Associazione Italiana dei Professori di Storia della Chiesa

Dizionario Storico Tematico La Chiesa in Italia
Dalle origini all'Unità Nazionale
Roma 2015
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Rinascimento - vol. I


Autore: Yvonne zu Dohna

Rinascimento, Neoplatonismo e Chiesa. Con il termine Rinascimento si vuole qualificare il clima culturale, creatosi in Italia tra il XV e XVI secolo, indicativamente dalla fine del grande scisma al Concilio di Trento (Vasari, Burckhardt, Michelet). La metafora di rinascita è inerente alla ripresa dell’eredità letteraria e artistica greco-romana. Il Rinascimento rappresenta un nuovo approccio al mondo classico e al senso della cultura e il suo studio coinvolge le dimensioni letterarie ed artistiche (Duhem, Randall), religiose e teologiche (De Lubac, Ulmann), scientifiche e filosofiche (Kristeller).

Il Rinascimento si caratterizzò per un “sano antropocentrismo”, che esaltò la persona umana nella sua unicità e perfezione. Questa fase storica può essere considerata come la “culla della modernità” nelle sue diverse matrici: filologico-ermeneutica (Lorenzo Valla, Erasmo da Rotterdam), filosofico-cosmologica (Ficino, Cusano, Giordano Bruno), politica (Macchiavelli) e “moralistica” (Guicciardini, Castiglione). Gli scritti di Platone raggiunsero l’Italia attraverso le fonti arabe e bizantine e furono tradotti in latino. Umanisti come Marsilio Ficino e Pico della Mirandola diedero vita a una nuova forma di “neoplatonismo cristiano”, offrendo una nuova interpretazione delle verità religiose alla luce del pensiero platonico. L’uomo è così concepito come immagine di Dio e la bellezza umana come riflesso della perfezione divina. Da un lato la bellezza terrena rivela all’anima umana le sue origini divine e dall’altro la bellezza divina suscita il desiderio di conoscenza (eros), di cui la fede rappresenta la sua forma compiuta. Nell’arte europea emerse un nuovo interesse per l’imitazione della natura, per una corporeità sensuale ed erotica e per la sua espressione classica. L’arte antica ne divenne il modello ideale.

Attraverso l’interesse per la cultura classica, la Chiesa espresse la volontà di inserirsi nella tradizione imperiale dell’Occidente e volle riprendere il tentativo di una presenza culturale e politica ispirata a quel modello. Gli emissari papali raccolsero molti scritti degli autori antichi fino a trasformare la Biblioteca Apostolica Vaticana, aperta da Sisto IV al pubblico nel 1475, in una collezione di altissimo valore culturale. In quei decenni l’intreccio tra il lavoro degli umanisti e la promozione ecclesiastica della cultura fu molto intenso. L’espressione di Terenzio homo sumnihil humani alienum mihi puto può essere considerata la cifra dell’orientamento culturale generale. Il cristianesimo rinascimentale attraversò diverse dinamiche e processi. Sulla scia della devotio moderna e dietro ispirazione della De imitatione Christi si assistette a una “interiorizzazione” ed “elementarizzazione”, affettiva ed intellettuale, della cultura, corroborata dall’ l’influsso degli ordini mendicanti e dei mistici (francescani, domenicani, spirituali, Eckhart, Taulero, Ruysbroeck), La riscoperta della cultura greca prese vigore da un rinnovato dialogo tra Oriente e Occidente, di cui si hanno tracce nel Concilio di Pisa, nel Concilio di Costanza e soprattutto in quello di Basilea-Ferrara-Firenze. Nel campo della teologia è possibile riscontrare le diverse anime del neoplatonismo (Ficino), dell’aristotelismo e del tomismo (De Vio) e dello scotismo (Della Rovere) oltre che alcuni fermenti di riforma (Savonarola). Non sono da dimenticare, infine, una certa espansione evangelizzatrice anche extraeuropea e la variegata vivacità della pietà popolare.

Neoplatonismo e artisti a Firenze. È Firenze, con i Medici, la culla di questo movimento. Con Brunelleschi, Donatello, Masaccio e Ghiberti iniziò un’intensa rievocazione delle forme antiche, ispirata dalla letteratura e da interessi archeologici. In seguito, con Botticelli, Leonardo, Michelangelo, sotto Lorenzo il Magnifico e l’influsso del Savonarola, lo stile dell’arte volle ispirarsi al pensiero filosofico, raggiungendo il suo vertice speculativo. Le maggiori peculiarità stilistiche furono l’utilizzo della prospettiva, un forte realismo descrittivo, anche anatomico, e la ricerca dell’essenzialità del tratto, tra lo studio della natura e il tentativo costante di una sua trasfigurazione artistica. Queste tendenze si espressero in modo diversificato e personalissimo nelle realizzazioni dei singoli artisti.

Neoplatonismo e politica culturale papale.  Grazie al rinnovato interesse mostrato dai Papi per l’arte, Roma divenne nella seconda metà del Quattrocento il centro della massima espressione della Weltanschauung rinascimentale. Il Palazzo Apostolico divenne uno scrigno d’arte. Finanche gli interventi dei Papi nell’ambito artistico furono espressione dell’intreccio tra l’influsso neoplatonico e la politica culturale ecclesiastica.

Giannozzo Manetti descrive nella sua biografia come Niccolò V (1447-1455), umanista fiorentino e primo tra i Papi che scelse di risiedere a Roma dopo la parentesi avignonese, modificò l’architettura e la decorazione della basilica vaticana di San Pietro quale espressione del suo potere imperiale. Rinnovò, inoltre, le mura cittadine e il Campidoglio (Antonio da Firenze, Leon Battista Alberti, Bernardo Rossellino, Fra Angelico).

Pio II (1458-1464), umanista, scrittore e diplomatico, incaricò Rossellino di trasformare Corsignano, il modesto borgo della sua nascita, nella città ideale di Pienza. A Roma fece realizzare la Loggia delle Benedizioni di S. Pietro da Francesco del Borgo, allievo di Alberti, che si ispirò al Tabularium e ai teatri antichi.

Per Paolo II (1464-1471) Francesco del Borgo trasformò il suo palazzo cardinalizio e l’adiacente chiesa di S. Marco in una nuova e moderna residenza papale ai piedi del Campidoglio: il Palazzo Venezia.

Sisto IV (1471-1484), francescano, rinnovò il sistema viario della città, costruì il Ponte Sisto, l’ospedale di Santo Spirito, il convento agostiniano di S. Maria del Popolo e la Cappella Sistina. La Sistina è paradigma esemplare dello stile quattrocentesco di Roma, ove Pietro Perugino, Sandro Botticelli, Domenico Ghirlandaio e Cosimo Rosselli, nelle vite di Mosè e di Cristo, mettono a confronto i due testamenti. La morte di Mosè è raffigurata secondo un’iconografia particolare: egli muore, non in solitudine nell’atto di contemplare la terra promessa, ma in mezzo al popolo che lo piange. Il corpo morto di Mosè è, nel senso tipologico, una prefigurazione del Melismos, il corpo morto di Cristo e il corpo eucaristico sull’altare.

Alessandro VI (1492-1503), grande e discusso uomo politico, chiamò Antonio il Vecchio da Sangallo, fratello minore di Giuliano, l’architetto di Lorenzo il Magnifico, per fortificare Castel S. Angelo e per costruire la Torre Borgia in Vaticano e la rocca di Civita Castellana. Incaricò, inoltre, il Pinturicchio per la decorazione dell’Appartamento Borgia.

Giulio II (1503-1513), di formazione francescana come lo zio Papa Sisto IV, scelse Bramante come suo architetto sia per l’ingrandimento e il rinnovamento del Vaticano (Cortile del Belvedere, Logge, Stanze), sia per la ricostruzione della Basilica di S. Pietro. Nel braccio del coro doveva essere collocato il suo monumento funebre e in esso Michelangelo avrebbe dovuto oltrepassare idealmente tutte le precedenti realizzazioni scultoree.

Il Palazzo dei Tribunali, sede di tutti i tribunali della Curia e della città, doveva essere costruito di fronte alla vecchia sede del Vicecancelliere, in una piazza della nuova Via Giulia, che il ricostruito Ponte Trionfale avrebbe collegato direttamente con il Vaticano. Giulio II fu anche un grande collezionista di sculture antiche e collocò l’Apollo del Belvedere, la sua statua preferita, il Laocoonte, appena rinvenuto, e altre icone nel giardino superiore del Belvedere. Le sue architetture gigantesche, le iscrizioni e le statue rispecchiano l’utopia personale di un impero papale, che avrebbe dovuto esercitare la sua egemonia sull’intera penisola italiana. Nelle sue committenze pittoriche si espressero non solo le sue ambizioni politiche, ma anche il suo pensiero profondamente religioso e molto vicino al Neoplatonismo. Nella volta della Cappella Sistina, avviata nel 1508, Michelangelo rappresentò la Creazione e la storia di Noè, ispirandosi anche alle interpretazioni di Egidio da Viterbo (Pfeiffer) e Rashi (Doliner Blech, Dohna). L’iconografia della Sistina è un affresco dell’opera di graduale differenziazione con cui Dio imprime all’universo la sua forma originaria ed esercita la sua signorìa sulla storia con l’elezione di Israele e con l’evento dell’Incarnazione, reso dalla successione degli antenati di Mosè fino a Cristo. Nello stesso periodo Raffaello evocò nella Stanza della Segnatura la grande rinascita, con Papa Giulio II, della promozione della teologia, delle scienze, delle arti e della poesia, mentre nella Stanza di Eliodoro e nella Madonna Sistina volle significare l’incolumità della Chiesa dalle minacce politiche e dallo scisma, grazie alla protezione divina e alla fede del Papa (Frommel). Sotto Giulio II Roma divenne il centro dell’arte europea, momento aureo delle arti in cui il cristianesimo abbracciò mirabilmente la tradizione antica. Leone X Medici (1513-1521) si formò nella Firenze di Marsilio Ficino e Angelo Poliziano. Come il padre, Lorenzo il Magnifico, fu amante e collezionista d’arte e promosse l’attività di raffinate cerchie di intellettuali. Unendo lo Studium sacri palatii, il Collegium Vaticani e lo Studium urbis diede vita all’Università “La Sapienza”, favorendo lo studio delle lingue antiche. Promosse il recupero di manoscritti, l’allestimento di biblioteche, la musica, la cura delle lettere, creando un’Accademia di belle arti ante litteram. Dopo la morte di Bramante nominò Raffaello come primo architetto papale, incaricandolo di ingrandire la Basilica di S. Pietro e di continuare la decorazione delle Stanze e della Cappella Sistina con due cicli di arazzi che rappresentano la storia degli apostoli e i successori di Mosè e Cristo, già evocati dai pittori quattrocenteschi. Le scene di S. Pietro erano collocate sotto quelle di Mosè, simbolo della Ecclesia ex circumcisione e le scene di Paolo sotto quelle di Cristo, che evocano l’Ecclesia ex gentibus. Ambedue i cicli testimoniano la futura maiestas papalis. Con la sua erudizione e il suo carattere tranquillo e sereno Leone X favorì l’aspetto classicista dell’arte di Raffaello. La maggior parte dei suoi grandi progetti architettonici, purtroppo, non fu mai realizzata e la stessa Villa Madama, cominciata su iniziativa di suo cugino, il Vicecancelliere Giulio de’ Medici, non procedette oltre la metà.

Adriano VI (1521-1523), segretario olandese di Carlo V ed eletto su pressione di questo, era molto meno interessato alle arti e alla cultura antica. In un’incisione in cui l’Avarizia caccia le Muse dal tempio delle arti, Baldassarre Peruzzi, il secondo architetto del papa che disegnò anche la sua tomba a S. Maria dell’Anima, riprovò questo atteggiamento contrario allo spirito del Rinascimento. A seguito del nuovo clima culturale alcuni artisti lasciarono Roma e la città perse il suo ruolo di centro artistico.

Inizialmente Clemente VII (1523-1534) alimentò la speranza che Roma fosse di nuovo un theatrum mundi per tutti i geni del tempo. Già come cardinale aveva commissionato a Raffaello la Villa Madama e la Trasfigurazione, a Sebastiano del Piombo la Risurrezione di Lazzaro, ad Andrea del Sarto e al Pontormo gli affreschi di Poggio a Caiano e diverse realizzazioni scultoree a Bandinelli e Rustici. La sua più importante committenza pittorica fu la Sala di Costantino, iniziata sotto Leone X da Raffaello e ultimata negli anni 1520-24 da Giulio Romano e G. F. Penni. I brevi intermezzi di Rosso Fiorentino e Parmigianino, che non ottennero da lui alcuna committenza, non giustificano l’ipotesi di uno “stile clementino”. I suoi architetti rimasero Sangallo e Peruzzi ed egli spostò la sua attività architettonica in imprese familiari della natìa Firenze, incaricando Michelangelo di completare la Cappella Medicea e di costruire la Biblioteca Laurenziana. Giulio Romano, l’unico tra gli artisti romani con le velleità dell’uomo “capriccioso”, lasciò per sempre la città già nel 1524, anche in seguito alla crisi politica, finanziaria e artistica che afflisse il centro della cristianità dopo il Sacco di Roma. In quegli anni la costruzione di S. Pietro fu sospesa e i pochi artisti rimasti cercarono altrove committenti più generosi.

Clemente VII incaricò Michelangelo del Giudizio Universale nella Cappella Sistina, ma solo Paolo III (1534-1549) riuscì a farlo dipingere. L’affresco del Giudizio Universale riflette i dibattiti del tempo sul destino dell’uomo, sull’immortalità dell’anima e la risurrezione della carne. Nella figura del Cristo Risorto, raffigurato privo di barba e con una folta chioma di capelli, si esprime la nuova tradizione iconografica del nuovo Adamo, purificato, forte e fisicamente bello.

Panoramica italiana. In Italia il pensiero rinascimentale si sviluppò con modi ed espressioni diversificati. Pur formati alla scuola dello stile fiorentino, molti artisti s’interessarono ai grandi innovatori fiamminghi, come van Eyck e Rogier van der Weyden. Rivolsero pari attenzione ai francesi, come Jean Fouquet e ai tedeschi, come Schongauer, Dürer, Grünewald e Holbein. Ispirati all’arte nordica e ad Antonello da Messina, pittori veneziani come Giovanni Bellini e la sua scuola svilupparono un colorismo rivoluzionario, adottato perfino da Raffaello e con cui Tiziano aprì nuovi orizzonti per l’arte sacra. Accanto a Venezia, i centri artistici più vitali dell’Italia settentrionale nel Quattrocento furono le corti di Ferrara, Mantova, Urbino, Napoli e Milano, che grazie ad Alberti e Mantegna contribuirono sostanzialmente alla maturazione del nuovo stile. Ispirato dal giovane Leonardo, anche Perugino sviluppò a Perugia e Firenze la sua maniera “dolce e soave”, che proseguì nelle opere di Pinturicchio e del giovane Raffaello. Un esempio isolato fu Siena con una pittura al confine fra gotico e Rinascimento. Grazie al re Alfonso II di Napoli e i suoi discendenti crebbe anche a Napoli un centro artistico, ove confluirono influssi dall’antico, da Firenze e da Roma, dalle Fiandre, dal mondo arabo-ispanico. Il Rinascimento appare, dunque, come un fenomeno tipicamente italiano che solo alla fine del Quattrocento cominciò a espandersi in Francia e Spagna e solo nel Cinquecento si estese all’Europa centrale e orientale e all’Inghilterra.

Fonti e bibliografia essenziale

S.J. Freedberg, Painting of the High Renaissance in Rome and Florence, 2 voll., Harvard University Press, Cambridge (Mass.) 1961; P.O. Kristeller, La tradizione classica nel pensiero del Rinascimento, La Nuova Italia, Firenze 1969; H. de Lubac, Pico della Mirandola. L’alba incompiuta del Rinascimento, Jaca Book, Milano 1977; P.O. Kristeller, Concetti rinascimentali dell’uomo e altri saggi, ed. S. Silvestroni, La Nuova Italia, Firenze 1978;  E. Garin, Il Rinascimento italiano, Cappelli, Bologna 1980; J.F. D’Amico, «Humanism in Rome»in A. Rabil Jr., ed., Renaissance Humanism, Foundations, Forms and Legency, vol. 1, University of Pennsylvania Press, Philadelphia 1988; A. Esch ‒ C.L. Frommel, ed., Arte, committenza ed economia a Roma e nelle corti del Rinascimento (1420-1530). Atti del Convegno internazionale. Roma 24-27 ottobre 1990, Biblioteca Hertziana, Istituto storico germanico di Roma, Einaudi, Torino 1995; E. Panofsky, «Il movimento neoplatonico a Firenze e nell’Italia settentrionale», in Id., Studi di iconologia. I temi umanistici nell’arte del Rinascimento, Einaudi, Torino 1999, 184-235; A. J. Grieco ‒ al., ed., The Italian Renaissance in the twentieth century. Acts of an international conference, Florence, Villa I Tatti, June 9-11 1999, Olschki, Firenze 2002; A. Warburg, La rinascita del paganesimo antico. Contributi alla storia della cultura, ed. M. Ghelardi, Aragno, Torino 2004; E. Garin, La cultura del Rinascimento. Profilo storico, Laterza, Roma-Bari 20056;  T. Verdon, L’arte cristiana in Italia 2, Rinascimento, San Paolo, Cinisello Balsamo 2006; C.L. Frommel, The Architecture of the Italian Renaissance, Pelican Art History, London 2007; H. Pfeiffer, La Sistina svelata. Iconografia di un capolavoro, Jaca Book, Milano 2007; C.M. Richardson ‒ al., ed., Viewing Renaissance art, Yale University Press, London 2007; I. Herklotz, ed., Società, cultura e vita religiosa in Età Moderna. Studi in onore do Romeo De Maio, Centro di Studi Sorani Vincenzo Patriarca, Sora 2009; C. Catà, La Croce e l’Inconcepibile. Il pensiero di Nicola Cusano tra filosofia e predicazione, EUM, Macerata 2009; Y. zu Dohna, «Figure di Dio nel XVII secolo. Il volto artistico della modernità», in P. Gilbert, ed., L’uomo dell’età moderna e la Chiesa, 329-347, GB Press, Roma 2012; Id., Lo specchio della fede: la rappresentazione del Divino nell’Arte di Raffaello e Michelangelo. Verso un nuovo approccio all’Arte, Collana di Studi e Tesi n. 26, Accademia Raffaello, Urbino 2013.

Immagine
Raffaello, La Scuola di Atene, 1509, Stanza della Segnatura, Palazzo Apostolico, Musei Vaticani, Stato della Città del Vaticano


LEMMARIO




Rinascimento carolingio - vol. I


Autore: Paolo Fusar Imperatore

Il panorama italiano del IX secolo non appare così marcatamente mutato da poter parlare di un vero e proprio rinascimento carolingio italiano: l’incertezza politica fra Roma, Costantinopoli e Pavia, capitale longobarda, non faciliterà l’intervento legislativo e uniformante di Carlo magno nella penisola. I Franchi, invitati da papa Stefano per fermare il pericolo longobardo e per garantire la libertà delle terre del patrimonium Petri, si guarderanno bene, infatti, dal gestire la situazione italiana da padroni di casa. L’intervento carolingio provocherà una definitiva frattura politica della penisola e introdurrà alcuni elementi della cultura franca, portando alle estreme conseguenze ciò che i longobardi non erano riusciti a fare, ossia, con una parola che vuole essere soltanto un comodo concetto generale, l’impostazione feudale del territorio, con i privilegi e le immunità. Il trascorrere del IX secolo, in linea generale, segna un forte declino della realtà italiana, accentuato dal fatto che l’imperatore abitava al di là delle Alpi e in controtendenza solo nelle terre del pontefice. I Franchi, soprattutto nell’area orientale dell’Italia settentrionale, dove più forte era la presenza longobarda, avevano la necessità di creare nuove figure di governo, ma, in generale, si erano guardati bene dal sostituire interamente le vecchie strutture: l’Italia del X secolo presenterà una grande e confusa molteplicità di poteri, fra duchi e gastaldi longobardi, conti e marchesi franchi, esarchi e temi bizantini, che di volta in volta andranno ad assommarsi, perdendo i significati propri, ma mantenendo intatta la loro memoria di dominio e potere. Dall’altro lato della medaglia, proprio la debolezza politica dell’impero farà del IX secolo un periodo di ripresa economica, rilanciato dalle autonomie locali appena formate.

Il punto di vista culturale può permetterci di individuare altri aspetti contraddittori dell’epoca carolingia. L’ambiente italiano del secolo precedente, sebbene non fosse particolarmente promettente viste le asperità del regno longobardo, era ancora caratterizzato da alcuni centri culturali particolarmente attivi e vivaci, che la presenza franca tenderà a limitare entro i propri schemi. Il regno longobardo, soprattutto dopo la conversione al cristianesimo, si era vivamente impegnato nell’edificazione e nell’arricchimento dei centri monastici con lo scopo di preparare posti pregevoli per i figli cadetti della nobiltà, non destinati a succedere nei ducati o nei ranghi del regno: la scelta degli irlandesi di Bobbio e di altri centri di nuova fondazione era finalizzata a garantirsi luoghi protetti e liberi dagli influssi di Roma e Costantinopoli. Con l’apporto della paleografia vediamo, così, la crisi dei grandi centri culturali monastici del secolo precedente: Bobbio, splendida abbazia fondata da Colombano e custode della cultura classica, riduce inesorabilmente i propri spazi e la propria influenza; Montecassino e san Vincenzo al Volturno vedono la distruzione e dispersione del proprio patrimonio a causa dei saccheggi degli Arabi, vero flagello del secolo; altri monasteri saranno irreggimentati nelle strutture imperiali franche, come, ad esempio, Farfa. La cultura carolingia, al contempo, non si impone con la stessa forza e coerenza con cui si è proceduto oltralpe, e la riforma benedettina promossa da Benedetto di Aniane non fu sufficiente a bilanciare l’introduzione degli “abati laici” nei monasteri. Il monachesimo italico, dopo l’opera di Gregorio magno e con due secoli di sperimentazione longobarda, cominciava a raggiungere livelli di splendore invidiabili e soprattutto quella fama di santità che rendeva i monaci consiglieri, maestri e protettori. L’uniformità linguistica, culturale e spirituale che l’impero carolingio cercherà di portare in Italia non farà altro che appiattire un panorama molto ricco e capace anche di uomini colti e validi come fu lo stesso consigliere di Carlo magno, Paolo diacono, o il vescovo Paolino d’Aquileia. Paradossalmente “rinascimento carolingio” in Italia significò una grande contraddizione: l’irrimediabile morte di strutture antiche, provocata dai continui mutamenti di potere e la conseguente nascita di nuove strutture, anche ecclesiastiche, di notevole durata e rendimento. La forza ideale ed ideologica di un nuovo impero romano, suscitata anche dall’apporto simbolico di un rapporto con Roma, non fu sufficiente per restituire all’Italia un vero e durevole rinascimento, servì tuttavia al lento consolidarsi di quanto era sopravvissuto del passato, romano, longobardo e franco.

Per l’Italia settentrionale la grande novità carolingia fu quella dei “vescovi conti”: il termine designa l’impostazione voluta dai sovrani franchi nella gestione dei propri territori, con la concessione di potere politico ai vescovi, fino alla creazione di veri e propri feudi episcopali. L’idea che soggiace a questa visione è quella della sacralità del sovrano e della conseguente commistione fra regno e chiese: i vescovi erano, così, eletti dal sovrano e insigniti di una giurisdizione. È vero che la situazione italiana non corrisponde molto alla Francia o a ciò che verrà a crearsi ai tempi di Ottone I di Sassonia nel X secolo, ma non si può certo negare che la politica carolingia in Italia non abbia favorito e potenziato la figura del vescovo. In contrapposizione al regno longobardo che sopravviveva come federazione di duchi affiancati al prestigio di grandi e potenti monasteri, i nuovi signori restituirono potere civile ai vescovi e alle loro giurisdizioni: persone valide e preparate, senza dubbio prive di eredi, e capaci di un alto concetto di fedeltà. La nuova situazione impedirà un ricambio altrettanto valido e l’innescarsi della valanga degli episcopati di ceto nobiliare, a lungo termine, porterà l’episcopato ad una insignificanza culturale e religiosa. La riforma carolingia delle diocesi, efficiente in via teorica, segnò anche la scomparsa definitiva delle strutture patriarcali antiche, con il lato positivo di annientarne anche gli atavici conflitti. In contrapposizione alla cultura dei monasteri il governo carolingio obbligò i vescovi ad avere una propria scuola per la formazione dei chierici e degli impiegati del proprio tribunale: si tratta di un notevole sforzo di unitarietà e controllo, volto a limitare gli spazi longobardi e a migliorare le effettive condizioni di governo. Il caso più evidente riguarda la capitale longobarda, Pavia, dove venne nominato amministratore l’abate benedettino Waldo, con l’incarico di istituire una scuola vescovile. La rapida rovina dell’impero porterà però il degrado di queste neonate istituzioni, che poterono sopravvivere solo in presenza di qualche abile vescovo e di un patriziato cittadino autorevole. La feudalità ecclesiastica scadrà nella creazione delle cappelle private e del clero canonicale delle grandi collegiate esenti: vescovi funzionari e signori territoriali in lotta con la nobiltà vassalla. Bisognerà cercare nel clero pievano e nella riorganizzazione ecclesiastica locale gli aspetti positivi di un’epoca che ha tutta l’aria di una grande decadenza. Sul piano organizzativo si può scorgere la preoccupazione di creare unità territoriali più compatte e meglio amministrabili: la Chiesa delle pievi, dipendente dai vescovi, ma sufficientemente strutturata per reggersi anche senza di loro, portò avanti per tutto il medioevo l’espansione e la presenza del cristianesimo nelle campagne.

L’Italia centrale vide, invece, un periodo di relativo splendore, soprattutto per quanto riguarda l’ambito papale: lo scontro con l’oriente per la questione iconoclasta e lo scisma di Fozio incorniciarono una serie di papi di origine orientale, estremamente colti e capaci di buon governo, garantiti sia dall’oriente sia dalla nuova funzione acquisita dal papato in ambito franco. Solo a fine secolo, con la lontananza degli imperatori e con la fine della dinastia carolingia si avrà la caduta del papato nelle mani delle autonomie locali romane. Riorganizzare e ricostruire furono le attività preferite dai pontefici: Roma vide gli splendori delle basiliche di Pasquale I e le nuove fortificazioni cittadine della città leonina e della giovannipoli; il patrimonium Petri fu rimesso in ordine focalizzando il controllo governativo a partire dai centri di Ravenna, Perugia e Roma. Il IX secolo romano è anche l’epoca della rielaborazione di tre secoli di prassi di curia nella gestione dei rapporti con Costantinopoli, coi Longobardi e con i Franchi. Per il papato può giustamente definirsi un secolo d’oro: nulla di ciò che si era guadagnato era andato perduto. Il Franco era un alleato potente e sufficientemente lontano per garantire sicurezza ed autonomia; grazie all’appoggio papale poteva anche diventare un perfetto contraltare al potere bizantino nella penisola e alle pretese teologiche dei patriarchi e degli imperatori orientali, ma, soprattutto, era un decisivo deterrente alle mire espansionistiche longobarde, non ancora del tutto sopite dal trascorrere degli anni, anche se ridotti ai soli ducati di Spoleto e Benevento. Il papato del IX secolo è, però, meno sollecito nei confronti delle altre nazioni europee: le uniche attenzioni andarono verso le questioni di giurisdizione per i territori confinanti con l’impero Bizantino (Slavi e Bulgari), accontentandosi del legame con la dinastia carolingia per una comunione con le chiese d’oltralpe.

Il Sud della penisola vide un netto peggioramento della situazione: il mancato ritorno delle terre pontificie di Sicilia e Dalmazia dopo la fine delle controversie iconoclaste con l’imperatore d’oriente e il conseguente inserimento nell’orbita bizantina dei temi di Sicilia, Puglia e Calabria, facilitarono l’avvento della dominazione araba. La presa della Sicilia e le ripetute incursioni costiere portarono ad un completo cambiamento geografico e religioso: l’abbandono delle località costiere e la fuga nell’entroterra furono i primi passi di quello che viene chiamato il fenomeno dell’“incastellamento”, che per tutto il secolo segnò l’intera penisola italiana. Anche Roma fu saccheggiata più volte e si giunse persino a fortificare le basiliche di san Pietro e san Paolo, facendo di Castel sant’Angelo un vero baluardo per la città eterna; i porti più esposti furono abbandonati con l’accrescersi delle difficoltà della flotta bizantina e con l’evolversi delle politiche commerciali mediterranee. L’interesse degli imperatori carolingii per la difesa delle terre del meridione italiano fu sempre mediato dalle necessità d’oltralpe e dall’evitare nuovi conflitti con Costantinopoli: le varie spedizione risultarono sempre più fallimentari e il pericolo arabo si fece sentire sempre più vicino, mentre le singole città, un tempo federate con Roma e con l’impero, diventarono realtà autonome e incapaci di collaborare. Il secolo IX vide un continuo farsi e disfarsi di alleanze e guerre di cui spesso l’arabo non era che un pretesto: le vicende delle città di Bari e di Otranto ad Est e di Napoli e Salerno ad Ovest sono esempi concreti di questa situazione. La difesa era condizionata dagli interessi locali e dai conflitti fra giurisdizioni e poteri: solo dopo un secolo di aspre lotte e grazie soltanto alla debole, ma decisiva, lega organizzata dal papa all’inizio del X secolo, si porrà fine alla presenza araba nell’entroterra della penisola con la battaglia sul fiume Garigliano. A quell’epoca in Italia dell’impero carolingio non restava altro che un lontano ricordo: solo a Nord uno spettrale e quanto mai frazionato Regno d’Italia cercava ancora di mantenere ordine e unità negli scontri dinastici, dichiarandosi, però, impotente di fronte alla calata degli Ungari.

Fonti e Bibl. essenziale

C. Azzara – P. Moro, I capitolari italici, Viella, Roma 1998; P. Cammarosano, Storia dell’Italia medievale. Dal VI all’XI secolo, Laterza, Roma-Bari 2008; O. Capitani, Storia dell’Italia medievale, Laterza, Roma-Bari 2004; S. Gasparri, Italia longobarda. Il regno, i Franchi, il papato, Laterza, Roma-Bari 2012; G. Penco, Storia della Chiesa in Italia. I Dalle Origini al Concilio di Trento, Jaca Book, Milano 1977, 144-213; C. Wickham, Le società dell’alto medioevo. Europa e Mediterraneo secoli V-VIII, Viella, Roma 2009. Per gli aspetti culturali si consultino gli Atti delle Settimane di Studio per l’Alto Medioevo del Centro italiano di studi sull’alto medioevo di Spoleto.


LEMMARIO




Rivoluzione francese - vol. I


Autore: Mario Tosti

Anche in Italia, nell’ultimo ventennio, il rapporto Chiesa-Rivoluzione francese è stato uno dei filoni d’indagine più produttivi: spesso gli studi si sono mossi verso una riconciliazione tra l’ideale rivoluzionario dell’Ottantanove e il riconoscimento della libertà cristiana, ma altrettanto frequentemente gli avvenimenti sono stati letti confondendo fede e controrivoluzione, testimonianza cristiana e resistenza politica. Nonostante i progressi c’è bisogno ancora di favorire una discussione critica e severa che individui le ragioni storiche della non accoglienza della Rivoluzione da parte della Chiesa e metta in evidenza le esigenze di purificazione, di liberazione, di rinnovamento religioso che il moto rivoluzionario provocò. Troppo spesso, invece, periodici e riviste, non solo di provenienza cattolica, manifestano una posizione rigorosa e dogmatica, con atteggiamenti di drastica condanna, contrapposti ad altri di esclusiva esaltazione. Per diversi decenni la storiografia cattolica, anziché soffermarsi sulle articolate posizioni assunte dalla coscienza cristiana davanti al problema posto dalla laicizzazione dello Stato e dalla secolarizzazione della vita sociale, ha infatti preferito, se non riproporre l’idea della Rivoluzione come frutto di un complotto, ribadire la tesi di una radicale antitesi tra essa e la Chiesa. All’indomani dell’Ottantanove non si avverte nel mondo cattolico italiano l’emergere di particolari preoccupazioni circa gli esiti della Rivoluzione. Molti erano dell’avviso che la Chiesa potesse accettare quella forma di governo costituzionale che garantiva i fondamentali diritti dell’uomo a condizione che il cattolicesimo venisse riconosciuto come religione di Stato. Si trattava insomma di riproporre, in un diverso contesto politico, il tradizionale rapporto pattizio che aveva caratterizzato l’antico regime: le nuove autorità s’impegnavano a garantire l’assetto e i privilegi della Chiesa in cambio di una sua azione nel sostenere il nuovo ordinamento. Questa concezione trova sostenitori in ambienti romani e persino curiali. Intanto però l’approvazione in Francia della Costituzione civile del clero, che impone una profonda ristrutturazione della Chiesa, attribuendo ai fedeli la scelta di parroci e sottraendo a Roma l’istituzione canonica dei vescovi, determina un irrigidimento nelle posizioni del papato che gli eccessi della Rivoluzione e il processo di scristianizzazione fecero rapidamente slittare in un aperto scontro tra cattolicesimo e Rivoluzione. Pio VI, con il breve Quod aliquantum (10 marzo 1791), condannò la stessa Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino. Il passaggio verso questa rigida posizione non era tanto dovuto alla pur evidente emozione per l’esecuzione del re – cui Pio VI attribuì subito il titolo di martire – quanto piuttosto al fatto che Roma inquadrava ormai il fenomeno rivoluzionario in un ambito più vasto e comprensivo: gli eventi francesi erano l’esito di una cospirazione da tempo tramata, un’alleanza tra calvinisti e filosofi per “rovinare” la religione cattolica. La Rivoluzione usciva dal quadro dei fenomeni politici e storici razionalmente identificabili e controllabili: gli unici termini che potevano interpretarla erano quelli di “complotto”, “congiura”, “cospirazione”. Tutti questi elementi non si fondono ancora in una prospettiva organica e coerente e riprendono talvolta concezioni e valutazioni già espresse nel mondo cattolico del periodo di fronte alla politica giurisdizionalistica dei sovrani assoluti, alle riforme ecclesiastiche, alla soppressione dei gesuiti, alla proclamazione da parte della filosofia dei “lumi” del principio della libertà religiosa.

Si affaccia l’interpretazione organica della Rivoluzione come esito finale di una lunga catena di errori iniziati dalla sottrazione luterana dell’individuo al potere di Roma e prende corpo la teoria che essa costituisse una punizione inviata dalla Provvidenza agli uomini, e in particolare alla Chiesa, per castigarli della scarsa resistenza all’empietà del mondo moderno. Ben presto venne introdotto un parallelo tra gli eventi rivoluzionari e il medioevo: le masse rivoluzionarie in rivolta producevano un attacco contro la civiltà molto simile a quello che nell’età di mezzo avevano condotto le orde dei barbari. In ambienti cattolici si fece strada l’idea che la Chiesa e il papato dovessero tornare a giocare nella crisi contemporanea lo stesso ruolo direttivo e civilizzatore assunto nell’età medioevale. Prese corpo anche un’applicazione di questo orientamento con il tentativo di convincere il papa a bandire una guerra santa contro la Francia. Così l’ex gesuita spagnolo Francesco Gusta, nel 1794, darà alle stampe il Saggio critico sulle crociate, uscito una prima volta a Ferrara e, sempre nel medesimo anno, in seconda edizione, a Foligno per l’editore Tomassini. In esso il polemista controrivoluzionario difendeva le antiche crociate e auspicava una moderna “levata in massa” di volontari di “tutti gli ordini di persone, massime gli agricoltori e gli artigiani”. L’idea non rimase confinata nelle pagine della letteratura controrivoluzionaria, ma ebbe effetti immediati sul piano politico-operativo: sappiamo, per esempio, che il nunzio di Venezia si dette da fare, perché aveva preso sul serio l’idea maturata a Roma di bandire una crociata antifrancese. Alla fine tuttavia prevalse una linea più cauta che si limitava a appoggiare e a benedire l’azione delle armate controrivoluzionarie. Con l’arrivo delle truppe napoleoniche nella Penisola si delinea il primo concreto impatto della Chiesa italiana con la Rivoluzione e il quadro che ne deriva appare assai variegato. Messo davanti al mutamento politico l’episcopato italiano, in larga parte, assume atteggiamenti che invitano alla subordinazione all’autorità costituita e, quasi ovunque, il passaggio dall’antico regime al governo rivoluzionario avvenne attraverso la mediazione dei vescovi che divenne apparente partecipazione collettiva in occasione della cerimonia in cattedrale per l’inizio della nuova era, con il canto del Te Deum di ringraziamento per “l’avvenuta rigenerazione”. Rispetto a tale atteggiamento, ancora troppo spesso si continua a parlare di “voltafaccia” dei vescovi, di atteggiamenti di “compromesso”, senza considerare che anche in Francia, con il Direttorio, si era venuta a creare una nuova situazione rispetto alla religio­ne: rinnovata la libertà di culto alle confessioni religiose erano venuti meno anche molti degli argomenti usati in precedenza contro la Rivoluzione. L’atteggiamento omogeneo dell’episcopato che invitò i fedeli ad accettare il mutamento di regime sottolineando come il nuovo governo si impegnasse a rispettare la religione cattolica e i suoi ministri, trovò una base generica di riferimento nell’obbedienza verso l’autorità po­litica, raccomandata dai testi neotestamentari, oppure nella ricerca del bene comune, espressione della fraternità universale, con esortazioni, assai vaghe, “all’amore fraterno”, “alla pace”, “alla rassegnazione”, “all’obbedienza”, “alla carità”. Tuttavia la sottomissione e l’ubbidienza sembrano consistere in un ossequio formalistico alle nuove leggi: non si intravvede, in realtà, l’elaborazione di motivazioni politiche per giustificare il mutamento di regime; il rispetto della legalità viene ad essere un gesto personale che trova nell’ordine etico la sua giustificazione e spiegazione.

In linea generale si può affermare che la reazione cattolica fu più forte in quegli Stati, come quello della Chiesa, dove assai scarso era stato l’effetto del riformismo illuminato nelle strutture economiche e nell’amministrazione e le resistenze e le reazioni si verificarono con più violenza laddove la presenza francese si manifestò come scontro ideologico e religioso. Sia la stampa repubblicana che i resoconti dei generali francesi sottolineano i fattori culturali e religiosi delle insorgenze e ricorrono spesso ad un parallelismo con la Vandea, scoprendo nelle rivolte italiane le stesse radici religiose e legittimiste; tuttavia ciò non può far diventare le insorgenze un fenomeno cattolico e monarchico, come pure si è tentato di dimostrare, né ad utilizzare la religione popolare come strumento per amalgamare le resistenze controrivoluzionarie a tutti i livelli, dallo Stato della Chiesa alle Calabrie, facendola diventare sinonimo di reazione. È chiaro che il riferimento alla religione, ed in particolare al culto mariano, presente nel linguaggio e nella simbologia delle insorgenze, non può essere sottovalutato, anzi pare proprio una delle cause che lega i vari moti altrimenti riconducibili a percorsi e dinamiche locali talvolta assai diversi. Ma è necessario intendersi sul significato della dimensione religiosa: sono infatti i luoghi e le pratiche della vita religiosa popolare, luoghi informali e formali, dalle edicole sacre alle confraternite, che gli insorgenti difendono dall’attacco, perché sul piano sacramentale il nuovo governo non ostacola il normale svolgimento della vita religiosa. D’altra parte non mancano testimonianze di una disarticolazione della coscienza cattolica dal modello unitario che si era venuto a formare nel corso dell’età post-tridentina e controriformistica e destinata a produrre durature correnti di pensiero. Con sfumature diverse, centrale appare il tema della compatibilità tra cristianesimo e democrazia che propone il problema dell’esistenza di una corrente cattolico-democratica (cattolici possibilisti nella definizione di Luciano Guerci. Cf. L. Guerci, Istruire nelle verità repubblicane. La letteratura per il popolo nell’Italia in Rivoluzione (1796-1799), Il Mulino, Bologna 1999, pp. 284-288) o quanto meno della circolazione di quelle idee che volevano dimostrare la non inconciliabilità del cristianesimo con il mutamento della società operato dalla Rivoluzione francese. Questi cattolici accettano la fine del potere temporale del papato come una svolta provvidenziale, che finalmente assicura una maggiore trasparenza spirituale all’azione del pontefice, si mostrano favorevoli alla laicizzazione dello Stato, in cui vedono l’occasione per purificare la Chiesa dai condizionamenti del potere politico che nel corso dei secoli l’ha legata a sé, per dare avvio a un processo di autoliberazione, di purificazione da quello spirito che l’aveva portata, dopo i primi secoli, a prendere le forme stesse della società civile e a modellarsi sull’esempio di quella, ponendosi come struttura di potere. Comune a tutti loro è la richiesta di una maggiore libertà religiosa: nella Chiesa e per la Chiesa; istanza in cui molti storici, giustamente, hanno individuato le radici intellettuali e spirituali del cattolicesimo del Vaticano II e la genesi dei movimenti cristiano-democratici. Una particolarità da rilevare è senz’altro il consistente numero di ecclesiastici che ricoprirono incarichi nelle istituzioni repubblicane; l’impressione è che in questi casi, soprattutto nelle aree rurali, svolga un ruolo determinante la capacità di saper leggere e scrivere; non si può sottovalutare, tuttavia, che anche in quel clero culturalmente meno avveduto, come di fatto era la maggior parte del basso clero, abbiano giocato un ruolo decisivo alcune istanze rivoluzionarie che mettevano in primo piano la salvaguardia degli umili, la lotta alla prepotenza e all’usurpazione dei diritti della persona. Senza ricercare motivazioni politiche, frutto di ragionamenti e meditate convinzioni, nell’opzione a favore della repubblica può aver influito una forte volontà di organizzare meglio la città terrena, nella quale anche la Chiesa doveva continuare a rivestire un ruolo fondamentale e non eliminabile. In questo senso, le posizioni si riavvicineranno con l’ascesa sulla scena di Napoleone Bonaparte (1799). Questo genio militare, di energia instancabile e di ambizione sconfinata, personalmente irreligioso ma ammiratore dell’organizzazione ecclesiastica romana, incontrò un valido interlocutore nel nuovo pontefice Pio VII (1800-1823). Questi, nella qualità di vescovo di Imola, aveva mostrato, al momento dell’invasione francese in Italia (1796), una certa disponibilità ad accettare l’ordinamento repubblicano, aderendo ad una prospettiva che allora si definì “democrazia cristiana”. La Chiesa poteva accettare un assetto politico basato sulla libertà, sull’uguaglianza e sulla sovranità popolare a condizione però che si mantenesse il ruolo centrale del cattolicesimo come fattore normativo della nuova socialità democratica. Alla tradizionale simbiosi tra Stato e Chiesa, garantita dal principe cattolico, veniva a sostituirsi una “cristianità repubblicana”, che rendeva l’autorità ecclesiastica depositaria delle regole fondamentali e delle nuove forme di organizzazione della vita collettiva.

Tra il primo console e il papa si giunse così nel 1801 alla firma di un concordato. Questo processo di normalizzazione ebbe come primo effetto l’abolizione della Chiesa costituzionale. Napoleone, che ai tempi della campagna d’Italia aveva ben compreso il ruolo della religione e del clero per il governo della penisola, proseguì la sua azione di pacificazione religiosa promovendo un concordato anche con la Repubblica italiana, la cui costituzione venne approvata il 26 gennaio 1802 dalla Consulta straordinaria di Lione. Il concordato italiano fu firmato a Parigi il 16 settembre 1803, dal cardinale Giovanni Battista Caprara e da Ferdinando Marescalchi, ministro degli esteri della Repubblica italiana: esso concedeva al presidente della Repubblica il diritto di nomina dei vescovi, prevedendo tuttavia l’investitura da parte del pontefice; prima di assumere le loro funzioni, essi (come peraltro i parroci, che ora sarebbero stati scelti dagli ordinari diocesani) dovevano pronunciare un giuramento di fedeltà al governo. Le norme del concordato surrogavano tutte le leggi e i decreti emanati precedentemente dall’autorità statale in materia ecclesiastica e il testo venne reso pubblico nel territorio della Repubblica nel gennaio del 1804, insieme ad un decreto organico di esecuzione, modellato sugli “Articoli organici del culto cattolico”, l’atto unilaterale imposto da Napoleone e allegato al concordato del 1801, che palesava tendenze di carattere fortemente giurisdizionalistico nell’organizzazione della vita ecclesiastica. La nuova situazione concordataria non implicò dunque la rinuncia alla laicizzazione di alcuni fondamentali istituti della vita collettiva e l’introduzione anche nella Repubblica del codice civile, comprensivo delle disposizioni sul divorzio, aggraverà negli anni successivi il conflitto col papato. Esploso sul piano politico per il rifiuto di Pio VII di partecipare al blocco continentale contro l’Inghilterra, lo scontro portava ad una nuova soppressione dello Stato Pontificio e all’esilio del pontefice prima a Savona (1809) e poi a Fontainebleu (1812). La risposta del Papa, che già aveva denunciato la violazione del Concordato del 1801, compiuta con gli “Articoli organici”, non si limitava alla scomunica di mandanti ed esecutori della sua estromissione dal potere temporale, che di per sé già delegittimava l’imperatore, ma colpiva un nucleo centrale della sua politica religiosa. Il rifiuto pontificio di concedere l’istituzione canonica ai vescovi nominati dal governo determinava, infatti, una serie di difficoltà nell’espletamento del regolare servizio religioso in numerose diocesi. Cadeva così quell’ordinata ripresa dell’amministrazione religiosa su cui Napoleone aveva puntato per la costruzione delle consenso. La resistenza di Pio VII e della maggioranza dei vescovi si coniugò con le sconfitte militari dell’imperatore, determinando la fine dei suoi progetti. La Rivoluzione francese rappresentò un decisivo cambiamento della costellazione politica generale; a lungo andare, si pervenne (spesso assieme a una separazione di Stato e Chiesa) alla formazione di due culture fondamentali e profondamente ostili tra loro. Da una parte la nuova militante cultura democratico-laicistica della dominante borghesia liberale e dall’altra la radicata contro o subcultura cattolico-conservatrice della Chiesa. La divisione opera ovunque: nelle scuole, negli ospedali, nell’assistenza ai poveri e rimane massiccia per tutto il XIX e XX secolo. Solo dopo il Vaticano II si può apertamente affermare che libertà, uguaglianza e fraternità – per lungo tempo definite parole diaboliche nella Chiesa cattolica – possiedono un originario fondamento cristiano.

Fonti e Bibl. essenziale

A. Latreille, L’Eglise catholique et la révolution française, 2 voll., Ed. Hachette Paris 1946; V.E. Giuntella (ed.), Le dolci catene. Testi della controrivoluzione cattolica in Italia, Istituto per la Storia del Risorgimento Italiano, Roma 1988; L. Mezzadri, La Chiesa e la rivoluzione francese, Edizioni Paoline, Cinisello Balsamo (MI) 1989; D. Menozzi (ed.), La Chiesa italiana e la Rivoluzione francese, Edizioni Dehoniane, Bologna 1990; F. Agostini, La riforma napoleonica della Chiesa nella Repubblica e nel Regno d’Italia, 1802-1814, Istituto per le Ricerche di Storia sociale e religiosa, Vicenza 1990; V.E. Giuntella, La religione amica della democrazia. I cattolici democratici del triennio rivoluzionario (1796-1799), Edizioni Studium, Roma 1990; M. Caffiero, La nuova era. Miti e profezie dell’Italia in Rivoluzione, Marietti, Genova 1991; L. Fiorani – D. Rocciolo, Chiesa romana e Rivoluzione francese 1789-1799, École Française de Rome, Roma 2004; G. Pelletier, Rome et la Révolution française. La théologie et la politique du Saint-Siège devant la Revolution française (1789-1799), École Française de Rome, Roma 2004; M. Tosti, Una Costituzione per la Chiesa. La proposta di un Concilio ecumenico negli anni della Rivoluzione francese, Edizioni Nerbini, Firenze 2006; L. Guerci, Uno spettacolo non mai più veduto nel mondo. La Rivoluzione francese come unicità e rovesciamento negli scrittori controrivoluzionari italiani (1789-1799), Utet Libreria, Torino 2008; L. Mascilli Migliorini (ed.), Italia napoleonica. Dizionario critico, Utet Libreria, Torino 2011 (in particolare la sezione a cura di M. Caffiero, Chiesa e vita religiosa, 91-118).


LEMMARIO




Rizzi Giovanni





Rocca Giancarlo





Rocciolo Domenico


Dal 1991 è direttore dell’Archivio Storico Diocesano di Roma. Ha insegnato archivistica nelle università di Roma “Tor Vergata” e Roma Tre e storia religiosa di Roma dal Concilio di Trento alla Breccia di Porta Pia presso la Pontificia Università Gregoriana. Ha pubblicato numerosi saggi di storia religiosa di Roma e i volumi dedicati alla giurisdizione del Cardinale Vicario (Carocci, 2004) e alla Rivoluzione Francese (École française de Rome, 2004, in collaborazione con Luigi Fiorani).




Roma, Romanità - vol. I


Autore: Tommaso di Carpegna

“Urbe” per eccellenza, capitale dell’Impero, dello Stato pontificio e sede del capo della Chiesa cattolica, nonché una delle più popolose città della penisola italiana, Roma ha sempre vissuto due dimensioni diverse ma strettamente intrecciate, essendo al contempo un luogo fisico e simbolico. Situata sul fiume Tevere a poca distanza dalla foce, compresa nel circuito delle mura Aureliane, con propaggini sulla riva destra (Trastevere e il Vaticano), per una superficie che all’interno della cinta fortificata si aggirava sui 1400 ettari, la città ha conosciuto una storia demografica complessa, le cui cifre sono ancora oggetto di dibattito tra gli storici. Popolata da forse un milione di persone nel I secolo d.C., ebbe un tracollo demografico nel corso del VI secolo, una significativa ripresa nel periodo compreso tra il IX e il XIII secolo, un ulteriore calo durante il Trecento e una crescita continua – interrotta solo dal Sacco del 1527 – nel corso dell’età moderna. La sua popolazione viene calcolata, per l’età medievale, sull’ordine di alcune decine di migliaia e di circa 100.000 abitanti durante l’età moderna. Nel periodo in cui cessò la propria funzione di capitale dello Stato pontificio (1870) essa aveva circa 200.000 abitanti, mentre il XX secolo è stato il periodo del suo sviluppo esponenziale. Durante tutta la sua storia, la popolazione si è caratterizzata per una conformazione decisamente aperta, essendo sempre stata centro di imponenti flussi migratori.

La città conobbe l’evangelizzazione di Pietro e Paolo solo poco tempo dopo la morte di Gesù, negli anni Cinquanta del I secolo. I due apostoli vi ricevettero il martirio verso il 67. Pietro fu sepolto vicino al luogo dell’esecuzione, sul colle del Vaticano; Paolo, che era stato decapitato ad Aquas Salvias (oggi S. Paolo alle Tre Fontane), fu sepolto sulla via Ostiense. Sulle loro tombe si sviluppò progressivamente il culto ad limina Apostolorum, principale meta del pellegrinaggio romeo, che poi andò indirizzandosi anche ai luoghi di culto del suburbio, le basiliche cimiteriali e le catacombe, e infine alle chiese entro le mura, colme di reliquie e di icone. La popolazione fu cristianizzata tra il II e il V secolo (i primi tituli, cioè le chiese fondate entro abitazioni private e divenute chiese battesimali, risalgono al III e al IV secolo). L’impulso fondamentale all’istituzionalizzazione della Chiesa romana fu dato dall’imperatore Costantino, che dopo la battaglia di Ponte Milvio donò al vescovo di Roma vaste proprietà del fisco imperiale, soprattutto il Laterano (dove fu edificata la cattedrale del SS. Salvatore, in seguito intitolata a San Giovanni) e il Vaticano (dove fu edificata la basilica cimiteriale di San Pietro), e che prossimo alla morte ricevette il battesimo. Alla fine del V secolo, l’impianto della struttura ecclesiastica era ormai definito, con la cattedrale, che aveva accanto gli edifici di amministrazione (detti episcopio, poi patriarchio, indi palazzo Lateranense), con le due basiliche dedicate agli apostoli Pietro e Paolo e le altre due basiliche di S. Lorenzo fuori le Mura e di S. Maria Maggiore. A queste si affiancavano i tituli, cioè le chiese battesimali rette da un presbitero cardinale, e gli edifici sacri costruiti sopra le catacombe. Nel corso dell’alto medioevo, ai già numerosi luoghi sacri si aggiunsero le diaconie, originariamente edifici destinati all’accoglienza, nonché un enorme numero di monasteri, oratori, cappelle, scholae e xenodochia per i pellegrini. Oltre che dalle evidenze architettoniche, dalle emergenze archeologiche e dalle guide per i pellegrini, diffuse durante tutto il medioevo e l’età moderna, traiamo queste informazioni soprattutto dal Liber pontificalis, il testo contenente le biografie dei pontefici che fu redatto continuativamente dal VI alla fine del IX secolo e fu poi ripreso nel basso medioevo. Numerose altre chiese, situate soprattutto nell’ansa del Tevere, che era la più abitata, furono edificate dal X al XIII secolo, tanto che al principio del Trecento – ci informa una fonte denominata Catalogo di Torino – le chiese romane erano oltre quattrocento (ma in totale, il numero di chiese attestate a Roma tra antichità e contemporaneità supera di molto le mille unità).

La lunga storia della Roma medievale e moderna può essere compendiata osservando il mutare delle sue istituzioni ecclesiastiche e laiche. Durante l’alto medioevo vi fu un articolato sistema amministrativo che prevedeva l’esistenza di sette regioni ecclesiastiche, rette da altrettanti diaconi, e di circa ventotto titoli, equivalenti alle parrocchie. Il pontefice era coadiuvato dai rettori di questi istituti (diaconi e presbiteri cardinali), nonché dai vescovi delle diocesi vicine a Roma (vescovi suburbicari): costoro avrebbero costituito, nel corso del tempo, il Collegio cardinalizio. Tra XI e XII secolo si attuò una sorta di specializzazione in seno al clero romano: una parte di esso, collegato all’amministrazione centrale, si trasformò nella Curia romana (il termine è in uso dalla fine del secolo XI), presieduta dal papa e dai cardinali e comprendente diverse centinaia di ecclesiastici che, distribuiti nei principali uffici della Camera, Cappella, Penitenzieria e Cancelleria, operavano soprattutto nei due centri principali del Laterano e del Vaticano. La Curia romana è dunque quell’organismo complesso e dalla vocazione universalistica che diresse la Cristianità occidentale e che ancora governa la Chiesa cattolica. Mentre si sviluppava la Curia, andò formandosi anche un clero romano distinto da essa e preposto all’amministrazione delle chiese e della cura d’anime della popolazione: il Clerus Urbis, incardinato nella diocesi romana. Durante il basso medioevo, le antiche ripartizioni dell’amministrazione ecclesiastica urbana cedettero il campo all’istituzione delle parrocchie e dei tredici (poi quattordici) rioni. Con l’editto Savelli del 1569, la geografia ecclesiastica fu riformata, le parrocchie furono ridotte a ventiquattro e tale configurazione si mantenne poi sostanzialmente anche in seguito. Il prelato delegato dal pontefice all’amministrazione e alla cura della città fu il cardinale vicario, coadiuvato, in età moderna, da uffici molto articolati. Ancora oggi, presso l’Archivio storico del Vicariato si conservano gli “stati delle anime”, registri della popolazione che partono dalla fine del Cinquecento e che costituiscono una delle principali fonti per indagare la storia della città. Sul versante delle istituzioni laiche occorre osservare come, passato il periodo del diretto controllo bizantino e tranne in alcuni periodi eccezionali come nel corso del X secolo (principato di Alberico), durante l’alto medioevo non si fossero sviluppate forme di governo esclusivamente secolari. In realtà, nel lungo periodo compreso tra la fine del VI e la fine dell’XI secolo – che vide l’imporsi del pontefice sui territori già bizantini del ducato di Roma (corrispondenti all’incirca al Lazio contemporaneo), la popolazione laica e quella ecclesiastica, pur tra aspri conflitti, vissero un forte senso di condivisa identità civica. Il comune di Roma, le cui origini potrebbero rimontare alla fine del secolo XI ma che si costituì ufficialmente con la Renovatio Senatus del 1143, svolse in seguito una funzione di governo autonoma e spesso antagonista rispetto al papato, edificando tra l’altro un nuovo centro – anche simbolico – di potere: il palazzo del Campidoglio. Differentemente però dalla storia di quasi tutte le città comunali italiane, dove il contrasto tra comune e vescovo avrebbe condotto all’esautorazione politica del secondo, a Roma accadde l’inverso. Si data infatti al 1398 (dopo il ritorno del pontefice da Avignone) la fine del comune di Roma come istituzione libera e la sua definitiva sottomissione al papa, che di lì a poco, nel corso del secolo XV, sarebbe divenuto un sovrano territoriale a tutti gli effetti, investito del governo di buona parte dell’Italia centrale (Marche, Romagna, Umbria, Lazio). Ciononostante, la presenza della Curia e delle magistrature comunali, e dunque delle loro rispettive aristocrazie e centri di potere – una presenza resa ancor più complessa dai numerosi forestieri e stranieri residenti – sarebbe rimasta per secoli una tra le chiavi per comprendere la dialettica politica della città.

Il concetto fondamentale che aiuta a meglio definire la natura di Roma durante tutta la sua storia è quello di spazio sacro. Roma fu innanzitutto una città sacra, ovvero una città-santuario, sia per il suo ruolo di capitale dell’Impero (antico e medievale) che per quello di centro e capo della Cristianità. Celebre è infatti il motto «Roma caput mundi regit orbis frena rotundi» (Roma capo del mondo regge le redini del mondo rotondo). Vera e propria “città rituale”, Roma deve la sua forma, i suoi apparati scenografici e gran parte dei monumenti medievali e moderni alla volontà di trasporre i valori simbolici e religiosi nel piano della fisicità reale (cioè la topografia, l’architettura e le opere d’arte). Il simbolo viene così espresso attraverso i cicli liturgici e i solenni rituali celebrati nelle sue strade, piazze e chiese. Il microcosmo, l’Urbe, rimanda al macrocosmo, la storia della salvezza: così la liturgia stazionale – antichissima e ripresa in tempi recenti – trasferisce l’anno liturgico nello spazio urbano; S. Maria Maggiore (in cui si conserva la reliquia della Mangiatoia di Betlemme) è la grande chiesa del Natale; il Colosseo, dove morirono i martiri, è il luogo della penitenza quaresimale, e S. Giovanni – nel cui battistero secondo tradizione fu guarito dalla lebbra Costantino – e che insieme con S. Croce in Gerusalemme conserva le reliquie della Passione, è la chiesa della Resurrezione. Con lo stesso metro, cioè attraverso le nozioni di ritualità e di sacralità espresse in un luogo reale, si riesce a meglio comprendere anche il significato dei giubilei, iniziati nel 1300, delle solenni cerimonie pontificie del Possesso o del Corpus Domini, come anche le grandi cavalcate, le incoronazioni dei sovrani, i trionfi festosi, le rievocazioni della Roma antica nonché la scelta dell’Urbe come luogo deputato alla celebrazione dei concili ecumenici, il suo grandioso rifacimento in età barocca, il suo essere la meta prediletta del Grand Tour e infine la sua essenza profonda di vero e proprio scrigno di opere d’arte.

Quanto riferito a proposito di Roma si ripropone nell’idealizzazione della romanità (romanitas), che naturalmente non può disgiungere il piano reale da quello simbolico. I cittadini romani, sui quali esiste una vastissima letteratura in cui è spesso contrapposta l’idealità alla realtà (per esempio nel motto Roma fuit: Roma non esiste più, e ciò che resta ne è solo un lontano fantasma), hanno sempre avuto orgogliosa consapevolezza dell’alto valore della loro appartenenza. Romanità vale infatti per cittadinanza universale, per civiltà del diritto, dello Stato, della cultura e dell’arte. In questo senso, l’asse interpretativo fondante, che informa di sé gran parte della storia romana medievale e moderna, è quello del continuo recupero degli ideali antichi di purezza e perfezione, anche quando poi gli esiti non portarono a una restaurazione, bensì a una innovazione. Questo è accaduto con la renovatio Imperii (al tempo di Carlomagno, nel IX secolo, di Ottone III alla fine del X, ma anche al tempo di Cola di Rienzo, nel pieno Trecento), con la renovatio Senatus (l’istituzione del comune, a imitazione della Repubblica romana), con le diverse ri-forme della Chiesa (instar primitivae Ecclesiae forma), e con i plurimi ri-nascimenti della sapienza, dell’architettura e dell’arte antiche, il più imponente dei quali (il Rinascimento propriamente detto) si situa tra il XV e i primi decenni del XVI secolo. Roma infatti è senza dubbio, insieme a Firenze, culla e patria del Rinascimento, che fu in gran parte promosso dai papi. Dal punto di vista propriamente cristiano, infine, la “romanità” si colora di accezioni maestose per numerose ragioni complementari: per il “primato” di Pietro, principe degli Apostoli; per il fatto che Paolo dichiarò solennemente di essere cittadino romano (At 16,37 e 22,25-29); per l’equivalenza tra “Santa Romana Chiesa” e “Chiesa cattolica” e poiché la popolazione romana è direttamente e più volte ricordata nelle Sacre Scritture, (1 e 2 Maccabei; Atti; Lettera di Paolo ai Romani).

Fonti e Bibl. essenziale

I volumi della collana “Storia di Roma” dell’Istituto nazionale di studi romani, Cappelli, Bologna, dal 1938 al 1990; M. Armellini, Le chiese di Roma dal secolo IV al XIX, nuova ediz. a cura di C. Cecchelli, Ruffolo, Roma 1942; L. von Pastor, Storia dei papi dalla fine del medioevo, Desclée, Roma 1942-1950; C. Sbrana, R. Traina, E. Sonnino, Gli stati delle anime a Roma dalle origini al secolo XVII, La Goliardica, Roma 1977; R. Krautheimer, Roma, profilo di una città, 312-1308, Edizioni dell’Elefante, Roma 1981; F. Gregorovius, Storia della città di Roma nel medioevo, nuova edizione integrale a cura di L. Trompeo, rist. anast. Casini, s.l. 1988; E. Sonnino (ed.), Popolazione e società a Roma dal medioevo all’età contemporanea, a cura di E. Sonnino, Il Calamo, Roma 1998; A. Giardina – A. Vauchez, Il mito di Roma da Carlo Magno a Mussolini, Laterza, Roma-Bari 2000; A. Pinelli (ed.), Roma nel Rinascimento, Laterza, Roma-Bari 2001; A. Vauchez (ed.), Roma medievale, Laterza, Roma-Bari 2001; T. di Carpegna Falconieri, Il clero di Roma nel medioevo. Istituzioni e politica cittadina (secoli VIII-XIII), Viella, Roma 2002; G. Ciucci (ed.), Roma moderna, Laterza, Roma-Bari 2002.

Immagine: La Ecclesia Romana. Frammento del perduto mosaico absidale dell’antica basilica di San Pietro in Vaticano. Roma, Museo Barracco (cf. A. Paravicini Bagliani, Le chiavi e la tiara. Immagini e simboli del papato medievale, Roma, Viella, 1998, tav. 23).


LEMMARIO




Roma, Romanità - vol. II


Autore: Tommaso di Carpegna

Roma e romanità

Il 20 settembre 1870 Roma fu conquistata dal Regio Esercito e annessa al Regno d’Italia, di cui divenne la capitale il successivo 3 febbraio 1871. Terminava allora il più che millenario dominio temporale dei papi ed esplodeva la Questione romana, che avrebbe tormentato la vita politica italiana per i successivi sessant’anni, fino alla firma dei Patti Lateranensi (11 febbraio 1929, modificati il 18 febbraio 1984 con l’Accordo di Villa Madama). Roma era la capitale di un nuovo Stato e tuttavia restava la Sede apostolica. Questo sdoppiamento è ciò che da allora in poi ha contraddistinto l’Urbe: variando il punto di vista, si può affermare tanto che Roma è parte dell’Italia, quanto che l’Italia è parte di Roma. Nonostante la ricomposizione fra Stato italiano e Chiesa romana, resa istituzionale dal riconoscimento di uno Stato indipendente di cui il papa è il sovrano (lo Stato della Città del Vaticano) e simboleggiata dall’apertura della via della Conciliazione (1936), e nonostante il tentativo del regime fascista di individuare il fondamento della civiltà nazionale proprio nella «romanità» pensata al contempo come imperiale e cristiana, da quasi centocinquant’anni Roma è, di fatto e di diritto, una città bicefala. Le amministrazioni italiane ne hanno profondamente modificato l’assetto, rendendola sede delle istituzioni nazionali e compiendo una imponente opera di trasformazione monumentale e urbanistica; il papato, pur non potendo più intervenire estesamente sul tessuto urbano, ne ha esaltato la natura di «catholicae unitatis sedes».

Questo aspetto è particolarmente evidente, poiché il fondamento apostolico della funzione giurisdizionale dei pontefici si concretizza proprio nello spazio fisico dell’Urbe, come viene espresso ad esempio nella Gaudete in Domino di Paolo VI (9 maggio 1975): «La vocazione di Roma è di provenienza apostolica, e il ministero che ci spetta di esercitarvi è un servizio a beneficio della Chiesa intera e dell’umanità». Il Vaticano è la sede del pontefice e della Curia romana, con tutti i suoi uffici e dicasteri. Le basiliche maggiori e alcuni altri edifici in città e in provincia (a Castel Gandolfo) godono dell’extraterritorialità e l’arcibasilica Lateranense – cattedrale di Roma – è «madre e capo di tutte le chiese della città e del mondo». I pontefici hanno esaltato l’universalità di Roma non soltanto risiedendovi con continuità, ma anche eleggendola a sede degli ultimi due concili ecumenici – il Concilio Vaticano I (1869-1870) e il Concilio Vaticano II (1962-1965) – e celebrandovi ogni venticinque anni i giubilei universali della Chiesa cattolica, nonché quelli straordinari del 1933 e 1983. Gli anni santi, oltre a rappresentare l’apoteosi della vocazione di Roma come prima meta del pellegrinaggio cattolico insieme con Gerusalemme, nel corso del XX secolo (e soprattutto a partire dal Giubileo del 1950) sono divenuti eventi massmediatici di portata planetaria, che riaffermano nella contemporaneità l’antica romanitas intesa come patria comune.

Anche un secondo aspetto appare rilevante: quello di Roma intesa come Chiesa particolare, della quale il pontefice è vescovo. La diocesi di Roma è una sede metropolitana della Chiesa cattolica ed è al contempo arcidiocesi primaziale d’Italia e della Provincia ecclesiastica romana. Il suo territorio, di 881 km2, si estende su Roma e sulla Città del Vaticano ed è suddiviso in due vicariati amministrati da due vicari generali. Il primo di essi, il «Cardinal vicario», risiede in Laterano ed è coadiuvato da un vicegerente; il secondo è il cardinale arciprete della basilica Vaticana. Il vicariato di Roma ha giurisdizione su 336 parrocchie raggruppate in 36 prefetture e in 5 settori (Centro, Nord, Est, Sud, Ovest), ciascuno dei quali è affidato a un vescovo ausiliare, mentre le parrocchie del vicariato della Città del Vaticano sono due (S. Anna e S. Pietro). I cardinali diaconi e presbiteri sono rispettivamente a capo delle diaconie e dei titoli, mentre ai cardinali dell’ordine dei vescovi hanno assegnate in titolo le sedi delle antiche diocesi suburbicarie (Albano, Frascati, Palestrina, Porto e S. Rufina, Sabina-Poggio Mirteto, Velletri-Segni, Ostia), che vengono però amministrate da vescovi residenziali.

Il vincolo che lega reciprocamente i romani al loro vescovo si è espresso in modi e con intensità differenti a seconda dei tempi, delle situazioni e delle personalità. Oltre ai momenti forti di questo legame, come le frequenti visite pastorali alle parrocchie e alle popolazioni e la celebrazione dell’antica liturgia stazionale nel territorio diocesano (si veda anche la pia pratica della celebrazione della Via Crucis del Venerdì Santo, al Colosseo), si ricordano alcuni episodi particolarmente importanti. Pio XII, l’ultimo papa nato a Roma e da una famiglia romana, viene ricordato in questa occasione per il suo essersi adoperato affinché la città non subisse i più crudi orrori della guerra nel corso dell’ultimo conflitto mondiale (da cui l’appellativo di Defensor Urbis) e per la sua dolorosa visita del 20 luglio 1943 al quartiere San Lorenzo appena bombardato. Giovanni XXIII presiedette nel 1960 il primo sinodo diocesano, cui seguì quello di Giovanni Paolo II nel 1993, a conclusione del quale fu promulgato dal medesimo pontefice il Libro del sinodo (24 giugno). Infine papa Francesco, nel primo discorso pubblico seguito immediatamente all’elezione (13 marzo 2013), ha sottolineato ripetutamente lo stretto legame tra il successore di Pietro e la Chiesa romana, «che presiede nella carità tutte le Chiese», chiamando sempre se stesso «vescovo di Roma» e mai «papa».

Fonti e Bibl. essenziale

Libro del Sinodo della Diocesi di Roma: secondo Sinodo diocesano celebrato sotto la presidenza di Sua Santità Giovanni Paolo II, s.l., s.n. [Istituto Pio XI, Roma] 1993; V. Vidotto (ed.), Roma capitale, Laterza, Roma-Bari 2002; G. Cassiani (ed.), I Giubilei del XIX e XX secolo: atti del Convegno di studio, Roma, 11-12 maggio 2000 Rubettino, Soveria Mannelli 2004; C. Brice, Storia di Roma e dei romani da Napoleone ai nostri giorni, Viella, Roma 2007. Si vedano anche i numeri della rivista “Bollettino del clero romano” (1920-1959), poi “Rivista diocesana di Roma” (dal 1960); i volumi della collana “Ricerche per la storia religiosa di Roma” delle Edizioni di storia e letteratura (dal 1977 al 2009).

Immagine: Pio XII in visita a San Lorenzo


LEMMARIO




Romanato Gianpaolo





Romanticismo cattolico - vol. I


Autore: Giampaolo Venturi

Ampiezza di diffusione e varietà di componenti del Romanticismo in Europa hanno dato luogo a molteplici, talora contrastanti, interpretazioni, non tanto sulle caratteristiche generali, quanto sull’estensione, limiti cronologici e autori. E’ indubbio che le novità tedesche sono giunte in Italia soprattutto attraverso le sollecitazioni francesi, sia dirette (Mme de Stael), sia di pubblicazioni (Chateaubriand). Il R. italiano, per altro, presenta caratteristiche particolari, sia per il legame stabilitosi con le vicende risorgimentali (dal Conciliatore ai saggi e romanzi legati a tale sentire: da S. Pellico a C. Balbo ad A. Manzoni), sia per la particolare storia, cultura, religiosità (compresa la pressoché generale, per quanto discussa, presenza del Cattolicesimo). La riscoperta e valorizzazione del sentimento, della storia e del Cristianesimo (cattolico; uniti nel sentire medievale cristiano, anteriore alle divisioni del XVI secolo) trovano fertile terreno, e più facilmente possono innestarsi nella cultura italiana, in tutte le sue forme. C’è un nesso intimo, in generale, fra la nuova scuola e la Chiesa italiana del tempo; mentre l’Illuminismo, anche là dove aveva coinvolto religiosi e laici, era rimasto estraneo alla Chiesa italiana nell’insieme (cfr. voce), specie alla generalità dei fedeli; dove il sistema rivoluzionario, anche nella accezione napoleonica e al suo culmine, nonostante il Concordato, non aveva convinto (azione giurisdizionalista, persecuzioni); la riscoperta della religione e delle sue realizzazioni rendevano interessante il R.; tanto più negli anni di consonanza fra ideali patriottici (indipendentistici, unitari) e progetti neoguelfi (Gioberti, Rosmini, Manzoni, Pellico…). La fine della concordia (dal 1848) non significava rifiuto del R. come tale, se mai divisione fra scelte diverse (o solo se – caso Bresciani – identificato col liberalismo anticlericale). Il fatto che la maggior parte degli scrittori e uomini d’azione fossero ecclesiastici o provenissero per formazione da collegi di religiosi, ha fatto affermare che l’intera vita intellettuale italiana del tempo era almeno di ispirazione cristiana; e spiega altresì l’ampio, a tutt’oggi, dibattito, non solo sulla attribuzione di questo o quell’autore al R., ma al sentire cristiano (per tutti: Leopardi). Ma non si può porre una identità fra romantici e cattolici; sia come adesione alla scuola, sia per le scelte artistiche (il romanzo); non solo per le tensioni risorgimentali, ma perché nel R. il Cristianesimo è percepito talvolta più in termini di commozione, entusiasmo, affettività, che su solide fondamenta di consapevolezza (razionali, dogmatiche; ciò che è indubbio, es., in Manzoni, specie nella frequentazione di Rosmini, o in Pellico; ma si v. anche, con i debiti distinguo, Tommaseo, Cantù, altri). Nella sua lunga parabola, che attraversa, nella ipotesi più ampia e generale, l’intero secolo XIX, sia pure con variazioni di chiarezza e intensità, il R. italiano interessa figure molto diverse, ascritte a questo movimento o ad altro, la cui “cattolicità” è talvola vaga (il caso Pascoli: un’intima religione, per origine, cultura, sentire generali, per certe letture ed espressioni, per convinzione di amici, da essi indicata come cristiana, se non propriamente cattolica; cfr., tra classicismo e R., Carducci). Ma il R. non è solo fenomeno letterario, limitato a pochi autori, o artistico (cfr. pre – raffaeliti e nazareni; un discorso a sé andrebbe fatto per la musica sacra); c’è una riscoperta della profonda interiorità dell’arte cristiana, della infinità della sofferenza, della architettura medievale, particolarmente il gotico, e applicazione contemporanea, come in Viollet – le – Duc e imitatori in Italia, da A. Rubbiani in poi. In senso più ampio, è modo di sentire, interpretare, vivere la fede e il mondo che caratterizza il secolo; in tale accezione, la sua presenza è ben più estesa in tutti i campi ecclesiali ed ecclesiastici: dalla predicazione alla spiritualità alla devozione (con tutti gli elementi positivi e i limiti e retoricità del movimento in generale), all’impegno missionario; che assume anch’esso, facilmente, tonalità proprie del R.: straordinarietà, eroismo, quasi parallelo del sentire ed esprimere, in Italia, risorgimentali. Il sentire del tempo (si cfr., a migliore comprensione, il panorama, specie filosofico, tedesco, da un lato; i romanzi di vario genere, dall’altro) aveva già cercato una corrispondenza nelle imprese napoleoniche, e l’aveva trasposto nella azione nazionale; trovava, in ambito ecclesiale ed ecclesiastico, una più piena rispondenza nella storia, nelle figure, avvenimenti, obiettivi additati dalla Chiesa, e nello stesso dibattito interno al MC: l’attenzione rinnovata a Dante e S. Caterina da Siena, più ancora che a S. Francesco. Così, nella azione nazionale, come nella extraeuropea, nella conquista, come nella riconquista; in tal senso, tutta l’azione “intransigente”, come quella “missionaria”, sono fuoco, entusiasmo, sentire romantico: avventura, eroismo, sete di infinito, Paesi lontani. Anche la spiritualità e devozione (cfr. letteratura relativa) assumono le caratteristiche del tempo (es., il S. Cuore). Come tale, e come mezzo espressivo particolare (romanzo) il R. continuerà oltre la fine del secolo.

Fonti e Bibl. essenziale

Voci “Romanticismo” e “romanzo cattolico”, in Dizionario Ecclesiastico (dir. A. Mercati – A. Pelzer), UTET, Torino, ed. 1958, vol. III, 590-591 e 591-592; Grande Antologia Filosofica (dir. da M.F. Sciacca), voll. XX, Il pensiero moderno – prima metà del secolo XIX, Marzorati, Milano, 1973 (aggiornamenti bibliografici, vol. XXXIV, 1985); Storia della Chiesa (iniziata da A. Fliche – V. Martin), vol. XX/2, (“Crisi rivoluzionaria e liberale, 1815 – 1846), ed. fr. a cura di J. Leflon, ed. it., sulla 2^ ed. fr., a cura di C. Naselli, SAIE, Torino, 1975; N. Abbagnano (e altri), voce “Romanticismo”, in Grande Dizionario Enciclopedico UTET, vol. XVII, Torino, 1990, 746-754; Storia della Chiesa, dir. H. Jedin, n. ed. it., a c. di L. Mezzadri, vol. VII/1, Tra rivoluzione e restaurazione, 1775 – 1830, 2^ ed. it., Jaca Book, Milano, 1993 (resp. E. Guerriero), e VII/2, “Liberalismo e integralismo tra stati nazionali e diffusione missionaria”, 1830 – 1870”, a c. di Idem, ed. it., 1995; Storia del Cristianesimo – Religione, politica e cultura, dir. J.M. Mayeur, C.L. Petri, A. Vauchez, M. Venard, ed. it. a cura di G. Alberigo, vol. 11, Liberalismo, industrializzazione, espansione europea (1830 – 1914), Borla / Città Nuova, Roma, 2003.


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