte di esso si dicono reliquiae non insignes. Le r. inoltre possono essere ottenute in virtù del contatto non solo con il corpo della persona viva, ma anche post mortem; in questo secondo caso anticamente si chiamavano brandea, palliora, memoria, pignora, sanctuaria, patrocinia. Infine si conoscono anche le r. di sangue, conservate nelle ampullae sanguinis.

Fondamento storico e teologico del culto delle r. e magistero della Chiesa. Di natura e origine diversa sono le fonti che presiedono lo studio delle r. e del relativo culto, connesso alla santità: dalle fonti scritte alle orali, dalle archeologiche alle iconografiche. Dalla conoscenza di tali fonti, della storia dei martiri, dei santi e delle relative forme di devozione popolare dipende la comprensione del fenomeno delle r. e del culto ad esse legato. I primi riferimenti cristiani alle r. si trovano nel Nuovo Testamento: nel Vangelo secondo Marco si osserva la cura rivolta ai resti di Giovanni Battista martire (6,29), negli Atti degli Apostoli si riferisce del martirio di Stefano (8,2). Le r. cristiane trovano la loro ragion d’essere nella fede in Cristo professata dai martiri e nella dottrina della resurrezione dei morti insegnata dalla Chiesa, e si inquadrano perciò in una dimensione religiosa e cultuale, teologica e antropologica. Negli Acta del martirio di Policarpo (†155) si trovano espresse la consapevolezza e la cura che cristiani di Smirne rivolgono al martire e alle sue spoglie mortali: « Noi solo più tardi potemmo raccogliere le sue ossa, più preziose delle gemme, più insigni e più stimabili dell’oro, e le collocammo in un luogo conveniente. Quivi, per quanto ci sarà possibile, ci raduneremo nella gioia e nell’allegrezza, per celebrare, con l’aiuto del Signore, il giorno natalizio del suo martirio, per rievocare la memoria di coloro che hanno combattuto prima di noi, e per tenere esercitati e pronti quelli che dovranno affrontare la lotta » (Martirio di s. Policarpo). San Girolamo all’inizio del secolo V, nell’Epistola 109, ricorda che l’onore tributato ai resti dei martiri ha per fine l’adorazione dovuta a Dio.

Pontefici e concili (ecumenici e provinciali) hanno insegnato, custodito e difeso lungo i secoli la dottrina della Chiesa sulle r. Nel secolo VIII la minaccia alle r. rappresentata dall’iconoclastia è condannata nel Concilio di Nicea II (787). Nel secolo XVI, mentre le dottrine protestanti di Lutero e Calvino negano valore alle r., la Chiesa riunita nel Concilio di Trento, con i suoi prelati e teologi ne approfondisce il significato ed il valore: se ne presenta la dottrina e si sottolineano le norme per l’istruzione dei fedeli, stabilendo che nell’invocazione dei santi, nella venerazione delle reliquie e nell’uso sacro delle immagini deve essere bandita ogni superstizione, eliminata ogni turpe ricerca di denaro e infine evitata ogni indecenza (sessione XXV, 1563). A sua volta il Catechismo Romano ad uso dei Parroci (1566), nel commento al primo comandamento, insegna il valore del ricorso ai santi e dà ragione del potere insito nelle loro r. Sul finire del secolo papa Clemente VIII istituisce la Congregazione delle Indulgenze che Clemente IX chiamerà Congregazione delle Indulgenze e delle Reliquie (1669); ad essa spetta vigilare sulle r., stabilirne l’autenticità, combattere gli abusi, le frodi, il commercio e una religiosità a volte caratterizzata da manie di feticismo, e infine concedere le relative indulgenze legate alle feste religiose locali ed alla pietà↗ cristiana. Nel secolo XVIII, mentre l’Illuminismo ritiene la fede una superstizione e combatte le r. ed il loro culto, è fondamentale la sistematizzazione della materia elaborata dal cardinale Lambertini, futuro Benedetto XIV, nell’opera De servorum Dei beatificatione et beatorum canonizatione (1734-1738).

Tipologia e geografia delle r. nella penisola italiana. La constatazione di Delehaye riguardo dei martiri romani –«L’hagiographie romaine dépasse en richesse tout ce que la tradition des Églises mous a légué en ce genre» – può applicarsi anche al caso delle r. in Italia; infatti è straordinaria la presenza delle r. nella penisola italiana sia per provenienza sia per circolazione, sia per quantità che per qualità. Vi si trovano r. in nesso a Gesù Cristo, alla Vergine Maria, agli Apostoli e ai Santi, nonché alle tradizioni relative a manifestazioni di creature angeliche.

Le r. più importanti sono quelle relative alla vita e alla passione di Cristo, nonché ai fatti miracolosi riguardanti le specie eucaristiche. Rinvenute in Terra Santa e poi portate in Italia, prima da Elena, madre dell’imperatore Costantino, e poi durante i pellegrinaggi e le crociate, tra di esse troviamo le r. della croce (il resto più famoso è quello custodito nella chiesa di Santa Croce in Gerusalemme a Roma, r. dell’iscrizione posta sopra la testa di Cristo crocefisso; un altro frammento della croce si trova nel Santuario di San Michele Arcangelo, sul Monte Gargano, portato dall’imperatore Federico II di ritorno dalla crociata nel 1229); i chiodi (molto conosciuto è quello conservato nel Duomo di Milano); la colonna della flagellazione (portata da Gerusalemme a Roma nel 1223 dal cardinale Giovanni Colonna e custodita nella Basilica di Santa Prassede); i resti della mangiatoia in cui venne deposto Gesù Bambino (“la sacra culla” e il panniculum nella Basilica di S. Maria Maggiore chiamata anticamente ad praesepem); le spine della corona (Chiesa di S. Maria della Spina a Pisa). A Roma poi, salendo i gradini di un’altra r., la Scala Santa, quella percorsa da Gesù all’ora di presentarsi dal governatore romano Ponzio Pilato, si accede alla famosa Cappella del Sancta Sanctorum, dove si trova l’icona del Volto Santo. Certamente però tra le r. riferite a Cristo la più celebre e universalmente conosciuta è la Sindone (o Santo Sudario) custodita a Torino dal 1578; studi iconografici collegano alla Sindone un’altra r. venerata a Manoppello ossia il velo del Volto Santo. Anche la celebrazione liturgica dell’Eucarestia ha consegnato alla storia ed alla fede del popolo cristiano le r. legate alle specie eucaristiche, a elementi riconosciuti dalla scienza come sangue e/o carne di natura umana. In Italia sono una trentina i luoghi dei miracoli eucaristici. Esempi di tali “r. eucaristiche” sono quelle originate dai fatti miracolosi di Lanciano nel secolo VIII e di Bolsena nel 1263. Nel primo caso le r., custodite nella stessa città, traggono origine dall’evento occorso durante la celebrazione della messa da parte di un monaco basiliano. Nel secondo caso l’Ostia, il corporale e i purificatoi sono conservati nel Duomo di Orvieto, appositamente costruito per tale scopo.

Anche le r. mariane sono presenti nella Penisola e sono meta di pellegrinaggi e di devozione. Famosa è la Santa Casa di Loreto, ovvero la Casa di Maria a Nazareth, che la tradizione indica essere stata trasportata nel 1294 dagli angeli, identificabili anche con quei crociati legati alla famiglia Angeli Comneno. Altra r. mariana è la Cintola (o cintura) di Maria, una sottile striscia di lana di capra portata a Prato a metà del secolo XII da Michele, un pellegrino pratese di ritorno da Gerusalemme, e poi conservata nel Duomo di Prato; anch’essa oggetto di devozione mariana e meta di pellegrinaggi. Studi recenti mostrano il profondo rapporto esistente tra tradizioni civiche e devozioni mariane nelle città italiane tra medioevo ed età moderna.

Nella storia della Penisola Roma è stata un centro privilegiato, sia perché città del martirio e della sepoltura degli apostoli Pietro e Paolo, sia per le catacombe, i cimiteri sotterranei che hanno custodito i “Corpi Santi”. La venerazione delle r. del “Principe degli Apostoli” ha costituito un motivo fondamentale di pellegrinaggio a Roma da parte di tutta la cristianità latina occidentale, presso la Basilica Costantiniana prima e nell’attuale Vaticana poi, così come per l’ “Apostolo delle Genti” presso la basilica di san Paolo fuori le mura. A Roma si trovano inoltre le r. di altri apostoli, come per esempio Filippo e Giacomo il Minore presso la Basilica dei Santi XII Apostoli, o Bartolomeo presso l’omonima basilica nell’Isola Tiberina. Nell’Urbe è degna di nota anche la Cattedra di Pietro che rappresenta un esempio di come un simbolo sia stato trasformato in r., mentre in altri casi siano i reliquiari a parlarci delle r. in essi custodite (i cosiddetti “reliquiari parlanti”, come nel caso di san Pantaleo nel Duomo di Vercelli).

In Italia esistono anche r. legate a eccezionali manifestazioni angeliche, come nel caso di San Michele Arcangelo, narrato nel “Liber de apparitione sancti Michaelis in Monte Gargano” (secolo VIII). Nell’omonimo santuario, anch’esso centro di pellegrinaggio lungo la via che portava alle coste pugliesi e di lì in Oriente via mare, vi si conserva la pietra nella quale è impressa l’orma del piede attribuita all’angelo e che perciò funge da r.

Nel complesso intreccio di interessi che ruotavano attorno alle r. si inquadrano le trafugazioni e/o traslazioni, generalmente dall’Oriente, e i furta sacra, fenomeni da collocare tra gli inizi del IX e quelli del XII secolo, in coincidenza con la prima fase della rinascita spirituale, economica e commerciale medievale. Alle iniziative personali volte a proteggere le r. dal pericolo rappresentato dalla espansione e dominazione islamica, come riportato dalle fonti nel caso dei resti di san Marco che vengono trafugati da Alessandria d’Egitto nel 828 da due commercianti veneziani e portato alla Serenissima Repubblica, si accompagnavano interessi economici, politici e di prestigio delle città italiane, come nel caso della spedizione marittima barese che si impadronisce delle spoglie di san Nicola vescovo di Myra e lo porta a Bari nel 1087. Le r. ci raccontano dunque le grandezze e le piccolezze degli ideali umani. Mentre la Cappella dei Martiri nella Cattedrale di Otranto, dove si venerano le r. degli 813 uomini della città decapitati in odium fidei dai Turchi nel 1480, testimonia un fatto martiriale di proporzioni uniche nella storia cristiana della Penisola, che se è da ascriversi ai conflitti tra cristiani e mussulmani, deve essere anche interpretato alla luce della salvaguardia della ’identità locale e financo peninsulare dalle scorrerie ed invasioni dei Saraceni lungo le coste adriatiche, i furta sacra, ci mostrano l’esistenza di interessi più mondani ai quali si dedicava per esempio il diacono romano Deusdona, che nel secolo IX era al comando di una organizzazione di mercanti di r. che da Roma illegalmente riforniva il centro Europa e il sud Italia.

Non trascurabile è infine la notorietà delle r. di taluni santi dovuta all’influsso esercitato dai miracoli attribuiti alla loro intercessione: tale è il caso delle guarigioni operate da s. Antonio, il cui corpo è custodito a Padova; della protezione di s. Agata dall’eruzione del vulcano Etna, dalla peste e dalle incursioni dei mori, a Catania; del taumaturgo s. Rocco, a Venezia. A tale notorietà non si deve solamente il furto ma anche l’uso di dividere il corpo in pezzi affinché varie città possano beneficiare del potere del santo.

L’opera pastorale svolta nella penisola da due grandi vescovi di Milano è centrale per la venerazione e la diffusione delle r. nel territorio, e non solo in Italia. A distanza di secoli l’uno dall’altro ed in circostanze storiche differenti, sant’Ambrogio e san Carlo Borromeo sono attivi sostenitori e propugnatori delle r. dei santi e del rispettivo culto locale; la storia del culto delle r. non può prescindere dal riferimento alla Chiesa milanese a partire dall’episcopato di s. Ambrogio: « Come l’opera liturgica di Ambrogio assunse le note di modello e di testimonianza universale, così il suo atteggiamento verso i martiri e le loro r. divenne emblematico » (Ronchi). Famoso è il ritrovamento (inventio) dei corpi dei martiri Gervaso e Protaso, e Nazaro e Celso, con il numeroso concorso di popolo durante la loro translatio e depositio, nonché l’intenso culto popolare. Esaltando le r. Ambrogio ha voluto educare il suo popolo per mezzo dei santi, additati come modelli, intercessori e difensori della città; lo stesso farà s. Carlo Borromeo in obbedienza al tridentino, contribuendo al consolidarsi delle identità e tradizioni religiose e civili peninsulari.

Le r. come un significativo aspetto delle identità ecclesiali e civili della penisola italiana. In Italia l’altissima densità di r. ha contribuito alla nascita e/o sviluppo dell’identità dei centri locali; essa si manifesta ampliamente nelle devozioni popolari, nelle forme di spiritualità, nei pellegrinaggi, negli edifici religiosi, nonché nelle opere d’arte cristiana, come i preziosi reliquiari. Possedere una r. celebre, di un santo famoso per i miracoli operati e ancor meglio se taumaturgo, è considerato segno di protezione e di benedizione divine, accresce il prestigio e il potere ecclesiastico e politico, sviluppa centri di interesse religioso, economico ed artistico fino a giungere al caso straordinario del tesoro della “Cappella delle Reliquie” presso Palazzo Pitti a Firenze.

Particolare espressione del valore universale dell’unità ecclesiale, la capillare presenza delle r., i loro culti con l’universale messaggio di fede e speranza, ha contribuito alla progressiva costruzione di una identità territoriale attraverso i diversi modelli ideali rappresentati da santi e sante locali che ispirano la pietà dei compatrioti e favoriscono l’identificarsi con essi (Ditchfield); universali valori religiosi e civili erano resi familiari e perseguibili nei particolari esempi delle vite dei santi patroni, nei quali i concittadini potevano trovare senso alle loro vicissitudini e, certi della protezione dei “loro” santi, realizzare la sintesi locale di religiosità cristiana e di identità secolare, come narrato nel XIX secolo per il caso di Napoli dove la venerazione di san Gennaro lo considerava concittadino e figlio prediletto della « nostra Chiesa, la quale, circondata del suo tutelar presidio, nella duplice annual ricorrenza della festività di lui, tragge quasi certo pronostico de’ futuri eventi, di prosperità o di sventura, in quel misterioso liquefarsi del sangue » (D’Aloe).

Studi recenti sui culti orientali in Piemonte mettono in evidenza l’influsso che nel medioevo le r. di santi hanno avuto nella formazione della religiosità locale della regione; è il caso, tra gli altri, di san Spiridione, particolarmente venerato dagli imperatori Paleologi, che probabilmente ne introdussero il culto in alcuni territori di loro dominio nell’attuale Monferrato, o anche del più conosciuto san Biagio al quale si legano il rito della “Candelora” e la venerazione delle Madonne nere piemontesi.

Le lacune e i problemi che in certi casi la documentazione ha lasciato alla moderna critica storica non impediscono di costatare che le r. e il culto dei santi rappresentano uno elemento di conoscenza straordinaria della storia della Chiesa cittadina, della diocesi, della stessa società civile nel corso del Medioevo, come per esempio è segnalato per il caso di Bologna (Golinelli). Ed è proprio la produzione storiografica post-tridentina che testimonia il ruolo delle r. e dei loro culti liturgici nella memoria e nella conservazione delle tradizioni locali italiane, come nel caso di uno storico piacentino, che per situare e giudicare l’opera di un antico vescovo, narra quanto da lui fatto in rapporto alle r. nel 1369, scrivendo: « Ma ciò che farà sempre indicio chiaro & eterna testimonianza della di lui [Pietro Vescovo] molta pietà, e religione, fu che questo sacro Pastore […] arricchì questa Chiesa e segnalò la Città nostra d’una pretiosa reliquia tra l’altre della medesima Santa Lucia: con cui si eccitò allhora nel Piacentino popolo una tal divotione che propagata ne’ posteri infin à hoggi vi dura » (Campi).

Fonti e Bibl. essenziale

G.B. Alfano – A. Amitrano, Notizie storiche ed osservazioni sulle reliquie di sangue conservate in Italia e particolarmente in Napoli, Arti Grafiche “Adriana”, Napoli 1951; P. M. Campi, Dell’Historia Ecclesiastica di Piacenza, III (Stampa Ducale di Giovanni Bazachi, Piacenza 1662), Tip. Le. Co., Piacenza 1995; A. D’Alés, Reliques, in Dictionnaire Apologétique de la Foi Catholique, IV, Gabriel Beauchesne, Paris 1928, coll. 909-930; S. D’Aloe, Storia della Chiesa di Napoli, Stabilimento Tipografico, Napoli 1861; H. Delehaye, Les origines du culte des martyrs, Société de Bollandistes, Bruxelles 1933, 260-340 (Chapitre VII: Les principaux centres du culte des martyrs. Rome et l’Italie); S. Ditchfield, La conservazione delle tradizioni locali in una Chiesa post-tridentina, in Storia della Diocesi di Piacenza. III L’età moderna (a cura di) P. Vismara, Morcelliana, Brescia 2010, 141-159; F.A. Ferretti, De sacris Sanctorum Reliquiis, Typis Polyglottis Vaticanis, Città del Vaticano 1942; P.J. Geary, Furta Sacra. La trafugazione delle reliquie nel Medioevo, Vita e Pensiero, Milano 2000; A. Giuliani, Le reliquie eucaristiche del miracolo di Lanciano. Tradizione, storia, culto, scienza, Edizioni S.M.E.L., Lanciano (CH) 1997; P. Golinelli, Santi e culti bolognesi nel Medioevo, in Storia della Chiesa di Bologna (a cura di) P. Prodi – L. Paolini, II, Edizioni Bolis, Bologna 1997, 11-37; M. Hutter – A. Angenendt – H. Maritz, Reliquien, in Lexikon für Theologie und Kirche, VIII, Herder, Freiburg-Basel-Rom-Wien 1999, coll. 1091-1094; E. Josi, Relique, in Enciclopedia Cattolica, X, Ente per l’Enciclopedia cattolica e per il libro cattolico, Città del Vaticano 1953, coll. 749-757; G.P. Kirsch, Reliquie, in Enciclopedia Italiana di scienze, lettere ed arti, 29, Istituto della Enciclopedia Italiana fondata da Giovanni Treccani, Roma 1936, 36-38; H. Leclercq, Reliques et reliquaires, in Dictionnaire d’Arquéologie Chrétienne et de Liturgie, XIV/2, Librairie Letouzey et Ané, Paris 1948, coll. 2294-2359; A. Lombatti, Antonio, Il culto delle reliquie. Storia, leggende, devozioni, Sugarco Edizioni, Milano 2007; N. Monelli, La Santa Casa a Loreto. La Santa Casa a Nazareth, Congregazione Universale della Santa Casa, Loreto 1997; E. Ofenbach, Sulle orme dei santi a Roma: guida alle icone, reliquie e case dei santi, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 2003; H. Pfeiffer, L’arte e la Sindone, in Sindone. Cento anni di ricerca, [a cura di] B. Barberis – G. M. Zaccone, Libreria dello Stato, Roma 1998, 107-122; Reliquia de’ Santi, in G. Moroni Romano, Dizionario di erudizione storico-ecclesiastica, LVII, Tipografia Emiliana, Venezia 1852, 106-122; A.M. Rocca, Istruzioni popolari sulle reliquie dei santi, Società Anonima Tipografica, Vicenza 1934; G. Ronchi, Reliquie, in Dizionario della Chiesa Ambrosiana, V, NED, Milano 1992, 3017-3025; F. Ruggeri, Il Santo Chiodo venerato nel Duomo di Milano, NED, Milano 1999; P. Séjourné, Reliques, in Dictionnaire de Théologie Catholique, XIII/2, Librairie Letouzey et Ané, Paris 1937, coll. 2312-2376; S. Silvestro, Santi, reliquie e sacri furti. San Nicola di Bari fra Montecassino e Normanni, Liguori, Napoli 2013; P. Tamburini, Bolsena: il miracolo eucaristico, Bolsena, Città di Bolsena Editore 2005; Sui culti orientali nel Piemonte medievale si vedano gli articoli di D. Taverna nella rivista «Studi sull’Oriente Cristiano», anni 2008, 2010, 2011, 2013. Sulle tradizioni civiche e le devozioni mariane nelle città italiane tra medioevo ed età moderna si vedano gli articoli apparsi in «Rivista di Storia e Letteratura Religiosa», XLIX (2013).


LEMMARIO




Reliquie - vol. II


Autore: Cesare Silva

Il culto delle R. dei Santi conosce nella seconda metà dell’Ottocento una nuova stagione. Cresce, in strati sempre più ampi della popolazione, la diffusione del fenomeno, già sviluppatosi a cominciare dal sec. XVII della raccolta di piccoli frammenti di reliquie custodite in piccole teche singole o multiple, spesso di materiale e fattura pregiata, che vengono “collezionati” in “paradisini” da esporre per la devozione personale o da tenere tra le cose più care.

Con la rinascita degli studi dell’archeologia cristiana promossa dall’impegno anche divulgativo di Giovanni Battista De Rossi (1822-1894), si assiste alla nascita di un nuovo gusto per il Cristianesimo primitivo nello stile architettonico e decorativo delle chiese e delle suppellettili sacre e soprattutto nel culto e nel decoro dei Martiri delle Catacombe romane. In questo periodo, e fino ai primi decenni del novecento, riprende il recupero e l’esposizione dei Corpi Santi, provenienti dagli antichi cimiteri, dotando le chiese e le comunità di nuovi patroni ben esposti e venerati.

A questi si aggiungono le R. di Santi o Beati più recenti, costituite non solo da frammenti ossei ma anche da porzioni minuscole di abiti o biancherie appartenuti alle figure di riferimento, che vengono spesso distribuiti e autenticati direttamente dalle Congregazioni religiose o da altri enti ecclesiastici. Le R. costituiscono un valido strumento per promuovere la devozione ai Santi e a diffondere la loro conoscenza in vista delle cause di beatificazione che vengono avviate; a partire dagli inizi del Novecento si diffonde l’uso massiccio di immaginette con incorporate piccole R. (per lo più tessili) munite di sigilli cartacei.

Sotto i pontificati di Pio IX e Leone XIII vengono riprese molte cause di beatificazione e vengono istruite pratiche per il riconoscimento canonico di quei culti tributati in modo spontaneo o sostenuti solo da notizie tramandate da tradizioni talvolta dubbie o incoerenti. Accanto all’istruttoria storico-canonistica, non manca l’attenzione anche per le condizioni materiali delle R. che sono oggetto di ricognizione, studio scientifico, e nuove collocazioni che ne favoriscano la devozione pubblica.

Si diffonde infatti a partire da questo periodo l’uso generalizzato di esporre i corpi di Santi in urne munite di cristallo, componendo le R. in modelli anatomici rivestiti con abiti appropriati e che riproducono le fattezze in cera, laddove non restino che pochi frammenti ossei. Non mancano i casi di esposizione di Corpi santi rimasti integri ma usualmente conservati in casse chiuse oppure mostrati ai fedeli solo in occasioni ed entro riti liturgici particolari Questo modo di presentare le R., precedentemente limitato a casi di integrità eccezionale, diventa ormai generalizzato.

Dal punto del culto pubblico alle R., si segnala una particolare attenzione da parte degli Ordinari diocesani a munire di regolari sigilli e autentiche quanto esposto nelle chiese alla pubblica venerazione, a cominciare dai reliquiari nelle varie fogge (come busti di Santi e di Vescovi, urne, ostensori ecc.) che a partire dall’età barocca costituiscono parte integrante dell’ornato festivo degli altari e che si conserveranno nel rito liturgico, nel gusto e nella produzione fino all’età post-conciliare.

Una rinnovata attenzione all’autenticità storica dei Corpi Santi conservati nelle chiese produce innanzitutto una importante serie di studi di carattere storico generati nel contesto di moderni criteri metodologici di analisi scientifica che superano i convincimenti secolari provocando in molti casi uno scollamento tra la “verità” storicamente accertata e la “verità” sedimentata dalla tradizione. Delicata e controversa, specialmente in alcuni momenti e contesti, è la relazione tra questi dati e il culto popolare (e quello ufficiale, nei casi approvati o sanzionati dall’autorità ecclesiastica) nelle sue conseguenze pratiche specialmente laddove si rischia di urtare la sensibilità e la fede di comunità.

La consulenza di studiosi e archeologici aiuta a integrare e a correggere i dati provenienti dall’indagine documentaria e dalla tradizione.

In questo periodo inizia, spesso contestualmente, l’applicazione delle metodologie scientifiche anche all’oggetto materiale delle R., con ricognizioni che vedono la presenza e la consulenza di medici e tecnici specializzati invitati ad analizzare i reperti ossei con gli strumenti tecnologici disponibili e predisporre adeguate tecniche di conservazione.

Il rinnovamento conciliare ha modificato in modo sensibile l’approccio alle R. e il loro culto: se assumono forme più marginali le tradizionali espressioni di devozione (specialmente in ambito privato), si segnala una attenzione particolare per la custodia regolare di quelle più insigni.

L’impulso straordinario dato sotto il pontificato di Giovanni Paolo II alla promozione della conoscenza e del culto dei Santi specialmente contemporanei, induce un nuovo interesse anche per la conservazione e l’esposizione delle R. che si accompagna allo sviluppo di nuove tecniche per la conservazione e il mantenimento dei resti corporali.

Fonti e Bibl. essenziale

G.P. Kirsch, Reliquie, in Enciclopedia Italiana, XXIX, Roma 1936, 36-38; P. Sejourne’, Reliquie, in Dictionnaire de Thèologie Catholique, XIII, Paris 1937, coll. 2312-2376; P. Palazzini, Reliquie, in Enciclopedia Cattolica, X, Città del Vaticano 1953, coll. 749-761.


LEMMARIO




Resistenza - vol. II


Autore: Stefano SodiOsoppo

Il termine Resistenza venne utilizzato per la prima volta nel giugno 1940 dal generale Charles De Gaulle, fuggito a Londra, che lanciò un appello ai suoi concittadini per invitarli ad opporsi al governo del maresciallo Philippe Pétain, che aveva sottoscritto un armistizio che lasciava la maggior parte del suolo francese in mano ai tedeschi e l’area centro-meridionale, con capitale Vichy, a un governo collaborazionista. A partire da allora, il termine Resistenza ha designato in tutta Europa i movimenti di ribellione e di lotta armata contro il regime d’occupazione nazista, configurandosi come espressione ed anticipazione dei valori che sarebbero divenuti la base ideale dell’Europa democratica.

La Resistenza italiana fu l’ultima a costituirsi in Europa: le sue prime formazioni nacquero nell’Italia centro-settentrionale ad opera di militanti antifascisti e di soldati che non si consegnarono alle truppe tedesche né entrarono nell’esercito della Repubblica Sociale Italiana (Rsi) dopo l’armistizio con gli Alleati (8 settembre 1943). Da quel momento, il Comitato di liberazione nazionale (Cln), presentatosi come guida dell’Italia democratica, invitò gli italiani ad unirsi nella lotta contro i nazifascisti. In principio le iniziative ebbero più un valore politico che militare, ma il movimento partigiano crebbe rapidamente di numero e fra il 1944 e il 1945 riuscì a costituire numerosi gruppi armati o addirittura piccoli eserciti in grado di controllare intere aree territoriali (es. la Repubblica dell’Ossola, le Langhe, l’Oltrepo pavese). Nelle città operavano invece formazioni più esigue, i Gruppi di Azione Patriottica (Gap), formati prevalentemente da comunisti.

Recenti stime hanno calcolato che nell’estate 1944 i partigiani in Italia erano 82.000 e raggiunsero il numero di circa 200.000 al momento dell’insurrezione, nella primavera del 1945. Questa cifra comprende coloro che parteciparono alla vera e propria “resistenza armata” e non quanti, assai più numerosi, fornirono loro protezione e supporto (“resistenza civile”). Sul fronte avverso militava un numero pressoché uguale di italiani, essendo l’esercito della Repubblica di Salò composto da circa 50.000 effettivi, cui si affiancavano le 150.000 unità della Guardia Nazionale Repubblicana, la milizia di partito.

Fin dall’inizio la Resistenza italiana si mostrò divisa in base all’orientamento politico. I partigiani di ispirazione comunista militavano nelle Brigate Garibaldi, quelli di orientamento socialista in quelle Matteotti; le formazioni cattoliche, numericamente più consistenti di quanto comunemente si ritenga (in proposito Lorenzo Bedeschi ha parlato di «daltonismo prospettico»), erano spesso definite Fiamme Verdi e le brigate di Giustizia e Libertà si rifacevano al Partito d’Azione; vi erano anche brigate di ispirazione liberale o di orientamento filomonarchico. Non mancarono episodi di scontri tra partigiani, soprattutto in Friuli e in Venezia Giulia, dove le formazioni garibaldine agivano spesso in collaborazione con i partigiani comunisti di Tito, la cui intenzione era di annettere Trieste, l’Istria e la Dalmazia alla Jugoslavia. L’episodio più clamoroso avvenne in Friuli, a Malga Porzus, dove nel febbraio 1945 un gruppo comunista trucidò ventidue componenti della Brigata Osoppo, composta prevalentemente da partigiani cattolici, accusati ingiustamente di aver trattato con i fascisti e la X Flottiglia Mas.Lazzeri Innocenzo

La divisione tra le varie componenti del mondo partigiano e le vicende postbelliche hanno profondamente influenzato anche l’interpretazione storica. Una prima fase storiografica ha fornito della Resistenza una lettura di piena adesione e di incipiente mitizzazione, che enfatizzava due aspetti: da una parte essa appariva come l’epifenomeno di un intero «popolo in lotta», unito da un comune sentimento antifascista, dall’altra costituiva il compimento del «secondo Risorgimento», l’ultima guerra di liberazione contro gli stranieri, dando un nuovo fondamento alla nazione italiana, alternativo all’esperienza fascista (esemplare R. Battaglia, Storia della Resistenza italiana, Einaudi, Torino 1953). Una svolta radicale nella riflessione sul fenomeno resistenziale si è sviluppata agli inizi degli anni Novanta del secolo scorso con Claudio Pavone, secondo cui la Resistenza deve essere letta da tre diversi angoli visuali: quello di una guerra patriottica, di una guerra di classe, di una guerra civile. Per il movimento partigiano la Resistenza si configurava come una guerra di liberazione del territorio italiano dall’occupazione tedesca, ma anche come l’orgogliosa riconquista di un’identità nazionale; per i fascisti, in una logica rovesciata ma speculare, la prosecuzione della guerra a fianco dei nazisti rappresentava invece l’unica possibilità di mantenere intatto l’onore della patria. L’idea di una guerra di classe era invece la speranza di quanti ritenevano possibile che la rovina dei nazi-fascisti avrebbe dato il via alla lotta di classe, preludio alla dittatura del proletariato. L’utilizzazione della categoria di guerra civile, fino ad allora lasciata appannaggio di correnti dichiaratamente vicine all’ultimo fascismo (G. Pisanò, Storia della guerra civile in Italia (1943-1945), FPE, Milano 1965-1966), significò un cambiamento di prospettiva storiografica, che pose al centro dell’attenzione, più che gli aspetti politici e militari, le storie individuali, le motivazioni profonde delle scelte, il quadro di riferimento ‘morale’, non solo di quanti vissero la guerra partigiana come scelta di vita, ma anche della popolazione civile, di quanti praticarono una “resistenza passiva” o, più correttamente, “civile”. Riguardo al mondo cattolico e alla sua gerarchia Pavone, nel suo saggio evidenziò una contraddizione, quasi insanabile, tra la tendenza ad un atteggiamento super partes rispetto ai conflitti militari e politici e la crescente consapevolezza che fosse invece necessario schierarsi, quanto meno dalla parte delle proprie comunità colpite dalla violenza (si ricordi che la Santa Sede non riconobbe mai la Rsi).

In questo rinnovato clima storiografico particolare rilievo hanno assunto nel 1995, in occasione del cinquantesimo anniversario della Liberazione, nuove ricerche sul ruolo dei cattolici che hanno avuto la loro massima – ma non unica – espressione in una serie di convegni realizzati in varie parti d’Italia sul tema Cattolici, Chiesa, Resistenza. Dalla ricerca è emersa con chiarezza la necessità di analizzare contemporaneamente sia il livello politico-istituzionale sia il vissuto religioso. Se da una parte infatti «la Chiesa-istituzione si trovò a svolgere un ruolo di supplenza dello Stato, di mediazione fra le parti combattenti, comandi tedeschi e comandi partigiani per una tregua di armi […] perché uno Stato legittimato non c’[era] né dall’una né dall’altra parte» (De Rosa, 18-19), dall’altra non poteva essere misconosciuta quella forma di “resistenza civile” che si manifestò nell’impegno concreto a favore dei partigiani, ma anche degli sfollati, degli ebrei ricercati, dei renitenti alla leva, dei prigionieri di guerra.

Al di là della partecipazione diretta alla “resistenza armata” da parte di cattolici, singolarmente o in gruppi organizzati, che necessita comunque di essere ancora messa in piena luce, è necessario evidenziare quegli episodi di impegno e quotidiana disobbedienza rispetto all’occupante che sempre di più emergono dalla ricerca storica. Passando, come osserva Maurilio Guasco, dallo studio della «resistenza dei cattolici al modo di essere cattolici nella Resistenza», valutando la «qualità della partecipazione», il «vissuto etico che viene prima delle scelte politiche» (M. Guasco, I cattolici e la resistenza, 305-306) si è potuto verificare sempre più puntualmente come, davanti ad una situazione di ingiustizia nei confronti della popolazione civile, la maggior parte dei vescovi, del clero, dei membri dell’associazionismo cattolico abbiano scelto di mettersi dalla parte delle vittime, qualunque esse fossero, con un atteggiamento di condivisione considerata doverosa, sulla base di un ethos maturato non tanto sul terreno politico o ideologico, quanto in virtù di un universo di valori umani e religiosi, assumendo spesso i caratteri della martyrìa cristiana.

Fonti e Bibl. Essenziale

F. Malgeri, La Chiesa italiana e la guerra (1940-1945), Studium, Roma 1980; C. Pavone, Una guerra civile. Saggio storico sulla moralità nella Resistenza, Bollati Boringhieri, Torino 1991; M. Guasco, I cattolici e la resistenza: ipotesi interpretative e percorsi di ricerca, in B. Gariglio (ed.), Cattolici e resistenza nell’Italia settentrionale, Il Mulino, Bologna 1997, 305-317; G. De Rosa (ed.), Cattolici, Chiesa, Resistenza, Il Mulino, Bologna 1997; B. Bocchini Camaiani – M.C. Giuntella (edd.), Cattolici, Chiesa, Resistenza nell’Italia centrale, Il Mulino, Bologna 1997.

Immagini:

1) Don Redento Bello (nome da partigiano “Candido”), sfuggito per caso alla strage di Porzus, officia nel 1946, circondato dai partigiani dell’Osoppo, la Messa commemorativa per i caduti dell’eccidio [Biblioteca Seminario Arcivescovile “B. Luigi Scrosoppi”, Udine].

2) Don Innocenzo Lazzeri, medaglia d’oro al valor civile, ucciso il 12 agosto 1944 durante la strage nazista di Sant’Anna di Stazzema, mentre prestava aiuto alla popolazione inerme.


LEMMARIO




Riforma cattolica, Controriforma - vol. I


Autore: Angelo Turchini

Sulle categorie storiografiche di Riforma cattolica e Controriforma, molto si è discusso, in un dibattito appassionato ed approfondito, attento a cogliere le caratteristiche distintive di una realtà decisamente complessa, arricchito di nuove categorie utili a cogliere gli elementi di un passaggio fra un prima e un dopo, come ad esempio confessionalizzazione e disciplinamento sociale, ma occorre andare oltre, guardando ad un contesto più ampio, pur nell’assenza di accordo su un unico termine atto a comprendere la realtà. In tale senso non è però inutile ripercorrere alcune tappe di un dibattito, puntualizzare le modalità del superamento di un concetto come Controriforma, spesso ideologicamente ed astrattamente inteso al di là del richiamo alle controversie religiose e agli effetti della loro durezza sino alla ferocia, limitato ma non stemperabile sino all’insignificanza, e valorizzare ulteriormente altre letture.

Già nel considerare le due categorie interpretative nel quadro di una progressiva modernizzazione, e sui tempi lunghi del moderno, in un contesto sociale, politico e culturale nuovo, si ha un quadro concettuale di riferimento entro il quale perde valore il binomio Riforma cattolica – Controriforma, tanto da permettere l’ipotesi se non di una abolizione totale di quest’ultima quanto meno di un suo uso prudente e circoscritto, senza dimenticare che i termini hanno alle spalle una storia (e una tradizione storiografica), corrispondendo ad alcune precise domande e al tempo stesso, e che nessuna è esauriente nel comprendere la realtà, soprattutto se cambiano i metri di riferimento, tenendo peraltro conto che l’uso del termine e del concetto di Controriforma non si ha prima del secolo XVIII. Naturalmente ciò non pregiudica nulla, ma è significativo che la categorizzazione sia stata adottata per la prima volta da un giurista di Göttingen, J.S. Pütter, solo nel 1776 in relazione al forzato ritorno alla confessione cattolica di un territorio protestante e al plurale: controriforme, utilizzata poi anche da L. Ranke per compendiare unitariamente un movimento religioso che dietro i rigori restaurativi lasciava intravvedere elementi di rinnovamento spirituale ed organizzativo.

V’è qualche consonanza con la ri-cattolicizzazione più o meno forzata (Rekatholisierung) di un territorio; M. Ritter fu il primo ad utilizzare il concetto di Controriforma nella sua Deutsche Geschichte im Zeitalter der Gegenreformation I-III (Stuttgart 1889-1908). Il termine, la categoria storiografica nasce in area tedesca ed è una parola composta: gegen+Reformation: se il significato è nuovo, come il neologismo, l’orizzonte di riferimento originario è però preciso, puntuale e denso di contenuti: Reformation, designante il complessivo movimento di riforma. Il nesso fra Reformation e Gegenreformation verrà sottolineato da K. Brandi nella sua opera Die deutsche Reformation und Gegenreformation.

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La Controriforma corrisponde come reazione alla Riforma, anche da un punto di vista politico e militare, con una disciplinata riforma della Chiesa controllata dal centro (papato e curia romana), con puntualizzazioni dogmatiche e organizzative, con la repressione interna ad opera dell’Inquisizione. I fenomeni variamente compendiati in Controriforma sono diversamente scanditi nelle varie realtà territoriali, sia a livello diacronico che sincronico; ad esempio la realtà tedesca e quella italiana sono fortemente differenziate nel loro insieme, ma se si guarda ad ambiti regionali emergono ulteriori ritmi di sviluppo: così il Ducato di Baviera non è la Stiria, come lo Stato della Chiesa non è il Ducato di Milano o la Repubblica di Venezia e Milano non è Pavia. Al pluralismo dei ritmi temporali e degli intrecci tra momento teoretico (o dibattito culturale) e istituzionale, fra ordinamento giuridico e realtà effettiva è stata prestata scarsa attenzione; d’altra parte la periodizzazione è sempre risultata problematica.

A puro titolo esemplificativo per L. Ranke esistono due fasi secche e rigide (1563-1589, 1590-1630), per altri si va dalla pace di Augusta (1555) fino alla guerra dei Trent’anni (Schmidlin) oppure fino alla pace di Westfalia (1648); Cantimori distingue tre cicli (sino al 1543, sino al 1580-1590, da quella data in poi) attraverso i quali si passa da momenti di rinnovamento a momenti di irrigidimento della vita religiosa, ma senza distinzioni nette. Per H. Jedin si può giungere dalla crisi conciliarista ovvero dall’inizio del XV secolo sino al XVIII: parlando di Riforma cattolica e Controriforma per quest’ultima propone come più giusto inizio l’ultima sessione del concilio tridentino (1563) per finire senza dubbio con Westfalia, ma senza escludere ulteriori parziali sviluppi; si può parlare di un generale rinnovamento cattolico compreso fra 1540-1770 (Po-chia Sia), senza escludere peraltro aspetti di Riforma tridentina giungere alla metà del XX secolo.

Nel corso del XVI e XVII secolo si preferisce però adottare il termine di reformatio, perfettamente coerente con l’uso della cultura ecclesiastica di tutto il tardo medioevo, volendo così indicare il rinnovamento della chiesa. “Lutero stesso e, in grado ancora maggiore, Melantone volevano in origine solo riformare la chiesa cattolica e passò molto tempo prima che si facesse strada la persuasione che la loro opera non significava rinnovare, ma costruire dalle fondamenta”(Jedin). Il comune uso abbisogna di specificazioni fornite allora da aggettivi: “vera” o “falsa” riforma, reciprocamente e inversamente detti e scritti da una confessione religiosa contro l’altra (o le altre); in altri termini la categoria della reformatio è originaria e coerente, anche se il volersene attribuire la validità suscita non pochi problemi. Con Riforma cattolica si fa riferimento non solo a sensibilità ed esigenze anche diffuse in alcuni ambienti, ma anche ad una serie di tentativi di rinnovamento della vita della Chiesa, a partire dalla prima metà del XV secolo. Jedin ha il merito di aver fatto il punto sulla questione; a partire dalla nascita e diffusione delle categorie di Controriforma e Riforma cattolica, come due termini e due concetti distinti e collegati, superando secoli di storiografia controversistica e confessionale, ne ha puntualizzato senso e significato, ed il loro rapporto, sottolineando il ruolo e la “funzione centrale” del papato. Il binomio Riforma cattolica e Controriforma: “La Riforma cattolica è la riflessione su di sè attuata dalla Chiesa in ordine all’ideale di vita cattolica raggiungibile mediante un rinnovamento interno; la Controriforma è l’autoaffermazione della Chiesa nella lotta contro il protestantesimo” (Jedin). Ma tanto l’uno che l’altro sono stati intesi spesso non in simbiosi, bensì in parallelo o in successione e senza tener conto dell’interattività con la Riforma che ne condiziona modalità, forme, anche scansioni, o senza individuare le continuità pur presenti nel mutamento complessivo del lungo periodo.

Il parallelismo fra Riforma e Riforma cattolica/Controriforma è interessante. I due concetti non sono antitetici o due fasi storiche “susseguenti”, sono invece strettamente connessi quanto alle origini che affondano in un bisecolare passato comune segnato da tentativi di reformatio e quanto al carattere. La modernità della prima è stata ridimensionata accentuando la spinta innovativa e modernizzante del momento carismatico originario, mentre la seconda risulta da molti punti di vista recuperata al moderno; inoltre una volta costituitisi i gruppi confessionali si nota l’adozione di soluzioni “coincidenti” rispetto a problemi comuni (soprattutto nella difesa dell’identità) in un processo plurisecolare. Il parallelismo mette in risalto il valore della reformatio come punto centrale in quelli che saranno i vari ambiti confessionali ed in tempi comparabili, anche se talora sfasati; mentre sottolinea l’aspetto carismatico originale della Riforma nei primi decenni del XVI secolo, quando affronta gli esiti istituzionali non può che notare analogie fra campo protestante e campo cattolico: in altri termini, dopo un secolare periodo di incubazione, il problema della riforma giunge a maturare e, in fase critica, ad esplodere dando luogo, sia pur con travaglio ed in modo non lineare, a soluzioni speculari (anche se con uno specchio deformato ed irregolarmente diseguale) in campi diversi, distanti, ma sostanzialmente con molteplici omologhi punti di contatto e correlati ad un ideale piano sociale, politico, istituzionale (a più dimensioni).

Il parallelismo giunge così a salvare, parzialmente, la specificità della Riforma in quel breve lasso di tempo, e contemporaneamente ad annullare la concettualizzazione tradizionale introducendo o meglio presentando la dimensione della confessione religiosa come quella più consona a comprendere unitariamente il complessivo campo religioso entro cui si situano domande e risposte, carismatici sussulti, fondazioni ed incanalamenti istituzionalmente accettati. Le differenze sono misurabili e rilevanti, ma pur sempre all’interno del campo. Quindi Jedin ha delimitato le due categorie, esaminandone il valore in rapporto alla periodizzazione della storia della chiesa, ma senza dimenticare tutta una serie di “nuove forze” (diremmo di modernizzazione, comunque proprie dell’età moderna) emergenti nel mondo e nella società con cui fare i conti; e a questo punto valorizza il ruolo del concilio di Trento, punto d’incontro fra Riforma cattolica e Controriforma, agente riformatore a cavallo fra due epoche, fra medioevo ed età moderna.

Non v’è dubbio che il binomio jeniniano, un’endiadi complessa di relazioni interne, sia stato “ripudiato” per una Controriforma senza tempo “come espressione immobile della repressione e del potere”(Prodi) lungo tutto il XVI secolo, un incastellamento inutile se scisso e distinto dalla geografia e dalla storia in omaggio a definizioni e categorie suscettibili di impedire la comprensione dei fenomeni oppure per una controriforma annullata in una riforma cattolica onnicomprensiva: in pratica si tende a leggere una realtà complessa sotto una medesima luce: o tutta Controriforma o tutta riforma cattolica, a seconda della prospettiva; l’una e l’altra versione risulta fortemente condizionata da precomprensioni culturali talora non esplicitate.

Jedin costruisce il binomio, avendo presente la storia della Chiesa ad intus et ad extra, coniugando altresì storia politica ed ecclesiastica, istituzionale e costituzionale. Ma proprio qui sta il problema di fondo: una prospettiva comunque intra-ecclesiale è sufficiente a sorreggere un binomio indagato piuttosto nelle sue dinamiche interne che nelle più generali interazioni? Spostando l’obiettivo dalla Chiesa al mondo, vale a dire dalla specifica storia ecclesiastica alla magmatica storia istituzionale e costituzionale della società di cui fa parte, ovvero reinserendo la teologia nella storia è possibile ridefinire il campo, sgombrandolo delle incrostazioni e delle superfetazioni? Non v’è dubbio che la Chiesa sia non solo agente, ma anche oggetto di cambiamento, come illustrano significativi cambiamenti nelle istituzioni ecclesiastiche (non solo come reformatio in membris), e soprattutto una nuova autopercezione da parte della chiesa chiesa medesima, con una attenzione nuova alla cura animarum, come alla professionalizzazione del clero, in un ampio programma di riforma che lo coinvolge direttamente e, indirettamente, il corpo sociale dei fedeli affidato.

A questo punto torniamo al concetto di Controriforma; ovviamente la parola ha storicamente assunto un senso ed un significato preciso che va, ristretto in un ambito delimitato ed identificabile come “il prevalere rigoroso delle correnti più intransigenti più propense alle formulazioni monolitiche, al ritorno e all’avviamento a posizioni assolutistiche ed esclusive”(Cantimori). È interessante notare come il termine sia stato assunto per definire l’opera di coagulazione e di chiusura dogmatica, insomma di delimitazione confessionale nei modi precedentemente formulati, verificatasi anche in ambito protestante sicché si può parlare di una duplice controriforma protestante. Se la parola (soprattutto l’aggettivo) è ancora utilizzabile, bisogna ponderarla con misura, essendo stata concettualmente controversa, da definire, e per nulla scontata.

Solo in questa più generale cornice e per i motivi precedentemente enunciati è possibile sbarazzarsi senza troppi problemi di una categoria ormai entrata (in modi diversi) a far parte della storiografia; non è una operazione ideologica, ma logica, per la quale non si danno sostituti o alternative, poiché i problemi religiosi vanno affrontati in altro ambito e prospettiva, all’interno e in relazione con più ampie concettualizzazioni, come quelle della confessionalizzazione e del disciplinamento sociale ad esempio (che vede ricomporre la frattura dell’unità religiosa precedente su nuove basi delle strutture ecclesiastiche) e soprattutto della modernizzazione, tenendo conto dei tempi lunghi della storia, senza dimenticare aspetti di continuità e di mutamento o l’importanza degli avvenimenti e delle relative contingenze. Questi concetti fanno i conti con la resistenza di vecchi steccati storiografici, in cui i termini portano con sé un’eredità di conflitti anche ideologici, magari calati in un periodo relativamente breve, senza la prospettiva naturale di un lungo periodo, ed in un ambito spazialmente limitato (non tanto singole diocesi, quanto realtà minori) con l’esame di realtà localisticamente focalizzate.

La confessionalizzazione vede processi similari nelle varie chiese, nuova fondazione identitaria confessionale fra chiesa e stato, ruolo giocato nelle società e nei rapporti con lo stato e tocca molti elementi, anche la prassi liturgica e sacramentale, e la catechesi; porta al disciplinamento sociale, attraverso cui consegue una estesa cristianizzazione delle masse, soprattutto nelle campagne, aperte a nuove dinamiche culturali indotte al compattamento confessionale; del resto chiesa e stato, per via di interazioni dinamiche, si influenzano a vicenda ed esercitano il loro influsso sul complesso della società di riferimento. Confesionalizzazione e disciplinamento sono categorie utili ed efficaci strumenti di analisi, in un dinamico processo di modernizzazione che vede tendenze ad un maggiore accentramento, costruzione di istituzioni ed organismi giuridici, con razionalizzazione delle procedure, con crescente burocratizzazione, risultato e specchio di quanto si verifica nella costruzione degli stati moderni: il fedele è disciplinato suddito della chiesa, orientato a nuovi modelli di comportamento, mentre lo stato ricerca un suddito fedele in cui la disciplina è anche come autodisciplina. È così agevole rileggere la stessa “attuazione romana del Tridentino” e soprattutto il medesimo “sistema tridentino”, un impasto di elementi culturali, di abitudini e comportamenti, di prassi organizzative e di forze istituzionali attivamente impegnate nel processo di confessionalizzazione e nel disciplinamento sociale del proprio ambito religioso, con una duplice azione svolta sia a livello dottrinale che disciplinare, e la figura e l’attività di C. Borromeo a Milano, come di L. Paleotti a Bologna, ne sono testimoni esemplari; e non è mancata attenzione per “una ripresa del tridentino” a partire dal concilio romano di papa Benedetto XIII, tenendo conto peraltro della sua precedente esperienza diocesana.

È stato usato il termine di età confessionale, ma limitato al tempo, per età della controriforma, connessa con età del disciplinamento; così si usa anche Riforma cattolica, a volte indicata come riforma tridentina – e non v’è dubbio che riforma e concilio siano importanti nel corso di un processo di trasformazione “sia nel nuovo rapporto dell’individuo con Dio, sia nel rapporto tra il sacro e il potere, tre le chiese e lo stato” (Prodi), anche come riforma disciplinare, centralizzazione del comando, standardizzazione nella prassi e così via. Ma un uso meramente cronologico del concilio di Trento (pre-post), usato come indicatore (peraltro importante per l’influenza esercitata come applicazione normativa), può essere fuorviante se si applica il modello post-tridentino alla realtà anteriore, meno fosca di quanto si possa immaginare, anche se non così luminosa o omogenea come sarà successivamente.

Riforma cattolica e Controriforma, indicano allora esiti diversi di una generale aspirazione alla riforma o rigenerazione religiosa presente nel XV e nella prima metà del XVI secolo, permettendo di parlare di una fase tridentina della storia della chiesa, come la risposta storicamente data dalla chiesa romana alla sfida della modernità, al rapporto con la modernità, in un arco temporale che giunge sino al Vaticano II con elementi di continuità nella lunga stagione tridentina, con atttenzione agli sviluppi dottrinali, alla storia delle istituzioni a partire dalla riforma della curia romana, e al popolo cristiano sui più diversi piani: da quello culturale, dell’umanesimo, della nuova spiritualità, della devotio moderna nel XV secolo sino agli illuministi cristiani, a quello politico ed economico, fra cambiamento e continuità, fra XV, XVIII secolo e ben oltre.

Si ha una nuova organizzazione ecclesiastica a partire dalla residenza dei vescovi e del clero, con una presenza capillare delle parrocchie, ovvero valorizzazione di una rete atta alla conquista, al coinvolgimento, alla protezione e guida delle coscienze; il controllo ed intervento delle istituzioni è volto ad uniformare ed educare come a controllare la popolazione, diffondendo i modelli della disciplina religiosa; si evidenzia una nuova professionalità del clero secolare, con l’istituzione dei seminari partita nella seconda metà del XVI secolo e realizzata nel XVIII, e regolare; si punta ad una nuova partecipazione dei fedeli ai riti di passaggio, al tempo di festa ed ai sacramenti, dal battesimo al matrimonio tridentino (modalità conservate a tuttoggi, con una nuova valorizzazione della donna), dalla confessione (con sollecitazione allo sviluppo della coscienza individuale) alla comunione annuale, né manca una attenzione alla storia vissuta dei fedeli, ai problemi di interazione fra religione popolare e ufficiale.

La chiesa nel mondo moderno, in cui il termine di modernità si coniuga anche con l’amministrazione ed esercizio di una sovranità spirituale, deve fare i conti con il cambiamento dello stato, al di là dei rapporti fra chiesa e stati (O’Malley), lo sviluppo sociale (anche demografico) ed economico, l’espansione extraeuropea, nuove correnti culturali con la scoperta del mondo e dell’uomo e l’accrescimento e la necessaria divulgazione della conoscenza, con attenzione ad una nuova evangelizzazione e cristianizzazione, da conseguire con una educazione religiosa diffusa nelle Indias de aca, per un cattolicesimo moderno (definizione ampia).

Fonti e Bibl. essenziale

H. Jedin, Riforma cattolica o Controriforma? Tentativo di chiarimento dei concetti con riflessioni sul concilio di Trento, Brescia 1967 (ed. or. 1946); P. Prodi, Controriforma e/o Riforma cattolica. Superamento di vecchi dilemmi nei nuovi panorami storiografici, “Roemische historiche Mitteilungen”, 31, 1989, 227-237; W. Reinhard, Disciplinamento sociale, confessionalizzazione, modernizzazione. Un discorso storiografico, in Disciplina dell’anima, disciplina del corpo e disciplina della società tra medioevo ed età moderna, a c. di P. Prodi, C. Penuti, Bologna 1994, 101-123; R. Po-Chia Sia, La Controriforma. Il mondo del rinnovamento cattolico (1540-1770), Bologna 2001; J.W. O’ Malley, Trento e ‘dintorni’. Per una nuova definizione del cattolicesimo nell’età moderna, Roma 2004 (ed. or. 1999); E. Bonora, La Controriforma, Roma-Bari 2001; A. Prosperi, Disciplinamento, in Historia. Saggi presentati in occasione dei vent’anni della Scuola superiore di studi storici, a c. di P. Butti de Lima, San Marino 2010, 73-88; R. Bireley, Ripensare il cattolicesimo, 1450-1700. Nuove interpretazioni della Controriforma, Genova-Milano 2010.


LEMMARIO




Riforma gregoriana - vol. I


Autore: Tommaso di Carpegna

Con questa espressione, coniata da Augustin Fliche negli anni Venti del secolo scorso e ormai abbandonata dalla medievistica, ma ancora persistente in ambienti meno avvertiti, si intendeva rappresentare il grande movimento di riforma della Chiesa compreso tra gli anni Quaranta del secolo XI e i primi due decenni del secolo successivo, interpretandolo come premessa, esecuzione e compimento di un progetto unitario di Gregorio VII (1073-1085), già avviato prima ancora che questi divenisse pontefice (le prime notizie su Ildebrando di Sovana risalgono ai primissimi anni Cinquanta del secolo XI) e proseguito attraverso l’operato dei suoi successori. La centralità di Gregorio VII nel vasto e articolato movimento di riforma del suo tempo era già avvertita da molti contemporanei, come Bonizone di Sutri, che proprio in quel papa riconobbe il protagonista dell’imponente cambiamento che avrebbe portato, nel corso di pochi decenni, all’affermazione del primato della Chiesa romana e della libertas Ecclesiae contro l’imperatore. L’errore di Fliche e dei numerosi studiosi che da lui hanno preso le mosse risiede nell’aver accettato la lettura proposta in seno alla linea risultata poi vincitrice come la verità storica. Ne discendono numerose aporie, opportunamente corrette in primo luogo da Gerd Tellenbach, Ovidio Capitani e Cinzio Violante: ritenere che l’imperatore fosse un semplice laico, che la sua azione politica fosse di rottura rispetto alla tradizione, che lo scontro si svolgesse sul piano della lotta fra spiritualità (Chiesa) e temporalità (Impero, laici) e che il movimento di riforma della Chiesa e nella Chiesa fosse organico e unitario. Al contrario, gli studiosi contemporanei hanno concluso che, lungi dal ristabilire un ordine violato, Gregorio VII voleva sovvertire il sistema ereditato dalla tradizione. Infatti l’attribuzione di prerogative di controllo e tutela della Chiesa all’imperatore, persona consacrata, era perfettamente in linea con una tradizione che si era affermata almeno a partire dall’età carolingia e che risaliva al modello di Costantino. Anche il sistema della Chiesa imperiale (Reichskirche), imperniato su vescovi e grandi abati, era percorso da fervide aspirazioni di riforma, promosse e realizzate dapprima su scala locale dai vescovi, quindi dallo stesso imperatore Enrico III (1039-1056), il propugnatore di una dura lotta contro la simonia, che rafforzò il papato e gettò le basi del protagonismo della Sede Apostolica, che a partire dagli anni Sessanta del secolo XI cercò di catalizzare e coordinare le molte anime, anche contrapposte, del movimento riformatore. Insomma, per non fare che un esempio inerente allo stesso fronte riformatore romano, per analogia possiamo affermare che Ildebrando di Sovana e Pier Damiani stanno alla Riforma come Cavour e Mazzini al Risorgimento italiano: le enormi differenze di idee ed azioni furono in entrambi i casi sottostimate dal giudizio storico, al fine di costruire l’idea di movimenti unitari e condivisi.

La prima fase della Riforma della Chiesa nel secolo XI (espressione molto più adatta di “Riforma gregoriana” per abbracciare l’intero fenomeno) fu promossa da numerose sedi episcopali in Italia e fuori di essa tra gli anni Trenta e Quaranta del secolo XI. Le istanze di riforma partivano dalla constatazione che i patrimoni ecclesiastici si trovavano depauperati dalla forte commistione degli interessi delle aristocrazie. La proposta di cambiamento si rivolgeva lungo due linee direttrici fondamentali, che sono poi quelle cui s’improntò l’intero ciclo di riforme nella sua lunga durata. In primo luogo si cercò di ottenere un rafforzamento dei patrimoni, e dunque della forza di intervento sia politico che spirituale degli enti ecclesiastici; in questa azione, tuttavia, non si intendeva agire, come sarebbe accaduto in seguito, considerando le aristocrazie laiche come necessariamente estranee alle Chiese, bensì organiche e necessarie al governo. In secondo luogo, si cercò di modificare il genere di vita del clero, promuovendone la vita comune a imitazione del modello monastico. Soprattutto nella seconda metà del XI secolo e durante la prima metà del successivo furono istituite numerose canoniche regolari, ove vigeva la cosiddetta Regola di s. Agostino. La pressante richiesta di una vita vissuta con maggiore rigore mirava a realizzare un modello di chierico di fatto assimilato al monaco, sovraordinato e fortemente distinto dalla comunità di cui faceva parte. Siccome non era più accettabile che persone sposate accedessero agli ordini sacri, si diffuse il principio del celibato del clero, mentre i chierici legittimamente ammogliati fino a quel momento furono accusati – benché con forti contrasti interni, per esempio nella diocesi milanese – di “nicolaismo”. Inoltre si denunciò con forza la “simonia”, cioè l’assunzione di cariche ecclesiastiche dietro corresponsione di un prezzo, e – nel caso delle canoniche regolari riformate – si esclusero i chierici dalla possibilità di avere proprietà personali, in questo imitando ancora una volta i monaci. Sotteso a queste istanze di rinnovamento vi era l’anelito di ritornare alla purezza originaria della Chiesa, di ricreare la Ecclesiae primitivae forma: da ciò l’espressione reformatio, cioè restituzione di una forma ritenuta originaria.

Negli anni dell’imperatore Enrico III (1039-1056) gli ideali e le conseguenti politiche di riforma iniziarono ad avere un centro propulsore molto più organico che non in precedenza. Come scrive Cinzio Violante, «Enrico III […] fu l’ultimo imperatore che […] poté difendere incontrastato un ideale di collaborazione perfetta tra regnum e sacerdotium, fondato sulla sostanziale fusione di queste due realtà nella persona dell’imperatore». Durante il suo regno assistiamo al momento apicale della forza e unitarietà della Chiesa imperiale. Sceso in Italia nell’ottobre 1046, Enrico tenne un sinodo antisimoniaco a Pavia. Il suo atto più significativo fu però il sinodo di Sutri del dicembre successivo, celebrato poco tempo prima di essere incoronato imperatore. Il sovrano rimosse i tre papi che si contendevano la sede apostolica e ne scelse un quarto, Clemente II, che era l’arcivescovo di Bamberga. Da allora e per un decennio – fino alla morte di Vittore II nel 1057 – il papato romano fu sostanzialmente controllato dall’imperatore (nonostante la strenua opposizione delle aristocrazie locali), la riforma iniziò ad avere l’Urbe come centro di irradiamento e il papa e l’imperatore come suoi principali propagatori. In quel periodo, soprattutto Leone IX (1049-1054) fu il pontefice che maggiormente si indirizzò verso concrete azioni di riforma..

Sarebbe peraltro erroneo cogliere nelle iniziative imperiali un desiderio di “riforma della Chiesa” nel senso solitamente attribuito a questa espressione, poiché alla sua base non vi era una nuova ecclesiologia, bensì l’uso di schemi carolingi che a loro volta evocavano, nel rapporto imperatore-papa, il modello costantiniano. Si voleva infatti il rinnovamento dell’Impero in quanto contenitore istituzionale dell’intera societas christiana. Per questa ragione, per il periodo di Enrico III può essere più espressivo ricorrere al termine “restaurazione” piuttosto che al termine “riforma”.

In quegli stessi anni si andava formando in seno alla Chiesa un gruppo di ecclesiastici (tra cui Bruno di Toul, Pier Damiani, Ugo Candido, Umberto di Silvacandida, Stefano di Lorena, Odilone e Ugo di Cluny, Anselmo da Baggio, Ildebrando di Sovana, Guiberto di Ravenna, Bonizone di Sutri) di idee molto diverse gli uni rispetto agli altri. Alcuni, per esempio Pier Damiani, apprezzavano l’operato dell’imperatore; altri (tra i quali soprattutto Ildebrando di Sovana) preparavano il terreno a un distacco tra gli ideali dell’Impero e quelli della Chiesa romana. Dopo la morte improvvisa di Enrico III, cui seguì la lunga minorità del successore Enrico IV, Roma iniziò a prendere in mano l’iniziativa in modo sempre più indipendente dall’Impero, che versava in uno stato di grave debolezza. Nel 1059, il Decretum in Nomine Domini stabilì nuove regole per l’elezione pontificia escludendone i romani e attribuendone il diritto ai soli cardinali. Anche se il decreto faceva salvi l’honor e la reverentia del re, è evidente che la Chiesa romana (o meglio, un ben individuato gruppo di cardinali vescovi con alcuni altri cardinali, tra i quali Ildebrando, allora arcidiacono) rivendicava ormai una larga autonomia, che stava per diventare la netta affermazione della Libertas Ecclesiae e la lotta senza quartiere tra Regnum e Sacerdotium. Il “sistema”, però, ancora non era strutturato e il movimento seguiva varie direzioni, non essendo per nulla omogeneo. Tant’è che, per esempio, Pier Damiani, rinunciò al cardinalato, Ugo Candido passò dalla parte imperiale, Guiberto di Ravenna, sottoscrittore del decreto del 1059, nel 1080 fu eletto papa contro Gregorio VII.

Entrando dunque nello specifico dell’operato di Ildebrando di Sovana – Gregorio VII (ché solo a lui si può attagliare perfettamente – secondo Ovidio Capitani – il concetto di “Riforma gregoriana”), possiamo riassumere la sua azione in quattro principi fondamentali e interdipendenti. Il primo di essi è la cosiddetta “clericalizzazione del clero” (l’espressione è di Pierre Toubert), ovvero la sempre più evidente volontà e capacità di distinguere i membri del clero rispetto agli altri gruppi sociali, nonché di assumere, da parte degli ecclesiastici, il controllo capillare dello spazio, dei simboli, delle liturgie e di tutti gli aspetti legati alla sacralità. Il secondo principio, che ne è diretta conseguenza, è la volontà di estromettere i laici da tutto ciò che riguarda il governo della Chiesa. Il terzo principio, diretta conseguenza degli altri due, è l’estromissione dell’imperatore, ritenuto equiparabile a un laico, da tutto ciò che riguarda la gestione del sacro, a cominciare dalle investiture dei vescovi (contrasto che provoca la “Lotta per le Investiture”). Infine il quarto principio è la sostituzione dei quadri di riferimento generali: da una idea di societas christiana ordinata nell’appartenenza all’Impero romano, si passa a un’idea della medesima societas ordinata nell’appartenenza alla Chiesa romana. La centralità della Chiesa romana e del suo vertice, il pontefice, fu dunque la grande novità che, a ben guardare (come ha fatto G.M. Cantarella), rappresentò una vera e propria rivoluzione. Naturalmente, i contrasti furono fortissimi e, alla resa dei conti, nell’immediato non portarono alla vittoria di Gregorio VII. Deposto nel 1076, egli riuscì a portare l’imperatore a chiedere il perdono a Canossa (1077), ma fu nuovamente deposto nel 1080 e si vide contrapposto l’arcivescovo di Ravenna Guiberto Clemente III (1080-1100). Sebbene fosse effettivamente stato un grande papa riformatore, propugnatore di un’idea altissima del pontificato romano e convinto della necessità che esso si ponesse alla testa della cristianità (suoi sono i Dictatus papae, ventisette proposizioni che dichiarano l’assoluta preminenza della Chiesa romana), esaltato o denigrato con toni accesi dai suoi fedeli e dagli oppositori, in realtà la sua capacità operativa fu relativamente limitata. L’ultimo suo atto, il tentativo di recuperare Roma con l’ausilio dei Normanni, portò a un immane saccheggio della città (1084) e alla fuga verso Salerno, dove morì e fu sepolto nel 1085.

La fase successiva, generalmente considerata anch’essa, in modo ovviamente improprio, parte della “Riforma gregoriana”, si situa tra la morte di Gregorio VII e il concordato di Worms (1122). Alla morte di papa Gregorio il partito riformatore, che continuò a scegliere i propri pontefici tra cardinali tutti appartenenti al monachesimo, si trovò in grave difficoltà. Mentre Vittore III (1086-1087) non ebbe neppure il tempo di procedere ad ampie riforme, il suo successore Urbano II (1088-1099) dovette competere con Clemente III, allora considerato da molti il papa legittimo e saldamente insediato a Roma. L’indebolimento dell’imperatore (al quale si ribellò anche il figlio Enrico V), la sempre più forte istituzionalizzazione della Curia romana e la sua vieppiù amplificata capacità di azione (per esempio Urbano II bandì la Prima crociata) portarono peraltro a un rafforzamento sempre maggiore del papato romano, ormai avviato su una strada di accentramento delle prerogative e di irradiamento dell’autorità che non si sarebbe interrotto fino al principio del secolo XIV. I primi due decenni del secolo XII, in particolare, pur segnalandosi per i numerosi periodi di rottura con l’Impero e per il proseguire della Lotta per le Investiture, si chiusero con una pacificazione temporanea ottenuta attraverso il concordato di Worms. Furono, quelli, in assoluto gli anni di più intensa riforma. Questa si indirizzò soprattutto verso i canonici regolari (nascita dei Premostratensi), verso i monaci (nascita dei Cistercensi) e verso i primi cosiddetti ordini monastico-cavallereschi: i Templari e gli Ospitalieri.

Fonti e Bibl. essenziale

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LEMMARIO




Riforma protestante - vol. I


Autore: Stefano Cavallotto

Già al concilio di Costanza (1415-1418) era risuonato l’accorato appello per una Reformatio ecclesiae in capite et in membris; un invito più volte ripetuto sino agli inizi del ‘500, ma rimasto inascoltato a causa di una gerarchia e di un papato per molti versi non all’altezza delle sfide religiose del tempo. Sfide che in Germania trovano terreno fertile, anche sul piano politico e sociale, per uno scontro con Roma e non solo sulla questione delle indulgenze, il cui esito sarà la Riforma protestante e la divisione della cristianità occidentale. A Wittenberg con Lutero (†1546), come a Zurigo con Zwingli (†1531), a Ginevra con Calvino (†1564) e a Strasburgo con Bucer (†1551) viene elaborandosi un modello di riforma della chiesa che, oltre a modificare aspetti pastorali, disciplinari e liturgici, tocca punti decisivi della teologia e della dottrina nel tentativo di riportare la compagine ecclesiale alle sue origini evangeliche, riscoprendo e sostenendo la centralità del solus Christus, sola Scriptura, sola gratia, sola fide; una riforma, però, che Leone X rigetta come “eretica” (Lutero è scomunicato il 3 gennaio 1521 con la bolla Decet Romanum Pontificem ed è bandito dall’Impero con l’editto di Worms dell’8 maggio 1521), sovversiva ed esiziale per l’assetto religioso e politico/finanziario della chiesa tardo-medievale e rinascimentale, innescando così un conflitto nell’impero di Carlo V, ben presto trasformatosi in scontro armato tra protestanti e cattolici che solo nel cuius regio, eius et religio della dieta di Augusta del 1555 troverà una soluzione politica, ancorché insufficiente a garantire la pace nella tolleranza. Non solo in Germania, in Svizzera, in Francia, in Olanda, in Inghilterra, dove vengono a costituirsi stati confessionali e chiese evangeliche, ma anche in Italia – ed è il territorio che qui ci interessa in modo particolare – il disagio profondamente avvertito da non pochi ecclesiastici, intellettuali e gente del popolo di fronte ad un cristianesimo per molti versi “esteriorizzato”, “mondanizzato” e con una struttura di potere autoritaria e clericale, alimenta un dissenso ora esplicito ora più prudentemente “nascosto” (“Nicodemismo”), che si incanala concretamente o nell’adesione alla Riforma d’Oltralpe oppure nell’evangelismo degli «spirituali», in ambedue i casi perseguitato e represso dall’Inquisizione romana. In concreto, le idee di rinnovamento religioso che attraversano l’Europa nella prima metà del ‘500 giungono anche in Italia, prendendo forme molto diverse, dal movimento valdesiano al «cattolicesimo evangelico», dalla Riforma zwingliana, calvinista e luterana al radicalismo anabattista, alle posizioni eterodosse degli «eretici» e degli antitrinitari. E’ difficile, quindi, se non vano cercarvi un denominatore comune. Occorre dire inoltre che tale fermento riformatore diffuso nell’intera penisola trova promotori convinti soltanto in alcuni circoli, città e personalità prima di scomparire del tutto nella seconda metà del XVI secolo – ad eccezione delle comunità valdesi del nord-ovest d’Italia – sotto i colpi della censura controriformistica.

A Napoli intorno a Juan de Valdés (†1541) si crea negli anni Quaranta-Cinquanta un cenacolo di «spirituali», a cui appartengono nomi illustri come le nobildonne Vittoria Colonna (†1547), Giulia Gonzaga (†1566), Isabella Bresegna (†1567), l’agostiniano fiorentino Pier Martire Vermigli (†1562) e il vicario generale dei cappuccini Bernardino Ochino (†1564), entrambi passati successivamente alla Riforma protestante, il protonotario apostolico Pietro Carnesecchi (†1567), finito nelle mani dell’Inquisizione, processato e giustiziato a Castel Sant’Angelo come eretico, l’umanista Marcantonio Flaminio (†1550), i patrizi Bartolomeo Spadafora (†1566), Mario Galeota (†1585) e Galeazzo Caracciolo (†1586), divenuto quest’ultimo calvinista e rifugiatosi a Ginevra nel 1551. Nei suoi interventi formativi e negli scritti pubblicati postumi – tra i maggiori si ricordano l’Alfabeto Cristiano e le Cento e dieci divine considerazioni – il cavaliere e filosofo spagnolo fa proprie alcune posizioni di Lutero (l’uomo è giustificato soltanto per la giustizia di Cristo mediante la fede; l’arbitrio dell’uomo non è libero; il peccatore riceve il perdono non in forza della confessione, ma perché crede in Cristo redentore), mentre se ne allontana a favore di uno spiritualismo evangelico che tende a svalutare l’aspetto esteriore del cristianesimo, compresi i sacramenti, e a negare ogni principio dogmatico di verità, per cui l’illuminazione interiore è preminente rispetto alla funzione “magisteriale” della Parola scritta, giacché non è la “lettera” a condurre il credente verso la verità, ma lo Spirito che la vivifica; e ancora: è lo Spirito e non la Scrittura l’unico maestro per i credenti “progrediti”. Fautore di una concezione a-gerarchica della chiesa, Valdés si astiene dall’attaccare direttamente la struttura del papato. E con lui i suoi discepoli, che in definitiva non vogliono causare rotture laceranti all’interno della compagine cattolica. Di forte ispirazione valdesiana è la predicazione a Napoli e in molte altre città italiane di Bernardino Ochino (†1564). Avvicinatosi col tempo sempre più alle posizioni “riformate”, l’ex frate cappuccino è costretto nel 1542 a fuggire a Ginevra, dove riceve asilo presso Calvino e aderisce pienamente alla dottrina protestante. E sono ancora i discepoli di Valdés a diffonderne il pensiero e la spiritualità a Roma, Firenze, Padova, Venezia e in particolare a Viterbo tramite Flaminio e Carnesecchi col coinvolgimento e sotto la protezione del cardinale inglese Reginald Pole (†1558) aperto alla riforma della chiesa e alla giustificazione per fede. E’ nell’Ecclesia Viterbiensis che Flaminio matura nel 1541-43 la revisione “riformata” del Trattato utilissimo del Beneficio di Gesù Cristo di Benedetto da Mantova (†1556); un’opera molto apprezzata da uomini come i cardinali Morone e Pole, ma ben presto accusata di “eterodossia” e messa all’Indice, e che costituisce in realtà il documento letterario più importante, seppure con linguaggio velato, del passaggio dall’evangelismo al calvinismo.

Alla Riforma protestante sia nella versione luterana che riformata aderiscono gruppi diversi in varie parti del paese sotto la guida di leaders convinti e combattivi. I valdesi, la cui presenza si concentra nelle Valli del Pinerolese, col Sinodo generale di Chanforan del 1532, dominato dalla figura di Guillaume Farel (†1565), passano al protestantesimo svizzero, divenendo così un canale di diffusione, soprattutto attraverso la stampa, delle nuove dottrine non soltanto in Piemonte, ma nel Delfinato e nel Marchesato di Saluzzo, oltre che in Calabria e nelle Puglie. Idee evangeliche si fanno strada negli anni Trenta-Quaranta nella Repubblica di Lucca e nel ducato di Ferrara. Nella città toscana predica nel 1538 Ochino, ma soprattutto vi giunge nel 1541 l’agostiniano Pier Martire Vermigli (†1562). Discepolo di Valdés e passato alle tesi calviniste, questi istituisce per i novizi del suo ordine e per i giovani intellettuali lucchesi una scuola di bibbia con corsi di latino, greco ed ebraico e, facendo leva sulle sue doti di scrittore, si mette al servizio della propagazione della fede evangelica, aiutato peraltro da alcuni collaboratori, tra cui Celio Secondo Curione (†1569). L’anno dopo, però, è costretto ad espatriare e rifugiarsi a Strasburgo presso Bucer e da qui ad Oxford, chiamato da Cranmer per sistemare la dottrina, il diritto e la liturgia della chiesa anglicana. Orientatosi progressivamente in senso zwingliano (dopo il 1553 si stabilisce a Zurigo) con una forte coloritura anti-luterana (è convinto che sia meglio nessun battesimo piuttosto che riceverlo dai predicatori luterani, visto anche che il battesimo non è necessario alla beatitudine eterna), Vermigli è uno tra gli uomini più eruditi del suo tempo e il più dotto dei protestanti italiani. Anche dopo la sua partenza, nel 1542, Lucca continua ad essere per qualche tempo centro di diffusione della Riforma, basti ricordare l’opera di Girolamo Zanchi (†1590), obbligato a lasciare la città nel 1551 per trasferirsi come professore prima a Strasburgo e poi ad Heidelberg, o l’attività delle famiglie dei Diodati e dei Turrettini, costretti ad espatriare a Ginevra, dove assumeranno ben presto posizioni di rilievo nel governo e nell’accademia della città lemana, o anche l’insegnamento dell’umanista Aonio Paleario, che dopo essere emigrato a Milano nel 1556 per coprire la cattedra di studi umanistici, nel 1568 viene preso dall’Inquisizione romana, processato, condannato come eretico impenitente e giustiziato a Castel Sant’Angelo nel 1570.

Non meno vivo che in Toscana è il movimento evangelico a Ferrara e a Modena. Nella città estense numerose famiglie accettano la fede riformata, non ostacolati peraltro dal vescovo locale, il card, Morone, promotore dell’evangelismo e ammiratore e diffusore de Il beneficio di Cristo, e nasce l’«Accademia» di Giovanni Grillenzoni (sarà sciolta dal Duca di Ferrara nel 1543) come cenacolo per discutere il rinnovamento della chiesa, questioni teologiche e morali e per promuovere attività in vista della propagazione della cultura umanistica e del pensiero protestante. Allo stesso scopo sono orientati anche le iniziative di due grandi protagonisti del protestantesimo a Modena, il letterato Ludovico Castelvetro (†1571), studioso attento degli scritti dei riformatori e traduttore delle opere di Melantone (Loci communes), e il predicatore itinerante Bartolomeo della Pergola († ?), discepolo di Valdés. L’evangelismo modenese si presenta in concreto orientato in varie direzioni: alla componente valdesiana, si affiancano orientamenti luterani e riformati e fermenti di matrice anabattista. Attiva sostenitrice della fede calvinista a Ferrara è Renata di Francia (†1575), moglie del duca Ercole II. Con Calvino mantiene una fitta corrispondenza dopo la visita di questi alla città nel 1536 e si prodiga nell’accoglienza degli ugonotti esuli dalla Francia e degli altri dissenzienti perseguitati nel territorio italiano. La città stessa con la presenza di studenti stranieri, a volte protestanti, che frequentano l’università, rivela aperture ed interessi verso le idee nuove, ma è anche teatro negli anni Cinquanta di processi ed esecuzioni capitali di dissidenti come i casi del fornaio Fanino Fanini, condannato nel 1550 con l’accusa di propagare eresie, e del visionario catanese Giorgio Rioli, detto il Siculo, amico di Benedetto da Mantova e “nicodemita”, spiritualista radicale e antiprotestante (cfr. Epistola alli cittadini di Riva di Trento contra il mendacio di Francesco Spiera et falsa dottrina d’ Protestanti), giustiziato per le sue dottrine eversive nel 1551, e dello stesso processo del 1554 al gruppo calvinista della corte ferrarese con a capo Renata di Francia.

Ma è specialmente la Repubblica veneta ad essere centro di confluenza degli scritti e delle dottrine protestanti, sia perché la Serenissima è crocevia di scambi commerciali e culturali con Svizzera e Germania meridionale e leader dell’editoria europea con i suoi 500 editori e tipografi, ma anche per il potere limitato che l’Inquisizione vi esercita. Tra gli anni Quaranta-Settanta Venezia gioca un ruolo determinante per l’irradiazione delle nuove idee per tutta la penisola e, come avviene in altri Stati italiani, nella città lagunare sono membri di ordini religiosi ad accogliere con favore le dottrine della Riforma e spesso nella loro formulazione più radicale, vicina all’anabattismo e al ribellismo sociale. A ciò si aggiunga l’apporto degli esuli dallo Stato della Chiesa e dalla Toscana, spesso anticlericali, savonaroliani e filoprotestanti. Così i francescani conventuali Girolamo Galateo (†1541) e Bartolomeo Fonzio (†1562) predicano a Venezia e Padova le tesi di Lutero, subendo per questo persecuzione e morte. Non meno pesante è la sorte di coloro che viceversa, convertiti dapprima al protestantesimo, finiscono per abiurare sotto il peso della persecuzione, dei processi e delle torture, cadendo nella disperazione e nel tormento interiore del rimorso; ed è il caso di Francesco Spiera (†1548) e del biblista Antonio Brucioli (†1566). Altri invece, come l’ex-benedettino Francesco Negri da Bassano (†1563) autore della Tragedia del libero arbitrio, preferiscono la fuga, aggiungendosi alla schiera di esuli per fede che in vari posti dell’Europa, specialmente a Ginevra, costituiscono l’ecclesia peregrinorum degli italiani. Il calvinismo arriva a Vicenza per iniziativa del nobile veneto Alessandro Trissino (†1609?). E, contemporaneamente sorgono a Padova, Venezia e Vicenza comunità anabattiste tra artigiani, salariati e piccola borghesia, spesso con venature di antitrinitarismo e i caratteri del radicalismo religioso e sociale. Anche lo Stato di Milano registra sin dagli anni Venti la presenza di nuclei evangelici di rilievo sia calvinisti che luterani. Cremona raccoglie la comunità protestante più consistente ed organizzata, dopo Lucca, fra tutte le città d’Italia, e dà il maggior numero di esuli a Ginevra. Pavia si accosta alla “nuova comprensione del vangelo” tramite l’insegnamento di Celio Secondo Curione e la predicazione dell’agostiniano Agostino Mainardo (†1563). L’influenza della Riforma arriva pure alla porta orientale dell’Italia, in Dalmazia e in Istria, ad opera dei due fratelli Vergerio. Pier Paolo (†1565), vescovo di Capodistria, rimane così affascinato dal pensiero protestante che, una volta scomunicato da Roma nel 1549, lascia la diocesi e da semplice pastore evangelico di Vicosoprano si dedica a creare collegamenti tra gli evangelici italiani esuli e i riformati svizzeri e nel 1553 diventa consigliere del luterano duca Cristoforo del Württemberg.

È di tutta evidenza da questo quadro sintetico che il moto riformatore italiano si caratterizza per una dimensione quasi esclusivamente urbana, se si eccettuano i territori in cui si concentrano le comunità valdesi; comunità peraltro che in seguito al Trattato di Cavour del 1561 costituiranno per molto tempo l’unico baluardo del protestantesimo in Italia. In effetti, la repressione controriformistica ben presto fa piazza pulita dei vari gruppi di dissidenti italiani e i pochi sopravvissuti si disperdono in Svizzera, Polonia, Germania, Francia, Boemia, Transilvania. Di questa “diaspora” fanno parte, tra gli altri, quei protestanti definiti «eretici» o anche «antitrinitari», in ultima analisi “ribelli ad ogni forma di comunione ecclesiale” (Cantimori). Tra i nomi più noti giova menzionare: Celio Secondo Curione (†1569), Lelio (†1562) e Fausto Sozzini (†1604) e Giorgio Biandrata (†1588). Il primo, autore del Pasquillus extaticus (una feroce satira anticlericale e antipapale di grande successo), rifugiato a Losanna e a Basilea (1546), insegna una dottrina fortemente individualista e basata sulla tolleranza religiosa. I due Sozzini, lo zio Lelio e soprattutto il nipote Fausto, entrambi umanisti senesi ed approdati in Polonia e in Transilvania (dove la presenza di antitrinitari e di unitariani è molto forte), si fanno propagatori di una sorta di cristianesimo «liberale» lontano dagli assunti protestanti («socinianesimo»), basato su un approccio razionalistico alla dogmatica (Gesù non è Dio, ma divino; Gesù non salva l’uomo morendo sulla croce, ma attraverso l’esempio e la predicazione lo aiuta a salvarsi) e su una visione positiva dell’essere umano naturale, ed organizzano concretamente la cosiddetta ecclesia minor o chiesa unitariana; chiaramente le loro posizioni saranno duramente combattute da tutte le Ortodossie secentesche. Il medico saluzzese Biandrata, rifugiatosi in Transilvania, è il predicatore più esplicito dell’antitrinitarismo con l’opera del 1568 De falsa et vera unius Dei Patris, Filii et Spiritus Sancti cognitione.

In definitiva, però, tutti i vari tentativi di introdurre in Italia la Riforma e ancor prima i fermenti dell’evangelismo scompaiono alla fine del Cinquecento sotto l’attacco della Controriforma senza lasciare traccia. Rimarrà soltanto la presenza, seppure ghettizzata, dei valdesi che dopo il «Glorioso rimpatrio» (1689) verranno ad abitare nuovamente nei territori delle Valli, mentre all’estero nella diaspora continueranno a sopravvivere le comunità protestanti degli esuli italiani. Sarà il grande moto risorgimentale nell’Ottocento a fare uscire dal ghetto le chiese evangeliche e a facilitare il ritorno nella penisola di un protestantesimo, ormai plasmato in vari e nuovi modelli dal Pietismo, dal Metodismo, dal Battismo e ultimamente dal movimento del «Risveglio».

Fonti e Bibl. essenziale

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LEMMARIO